Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2020
LA SOCIETA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA SOCIETA’
INDICE PRIMA PARTE
GLI ANNIVERSARI DEL 2020.
Cosa resta dell’anno passato. I Festeggiamenti.
Cosa resta dell’anno passato. La Politica.
Cosa resta dell’anno passato. La Cultura.
Cosa resta dell’anno passato. L’Immigrazione.
Cosa resta dell’anno passato. Le Notizie.
Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.
Cosa resta dell’anno passato. I Personaggi.
Cosa resta dell’anno passato. Le Parole.
Cosa resta dell’anno passato. Le cose.
Cosa resta dell’anno passato. Lo Sport.
Cosa resta dell’anno passato. Gli Eventi.
Cosa resta dell’anno passato. I Disastri.
Cosa resta dell’anno passato. I Morti sul Lavoro.
Le Previsioni e le Profezie.
INDICE SECONDA PARTE
GLI ANNIVERSARI DEL 2020.
Gli anniversari.
500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio.
400 anni dalla nascita di Masaniello.
250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo.
250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven.
200 anni dalla nascita di Pellegrino Artusi.
200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II.
150 anni dalla nascita di Maria Montessori.
150 anni dalla morte di Alexandre Dumas.
150 anni dalla nascita di Lenin.
150 anni dalla morte di Charles Dickens.
150 anni dalla nascita di Rosa Luxemburg.
130 anni dalla morte di Carlo Collodi.
120 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo.
120 anni dalla nascita di Antoine de Saint Exupery.
120 anni dalla nascita di Ignazio Silone.
100 anni dalla morte di Amedeo Modigliani.
100 anni dalla nascita di Papa Giovanni Paolo II.
100 anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
100 anni dalla nascita di Emilio Colombo.
100 anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi.
100 anni dalla nascita di Salvo D’Acquisto.
100 anni dalla nascita di Charlie Parker.
100 anni dalla nascita di Gianni Rodari.
100 anni dalla nascita di Charles Bukowski.
100 anni dalla nascita di Nilde Iotti.
100 anni dalla nascita di Gesualdo Bufalino.
100 anni dalla nascita di Enzo Biagi.
100 anni dalla nascita di Ray Bradbury.
100 anni dalla nascita di Franco Lucentini.
100 anni dalla nascita di Giorgio Bocca.
100 anni dalla nascita di Federico Fellini.
100 anni dalla nascita di Alberto Sordi.
100 anni dalla nascita di Isaac Asimov.
100 anni dalla nascita di Tonino Guerra.
100 anni dalla nascita e 20 dalla morte di Walter Matthau.
100 anni dalla nascita di Bruno Maderna.
100 anni dalla nascita di Renato Carosone.
100 anni dalla nascita di Helmut Newton.
83 anni dalla nascita dell’Ikea.
75 anni da Hiroshima.
66 anni dalla morte di Eddie Sanders.
60 anni dall'impresa del batiscafo “Trieste”.
60 anni dalla morte di Albert Camus.
60 anni dalla morte di Fausto Coppi.
60 anni dalla morte di Fred Buscaglione.
58 anni dalla morte di Marylin Monroe.
60 anni dalla nascita morte di “Tutto il calcio minuto per minuto”.
60 anni dall’Olimpiade di Roma.
50 anni dalla Woodstock italiana.
50 anni dalla morte di Janis Joplin.
50 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
50 anni dalla separazione dei Beatles.
50 anni dalla morte di Angelo Rizzoli “il Vecchio”.
47 anni dalla morte di Renzo Pasolini.
46 anni dalla morte di Pietro Germi.
43 anni dalla morte di Maria Callas.
43 anni dalla morte di Elizabeth «Lee» Miller.
41 anni dall’uscita di Apocalypse Now.
41 anni dalla morte di Bob Marley.
40 anni dalla morte di Peter Sellers.
40 anni dalla morte di James Cleveland Owens.
40 anni dalla morte di Alfred Hitchcock.
40 anni dalla morte di Steve McQueen.
40 anni dalla morte di Romain Gary.
40 anni dalla morte di Peppino De Filippo.
40 anni dalla morte di Mario Amato, il giudice tradito dallo Stato.
40 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.
38 anni dalla morte di Giuseppe Prezzolini.
38 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
34 anni dalla morte di Elio De Angelis.
33 anni dalla morte di Giovanni Arpino.
32 anni dalla morte di Nico (Christa Päffgen).
32 anni dalla morte di John Holmes.
31 anni dalla morte di Sergio Leone.
31 anni dalla morte di Silvana Mangano.
30 anni dalla morte di Rocky Graziano.
30 anni dalla morte di Keith Haring.
30 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
30 anni dalla morte di Stefano Casiraghi.
29 anni dalla morte di Freddie Mercury.
29 anni dalla morte di Miles Davis.
29 anni dalla morte di Maria Zambrano. la filosofa eversiva.
28 anni dalla morte di John Cage.
27 anni dalla morte di Frank Zappa.
26 anni dalla morte di Massimo Troisi.
26 anni dalla morte di Ayrton Senna.
26 anni dalla morte di Kurt Cobain.
26 anni dalla morte di Aldo Braibanti.
26 anni dalla morte di Moana Pozzi.
25 anni dalla morte di Carlos Monzon.
25 anni dalla morte di Goliarda Sapienza.
25 anni dalla morte di Arturo Benedetti Michelangeli.
25 anni dalla morte di Mia Martini.
24 anni dalla morte di Ivan Graziani.
23 anni dalla morte di Gianni Versace.
23 anni dalla morte di William Burroughs: lo scrittore del Rock.
23 anni dalla morte di Ian Curtis.
22 anni dalla morte di Marcello Geppetti.
22 anni dalla morte di Lucio Battisti.
21 anni dalla morte di Franco Gasparri.
21 anni dalla morte di Stanley Kubrick.
21 anni dalla morte di Robert Bresson.
21 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
20 anni dalla morte di Vittorio Gassman.
20 anni dalla morte di Enrico Cuccia.
20 anni dalla morte di Attilio Bertolucci.
20 anni dalla morte di Gino Bartali.
20 anni dalla morte di Victor Cavallo.
19 anni dalla morte di Indro Montanelli.
18 anni dalla morte di Francisco Ramón Lojácono.
18 anni dalla morte di Carmelo Bene.
18 anni dalla morte di Joe Strummer.
17 anni dalla morte di Giorgio Gaber.
15 anni dalla morte di Sergio Endrigo.
13 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.
12 anni dalla morte di Ruslana Korshunova.
12 anni dalla morte di Tony Rolt.
10 anni dalla morte di Joe Sarno.
10 anni dalla morte di Raimondo Vianello.
10 anni dalla morte di Sandra Mondaini.
10 anni dalla morte di Pietro Taricone.
10 anni dalla morte di Edmondo Berselli.
10 anni dalla morte di Franz-Hermann Bruener.
10 anni dalla morte di Maurizio Mosca.
9 anni dalla morte di Giuseppe D'Avanzo.
9 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.
9 anni dalla morte di Leda Colombini.
8 anni dalla morte di Whitney Houston.
7 anni dalla morte di Alberto Bevilacqua.
7 anni dalla morte di Franco Califano.
7 anni dalla morte di Enzo Jannacci.
6 anni dalla morte di Robin Williams.
6 anni dalla morte di Philip Seymour Hoffman.
6 anni dalla morte di Giorgio Faletti.
5 anni dalla morte di Francesco Rosi.
5 anni dalla morte di Pino Daniele.
4 anni dalla morte di Anna Marchesini.
4 anni dalla morte di Bud Spencer.
4 anni dalla morte di Marta Marzotto.
4 anni dalla morte di David Bowie.
4 anni dalla morte di Ettore Bernabei.
4 anni dalla morte di Marco Pannella.
4 anni dalla morte di George Michael.
3 anni dalla morte di Tomas Milian.
3 anni dalla morte di Nicky Hayden.
3 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
3 anni dalla morte di Charles Manson.
3 anni dalla morte di Tullio De Mauro.
2 anni dalla morte di Stephen Hawking.
2 anni dalla morte di Sergio Marchionne.
2 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.
2 anni dalla morte di Marco Garofalo.
1 anno dalla morte di Karl Lagerfeld.
1 anno dalla morte di Jeffrey Epstein.
1 anno dalla morte di Massimo Bordin.
1 anno dalla morte di Franco Zeffirelli.
1 anno dalla morte di Luke Perry.
1 anno dalla morte di Nadia Toffa.
In memoria de Bee Gees.
I Compleanni.
I 60 anni di Snoopy.
Lada-VAZ 2101: storia e foto della Fiat 124 sovietica. I suoi primi quarant'anni.
Fiat Panda: i suoi primi quarant'anni.
Le auto più brutte.
50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori.
L'Sos di 50 anni fa: così Danilo Dolci inventò la radio libera.
25 anni di Ruggito del Coniglio.
Vent’anni di Grande Fratello.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Famiglie influenti.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Famiglie Reali.
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
La sfiga.
Le “Pulizie della Morte”.
La Morte Libera.
Il cervello è l’ultimo a morire.
Effimeri. Dimmi come muori e ti dirò chi sei.
Parlare con i morti.
I complottisti della morte.
La maledizione del "club 27".
E’ morto il musicista Claude Bolling.
È morto lo stilista Pierre Cardin.
È morto Giorgio Galli, professore di Storia delle dottrine politiche.
È morto il wrestler Brody Lee.
E’ morto George Blake, la spia rinnegata.
È morta la modella Stella Tennant.
E’ morto l’attore Claude Brasseur.
E’ morto il Serial Killer Donato Bilancia.
È morto l’ex ministro Enrico Ferri.
Morto lo scrittore John le Carré.
E’ morto il regista Kim Ki-duk.
E’ morto Paolo Rossi. Il Pablito Mundial.
E’ morto Maradona. E’ morto il calcio.
E’ morto Valéry Giscard d’Estaing.
E’ morto Alfredo Pigna.
E’ morto Vincent «Vince» Reffet. Paracadutista jetman.
E’ morta Daria Nicolodi, attrice e sceneggiatrice.
E’ morto Andrea Merloni.
E’ morta Joan Moncada di Paternò, nata Whelan, vedova del fotografo di moda Johnny Moncada.
E’ morto Dino Da Costa.
E’ morto Ro Marcenaro.
E’ morto Sergio Matteucci, storico telecronista dei match di Holly & Benji e Mila & Shiro.
E’ Morto Stefano D’Orazio dei Pooh.
E' morto l'ex presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino.
E' morto Gigi Proietti.
È morto Sean Connery.
E' morto Pino Scaccia, storico inviato della Rai.
Morta Diane Di Prima, poetessa e attivista Beat.
E’ morto Lee Kun-hee, presidente di Samsung Electronics.
Morto Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900.
È morto l’attore e cantante Gianni Dei.
E’ morto Enzo Mari: artista e disigner.
E’ morto Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor.
E' morto l'ex bassista degli AC/DC Paul Matters.
È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli.
Morto il giornalista Gianfranco De Laurentiis.
È morto il principe Giuseppe Lanza di Scalea.
E’ morto il cantante Anthony Galindo Ibarra.
E' morto Marco Diana, militare in lotta contro lo Stato per l'uranio impoverito.
È morto Johnny Nash.
E’ Morto Eddie van Halen.
E’ morto l’attore Thomas Jefferson Byrd.
Morto lo stilista Kenzo Takada.
È morto Quino, il disegnatore di Mafalda.
Addio a Juliette Greco.
È morto il direttore della fotografia Michael Chapman.
Ron Cobb rip.
Michael Lonsdale rip.
E’ morto il compagno Peppino Caldarola.
E’ morta la compagna femminista Rossana Rossanda.
Addio a Ruth Bader Ginsburg, icona femminista della Corte suprema.
Addio Enzo Golino, giornalista e critico letterario.
E' morto lo scrittore Winston Groom, autore di "Forrest Gump".
È morta la sessuologa Shere Hite.
E’ morto il regista Marco Vicario.
Morto Toots Hibbert, pioniere del reggae.
E’ morta l’attrice Diana Rigg.
E’ morta l’architetto Maria Cristina Mariani Dameno, coniugata Boeri.
E’ morto Franco Maria Ricci.
Addio a Ronald Bell, fu uno dei fondatori dei Kool & the Gang.
Addio al «re del grano» Pasquale Casillo.
È morto il dj Erick Morillo.
E’ morto Philippe Daverio.
E’ morto l’attore Chadwick Boseman.
È morto il giornalista Arrigo Levi.
E’ morto Sandro Mazzinghi, mito della Boxe.
E’ morto il brigatista Mario Marano.
E’ morto il regista Augusto Caminito.
È morto Ben Cross, l’attore di Momenti di Gloria.
Addio all'attrice barese Mariolina De Fano.
E’ morto il giornalista Stefano Malatesta.
L’attrice Linda Manz rip.
E' morto Cesare Romiti.
Addio a Trini Lopez, il musicista e attore.
E’ morto Stefano Pernigotti.
E’ morto Alberto Bauli.
E’ morto il wrestler James Harris, conosciuto come Kamala.
E’ morta Franca Valeri.
E’ morto Ivo Galletti, il papà della mortadella.
E’ morto Sergio Zavoli.
E’ morto l’attore Reni Santoni.
Addio a John Hume, il Nobel che portò la pace in Irlanda del Nord.
E’ morto l’ingegnere William "Bill" English, l'inventore del mouse.
E’ morta l’attrice hard Alessandra Bregoli in arte Alexy Brey.
E’ morto l’attore Wilford Brimley reso celebre da «Cocoon».
E’ Morta la principessa Giorgiana Corsini.
E’ morto Giulio Maceratini, esponente storico del Msi e di An.
E’ morta Luisa Mandelli, moglie di Guido Crepax.
E' morta Valentina Crepax, nipote di Guido.
Addio a Tataw, capitano del Camerun a Italia '90.
È morto a 76 anni il regista Alan Parker.
E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio.
E’ morto Maurizio Calvesi, Storico dell’Arte.
Addio al rapper Malik B, tra i fondatori dei The Roots.
E’ Morto Kansai Yamamoto, lo stilista che ha vestito il rock.
E’ morto l’attore Gianrico Tedeschi.
E’ morto l’attore John Saxon.
È morta Olivia de Havilland, diva di Hollywood.
È morto Regis Philbin, leggendario conduttore della tv Usa.
E’ morto Peter Green: fondatore dei Fleetwood Mac.
Morto Paolo Finzi, l'avvocato anarchico della Milano degli Anni di Piombo.
Morto Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai.
E’ morto a 104 anni Giuseppe Ottaviani: recordman tra i masters di atletica.
E' morto Oreste Casalini, artista e scultore.
È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai.
E’ morta Zizi Jeanmaire. La regina del music-hall parigino.
È morto John Lewis, icona dei diritti civili negli Stati Uniti.
Addio a Mario Scotti Galletta, baffo d’oro della pallanuoto italiana.
E’ morta Naya Rivera, attrice di «Glee».
E’ Morta Kelly Preston, la moglie di John Travolta.
Addio a Paolo Giovagnoli, Pm delle nuove Br e del caso Pantani.
E’ morto Emanuele Ferrario, presidente di Radio Maria.
E’ morto il norvegese Jagge, sconfisse Tomba ad Albertville '92.
Addio all'attore canadese Nick Cordero.
Morto l’avvocato Mauro Mellini: il radicale che denunciò il “partito dei magistrati”.
Ennio Morricone è morto.
INDICE QUARTA PARTE
Addio a Carlo Flamigni il guru il fecondazione assistita.
E’ morta la ciclista Roberta Agosti.
È morta Ida Haendel, leggenda del violino.
E’ morto il campione di poker Matteo Mutti.
E' morto Loris Meliconi, l'inventore del guscio per il telecomando.
Addio a Carl Reiner, comico da record di Emmy e amico di Mel Brooks.
È morto Freddy Cole, grande jazzista e fratello di Nat King.
È morta Linda Cristal, star dei western e della serie tv "Ai confini dell'Arizona".
E’ morta L'attrice Vittoria De Paoli. Recitò con la Capotondi.
E’ morta Taryn Power, sorella di Romina.
E’ morto il grafico Milton Glaser.
E’ morto “l’immortale” Marc Fumaroli.
E’ morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale.
È morto il regista Joel Schumacher.
È morto Charles Webb, l'autore ribelle del Laureato.
E' morto Pierino Prati.
E' morto Mario Corso.
Addio allo scrittore Carlos Ruiz Zafon.
È morto Ian Holm, Bilbo Baggins del "Signore degli anelli".
E’ Morta Jean Kennedy, era l’ultima dei fratelli di Jfk.
È morto Tibor Benedek: lutto nel mondo della Pallanuoto.
E’ morto l’avvocato Gianfranco Dosi, fondatore di Aiaf.
È morto Giulio Giorello.
E’ morto Stefano Bertacco, senatore di FdI.
È morto Luigi Spagnol: scoprì per primo Harry Potter.
E’ morto il cantante Pau Donés dei Jarabe de Palo.
E’ morto Rademacher, il recordman della boxe.
Addio al maestro Marcello Abbado, fratello maggiore di Claudio.
Addio a Chris Trousdale, voce della boyband Dream Street.
E’ morto il semiologo Paolo Fabbri.
E' morto Carlo Ubbiali, leggenda del motociclismo italiano.
È morto Roberto Gervaso.
È morto Tinin Mantegazza, creatore del pupazzo Dodò dell'Albero azzurro.
E’ morto Morrow: fu il primo a eguagliare la leggenda Owens.
È morto l'artista Christo.
Morto Beppe Barletti: volto storico di “90° minuto”.
È morto il chitarrista Bob Kulick, "quinto" membro dei Kiss.
E’ morto l’attore Anthony James.
E’ morto Franco Raselli, uno degli orafi più importanti nel mondo.
E’ morta Alice Severi: ex bimba prodigio del piano.
È morto Larry Kramer, sceneggiatore.
Addio all'attore Richard Herd, comandante supremo dei "Visitors".
E’ morto Prahlad Jani, l’indiano che sosteneva di non mangiare e bere dal 1940.
E’ Morto Stanley Ho. Addio al re dell'azzardo.
E' morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa.
È morto Jimmy Cobb, tra i più grandi batteristi della storia del jazz.
È morto John Peter Sloan, il comico insegnante d'inglese più famoso d'Italia.
È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harward.
Addio a Sergio Siglienti, ex presidente di Banca Commerciale Italiana.
Morto Carlo Durante, ex campione paralimpico di maratona.
Morta Cristina Pezzoli, la regista che amava la sperimentazione.
E’ Morto Antonello Riva: regista e chef.
È morta Anna Bulgari.
Addio all'editore Piero Manni.
Morto Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo di undici presidenti Usa.
Addio a Claudio Ferretti, voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto".
È morto padre Adolfo Nicolas, era stato «papa nero» dei Gesuiti.
E’ morto Shad Gaspard ex lottatore di wrestling.
Morta Hana Kimura, la lottatrice di wrestling.
Morto Gigi Simoni.
Tennis: è morto Ashley Cooper, leggenda della racchetta anni '50.
Basket, Nba in lutto: è morto Jerry Sloan, leggenda di Utah.
Morto il giornalista Stefano Carrer.
È morto Mory Kanté: cantante guineano celebre per «Yeke Yeke».
E’ morto l’attore Hagen Mills.
E’ morto il giornalista Cesare Barbieri.
Giorgio Stegani rip.
È morto Gregory Tyree Boyce, attore di Twilight.
E’ morta Ann Mitchell, la scienziata che decriptò Enigma.
È morto l’attore Michel Piccoli.
E’ morta la fotografa tedesca Astrid Kirchherr.
Addio a Mauro Sentinelli, il pioniere dei cellulari. Inventò la ricaricabile.
Morta Lynn Shelton, regista di «Little Fires Everywhere» e «Glow».
E’ morto l’attore Fred Willard, da Beautiful a Modern family.
E’ morta Norma Doggett, ballerina di "Sette spose per sette fratelli".
È morto Phil May, frontman e cofondatore dei Pretty Things.
È morto Sandro Petrone, storico conduttore del Tg2.
E’ morto Ezio Bosso.
È morto Giulio Savelli, editore di "Porci con le ali".
Addio a Jerry Stiller.
E’ morta Costanza Rossi in Ichino.
Morta Betty Wright, regina del soul.
È morto Little Richard, principe trasgressivo del rock'n'roll.
E’ morto Piero Gelli, il risvolto snob dell'editoria.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano".
E' morto "El Trinche" Carlovich: idolo di Maradona.
Morto Luca Nicolini, il libraio che inventò il Festivaletteratura di Mantova.
Morto il rapper Ty.
E' morto Bob Krieger, il fotografo di Agnelli e Armani.
E’ morto Vincenzo Abbagnale.
È morto Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk.
Addio a Michael McClure, principe della Beat Generation.
Morto l’attore Mimmo Sepe.
Addio al barese Matteo De Cosmo, art director della «Marvel» a New York.
Morto McNamara: campione Nba di basket.
E’ Samantha Fox, la porno attrice.
È morto Sam Lloyd, l'avvocato di Scrubs.
È morto l'attore BJ Hogg.
È morto il batterista Tony Allen.
Morto Fra' Giacomo Dalla Torre: Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta.
E’ morto l’attore Irrfan Khan.
Addio a Germano Celant.
È morto Giulietto Chiesa, giornalista e politico.
Claudio Risi rip.
Addio al giornalista Nicola Caracciolo.
Addio al regista Luca De Mata.
E’ morto il filosofo Aldo Masullo.
Morto Giuseppe Gazzoni Frascara: Ex presidente del Bologna Calcio.
È morta Shirley Knight, attrice di cinema e serie tv.
E’ morto Sirio Maccioni: re della cucina italiana in America.
E’ morto a 82 anni Peter Beard, fotografo naturalista.
E’ morto il bassista Henry Grimes.
E’ morto l'attore francese Philippe Nahon.
Se ne va Gene Deitch, 95 anni, regista, disegnatore, produttore di cartoon.
È morto Sergio Fantoni.
Morto l’attore Brian Dennehy: lo sceriffo di "Rambo".
Addio a Lee Konitz, uno degli ultimi grandi del jazz mondiale.
E’ morto Luis Sepulveda.
E’ Mario Donatone, uno dei cattivi del cinema italiano.
E' morto Franco Lauro, volto noto di Rai sport.
E’ morto Mirko Bertuccioli, detto "Zagor", cantante dei Camillas.
Morta Patricia Millardet, la giudice della "Piovra".
Morto il giornalista Giuseppe Zaccaria.
E’ morto Stirling Moss leggenda dell'automobilismo.
E’ morto Luciano Pellicani.
E' morto il fotografo Victor Skrebneski.
È morto Enzo Carrella, cantautore romano.
E’ morto Armando Francioli.
E’ morto l’architetto Massimo Terzi.
Rip la costumista Brunetta Parmesan.
E’ morto Donato Sabia, fu due volte finalista olimpico.
E’ morta Linda Tripp, la talpa dello scandalo Lewinsky.
Allen Garfield rip.
Morta l'astrofisica Margaret Burbidge.
Morta Susanna Vianello, figlia di Edoardo e Wilma Goich.
Coronavirus: è morta Cinzia Ferraroni, storica attivista del M5s.
È morto Alessandro Rialti, voce storica della Fiorentina.
Morta Honor Blackman, la Pussy Galore di James Bond.
Morto l'ex premier libico Mahmoud Jibril.
Morto Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid.
Morto Bernard Gonzalez, calcio francese in lutto.
Addio ad Ezio Vendrame, il George Best italiano.
Morto Bill Withers, voce di "Ain't No Sunshine".
È morto Sergio Rossi: ucciso dal Coronavirus il maestro della calzatura.
Coronavirus, morto Mario Bresciani, capitano d’industria delle calze.
Turchia, morta Helin Bolek: attivista e cantante.
Addio Gerald Freedman, regista del primo Hair a Broadway.
Addio a Bill Withers, rappresentante della black music.
Morto Piero Gratton, papà del Lupetto della Roma.
Morto Gaetano Rebecchini, fu tra i fondatori di Alleanza nazionale.
Morto Ellis Marsalis, un gigante del jazz.
Morto Goyo Benito: stella del Real Madrid negli anni ’70.
Morto Andrew Jack della saga di Star Wars.
Coronavirus, addio al musicista Adam Schlesinger, celebre leader dei Fourtains of Wayne.
E' morta Maria Antonietta Muccioli.
Addio a Franco Crepax.
È morto Filippo Mantovani, il figlio del presidente della Sampdoria.
Morto Attilio Bignasca, leghista ticinese.
Morto Angelo Rottoli, ex campione europeo dei massimi leggeri.
È morto Krzysztof Penderecki, compositore polacco.
E’ morto Luigi Roni: il cantante lirico.
E se n'è andata anche Annunziata Chiarelli, per tutti Mirna Doris.
Morto Michel Hidalgo: c.t. campione d'Europa nell'84 con la Francia.
Morto Massimo Vincenzi de La Repubblica.
Addio a Flavio Campo di Avanguardia.
Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura.
Morto Mark Blum, recitò anche in "Mr. Crocodile Dundee".
Morto il principe Raimondo Orsini d’Aragona.
Perdiamo anche Detto Mariano.
Morto Corrado Sfogli.
È morto Joe Amoruso, il pianista del gruppo di Pino Daniele.
E’ morto Paolo Micai, giornalista e cineoperatore.
Se ne va anche Alfio Contini.
Bepi Covre è morto: era conosciuto come il “leghista eretico”.
Coronavirus, morto Terrence McNally: scrisse “Paura d’amare”.
Morto il regista americano Stuart Gordon.
E’ morto il sassofonista Manu Dibango.
Fumetti, addio ad Albert Uderzo: era il "padre" di Asterix.
Morto Luigi Pallaro, "el senador" che affondò Prodi II.
E' morto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita.
E’ morto Alberto Arbasino.
E’ morta Lucia Bosè.
E' morto il regista Tonino Conte.
É morto Kenny Rogers.
Nazareno (Neno) Zamperla rip.
Morto Gianni Mura, raccontò il calcio e il ciclismo.
Joaquin Peiró è morto.
Addio Eduard Limonov.
Se ne va Stuart Whitman.
E' morto l'architetto Vittorio Gregotti.
Atletica, morta Dana Zatopek.
Bruno Armando è morto.
Morto Max von Sydow.
Morta Suor Germana.
Francesca Milani è morta.
Morto l’attore e culturista David Paul.
E’ morto Perez de Cuellar ex segretario generale dell’Onu.
Morto Ulay. L’artista storico compagno di Marina Abramovic.
Elisabetta Imelio è morta a 44 anni: Prozac+ e Sick Tamburo in lutto.
Addio al fisico e matematico visionario Freeman Dyson.
Egitto, morto l'ex presidente Hosni Mubarak.
Addio a Katherine Johnson, la scienziata della Nasa che portò l'uomo nello spazio.
Lego, morto Nygaard Knudsen inventore degli omini del colosso dei giochi.
Addio a Nando Ceccarini, maestro della cronaca per 20 anni.
Morto a 99 anni Jean Daniel, il fondatore dell'Obs.
Amaretto Disaronno, è morto il patron Augusto Reina.
Napoli, è morto l’ex campione Mario Occhiello.
È morto lo scrittore Clive Cussler, maestro dell'avventura.
Metropolitana di New York, è morto il padre della mappa iconica.
Si è spenta Claire Bretécher, una delle prime donne ad affermarsi nel mondo dei fumetti.
E’ morta Caroline Flack, uno dei volti più noti della televisione britannica.
È morto José Mojica Marins. Il maestro dell'orrore.
Morto Flavio Bucci, fu Ligabue nella fiction tv.
Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff.
Usa, si schianta col suo missile: muore Mike Hughes, sostenitore della Terra piatta.
E’ morta Nikita Pearl Waligwa, l'attrice ugandese vista nel film «Queen of Katwe».
Morto Max Conteddu, il poeta dei social.
È morto Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia-incolla-taglia.
Si è spento Gianni Rotondo, decano dei giornalisti di Taranto.
Addio a Stanley Cohen, Nobel per la Medicina con Levi Montalcini.
Addio a Poeti Norac, astro nascente del surf.
Se ne va anche Dyanne Thorne, cioè Ilsa la belva delle SS.
Addio alla scultrice Beverly Pepper, regina della Land Art.
È morto Luciano Capelli, storica voce di Radio Alice.
La scomparsa di Emanuele Severino.
Morta il soprano Mirella Freni.
Addio a George Steiner, maestro della critica.
Morto a 100 anni Mike Hoare, il mercenario più famoso del mondo.
Morto il produttore Gianni Minervini.
Luciano Gaucci, morto ex presidente del Perugia.
Morta Germana Giacomelli, la super mamma che curava i bambini.
Addio a Giancarlo Morbidelli, papà di leggendarie moto da corsa.
Morto Benito Sarti, addio allo storico terzino della Juventus.
Morto Giovanni Cattaneo, è stato il primo «Capitan Findus».
Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni.
Morto Paolo Guerra, storico agente e produttore.
Harriet Frank Jr rip.
Kobe Bryant è morto.
E' morto Robbie Rensenbrink: fu uno dei fuoriclasse della grande Olanda di Cruyff.
Morto Narciso Parigi.
Addio a Stefano Scipioni, voce di Radio Radio.
È morto Terry Jones, fondatore e regista dei Monty Python.
Morto Gianluigi Patrini, ex calciatore.
È morto Jimmy Heath, in arte Little Bird.
Addio ad Emanuele Severino, gigante della filosofia italiana.
E' morto Pietro Anastasi.
Morto Pietro Antonio Migliaccio, il nutrizionista dei salotti tv.
Morto Christopher Tolkien, figlio dell’autore del «Signore degli Anelli».
Morto Stan Kirsch.
E’ morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa.
E’ morto il filosofo Roger Scruton.
Morto Giovanni Custodero, l’ex calciatore malato di cancro.
Morto Capuozzo, 40 anni, campione d’Italia nel calcio a cinque.
Dakar 2020: morto il motociclista Edwin Straver.
Dakar, morto Paulo Gonçalves.
Morto Giovanni Paolo Martelli, addio al maestro che scoprì la Xylella.
Addio a Neil Peart, uno dei più grandi batteristi di sempre.
Morto Edd Byrnes, l’attore interpretò Vince Fontaine in «Grease».
Aveva soltanto 27 anni, Harry Hains.
Lorenza Mazzetti, che se ne è andata a 92 anni.
Se ne va Buck Henry, 89 anni.
Morta Elizabeth Wurtzel.
Musica, è morto a 67 anni Neil Peart: storico batterista dei Rush.
Morto Qaboos bin Said al-Said, sultano dell’Oman.
Morto Francesco Claudio Averna: il suo amaro è famoso in tutto il mondo.
Commissario Montalbano, morta l'attrice Nellina Laganà.
Morto a 86 anni Italo Moretti, storico giornalista Rai.
Morto Alessandro Cocco, il re gentile dei presenzialisti della tv.
Franco Ciani morto suicida.
Addio a Georges Duboeuf «Papa del Beaujolais».
È morto Vittorio Fusari, rinomato chef.
Basket, è morto David Stern: l'uomo che ha reso planetaria l'Nba.
LA SOCIETA’
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
· La sfiga.
Forlì, dopo un grave incidente divenne testimonial per la sicurezza stradale: muore in un secondo schianto. Pubblicato lunedì, 28 settembre 2020 da La Repubblica.it. Quasi due anni fa aveva avuto un brutto incidente stradale ma si era salvato: Andrea Saveri aveva quindi deciso di diventare testimonial per la sicurezza stradale nelle scuole, ma un nuovo schianto gli è stato fatale. È accaduto nel Forlivese a un ragazzo di 26 anni: sabato notte, riporta la stampa locale, ha perso il controllo della sua auto nel territorio di Meldola finendo contro un albero. Un impatto violento che non ha lasciato scampo al giovane. Ferita, ma non in pericolo di vita, la fidanzata di 19 anni che era accanto a lui. È stata la ragazza a chiamare i soccorsi ma a quanto risulta il compagno sarebbe morto sul colpo. Sul posto, con le forze dell'ordine e il personale sanitario, è giunto anche il padre, un ex agente delle volanti della questura di Forlì, in pensione da un anno. Andrea, riportano i quotidiani romagnoli, a gennaio 2019 aveva avuto un grave incidente. Con suo padre, pure sopravvissuto a un incidente diversi anni prima, in autostrada, era stato "testimone" davanti a 500 studenti a dicembre per la campagna dell'Ausl Romagna sulla sicurezza stradale.
Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 14 luglio 2020. Siamo solo pedine nelle mani di un dio burlone, distratto, benigno o maligno, a seconda dei casi. Tasselli di un puzzle di cui fatichiamo a intravedere l'insieme, il disegno e il senso complessivo. Pezzi che possono essere tolti o mantenuti sulla plancia di gioco per puro accidente, in nome di un criterio imperscrutabile. Ce ne siamo accorti con evidenza durante l'emergenza Covid. Non c'era una logica oggettiva per cui si veniva contagiati o meno, si contraeva il virus in modo più o meno grave, si sopravviveva o si crepava. Il discrimine tra la salute e la malattia, il contagio e l'immunità, tra la vita e la morte spesso non era dettato dall'efficacia delle cure, dalla tempestività dell'intervento medico, dall'imprudenza o dall'avvedutezza personale, ma da un unico aspetto: la Fortuna. Dipendeva da una botta di culo il fatto di ritrovarsi tra i sommersi o i salvati. Le cronache recenti ci hanno raccontato episodi che hanno fatto incrinare ulteriormente la nostra convinzione in un piano razionale della realtà. Un camionista procede sulla strada facendo come ogni giorno il suo lavoro e si ritrova, per dannata coincidenza, la handbike di Alex Zanardi sotto il suo automezzo. Lui seguiva la sua corsia, non andava a velocità esagerata, non aveva bevuto, non si era distratto, guidava con prudenza. Eppure è stato, suo malgrado, "causa" di un incidente, forse fatale. E ancora: una donna si reca a un centro commerciale coi suoi figli. Dopo aver fatto la spesa, esce dal negozio e viene travolta, insieme ai bimbi, da un cornicione che li schiaccia uccidendoli. E che dire di quella donna in Alto Adige che fa un'escursione in montagna con marito e figli, prosegue in solitaria la camminata sul sentiero tracciato, senza azzardi, ma precipita in un fosso e muore? Domande senza risposte In questi casi fatichi a individuare i pilastri ai quali si affida chi crede nell'esistenza di un ordine logico. Non vedi la Libertà, l'arbitrio umano di scegliere e indirizzare la propria sorte; non vedi un Destino, una volontà divina che piega le cose in una direzione, possibilmente a fin di bene; né vedi la forza della Necessità, il meccanismo deterministico in base al quale le cose non fanno che obbedire a regole certe. No, appare solo l'imperversare del Caso, il dominio dell'Imponderabile, se non addirittura dell'Assurdo. E vedi soprattutto una profonda mancanza di senso. A noi esseri in cerca continuamente di risposte viene naturale chiedersi: Perché loro? Perché così? Chi ha voluto ciò? Un recente e interessante libro, I dadi giocano a Dio? del matematico Ian Stewart, edito da Einaudi (pp. 320, euro 29), dimostra che l'incertezza è la fibra stessa della realtà, non una falla in un sistema per il resto ordinato e razionale. Stewart ci ricorda che «l'universo è intrinsecamente imprevedibile» e che «l'incertezza non è solo un segno di ignoranza umana; è ciò di cui è fatto il mondo». Ciononostante l'uomo da sempre prova ad addomesticare questa imprevedibilità, a rendere comprensibile, gestibile il Caos, affidandosi a realtà garanti di Certezza. All'alba dei tempi furono le divinità e i tentativi di scrutarne le volontà sia per giustificare i fatti già accaduti («lo hanno voluto gli dèi»), sia per anticipare eventi futuri; quindi fu la volta della Scienza, con la sua pretesa di esattezza e il suo sforzo di convincerci che tutto il Reale è Razionale e che il Cosmo può essere ingabbiato entro leggi non solo prevedibili, ma eterne e sempre uguali a se stesse. Nel Novecento tuttavia abbiamo assistito alla crisi dei fondamenti e degli assoluti, al venir meno delle basi su cui si reggeva la realtà e della mèta ultima a cui essa aspirava (la morte di Dio): tutte le certezze si sono incrinate, la scienza stessa si è dimostrata inattendibile di fronte a un mondo di per sé imprevedibile. Questo è valso anche per il macrocosmo (le leggi dell'universo) e per il microcosmo, dominio per eccellenza dell'Irrazionale (vedi gli approdi della meccanica quantistica). Così l'uomo si è ritrovato sospeso sull'orlo del Nulla. Nondimeno, anziché rassegnarci all'Imponderabilità, abbiamo potenziato ulteriormente i sistemi di calcolo, investito in tecnologia e scienze "esatte", messo a punto strumenti avanzatissimi che possano decidere al posto nostro, e in modo certo, infallibile. Siamo così arrivati alla dittatura dell'Algoritmo, al mito dell'Intelligenza Artificiale, di cui ben racconta Renato de Rosa in un altro libro appena pubblicato, il romanzo Osvaldo, l'algoritmo di Dio (Carbonio, pp. 258, euro 16,50). Da qui una nuova domanda di senso: forse Dio coincide con l'algoritmo? Forse Dio non gioca a dadi, come diceva Einstein, ma sono i dadi che giocano a fare Dio? Stewart ci dice di no: anche gli strumenti più avanzati, anche i modelli informatici più all'avanguardia non fanno che affidarsi a un calcolo (sebbene raffinato) delle probabilità. A ipotesi verosimili, non a certezze. Ad esempio, durante la crisi del Covid, le previsioni, gli algoritmi che dovevano illuminarci sull'andamento epidemiologico si sono mostrati contraddittori e quasi sempre sbagliati. Il flusso degli eventi La tentazione facile, di fronte a questo scenario, sarebbe quella di cedere a un rassegnato fatalismo, a una disperata accettazione delle cose. Abbandonarsi al flusso degli eventi, come particelle impazzite. E insieme fare dell'Irresponsabilità il nostro dio, sapendo che nulla dipende da noi. Ma questa sarebbe un'abdicazione alla ragione stessa del nostro esseri umani. Viceversa, come argine alla disperazione, noi suggeriamo due metodi. Il primo è il principio del pessimismo della ragione e dell'ottimismo della volontà. Sappiamo di non poter gestire gli eventi, riconosciamo che l'Imponderabile può abbattersi da un momento all'altro sulle nostre vite, che non siamo in grado di regolare le leggi fisiche e metafisiche e gli imprevisti della Natura (vulcani, terremoti), della Finanza, della Malattia o della Guarigione. Ma, con la consapevolezza della nostra impotenza, ci tocca comunque mantenere un rigore etico, preservare la libertà di orientare le proprie scelte private e pubbliche in base a un criterio di valore. Ci resta questo, come elemento insopprimibile, forse l'unica sfera che non potrà essere soggetta al Caso. La volontà o meno di amare, di tenere o buttare via una vita, di scegliere ciò in cui credere, ciò che è da difendere e custodire è un ambito tutto umano, che riguarda la nostra coscienza e ci permette di non vivere come automi, ma come creature senzienti, pensanti e volenti.
Da "leggo.it" l'8 luglio 2020. Coronavirus, riuscì a salvarsi dal crollo delle torri gemelle di New York l'11 settembre 2001 ma ora il Covid19 non gli ha dato scampo: morto Stephen Cooper, l'uomo che venne immortalato in una delle foto simbolo del dramma dell'11 settembre 2001. Lui, allora, riuscì a scappare dal crollo di una delle torri gemelle del World Trade Center di New York, come documentano le immagini iconiche della Grande Mela colpita dall'attentato che ha sconvolto il mondo. Lui, all'estrema sinistra di quella foto, era in fuga da fumo e detriti mentre la torre sud si sgretolava a un isolato di distanza. Stephen Cooper è morto di Coronavirus, secondo la sua famiglia, come documanta The Palm Beach Post, che ha riferito che l'ingegnere elettrico di New York, che viveva in Florida, è morto al Delray Medical Center a causa del Covid19 all'età di 78 anni. La foto che lo ritrae mentre fugge dal crollo della torre fu scattata da un fotografo dell'Associated Press ed è custodita al 9/11 Memorial Museum di New York. tephen Cooper è morto di Coronavirus, secondo la sua famiglia, come documanta The Palm Beach Post, che ha riferito che l'ingegnere elettrico di New York, che viveva in Florida, è morto al Delray Medical Center a causa del Covid19 all'età di 78 anni. La foto che lo ritrae mentre fugge dal crollo della torre fu scattata da un fotografo dell'Associated Press ed è custodita al 9/11 Memorial Museum di New York.
Da leggo.it l'11 luglio 2020. Due uomini sono morti in un hotel a Marbella vicino a Malaga in Spagna dopo che uno di loro è caduto da un balcone sopra l'altro, che era su una terrazza sottostante a rilassarsi, come ha spiegato il servizio 112 Emergenze Andalusia. La località turistica è molto nota e frequentata da migliaia di turisti provenienti da tutta Europa. La tragedia, come riporta 20minutos.es, è avvenuta questa notte in via José Meliá a Marbella. Verso l'1: 45 del mattino, 112 hanno ricevuto diverse chiamate da cittadini che indicavano che un uomo era caduto da un balcone dell'hotel su una terrazza, schiacciando un altro uomo. Immediatamente avvisate la polizia locale, la polizia nazionale e le ambulanze, che hanno confermato la morte dei due uomini. La polizia nazionale ha avviato un'indagine. Fonti della polizia hanno precisato che l'uomo che è precipitato era di circa 50 anni e originario del Regno Unito e soggiornava nell'albergo in Spagna, mentre la persona su cui è caduto era un cliente spagnolo di 46 anni seduto sulla terrazza dello stabilimento. Tutti i soccorsi si sono rivelati inutili.
Giuseppe Giangrande, la terza vita dell'eroe: “Sono sopravvissuto all'attentato a Palazzo Chigi e ora al coronavirus”. Simona Pletto 21 marzo 2020 su Libero Quotidiano. «Anche questa volta l' ho sfangata. Ho superato pure il Coronavirus". Sfodera tutta l' ironia che gli è rimasta, come fosse un utile antidoto alla cattiva sorte, il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Giangrande. Forse lo stesso che nel 2013 lo ha aiutato a superare il terribile attentato di cui è rimasto vittima. Quel 28 aprile era lì, in servizio con altri colleghi fuori da Palazzo Chigi, a piazza Colonna, nel centro di Roma. Era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sì perché quella mattina, giorno della cerimonia di giuramento al Quirinale del governo Letta, Luigi Preiti - condannato a 16 anni - sparò alcuni colpi contro i carabinieri. Giangrande rimase gravemente ferito, fino a perdere l' uso delle gambe. Una tragedia per lui, costretto a vivere su una sedia a rotelle, quando ancora cercava di superare il dolore della morte della moglie avvenuta pochi mesi prima. Accanto a lui, solo la figlia all' epoca 23enne. Ma, come ironizza il rappresentante dell' Arma insignito di vari riconoscimenti tra cui Cavaliere di Gran Croce dell' Ordine al Merito della Repubblica italiana e Medaglia d' oro al valor civile, «il cane morsica sempre lo straccione». Vista dalla sua, come dargli torto. Circa due settimane fa il militare è stato trovato positivo al virus. Un' altra sfida da superare per il 57enne di Monreale (Palermo), da anni residente a Prato.
TORNATO A CASA. Giangrande è appena rientrato a casa dopo 9 giorni di ricovero nel reparto di malattie infettive dell' ospedale Careggi di Firenze. È ancora positivo, ma spera di chiudere anche questo brutto momento quando si sottoporrà al prossimo tampone del 3 aprile. «È stata una esperienza pesantissima, a livello psicologico e fisico», racconta il maresciallo. «Non pensavo mai al mondo di essere positivo, anche perché non avevo né tosse né raffreddore. Niente. Poi all' improvviso mi sono trovato chiuso da solo in una stanza, dove come unico diversivo potevo vedere pochissime volte al giorno gli infermieri che entravano per le terapie. Nessun altro». Giangrande ne approfitta per lanciare un suo appello. «Credetemi, trovarsi isolato in un reparto di malattie infettive, senza neppure poter camminare, è una prova dura. Per me lo è stata. Quindi voglio dire a tutte le persone: state in casa, rispettate il decreto del ministro. Io ho accettato la mia condizione di paraplegico e non capisco come si fa a non accettare di non poter andare a fare jogging o in spiaggia o in palestra. A quelli che si credono furbi e non rispettano le regole per il coronavirus, dico solo che se si trovassero chiusi là dentro capirebbero e gli passerebbe la voglia di uscire». Il maresciallo, che fa vita piuttosto ritirata per via delle sue condizioni, non sa ancora oggi dove ha contratto il virus. «Non ne ho la più pallida idea. So solo che sono rimasto incredulo quando mi hanno detto che ero positivo. Ad ogni modo io uscivo in carrozzina e alcune mattine andavo anche a fare la fisioterapia», precisa. «Avevo la febbre alta, ma mi capita spesso per problemi alla vescica. Quindi pensavo a tutto tranne al Coronavirus». Poi svela: «Ho avuto paura, normale, ma sono stato ottimista perché non presentavo alcun problema respiratorio. Poi per fortuna mi hanno dimesso ed eccomi qui a casa».
«RISPETTATE LE REGOLE». iangrande vive a Prato con la figlia Martina, che a maggio compirà 30 anni. Trascorre le sue giornate al computer, legge e guarda in tv i canali dedicati alla storia oppure i film. «Per fortuna mia figlia, che ha già passato il suo periodo di quarantena, è negativa», sottolinea. «La cosa che più mi è pesata», aggiunge, «è stata quella di dover stare lontano da lei perché non potevamo vederci. Ora che sono tornato a casa è tutto finito, e si va avanti. Cerco di non pensare a com' ero prima di quel 28 aprile, vivo questa nuova vita in modo diverso e l' accetto. Non penso al futuro. La cosa che mi manca? Tutte le cose che avrei voluto fare con Martina, portarla in giro per il mondo. Ma questa è un' altra storia. Ora dobbiamo stare in casa tutti, rispettare le regole». Il sacrificio minore.
Alessandro Fulloni per "corriere.it" il 20 febbraio 2020. Un turista italiano di 32 anni è stato ucciso dalla caduta di massi a Petra, in Giordania, avvenuta in seguito di forti piogge. Lo rendono noto i media locali. Il giovane era in compagnia di altri tre connazionali. Le autorità che indagano sull’incidente hanno supervisionato le immagini a circuito chiuso nella zona ed è emerso che non erano presenti altre persone al momento dell’accaduto. L’edizione online di Libertà fornisce nome e cognome della vittima: si tratta di un ingegnere piacentino, Alessandro Ghisoni, in vacanza con la moglie Sonia e i cognati.
Colpito da masso caduto dall’alto. L’uomo sarebbe stato colpito in testa da un masso caduto dall’alto, staccatosi da una parete rocciosa a causa delle forti piogge. Ghisoni è stato soccorso da due medici che facevano parte della comitiva di escursionisti: inizialmente sembrava che potesse riprendere i sensi, ma il suo cuore ha smesso di battere sull’ambulanza che lo stava trasportando al più vicino ospedale. Le autorità locali stanno cercando di fare chiarezza sulla drammatica dinamica dell’accaduto. Ghisoni — scrivono ancora i colleghi di Libertà — lavorava alla Bolzoni di Casoni di Podenzano, dove era molto apprezzato non solamente per la sua preparazione professionale, ma anche per le doti umane.
Da "ilmessaggero.it" il 20 febbraio 2020. Da giorni non rispondeva alla fidanzata, i suoi amici non lo avevano più visto. Un’assenza sospetta che ha messo in allarme tutti, spingendo un vicino di casa a sfondare la sua porta di casa a Phra Nakhon Si Ayutthaya, in Thailandia. Il cadavere di Supakhet Saraboon, 35 anni, era disteso sul letto con ancora i pantaloncini e la maglietta indossata per giocare a calcetto lo scorso giovedì. A ucciderlo potrebbe essere stata una scarica elettrica: Supakhet, infatti, è stato trovato senza vita lunedì sera con le cuffiette alle orecchie, il filo arrotolato sul petto e attaccato a uno smartphone collegato a una prolunga. Giovedì sera era tornato da un allenamento di calcio e si era sdraiato sul letto. Dal quel momento di lui non si erano più avute notizie. La fidanzata aveva contattato Surawut Sukpanya, un vicino di casa 36enne, preoccupata perché Supakhet non rispondeva alle sue chiamate. Una circostanza che non faceva che alimentare la preoccupazione di Surawut, che da giorni chiamava l’amico per chiedergli di uscire senza ricevere alcuna risposta: «Non avevamo sue notizie da più di tre giorni, era insolito. La sua ex ragazza mi ha inviato un sms per vedere cosa stava succendo. Sono andata a casa sua, ma non mi ha risposto alla porta. Ero molto allarmato e insieme a un altro vicino siamo entrati in casa. Lo abbiamo trovato morto sul letto». Surawut ha contattato l’ambulanza, ma i medici non hanno potuto far altro che constatare il decesso: adesso solo l’autopsia potrà confermare la causa della morte, ma i dottori hanno pochi dubbi. «Non ci sono persone sospette coinvolti nella morte, quindi crediamo che sia un incidente causato dal cellulare - ha detto Surapong Thammapitak, capo della polizia di Phra Nakhon Si Ayutthaya - Le persone devono fare attenzione quando usano le cuffie e ricaricano il telefono allo stesso tempo». Non è il primo caso nel Paese legato all’uso di cuffie e telefoni in carica. Nel novembre dello scorso anno Somchai Singkhorn, un 40enne che lavorava come cuoco in un ristorante, è stato trovato morto con segni di bruciature sul braccio e sul collo: è morto fulminato dal suo telefono in carica. Lo scorso maggio un 22enne è morto in circostanze simili: lo hanno trovato sul letto mentre stringeva il cellulare in carica.
(ANSA-AFP il 16 gennaio 2020) - E' salito a tre il numero dei morti in seguito all'esplosione di ieri sera in uno stabilimento chimico a Tarragona, nel nord-est della Spagna. Uno dei dipendenti della fabbrica è deceduto oggi in ospedale in seguito alle gravi ustioni riportate. Centinaia di vigili del fuoco sono stati mobilitati tutta la notte per controllare l'incendio, che è iniziato martedì sera poco prima delle 19. La prima vittima è morta all'interno di un edificio in una città vicino al parco industriale, che è crollato a causa dell'onda d'urto provocata dall'esplosione. La seconda è morta in ospedale. Si contano anche sette feriti. L'emergenza sul luogo dell'esplosione è definitivamente rientrata questo pomeriggio. Il responsabile dell'azienda, i cui prodotti sono utilizzati per liquidi antigelo, deumidificatori, detergenti e cosmetici, ha reso noto che le cause dell'esplosione non sono ancora note.
Da Reuters il 16 gennaio 2020. - Un grosso pezzo di metallo è stato ''sparato'' dallo stabilimento chimico di Tarragona a due chilometri di distanza, colpendo un edificio in modo così forte da far crollare un piano intero addosso a un uomo che si trovava all'interno, uccidendolo.
Da hdblog.it il 16 gennaio 2020. È stata una giornata di scuola decisamente fuori dall'ordinario per gli alunni di alcuni istituti di Los Angeles, che nella mattinata di oggi, mentre si trovavano in cortile, sono stati "innaffiati" da una pioggia di carburante proveniente dal cielo. A scaricarlo è stato un Boeing 777-200, che si stava preparando ad effettuare un atterraggio di emergenza nell'aeroporto internazionale della città, a qualche chilometro dalle scuole. Il volo passeggeri della Delta Airlines in realtà era decollato proprio da lì per dirigersi in Cina, a Shanghai, ma a pochi minuti dalla partenza aveva riscontrato un problema al motore che l'aveva costretto a fare ritorno allo scalo di partenza. Dunque, iniziate le manovre di emergenza, il velivolo ha scaricato il carburante: un'azione consentita, in questi frangenti, per perdere peso; ma solo in aree designate e ad alta quota, come stabiliscono le regole dell'aviazione. Un passante ha immortalato la scena, caricando poi il video su Youtube. L'incidente ha coinvolto una sessantina di persone, tra cui una ventina di bambini di cinque scuole elementari e una scuola superiore, che hanno dovuto ricorrere alle cure mediche per irritazione alla pelle e problemi respiratori. I problemi tuttavia sono stati circoscritti e le scuole domani apriranno normalmente. La Federal Aviation Administration ha aperto un'indagine sull'accaduto.
· Le “Pulizie della Morte”.
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 29 ottobre 2020. L' appunto con il giorno del furto. E poi il nome, la data di nascita e di morte delle defunte, tutte giovani e belle, di cui rubava le foto al cimitero. Il necrofilo che ha sottratto al Verano le ceneri di Elena Aubry nascondeva un diario sui furti proibiti. Un taccuino in cui annotava i dati delle tombe violate, riportando in maniera metodica l' elenco delle foto in ceramica strappate dalle lapidi, di giovani affascinanti e per lo più con aspetto vintage, che finivano allestite nella sua camera da letto trasformata in un camposanto privato.
LA COLLEZIONE. «Per me è come una droga, non riesco a frenarmi. Devo rubarle», ha poi spiegato. Chi indaga ha conteggiato 375 violazioni corrispondenti ad altrettante immagini, storie e cimeli. Compresa quella di Elena Aubry, la centaura dagli occhi grandi e dai capelli lunghi, morta a 26 anni a causa dell' asfalto dissestato sull' Ostiense. Il collezionista delle defunte, un quarantottenne di Casal Bertone, solitario e innamorato dei volti delle ragazze morte, con lei aveva fatto un passo avanti. Non si era limitato a ritagliarne la foto attaccata alla lapide, ma direttamente i resti facendo sprofondare la madre nella disperazione e costringendo i carabinieri, che li hanno recuperati il 26 maggio, a una indagine in salita e a tutto campo.
LA DATA. Ora con l' apertura del diario si scopre anche il giorno del furto delle ceneri di Elena. Il 4 marzo 2020, poco prima del lockdown. «4.3.20 Presa Elena Aubry. Nata 28.10.1992 Morta 6.5.2018», annota il necrofilo nel suo diario feticista. Il successivo aggiornamento è del 5 maggio 2020, dopo la riapertura del Verano, il giorno in cui Graziella Viviano, la madre di Elena, si accorge della sparizione delle ceneri della figlia. «Presa Licia Perla», morta nel 65 a trent' anni. E, stessa data, «Presa Alberta Mostacci, nata 14.5.1939 morta 22.9.1970, a 31 anni». L' elenco è lungo, lunghissimo, da brivido. Eppure il necrofilo indagato per violazione di sepolcro, vilipendio di tomba, sottrazione e occultamento di cadavere per le ceneri della motociclista, ma anche della ricettazione delle centinaia di foto di ragazze morte rubate al Verano, assistito dall' avvocato Daniele Bocciolini, potrebbe presto finire a processo.
LA PERIZIA. Dietro alla pulsione irrefrenabile, ha stabilito una perizia, nessuna malattia mentale. «Ogni tanto ho cambiato genere di sottrazione nel camposanto - ha deto l' indagato per giustificare il furto delle ceneri di Aubry - ma mi interessano le fotografie». Rubate con la massima accortezza. Per non essere notato, per eludere la sorveglianza, ha specificato ad Angelo Giannetti, lo psichiatra che lo ha esaminato, «sceglievo giorni e orari e portavo, come escamotage, cibo ai gatti tra le tombe». Le fotografie diventavano pegni per arricchire collezione. «Le più belle - ha sottolineato l' indagato - le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre. Altre le nascondevo per non farle vedere troppo». «Il mio assistito - ha dichiarato Bocciolini - risulta pienamente capace di intendere e di volere. Pertanto, sempre nel pieno rispetto delle famiglie dei defunti, sto cercando di approfondire i contorni di questa inquietante vicenda col mio assistito». Una ferita senza fine per Graziella Viviano, la mamma di Ellena. «Mia figlia, ieri, il 28 ottobre, avrebbe compiuto 28 anni. Abbiamo lanciato una lanterna verso il cielo». Quando, l' 11 luglio, ha riavuto i suoi resti, «l' ho riportata su una moto al mare, ma anche sul punto in cui è volata via. C' era un cantiere. Non è morta invano».
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 31 ottobre 2020. Questa storia funerea e insieme, a suo modo, “d’amore” perturbante, sarebbe piaciuta, così crediamo, a chi, come Leonardo Sciascia, sentì il bisogno di indagare sullo “smemorato di Collegno”, Mario Bruneri, il tipografo (o era forse il professor Cannella?) che nel gelo di marzo del secolo trascorso venne scoperto a trafugare vasi funerari nel cimitero ebraico di Torino, fermato dai custodi mentre, furtivo, cercava di allontanarsi con il suo tetro “bottino”. Un racconto identitario e d’appropriazione indebita che travalica il semplice dato materiale, la medesima piccineria criminale. Nel nostro caso più recente, la notizia tratteggia, come nei fotokit, un quarantottenne ladro di foto-ceramiche, e perfino di ceneri, simulacri di ragazze morte “nel fiore degli anni”. Le cronache locali dei giornali, con vezzo quasi letterario, accennano a un “collezionista di morte”, precisando che l’uomo “schedava” ogni cosa sottratta, raggiungendo in questo modo il numero di 375 ragazze “conquistate”. Una collezione di immagini di fanciulle decedute, meglio, “rubate” al marmo delle tombe e delle cappelle, ogni dato anagrafico meticolosamente segnato nel diario ritrovato: date di nascita e di morte fissate con puntiglio da anagrafe mortuaria a proprio uso fantasmatico. Fra i “reperti”, le ceneri di Elena Aubry, morta il 6 maggio del 2018 lungo via Ostiense, a Roma, il manto stradale dissestato che fa perdere alla 26enne il controllo della moto. Lo scorso marzo dalla sua tomba era stata sottratta appunto l’urna. Lo scorso maggio, i carabinieri sono infine risaliti a un 48enne residente nella borgata romana di Casal Bertone, un luogo già di “Mamma Roma” di Pasolini. Tra le cose ritrovate: le ceneri e una foto di Elena accanto a oltre 375 immagini funerarie di giovani donne, tutte decedute. L’uomo, oltre a tenere traccia di tutto in un taccuino (il cronista precisa che “le icone trafugate erano di ragazze dall’aspetto vintage” sic) arredava la propria camera da letto “come una sorta di cappella privata votiva”. “Adoro ammirare i volti delle giovani donne morte. Dopo un po’, però, mi stufo, butto via le foto e vado a cercare altre immagini,” avrebbe ancora dichiarato. Su una pagina del “suo” registro si legge pure: “4.3.20 Presa Elena Aubry. Nata 28.10.1992 Morta 6.5.2018”. Il lockdown ne aveva interrotto l’attività fino alla riapertura del Verano. È infatti del 5 maggio scorso l’aggiornamento con le foto di “Licia Perla, morta nel 1965 a trent’anni, e quella di Alberta Mostacci, nata il 14.5.1939 e deceduta il 22.9.1970, a 31 anni”. Il nostro, giustificando il furto delle ceneri della 26enne, aveva spiegato che, pur preferendo le foto, ogni tanto, per sviare i sospetti, portava cibo ai gatti che popolano le tombe del Verano. “Le più belle le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre. Altre le nascondevo per non farle vedere troppo”. Nelle parole del suo legale, l’assistito risulta tuttavia “pienamente in grado di intendere e di volere”. Resta così da intravederlo a volo d’uccello nella distesa del cimitero monumentale del Verano, a scrutare “fornetti“, individuare nell’infinito catasto funebre visivo i volti delle ragazze da sottrarre, nel trapasso fotografico dal bianco e nero dei decenni trascorsi alle quadricromia dei decessi recenti, e qui la nostra storia, forse l’ho già detto, sembra incontrare soprattutto il capolavoro di Truffaut tratto da un racconto, “L’altare dei morti”, di Henry James, ossia “La camera verde”. Nella storia dell’uomo trafugatore cimiteriale di ragazze brilla infatti un ideale libro dell’amore mai compiuto, mai raggiunto, un diario sentimentale che sposa le vite altrui, come già l’immagine della maschera funeraria della “Sconosciuta della Senna”, che ebbe a affascinare anche Albert Camus. Nella vicenda del trafugamento delle foto sembra di rivedere, come già ne “La camera verde”, un ideale Pantheon di ciò che avrebbe potuto essere, di ciò che non è mai stato: impossessarsi delle esistenze postume delle sconosciute, e così idealmente sposarle, nella formalina del proprio tempo affettivo interiore; chissà se questa persona non abbia in questo modo virtualmente immaginato di portarle proprio tutte sull’altare, il proprio, l’altare della propria impotenza e solitudine, della propria incapacità di relazionarsi davvero con il femminile. Nel 2010, un uomo, allora quarantenne, sempre nel dominio mortuario del Verano, rubava già foto dalle tombe, dichiarando: “Cerco l’amore della vita”. Qualora si trattasse dello stesso individuo recidivo, dovremmo addirittura, perfino a dispetto dell’evidenza del reato reiterato, parlare di eterna “fedeltà”.
Le «pulizie della morte» per diventare grandi quando scompaiono i genitori. Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Polito. Chiudere la casa di chi non c’è più, svuotarla di mobili e oggetti: un’esperienza che segna. Forse chi invecchia dovrebbe preparare il «lascito» (come fanno in Svezia) e risparmiare ai figli la fatica fisica e psicologica. O forse no. Chi ci è passato sa che è un’esperienza che segna: come spingere il tasto fast rewind e riavvolgere il nastro della tua vita. Chiudere la casa dei genitori che non ci sono più. Svuotarla dei mobili e degli oggetti. Scegliere quale tenere e quale no delle mille cose che hanno accompagnato le giornate della tua infanzia, i fermenti della tua adolescenza, e che avevi lasciato dietro di te quando te ne sei andato, pensando di non rivederle mai più. E invece ecco che riaffiorano dalle nebbie del passato, all’improvviso diradate dalla scomparsa dell’ultimo genitore. Che ci fanno ancora qui quelle collezioni di Rinascita dei primi anni Settanta, testimonianza di passioni politiche giovanili da tempo sopite, conservate per caso affianco a una copia di Valentina di Guido Crepax, memoria di altri e più duraturi interessi? E chi poteva immaginare che mio padre avesse raccolto, giorno per giorno, tutti i numeri del Riformista degli anni in cui l’ho diretto? Una racchetta da tennis di legno e corde di budello, come andavano ai tempi di Panatta, un 33 giri della Premiata Forneria Marconi, un eskimo verde e un loden blu. I miei genitori non avevano buttato niente. C’è invece una pratica in Svezia che ho sempre trovato molto civile e che chiamano dostadning: consiste nel «fare le pulizie della morte» prima del tempo, appena si va in pensione, per liberarsi del superfluo e scegliere l’essenziale, e così risparmiare ai figli, quando sarà il momento, la fatica fisica e psicologica che sto facendo io adesso. Si vede che i miei genitori non la conoscevano. Ma credo che in quel loro accumulare senza fine ci fosse qualcosa di più dell’ignoranza di stili di vita più sobri e nordici, e cioè un molto mediterraneo concetto di focolare, che attribuisce alla casa un valore diverso dalla sua semplice funzione abitativa. Quell’appartamento che noi figli stiamo ora vendendo è stato il primo e l’unico bene di loro proprietà, tre vani e servizi acquistati nel 1969 con un mutuo venticinquennale, salvadanaio di una vita da formiche, in cui il poco che c’era, non riesco ancora a capire come, diventava abbastanza per una esistenza di decoro borghese. In quella casa si sono accumulate non solo le cose, ma anche gli odori, i sapori e le speranze di una intera esistenza. Credo fosse per questo che mia madre non riusciva a disfarsi mai di niente; perché ogni cosa, fosse anche il più insulso dei soprammobili, era stata desiderata come il simbolo di una riuscita, del successo di un sogno di serenità domestica; mentre mio padre riservava la stessa ossessione da collezionista a libri scolastici, diplomi e attestati, onorificenze e memorie dei suoi e dei nostri corsi di studio e poi di lavoro. Mentre mi aggiro tra questi mobili coperti da lenzuoli bianchi, tra questi scatoloni destinati al rigattiere, selezionando le poche cose che terrò con me, rivedo perciò anche le mie idee. Forse farò così anch’io, niente pulizie della morte prima del tempo. Forse bisogna lasciare ai figli questo compito, quasi un rito di passaggio: si diventa davvero adulti solo quando si chiude la casa del padre.
· La Morte Libera.
La Spagna riconosce il «diritto a morire». Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 20 dicembre 2020. Approvato in prima lettura alla Camera dei deputati un disegno di legge che consentirà l’eutanasia per i malati che sono gravati da patologie incurabili. «Un momento storico». È questa la definizione che quasi unanimemente è stata data in Spagna ad un atto che cambierà in maniera profonda la storia dei diritti civili nel paese iberico. Giovedì infatti è stata approvato in prima lettura alla Camera dei deputati un disegno di legge che di fatto consentirà l’eutanasia per i malati che sono gravati da patologie incurabili. L’approvazione definitiva dovrebbe avvenire nei primi giorni del prossimo anno al Senato e in molti vedono questo passaggio come una formalità vista la maggioranza governativa che ha promosso e portato avanti il provvedimento. Il disegno di legge è stato infatti presentato dal Partito Socialista guidato da Pedro Sanchez che è anche il primo ministro spagnolo, i voti a favore sono stati 198, contrari 138 e solo 2 le astensioni. Oltre al Psoe si sono espressi in maniera favorevole anche i partner di governo di Unidas Podemos ( coalizione di sinistra), Junts per Catalunya ( indipendentisti catalani di centrodestra), CUP ( indipendentisti catalani di sinistra), e Ciudadanos ( partito di destra liberale, all’opposizione). Hanno votato contro il Partito Popolare ( destra), Vox ( estrema destra) e l’Union del Pueblo Navarro ( partito di centrodestra della Navarra). Una maggioranza che va oltre gli schieramenti tradizionali. Il segno di un’adesione alla cultura liberale e il superamento, tranne qualche non trascurabile eccezione, dell’impianto cattolico che da sempre pervade il paese. Con la depenalizzazione dell’eutanasia è stato approvato «un diritto che ci rende più liberi», commenta in un’intervista al quotidiano El Pais la deputata socialista ex ministra della Salute, Maria Luisa Carcedo. La Spagna dunque andrà ad aggiungersi a Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Canada e Nuova Zelanda. Coloro che vogliono avvalersi dell’eutanasia dovranno percorre un lungo iter burocratico che prevede almeno 4 richieste allegate da numerosi referti medici che certifichino la propria malattia irreversibile. La richiesta dovrà essere esaminata e accolta da una commissione apposita, poi il paziente dovrà dare un’ultima volta il suo consenso. La legge prevede comunque il diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario. Solo in fase ultima si potrà scegliere una struttura pubblica o privata dove porre fine alla propria vita volontariamente.
La Spagna ha una legge sull’eutanasia. Roberto Pellegrino il 21 dicembre 2020 su Il Giornale. Il Congreso di Madrid ha approvato con un voto storico la legge che rende possibile fare ricorso all’eutanasia per le persone chi è un malato terminale e incurabile. Il testo, presentato dal Partito socialista, è passato nella serata del 17 dicembre con 198 “sì”, 138 “no” e due astenuti. Oltre ai socialisti hanno votato a favore Unidas Podemos, Junts per Catalunya (indipendentisti catalani di centrodestra), CUP (indipendentisti catalani di estrema sinistra) e Ciudadanos (destra liberale, all’opposizione). Contrari il Partito Popolare (destra), Vox (estrema destra) e l’Union del Pueblo Navarro (partito di centrodestra della Navarra). Anche la Spagna, assieme ad atri sei Paesi al mondo, adotta una legge per disciplinare l’eutanasia. La legge ora dovrà passare al Senato per l’approvazione che, grazie alla maggioranza del PSOE, non avrà problemi per essere approvata: le nuove disposizioni saranno in vigore già all’inizio del 2021. La Spagna è dunque destinata a diventare il sesto Paese al mondo a legalizzare l’eutanasia, dopo Olanda, Belgio, Lussemburgo, Canada e Nuova Zelanda. La legge prevede che le persone affette da una patologia incurabile possano avere accesso all’eutanasia in ospedali pubblici, cliniche private o anche a casa propria, dopo aver chiesto fino a quattro volte di poter ricevere il suicidio assistito e previa presentazione della documentazione medica che certifica la loro condizione. La richiesta dovrà essere esaminata e accolta da un’apposita commissione, poi il paziente dovrà dare il suo consenso definitivo. Si prevede comunque il diritto all’obiezione di coscienza per il personale sanitario.
Da businessinsider.com il 15 ottobre 2020. Il governo olandese ha dato il via libera alla somministrazione di eutanasia per i bambini malati terminali di età compresa tra uno e 12 anni. La decisione arriva dopo mesi di intenso dibattito e prevede varie limitazioni, come quella di essere autorizzata da due medici e non da uno, e sarà somministrabile solo in caso di malattie gravi, incurabili, mortali ed estremamente dolorose. Il ministro della Salute del Paese, Hugo de Jonge, ha detto che è necessario un cambiamento nelle normative per aiutare “un piccolo gruppo di bambini malati terminali che soffrono senza speranza e sofferenze insopportabili”. Il governo stima che le nuove regole, eliminando la minaccia di procedimenti giudiziari da parte dei medici, interesseranno tra i cinque ei 10 bambini all’anno che non hanno alcuna speranza di miglioramento delle loro condizioni. L’Olanda non è il primo Paese a rendere legale questa pratica. Il Belgio lo ha fatto nel 2014 quando ha legiferato per consentire l’eutanasia nei casi in cui il giovane paziente era malato terminale e in forte dolore. Due bambini belgi di nove e 11 anni sono stati i primi a essere sottoposti a eutanasia nel 2016 e nel 2017.
Vaticano, no a eutanasia e suicidio assistito: "Sono crimini contro la vita umana". Pubblicato martedì, 22 settembre 2020 da Paolo Rodari su La Repubblica.it. Vaticano, no a eutanasia e suicidio assistito: "Sono crimini contro la vita umana". L'ex Sant'Uffizio stabilisce la dottrina sul tema come "insegnamento definitivo". La Chiesa si oppone all'accanimento terapeutico: "Procura solo un prolungamento precario e doloroso della vita". "La Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l'eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l'uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente". Ha il tono delle definitività la Lettera Samaritanus bonus della Congregazione vaticana per la Dottrina della fede. Dopo dibattiti accesi, negli ultimi mesi soprattutto in Italia, in merito, il Vaticano dice la sua ricordando come a suo avviso "coloro che approvano leggi sull'eutanasia e il suicidio assistito si rendono complici del grave peccato che altri eseguiranno". E ancora: "Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli". L'eutanasia, spiega ancora l'ex Sant'Uffizio, "è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza". "Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale" e "qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata a un tale atto è un peccato grave contro la vita umana". "Dunque, l'eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva". Per la Santa Sede "una persona che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri e nega se stessa come soggetto morale. Il suicidio assistito ne aumenta la gravità, in quanto rende partecipe un altro della propria disperazione, inducendolo a non indirizzare la volontà verso il mistero di Dio", e "di conseguenza a non riconoscere il vero valore della vita e a rompere l'alleanza che costituisce la famiglia umana". Per questo "aiutare il suicida è un'indebita collaborazione a un atto illecito". "Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire", spiega l'ex Sant'Uffizio, e "si tratta, dunque, di una scelta sempre sbagliata". "È per questo che l'eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica". La Chiesa ribadisce di stare dalla parte di coloro che favoriscono il diritto a morire "nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta". Per questo, "tutelare la dignità del morire significa escludere sia l'anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”. La medicina odierna dispone, infatti, di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva in taluni casi un reale beneficio". Nel caso specifico dell'accanimento terapeutico, prosegue il documento, "va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati “non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte” o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare". "La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria".
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 23 settembre 2020. Gli italiani non leggono - dicono - però secondo il Vaticano dovrebbero leggere l'intera lettera «Samaritanus bonus» a cura della «Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita» (complimenti al titolista) e tutto per sapere come dovrebbero e dobbiamo morire: 105mila battute infinite (con traduzione in inglese, spagnolo e portoghese) comprese 99 note modernissime che comprendono il Concilio di Trento del 1545; parliamo di uno scritto presentato ieri in una triste conferenza stampa che dovrebbe dare un «orientamento» e farci risapere che l'eutanasia è un crimine, e che, invece, non lo sono le cure palliative e l'obiezione di coscienza. Traduzione nostra: il Vaticano finge d'ignorare che certe cure palliative in pratica sono già un'eutanasia (perché ti addormentano e ti tengono addormentato sinché sei morto) mentre lo Stato italiano finge d'ignorare che l'obiezione di coscienza di cui parla il Vaticano dovrebbe esserlo, un crimine: perché significa che i medici cattolici impallinati rifiutano la legge italiana qualora a loro dire legittimi «sotto qualsiasi forma di assistenza medica, l'eutanasia o il suicidio assistito». C'è una cosa da fare, testuale: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini». In Iran, forse. E dove sia un un dio a pagargli lo stipendio. Non è abbastanza chiaro? Allora ecco: «Non esiste il diritto al suicidio né quello all'eutanasia anche quando l'eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato». È sempre un estratto della «Samaritanus bonus». Chissà che cosa ne penserebbe Sergio Zavoli, morto nell'agosto scorso e autore del poco ricordato «Il dolore inutile» (Garzanti 2005), o chissà che cosa ne penserebbe anche l'oncologo Umberto Veronesi, morto nel 2016 e autore di ben due testi, «Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza» (Mondadori 2005) e «Il diritto di non soffrire» (Mondadori 2012). E chissà che cosa ne pensate voi, perché no, forse non occorre attendere un rapporto Censis per sapere che la maggior parte degli italiani (sani di mente) si ritiene padrona della propria vita o perlomeno titolata a morire - scusate - come stracazzo vuole. Né ci vuole un genio della politica per sapere che molte posizioni «bioetiche» della maggioranza degli italiani, pur attenendo ai diritti individuali, non vengono mai trasformate in legge perché la classe politica che non vuole inimicarsi il Vaticano, come se il Vaticano contasse ancora qualcosa. Così, da un numero insopportabile di anni, finisce che in materia, a legiferare, è indirettamente la magistratura (o la Corte Costituzionale, se fa differenza) come di recente è accaduto con il caso di Cappato e il suicidio assistito, ma come accadde a partire dal caso di Eluana Englaro e in molti altri casi: poi dicono l'invadenza della magistratura. Eh sì, è davvero un peccato che perlomeno una parte d'Italia si sia laicizzata, modernizzzata, e che gli ospedali non siano più come erano nell'era pre-San Raffaele, quando a gestirli era culturalmente la Chiesa e non erano intesi come centri di ricerca e di studio, di previdenza, di assistenza sociale, quando c'erano le cliniche dei baroni che si portavano appresso i malati (ricchi) come dei pacchi, in mano quasi sempre a religiosi accomodanti, oppure, ecco, per il resto erano lazzaretti, casermoni con camerate e file di cinquanta letti, lugubri cronicari con le suore e la cultura del dolore e della penitenza (Sergio Zavoli, appunto, ne ha fatto bellissime inchieste) e insomma: altro che diritti del malato, altro che rispetto sacrale dell'infermo e altre sciocchezze che un laico-religioso come Don Luigi Verzè, da noi, immaginò per primo ottenendone lo scandalo e l'ostracismo di tutte le curie. Si facciano i loro ospedali, le loro cliniche, le loro farmacie e le loro leggi, i cattolici impallinati nonché leggitori integrali della «Samaritanus bonus», che da sola è già una penitenza. In questi ultimi anni la scienza del dolore ha compiuto notevoli progressi (anche se la morfina è disponibile solo dal 2009, dopo iter infernali) e sono stati messi a punto nuovi farmaci che però vengono centellinati sempre in omaggio a una vetusta cultura che quella no, non muore mai. All'estero fanno sempre una gran fatica a capire perché in Italia si affronta con tanta parsimonia la sofferenza dei malati: non capiscono perché esista e resista una «cultura del dolore» che pesca nel torbido e nella labilità dei confini tra le cure di fine vita (lasciar morire) e il suicidio assistito (aiutare a morire) e l'eutanasia (provocare il morire). Solo quando si finisce in ospedale (cioè troppo tardi) ci si accorge che forse qualcosa si poteva fare, legiferare, regolare: come per anni hanno chiesto una parte della società civile, i medici, tutti i livelli della Magistratura, la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore di sanità, persino qualche politico nonché l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, oltre ai soliti e benedetti Radicali. E intanto la società e i medici stessi, da anni e per anni, se la cavano segretamente da soli: altro che «Samaritanus bonus». Da una vita si inseguono i casi di Terri Schiavo, Giovanni Nuvoli, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, dj Fabo, mentre gli anni passano e le leggi non arrivano, sicché la società e i medici stessi, nell'attesa, sono costretti a cavarsela segretamente da soli. L'eutanasia c'è già, manca solo la legge. Si fa, ma non si dice: è il nostro Paese.
La polemica sul Samaritanus bonus. Samaritanus bonus, quel documento Vaticano senza misericordia. Tommaso D'Aquino jr su Il Riformista il 25 Settembre 2020. La Congregazione per la Dottrina della Fede fa il suo mestiere: emana documenti vincolanti dove ribadisce cosa i cattolici possono o non possono fare. Come è accaduto martedì con la Lettera “Samaritanus Bonus”, in cui in sostanza ribadisce diversi divieti: no all’eutanasia, niente sacramenti e via l’assistenza spirituale nel momento letale finale (si tratti di eutanasia o suicidio assistito). Certo si riconosce che dietro tali scelte c’è una “disperazione” esistenziale che deriva da condizioni di dolore fisico o sofferenza psichica. Ma la condanna è netta, compresi i legislatori: «L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli». La Congregazione fa il suo mestiere. Ma lo fa bene? Possiamo discuterne a partire dal titolo della Lettera: “Samaritanus Bonus”. Veramente nel Vangelo di Luca (10, 29-37) si parla di un “Samaritano”, cioè un uomo proveniente da una regione nota per essere abitata da idolatri. La scelta di una figura positiva è un modo che usa Gesù per invitare ad andare oltre le apparenze e le facili etichette. E fin qui tutto chiaro. Resta da dire che “buon” non c’è nel Vangelo; l’aggettivo è un’aggiunta posteriore, una connotazione morale della retorica che guarda alla forma e dimentica la sostanza. Come nel caso di questa Lettera. La retorica usata ci dice che la Chiesa è compassionevole, aiuta, sta vicino, è misericordiosa. Però il sacerdote esce dalla stanza dove si praticherà eutanasia o suicidio assistito perché altrimenti sarebbe colpevole di “collaborazionismo”. E i funerali in chiesa vanno negati (ci ricorda qualcosa?) sempre. Non sembra molto compassionevole. Poi troviamo alcune affermazioni da rimarcare: «In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia. La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravato dall’isolamento e dallo sconforto. La Chiesa vede in queste difficoltà un’occasione per la purificazione spirituale, che approfondisce la speranza, affinché divenga veramente teologale, focalizzata in Dio, e solo in Dio». Sarebbero state utili la statistica e la metodologia (discipline si sa, molto scomode…) perché “decine di migliaia” non significa niente e se non c’è una fonte affidabile cui appoggiarsi e citare, allora è solo una frase ad effetto. Conta niente – direbbe Giovanni XXIII (ricordate il “discorso alla luna”? «… La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi…»). Bontà della Congregazione riconoscere la presenza di sofferenze psicologiche e depressione, aggravate da isolamento e sconforto. E che fare? Invece di utilizzare gli strumenti della psicologia (del profondo, relazionale, clinica), si fa prima a consigliare la criptica strada della “purificazione spirituale”. In realtà la lettura del testo solleva diverse questioni importanti.
Primo: il linguaggio è normativo, cioè assolutamente non misericordioso. Secondo: che deve fare lo Stato? Si stigmatizzano le legislazioni che aprono alla possibilità di praticare eutanasia e/o suicidio assistito. Si dimentica che lo Stato legifera per credenti e non credenti perché grazie al cielo l’Occidente non è un insieme di ordinamenti confessionali (non più da secoli…). Lo riconosce addirittura il Concilio Vaticano II: «Le modalità concrete con le quali la comunità politica organizza le proprie strutture e l’equilibrio dei pubblici poteri possono variare, secondo l’indole dei diversi popoli e il cammino della storia; ma sempre devono mirare alla formazione di un uomo educato, pacifico e benevolo verso tutti, per il vantaggio di tutta la famiglia umana» (Gaudium et Spes, par. 74). Si dimentica quanti pochi siano i casi in questione (visto che “decine di migliaia” non ha una fonte) dove la legge interviene in maniera rigorosa per definire e circoscrivere le situazioni. L’applicazione è all’interno di limitazioni, controlli, protocolli, dopo aver esperito tutte le strade possibili per evitare di farne ricorso. Certo è una questione che sfugge ai più: i casi di cronaca diventano eclatanti e fanno rumore. Ma si tratta di situazioni estremamente particolari. Certamente abusi possono sempre essere possibili però appunto la legislazione cerca di evitarli ed i protocolli medico-sanitari e le direttive delle associazioni professionali hanno lo scopo di arginare le deviazioni. Dimenticarlo, come fa il documento vaticano, vuol dire “cavalcare” un’ondata di protesta ideologica: formalmente invoca il rispetto della vita (ma solo qui e contro l’aborto, poi si muore sparati a migliaia e va bene!) e manca clamorosamente il doveroso dialogo con scienziati e laici. Che avrebbe evitato di confondere la sedazione palliativa profonda con la «terapia analgesica che usa farmaci che possono causare la soppressione della coscienza». Ignoranza, è il caso di dirlo e tutto l’impianto crolla un bel po’. Nel documento vaticano non si parla dei Comitati di bioetica, che sono nati proprio per dirimere le questioni controverse e le situazioni più difficili. Proprio lo sviluppo della medicina e delle tecnologie hanno portato all’allungamento della durata della vita e alla nascita di molte questioni: rianimare e tenere in vita oggi è possibile molto più di trenta o quaranta anni fa. Ma dopo? Chi si occupa di questi pazienti? E quale è la loro “qualità” della vita? E se non hanno lasciato direttive anticipate, ognuno può trasformarsi in un campo di battaglia tra opposte visioni. Lo abbiamo visto nei casi Englaro, Lambert e pochi altri. Pochi, appunto; hanno diviso la società e non hanno fatto bene ad un sereno dibattito. Altri aspetti problematici del documento vaticano? Collegare le Cure Palliative alla “assistenza medica alla morte” è un grave errore. Accade nel Nord-America (Canada, Usa) in alcune situazioni ma i protocolli internazionali e la definizione internazionale di Cure Palliative non lasciano spazio ad equivoci. Abbiamo di fronte un documento “occidentale” che si riferisce a quanto accade nei paesi del nord benestante del mondo dove tutto si tiene e giustifica in nome della “qualità della vita” in versione individuale. La Lettera lo dice così: «La vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in se stessa». E allora in nome di questa impostazione, nei paesi poveri cosa dovrebbe accadere? Eutanasia a go-go? Ma no, si tace del tutto sulla disparità terribile sull’accesso alle cure, il che vanifica l’intento del documento stesso: non posso difendere la dignità della vita umana se ho in mente solo un pezzo di mondo, largamente minoritario. Ed eccomi alla tematica di fondo. Siamo sicuri che la visione teologica della Lettera sia l’unica possibile? Il dilemma è serio. Tommaso D’Aquino sottolineava che la legge non è una causa, ma una guida per l’azione di esseri consapevoli e responsabili. Le ragioni per agire (la presenza di Dio, cosa dice la Chiesa ecc.) devono essere introiettate per governare le nostre azioni. L’interiorizzazione porta alla valorizzazione della coscienza personale. E la radice della libertà si trova nella ragione che l’uomo possiede. Ed allora se una persona ha ponderato una scelta, ha effettuato una valutazione di sé, della qualità della vita, delle sue condizioni e possibilità, valutando il futuro che lo attende; e se sa che la scelta da attuare – anche terminare in anticipo la propria esistenza – non danneggia altri, rispetta la coscienza del prossimo (cfr. Catechismo, par. 1789), allora dove sarebbe il problema? Il documento su questo tace. Non ammette che un’altra via è possibile, in situazioni particolari e limitate. Non lo dice perché considera la sofferenza un valore in se stesso, mentre non lo è. La sofferenza, per la Chiesa, è sempre una prova che viene da Dio. Prima la Chiesa cattolica abbandonerà ideologie masochiste, meglio sarà per un dibattito davvero libero da preconcetti e precondizionamenti, speculando nel frattempo sulle condizioni di vita di tanti, pretendendo di dire loro cosa devono o non devono fare. E intanto soffrire.
«Scegliere di morire non è bello, ma per alcuni diventa necessità». Simona Musco su Il Dubbio il 23 settembre 2020. Fine vita, parla Mario Riccio, il medico anestesista che assistette Piergiorgio Welby. «La Chiesa è un’agenzia etica e ha il pieno diritto di esprimere il proprio punto di vista su questi argomenti. Ma deve farlo in maniera logica, avendo rispetto delle leggi di un Paese». A parlare è Mario Riccio, il medico che nel 2006 accettò di interrompere la terapia sanitaria alla quale era sottoposto Piergiorgio Welby, procedendo al distacco della ventilazione, e oggi consigliere dell’associazione Luca Coscioni.
Dottore, cosa ne pensa delle parole del Vaticano?
«Credo che si stia tornando sul principio del “sicario”, come fummo apostrofati noi medici per quanto riguarda l’aborto. E questo mi offende: è un’affermazione ai limiti della querela. Qui si fa confusione tra peccato e reato. L’eutanasia o il suicidio assistito sono un peccato per l’agenzia etica che il Papa rappresenta. Viene tirata in ballo la legge naturale, ma si tratta di un concetto giuridico molto discusso: non si sa se esiste o meno. E così si fa commistione tra teologia e giurisprudenza. Esistono molte morali, ma la legge naturale non esiste».
In un passaggio viene sottolineato che chi compie un atto eutanasico o il suicidio assistito non è soggetto morale…
«È grave, perché soggetto morale è chiunque possa esprimere una propria visione della vita. È una grave offesa anche all’intelligenza. La Chiesa, in questo caso, è solo un soggetto che ha una morale diversa. E poi si parla di atto illecito, ma non è così, come dimostra il fatto che in diversi Stati tale pratica è legge. È solo un atto che, dal punto di vista del Papa, è immorale. Con queste affermazioni, in pratica, si sta affermando che tutti i giudici della Consulta, che hanno definito lecito il suicidio assistito entro certi parametri, non sono soggetti morali».
Crede che il messaggio sia rivolto al legislatore?
«È chiaro: il Vaticano ha già fatto questo gioco con la storia dell’aborto, chiamandoci sicari, appunto, e sostenendo che la donna che decide di ricorrervi non osserva un proprio diritto ma chiede ad un altro di uccidere suo figlio. È un atteggiamento poco rispettoso: io sono un medico che applica una legge e ho il diritto di non essere offeso. Ma qui si va oltre: mi si priva addirittura della coscienza perché applico una legge dello Stato. Non è accettabile questo piano di discussione. Il Papa può continuare ad affermare la propria contrarietà, è un punto di vista rispettabilissimo, ma non può dire che si tratta di un atto illecito. Non è suo compito. Ma la Chiesa ha sempre giocato saltando da un campo all’altro.
La lettera, secondo lei, può influire sull’approvazione di una legge che da tempo è inspiegabilmente ferma?
«È evidente: in Italia è riconosciuta un’unica autorità morale, il Papa, che piace tantissimo a tutti. Si dice sia leader del centrosinistra italiano e a me questo fa sorridere, perché vuol dire che la sinistra è davvero ridotta male se deve trovare la propria leadership in un Papa. Il dibattito è molto interessante, ma va chiarito che è un suo punto di vista. Non si può confondere peccato e reato».
Però arriva anche il no all’accanimento terapeutico. È una buona notizia?
«Non esiste un concetto di accanimento terapeutico, perché è soggettivo, e infatti non esiste altrove, lo si usa solo in Italia. Per alcuni rimanere attaccati ad un ventilatore è accanimento, per altri no. Penso a Welby: per lui era diventato insopportabile. Io sono stato suo medico e ricordo che la Chiesa gli chiuse le porte in faccia, negandogli i funerali, proprio perché assimilò la rinuncia alla terapia all’eutanasia. Quindi mi sembra un’ipocrisia. Quello che emerge, dunque, è il relativismo etico, che riguarda anche la Chiesa: come si comprende, certi concetti si modificano nel tempo e ora riconosce che la rinuncia a terapie a trattamenti ad oltranza, in certe condizioni, è lecita».
Quindi pensa che in futuro possa rivalutare le proprie posizioni?
«Guardi, i valdesi, che sono cristiani ma non cattolici, con molti limiti hanno aperto al suicidio assistito e dell’eutanasia. Quando parliamo di Vaticano parliamo di Chiesa cattolica, ma va detto che il mondo cristiano ha già manifestato la sua disponibilità alla morte medicalmente assistito. I protestanti del nord Europa, ad esempio, hanno già accettato, con molti limiti e condizioni, questa possibilità».
Secondo lei perché questo monito arriva proprio ora?
«Teoricamente Stato e Chiesa non si influenzano, ma praticamente sì. Questa lettera arriva due settimane dopo l’annuncio del capogruppo il deputato del M5s Giorgio Trizzino, medico palliativista, che ha confermato la calendarizzazione del ddl entro ottobre, dopo una sintesi di due anni di audizioni. Ma sarà una coincidenza. La lettera rappresenta una sorta di anatema per chi promuove queste leggi, le osserva o partecipa in maniera attiva. Beh, è evidente che è una fatwa».
Nella lettera viene ribadita la necessità di prevedere l’obiezione di coscienza, esortando il medico a farla valere.
«Sono favorevolissimo all’obiezione di coscienza, perché capisco che c’è un problema morale estremamente delicato. In tutte le legislazioni che hanno riconosciuto la morte clinicamente assistita tale diritto è stato riconosciuto. E per me ciò vale anche per l’aborto. Ma per favore, non mi si chiami più sicario».
Il Parlamento ha disatteso due volte le sollecitazioni della Consulta. Crede che si perderà ancora tempo?
«Anche la sentenza per la morte di Davide Trentini ha ribadito quanto detto dalla Consulta in due occasioni. Le indagini demoscopiche dimostrano che oltre il 90% delle persone è favorevole al suicidio assistito. Se il Parlamento dovesse continuare a temporeggiare allora sarebbe l’ennesima prova di una politica scollata dalla volontà popolare e che chi sta in Parlamento vive in un mondo diverso rispetto a chi lo ha votato. Il politico non è chiamato ad esprimere il proprio parere, nel campo dei diritti civili è chiamato a riconoscere le richieste che vengono dalla cittadinanza. Poi sta al popolo scegliere se usufruire o meno di uno strumento previsto dalla legge. Non c’è l’obbligo al divorzio o all’aborto. E scegliere di morire non è bello, ma per alcuni diventa una necessità».
Il documento "Samaritanus bonus". Eutanasia, così il Vaticano nega i diritti del malato. Marco Cappato su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Con la lettera Samaritanus bonus la Congregazione Vaticana per la dottrina della fede fornisce, con l’approvazione del Papa, un contributo alla violazione delle leggi dello Stato italiano e alla negazione del diritto all’autodeterminazione dei malati. La Santa Sede afferma che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana, ed arriva a definire “complici” non solo coloro che aiutano i malati a interrompere la propria vita, ma anche i Parlamentari che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito. Con il consenso del Papa, l’ex Sant’Uffizio arriva a spaventare i malati terminali, sostenendo che «una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia deve mostrare il proposito di annullare tale iscrizione prima di ricevere i sacramenti». La lettera Samaritanus bonus rappresenta un atto di sfida esplicito e frontale contro le sentenze della Corte costituzionale che hanno legalizzato in Italia il suicidio assistito in determinate condizioni e che hanno per due volte richiamato il Parlamento a intervenire per legiferare. Con le loro parole, la Congregazione e il Papa, favoriscono l’aggravarsi delle azioni – quelle sì criminali – che sono concretamente perpetrate ai danni di malati terminali costretti a scegliere tra la violenza di una condizione di sofferenza nella quale non vorrebbero vivere e i rischi dell’eutanasia clandestina. Contro tale crimine, con Mina Welby e Gustavo Fraticelli continuiamo l’azione di disobbedienza civile, come abbiamo fatto con le oltre 1.000 persone – cattolici e non – che si sono rivolte a noi finora per ottenere aiuto a morire. Il XVII Congresso dell’Associazione Luca Coscioni, che si apre online venerdì 25 settembre alle 17.30, discuterà le nuove iniziative da assumere per aiutare i cittadini italiani ad accedere all’aiuto alla morte volontaria seguendo le indicazioni della Corte costituzionale e per richiamare il Parlamento alle proprie responsabilità. Ma quando parliamo di aiuto, di che aiuto stiamo parlando? «Mi chiamo Chiara (nome di fantasia, ndr) ho 55 anni e sono una malata oncologica dal 2012. Purtroppo nel 2018 mi è stato diagnosticato un secondo tumore, un melanoma molto aggressivo. Tre settimane fa mi è stato detto che non ci sono più terapie utilizzabili e che mi restano solo le terapie del dolore e le cure palliative. Conscia della situazione in cui mi trovo, e che per sfortunate circostanze ho dovuto vivere precedentemente come parente, e amica di malati oncologici, vi scrivo questa mail per avere informazioni relative a come poter riuscire a gestire in maniera serena ed indipendente la mia morte». Questo è solo uno dei tanti messaggi che abbiamo ricevuto dall’inizio della disobbedienza civile con la quale aiutiamo le persone ad accedere all’aiuto alla morte volontaria, chiedendo che finalmente il Parlamento discuta la proposta di legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale presentata nel settembre 2013 e firmata da oltre 136.000 italiani. Nel frattempo, tante cose sono cambiate. La scossa data da vicende come quelle di Piergiorgio Welby, Beppino Englaro, Fabiano Antoniani, Davide Trentini hanno portato il Parlamento ad approvare la legge sull’interruzione delle terapie e il testamento biologico, e far muovere la giurisprudenza nel senso di un più ampio riconoscimento del diritto all’autodeterminazione. Ammalarsi fa parte della vita. Come guarire, morire, nascere, invecchiare, amare. Le buone leggi servono alla vita: per impedire che siano altri a decidere per noi. Chi chiede l’eutanasia o il suicidio assistito vuole solo morire con dignità, essere libero di scegliere, dall’inizio alla fine della propria vita. Si tratta solo di riconoscere un diritto umano. Le decisioni di fine vita sono decisioni personalissime e, in quanto tali, devono essere prese con la massima libertà dalla persona per sé stessa. In Italia, la Costituzione riconosce che nessuno può essere obbligato ad alcun trattamento sanitario contro la propria volontà e prevede altresì che la libertà personale è inviolabile. «Mi chiamo Davide, ho 52 anni – scriveva nell’aprile 2017, pochi giorni prima di morire – sono malato di sclerosi multipla dal 1993. […] Le ho provate proprio tutte. Ora da 1.92 sono diventato uno sgorbio con le gambe lunghe, gobbo fino quasi in terra, ma SOPRATTUTTO dolori lancinanti e insopportabili h24. Non ce la faccio proprio più senza nessuna prospettiva, ogni giorno sto sicuramente peggio del giorno prima, e dopo una lunghissima riflessione ho deciso di andare in Svizzera per il suicidio assistito (…). Spero tanto che l’Italia diventi un paese più civile, facendo finalmente una legge che permetta di porre fine a sofferenze enormi, senza fine, senza rimedio, a casa propria, vicino ai propri cari, senza dover andare all’estero, con tutte le difficoltà del caso, senza spese eccessive. (…) Tra poco partirò per la mia tanto sognata “vacanza”!!! Evviva». Davide non aveva i soldi per andare in Svizzera. Ma è tollerabile che il diritto a scegliere di morire senza soffrire dipenda dai soldi o dalla “tecnica” attraverso la quale una persona è tenuta in vita? Il Vaticano e il Papa non credono che tale diritto debba essere riconosciuto in nessun caso. Lo Stato italiano ha fatto dei passi avanti grazie alla Consulta. Noi però crediamo che il diritto alla libertà di scelta debba dipendere dalla valutazione che ciascun malato terminale può fare su quanto ritenga tollerabile la propria sofferenza ed accettabile la qualità della propria vita.
Elisabetta Reguitti per articolo21.org il 9 settembre 2020. Il requisito dei “trattamenti di sostegno vitale” “non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza “da una macchina”. E’ quanto scrive la Corte di Assise di Massa, nelle motivazioni della sentenza che ha portato, lo scorso 27 luglio, all’assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby dal reato di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini. Con un elemento determinante in più emerso dalla consulenza tecnica del dott. Mario Riccio specialista in anestesia e rianimazione tra i reparti dell’ospedale di Cremona e la sede di Casalmaggiore. E’ lo stesso Riccio – per Articolo21 – a spiegare come la sentenza Trentini abbia chiarito che per “forme di sostegno vitale – cioè l’espressione usata della Corte Costituzionale nel giudicare il caso DJFabo – non si deve intendere solamente le terapie più complesse o raffinate”. Tanto per chiarire: “ L’equivoco dipende dal fatto che l’opinione pubblica in questi anni ha sempre fatto riferimento ai casi storici quali Welby ( ventilazione meccanica ), Englaro ( nutrizione artificiale ), DJFabo ( entrambe ). Oppure – aggiunge Riccio – possiamo fare riferimento ai Testimoni di Geova e al rifiuto delle trasfusioni di sangue che può portare a morte. Siamo cioè portati a pensare che le uniche terapie salvavita siano quelle la cui interruzione portano a morte o in pochi minuti come nel caso di ventilazione o giorni senza nutrizione artificiale e sangue. La sentenza Trentini – conclude lo specialista – fa comprendere invece che la sospensione di molte terapie, pur non causando una morte immediata, può ugualmente determinare il lento e progressivo, talora anche doloroso, decadimento del soggetto fino alla morte”. Nelle motivazioni quindi è specificato come requisito “sia da intendersi qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici. Compresi nutrizione e idratazione artificiali”. Piena assoluzione perché “sussistono tutti i requisiti della scriminante configurata dalla sentenza 242 del 2019, incluso quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, il commento di Filomena Gallo legale segretario dell’Associazione Luca Coscioni, avvocato e coordinatrice nel collegio difensivo di Welby e Cappato. “La decisione – rincara inoltre la legale – aggiunge l’elemento prioritario che il trattamento di sostegno vitale è e “deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida”. Questa – ricorda – era infatti la situazione di Trentini, “sottoposto a una serie di trattamenti sanitari la cui interruzione avrebbe certamente portato al decesso, ma non nell’immediato”. Di seguito alcuni dei principali passaggi della sentenza appena depositata:
– una decisione che è pienamente conforme alla sentenza della Corte Costituzionale 242/2019, che ha creato una nuova causa di giustificazione in presenza della quale l’agevolazione del suicidio non è punibile (cfr. sent. pag. 24).
– “la dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina” “(…): il trattamento di sostegno vitale infatti, da intendersi, come emerge dalla sentenza n. 242 del 2019, in base alla legge n. 219 del 2017, si realizza con tutti quei “trattamenti in assenza dei quali si innesca quel processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte”.
– trattamento di sostegno vitale “deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida (…)
Suicidio assistito, assolti Cappato e Welby per la morte di Davide Trentini. Le Iene News il 27 luglio 2020. “Il fatto non sussiste”. Il tribunale di Massa ha assolto Marco Cappato e Mina Welby che erano accusati di istigazione e aiuto al suicidio del 53enne Davide Trentini, andato a morire in Svizzera. Con Giulio Golia vi abbiamo raccontato in onda la sua storia commovente in giugno. “Assolti perché il fatto non sussiste”. È questa la sentenza del Tribunale di Massa per Marco Cappato e Mina Welby, che erano accusati di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini, 53enne che ha scelto di porre fine alle sofferenze causate dalla sclerosi multipla andando a morire in Svizzera tre anni fa come vi abbiamo raccontato in onda in giugno con Giulio Golia nel servizio che vedete qui sopra. “La sentenza di oggi, nell'indifferenza del Parlamento, fa compiere un altro passo avanti verso un più ampio riconoscimento del diritto ad essere aiutati a morire”, hanno dichiarato Marco Cappato e Mina Welby. “La nostra azione di disobbedienza civile proseguirà fino a quando il Parlamento non avrà deciso sulla legge di iniziativa popolare per l'eutanasia legale che attende da 7 anni”. “Io sono serena”, aveva detto prima di entrare in aula Mina Welby questa mattina. “La scorsa notte ho pensato alla mamma di Davide Trentini, la mia battaglia è per lei”. Il pm Marco Mansi aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi per Welby e Cappato: “Chiedo la condanna, ma con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell'interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare". Con Giulio Golia vi abbiamo raccontato la storia di Davide e le sue ultime ore prima di morire. Marco Cappato e Mina Welby sono stati al suo fianco lottando per un fine vita davvero per tutti. “Mi chiamo Davide e sono qui in Svizzera per porre fine a tutti i miei dolori”. Questo suo messaggio è stato registrato la sera del 12 aprile 2017. La mattina dopo Davide Trentini, 53 anni, è morto lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Da 24 anni viveva con la sclerosi multipla: “Spero che anche un domani l’Italia che dice di essere un paese civile permetta ai malati come me di non fare un viaggio come ho fatto io che non riesco neanche più a muovermi”. Davide ha registrato un video poche ore prima di morire per documentare i suoi ultimi momenti, così che tutti potessimo capire la sua sofferenza. “Spero che presto i nostri politici si diano una regolata”, dice nel video. “Mi ha accompagnato qui Mina, la moglie di Piergiorgio Welby”, dice Davide nel suo messaggio registrato in Svizzera. Lei gli è stata accanto fino all’ultimo momento, mentre Marco Cappato ha aiutato a raccogliere i soldi per poter partire. Cappato si è poi è autodenunciato ai carabinieri portando al processo che si è concluso oggi.
Davide un anno prima del suo ultimo viaggio contatta Cappato via email. Conosce Mina Welby e insieme cercano una soluzione per lui perché il problema è anche economico. “Io non riesco a fare autonomamente niente. Neanche allacciarmi una scarpa, passo tutto il giorno a fare le stesse cose: in bagno, a fumare thc oppure sdraiato”, raccontava Davide. “Ho solamente dolori e basta, senza nessuna speranza di guarire. Sono sempre più frequenti e forti”. Quando finalmente viene fissata la data viene raggiunto da Mina Welby che ha seguito la battaglia per il diritto a morire del marito Piergiorgio. Insieme hanno fatto l’ultimo viaggio di Davide da Massa Carrara con destinazione Basilea.
Elisabetta Reguitti per articolo21.org il 31 luglio 2020. Nell’ultimo anno di vita il signor Davide Trentini era dipendente anche dalla funzione meccanica manuale evacuativa delle feci, in assenza della quale si sarebbe verosimilmente giunti ad un quadro occlusivo meccanico”. Prosegue il testo: “Il quadro clinico del signor Davide Trentini – nei suoi ultimi anni di vita – era particolarmente deteriorato e compromesso dalla malattia”. Termina con queste considerazioni la perizia medica stilata dal dott. Mario Riccio incaricato dai difensori di Marco Cappato e Mina Welby nel procedimento giudiziario sulla scelta di fine vita di Davide Trentini. Viene peraltro dettagliato come Trentini dipendesse “da due principali forme di sostegno vitale: farmacologico e meccanico. L’interruzione della terapia farmacologica in atto avrebbe infatti comportato sia uno scompenso cardio-circolatorio che un aggravamento della sintomatologia invalidante ed algica”. Pertanto “l’insieme del decadimento delle due componenti ne avrebbe notevolmente compromesso la sopravvivenza”. A chi, all’indomani della sentenza di assoluzione dei due imputati, si è schierato tra i “pro e i contro” denunciando addirittura come la Corte di assise di Massa “avesse addirittura travalicato i confini della sentenza emessa a settembre 2019 dalla Corte costituzionale” Riccio prima risponde: “Aspetto di leggere il dispositivo dei giudici ma ad oggi è ben chiaro il fatto di come non sia più necessario essere attaccati ad una macchina per poter esprimere la propria autodeterminazione in termini di scelta di fine vita”. Poi spiega come i giudici di Massa, anzi, si siano attenuti scrupolosamente ai quattro punti della consulta (patologia irreversibile, la propria volontà, sofferenze fisiche-psicologiche non tollerabili e capacità di prendere decisioni in modo autonomo). Abbiano cioè intenso nella maniera più completa ed estensiva quanto deciso dalla Corte costituzionale che peraltro non si era mai limitata ad indicare solo determinati trattamenti. Il medico poi ribadisce quanto già messo nero su bianco l’8 luglio scorso nella sua perizia in cui si leggono passaggi che con ogni probabilità sono stati determinanti per i togati che dopo soli 45 minuti di camera di Consiglio hanno stabilito la totale assoluzione per Welby e Cappato nel processo per la morte del 53enne affetto da Sla deceduto il 13 luglio 2017 in una clinica Svizzera. I primi sintomi della grave patologia – con la relativa diagnosi – avevano iniziato a manifestarsi nel 1993. “Il signor Davide Trentini era seguito da vari centri e negli anni eseguiva con scrupolo la terapia assegnatagli. Dalla documentazione fornitami e dai colloqui avuti con la madre risulta però che la condizione clinica si era notevolmente deteriorata negli ultimi anni. I dolori generalizzati erano divenuti di difficile controllo farmacologico, così come gli spasmi muscolari e le continue scosse, nonostante assumesse una importante terapia antispastica e antidolorifica che andremo ad esaminare più avanti nel dettaglio. A questo si aggiunga che il signor Davide Trentini aveva sviluppato negli anni un grave stato ipertensivo che lo rendeva dipendente da un farmaco antipertensivo (Carvedilolo) che viene utilizzato come prima scelta per prevenire scompensi cardiaci secondari ad un regime pressorio elevato. “Per il controllo del dolore e degli spasmi già assumeva –come dalla documentazione agli atti– la terapia che riassumo nel seguente schema (in grassetto il nome commerciale, in corsivo il nome della molecola) con una breve spiegazione dell’indicazione terapeutica:
Sativex= cannabinoide (cannabis ) serve a ridurre il dolore e la spasticità muscolare secondaria alla malattia;
Lioresal= baclofen in associazione al cannabinoide riduce la contrattura/spasticità della muscolatura secondaria alla malattia. L’insieme dei due farmaci (sativex+ lioresal) permette pertanto la mobilità del paziente che si traduce in maggiore autonomia, riduce inoltre il rischio di insufficienza respiratoria ed allontana il rischio della necessità di un supporto ventilatorio;
Lyrica= pregabalin serve anch’esso a ridurre il dolore dei nervi periferici tipici della patologia. Svolge inoltre una funzione di ansiolitico.
Nonostante tale regime terapeutico, il signor Davide Trentini nell’ultimo anno dovette ricorrere alle cure specifiche di un terapista del dolore, il dr. Vincenzo Mondello al tempo Responsabile della Struttura Semplice di Terapia del Dolore ed Hospice di Carrara. Stante l’ulteriore peggioramento delle condizioni cliniche ed in particolare della componente dolorifica, questi aggiunse alla terapia anche il farmaco Fentanil –analgesico oppioide di sintesi che rilascia un composto cento volte più potente della morfina- per via trans dermica, ovverossia in cerotto. Tale informazione –come i successivi elementi descrittivi clinico, evolutivi– pur non presente nella documentazione agli atti mi è stata fornita appunto dalla madre durante i nostri colloqui telefonici, come specificato in premessa. Nell’aprile del 2016 il signor Davide Trentini cade – evento tipico della patologia -, fratturandosi alcune coste. Il dr. Mondello decide quindi per un breve ricovero presso il proprio reparto Hospice. Alle dimissioni domiciliari il Trentini è sostanzialmente costretto a letto, in particolare gli viene fornito un letto di tipo ortopedico ospedaliero che gli permette di svolgere alcune funzioni nel corso della giornata. Ma i dolori lamentati dal signor Davide Trentini sono tali che il dr. Mondello è costretto ad incrementare il dosaggio dei cerotti di Fentanil fino ad una sostituzione quasi giornaliera degli stessi, invece che settimanale o al massimo bisettimanale come prassi terapeutica ordinaria. In occasione di una visita domiciliare la madre riferisce che –a fronte della persistente condizione di sofferenza del figlio– il dr. Mondello deve necessariamente spiegare al signor Davide Trentini che un ulteriore incremento del dosaggio avrebbe comportato l’arresto respiratorio e la morte quale conseguenza di un overdose del farmaco”. Mario Riccio è specialista in anestesia e rianimazioni all’ospedale di Cremona e alla Sua sede decentrata di Casalmaggiore. È reduce dal post Covid, che a Cremona ha colpito duro, accetta di parlare perché dice di “aver letto troppe semplificazioni sulla vicenda”. Ha accettato di parlare anche perché il suo auspicio personale, prima ancora che come medico è che “ora chi deciderà di legiferare – con Decreto come taluni giuristi addirittura chiedono o in via parlamentare – sia in grado di superare anche il concetto che la richiesta di morte medicalmente assistita sia subordinata ad un trattamento terapeutico”. Ciò che insomma aveva caratterizzato i casi Englaro, Welby e Dj Fabo non riguardava Trentini. Riccio di avvale addirittura dell’articolo 3 della Costituzione (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…) per spiegare ancora meglio: “Sulla base del concetto di autodeterminazione delle persona non può sussistere differenza tra rimane in vita grazie a supporti meccanici rispetto a chi lo è grazie a cure farmacologiche o azioni meccaniche anche manuali”. Nel caso di Davide infatti si legge come: “Trentini presentasse anche un ulteriore grave sintomo clinico legato alla sua specifica patologia. La progressiva paralisi della muscolatura intestinale rende sempre più difficile l’evacuazione delle feci (stipsi cronica). Negli ultimi anni la defecazione risultava sempre più difficoltosa. Nell’ultimo anno era necessario sottoporlo a regolari evacuazioni manuali per prevenire la formazioni di fecalomi e la conseguente occlusione intestinale meccanica. Il fecaloma è il risultato della persistenza delle feci nel tratto finale dell’apparato digerente (colon-retto). Le feci si compattano raggiungendo una consistenza tenace, inoltre la permanenza delle stesse nell’intestino favorisce il riassorbimento della componente idrica del fecaloma che lo rende ancor più duro e quindi ulteriormente difficile da essere espulso. Pertanto, è necessaria la evacuazione manuale. Se non si provvede manualmente – negli stati avanzati della patologia non trovano utilità alcuna gli ordinari farmaci lassativi o i semplici clisteri – il quadro evolve in una condizione di occlusione intestinale meccanica. L’intestino si gonfia fino a provocare due conseguenze letali: prima l’ischemia intestinale – dovuta alla pressione del fecaloma stesso sulle pareti – ed infine la conseguente rottura da scoppio del colon anche favorita dalla mancata fuoriuscita dei gas intestinali. Senza dimenticare la componente tossico – metabolica che consiste nell’inevitabile riassorbimento nell’organismo delle sostanze di rifiuto contenute nelle feci che stazionano nell’intestino, ad esempio – tra i vari fenomeni osservabili – la traslocazione batterica che può determinare una grave sepsi generalizzata. Sia l’ischemia intestinale che – ancor di più – la perforazione intestinale sono condizioni ovviamente incompatibili con la sopravvivenza”. Il dottor Riccio ribadisce quello che ritiene un concetto fondante e di civiltà: “Una legge sul fine vita rispetto ad un paziente affetto da una patologia degenerativa inguaribile che gli procura sofferenze fisiche o psicologiche dovrà superare il concetto che si debba dimostrare di quale sostegno vitale faccia utilizzo. Se la propria vita è un bene disponibile deve essere l’individuo a deciderne. Mi auguro che il legislatore tenga conto di tutto ciò”. I togati di Massa durante l’udienza hanno respinto la richiesta di rinvio – chiesta da pm Marco Mansi – del processo ai sensi dell’articolo 507 del codice di procedura penale per ammissione di nuove prove; nello specifico “di una nuova consulenza d’ufficio, o l’acquisizione di nuove testimonianze”. I giudici hanno impiegato oltre 2 ore a decidere di respingere la richiesta della Procura di rinvio. Quegli stessi giudici hanno impiegato 45 minuti per dichiarare l’assoluzione “perchè il fatto non costituisce reato” dall’accusa di aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini.
Eurispes: il 59,5% degli italiani dice "Sì" ai matrimoni gay. Ma solo il 42% è a favore delle adozioni. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da La Repubblica.it. L'eutanasia. Intanto continua a crescere in Italia il "partito" dei pro eutanasia, la cosiddetta "buona morte" consistente nella somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente: ben il 75,2% degli italiani si è espresso favorevolmente rispetto a tale pratica, attestando un forte incremento del consenso negli ultimi cinque anni (i favorevoli erano il 55,2% nel 2015). Nel 2020, con 6 punti percentuali in più rispetto al 2019, il 73,8% dei cittadini si dichiara favorevole al testamento biologico, quella norma che permette di redigere anticipatamente un documento con valore legale nel quale viene stabilito a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari dare o non dare il proprio consenso nel caso di una futura incapacità a decidere o a comunicare. Il suicidio assistito, invece (ovvero l'aiuto indiretto a morire da parte di un medico), trova gli italiani in maggioranza contrari (il 54,6% contro il 45,4% dei favorevoli). Ma i contrari nel 2016 arrivavano al 70,1%.
EUTANASIA - MORIRE CON DIGNITÀ - TRE ITALIANI SU QUATTRO SONO FAVOREVOLI ALL'EUTANASIA. Gabriele Martini per “la Stampa” il 17 luglio 2020. Tre italiani su quattro sono favorevoli all'eutanasia. E' quanto emerge da un'indagine Eurispes, che fotografa lo scollamento tra il paese reale e l'immobilismo della politica sul fine vita. La «buona morte» - consistente nella somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente - è una pratica ancora oggi illegale in Italia. Tuttavia ben il 75,2% degli intervistati si è espresso favorevolmente, attestando una forte ascesa del consenso negli ultimi cinque anni (la percentuale era del 55,2% di favorevoli nel 2015). La sensibilità degli italiani riguardo al tema sembra confermare un cambiamento degli orientamenti che si sta facendo strada nel nostro Paese, in linea con la posizione di altri Stati europei. Basti pensare alla svolta della Francia, dove l'eutanasia a domicilio sarà alla portata di tutti mediante la somministrazione di sedativi - ad opera degli stessi medici di base - che inducono il paziente in uno stato di sonno catatonico finché la morte non sopraggiunge. I numeri parlano chiaro e raccontano l'erosione di tabù culturali che per anni hanno caratterizzato la nostra società. Nel 2020, con sei punti percentuali in più rispetto al 2019, il 73,8% dei cittadini intervistati si dice favorevole al testamento biologico, vale a dire quella norma che permette di redigere anticipatamente un documento con valore legale nel quale viene stabilito a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari dare o non dare il proprio consenso nel caso di una futura incapacità a decidere o a comunicare. E anche sul suicido assistito, sebbene la maggioranza degli italiani rimanga contraria, si registra una sempre maggior apertura. «Che i cittadini italiani siano più aperti del ceto politico sui temi delle libertà civili non è una novità», commenta Marco Cappato. Che mette in guardia: «Ciò che accade su eutanasia e fine vita dovrebbe però destare particolare allarme per la condizione di marginalità nella quale versa il Parlamento italiano». «È facile ipotizzare che in un prossimo futuro si moltiplicheranno i casi nei quali la medicina sarà in grado di rinviare il momento estremo del malato terminale. Di conseguenza è importante, per il bene della società e il rispetto dei valori che ne sono alla base, trovare quanto prima una posizione normativa che possa soddisfare le diverse istanze», spiega Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Ma la classe politica italiana continua a eludere il problema. L'ultimatum della Corte Costituzionale rivolto al Parlamento nella vicenda di Dj Fabo è caduto nel vuoto. Nell'ottobre 2018 la Consulta invitò i partiti ad approvare una nuova legge, cosa che puntualmente non è accaduta. E così ora la parola torna ai giudici. Il 27 luglio sarà il Tribunale di Massa, nel silenzio della politica, a decidere se ampliare ulteriormente il diritto al suicidio assistito. La vicenda è quella di Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, che nell'aprile del 2017 decise di metter fine a quelle che lui stesso definiva «insopportabili sofferenze». La differenza con il caso di Dj Fabo è cruciale: il 53enne toscano non era tenuto in vita da macchinari. Sul banco degli imputati siedono Marco Cappato e Mina Welby, che accompagnarono Trentini a morire in una clinica svizzera. Rischiano fino 12 anni di carcere. In rete esiste un video che immortala Trentini sdraiato su un letto poche ore prima di morire. Spiega la sua scelta, guarda dritto in camera mentre si contorce dal dolore: «Auguro a tutti tanta serenità. E adesso, buonanotte ». Poi accenna a un sorriso.
Germania, depenalizzato il suicidio assistito anche per chi non è malato terminale. La Corte costituzionale tedesca ha decretato come incostituzionale una legge del 2015 che vieta il suicidio assistito "organizzato" da parte di medici o associazioni. Tonia Mastrobuoni il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. E’ una sentenza mozzafiato. Che riconosce a ognuno la libertà piena di decidere come morire. La Corte costituzionale tedesca ha depenalizzato il suicidio assistito. E il diritto a togliersi la vita riconosciuto dai giudici di Karlsruhe include la possibilità di farsi aiutare da terzi. Soprattutto: chi vuole morire, potrà farlo in ogni fase della vita, e non soltanto in presenza di una malattia incurabile. Andreas Vossruhle, presidente dei guardiani del Grundgesetz, ha precisato che “possiamo rammaricarci che qualcuno prenda una decisione del genere, possiamo fare qualsiasi cosa per fargli cambiare idea, ma in ultima analisi dobbiamo accettare la sua decisione”. La sentenza risponde al ricorso di alcuni medici e pazienti contro il paragrafo 217 del diritto penale che nel 2015 aveva introdotto il divieto al suicidio assistito. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la norma perché limita il diritto di decidere come morire. Un diritto che deve includere, questo il verdetto epocale dei giudici, anche la possibilità di togliersi la vita. Vosskuhle ha specificato che il legislatore potrà introdurre misure per prevenire il suicidio, ma che dovrà accettare il fatto che senza la possibilità di un aiuto esterno, il diritto al suicidio sarebbe limitato. D’altra parte, i giudici precisano che è un diritto e non un obbligo: dunque, nessun medico mai potrà essere costretto ad aiutare qualcuno a morire. "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".
Francesco De Remigis per “il Giornale”l'11 febbraio 2020. Fine vita a domicilio? In Francia si può e d' ora in poi sarà più facile. L' autorità nazionale per la salute (Has) ha infatti stabilito che la prescrizione di midazolam - il farmaco che provoca sedazione profonda e continua fino alla morte (SPCJD) - sarà meno macchinosa per i medici di base. I pazienti, in buona sostanza, potranno accedere al trattamento anche al di fuori degli ospedali. Eutanasia? Suicidio assistito? O una soluzione parziale ancora da verificare sul campo? «Non si tratta di provocare la morte (in casa, ndr), ma di mantenere la sedazione fino a quando il decorso naturale della malattia non porta al decesso», spiega il dottor Pierre Gabach, a capo del dipartimento di buone pratiche professionali dell' HAS, che ieri si è pronunciato dopo quattro anni di dibattito. Azione delicatissima: perché una dose eccessiva iniettata immediatamente può causare la morte. Al contrario, se il paziente mostra segni di miglioramento, è possibile tornare indietro interrompendo l' iniezione, chiarisce l' Alta autorità francese. Pubblicate ieri, le nuove raccomandazioni sul fine vita «in casa», ne facilitano evidentemente la prescrizione. Un balzo in avanti nella pratica, dopo l' acceso scontro in Francia sui recenti casi finiti in tribunale. Quello del tetraplegico Vincent Lambert, per esempio. Al di là dell' aspetto tecnico o di coscienza, l' Has dà la possibilità al medico di base di prescrivere midazolam, evitando passaggi che oggi ne limitano il ricorso al di fuori di ospedali o cliniche. «Dormire profondamente fino alla morte è un nuovo diritto», esulta il deputato Jean Leonetti, insieme ad Alain Claeys autore delle modifiche legislative sulla sedazione profonda votate nel 2016 dall' Assemblea nazionale. Finora, infatti, il medico non aveva accesso diretto al prodotto. Ora sarà a sua discrezione dopo consulto con colleghi e con la famiglia del malato. Le nuove raccomandazioni guidano quindi verso l' implementazione del diritto ad «andarsene» senza soffrire: l' alterazione profonda e continua della coscienza fino al decesso è già un diritto Oltralpe, ma ora si potrà ottenere dalla propria stanza. Di cosa si tratta? Un' iniezione che può far addormentare fino a tagliare i legami col mondo esterno. Se inefficace, possono essere utilizzati due antipsicotici: clorpromazina e levomepromazina. Già consentito dalla legge Claeys-Leonetti del febbraio 2016, il trattamento non aveva ancora un quadro preciso. Quattro anni dopo, ecco le procedure per l' attuazione, una sorta di guida. D' altronde i pazienti in fine vita nelle proprie case sono rari ma non eccezionali. E c' è chi teme casi di sedazione fai-da-te. «Immaginate un uomo che soffre di metastasi ossee o cancro alla prostata terribilmente doloroso. È sotto morfina in dosi che a volte fanno spaventare anche i farmacisti», esemplifica il medico generico Pierre-Louis Druais. La decisione di ieri mette i medici di base nelle condizioni di ottenere più facilmente questi farmaci, senza passare cioè dall' ospedale. L' Autorità nazionale francese per la salute (HAS) ricorda che la scelta di avviare il trattamento dev' essere "collegiale". Resta da sapere quale sarà la risposta del ministero della Salute. La legge consente già ai maggiorenni di registrare le direttive sul fine vita e sul rifiuto dell' accanimento terapeutico. Cosa succederà domani? Il 96% dei francesi si era già espresso a favore della sedazione quando a chiederla è il paziente. Il consenso scende all’88% se praticata su decisione del medico qualora il malato non possa esprimere volontà.
Fine vita: la storia di Davide Trentini morto solo in Svizzera. Le Iene News il 16 giugno 2020. Davide Trentini, 53 anni, è uno dei tanti italiani che è morto in Svizzera lontano dal suo Paese e dalla sua famiglia. Dal 1993 viveva con la sclerosi multipla che l’ha costretto a letto con dolori lancinanti e continui. Giulio Golia racconta la sua storia con Marco Cappato e Mina Welby che sono stati al suo fianco lottando per un fine vita davvero per tutti. “Mi chiamo Davide e sono qui in Svizzera per porre fine a tutti i miei dolori”. Questo messaggio è stato registrato la sera del 12 aprile 2017. La mattina dopo Davide Trentini, 53 anni, è morto lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Da 24 anni viveva con la sclerosi multipla. “Ho provato di tutto, niente è riuscito a far niente”, spiega Davide nel suo ultimo, commovente, video registrato poche ore prima di morire. L’ha fatto perché tutti noi potessimo capire e soprattutto per i parlamentari che da troppo tempo rimandano la discussione che riguarda la vita e la morte di centinaia di persone. Davide ha fatto documentare i suoi ultimi momenti e la sua battaglia con al suo fianco Marco Cappato e Mina Welby.
Fine vita: la battaglia di Davide Trentini e la morte in Svizzera. Le Iene News il 16 giugno 2020. Davide Trentini ha scelto di porre fine alle sofferenze causate dalla sclerosi multipla andando a morire in Svizzera. In un video ci racconta le sue ultime ore di vita. Giulio Golia ha parlato con Marco Cappato e Mina Welby che sono stati al suo fianco lottando per un fine vita davvero per tutti. “Mi chiamo Davide e sono qui in Svizzera per porre fine a tutti i miei dolori”. Questo messaggio è stato registrato la sera del 12 aprile 2017. La mattina dopo Davide Trentini, 53 anni, è morto lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Da 24 anni viveva con la sclerosi multipla. “Spero che anche un domani l’Italia che dice di essere un Paese civile permetta ai malati come me di non fare un viaggio come ho fatto io che non riesco neanche più a muovermi”, dice Davide. Ha registrato un videomessaggio poche ore prima di morire per documentare i suoi ultimi momenti perché tutti noi potessimo capire. “Spero che presto i nostri politici si diano una regolata”. Davide è l’ultimo della lunga serie di donne e uomini che hanno deciso di rendere pubblica questa loro storia in nome dei diritti dell’intera collettività. Tra loro c’è dj Fabo che abbiamo conosciuto tre anni fa con Giulio Golia (qui il servizio). “Mi ha accompagnato qui Mina, la moglie di Piergiorgio Welby”, dice Davide nel suo messaggio registrato in Svizzera. Lei le è stata accanto a lui fino all’ultimo momento mentre Marco Cappato l’ha aiutata a raccogliere i soldi per poter partire, poi si è autodenunciato ai carabinieri finendo a processo per aiuto al suicidio. Davide un anno prima del suo ultimo viaggio contatta Cappato via mail per chiedere un aiuto. Conosce Mina Welby e insieme cercano una soluzione per lui perché il problema era anche economico. “Io non riesco a fare autonomamente niente. Neanche allacciarmi una scarpa, passo tutto il giorno a fare le stesse cose: in bagno, a fumare Thc oppure sdraiato”, racconta Davide. “Ho solamente dolori e basta, senza nessuna speranza di guarire. Sono sempre più frequenti e forti”. Dice di aver provato tutti i tipi di farmaci per fermare la malattia ma nessuno ha dato l’esito sperato. “Quando mi sdraio ho dolori dalla punta dei piedi fino alla testa e non riesco più a sopportarli”. Quando finalmente viene fissata la data viene raggiunto da Mina Welby che ha seguito la battaglia per il diritto a morire del marito Piergiorgio. Insieme hanno fatto l’ultimo viaggio di Davide da Massa Carrara con destinazione Basilea. “Io sto sempre peggio, non ho più voglia di cadere ogni giorno”, racconta nel video della sua ultima notte. “Questo è inferno ed è troppo. La cosa principale è dolore, la parola dolore. Di notte mi svegliano in continuazione”. Davide viene ritenuto capace di intendere e di volere. “Ho seguito la storia di Fabo, l’ho invidiato alla fine”, racconta in quella sua ultima notte. “Perché lui era riuscito a venire fino a qua, io non ancora. Invece ora ce l’ho fatta anch’io!”. La mattina dopo chiedono a Davide se avesse avuto dei ripensamenti sulla sua decisione. Non ne ha avuti, i medici gli hanno preparato l’iniezione. “Gli hanno preparato la flebo, lui ha dovuto aprire il bottone perché per legge lo deve fare lui”, spiega Mina Welby. “Subito si è addormentato ed è andato via”. La storia di Davide non è come quella di dj Fabo: “Legalizzare o meno non è una questione ideologica, ma pratica”. Oggi sia Cappato che Mina Welby sono imputati per il reato di aiuto al suicidio. Grazie a dj Fabo con la sentenza della Corte costituzionale si è raggiunto un traguardo storico (leggi qui l'articolo). “Il reato non è punibile se la persona è affetta da patologia irreversibile, in una condizione di sofferenza insopportabile e decide lucidamente e consapevolmente di morire ed è tenuto in vita da trattamento di sostegno vitale”, spiega Cappato. Ma nonostante un’indicazione di legge chiara il processo sulla morte di Davide sta andando avanti. “Perché prendeva farmaci e aveva delle necessità come l’aiuto all’evacuazione delle feci”, aggiunge Cappato. Il prossimo 8 luglio i giudici di Massa si riuniranno per una nuova udienza e potrebbero emettere una sentenza. “Che cosa cambia se a una persona stacco la macchina o faccio un’iniezione letale? Niente se ha deciso di morire per sua scelta”, commenta Cappato. “L’ambiguità è la conseguenza diretta dell’inerzia del Parlamento e della politica. Sette anni fa, abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare. Il Parlamento è libero di dire che non è d’accordo, ma si prendesse la responsabilità di discutere e decidere senza nascondersi dietro i giudici della Corte costituzionale”. “Mi riposerò, senza dolore. Questo è l’importante per me. Auguro a tutti tanta salute e tanta serenità”. Con queste ultime parole Davide ha raggiunta quella serenità sperata da 24 anni.
Il comitato bioetico: «No all’accanimento clinico sui bimbi senza speranze di vita». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Nei confronti di bambini piccoli con limitate aspettative di vita vanno evitati «l’accanimento» e «percorsi clinici inefficaci e sproporzionati», tali da «arrecare al paziente ulteriori sofferenze e un prolungamento precario e penoso della vita senza ulteriori benefici». Lo afferma il Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) in una mozione approvata oggi, sottolineando come l’accanimento clinico «è spesso praticato, per quanto riguarda i bambini piccoli, solo per accondiscendere alle richieste dei genitori o per rispondere a criteri di medicina difensiva». Il documento affronta un tema delicato e doloroso per le famiglie dei piccoli pazienti. Gli estensori del documento parlano di «accanimento clinico »: riguarda «trattamenti che si presumono inefficaci in relazione...al miglioramento di qualità della vita». Ma in questo caso la tenera età dei pazienti non consente di valutarne la volontà, le reazioni: «I bambini piccoli non possono esprimersi in modo autonomo nè sono in gradoi di comunicare la percezione del dolore e della sofferenza». la riflessione va dunque fatta - secondo il comitato - di comune accordo tra medici e genitori tenendo conto del «beneficio complessivo». «L’accanimento clinico è spesso praticato - ecco un passo del documento - perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile, senza lasciare nulla di intentato, per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze. Altre volte, invece, l’accanimento clinico viene praticato in modo consapevole, come difesa da possibili accuse di omissione di soccorso o di interruzione attiva delle cure o dei trattamenti di sostegno». Premettendo che ogni situazione deve essere affrontava caso per caso, il comitato bioetico individua alcune linee guida da tenere in caso di bambini colpiti da malattie incurabili. «Il criterio ispiratore è il superiore interesse del bambino... e deve essere definito a partire dalla condizione clinica contingente, unitamente alla considerazione del dolore e della sofferenza (per quanto sia possibile misurarli), e del rispetto della sua dignità, escludendo ogni valutazione in termini di costi economici». L’obiettivo è evitare percorsi clinici definiti «sproporzionati solo per accondiscendere alle richieste dei genitori». Tra le altre misure suggerite ci sono una legge che renda operativi i comitati per l’etica clinica negli ospedali pediatrici, la partecipazione di persone di fiducia delle famiglie nei processi decisionali, la possibilità di un «appello», di una seconda decisione da affidare a figure scientificamente autorevoli, prevedere il ricorso alla magistratura solo cme «extrema ratio», garantire cure palliative a domicilio.Il sofferto parere del comitato bioetico italiano non fa riferimento ad alcun caso specifico ma ricorda la sentenza della Suprema Corte inglese che nel 2017 impose di «staccare la spina» nei confronti del piccolo Charlie Gard, affetto da una rara malattia encefalica . Anche in quel caso i giudici britannici impostarono la decisione sul «best child interest», cioè il supremo interesse del bambino, al quale non dovevano essere inflitte inutili sofferenze.
Bioetica, bambini terminali: "No a cure inutili solo perché chieste dai genitori". Il parere del comitato nazionale: "Spesso accanimento terapeutico per non finire sotto accusa". In caso di disaccordo tra parenti e medici deciderà un giudice. "Potenziare la ricerca sul loro dolore". Caterina Pasolini il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Bambini senza speranza, senza possibilità di futuro sono spesso intubati, sottoposti a cure dolorose e inutili, che non porteranno alla salvezza ma a moltiplicare i giorni di sofferenza. Piccoli sottoposti ad accanimento terapeutico "solo per accondiscendere alle richieste dei genitori", disperati all'idea di perdere il figlio, incapaci di accettare un' ipotesi cosi impensabile, innaturale, o perché i medici temono di ritrovarsi un giorno accusati dai parenti, sospettati di non aver fatto il massimo possibile per salvare quel neonato. In difesa dei più piccoli, che non hanno parole per decidere o dire la loro sofferenza, interviene il Comitato nazionale di Bioetica con un parere appena approvato. Pagine complesse che parlano del dolore di bambini senza futuro, di genitori disperati, di medici impegnati nella lotta contro il male. Bilanciamenti difficili e cercati per trovare un'alleanza, un accordo, un aiuto reciproco nell'interesse dei bambini, di chi non può scegliere né difendersi dal dolore o dall'accanimento deciso dai grandi per amore o per paura. Un parere importante perché parlare di fine vita di neonati o bambini divide l'opinione pubblica, come si è visto nei mesi scorsi sul caso di Charlie Gard, il bambino inglese colpito da una rara malattia genetica e tenuto in vita artificialmente sin dalla nascita. O di Alfie Evans, bimbo di 23 mesi in cura a Liverpool per una gravissima patologia cerebrale i cui genitori si erano opposti al distacco delle macchine, autorizzato dai giudici, chiedendo inutilmente di trasferirlo al Bambin Gesù a Roma. "Nei confronti di bambini piccoli con limitate aspettative di vita vanno evitati "l'accanimento" e "percorsi clinici inefficaci e sproporzionati", tali da provocare "ulteriori sofferenze e un prolungamento precario e penoso della vita senza ulteriori benefici", scrive il professor Lorenzo d'Avack, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) nel parere appena approvato dopo lunghe audizioni di specialisti, pediatri, neonatologi che hanno raccontato, testimoniato la loro esperienza in corsia, nei reparti di rianimazione.
Il testo del parere. Così "per quanto riguarda i bambini piccoli va riconosciuto che nella prassi l’accanimento clinico è spesso praticato perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze. Altre volte, invece, l’accanimento clinico viene praticato in modo consapevole, come difesa da possibili accuse di omissione di soccorso o di interruzione attiva delle cure o dei trattamenti di sostegno. Così queste pratiche cliniche vengono prestate principalmente non per assicurare la salute e il bene del paziente, ma come forma di tutela e di garanzia delle proprie responsabilità medico-legali relative all’attività svolta", scrive Il Comitato. Vista la situazione, il Comitato raccomanda che "iI superiore interesse del bambino sia il criterio ispiratore nella situazione e deve essere definito a partire dalla condizione clinica, unitamente alla considerazione del dolore e della sofferenza e del rispetto della sua dignità, escludendo ogni valutazione in termini di costi economici. Si deve evitare che i medici si immettano in percorsi clinici inefficaci e sproporzionati solo per accondiscendere alle richieste dei genitori e/o per rispondere a criteri di medicina difensiva". Chiede poi di istituire attraverso una legge nazionale e rendere operativi i comitati per l’etica clinica negli ospedali pediatrici con ruolo consultivo e formativo, così da favorire la valutazione della complessità di tali decisioni e cercare una mediazione di controversie emergenti tra medici e genitori che potranno chiedere un secondo parere medico. Tali comitati etici dovranno essere interdisciplinari, composti da medici pediatri, specialisti degli ambiti medici oggetto di analisi, infermieri, e figure non sanitarie quali bioeticisti e biogiuristi. In casi estremi il Comitato chiede di prevedere il ricorso ai giudici se il disaccordo tra medici e familiari è insanabile, ma chiede anche di creare un nucleo di professionisti in grado di sostenere i genitori sul piano emotivo e pratico (assistenti sociali, psicologi, esperti di bioetica, associazioni delle famiglie, associazioni di volontariato) e accompagnarli nel difficile percorso, dato dalle condizioni di malattia del bambino. Sempre pensando al bene dei più piccoli il Cnb chiede di garantire cure pallliative, ospedaliere ospedaliere e a domicilio, in modo omogeneo in tutto il paese, "su questo siamo ancora molto carenti, in molte regioni non ci sono proprio nonostante la legge sia del 2010 e sia una legge molto buona" sottolinea il professor D'Avack. Le raccomandazioni del Comitato chiedono così di potenziare la ricerca sul dolore e sulla sofferenza nei bambini, e di evitare che il piccolo, a maggior ragione con prognosi infausta a breve termine, sia considerato un mero oggetto di sperimentazione e ricerca da parte dei medici. "Troppo forte il rischio davanti a casi disperati si rivolegersi a chiunque, a stregoni pur di aver un briciolo di speranza che la scienza nega", ricordando però sempre che in qualsiasi caso, "il divieto di ostinazione irragionevole dei trattamenti" non deve tradursi "nell'abbandono del bambino" che ha invece a diritto a "cure palliative in modo omogeneo sul territorio".
· Il cervello è l’ultimo a morire.
Il cervello non smette di "sentire": cosa succede in punto di morte. Lo studio, pubblicato sulla rivista "Scientific Reports", è stato condotto dai ricercatori dell'università della British Columbia. Maria Girardi, Giovedì 09/07/2020 su Il Giornale. Per gli antichi Greci l'uomo era un essere mortale e, in quanto tale, doveva vivere la morte. Il concetto di limite si sgretolava per accogliere in sé una nuova concezione. Non più impedimento, dunque, ma riscoperta delle proprie potenzialità. Non a caso Socrate consigliava di non perdere tempo in vani passatempi, era bene invece indirizzare la concentrazione verso tutto ciò che si era realmente in grado di compiere. Per i Romani la dipartita veniva considerata impura, al momento del decesso di un congiunto i familiari si occupavano della sepoltura e della purificazione della famiglia stessa. Da sempre il pensiero del trapasso si è acquattato in penombra nell'animo degli esseri umani, suscitando curiosità e al contempo angoscia. Cosa accade al cervello negli ultimi istanti che precedono la morte? A questa domanda hanno cercato di rispondere alcuni ricercatori (guidati da Elizabeth Blundon) dell'università della British Columbia, giungendo alla conclusione che anche quando la fine è prossima e non si risponde più ad alcuno stimolo, il cervello continua a sentire le parole e i suoni che giungono dall'esterno. L'udito sarebbe così l'ultimo dei cinque sensi a spegnersi. Lo studio, pubblicato sulla rivista “Scientific Reports”, è stato condotto sui malati di un hospice di Vancouver sia nel momento in cui erano ancora coscienti, sia quando non lo erano più. Tramite elettroencefalogramma, gli scienziati hanno confrontato i dati di questi pazienti con quelli di soggetti sani. Dagli stessi è emerso che un cervello morente possiede la capacità di rispondere al suono, anche in uno stato di incoscienza, fino alle ultime ore di vita. Ciò ha dell'incredibile se si pensa che nel breve periodo che precede la dipartita, molti individui entrano in una fase di non responsività. La risposta del cervello monitorata con l'elettroencefalogramma ha rivelato che alcuni soggetti, anche a poche ore dal trapasso, rispondevano in maniera simile a quelli giovani e sani. Secondo uno dei ricercatori, Lawrence Ward, si sono potuti identificare degli specifici processi cognitivi in entrambi i gruppi sottoposti a sperimentazione. La scoperta avvalora quanto è stato già rilevato nell'esperienza professionale di medici e infermieri di hospice, ovvero che i suoni e le voci delle persone amate offrono conforto a chi sta esalando gli ultimi respiri. Tuttavia gli studiosi sono cauti. Non sono stati, infatti, in grado di confermare se i morenti comprendono ciò che sentono. Conclude Gallagher, un altro ricercatore: "Non possiamo sapere se stanno ricordando, identificando la voce o capendo il linguaggio pur rispondendo allo stimolo uditivo. L'idea però è che dobbiamo continuare a parlare alla gente quando sta morendo perché qualcosa accade nel loro cervello".
· Effimeri. Dimmi come muori e ti dirò chi sei.
I frammenti sono tratti da “Il mio gatto mi mangerà gli occhi? E altre grandi domande sulla morte” di Caitlin Doughty, edito da Il Saggiatore. Giorgio Dell’Arti per “la Repubblica”. Risposta alla domanda del libro: no, il gatto rimasto solo in casa col cadavere del suo padrone o della sua padrona comincerà dalle parti più morbide. Palpebre, labbra, lingua. Gli occhi, solo dopo.
Carne umana. Numero di calorie fornite da un corpo umano: 125.822, di gran lunga inferiore a quello di altre carni rosse, tipo manzo o cinghiale (calcolo eseguito nel 1946 e nel 1956 da due ricercatori su quattro salme di maschi adulti).
Cannibali. I Neanderthal e gli Erectus, cannibali per ragioni rituali e non dietetiche.
Ceneri. Le ceneri di una donna pesano in media due chili. Quelle di un uomo, tre.
Cannibalismo. Negli Stati Uniti nessuna legge vieta di mangiare carne umana. Però è illegale venderla o comprarla (vilipendio di cadavere, ecc.)
Ore. «Nessun uomo è veramente morto nelle prime ore dopo la morte» (V.N. Shamov, chirurgo sovietico).
Trapianti. Un cuore conservato nel ghiaccio può essere trapiantato ancora quattro ore dopo la morte. Un fegato, dieci. Un rene in forma resiste ventiquattr' ore e a volte persino settantadue, se i dottori usano la strumentazione adeguata. Se la morte è stata improvvisa e la persona era in buona salute, il sangue resta utilizzabile per una trasfusione per sei ore.
Volo. Il problema della morte in volo. Nel 2004 la Singapore Airlines installò sui suoi Airbus A340, in una posizione invisibile ai passeggeri, 500 armadietti per cadaveri, nel caso di morti durante il viaggio. Per la morte di un astronauta (mai accaduto, i diciotto astronauti che hanno perso finora la vita sono sempre rimasti vittime di incidenti e i loro corpi sono stati recuperati sulla Terra in diverse condizioni di integrità) la Nasa ha previsto una procedura di cremazione a bordo, detta Body Back: si infila la salma in una borsa di Gore-Tex a tenuta stagna, poi si sistema la borsa nella camera d' equilibrio dello Shuttle. Qui il corpo viene congelato a meno 270 gradi. Dopo un' ora, un braccio robotico riporta la borsa dentro lo Shuttle e la scuote per quindici minuti, facendo a pezzi il cadavere. I pezzi vengono disidratati e si ottengono così 22 chili di polvere essiccata, che può essere conservata per anni e che una volta tornati a Terra sarà riconsegnata ai familiari.
Uccelli. Solo negli Stati Uniti, i gatti uccidono fino a 3,7 miliardi di uccelli l' anno.
Teschi. Tra il 2012 e il 2013 eBay mise in vendita 454 teschi umani e li piazzò al prezzo medio di 648,63 dollari. In seguito il sito ha vietato questo commercio.
Giappone. Il Giappone ha il tasso più alto di cremazioni al mondo.
Cremazione. Dopo la cremazione di un corpo, i giapponesi lasciano raffreddare le ossa e le dispongono davanti alla famiglia del morto. Mediante certe bacchette bianche, i familiari raccolgono queste ossa, partendo dai piedi e risalendo fino al capo, in modo che il loro caro non debba passare il resto dell' eternità a testa in giù. Poi le depositano in un' urna.
Case. Negli Stati Uniti chi vende una casa deve dichiarare, al momento del contratto, se in quella casa negli ultimi tre anni è morto qualcuno.
Dispersi. Corpi di soldati americani ancora dispersi nel mondo: 73 mila. Di cui settemila nella guerra di Corea.
Soldati. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, il governo degli Stati Uniti spedì un questionario a tutte le famiglie dei soldati uccisi per sapere che cosa preferivano per i loro cari. Ne seguì che 46 mila soldati furono riportati in patria e 30 mila furono sepolti nei cimiteri militari in Europa. Il presidente Theodore Roosevelt volle che i resti di suo figlio, un pilota militare, restassero in Germania.
La lezione di Tolstoj, bisogna riconoscere il male e non attribuirlo agli altri. Filippo La Porta su Il Riformista il 4 Novembre 2020. Ieri ho preso dallo scaffale il libro più bello che sia mai stato scritto sulla morte: La morte di Ivan Il’ič (1886) di Tolstoj. Un racconto lungo, o romanzo breve, di straordinaria concentrazione e tensione (per gli amanti del pop, è il libro che in una puntata dei Simpson Lisa acquista in libreria). Ripassiamone la trama. Ivan Il’ič è un membro della Corte d’Appello, con un potere immenso (può mandare in rovina qualsiasi persona). Sposato con due figli, ha ottenuto da poco un’importante promozione e decide così di trasferirsi con la famiglia a San Pietroburgo, in una casa che lui personalmente vorrà arredare con oggetti di lusso presi qua e là. Di carattere gioviale, magistrato equilibrato, buon giocatore di carte, dal giorno della laurea studia da alto funzionario: «il suo dovere era tutto ciò che le persone altolocate ritenevano tale». Con la moglie, capricciosa, nevrotica, ha rapporti burrascosi, ma tutto si ricompone nel tran-tran quotidiano. I figli restano sullo sfondo. Un giorno, per fare una banale manovra fisica in casa, urta con l’anca uno spigolo. Da quel momento si insinua in lui un dolore sordo, logorante, persistente, ineliminabile. Tutto precipita in poche settimane (ha 45 anni). Scopre di avere un cancro all’intestino cieco (anche se Tolstoj non ci dice mai qual è la malattia). I medici minimizzano, così come gli amici, annoiati dal suo perdurante malessere e dai suoi continui lamenti. Viene poco a poco invaso dal terrore. Sa bene che gli uomini sono mortali, ma lui, chissà perché, in fondo era convinto di esserne esentato, con i suoi indelebili ricordi di infanzia, i suoi giocattoli, l’odore della palla di cuoio, i dolci, il bacio alla mano della mamma… Com’è possibile che tutto ciò svanisca? Qui Tolstoj ci ricorda che nessuno riesce davvero a immaginarsi la propria morte: la vita non capisce la morte, le resta estranea. Poi conclude che se c’è la morte – come unico fatto reale, e essa è “la sola verità” – allora tutto il resto sparisce, si svuota, si delegittima, viene ridotto a ricordo o a illusione. Poi ancora di fronte a quell’evento, indubitabilmente certo, Ivan Il’ič, chiamato vezzosamente Jean dalla moglie, passa in rassegna la propria esistenza e la scopre fondata sulla menzogna, sull’ipocrisia, su false sicurezze. Interamente “fuori strada”. Il terrore della morte è il terrore di una vita vissuta come già morta, vissuta come assurdo e nonsenso. Non sopporta la vicinanza di nessuno, tranne che del giovane servo, il mugik Gherasim – schietto, servizievole, dotato di brio della vita e semplice pietas -, che gli sorregge le gambe dandogli sollievo. Quell’azione spontanea, gratuita, di carità individuale – fatta non perché Ivan Ilic è il suo padrone, ma perché è un essere malato, morente e come tutti dovrà morire – non potrà essere verosimilmente sostituita in nessuna società ideale dal più efficiente Welfare. Prima di morire, dopo giorni di grida, di dolori atroci (che faranno dubitare della esistenza di Dio) Ivan Ilic proprio negli ultimi istanti avrà come un momento di luce – «in fondo al buio si illuminò qualcosa» – nel quale la morte stessa si è ritirata: sorprendentemente “non c’è più”. Cosa ricavare oggi dal racconto di Tolstoj? I suoi significati sono inesauribili. Mi limito solo a un paio di sottolineature. Da una parte c’è la denuncia del cinismo, dell’indifferenza generalizzata. Il racconto si apre quando tutto è già successo. Arriva la notizia della morte di Ivan Il’ič: la prima reazione di amici e colleghi è “almeno è capitata a lui non a me” e, appena dopo, “può favorire un mio avanzamento di carriera?”. La moglie stessa si ingegna subito a prenderne la migliore pensione. Voi direte: umano, troppo umano. D’accordo. Infine: una possibile luce interviene per lui solo dopo che ha realizzato tutta l’impostura della propria biografia. E allora: pensiamo che Tolstoj è così moralista da ritenere che si dia una esistenza aliena da ogni menzogna, una esistenza utopica vissuta nella piena trasparenza della verità, o anche una società in cui la morte di un conoscente non possa trasmetterci anche un po’ di sollievo, perché io almeno gli sono sopravvissuto? No, come ogni credente Tolstoj pensava che a causa del peccato originale è impossibile estirpare dal cuore umano la bassezza, l’abiezione, l’egoismo, la recita dei ruoli sociali (io, come non credente, penso lo stesso). Ogni uomo di fronte all’estremo varco si trova come Ivan Il’ič, e come lui ripensa a quanti ha ingannato e imbrogliato e avvelenato. Ma allora qual è la differenza, il salto che potrebbe assecondare quel bagliore di luce un attimo prima della fine? Non tanto pretendere di eliminare il male quanto guardarlo in faccia lucidamente, riconoscerlo, non attribuirlo agli altri, non cercare alibi. E al tempo stesso sapere che il male è la parte non il tutto. Non è l’unica verità. Che se c’è la morte non perciò tutto il resto viene equiparato a sogno, fantasma e illusione. Anzi potrebbe darsi che la morte stessa si riveli essere – in un ultimo colpo di scena – una illusione, non più consistente di altre, fatta della stessa sostanza dei sogni.
Gli amortali di Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera lunedì 2 novembre 2020. I morti hanno a che fare con i vivi: l’ho imparato sin da bambino. Nella notte tra l’1 e il 2 novembre, nella mia Palermo, la tradizione voleva che fossero i defunti a portare regali, tra questi i caratteristici «pupi di zucchero». Poi nel multicolore freddo autunnale si andava al cimitero. I Greci lo chiamavano necropoli, città dei morti, convinti che dopo la morte diventiamo ombre che si aggirano in una incolore e triste imitazione della vita. Opponevano quindi la solidità delle case-tomba all’oblio: la pietra, fissando il nome, consentiva all’individuo di non sparire del tutto. In fondo erano loro ad aver dato agli uomini il nome del loro destino: «i mortali». Sapere di essere tali era l’origine dell’amore per la vita e quindi della creatività della cultura, che è infatti ciò che l’uomo di ogni epoca oppone alla morte. La morte ci costringe a definire ciò che per noi ha veramente valore. Per loro la morte era anonimato e oblio, e strappare un individuo a queste forze era strapparlo alla morte: l’eroe la sconfiggeva facendosi un nome eterno. Meglio una vita breve ma memorabile che lunga e anonima: in questa scelta c’è tutta la storia greca da Achille ad Alessandro Magno. Poi arrivarono i cristiani e preferirono la parola «cimiteri», perché il cadavere era solo la scorza di un seme nato a nuova vita. Cimitero significa infatti giaciglio come la terra è il letto del seme: la morte è solo il passaggio dal seme al germoglio. Ogni sera noi «moriamo» un poco mettendoci orizzontali, ma è una morte che porta la vita attraverso il riposo. D’altronde erano stati proprio i cristiani a cambiare il modo di indicare gli uomini, tra loro si chiamavano «i viventi», non più i mortali. Sapevano che c’era la morte, ma era solo un «sonno». Anche per la cultura cristiana l’esistenza acquisiva così pieno slancio, perché era il luogo e il tempo in cui la Vita che non muore germoglia in chiunque voglia accoglierla: «Sono venuto perché gli uomini abbiano la vita e la abbiano in abbondanza» dice Cristo. Se l’eroe antico mostra ciò che l’uomo può fare con le sue forze, il santo (l’eroe cristiano) mostra ciò che Dio può fare nell’uomo. In entrambe le visioni, pagana e cristiana, la morte è così presente che genera un effetto creativo e propositivo sulla vita terrena: passione, ricerca, impegno... I «mortali» per guadagnare l’immortalità, i «viventi» per riceverla in dono. E noi oggi che rapporto abbiamo con i morti e quindi con la morte? Ci sono rimasti Halloween e gli zombie dei film, perché abbiamo scelto di considerare la morte la debolezza di un’umanità arcaica e immatura. Per noi progrediti la morte non esiste più. Ma che riflesso ha questo sulla vita? Siamo cresciuti in una cultura di soddisfazione del desiderio ed ebbrezza tecnica senza precedenti. Ci sentiamo liberi: ciò che è permesso e ciò che è possibile non hanno o non avranno presto più confini, libertà e progresso sono per noi un tutt’uno. Poi, all’improvviso arriva il virus, e l’illusione si sgretola: la morte torna reale, vicina, e la paura ha il sopravvento sulla razionalità e l’azione.
La parola paura ha la stessa radice di pavimento. Paveo (in latino: ho paura, da cui pavido e impavido) in origine indicava «l’esser percossi». La paura colpisce il corpo come i passi il suolo. Amo questa strana e antica parentela tra paura e pavimento: il timore ci costringe a puntare i piedi e scoprire su cosa abbiamo costruito. La paura sta mettendo alla prova le fondamenta del nostro vivere: il pavimento della nostra vita. Se camminavamo sulle sabbie mobili affonderemo, ma dalle sabbie mobili si esce aggrappandosi a un elemento esterno e stabile. Il virus ci sta obbligando a cercarlo, ricordandoci che la morte c’è ancora e che la soddisfazione di ogni desiderio unita al progresso senza limiti non bastano per essere felici. La rimozione della morte ci ha reso come bambini che vanno incontro a prese elettriche e finestre aperte come fossero divertimenti. Abbiamo deciso di far finta che la morte non esista: l’abbiamo rimossa dal nostro vissuto quotidiano. Ulisse, Enea, Dante per trovare/tornare a casa devono prima incontrare i morti. Noi i morti li abbiamo fatti sparire. Ma la morte resta lì, limite invalicabile della vita e suo paradossale appello. Senza la consapevolezza e l’accettazione della morte, che crediamo o no nell’aldilà, non si può essere innamorati della vita: l’uomo crea, ri-crea e pro-crea per non morire. L’uomo «a-mortale» di oggi invece spesso «de-crea», cerca la sicurezza, rischia ben poco e quindi non evoca le energie che moltiplicano la vita, che è per lui un oggetto fragilissimo da proteggere da ogni «colpo», da ogni «paura». Ma così si perde il gusto di vivere, perché la vita non è un oggetto ma la ricerca che i vivi conducono per trovare un antidoto alla morte: che cosa è più forte della morte? Essere a-mortali impedisce di trovare la risposta, perché tutto il coraggio per vivere dipende dal saper morire.
Non si può vivere per sempre. O forse sì. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud l'1 novembre 2020. È una domanda che si è posto perfino Freddie Mercury: “who wants to live forever?”, chi vuole vivere per sempre? Appartiene a quella lunga e fortunata serie di domande retoriche che, un po’ come i gas nobili, non hanno bisogno di mescolarsi ad altre domande né alle svariate possibili risposte, per poter essere valide e considerate. Il loro fascino sta nella sospensione creata tra la prospettiva di una risposta e un’altra. E noi utenti dei social, ad ogni modo, sospesi non ci rimarremo. Non a lungo, perlomeno: chi è alla ricerca dell’immortalità dovrebbe iscriversi a Facebook, dal momento che negli ultimi anni Mark Zuckerberg ha inserito nel social la possibilità di nominare degli account “eredi”, ovvero persone di nostra conoscenza a cui possiamo delegare il potere di gestione dei nostri account social una volta che avremo lasciato questa terra. Zuckerberg allarga di qualche centimetro il famoso “cerchio della vita”, consentendoci quindi di rimanere nel popolo social anche qualora fisicamente non saremo più in grado di parteciparvi attivamente. Questo si verifica nel momento in cui un account diventa “commemorativo”, cioè assume la forma di una sorta di “reliquia digitale” dopo che un utente è defunto. L’account non viene quindi cancellato, ma lasciato esattamente dov’è e con la possibilità, per amici e seguaci, di continuare a postare elementi e saluti sulla sua bacheca: un modo tutto sommato efficace per ingannare dolcemente la mente di chi avverte i morsi della nostalgia, creando l’innocua illusione dell’equazione “account attivo uguale vita”. Impariamo però che spesso il filo che separa l’immortalità come dono dall’immortalità come condanna è fin troppo sottile e perennemente teso, col costante pericolo che si sfilacci da un momento all’altro e trascini con sé conseguenze disastrose. E se da un lato Facebook ci conferisce la possibilità di non essere tagliati fuori da una realtà, quella digitale, che ci rende partecipi a tutti gli effetti di uno scenario multiforme in cui esprimerci, dall’altro spesso lo fa anche senza il nostro consenso. È il caso, ad esempio, del revenge porn e di tutti gli scomodi e pericolosi episodi in cui un contenuto particolarmente privato o sensibile viene pubblicato senza il consenso del proprietario. Come nella tristemente famosa vicenda di Tiziana Cantone, giovane donna morta suicida nel 2016 a causa della diffusione di alcuni video hard che la vedevano protagonista, tutto ciò che pubblichiamo online è potenzialmente virale. Questo significa che una volta che il contenuto in questione prenderà a circolare troppo in fretta, rintracciarlo e bloccarne il corso sarà come pretendere di svuotare il mare con un bicchiere. Uno dei tanti modi che il web ha per ricordarci che non sempre l’immortalità è un qualcosa che ci appartiene, che a volte non siamo noi a diventare immortali ma siamo semplicemente uno strumento attraverso il quale l’immortalità si spiega. E purtroppo non sempre ciò si traduce in gloria e ricordi felici. Del resto, si sa fin dai tempi di Omero che l’immortalità rischia di diventare una fregatura. Achille non perì a causa del tallone scoperto, ma del fatto che ne dimenticò l’esistenza: chi non proteggerebbe costantemente l’unica parte di sé che congiunge la propria vita agli Inferi, per ritardare il più possibile il loro incontro? Forse il segreto non è rincorrere l’immortalità, ma aspirare a una mortalità gloriosa, valevole, che abbia un senso. Forse il senso non è esistere per sempre, ma riuscire in qualche modo a vivere per sempre, che è ben diverso perché esistere, a lungo andare, finisce col comportare una mera staticità; vivere è dinamismo, anche quando lo si esprime attraverso un ricordo. Viva le date di scadenza, quindi, che ci spingono a consumare i prodotti prima che si deteriorino. Viva l’instabilità dell’equilibrista, perché dal bilanciamento derivano la buona riuscita del suo spettacolo e gli applausi del pubblico. E viva anche l’incertezza, l’incompiutezza e l’imperfezione, unici motori del miglioramento e della ricerca: probabilmente il senso dell’immortalità sta in quello che ci capita mentre lavoriamo per raggiungerla. Un biglietto di scuse per Caronte, quindi: il passaggio dall’altro lato dell’Acheronte dovrà aspettare ancora un po’.
Da Pavese a Woolf, la riflessione sugli scrittori che hanno scritto la loro ultima pagina. Marica Fantauzzi su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. La storia con la quale inizia questo libro, dice Susanna Schimperna, è in realtà la venticinquesima. Ovvero l’ultima in ordine di tempo. Si sarebbe potuta fermare prima, dopo tutto aveva raccolto già ventiquattro storie di scrittori morti suicidi e, del resto, non aveva mai sentito parlare di questo Eros Alesi. Ragazzo romano, che ha vissuto i suoi vent’anni nel pieno della contestazione degli anni 60 e 70, come uno dei protagonisti del movimento beat italiano mentre scriveva versi. Dopo la militanza, gli scontri e gli arresti, partì per un viaggio lunghissimo alla fine del quale si toglierà la vita. «Dice che gli atomi sono forze tramutabili, non distruttibili». Alesi scriveva queste parole per il padre, chiedendo alla morte di eliminare l’ineluttabilità che la caratterizza, accorciando la distanza che un figlio sentiva verso suo padre. Il lavoro di Schimperna L’ultima pagina (Iacobelli editore, 2020) raccoglie, in qualche modo, l’invito di Alesi. Trasforma qualcosa che per definizione è distruzione, in materia sensibile, ruvida al tatto, sicuramente inesausta. Perché se la morte in sé provoca dolore, il suicidio è, socialmente parlando, dolore allo stato puro. E quando qualcuno osa pronunciare quel termine tende a farlo all’interno di una cornice definita, quella della pietà, o – sottolinea Schimperna – quella della depressione che sfocia in follia. Ma «se l’elemento comune è senza dubbio una insopportabile sofferenza, è bizzarro pensare che questa sia stata per tutti uguale e frutto di depressione». Ogni scrittore narrato all’interno di questo libro, da Sylvia Plath a Vladimir Majakovskij, da Yukio Mishima a Guido Morselli, da Emilio Salgari a Virginia Woolf, offre una risposta diversa al proprio dolore, risposta che il più delle volte risiede, prima ancora che nel gesto finale, nel movimento della sua penna. Il tratto di Hemingway era irruento e spesso, e a fatica si trovavano tentennamenti. L’idea di ciò che fossero il bene e il male, sembrava per lui scolpita nella pietra. Le sue battaglie, come quelle dei suoi protagonisti, erano sempre contro qualcosa di concreto, visibile, chiaramente additabile come nemico. Poi, quell’apparente chiarezza iniziò a vacillare. Gli elettroshock durante i ricoveri, le polmoniti, l’alcool e la paranoia d’esser spiato (rivelatasi non infondata), lo lasciarono con il pensiero che qualcuno gli avesse strappato via per sempre “la parte migliore di sé”. Nel libro si fa riferimento al concetto di “assassino interiore” di James Hillmann (1964), dove per la prima volta si afferma che in ognuno di noi risiede una sorta di assassino, appunto, che tende a eliminare le parti considerate inutili o addirittura dannose per la nostra esistenza. «Agisce in direzione della vita ma alle volte va oltre, perché ritiene che noi stessi siamo gli artefici della nostra sofferenza». Quello che fa Hillmann, nel suo “Il suicidio e l’anima” non è tanto spiegare l’atto di togliersi la vita, quanto provare a comprenderlo. Il sentimento che si fa strada, leggendo le vicende di questi autori, nasce da un tentativo simile. Una sorta di comprensione intima, quasi timida e molto spesso taciuta, di come esista una sofferenza primigenia alla quale tutti, come possono, cercano di reagire. Nella sua autobiografia dedicata a Majakovskij, Esenin e Cvetaeva, Boris Pasternak afferma che «ci si uccide non per tener fede alla decisione presa, ma perché è insopportabile questa angoscia che non si sa a chi appartenga, questa sofferenza che non ha chi la soffra, questa attesa vuota, non riempita dalla vita che continua». Proprio in merito a Marina Ivanova Cvetaeva, Schimperna scrive una delle pagine più delicate e insieme irruenti dell’intero volume. «Quanto può sopportare un poeta?» – si chiede l’autrice – pensando alla vita di questa donna. È possibile «riconoscere negli avvenimenti più tristi la condizione di eccezionalità che gli è propria?». Quello che racconta Schimperna è che donne come Marina Cvetaeva hanno non solo sopportato la miseria, la guerra e l’ingiuria, ma hanno saputo «rifiutare di spegnere la luce che brillava dentro di loro». Sylvia Plath, Pamela Moore e Sara Kane hanno vissuto combattendo contro l’ipocrisia di una società che le aveva etichettate troppo prematuramente come scarti dai quali non poter ricavare nulla. Hillmann definirà la morte come svuotamento, che inizia quando si smette di chiedere qualcosa a sé stessi. A un certo punto queste scrittrici, sembra dire Hillmann, hanno smesso di chiedere. Egli però si opporrà all’analogia fra suicidio e atto di pura rinuncia e anticipa quello che, in modo più esplicito, dirà in un’intervista Roberto Bolaño: «Ogni suicida lascia uno o due misteri dietro la sua morte, ma è anche certo che lascia, inevitabilmente, quattro o cinque risposte, e ciò che di solito temiamo dai suicidi non è il mistero, ovvero le domande che queste morti pongono, ma le risposte che queste morti mettono davanti a noi e di fronte alle quali, automaticamente, chiudiamo gli occhi». Tra quelle risposte ce n’è una che Schimperna definisce un “ridicolo tarlo”: ossia quel “sogno infantile di onnipotenza” che fa pensare che quel suicidio poteva essere evitato. Schimperna interpreta questo “tarlo” come un sentimento personale, che appartiene all’individuo che cerca dentro di sé il male e la possibile cura. La depressione, diceva ancora Hillmann, nasce quando si diventa consci della propria impotenza, ossia «dell’incapacità di attualizzare un possibile che è iscritto nel nostro essere sociale». Nella sua lettera conclusiva Alesi diceva: «Ho visto che tu hai visto l’inizio di un drammatico sfacelo […] ». Mark Fisher, prima di togliersi la vita nel 2017, ha scritto che «le ferite che ci fanno soffrire sono ferite di classe», intendendo che ciò che sembra profondamente personale, è in realtà profondamente sociale. Trovare quelle ferite e poi raccontarle, come ha fatto Schimperna, significa anche rifiutare l’idea che le ragioni della depressione e del suicidio siano tasti dolenti che non appartengono alla società ma all’individuo preso nella sua singolarità. Riconoscere quelle ferite significa, infine, non distogliere lo sguardo davanti a quel “drammatico sfacelo” che ci appartiene.
Nicoletta Orlandi Posti per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. «La morte è un' usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare», diceva Jorge Louis Borges. Eppure si tende a non parlarne, oppure quando si affronta l' argomento viene fuori tutto il nostro disagio, soprattutto quando riguarda il personale trapasso. L' appuntamento con il «tristo mietitore» è infatti uno di quelli che vorremmo poter rimandare il più possibile e magari evitare completamente ma, ahimé, non è proprio possibile. E la mente, il nostro inconscio, lo sanno. C' è chi si tocca o si fa il segno della croce, chi fa gli scongiuri e c' è chi sdrammatizza questo tabù con l' umorismo. Come Caitlin Doughty che si presenta come la «necrofora di internet». Lei - che ha lavorato in un crematorio, ha frequentato una scuola di imbalsamazione, ha girato per il mondo per studiare i riti funebri e ha aperto un' agenzia di pompe funebri - ha appena dato alle stampe il libro Il mio gatto mi mangerà gli occhi? (Il Saggiatore, pag. 230, euro 17) con il quale risponde a tutti gli interrogativi possibili su cadaveri, sepolture e funerali svelando al lettore gli aspetti più bizzarri e inaspettati della grande livellatrice. Ma soprattutto fa pensare alla morte in modo diverso, quello più naturale. Compreso il fatto che perfino da morti si possono fare cose molto utili, come ad esempio donare il sangue.
TORNIAMO BAMBINI. Le domande a cui risponde Caitlin Doughty sono quelle più schiette e provocatorie che escono dalla bocca dei bambini per la semplice ragione che la maggior parte degli adulti non le farebbe mai: abbiamo talmente interiorizzato l' idea che interrogarsi sulla morte sia morboso o strano che non ci verrebbe mai di chiedere a qualche esperto se possiamo usare le ossa umane come gioielli dopo la cremazione; se è vero che si vede una luce bianca nel momento in cui smettiamo di vivere o se dopo la sepoltura continueranno a crescere i capelli nella bara. O ancora: se chi vende una casa è obbligato a dire al compratore se là dentro è morto qualcuno, o se è possibile fare un funerale vichingo per la nonna. La Doughty, che nel 2011 ha anche creato il blog Ask a Mortician, risponde alle domande ricorrendo alla scienza e all' antropologia ma con un linguaggio ironico e leggero (anche perché alcune delle domande che le vengono poste sono davvero surreali). Si scopre così che la pellicola da cucina è essenziale per rendere presentabile un cadavere nella camera ardente; che tutte le leggende metropolitane di morti a cui crescono i capelli o che si mettono a sedere nell' obitorio sono, appunto, leggende; che se volete diventare uno scheletro bello pulito dovete farvi seppellire in un terreno umido, argilloso e ricco di microrganismi, mentre se volete diventare una splendida mummia dovete scegliere un suolo arido. E, no, - tornando alla domanda che dà il titolo al libro - quando sarete morti il vostro gatto non vi mangerà gli occhi. O, almeno, non subito. È molto più facile che vi mangi il cane: in alcuni casi gli esperti forensi hanno sospettato prima un omicidio violento, poi hanno scoperto che il danno era dovuto all' attacco di Fido sul corpo già morto. Ma non per cattiveria: lo fa perché prova a svegliarvi. Qualcosa non va nel suo umano, è ansioso e inquieto. In questa situazione potrebbe mordicchiare le labbra del padrone proprio come gli uomini e le donne che si mangiucchiano le unghie o aggiornano la pagina social. Il libro - che è illustrato con deliziosi disegni realizzati da Dianné Ruz - è dedicato «ai futuri cadaveri di ogni età».
Tutte le serie tv maledette. Così sono stati uccisi gli attori. Dopo la morte di Naya Rivera, sono riprese le voci sulla "maledizione" di Glee. Ma questa celebre serie tv americana non è l'unica ad essere "maledetta". Marina Lanzone, Venerdì 17/07/2020 su Il Giornale. Naya Rivera è morta. Il corpo dell’attrice di Glee è stato ritrovato nel lago Piru, in California, il 13 luglio, dopo cinque giorni di ricerche. L’attrice e suo figlio Josey, 4 anni, avevano deciso di passare una giornata al lago, lontano da tutti. Un momento dolce, trasformatosi in tragedia. Naya Rivera è morta per annegamento, spinta dalla forte corrente, dopo aver messo in salvo il suo bambino. Il lago Piru è noto per la fitta vegetazione e per il fondale scuro e melmoso. Questo incidente poteva capitare a chiunque, anche al più abile nuotatore. Ma viene spontaneo pensare che non si tratti solo di una semplice coincidenza. Il 13 luglio è una data che si ripete, infatti proprio in quel giorno, nel 2013, è stato ritrovato il cadavere di Cory Monteith, alias Finn Hudson in Glee. Il giovane attore è deceduto per overdose da farmaci e alcool, dipendenza che non è riuscito mai a superare. Nel gennaio 2015, Mark Salling, anche lui nel cast di Glee nel ruolo di Noah Puckerman, si è suicidato, dopo che fu trovato in possesso di immagini pedopornografiche. Quello di Naya Rivera è quindi il terzo decesso nel cast della serie televisiva-musicale, su cui sembra stata lanciata una vera e propria "maledizione". Glee, però, non è l’unica serie "dannata": la lista delle fiction di successo dal destino infausto è piuttosto lunga.
Il peso della fama. Ad aprire questo elenco ci sono le "Adventures of Superman" (1952-1958). Il suo protagonista, George Reeves, è stato trovato morto a causa di una ferita da arma da fuoco nel 1959. Attualmente si pensa che si sia suicidato: dopo il successo ottenuto nei panni di Superman, la sua fama si era affievolita. La star hollywoodiana non sarebbe riuscita a superare la delusione e avrebbe deciso, quindi, di mettere fine al suo dolore nel più drastico dei modi. Decisamente il peso della fama è una delle sfide più grandi che un giovane attore deve saper affrontare nel corso della sua carriera. Non sempre, però, riesce ad avere la meglio sul suo nemico.
Salute cagionevole e dipendenze. Chiunque conosce "Vita da Strega", la sitcom statunitense prodotta tra il 1964 e il 1972 che narra la storia di una casalinga un po’ speciale. Samantha è una maga, che per amore avrebbe deciso di condurre una vita normale, lontana dalla magia. Ma la sua natura spesso prende il sopravvento. Pochi sanno, però, che dietro quel bellissimo sorriso si nasconde tanta sofferenza. La protagonista Elizabeth Montgomery, ad esempio, ha avuto un cancro al seno, un mostro feroce, diagnosticato troppo tardi. È morta a soli 62 anni. Agnes Moorhead, che interpretava la madre della streghetta, si è ammalata di tumore ed è scomparsa nel 1974, poco dopo il rinnovo della serie. Neanche il protagonista maschile è stato risparmiato: Dick York ha dovuto abbandonare il set durante le riprese per dei gravissimi problemi alla colonna vertebrale che non gli hanno permesso più di recitare. Ma non è tutto: la puntata pilota di "Vita da strega" è stata girata proprio nel giorno dell’omicidio del Presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963. Una coincidenza malaugurante. Anche il maggiordomo di "Family Affairs" (1966) non ha goduto di ottima salute. Sebastain Cabot è morto pochi anni dopo la fine della serie tv a causa di un infarto fulminante. Nel 1976, la piccola Buffy nella fiction, interpretata dall’attrice Anissa Jones, è stata trovata morta all’età di 18 anni. A causare il decesso è stato un cocktail di alcool e droghe di cui abusava abitualmente. 21 anni dopo, Brian Keith, lo zio più famoso del piccolo schermo, si è tolto la vita: a causa della chemioterapia e dei suoi effetti depressivi, non è riuscito a superare la morte di sua figlia, anche lei suicida. Tra le serie tv maledette non può mancare "La famiglia Bradford" (1977) che per anni ha detenuto un vero e proprio primato. L’attrice Diana Hyland si è dovuta ritirare dalle scene dopo aver girato solo i primi quattro episodi a causa di un tumore al seno che l’ha uccisa ancor prima che il pilot fosse trasmesso in tv. Adam Rich (alias Nicholas) e Lany O’Grady (Mary nella serie) hanno sofferto di una forte dipendenza da alcol e droghe, che nel secondo caso ha portato alla scomparsa dell’attrice nel 2001. La bellissima Susan Richardson per anni è stata vittima dell’abuso di cocaina, e dopo esser uscita da questa spirale, si è ammalata di una rara sindrome che le portava forti spasmi allo stomaco e le ha provocato la caduta dei denti. Anche in "Otto sotto un tetto" (1989) i drammi non sono certo mancati. Michelle Thomas, che interpretava Myra, si è ammalata durante le riprese della nona stagione. Inizialmente rifiutò le cure tradizionali per non precludersi la possibilità di diventare mamma. Quando decise di iniziare la chemioterapia era ormai troppo tardi: il cancro ha avuto il sopravvento. Jaimee Foxworth, la piccola Judy, invece, ha avuto una dipendenza da alcool e droghe e ha iniziato a recitare nei film porno, non accettando il declino della sua carriera.
Problemi con la giustizia. Il bambino prodigio Gary Coleman, protagonista de "Il mio amico Arnold" (1978), ha avuto problemi alla crescita, provocati da una grave insufficienza renale che lo ha costretto a due trapianti dei reni e alla dialisi. È morto giovanissimo, all’età di 42 anni, per una brutta caduta. Oltre ai problemi di salute, il giovane attore ha dovuto affrontare una battaglia legale contro i suoi genitori, che hanno sperperato tutti i proventi guadagnati dal figlio durante le riprese. È stato poi accusato varie volte di violenza domestica. Anche Dana Plato (Kimberly nella serie) ha avuto problemi con la giustizia: è stata accusata di rapina a mano armata. Quando aveva 35 anni, è stato ritrovato il suo cadavere in una roulotte parcheggiata vicino la casa del suo ex fidanzato. La morte sembra essere dovuta a un’overdose da farmaci. Todd Bridges (Willi) ha abusato di droghe per anni ed è finito più volte in manette, anche con l’accusa di tentato omicidio.
Le battaglie vinte. Talvolta, però, proprio come nelle fiabe, dopo tanti problemi è giunto il lieto fine. Gli attori di "Baywatch" David Hasselhoff (Mitch), Jeremy Jackson (Hobie) e Yasmine Bleeth (Caroline) hanno abusato di alcool e droghe, dipendenze che sono riusciti a superare. Negli anni gli attori de "Il trono di Spade" hanno dovuto confrontarsi con depressione, alcool, problemi di salute e debiti. Sophie Turner, Cersei Lannister e il protagonista Kit Harington hanno passato momenti di forte sconforto e hanno dovuto fare i conti con la propria fama. Maisie Williams ha abusato di alcool, fin dall’adolescenza. Nikolaj Coster-Waldau ha avuto problemi di liquidità, mentre Emilia Clarke ha avuto due aneurismi. Ma in tutti casi, le battaglie personali sono state vinte. Anche le maledizioni più terribili possono essere sconfitte.
Dimmi come muori e ti dirò chi sei. Riprendere gli ultimi istanti di vita di qualcuno ha sempre valore informativo? La differenza tra la storia di George Floyd e quella dell'infermiere militare Ottavio De Fazio. Elvira Fratto il 7 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Dimmi come muori e ti dirò chi sei: è il malinconico epilogo della spettacolarizzazione della morte a cui, ormai, ci stiamo quotidianamente quasi abituando, l’impietoso flusso di notizie che documentano minuto per minuto gli ultimi respiri di un individuo che poi finiranno diffusi in rete; un modo di utilizzare la tecnologia a cui, forse, non eravamo ancora pronti. Nei giorni che stanno infiammando gli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, soffocato a morte da un poliziotto, accade in Italia, a Chieti, che Ottavio De Fazio, infermiere militare 49enne, perda la vita durante un incidente in moto. De Fazio guidava in solitaria la sua Yamaha quando, affrontando una curva, è caduto dalla sella. Per il Luogotenente, che negli ultimi mesi era stato impegnato sul fronte Coronavirus prestando servizio nell’ospedale da campo di Piacenza, non c’è stato nulla da fare: l’uomo ha urtato lo sterno contro il serbatoio della moto e l’emorragia interna che ne è conseguita gli è stata fatale. A nulla sono valsi i soccorsi prontamente prestati da un gruppo di motociclisti che aveva raggiunto il luogo dell’incidente, perché De Fazio ha esalato il suo ultimo respiro sull’asfalto, prima dell’arrivo dell’ambulanza e dell’elicottero del 118, allertati dai soccorritori. Negli stessi attimi in cui si tentava di rianimare il militare, un passante riprendeva la scena con il suo telefonino. Filmava tutto, fino all’ultimo respiro di De Fazio, postando poi il video su Facebook che però, nelle ore successive, è stato rimosso. E mentre in America infuriano le proteste e si susseguono giorni di rivolte accese e Case Bianche spente, mentre sembra che in quelle strade nulla si sia mai mosso dagli anni ’60 e dai tempi in cui Rosa Parks e Martin Luther King rivendicavano pari diritti tra bianchi e neri, una differenza tra i due scenari c’è. Nel primo, George Floyd muore asfissiato a causa del ginocchio dell’agente Derek Chauvin premuto sul suo collo (Chauvin era stato denunciato già 18 volte per atteggiamenti violenti nel corso della sua carriera) e una telecamera riprende il suo implorante “non respiro, per favore, non respiro”, finché non diventa un singulto sempre più flebile: Floyd non viene soccorso e il poliziotto lo lascia morire sotto il proprio peso; nel secondo, Ottavio De Fazio riceve un soccorso rapido e tempestivo, seppure non sufficiente, eppure la sua morte diventa un tragico cortometraggio da diffondere su Facebook. Gli ultimi attimi di vita di un uomo, quelli nei confronti dei quali è d’obbligo il massimo rispetto, divenuti una parentesi di fama (o forse fame?) da social, una morte ripresa per cosa? Puro voyeurismo? Likes facili? Volontà di apparire? Possedere ogni cosa ci ha messo nelle condizioni di non avere rispetto di nulla; poter pubblicare tutto ci ha resi incapaci di distinguere il lecito dal non lecito. Abbiamo disimparato l’amore, il soccorso e il rispetto sostituendoli con la vanagloria delle visualizzazioni, come i doni dei Re Magi che di colpo cambiano a Natale, dopo secoli di consolidata abitudine alla loro preziosità. Il resoconto video della morte di George Floyd diventa così strumento di verità e di inconfutabile colpevolezza, motivo di rivolta, un reclamo di vergogna che nel 2020 tristemente ci troviamo ancora a replicare. Si trasforma in un manifesto di rabbia e indignazione, ritratto fedele della società malata, incompleta e dai valori precari che abbiamo edificato. Gli ultimi istanti di vita di Ottavio De Fazio non possiedono alcun valore informativo, se non quello di ricordarci che male e banalità, come già suggeriva Hannah Arendt, sono due concetti fin troppo assimilabili: in America vige la banalità del male, in Italia il male della banalità. Di fronte a tanta, spiccata – eppur sottile – somiglianza, “Oltreoceano” non sembra più un posto così lontano.
Andrea Marcolongo per “la Stampa - TuttoLibri” il 10 febbraio 2020. «Animo, animo, sconvolto da mali senza rimedio, su, in piedi (…). Conosci quale ritmo domina gli uomini», così cantava il poeta Archiloco. Proprio al senso dell’incedere nella vita Mauro Bonazzi dedica il suo nuovo saggio, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza, edito da Einaudi. Qual è il senso di ciò che siamo e facciamo? Come dare valore all’esistenza? Bonazzi guarda da filosofo alla luminosa riflessione prodotta dal pensiero greco senza dare una risposta risolutiva, ovviamente. Avanza però proposte per dare significato alla nostra incompletezza, al nostro essere «esseri desideranti» per eccellenza. Ma cosa stiamo cercando per davvero? Ogni ipotesi esaminata nel libro - dall’amore alla vita politica, dalla conoscenza al viaggio - potrebbe apparire incompleta se non si chiarisce prima chi, secondo i Greci, siamo. Ephemeroi sono gli uomini, per dirla con i versi di Pindaro nella Pitica VIII. Effimeri, un aggettivo entrato nel nostro vocabolario dal greco e che propriamente significa «che dura un giorno» (ecco spiegato il formidabile titolo scelto da Bonazzi). In botanica e in zoologia si dicono effimeri i fiori e gli insetti certamente belli, ma destinati a una vita così breve da risultare insignificanti. Sogno di un’ombra è quindi la condizione umana, che non può essere né definita né indagata senza includere a priori la sua fine inevitabile: la morte. Per i Greci era questo lo scandalo supremo, il mistero inaccettabile contro cui hanno sempre combattuto vigorosamente a colpi di poesia, di filosofia, di imprese e di scoperte. Siamo dunque effimeri come farfalle, ecco il punto al centro del saggio di Bonazzi: nasciamo, viviamo, moriamo. Il problema non è tanto la fine - quella è data per il solo essere al mondo -, ma il fatto che l’inevitabilità della morte rischia di togliere valore e significato all’esistenza, sprecata nel piacere o arresa al fato. Una delle questioni che l’autore si pone è il rapporto degli antichi con quell’eros sempre contrapposto a thanatos: può essere l’amore la forza capace di sottrarci alla morte? Del resto, proprio «esseri erotici», concepiti per desiderare l’amore dell’altro, siamo diventati quando abbiamo perduto l’immortalità. Come magistralmente narra Platone nel Simposio, un tempo lontano eravamo simili a sfere, con quattro gambe e quattro braccia e ci muovevamo «come gli acrobati quando fanno le capriole». Eravamo potenti e felici perché completi. Nonché immortali: non morivamo e dunque non avevamo alcun bisogno di amare. Fu dopo aver assaltato il cielo che fummo tagliati in due, come pere o uova, o come sogliole, così che diventassimo più umili. Più manchevoli, quindi più condannati ad anelare. «Siamo prima di tutto mancanza, e dunque desiderio», scrive Bonazzi. Ma cosa cerchiamo attraverso l’amore? Non solo corpo e sesso, opzione già scartata da Platone: «è chiaro che altro la loro anima vuole, altro che non sa dire». È certo che, grazie all’amore e alla procreazione, possiamo sottrarci all’effimero: unendoci generiamo dei figli, la natura può continuare la sua battaglia per la sopravvivenza di generazione in generazione. Dobbiamo dunque considerare l’amore un mero trucco della vita per preservare la specie? Noi non ci saremo, ma resterà una piccola parte di noi, come Hegel tormentato da una mosca dell’anno passato: il singolo insetto muore, ma «le mosche restano uguali a se stesse, come onde del mare», scrive Georges Bataille. Eppure non è in questo artificio che si spiega il nostro disperato, patetico bisogno di amore; non è neppure nell’altro oggetto di amore, conclude Bonazzi. Quando amiamo, non cerchiamo altro che amare noi stessi. Il vero desiderio è quello dell’unità perduta, è «il desiderio di recuperare tutto quello che perdiamo di noi, giorno dopo giorno». Anche gli eroi dell’Iliade sono morti in battaglia nella piana di Troia per sottrarsi alla morte, come dichiara Sarpedone nel canto XII: se fossero stati immortali come gli dei, non avrebbero avuto bisogno di dimostrare il loro valore in battaglia per guadagnarsi l’onore (timé) e la gloria (kleos) in quanto unico modo per sconfiggere il nemico più insidioso, l’oblio della morte. Allo stesso modo, Pericle ricorda (stando alle parole di Tucidide) che i caduti della guerra del Peloponneso non sono morti invano, poiché stavano difendendo Atene, vale a dire la democrazia, e impedirne la fine significa sottrarsi alla singolarità della morte. «Siamo eroici proprio nella nostra fragilità ostinata, per questa capacità di non arrenderci, di continuare a porci domande, tentando di fare ordine nel mondo e in noi stessi», scrive a un certo punto Mauro Bonazzi che, come diceva Archiloco citato all’inizio, con questo saggio rende il ritmo che domina il vivere meno opaco. E che certamente così esorta noi, afflitte creature di un sol giorno: su, in piedi.
Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 4 febbraio 2020. La morte dei grandi è un genere a sé stante e, nonostante l' argomento, sempre vitale. Come è morto Pasolini? E Majorana? E Tchaikovsky? Suicidio, omicidio (e allora chi è l' assassino?), morte naturale: la modalità della fine getta una luce retrospettiva su tutta una personalità, cambia le carte in tavola, le interpretazioni delle opere, le analisi. Petrolio, il grande romanzo incompiuto di Pier Paolo Pasolini non è lo stesso libro se l' autore è stato ucciso dallo Stato, come alcuni sospettano, anziché soltanto dal ragazzo di vita Pino Pelosi. Ma perché il "Palazzo" l' avrebbe ucciso? Perché il poeta sapeva troppo: della fine di Enrico Mattei, delle bombe, e in Petrolio avrebbe svelato, benché in modo cifrato, misteri che tali avrebbero dovuto restare. E la Patetica di Tchaikovsky? Quest' ultima sinfonia del compositore russo è una lettera d' addio di un uomo disperato, e perciò determinato al suicidio, a causa del suo amore, all' epoca assolutamente inaccettabile, per un ragazzo, il nipote Vladimir "Bob" Davydov, cui l' opera è dedicata? Oppure il musicista avrebbe voluto vivere ancora, non fosse stato per il colera? Quanto al grande fisico Majorana, uno dei "ragazzi di via Panisperna" che per primi scoprirono i segreti dell' energia atomica, le ipotesi sulla sua scomparsa sono innumerevoli, e poco ci manca che qualche complottista lo ipotizzi, decrepito ma vivo, su qualche isola misteriosa insieme a Paul McCartney, quello vero, essendo l' altro Beatle solo un sosia. Tra storia e cospirazionismo, difficile districarsi in tali questioni, ma il genere della morte misteriosa (e finalmente, si presume, risolta) continua a prosperare. Di prossima pubblicazione c' è adesso un libro che si occupa degli ultimi giorni del poeta cileno, e premio Nobel, Pablo Neruda. Autore notissimo anche grazie a un celebre film con Massimo Troisi, anche se, crediamo, ben poco letto. Ma sicuramente riscuoterà interesse questo Delitto Neruda di Roberto Ippolito (Chiarelettere, 256 pagg, 17,60 euro), perché a differenza di altri casi (vedi Majorana) gli indizi con cui Ippolito costruisce la sua indagine sono perlomeno plausibili, e hanno il sostegno non di complottisti professionali, ma di Rodolfo Reyes, un nipote di Neruda. Cosa si asserisce nel libro di Ippolito? Che la versione ufficiale circa la morte del poeta, avvenuta il 23 settembre del 1973 nella clinica Santa María di Santiago del Cile, dodici giorni dopo il golpe con il quale Augusto Pinochet scalzò Salvador Allende dal governo, è falsa. Sparita la cartella clinica, la motivazione ufficiale della morte fu attribuita al cancro alla prostata di cui Neruda soffriva da tempo. Una versione, secondo Ippolito, imposta dal regime di Pinochet. Neruda infatti era in procinto di espatriare in Messico, dove avrebbe potuto continuare il suo sostegno alla causa comunista, forte dell' influenza che la sua fama esercitava sull' opinione pubblica. Nel 2013, il giudice cileno Mario Carroza ordinò la riesumazione del corpo di Neruda e, nello stesso anno, l' autista del poeta, Manuel Araya, in un' intervista alla rivista messicana Proceso, raccontò che il poeta l' avrebbe chiamato disperato, di notte, dalla clinica, dicendo di essere stato avvelenato con un' iniezione fattagli mentre dormiva. Sulla base di campioni biologici del cadavere, e delle analisi su di esse svolte in laboratori di genetica forense, nel 2017 un gruppo di sedici scienziati si dichiarò «al cento per cento sicuro» che Neruda non era affatto morto di «cachessia dovuta al cancro alla prostata», come riportato nel suo certificato di morte. Uno degli esperti, Niels Morling del dipartimento di medicina forense dell' Università di Copenaghen, affermò: «Non c' era alcuna traccia di cachessia. Al momento della morte era un uomo obeso. Tutte le altre circostanze nell' ultima fase della sua vita indicano qualche tipo di infezione». A complicare le cose, ci sono le testimonianze di chi vide il poeta in clinica. Alcune riferiscono di un uomo finito, quasi in coma, altre, all' opposto, lo descrivono così vigoroso da essere ancora in grado di dettare le sue memorie al segretario, Homero Arce. E se uno dei nipoti, come abbiamo detto, appoggia la teoria dell' avvelenamento, un altro, Bernardo Reyes, crede che sia una pura speculazione per fare clamore. Forse, come in molti casi analoghi, la verità non emergerà mai, ma l' indagine sugli ultimi giorni dei grandi uomini è pur sempre un modo di studiarli e di approfondirli.
· Parlare con i morti.
LA DONNA CHE SUSSURRA AI MORTI. Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2020. «Le mando le foto degli angeli che ho visto». Susi Gallesi lo dice con naturalezza, la voce calma, l' inconfondibile inflessione emiliana di chi ha messo le radici tra Modena e Piacenza.
Dove li ha visti?
«In casa, in cielo, ovunque decidano di manifestarsi. Loro sono tra noi, sono pura energia, parlano e ci danno prove pratiche».
Che tipo di prove pratiche?
«Nomi, date, segnali».
Che cosa bisogna fare durante questi incontri?
«Ascoltare. Bisogna prendere tutto quello che dicono. Si fanno vedere poco ma parlano più di prima».
Prima di quando?
«Prima, all' inizio».
Susi, quante volte non è stata creduta o, peggio, si è sentita dare della pazza? Silenzio.
«All' inizio tante. Anche mia madre ci ha messo molto tempo. Mi ha creduto soltanto alla fine, quando ormai se ne stava andando, cinque anni fa, ma non è colpa sua, è che ha avuto una vita difficile».
Susanna Gallesi è nata il 4 luglio del '64 a Finale Emilia. Quando aveva solo un anno e mezzo suo padre Giovanni muore in un incidente stradale, ucciso da un automobilista ubriaco. A 3 anni mentre gioca nella cascina della nonna paterna viene attratta da un piccolo passaggio che la conduce a un vecchio mulino e lì trova ad attenderla un giovane sorridente: suo padre Giovanni, che dopo quel primo "contatto" si farà vivo più volte nell' esistenza della figlia, all' inizio come compagno di giochi poi per consigliarla in modo affettuoso. Dopo tanti anni Susi gli parla ancora. «Papà ce l' ho da parte», spiega come si dice di una cosa preziosa custodita in un posto conosciuto solo da noi. È da quell' episodio alla cascina che la donna capisce di possedere un dono, quello di essere un tramite per la persona che desidera ricevere un messaggio da qualcuno che ha perso, oppure per avere conforto, durante una fase drammatica dell' esistenza, da chi si porta sempre nel cuore, ma è ormai oltre. Lei lo chiama "il passaparola dal cielo", uno scambio tra chi è di qua, nell' inferno terreno, e chi è in un' altra dimensione dove va tutto bene, non ci sono dolori, malattie, guerre né tristezze. «Là è molto bello, per questo loro riescono a trasmetterci energia», assicura. Loro sono gli angeli o più precisamente «le anime di luce», che questa medium vede ad esempio nelle forme di una nuvola con fattezze umane, fotografa, sente.
Solo sette sensitivi. Chi è scettico sappia che questa signora ha superato i criteri di accuratezza previsti dal protocollo del gruppo di ricerca italiano sulla medianità riconosciuto dalla Facoltà di Psicologia dell' università di Padova. Test complessi, li definisce il dottor Fernando Sinesio, infatti per ora solo in 7 hanno superato le valutazioni in Italia. Susi ha scritto tre libri, tutti autobiografici, l' ultimo dei quali non a caso si chiama Ho visto un angelo e racconta le testimonianze più toccanti di coloro che come lei hanno avuto la fortuna di dialogare con tali «entità», che a volte possono perfino manifestarsi fisicamente, «spesso sono di sesso maschile e ben vestiti». È sicura che tutti noi possediamo un angelo, non importa se siamo buoni o cattivi, innocenti o pericolosi assassini: la differenza sta nel sapere riconoscere i segni; ma non è una questione di credere nell' aldilà o di essere particolarmente religiosi, «io non conosco neppure una preghiera, non vado in chiesa, eppure a mio modo faccio del bene, aiuto chi mi chiama». La chiamano in tanti, infatti, e se in principio erano soprattutto mamme distrutte dalla perdita di un figlio, donne annichilite dal distacco e desiderose ancora di sentire vicino la propria creatura volata via, da quando il Covid ha seminato lutti e disperazione la platea si è in parte modificata. Ora non mancano i familiari delle vittime del virus, traumatizzati e in colpa perché a causa del contagio non sono neppure riusciti a salutare il loro caro, a tenergli la mano, ad accompagnarlo come si deve. Persone che hanno visto i genitori o i nonni caricati su un' ambulanza e portati in ospedale a morire. Soli. «Sì, mi è capitato di avere questo tipo di richieste», conferma la sensitiva. «Una ragazza si è rivolta a me dopo che ha perso il padre e due settimane fa una signora a cui il virus ha strappato il marito voleva mettersi in contatto, dirgli che avrebbe voluto stare con lui fino alla fine». Lei cosa ha fatto?, chiediamo mentre vengono in mente le scene di Ghost, o la serie tv con protagonista Patricia Arquette e le altre fiction sui poteri paranormali e perfino il famigerato tavolino da seduta spiritica che ha sempre suscitato un mix di timore e curiosità. Ascoltare sempre «Non vado in trance, non cambio voce. Ascolto le loro parole e registro, poi mando tutto alla persona che ha richiesto il mio intervento la quale sentirà la mia voce che riporta ciò che mi è stato detto e in sottofondo altri suoni provenienti da lontano». Si tratta della metafonia, fenomeno dei presunti rumori paranormali che, pur non avendo credito in ambito scientifico, è considerato attendibile dagli appassionati di spiritismo perché consentirebbe di dialogare con l' aldilà, o comunque con un' altra dimensione. Solo autosuggestione? Abuso della credulità popolare? Il tema è da sempre alquanto dibattuto. Di sicuro Susi Gallesi, che prima lavorava nelle strutture per anziani, a differenza di molti sedicenti maghi non ha mai sfruttato il suo dono di «portavoce delle anime che vogliono comunicare» con i cari trapassati. Né si è mai arricchita per i suoi consulti. «Vivo in campagna con 33 gatti e un cane. Non mi sono mai fatta pagare, conosco la povertà, al massimo posso chiedere un' offerta per i miei animali».
· I complottisti della morte.
Marco Molendini per Dagospia il 26 luglio 2020. La lista delle fregnacce del rock è lunga. E rischia di allungarsi ancora. L'ultima (è un riciclaggio, però) viene dal fratello del più spettacolare chitarrista che sia mai apparso sulla scena del musica, Jimi Hendrix: a quasi 50 anni da quel settembre 1970 in cui Jimi venne trovato privo di vita in un albergo di Londra fulminato da un'overdose di tranquillanti, così disse il referto ufficiale, Leon Hendrix, 71 anni, chitarrista anche lui (ma il talento non fa parte del patrimonio genetico), ex disegnatore della Boeing, un libro già scritto circa dieci anni fa, rilancia una vecchia e balzana tesi: «Sono convinto che mio fratello sia stato ucciso». Amen. Chi potrebbe averlo fatto fuori: un chitarrista invidioso, uno spacciatore in credito o come, pare sostenere Leon, un manager avido, oppure uno psicopatico nazionalista offeso per la sua versione distorta dell'inno Star spanled banner? O tutti insieme, in un complotto contro il miglior chitarrista del mondo? Il vizio di non lasciare in pace i morti non è nuovo e non è destinato a svanire. King Elvis ancora si rigira nella tomba, non per essersi rimpinzato di cibo e pillole, ma perchè c'è chi sostiene che a farlo fuori sia stata la mafia americana, che ce l'aveva con lui perché collaborava con l'Fbi e, proprio il giorno della sua morte, avvenuta nell' agosto del ' 77, avrebbe dovuto testimoniare in un processo contro mafiosi accusati di avere emesso lettere di credito e certificati di deposito falsi. Elementare eliminarlo, e il buon re del rock 'n' roll avrebbe dato una mano con i suoi vizi. Anche Kurt Cobain non riposa in pace: non si sarebbe sparato da solo. Un metallaro scoppiato El Duce (vero nome: Eldon Hoke) venne trovato morto otto giorni dopo avere sostenuto che Courtney Love aveva tentato di ingaggiarlo per uccidere il marito (presunta ricompensa: 50 mila dollari). Quanto a Michael Jackson non sarebbe stato un'incidente la somministrazione di Propofol, ma la dose letale gli sarebbe stata iniettata dolosamente. Il motivo è fumoso (come del resto gli altri), ma di mezzo ci sarebbero stati i costi della sua ultima, e mai realizzata, tournée. C'è la politica, invece, a dare fiato ai complottisti sulla morte di Janis Joplin, trovata in una stanza del Landmark Hotel, a Los Angeles, stroncata da una letale miscela di eroina, morfina e whisky. Janis aveva 27 anni: rappresentava un modello fastidioso e pericoloso per il sistema. E, allora, ecco la punturina finale. La stessa (stavolta l'accusa va diretta alla Cia), che per gli infaticabili dietrologi avrebbe eliminato un altro ventisettenne, Jim Morrison. Un restauratore avrebbe invece gettato in piscina Brian Jones,, accusa lanciata dall'ex fidanzata del fondatore dei Rolling Stones, Anna Wohlin che ha risvegliato i propri dubbi 31 anni dopo l'accaduto. E il movente? Affidato alla fantasia: ognuno come gli va. In fondo, poi, anche da noi c'è un caso inesistente che si trascina da 53 anni e che ogni tanto viene rilucidato: il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo. Tesi e ricami, tutti a fini editoriali (libri, interviste, narcisismi familiari, speculazioni) che cullano un sentimento popolare: «Il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di confrontarci da soli con la verità» sosteneva Pasolini. Ma il complotto si accompagna a un altro filone altrettanto liberatorio e strampalato: quello dei morti viventi. Ci sarebbe una vera e propria folla di rockstar, ma anche divi del cinema e comunque famosi scomparsi che si nasconderebbero chissà per quale motivo da qualche parte sotto mentite spoglie: gente, in certi casi longeva, come Elvis, Morrison, Cobain, Lennon, Jacko, Marilyn, Glenn Miller, John Belushi, Heath Ledger, Che Guevara. Anche fra i morti viventi ha c'è un personaggio italiano: Moana Pozzi. Diceva un filosofo come Schopenhauer: «Non v'è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l'intervallo». Se si allunga l'intervallo, il godimento può diventare eterno.
Da “Il Messaggero” il 26 luglio 2020. Pubblichiamo in esclusiva lo stralcio della prefazione di The story of life. Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix di Gentile e Crema. La firma è del fratello, Leon Hendrix. «Quando la mattina del 18 settembre 1970 mio padre mi comunicò per telefono la notizia della morte di Jimi, fu il momento più terribile della mia vita. Ero incredulo, ricordo che restai seduto per ore sul bordo del letto fissando il muro mentre rievocavo gli anni che io e Buster (il nome con cui Jimi si faceva chiamare da bambino) avevamo trascorso insieme, le ore belle e quelle meno belle. Quando ero piccolo era lui che si prendeva cura di me in tutto, tanto che credevo fosse lui mio padre. Era più che un fratello maggiore, molto di più (...). Mio fratello nel fare musica sembrava essere toccato dalla grazia, come fosse stato scelto da un potere superiore: era predestinato a diventare una star. Aveva qualcosa di speciale che lo contraddistingueva da chiunque altro, Jimi era in anticipo sui tempi e lo è ancora. Ricordare i bei momenti con Jimi mi riporta il sorriso, ma quando riaffiorano quelli più difficili mi si spezza il cuore. La mente torna a quel settembre e, per quanto ci provi, non riesco a trattenere le lacrime. Al funerale di Jimi c'erano amici e musicisti: Noel Redding, Mitch Mitchell, Buddy Miles, Johnny Winter, Miles Davis e molti altri, oltre tutti i nostri parenti. Ricordo anche la presenza del sindaco di Seattle. Jimi indossava un abito di broccato di seta verde e aveva l'aria tranquilla e pacifica, quasi come se stesse dormendo o semplicemente pensando con gli occhi chiusi al suo prossimo progetto musicale, è così che mi piace immaginarlo a distanza di cinquant' anni (... ). Dal momento in cui il corpo di Jimi fu calato sottoterra, in quel pomeriggio uggioso, si scatenò una durissima battaglia legale. Tutto quello che possedeva Jimi, dopo la sua morte, sarebbe andato a papà, ma presto si scoprì che era rimasto ben poco da rivendicare: del patrimonio di mio fratello io non mi sono mai potuto occupare. Non ho un'idea precisa nemmeno di cosa accadde quella fatidica notte nella stanza d'albergo di Londra, nessuno lo sa e nessuno probabilmente lo saprà mai davvero. La sintesi è terribile: dopo una serata di festa Jimi tornò in albergo e il mattino seguente era morto. Nello stomaco trovarono tracce di sonniferi, un po' di vino e un panino. Poi ci dissero che era stata un'overdose di tranquillanti. Tutto qui. Ho sentito tante storie e molte erano in contraddizione tra loro: tanta, troppa gente voleva dire la sua. Si saprà mai la verità? Riuscirà un giorno a emergere tra le tante voci di corridoio, tra speculazioni e invenzioni in malafede? Mio fratello lo meriterebbe. Nel tempo mi sono sempre più convinto che Jimi sia stato ucciso. Non credo molto ai complotti, non penso che Mike Jeffery lo abbia fatto uccidere, almeno non prima di aver sistemato le questioni di mio fratello e accaparrarsi un'altra fetta di denaro e magari un'altra polizza sulla vita. È vero che in certi ambienti Jimi era malvisto per la sua figura mitica, per l'influenza che esercitava e anche per la sua interpretazione dell'inno nazionale americano: ma ucciderlo per questo? No, Jimi è stato ucciso da una macchina infernale che lo ha stritolato. Da questo punto di vista sono molti gli assassini di mio fratello: i manager avidi con le pretese di tour estenuanti, i giornalisti assillanti, l'opinione pubblica, i fans e le groupies che non gli davano tregua, i debiti contratti per gli Studios e le cause legali.
· La maledizione del "club 27".
Simona Marchetti per "corriere.it" il 14 ottobre 2020. Quando è morto suicida, sparandosi un colpo d'arma da fuoco durante la festa di compleanno della sua ragazza lo scorso 12 luglio, Ben Keough, figlio di Lisa Marie Presley e nipote del leggendario Elvis, aveva in corpo alcool e cocaina. A rivelarlo è il rapporto dell’autopsia ottenuto dal Sun, che registra il decesso come suicidio causato da una ferita d’arma da fuoco, aggiungendo inoltre che il 27enne è risultato positivo ad alcool e cocaina. Sempre secondo il documento autoptico, Ben aveva già tentato di togliersi la vita cinque o sei mesi prima del disperato gesto di luglio e tre mesi fa aveva sofferto di una grave ricaduta in depressione.
Tre volte in rehab. A quanto pare, non aveva però chiesto aiuto a nessuno per superare i suoi problemi mentali, aggravati anche dall’abuso di alcool e sostanze illecite come la cocaina, dipendenze che aveva inutilmente cercato di curare con diversi ricoveri nei centri di riabilitazione (era stato in rehab tre volte, completando però il programma una sola volta). Nel rapporto si parla anche di un presunto litigio fra l’erede di Elvis e la sua ragazza, Diana Pinto, registrato dalle telecamere di sorveglianza nel cortile della villa di Calabasas di proprietà della Presley e teatro del suicidio, poco prima che Ben andasse in bagno e si sentisse riecheggiare il colpo d’arma da fuoco fatale. Sulla scena del suicidio non è stato trovato alcun biglietto d’addio e il giovane Ben è stato poi sepolto nel Giardino della Meditazione di Graceland, a Memphis, accanto al celebre nonno.
Da "ilmessaggero.it" il 17 settembre 2020. Tre personaggi del mondo dello spettacolo sono morti in Asia, negli ultimi tre giorni, in circostanze misteriose che fanno pensare al suicidio. Tutti avevano 36 anni. L'ultimo a perdere la vita è stato il cantante, attore, conduttore televisivo e imprenditore taiwanese Alien Huang, conosciuto anche come Huang Hong-Sheng o Xiao Gui, morto a 36 anni nella sua casa di Taipei. Prima di lui hanno perso la vita la coreana Oh In-hye e la giapponese Sei Ashina.
Il cantante taiwanese Alien Huang. La polizia locale ha confermato che il corpo di Huang è stato trovato senza vita mercoledì mattina (ora locale) nella sua casa nel distretto di Beitou di Taipei. La causa della morte deve ancora essere determinata ma si sospetta il suicidio. I media locali hanno pubblicato numerosi dettagli che devono ancora essere confermati. Secondo Apple Daily Taiwan, Huang è stato trovato mezzo nudo in casa e sul pavimento c'erano macchie di sangue. Secondo altre ricostruzioni il corpo di Huang è stato trovato disteso nel corridoio fuori dal bagno. Secondo quanto riportato da United Daily News, la vasca da bagno era piena d'acqua. E in casa non sarebbero state trovati droghe, alcol o segni di effrazione. Il filmato della telecamera di sicurezza ha mostrato che Huang è tornato a casa da solo alle 19.15 di martedì e non è più uscito. A trovare il corpo ed avvisare la polizia è stato il padre di Huang, arrivato a casa verso le 11 di mercoledì. Huang ha fatto la sua ultima apparizione sui social media con una storia di Instagram in cui giocava con un cane il 15 settembre. Ex membro della boy band giapponese HC3, e anche della band taiwanese Cosmo, Huang (alias Xiao Gui o Little Ghost) aveva costruito una carriera nel mondo dell'intrettanimento a 360 gradi: aveva recitato in diversi film, tra cui "Din Tao: Leader of the Parade" e il recente "Agire per amore", in moltissime serie tv e come conduttore di show televisivi come "100% Entertainment", che conduceva con un altro cantante, Show Lo (che si è detto choccato sui social), e "Mr. Player" con Jacky Wu. Nel 2008 Huang ha anche fondato Alien Evolution Studio, un marchio di abbigliamento ancora in attività. Huang è la terza celebrità asiatica ad essere morta all'età di 36 anni in tre giorni consecutivi, in circostanze misteriose che fanno pensare al suicidio. Il 14 settembre è morta infatti l'attrice giapponese Ashina Sei ed è di oggi la notizia della morte dell'attrice coreana Oh In-hye.
L'attrice coreana On In-Hye. L'attrice e modella coreana Oh In-hye è morta lunedì all'Inha University Hospital di Incheon, in Corea del Sud, dove era stata trasportata dopo essere stata trovata priva di sensi a casa sua. Aveva 36 anni. La polizia della città di Incheon ha detto ai media locali di aver risposto a una chiamata dell'amica di Oh che aveva trovato l'attrice priva di sensi in casa lunedì. Oh è stata portata all'ospedale universitario ma è morta lunedì sera per un arresto cardiaco. Le circostanze della morte sono oggetto di indagine, anche perché la polizia ha rivelato che Oh soffriva di depressione. Non si esclude nulla, dunque, compresa l'ipotesi del suicidio. La Oh ha fatto il suo debutto nel film drammatico del 2011 "Sin of a Family". Poi ha recitato in titolo di discreto successo del cinema coreano come "Red Vacance Black Wedding" (2011), "Secret Travel (Sowon taeksi)" del 2013 e "Janus: Two Faces of Desire" (2014), nonché in serie televisive come 'Horse Doctor' (2012) e 'Yeonnam-dong 539' (2018). Negli ultimi anni Oh ha lavorato più sporadicamente come attrice in film e in tv e si è dedicata prevalentemente al beauty vlogging su YouTube. La morte di Oh è solo l'ultima tragedia che ha colpito l'industria dell'intrattenimento della Corea del Sud. All'inizio di quest'anno, Yohan, un membro della band di K-pop TST, è morto a 28 anni. E negli ultimi anni diverse altre giovani star si sono suicidate: nel 2017 si è tolto la vita a 27 anni il frontman della boy band Shinee, Kim Jong-hyun; l'anno scorso, la stessa sorte è toccata alla cantante e attrice Goo Hara, che aveva 28 anni, e alla cantante Sulli, che ne aveva 25.
L'attrice giapponese Ashina Sei. L'attrice giapponese Sei Ashina, protagonista del film "Seta" scritto da Alessandro Baricco e diretto dal francese Francois Girard, è stata trovata morta lunedì 14 nel suo appartamento di Tokyo, in quello che i media locali descrivono come un "apparente suicidio". Ashina aveva 36 anni. Secondo quanto riferito dalla stampa nipponica, il suo corpo ormai senza vita è stato scoperto da un parente, allarmato dal fatto che non rispondesse al telefono. A quanto riferito, aveva una corda al collo e il dipartimento di polizia metropolitana di Tokyo ritiene che si sia suicidata, sebbene non sia stato trovato alcun biglietto, né fosse noto alcun problema personale. Nata a Koriyama, città della prefettura di Fukushima, il 22 novembre 1983, Ashina aveva iniziato la sua carriera come modella per poi intraprendere la strada della televisione e del cinema, dove ha recitato in varie serie e realizzato anche numerosi doppiaggi. Ma a consacrarla a livello internazionale era stato proprio il film tratto dal libro di Baricco, adattato per il cinema dallo stesso scrittore, girato nel 2007 e presentato in anteprima in Giappone nel 2008.
Il club dei 27, ribelli maledetti e musicisti inarrivabili: da Jimi Hendrix a Jim Morrison. Paolo Delgado su Il Dubbio il 14 settembre 2020. Tutti accomunati dall’età della loro morte e da un talento unico. Quando morì per avvelenamento da barbiturici, forse ingeriti con consapevole intento suicida, Alan “Blind Owl” Wilson aveva 27 anni. Non era ancora un’età maledetta ma lo sarebbe diventata di lì a poco, con la strage dei musicisti rock, per coincidenza tutti ventisettenni, dei mesi successivi. A cinquant’anni di distanza dalla scomparsa Blind Owl se lo ricordano in pochi. All’epoca la band californiana in cui suonava, i Canned Heat, erano popolarissimi e Wilson, con il suo aspetto inconfondibile, grasso e ornato da un barbone da profeta biblico, lo conoscevano tutti. Con l’armonica era bravissimo, secondo John Lee Hooker il migliore di tutti, aveva scritto e cantato i due principali successi dei Canned Heat, Going Up the Country e On the Road Again, a Woodstock, l’anno prima, e a Monterey, nel 1967, aveva spopolato. Blind Owl era un ragazzo depresso e aveva già tentato il suicidio qualche mese prima. La sua morte suonò comunque come un segnale sinistro per l’intera controcultura di cui era figlio e insieme protagonista. Il rapporto tra le star e il loro pubblico, mezzo secolo fa, era diverso da quello di oggi. Per molti versi opposto. Le rockstar si sforzavano di somigliare al loro pubblico. Vestivano allo stesso modo. Spesso pensavano allo stesso modo e ci tenevano a farlo sapere. Si proponevano e comunque erano considerati non solo musicisti ma, in un certo senso, portavoce. In parte era di certo una recita ma solo in parte. In fondo rockstar e pubblico venivano dallo stesso ambiente, avevano quasi sempre storie e percorsi molto simili alle spalle. Alan Wilson era, per esempio, uno dei primi ecologisti appassionati quando l’ambiente non era ancora un problema in testa alle agende di tutti. La sua morte, sia per overdose che per suicidio, non fu solo la perdita di uno dei migliori musicisti allora in circolazione ma una sorta di segnale più complessivo. Il vento stava cambiando. La lunga stagione della controcultura, degli hippies, dei festival oceanici intesi anche come modelli di vita diversi, aveva passato il suo mezzogiorno, anche se sul momento pochi se ne accorsero. Ma le folate gelide erano iniziate già nel 1969, l’anno di Woodstock, per molti versi ancora più trionfale del ‘ 68 per le culture giovanili ribelli. Il 3 luglio 1969 era morto nella piscina della sua villa Brian Jones, naturalmente a 27 anni. Era sembrata subito una morte misteriosa, frettolosamente archiviata come incidente mentre le testimonianze emerse nei decenni successivi dicono che si trattò invece, quasi certamente, di omicidio. Jones era di fatto già fuori dalla band che aveva fondato, spodestato e sostituito dalla coppia Mick Jagger- Keith Richards, i Glimmer Twins. Era stato distrutto dall’espulsione dagli Stones ed era comunque devastato da droghe di ogni tipo. La sua fine non fu vista sul momento come un’inversione della tendenza che aveva reso gli anni 60, sia in Uk che negli Usa, forse il decennio più creativo e innovativo della storia. Il mese seguente però l’intero mondo rimase sconvolto dall’eccidio di Cielo Drive, l’uccisione dell’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, e di altre quattro persone nella villa del regista in California, seguito la notte successiva dall’uccisione, altrettanto efferata dei coniugi La Bianca. Stavolta non si poteva equivocare. I killer, la “Manson family”, erano a tutti gli effetti hippie, indistinguibili dalle centinaia di migliaia di giovani avrebbero reso il concerto di Woodstock un evento o storico o che manifestavano per le strade d’America. Emergeva nel odio più truce e tragico una componente oscura della controcultura della cui esistenza nessuno si era sino a quel momento accorto. Poi, il 6 dicembre, l’ombra si allungò sul cuore della controcultura, i concerti di massa. La risposta dei Rolling Stones al concerto di Woodstock che erano stati costretti a disertare fu un concerto gratuito, con la partecipazione di numerose altre star, ad Altamont, nella California del Nord. Affidarono la gestione della sicurezza, su consiglio dei Grateful Dead, agli Hell’s Angels e fu in disastro. Gli Angels erano amici dei dead e li rispettavano, ai loro concerti si erano comportati eccezionalmente bene. Con gli Stones fu un’altra storia, picchiarono e bastonarono, coinvolsero nei disordini gli stessi musicisti sul palco. Ci scappò il morto, un ragazzo nero, Meredith Hunter, accoltellato forse proprio dal servizio d’ordine. Ma la tragedia non furono solo gli Angels. Altri due ragazzi morirono in macchina. Un quarto annegò mentre si faceva il bagno in un la-go, in trip di Lsd. Se Wodstock, almeno secondo i partecipanti, aveva dimostrato che centinaia di migliaia di giovani potevano stare insieme senza bisogno di polizia e disposizione a tutela dell’ordine, Altamont rivelò quanto effimera fosse quella speranza. Il 1969 era finito malissimo. Nel 1970 le cose andarono peggio. Nei campus americani manifestazioni e scontri con la polizia erano stati negli ultimi anni innumerevoli. Il 4 maggio 1970 fu versato sangue e ne fu versato parecchio: quattro studenti uccisi a fucilate dalla Guardia nazionale durante una manifestazione. La lunga estate dell’amore era finita e l’autunno era alle porte. In quello stesso anno, del resto, si sciolsero i Beatles. Nessuno, neppure Elvis aveva cambiato più di loro non solo la musica ma l’intero universo giovanile e la cultura popolare in genere, a ogni livello. I Beatles, qualsiasi cosa si pensi della loro musica, erano stati gli anni 60 più di chiunque altro. C’è una certa eloquente pur se casuale simmetria nella loro uscita di scena proprio al volgere del decennio. L’autunno iniziò con la scomparsa di Blind Owl Wilson, proseguì appena due settimane più tardi, il 15 settembre, con la morte di Jimi Hendrix, soffocato dal suo steso vomito a Londra. Hendirx era il simbolo stesso della controcultura: chitarrista geniale, tanto innovativo quanto lo era stato Charlie Parker nel jazz trent’anni prima, partecipe a tutti gli effetti della cultura hippie, caso molto raro per un nero. Jimi Hendrix era americano di nascita e formazione ma culturalmente era anche inglese perché a Londra aveva raggiunto il successo e inglese era la band che lo aveva accompagnato fino al 1969, gli Experience. Era il ponte tra la ribellione dei ghetti neri e quella dei giovani bianchi. Riuniva nella sua musica le due capitali assoluta della controcultura, Gli Usa e la Swingin’ London. Era anche diventato, nell’arco di soli tre anni, il primo e principale tra i guitar heroes del rock. La sua scomparsa, le cui cause non sono mai state del tutto accertate ma che sicuramente consistevano in qualche sostanza psicotropa, forse l’Lsd, più probabilmente barbiturici fu davvero il segnale di una fine. Da quel momento i cadaveri degli eroi della controcultura si contarono uno dopo l’altro. Il 4 ottobre fu il turno di Janis Joplin, anche lei stella di primissima grandezza, la bianca che cantava il blues come una nera, o almeno ci provava sul serio, che non aveva mai superato il dolore di una giovinezza da emarginata nel Texas. Nel suo caso assassina fu una overdose di eroina. Il 3 luglio 1971 a lasciarci la pelle, ancora per l’eroina, fu Jim Morrison, a Parigi. Il cantante dei Door era ingrassato, imbolsito, appesantito da fiumi di alcol, incattivito dai processi per oscenità. Si era trasferito i Europa per provare a ricominciare e probabilmente gli era stata fatale una dose di eroina alla quale non era abituato. Sulla fine di Jim Morrison sono fiorite per decenni leggende. Non si contano quanti sostengono di averlo visto vivo, di avere le prove che la sua morte era stata solo una messa in scena. Nessun dubbio invece sulla scomparsa di Duane Allman, forse il chitarrista più dotato della sua generazione con Hendrix, perito in un incidente in moto il 29 ottobre. Anche lui, come il cantante dei Door anche se per motivi diversi non aveva passato il confine dei 27 anni. L’anno successivo, nello stesso punto, sarebbe morto in moto anche il bassista della band, gli Allman Brothers Band, Barry Oakley, considerato a tutt’oggi uno dei bassisti più dotati di tutti i tempi. Chiuse la triste lista, l’ 8 marzo 1973, Ron “PigPen” McKernan. Aveva fondato con Jerry Garcia la band che resterà per sempre il simbolo stesso della controcultura, i Grateful Dead. Pigpen era un puro musicista blues, non aveva mai accettato del tutto la svolta psichedelica dei Dead. Nella band era il solo a sdegnare l’Lsd rifugiandosi, spesso conl’amica Janis Joplin, nell’alcol, che lo uccise, naturalmente a 27 anni. I Dead erano più che una band: erano una bandiera. I funerali di Pigpen furono seguiti da una folla enorme, probabilmente consapevole di stare partecipando, commossa, alle esequie di un’epoca.
Da lastampa.it il 13 luglio 2020. Il figlio di Lisa Marie Presley, unico nipote di Elvis, è morto. Benjamin Keough aveva 27 anni, e secondo le prime ricostruzioni si sarebbe trattato di suicidio. Il manager della Presley, Roger Widynowski, ha dichiarato domenica all'Associated Press che la donna aveva il cuore spezzato dopo aver appreso della morte di suo figlio. «Ha il cuore spezzato, inconsolabile e al di là devastata, ma cerca di rimanere forte per i suoi gemelli di 11 anni e la figlia maggiore Riley – ha affermato Widynowski –. Adorava quel ragazzo. Era l'amore della sua vita». Tmz riferisce che Keough è morto per una ferita da arma da fuoco autoinflitta domenica a Calabasas, in California. Nancy Sinatra ha twittato le sue condoglianze a Presley, scrivendo: «Ti conosco da prima che tua madre ti partorisse, non sognando mai che avresti avuto un dolore simile nella tua vita. Mi dispiace molto». Anche il giovane era musicista, come il nonno, la madre e il padre Danny, ma aveva sempre tenuto un basso profilo. Più nota la sorella, l’attrice Riley Keough, che ha partecipato a numerosi film indipendenti e horror, incluso The lodge nel 2019.
La maledizione del "club 27". Morto a 27 anni Benjamin Keough, l’unico nipote di Elvis Presley. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2020. Benjamin Keough è morto all’età di 27 anni. Unico nipote di Elvis Presley, figlio di Lisa Marie Presley, secondo le prime ricostruzioni si sarebbe suicidato anche se le dinamiche della vicenda sono ancora tutte da chiarire. Il manager della Presley, Roger Widynowski, ha dichiarato domenica all’Associated Press che la donna aveva il cuore spezzato dopo aver appreso della morte di suo figlio. “Ha il cuore spezzato, inconsolabile e al di là devastata, ma cerca di rimanere forte per i suoi gemelli di 11 anni e la figlia maggiore Riley”, ha affermato Widynowski, “Adorava quel ragazzo. Era l’amore della sua vita”. Tmz riferisce che Keough è morto per una ferita da arma da fuoco autoinflitta domenica a Calabasas, in California. Nancy Sinatra, cantante e figlia del celebre Frank Sinatra, ha twittato le sue condoglianze a Presley scrivendo: “Ti conosco da prima che tua madre ti partorisse, non sognando mai che avresti avuto un dolore simile nella tua vita. Mi dispiace molto”. Anche il giovane era musicista, come il nonno, la madre e il padre Danny, ma non aveva mai spiccato di notorietà contrariamente a sua sorella, l’attrice Riley Keough, che ha partecipato a numerosi film indipendenti e horror, incluso The lodge nel 2019. Della vita di Ben, infatti si sa ben poco. Si sa solo che, proprio come il nonno, è cresciuto a stretto contatto con il mondo della musica decidendo di intraprendere una carriera come musicista. Nonostante questa scelta, Benjamin ha sempre mantenuto un profilo basso tenendosi lontano dal mondo dei social network e dai riflettori del mondo dello spettacolo. Noto anche per la somiglianza al nonno, si era visto per l’ultima volta in occasione del quarantesimo anniversario della morte di Elvis in durante una veglia tenutasi a Graceland.
IL CLUB DEI 27 – Benjamin Keough è solo l’ultimo tassello della cosiddetta maledizione del club 27, ovvero gli artisti morti all’età di 27 anni. Tutto cominciò tra il 1969 e il 1971 una serie di morti improvvise scosse il mondo della musica. Il 3 luglio del 1969, sul fondo della piscina della sua casa nel Sussex, in Inghilterra, venne trovato il corpo senza vita di Brian Jones, polistrumentista dei Rolling Stones. Jones aveva 27 anni e divenne così il capostipite di un lugubre ed esclusivo club di artisti. Nel 1970 morì Jimi Hendrix, l’artista afroamericano che aveva rivoluzionato il modo di suonare la chitarra elettrica. Nell’ottobre dello stesso anno toccò all’autrice e cantante Janis Joplin. L’anno successivo, a Parigi – curiosamente il 3 luglio, a due anni esatti dalla morte di Jones – venne ritrovato in una vasca da bagno il corpo senza vita di Jim Morrison, frontman e cantante dei The Doors. Anche questi ultimi avevano 27 anni e divennero i più famosi rappresentanti di quello che cominciò a essere chiamato il “Club of 27”. Si tratta di un gruppo di artisti scomparsi prematuramente, spesso all’apice delle loro carriere, e tutti alla stessa età: 27 anni, per l’appunto. Il caso ha scomodato anche la rivista scientifica British Medical Journal, che nel 2011 ha concluso uno studio dichiarando come non esista un aumento del rischio di morte per i musicisti a 27 anni. Questa misteriosa coincidenza ha comunque alimentato una sorta di culto del Club. Spesso vengono avanzate teorie complottiste che tirano in ballo i servizi segreti, la CIA o altri corpi speciali. Secondo tali teorie, infatti, i membri del Club sarebbero stati in molti casi eliminati a causa della loro presunta influenza sovversiva sulle grandi masse di fans. Fatto sta che ogni volta che scompare un’artista di questa età si torna a parlare del fantomatico Club. L’ultima volta che il caso ha riguardato una star di caratura internazionale è stato in occasione della morte di Amy Winehouse, cantante inglese morta nel luglio 2013 a causa di un’intossicazione da alcolici. Un’altra caratteristica che condividono i membri del Club dei 27 sono proprio le morti causate da abusi di alcol e droghe. Ci sono anche casi di morti violente causati da incidenti stradali, suicidi o omicidi. Nel corso degli anni, quello che inizialmente era un circolo riservato quasi esclusivamente a musicisti rock, si è allargato a praticamente tutti i generi musicali. Nel Club vengono fatti rientrare anche l’attrice Masako Natsume e l’artista e street artist Jean-Michel Basquiat. La pagina su Wikipedia raccoglie membri a partire dal 1864 fino ai giorni nostri. Altre personalità di spicco del Club sono Robert Johnson, considerato da molti il padre della canzone blues, e Kurt Cobain, idolo grunge secondo gli inquirenti suicidatosi con un colpo di fucile nel 1994.
La maledizione del “club 27”: morto Harry Hains, star di American Horror Story. Redazione su Il Riformista il 10 Gennaio 2020. E’ morto a soli 27 anni l’attore di origini australiane Harry Hains, celebre attore della famosa serie televisiva American Horror Story. Proprio oggi la serie tv americana è stata rinnovata fino alla tredicesima stagione, ma l’entusiasmo è stato stroncato dal dolore di questa giovane perdita. Conosciuto anche per aver recitato in altre serie tv come The OA e Sneaky Pete, soffriva di depressione e di disordini del sonno. Stando a quanto dichiarato dalla famiglia, nell’ultimo anno il giovane artista aveva assunto un comportamento autodistruttivo e nei mesi precedenti la morte avrebbe affrontato problemi di salute mentale e dipendenza. Morto lo scorso 7 gennaio, il suo funerale si terrà a Los Angeles il prossimo 12 gennaio. A dare il triste annuncio della sua morte è stata la madre, Jane Badler, famosa attrice che ha recitato in Mission Impossible e Visitors. Sul suo account ufficiale su instagram ha scritto: “Il 7 gennaio è morto il mio meraviglioso ragazzo. Aveva 27 anni e una vita davanti. Sfortunatamente è stato sconfitto dalla depressione e dalle dipendenze. Una scintilla brillante che si è spenta troppo presto. Mi mancherai Harry ogni giorno della mia vita”, allegando alla triste dedica anche alcuni scatti dell’attore in compagnia dei genitori e del fratello Sam.
LA STORIA – Nato il 4 dicembre 1992 Harry Hains era originario di Melbourne ma si era trasferito prima a New York ed infine a Los Angeles quando la sua carriera da attore è decollata. Inoltre il 27enne era anche un modello e un musicista, diventando famoso anche per la sua fluidità gender sia nella vita reale che nella sua professione artistica. Aveva iniziato l’università intenzionato a laurearsi in medicina, ma aveva mollato tutto per trasferirsi a Londra. Infine è arrivato a Los Angeles per dedicarsi alla carriera da modello e fare fortuna come attore ad Hollywood.
CLUB 27 – Alla notizia della sua precoce scomparsa, il web ha reagito con sentimenti di dolore e sconcerto. Infatti è rimbalzata subito sui social la cosiddetta “maledizione dei 27”, un’espressione usata inizialmente nella stampa del settore musicale a partire dal 1994 quando, data la coincidenza dell’età, la morte di Kurt Cobain venne posta in relazione a quelle di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutti all’età di 27 anni nel breve periodo tra il 1969 e il 1971. Successivamente, l’espressione è stata estesa ad altri esponenti del mondo musicale che sono morti a 27 anni, come Amy Winehouse nel 2011, nonché ad alcuni morti a questa età in epoche precedenti, come Robert Johnson nel 1938. Accanto a questi vengono talvolta ricompresi nel club altri artisti deceduti all’età di 27 anni, come la bassista Kristen Pfaff, componente del gruppo Hole. I motivi dei decessi sono spesso riconducibili ad abuso di alcol o droga, incidenti e suicidio.
La storia. Cosa è il club dei 27. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Ottobre 2019. Tra il 1969 e il 1971 una serie di morti improvvise scosse il mondo della musica. Il 3 luglio del 1969, sul fondo della piscina della sua casa nel Sussex, in Inghilterra, venne trovato il corpo senza vita di Brian Jones, polistrumentista dei Rolling Stones. Jones aveva 27 anni e divenne così il capostipite di un lugubre ed esclusivo club di artisti. Nel 1970 morì Jimi Hendrix, l’artista afroamericano che aveva rivoluzionato il modo di suonare la chitarra elettrica. Nell’ottobre dello stesso anno toccò all’autrice e cantante Janis Joplin. L’anno successivo, a Parigi – curiosamente il 3 luglio, a due anni esatti dalla morte di Jones – venne ritrovato in una vasca da bagno il corpo senza vita di Jim Morrison, frontman e cantante dei The Doors. Anche questi ultimi avevano 27 anni e divennero i più famosi rappresentanti di quello che cominciò a essere chiamato il “Club of 27”. Si tratta di un gruppo di artisti scomparsi prematuramente, spesso all’apice delle loro carriere, e tutti alla stessa età: 27 anni, per l’appunto. Il caso ha scomodato anche la rivista scientifica British Medical Journal, che nel 2011 ha concluso uno studio dichiarando come non esista un aumento del rischio di morte per i musicisti a 27 anni. Questa misteriosa coincidenza ha comunque alimentato una sorta di culto del Club. Spesso vengono avanzate teorie complottiste che tirano in ballo i servizi segreti, la CIA o altri corpi speciali. Secondo tali teorie, infatti, i membri del Club sarebbero stati in molti casi eliminati a causa della loro presunta influenza sovversiva sulle grandi masse di fans. Fatto sta che ogni volta che scompare un’artista di questa età si torna a parlare del fantomatico Club. L’ultima volta che il caso ha riguardato una star di caratura internazionale è stato in occasione della morte di Amy Winehouse, cantante inglese morta nel luglio 2013 a causa di un’intossicazione da alcolici. Un’altra caratteristica che condividono i membri del Club dei 27 sono proprio le morti causate da abusi di alcol e droghe. Ci sono anche casi di morti violente causati da incidenti stradali, suicidi o omicidi. Nel corso degli anni, quello che inizialmente era un circolo riservato quasi esclusivamente a musicisti rock, si è allargato a praticamente tutti i generi musicali. Nel Club vengono fatti rientrare anche l’attrice Masako Natsume e l’artista e street artist Jean-Michel Basquiat. La pagina su Wikipedia raccoglie membri a partire dal 1864 fino ai giorni nostri. Altre personalità di spicco del Club sono Robert Johnson, considerato da molti il padre della canzone blues, e Kurt Cobain, idolo grunge secondo gli inquirenti suicidatosi con un colpo di fucile nel 1994.
· E’ morto il musicista Claude Bolling.
Marco Giusti per Dagospia il 31 dicembre 2020. Grande pianista jazz, compositore, arrangiatore, autore della musica di oltre cento film, ma soprattutto di quella famosa e orecchiabilisima di un classico degli anni ’70 come “Borsalino” di Jacques Deray con la coppia Delon&Belmondo, se ne va a 90 anni Claude Bolling. Era nato a Cannes nel 1930, aveva studiato al conservatorio di Nizza durante l’occupazione con Marie Louise Colin, che gli consigliò poi di andare a Parigi nel dopoguerra. Bambino prodigio a soli 14 anni, a 16 fonda la sua prima orchestra, a 18 incide il primo disco. Suona il piano, giovanissimo, a fianco di celebrità del jazz come Lionel Hampton, Roy Eldridge e Kenny Clarke. Si sente discepolo di Duke Ellington. Nel 1956 fonda la sua Big Band che porterà avanti fino al 2010. Grazie a Boris Vian, che lo aveva ribattezzato Bollington, arrangiò celebri canzoni per Juliette Greco, Henri Salvador e “La madrague” di Brigitte Bardot, che lui fece esplodere come cantante. Incise anche dischi famosi dove rileggeva in chiave swing la musica del passato insieme al flautista Jean-Pierre Rampal, come “Suite pour flûte et jazz piano trio”, che fu per due anni in cima alle classifiche delle vendite americane di Billboard. Col cinema inizia nel 1960 col bellissimo “Le mani dell’altro” di Edmond T. Greville con Mel Ferrer dove protagonista è proprio un pianista che, dopo un incidente dove perde le mani, si ritrova trapiantate le mani di un pianista. Attivo per tutti gli anni ’60, musica film molto diversi, come “Il mondo nelle mia tasca” di Alvin Rakoff con Rod Steiger, “Il giorno e l’ora” di René Clement con Simone Signoret, “Con la morte alle spalle” di Alfonso Balcazar con George Martin, arriva al vero successo nel cinema solo nel 1970 con il suo ragtime alla francese per “Borsalino” di Jacques Deray con Belmondo e Delon gangster ben vestiti nella Marsiglia anni ’30, campione d’incasso anche grazie al suo famoso leit-motiv che ancora oggi ricordiamo. Da quel film venne spesso chiamato per noir e spy movies, affiancandosi a registi di grande successo popolare come Philippe De Broca, “Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo” con Belmondo e Jacqueline Bisset, Josè Giovani, “Lo zingaro” con Alain Delon, Jean Girault, “La gang dell’anno santo” con Jean Gabin, e lo stesso Deray, che lo volle sia per “Borsalino&Co” sia per “Flic Story” con Delon e Jean-Louis Trintignant. Negli anni ’70 il sound allegro, brillante, molto jazz di Bolling ebbe un ruolo importante nel cinema francese. Venne chiamato anche per musicare film fuori dalla Francia, come la commedia “California Suite” di Herbert Ross con Walter Matthau, il fantastico “Alla 39° eclisse” di Mike Newell con Charlton Heston e Susannah York, “Uomini d’argento” di Ivan Passer con Michael Caine, “Io, Willy e Phil” di Paul Mazursky, il remake americano di “Jules et Jim”. Nel 1969 ebbe l’onore di musicare il classico del muto di Buster Keaton “The Navigator”. Musicò pure ben 36 puntate del televisivo “Le brigate del Tigre”, con tanto di canzone dei titoli cantata da Philippe Clay e vari episodi del “Lucky Luke” di René Goscinny in versione animata. Lo troviamo anche attore in cinque film. La sua “Temptation Rag” la sentiamo perfino nel recentissimo “Joker”.
· È morto lo stilista Pierre Cardin.
È morto Pierre Cardin, se ne va lo stilista del futuro. Scompare a 98 anni lo stilista di origini italiane naturalizzato francese. Un precursore che ha immaginato tutto quello che oggi amiamo. Serena Tibaldi su La Repubblica il 29 dicembre 2020. È morto a 98 anni lo stilista Pierre Cardin, nell'ospedale americano di Neuilly vicino Parigi. Di origini italiane, naturalizzato francese ha segnato la moda del Novecento con il suo stile innovativo. La notizia della scomparsa è stata data dall'agenzia Afp citando fonti della famiglia. Pietro Cardin nasce il 2 luglio del 1922 a San Biagio di Callalta, un paesino nella provincia di Treviso. Ci resta poco però, perché con la famiglia si trasferisce presto nel centro della Francia. È lì che cresce fino al 1939, quando se ne va a Vichy per diventare apprendista di un sarto: è lì che impara a cucire. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale presta servizio nella Croce Rossa (la passione per il volontariato non lo abbandonerà mai), e una volta terminati i combattimenti viene assunto da Elsa Schiaparelli. Ma è nel 1947, quando Christian Dior lo mette a capo della sua sartoria (Balenciaga invece lo rifiuta) che la sua carriera inizia davvero. Nel '50 si mette in proprio fondando la maison che porta il suo nome, nel '51 si fa conoscere al grande pubblico grazie alla creazione di numerosi e spettacolari costumi per il ballo in maschera organizzato a Venezia da Carlos de Beistegui, e presenta la sua prima collezione couture nel 1953. Alta moda a parte, Cardin è un vero democratico nell'anima: costantemente proiettato in avanti, intuisce che il futuro della moda è in strada, addosso alla gente "comune", e presto inizia a lavorare con questo obiettivo. È il primo couturier in assoluto a entrare sul mercato giapponese nel '59 e poi a creare una collezione low price per i grandi magazzini francesi Printemps: la Chambre Syndacale de la Couture non apprezza e lo caccia, salvo poi riammetterlo poco dopo. Intanto però il suo percorso continua: negli anni '60 crea una rete di prodotti in licenza per penetrare al meglio nel mercato e nel '66, stavolta di sua volontà, si stacca dalla Chambre Syndacale per iniziare a presentare le sue collezioni all'Espace Cardin: inaugurato nel 1971 è uno dei primi esempi di grandi spazi gestiti dai designer, oggi una consuetudine; lascia spesso lo spazio anche ai giovani creativi più promettenti, facendo così anche da talent scout. Ossessionato con la tecnologia e con l'immaginare come ci si vestirà nei decenni successivi, spinge le sue creazioni sempre oltre, preferendo i tessuti artificiali e le geometrie enfatizzate: è del '67 Cosmos, lungo fourreau circondato da "anelli-satellite", e negli anni successivi arrivano i vestiti di pvc, gli occhiali a mascherina, i pullover-bozzolo, gli shorts e gli stivaloni di vernice. La sua creazione più famosa è forse il Bubble Dress, creato in omaggio alla sua celeberrima casa sulla costiera francese, la Bubble House, costruita in collaborazione con l'architetto Antti Lovag e composta da una serie di "bolle" arredate in puro stile futurista anni '60. Nel 1979 sfila per prima sulla Grande Muraglia cinese, e da allora sfrutta le location più spettacolari per le sue presentazioni, dal deserto sino ai borghi medievali. Instancabile, negli anni conferma la sua abilità con gli investimenti: nel 1981 diventa uno degli azionisti di Maxim's, il celebre ristorante francese (con lui le sedi del ristorante si moltiplicheranno in tutto il mondo), nel 2001 acquista i ruderi del castello di Lacoste, dove un tempo aveva vissuto anche il Marchese De Sade, e lo restaura parzialmente organizzando lì ogni estate un festival di musica per artisti emergenti. Possiede anche un Palazzo a Venezia (forse in omaggio alle sue origini venete), Ca' Bragadin, e nella città lagunare qualche anno fa, progetta di costruire l'inquietante Palais Lumière, una torre di 250 metri con ristoranti e teatri: la sua idea è di inaugurarla per l'Expo del 2015, ma il progetto si chiude con un nulla di fatto. La sua ultima apparizione ufficiale risale al 22 settembre del 2020, al Teatro Chatelet di Parigi dove nel pieno della fashion week parigina, circondato da amici e ammiratori (tutti con le mascherine d'ordinanza), festeggia i 70 anni della sua maison. Entusiasta, costantemente alla ricerca di nuovi progetti, Pierre Cardin resta un esempio unico e forse irripetibile nella moda.
Morto Pierre Cardin: lo stilista aveva 98 anni. «Il mio rimpianto? Un figlio». Morto a 98 anni Pierre Cardin. Inventore della «moda pronta», aveva origini italiane. Michela Proietti il 29/12/2020 su Il Corriere della Sera. Pierre Cardin è morto all’American Hospital di Neuilly, vicino a Parigi. Lo stilista e imprenditore aveva origini italiane (Pietro Costante Cardin nato a Sant’Andrea di Barbarana nel trevigiano, nel 1922) ed era naturalizzato francese. A luglio aveva compiuto 98 anni. Una vita, la sua, dedicata alla moda. A settembre, durante la settimana delle sfilate francesi, il designer aveva festeggiato i 70 anni di carriera con un grande evento al Theatre du Chatelet, accompagnato dai nipoti e insieme ad amici e colleghi, tra i quali lo stilista Jean Paul Gaultier, Christian Louboutin e Inès de la Fressange.
Le origini. Diviso tra la casa di Parigi, la villa di Théoule-sur-Mer in Costa Azzurra e il castello di Lacoste (dove abitò il marchese de Sade) ha riscattato grazie al suo talento una vita nata non sotto i migliori auspici: ultimo di otto figli di un possidente terriero rovinato dalla Grande guerra, costretto a emigrare oltralpe nel 1924, ha avuto nel 1959 l’intuizione che ha cambiato il corso del destino, quella del prêt-à-porter, che fece sfilare nei grandi magazzini parigini Printemps. Pierre Cardin ha partecipato con André Courrèges (1923-2016) e Paco Rabanne alla rinascita dell’haute couture nella Francia del dopoguerra. «Ho sempre avuto la mia testa rivolta al futuro. Ho sempre creato per i giovani», diceva di sé lo stilista. Amato da icone del cinema e del jet set come Elizabeth Taylor, Barbra Streisand, Jeanne Moreau, Lauren Bacall, Jackie Kennedy, Charlotte Rampling, ma anche da gruppi leggendari come i Beatles (per i quali aveva creato l’abito nero con il collo alla coreana) e i Rolling Stones.
I premi. A lui vanno riconosciuti molti primati: fu il primo a creare la collezione moda per l’uomo nel 1960; il primo ad andare in Giappone, in Cina e in Russia aprendo boutique; il primo ad applicare le licenze nella distribuzione di prodotti che non fossero solo abbigliamento; il primo ad allestire mostre; il primo a vestire ogni ambito del vivere, dagli occhiali ai ristoranti, dalle navi agli aerei. Stilista ma anche sarto, abilissimo a cucire, ha dato una impronta sartoriale alla sua moda fin dagli esordi, quando nel 1945 fu assunto da Jeanne Paquin e poi da Elsa Schiaparelli. Tra i primi «grandi» a credere in lui anche Christian Dior che lo ingaggiò: ma Cardin ha intrattenuto rapporti veri con tutto il gotha della moda, da Saint-Laurent a Givenchy e anche con Giorgio Armani, di cui ha sempre ricordato il tratto elegante. Anche lui, a sua volta è stato maestro di astri nascenti come Jean-Paul Gaultier, definito da Cardin «un provocatore nato, dal carattere molto allegro».
Il rimpianto.Omosessuale dichiarato ha sempre ribadito la sua attrazione per Jeanne Moreau, dalla quale avrebbe desiderato anche un figlio, uno dei suoi più grandi rimpianti. «Ti danno prospettiva e offrono l’opportunità di trasmettere loro la tua esperienza». Per questo ha sempre coltivato con grande dedizione il rapporto con il nipote Rodrigo Basilicati, nominato anche designer della maison e suo erede artistico.
Patrizia Vacalebri per "Ansa" il 29 dicembre 2020. Addio a Pierre Cardin, lo stilista italiano nato a Sant'Andrea di Barbarana, frazione del comune di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso, in Veneto, ma cresciuto in Francia, paese dove mosse i primi passi nella moda e crebbe, fino a diventare uno tra i più importanti couturier della seconda metà del Novecento, un gigante della moda e del design morto oggi 29 dicembre a 98 anni. In realtà il cuore di Pietro Costante Cardin, nato il 2 luglio 1922, da una famiglia di facoltosi agricoltori, finiti in povertà dopo la prima guerra mondiale, era rimasto sempre in Italia. Forse tra tutti i couturier del secolo scorso, nati in Italia e cresciuti in Francia, Cardin è stato quello che ha rappresentato al meglio quel mix di stile tra Italia e Francia, motivo determinante del suo successo. A soli 14 anni nel 1936, il giovane Pierre, il cui nome italiano, Pietro, era stato francesizzato, cominciò l'apprendistato da un sarto a Saint-Étienne. Dopo una breve esperienza da Manby, sarto a Vichy, nel 1945 giunse a Parigi lavorando prima da Jeanne Paquin e poi da Elsa Schiaparelli. Primo sarto della maison Christian Dior durante la sua apertura nel 1947 (dopo essere stato rifiutato da Cristobal Balenciaga) fu partecipe del successo del maestro che inventò il New Look. Nel 1950 fondò la sua casa di moda, cimentandosi con l'alta moda nel '53. Cardin divenne celebre per il suo stile futurista, ispirato alle prime imprese dell'uomo nello spazio. Preferiva tagli geometrici spesso ignorando le forme femminili. Amava lo stile unisex e la sperimentazione di linee nuove. Nel 1954 introdusse il bubble dress, l'abito a bolle. Cardin è stato un antesignano anche nella scelta di nuovi mercati e nel firmare nuove licenze. Nel '59 fu il primo stilista ad aprire in Giappone un negozio d'alta moda. Sempre in quell'anno fu espulso dalla Chambre Syndacale francese, per aver lanciato per primo a Parigi una collezione confezionata per i grandi magazzini Printemps. Ma fu presto reintegrato. Tuttavia, Cardin è stato membro della Chambre Syndicale de la Haute Couture et du Pret-à-Porter e della Maison du Haute Couture dal 1953 e si dimise dalla Chambre Syndacale nel 1966. Le sue collezioni dal 1971 sono state mostrate nella sua sede, l'Espace Cardin, a Parigi, prima di allora nel Teatro degli Ambasciatori, vicino all'Ambasciata americana, uno spazio che il couturier ha utilizzato anche per promuovere nuovi talenti artistici, come teatranti o musicisti. Come molti altri stilisti Cardin decise nel 1994 di mostrare la sua collezione solo a un ristretto gruppo di clienti selezionati e giornalisti. Nel 1971 Cardin venne affiancato nella creazione d'abiti dal collega Andrè Oliver, che nel 1987 si assunse la responsabilità delel collezioni d'alta moda, fino alla sua morte nel 1993. Lo stilista amava la mondanità, il mondo del jet set, così nel 1981 acquistò i celebri ristoranti parigini Maxim's. In breve tempo aprì filiali a New York, Londra e a Pechino nel 1983 e vi affiancò una catena di hotel. Tra le licenze della linea Maxim's c'era anche un'acqua minerale che veniva prelevata ed imbottigliata a Graviserri nel comune di Pratovecchio Stia, provincia di Arezzo. La passione degli immobili. Cardin era entrato in possesso delle rovine di un castello a Lacoste abitato nel passato dal Marchese de Sade. Dopo aver ristrutturato il sito, lo stilista vi organizzava dei festival teatrali. Cardin aveva ritrovato le sue radici italiane anche con l'acquisto del palazzo Ca' Bragadin a Venezia dove risiedeva durante i suoi frequenti soggiorni nella città lagunare (nella calle attigua c'è uno spazio espositivo). Negli anni '80 aveva acquistato il Palais Bulles (Il palazzo delle bolle) progettato dall'eccentrico architetto Lovag Antti. Tutto, dal pavimento al soffitto, era riempito da forme sferiche. Con il suo teatro da 500 posti a sedere, le piscine con vista sul Mar Mediterraneo era spesso luogo di feste ed eventi. L'interno era arredato con pezzi di design, le Sculptures utilitaires disegnate dallo stesso Cardin, che dal 1977 ha dato vita a una collezione di mobili eleganti dalle forme sinuose. Nel golfo di Cannes, a Théoule-sur-Mer, a Sud della Francia, quest'opera architettonica nell'88 è stata designata dal Ministero della Cultura quale monumento storico. Anche un docu-film sulla vita di Cardin presentato al Festival del cinema di Venezia nel 2019: House of Cardin di P. David Ebersole, Todd Hughes. Nel luglio 2019, anche una mostra monografica dedicata al "gigante della moda" negli Usa, nel Brooklyn Museum.
Morto lo stilista francese Pierre Cardin. L'annuncio del decesso, avvenuto il 29 dicembre, è arrivato dalla famiglia attraverso l'agenzia France Presse. Novella Toloni, martedì 29/12/2020 su Il Giornale. Il mondo della moda mondiale piange la scomparsa di Pierre Cardin. Lo stilista francese è morto, all'età di 98 anni, nell'ospedale americano di Neuilly, a ovest di Parigi. Figlio di immigrati italiani divenuto un uomo d'affari in giovane età, Pierre Cardin ha segnato la storia della moda con il suo nome e il suo stile inconfondibile. Icona di stile e avanguardia, Pierre Cardin in una intervista al nostro giornale, nel 2018, aveva confessato: "Nel pensiero e nel lavoro sono rimasto molto italiano. Alla Francia, che mi ha ospitato quand'ero povero, volevo dimostrare di avere talento. Io sono una persona molto fortunata. Fortunato in amore, nel lavoro e nella salute: e questo in tutte le fasi della vita. Si è puntualmente realizzato ciò che mi aveva predetto una maga cartomante, che avevo incontrato al mio arrivo a Parigi da piccolo". Pietro Costante Cardin è nato in Italia il 2 luglio 1922, a Sant'Andrea di Barbarana, in provincia di Treviso, da una famiglia di facoltosi proprietari terrieri e mercanti poi caduti in disgrazia dopo la seconda guerra mondiale. A soli due anni si trasferì con i suoi genitori a Parigi in cerca di fortuna. Una città, la capitale parigina, che lo avrebbe reso celebre in breve tempo. A 14 anni inizia a lavorare come apprendista sarto mostrando doti incredibili e grande estro. A soli 24 anno divenne primo sarto della maison Christian Dior ma pochi anni dopo decise di fare il grande salto e fondare la sua casa di moda. Era il 1950 e Pierre Cardin mosse i primi passi in un ambiente, quello della moda internazionale, destinato a lasciare un segno indelebile. Pierre Cardin è noto per il suo stile d'avanguardia ispirato alle forme e ai motivi geometrici. Pur essendo partito dagli abiti femminili, lo stilista francese preferì concentrare la sua creatività sulla moda unisex molto spesso sperimentale e sopra le righe. Fu lui, nel 1954, in un periodo ancora "acerbo" per le innovazioni, a proporre il primo "bubble dress", il vestito a bolle. Anni di soddisfazioni e di primati per lui che nel 1959 fu il primo couturier a sbarcare sul mercato giapponese con le sue creazioni. Ma anche a creare una collezione low price per i grandi magazzini francesi Printemps.
''VUOI FINIRE COME PIERRE CARDIN A FIRMARE LE PIASTRELLE DEL BAGNO?'' Dall'articolo di Fabiana Giacomotti per ''Il Foglio'' il 30 dicembre 2020. Vorremmo poter scrivere cose meravigliose di Pierre Cardin, il couturier della “robe bulle” e di quel sogno che si chiamava Space Age. Vorremmo dire che l’allievo di Elsa Schiaparelli e di Christian Dior fu il primo a immaginare la moda unisex, a vestire i Beatles in tour, ad aprire un negozio in Giappone e non aggiungere altro. Come hanno fatto in molti. Invece ci continua a venire in mente l’epiteto con cui veniva etichettato dopo gli anni Ottanta qualunque stilista esagerasse con le licenze (“vuoi finire come Pierre Cardin a firmare le piastrelle del bagno?”), e ci sovviene una sfilata a cui assistemmo a Firenze nel 2003 grazie a Pitti che, per ragioni sue, aveva deciso di celebrare il cinquantenario di attività del trevigiano che aveva conquistato Parigi e il mondo intero firmando qualunque cosa gli capitasse a tiro. Nel salone di Palazzo Corsini era stata issata una gran passerella, alta come si usava nel Dopoguerra per cui noi, sedute in prima fila, potemmo osservare non solo quegli abiti che sembravano (e in effetti erano) pensati nel loro effetto spaziale, cioè senza tener conto dell’anatomia di chi li indossava e in particolare di quella femminile, ma soprattutto le scarpe, che sfilavano ad altezza del nostro sguardo. Erano tutte modelle degli anni Ottanta, nere col tacco a rocchetto, e quasi tutte avevano i tacchi sbrecciati: lo ricordiamo ancora oggi, quasi diciotto anni dopo, perché alla cena che seguì ci informammo sulle ragioni di quella inaudita sciatteria. Ci venne detto che il maestro aveva voluto usare le scarpe vintage conservate in atelier. Che nulla c’entrassero con gli anni Sessanta della Space Age che aveva contribuito a lanciare, e tanto meno con i vestiti, tant pis.
COME I BEATLES E ANDY WARHOL HA RIVOLUZIONATO LA MODA (POP). Luca Beatrice per ''il Giornale'' il 30 dicembre 2020. Spesso ci si domanda quando la moda diventa arte, aldilà dell' apertura delle porte dei musei per una disciplina capace certo di unire l' abilità artigianale, i cromatismi pittorici e le forme scultoree che lavorano sul corpo, non lontana dalla performance. Oggi che la moda è oggetto di studi, di mostre, di analisi sociale è ancor più importante distinguere i creativi dagli artisti. I primi intuiscono le necessità del loro tempo e le restituiscono consapevoli di lavorare sulla volatilità effimera, gli altri inventano linguaggi, rischiano attraversano le epoche e la storia al punto da concepire un abito - che in genere scompare dal guardaroba - per aspirare appunto all' immortalità dell' arte. Pierre Cardin, morto ieri a 98 anni, alla fine degli anni '50 ha inventato il pret-à-porter sottraendo alla moda quel divario tra le diverse classi sociali e culturali. Mentre a Parigi nasceva la Nouvelle Vague, tra l' Inghilterra e New York si diffondeva la Pop Art, analoga necessità di superare elitarismo e accademia. Moda, arte, musica diventano così fenomeni sociali che le giovani generazioni seguono anche e soprattutto per segnare un' appartenenza e uno stile. Una filosofia che si sintetizza nel completo che i Beatles hanno indossato negli anni del loro successo, abito scuro e camicia con il colletto alla coreana che non prevedeva l' uso della cravatta, accessorio superato per un gruppo pop. Qualcosa di più che un abito di scena, vera e propria «uniforme» di un' epoca. Non è sbagliato affermare che Cardin sta alla moda come i Beatles alla musica e Andy Warhol alla pittura, rivoluzionari all' interno di codici linguistici determinati e facilmente identificabili nella comunicazione di massa. Ovunque nella sua moda si trovano riferimenti all' arte, ispirazioni futuriste - quando il futuro era parola d' ordine - geometrie, optical e appunto tanta Pop. Per buona parte della sua lunga carriera Cardin ha guardato all' arte per capire la moda, fino a considerarsi egli stesso artista. Nel 2018 la sede parigina di Sotheby' s ha proposto le sculture dello stilista italiano - naturalizzato francese - realizzate negli anni '70 come oggetti di design in edizione limitata, stilisticamente prossime al minimalismo. Il Palais Bulles, che prende il nome dal suo abito più famoso, il Bubble Dress disegnato nel 1954, progettato dall' architetto ungherese Antti Lovag e inaugurato in Costa Azzurra nel 1989, si presenta come una casa-museo d' artista, assimilabile a quella di Salvador Dalì, è considerato un monumento all' eccentricità, a svelare una seconda anima di Cardin, più giocosa e surreale di quanto si intravede nel mestiere di stilista. Altra geniale intuizione, estendere la moda ad accessori e merchandising. La griffe Cardin diventa logo su un paio di occhiali o un portafoglio, su profumo e prodotti di bellezza, consapevole che il fashion non si limita all' abito ma invade ogni centimetro di pelle disponibile sul nostro corpo. Anche questa è stata un' innovazione che ha sovvertito le regole del gioco e aperto alla visione contemporanea della moda.
· È morto Giorgio Galli, professore di Storia delle dottrine politiche.
Da it.businessinsider.com il 28 dicembre 2020. Avrebbe compiuto 93 anni a febbraio. L’improvvisa scomparsa di Giorgio Galli, deceduto nella sua casa di Camogli dove trascorreva lunghi periodi dell’anno, è una perdita per la cultura italiana. Politologo, direttore de “Il Mulino” tra il 1965 e il 1969, professore di Storia delle dottrine politiche alla Statale di Milano negli anni ’70, autore prolifico di saggi di storia contemporanea, collaboratore di giornali e riviste, non aveva mai smesso di lavorare. Nonostante l’età avanzata continuava a scrivere e a pubblicare seguendo con vivo interesse le vicende nazionali e internazionali. Ci lascia in eredità svariate decine di testi alcuni dei quali fondamentali per la conoscenza della storia italiana: da “Il bipartitismo imperfetto” tra Pci e Dc , quando la politica si avviava alla polarizzazione tra i due più grandi partiti di massa, alle due storie della Dc e del Pci (quest’ultima appena ripubblicata in occasione dell’imminente centenario della nascita del partito comunista italiano); dai volumi su Mussolini e il fascismo a quelli sugli anni di piombo e il diffondersi del terrorismo; dai libri su esoterismo e politica (Galli era affascinato dalla teoria junghiana sulle coincidenze significative) alle biografie: quelle su Fanfani e Andreotti e quelle su Pasolini e Mattei. Nella vasta letteratura sul fondatore dell’Eni tragicamente scomparso cinquantotto anni fa, i libri di Galli “La regia occulta” e “Petrolio e complotto italiano” rappresentano ancora oggi due pietre miliari. Il secondo fu rieditato nel 2005, con l’aggiunta di alcuni capitoli, al termine dell’inchiesta del magistrato Vincenzo Calia cui va il merito di avere accertato senza più ombra di dubbio che l’aereo su cui volava Mattei precipitò durante la discesa su Linate a causa di un sabotaggio. Lo studioso non aveva mai creduto alla tesi ufficiale dell’incidente a causa del maltempo, e nei suoi studi sull’Eni era sempre rimasto incuriosito dalla figura di Eugenio Cefis, in cui s’era inizialmente imbattuto durante le ricerche sulla “Storia della Dc” e del quale avevamo discusso anche di recente a proposito dell’appartenenza del successore di Mattei alla sezione “Calderini” del Sim e del suo ruolo nella Resistenza. Anche questi mesi di pandemia non erano stati tempo sprecato per Galli. Nelle ultime settimane stava elaborando i dati di Mediobanca sulle multinazionali. Il potere di condizionamento delle imprese transnazionali era infatti divenuto oggetto di riflessione nelle sue più recenti analisi. Egli era convinto che con la loro forza economica queste grandissime imprese avessero contribuito a indebolire le fondamenta della democrazia mettendo in discussione il ruolo dello Stato. In un’intervista a Business Insider aveva accusato il Pd di essere divenuto succube del capitalismo delle multinazionali e aveva spronato la sinistra a battersi affinché i componenti dei Cda delle imprese transnazionali, dalle più grandi industrie alle più grandi banche, fossero eletti a suffragio universale. Nell’intervista Galli dichiarò che la sinistra aveva rinunciato, non solo in Italia, alla critica al capitalismo e che si era fatto spazio nel nostro paese un anticapitalismo in forma di populismo “che può essere confuso con il fascismo, ma che non è il fascismo”. Il politologo invitava a prendere atto, dopo il fallimento del referendum costituzionale di Renzi e dopo la vittoria dei Cinque stelle alle elezioni politiche del 2018, che “il sistema per come lo abbiamo conosciuto non c’è più”, e aveva preconizzato che un governo Lega-M5s sarebbe potuto durare solo attuando un programma economico volto a premiare le eccellenze produttive e a colpire quei ceti parassitari che lo studioso aveva preso di mira ne “Il golpe invisibile” (libro del 2015 contro la borghesia finanziaria-speculativa e contro i ceti burocratico-parassitari che avevano a suo giudizio “saccheggiato l’Italia repubblicana fino a valicare lo stato di diritto”). Egli guardava con sconforto al deterioramento del ciclo economico che colpiva i ceti più deboli e al rischio che le tensioni latenti nella società italiana potessero esplodere all’improvviso; rischio oggi più forte che mai a causa della grave recessione in cui siamo piombati. Con Galli non scompare solo il grande studioso e il fine intellettuale, ma anche l’uomo gentile, mite e prodigo capace di ascoltare come tutti i grandi maestri e di proiettarsi nel futuro nonostante il carico degli anni.
· È morto il wrestler Brody Lee.
Da "leggo.it" il 27 dicembre 2020. È morto Brody Lee, Wrestling sotto choc. Aveva 41 anni. Il mondo del wrestling è sotto choc per la morte di Brody Lee. Sia gli atleti della WWE sia quelli della All Elite Wrestling hanno pubblicato decine e decine di messaggi per ricordare il wrestler scomparso a 41 anni e per sottolineare come fosse una meravigliosa persona oltre ad un talentuosissimo e validissimo lottatore. Subito dopo l’annuncio pubblicato sui canali ufficiali della All Elite Wrestling, la moglie del wrestler AEW, Amanda, ha postato un lungo messaggio in ricordo del marito prematuramente scomparso. «È morto il mio migliore amico - scrive - . Non avrei mai voluto scrivere queste parole. Il mio cuore è a pezzi. Il mondo lo vedeva come il magnifico Brodie Lee (o Luke Harper) ma lui era il mio migliore amico, mio marito e il più grande padre che potevate incontrare. Nessuna parola potrà esprimere l’amore che provo o quanto io sia a pezzi in questo momento. È morto tra l’affetto dei suoi cari combattendo una lunga malattia polmonare non collegata al Covid. La clinica Mayo è la miglior squadra di dottori al mondo e mi ha sorretta con grande e costante amore. Voglio esprimere il mio amore e ammirazione alla AEW che ha supportato non solo mio marito ma anche me e i miei figli. Mi hanno aiutato a rialzarmi e rimettere insieme i pezzi. Sono stata supportata da così tante persone che non posso taggare tutte ma loro sanno chi sono ma non penso sapranno mai quanto le sono grata». Nato Jonathan Huber, a Rochester il 16 dicembre 1979, lottava con il ringname Brodie Lee o Mr. Brodie Lee: ha vinto una volta l'Intercontinental Championship, una volta l'NXT Tag Team Championship (con Erick Rowan) e due volte lo SmackDown Tag Team Championship (una volta con Rowan e una volta con Bray Wyatt e Randy Orton).
· E’ morto George Blake, la spia rinnegata.
Paolo Valentino per "corriere.it" il 26 dicembre 2020. È morto a Mosca, la città dove viveva da oltre mezzo secolo, pochi giorni dopo John Le Carrè. Come se un filo esistenziale legasse lo scrittore che meglio di tutti ha raccontato il mondo delle spie nella Guerra Fredda e la talpa che insieme ad altre lo ispirò. Aveva 98 anni George Blake, l’agente segreto britannico che per nove anni ingannò l’MI6, facendo il doppio gioco con l’Unione Sovietica e portando all’arresto di almeno 42 informatori dell’Est che lavoravano per i servizi occidentali. La sua scomparsa è stata annunciata dall’SVR, l’intelligence esterna della Federazione russa erede del Kgb, che lo definisce «un agente leggendario» e ricorda «il sincero amore di Blake per il nostro Paese». Anche Vladimir Putin ha espresso le sue condoglianze, salutando Blake come un «brillante professionista» e uomo di «coraggio rimarchevole», che ha dato «un contributo inestimabile ad assicurare la parità strategica e preservare la pace». Con George Blake se ne va l’ultimo esponente di una celebre dinastia di spie britanniche, che lavorarono in segreto per il Cremlino e il cui tradimento fece tremare e umiliò il mondo dell’intelligence occidentale al culmine della Guerra Fredda. Ma a differenza dei famosi «Cambridge Five», i cinque ex studenti della prestigiosa università che passarono armi e bagagli al servizio del regime comunista di Mosca, Blake, anche lui studente a Cambridge, non fu mai parte del loro mondo né dell’establishment britannico. Con due di loro tuttavia, Kim Philby e Donald MacLean, anch’essi scappati a Mosca dopo essere stati scoperti, era diventato negli anni amico e frequentatore. Smascherato nel 1961, Blake era stato processato e condannato a 42 anni di carcere, uno per ogni agente tradito, secondo la vulgata del tempo. Ma nel 1966 fu protagonista di una clamorosa fuga dalla prigione londinese di Wormwood Scrubs, grazie all’aiuto di alcuni attivisti pacifisti, per un breve periodo suoi compagni di cella. Il piano di evasione, finanziato dal regista Tony Richardson, prevedeva anche un nascondiglio segreto, dove Blake rimase per alcuni mesi prima di riuscire a passare nascosto in una cassa di legno la Cortina di Ferro e fare il salto finale verso Mosca, lasciandosi dietro una moglie e tre figli. Da quel momento, parole sue del 2017, la Russia divenne la sua «seconda patria». Blake era nato nel 1922 in Olanda, suo padre era un ebreo spagnolo che aveva combattuto nell’esercito inglese durante la Grande Guerra ed era diventato cittadino britannico. All’età di 18 anni, dopo l’invasione nazista della Polonia, si era unito alla resistenza olandese e in piena Seconda Guerra Mondiale era entrato nella riserva volontaria della Royal Navy, dove il suo background poliglotta lo aveva subito segnalato come candidato ideale per lavorare nell’intelligence: cominciò traducendo dall’olandese, la sua lingua madre, i messaggi dei resistenti per i comandi alleati. Finito il conflitto, dopo aver spiato i sovietici nella Germania dell’Est e aver imparato il russo a Cambridge, Blake venne inviato in Corea del Sud e venne anche fatto prigioniero dai nordcoreani quando esplose la guerra. Fu in Estremo Oriente che le sue precedenti simpatie per il comunismo presero forma concreta: «Di fronte ai bombardamenti americani sulla popolazione civile, decisi di cooperare volontariamente e senza compenso con l’intelligence sovietica». Da agente doppiogiochista, Blake passò a Mosca segreti importanti, non ultimo un piano occidentale per ascoltar le comunicazioni sovietiche scavando un tunnel sotto Berlino Est. Ma ha sempre negato che qualcuno degli uomini da lui traditi sia stato giustiziato: «Questo non mi fu contestato al processo a Londra e io lo avevo posto come condizione al momento del passaggio in Urss», disse una volta in una conferenza stampa. C’era un ambiguo candore nella sorda ostinazione di questo maestro di spionaggio, sempre vestito di tweed con un farfallino al posto della cravatta, bon vivant che riceveva volentieri nel suo appartamento. Il comunismo per lui era quasi un’entità metafisica: «Chiunque creda nell’Aldilà mi faccia un esempio di come sarà la vita laggiù: non farete altro che descrivermi una società comunista», mi disse in un’intervista nel 1992 a Mosca, in occasione dell’uscita del libro nel quale raccontò il romanzo della sua vita. La sua analisi del crollo dell’Urss e del fallimento dell’esperimento sovietico non incolpava il modello, ma gli uomini cui ne era toccata in sorte la gestione: «Perché il comunismo possa avere successo occorre gente di altissima integrità morale, capace di mettere gli interessi generali al primo posto». La sua conclusione era adamantina e autoconsolatoria: «Noi che viviamo in questo scorcio del XX secolo non siamo abbastanza maturi per poter costruire una società comunista». Requiem per una spia che andò verso il freddo.
Morto George Blake, il principe dei doppiogiochisti che tradì Londra. George Blake, leggendaria spia dei russi che ha dato filo da torcere agli 007 inglesi per tutta la durata della Guerra Fredda - e forse anche dopo - è morto all'età di 98 anni. Non ha mai tradito i suoi "ideali" marxisti. Davide Bartoccini, Domenica 27/12/2020 su Il Giornale. “Per tradire qualcosa, prima bisogna appartenervi”, ha sostenuto fino al giorno della sua morte, ieri, George Blake; la famigerata spia di Mosca che ha regolato l’orologio con le lancette del Big Ben per quasi vent'anni, e che non si è mai sentito, neanche per un secondo, agente segreto a servizio di Sua maestà. Aveva 98 anni e un sincero, profondo attaccamento agli ideali marxisti-leninisti che lo hanno spinto a diventare una spia doppiogiochista fedele all'Unione sovietica, quando il mondo era diviso da una "cortina di ferro", e la Guerra fredda era un gioco per uomini come lui, che combattevano una guerra di informazioni per prepararsi a un conflitto globale che non sarebbe mai scoppiato. In un periodo quantificato in nove anni, l'agente di quello che all'ora si chiamava Kgb - il servizio di spionaggio sovietico - era riuscito a "bruciare" la copertura di almeno quaranta agenti fedeli ai servizi segreti britannici che operavano nell'Europa orientale; svelando la loro identità dall'interno dell'MI6, il servizio segreto britannico dal quale era stato arruolato al termine della seconda guerra mondiale per occuparsi della sua patria naturale. Nato nei Paesi Bassi ed emigrato nel Regno Unito solo dopo un lungo percorso ideologico all'ombra delle piramidi egiziane - dove era entrato in stretta empatia con il cugino, poi fondatore partito marxista egiziano -, il principe dei "doppiogiochisti", la cui storia di intreccia con quella dei Cinque di Cambridge e le trame dei romanzi del suo "collega" John le Carré, si era definitivamente convertito alla causa marxista durante un breve periodi di prigionia, scontata nelle mani delle truppe nordcoreane appoggiate da Mosca e Pechino - era stato inviato ad acquisire informazioni nel corso della Guerra di Corea. Liberato nel 1953 come altri prigionieri di guerra, operarà per gli anni a venire a favore dei comunisti. Smascherato mentre era sotto copertura in Libano, venne incarcerato nel 1961. Il suo compito allora era quello di "reclutare" agenti doppiogiochisti tra le fila dei sovietici per conto degli inglesi. Fece il contrario, potendo accedere ad una mole considerevole di informazioni di altissimo livello di segretezza che riguardavano proprio gli agenti segreti che operavano sotto copertura in Europa per conto di Londra. Condannato a 42 anni per tradimento, riuscì ad evadere appena cinque anni dopo per rifugiarsi in Russia; il paese che ha sempre amato, stando alle parole del capo dell'odierno servizio segreto russo di intelligence internazionale: il primo a risorgere dalle ceneri del Kgb dopo il crollo dell'Urss del 1991. Alla sua fuga rocambolesca, che avverrà attraverso la DDR e lo vedrà "saltare il muro" di Berlino per l'ultima volta, sarà ispirato uno degli ultimi progetti (mai realizzati) del maestro della settima arte Alfred Hitchcock. Stabilitosi in Russia, dove mise su famiglia, dopo aver abbandonato per sempre la prima, prenderà i gradi di tenente colonnello del Kgb e rimarrà in servizio "attivo" anche dopo il crollo dell'Unione Sovietica e l'arrivo di Putin. Affermerà più volte, nel corso della sua vita, di non essere mai stato davvero un agente al servizio di sua maestà. La sua posizione anti-nazista, essendo lui di origini ebraiche, lo aveva spinto a svolgere un ruolo per conto dei servizi segreti britannici, prima fornendo informazioni sul suo paese di origine, e poi interrogando i comandanti degli U-boat nazisti che avevano affondato decine di navi piene di innocenti, ma lui si è sempre sentito "olandese". Dunque non apparteneva alla corona. E questo, a modo suo, lo faceva sentire un doppiogiochista, come la spia che lo smascherò negli anni '60, ma mai un "traditore".
· È morta la modella Stella Tennant.
Valeria Pagnonico per fanpage.it il 23 dicembre 2020. È morta Stella Tennant, la supermodella britannica che ha spopolato negli anni '90, arrivando a calcare le passerelle delle più grandi Maison di moda, da Alberta Ferretti a Chanel, fino arrivare a Jean Paul Gaultier e Burberry. Aveva 50 anni, a dare l'annuncio della sua scomparsa è stata la famiglia, che ha diffuso una nota in cui ha scritto: "È con grande tristezza che annunciamo la morte improvvisa di Stella Tennant il 22 dicembre 2020. Stella era una donna meravigliosa e un'ispirazione per tutti noi. Ci mancherà moltissimo". I funerali verranno celebrati in forma privata.
Stella Tennant aveva origini aristocratiche. Stella Tennant nacque a Chatsworth nel 1970, era la nipote di Andrew Cavendish e di Deborah Mitford, Duca e Duchessa del Devonshire. Debuttò nel mondo della moda a 23 anni dopo essere stata scoperta da Plum Sykes, un giornalista di Vogue UK, che la presentò ai fotografi Steven Meisel e Bruce Weber. All'epoca i suoi progetti erano completamente diversi, dopo essersi diplomata alla St Leonards School di St Andrews, cominciò a studiare scultura alla Winchester School of Art ma, dopo aver cominciato a spopolare, abbandonò tutto per dedicarsi al 100% alla carriera da modella. A renderla iconica fu la sua bellezza androgina e il suo stile punk, al debutto, infatti, portava il mullet cut in stile "The Cure" e il piercing al setto. Conquistò innumerevoli copertine ambite, da Vogue ad Harper's Bazaar, fino ad arrivare alla rivista francese Numéro.
Dalla prima sfilata per Chanel alle passerelle internazionali. Il debutto in passerella, invece, ci fu nel 1994, quando fece scalpore a causa della sua magrezza con indosso un microbikini di Chanel. Da allora non smise più di avere successo, sfilando per grandi nomi come Alberta Ferretti, Alexander McQueen, Calvin Klen, Dolce&Gabbana, Fendi, Gianni Versace, Miu Miu. Insomma, presto divenne una delle supermodelle degli anni '90. Nel 2012, oltre a partecipare ai Giochi Olimpici di Londra al fianco di Kate Moss e Naomi Campbell, indossando abiti di stilisti britannici creati appositamente per lei, venne anche inserita nella Scottish Fashion Awards Hall of Fame.Per quanto riguarda la sua vita privata, si sposò nel 1999 con il fotografo francese David Lasnet, dal quale ebbe 4 figli.
Stella Tennant fu tra le prime sostenitrici della moda sostenibile. Stella Tennant fu tra le prime a impegnarsi in prima linea in tema di ecologia, facendo il possibile per ridurre al minimo l'impatto ambientale del fashion system. Non a caso, non esitava a dichiarare con orgoglio di riciclare regolarmente i vestiti, acquistando solo 5 nuovi capi ogni anno. Nel 2009 collaborò con Global Cool, un'organizzazione che sostiene la moda green, promuovendo la riduzione di ogni spreco di energia. La modella divenne uno dei volti della campagna "Turn Up The Style, Turn Down The Heat".
Stella Tennant, la bellezza androgina dell'icona degli anni '90. Il segreto del successo di Stella Tennnant? Non solo la sua eleganza aristocratica ma anche la sua bellezza androgina fuori dal comune. A differenza della maggior parte delle colleghe dell'epoca, infatti, lei vantava uno stile punk-rock contraddistinto da mullet cut e piercing al naso. Negli anni successivi ha sempre continuato a portare i capelli cortissimi ed è stato proprio quella sua "distanza" dagli stereotipi a renderla tanto apprezzata dagli stilisti internazionali. Oggi il mondo della moda non può fare a meno di piangere la sua scomparsa: ha perso una delle icone degli anni '90.
Morta Stella Tennant, icona degli anni '90. Ma è mistero sulle cause. Cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni è morta in circostanze ancora da chiarire la modella icona degli anni '90 Stella Tennant. Roberta Damiata, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. Il mondo della moda è in lutto. È morta, in circostanze ancora da chiarire, la modella scozzese Stella Tennant, una vera icona degli anni ’90, definita da molti come la “regina delle passerelle”. Nata a Chatsworth in Scozia era figlia della duchessa Deborah Mitford, vedova di Devonshire, l’ultima delle sorelle Mitford e nipote di Andrew Cavendish, undicesimo duca di Devonshire. Cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni, la modella se ne è andata in circostanze misteriose, nonostante la rassicurazione di un portavoce della polizia che ha escluso “cause esterne”. Il primo a darne notizia è stato Il Guardian che non ha però saputo spiegare la causa della morte. La famiglia della donna ha diramato il comunicato per annunciare la sua scomparsa: “È con grande tristezza che annunciamo la sua morte improvvisa. Era una donna meravigliosa e un’ispirazione per tutti noi” si legge. Scoperta all’età di 23 anni da una giornalista di Vogue UK che la presentò al grande fotografo Steven Meisel, Stella Tennant si era subito fatta notare per il suo strano taglio di capelli, il piercing al naso e per la sua bellezza androgina che in poco tempo l’avevano fatta diventare la musa di tanti stilisti che la definivano la “punk aristocratica”. Nel 1996 scandalizzò il mondo sfilando magrissima con un microbikini per Chanel e venne scelta dall’allora direttore creativo Karl Lagerfeld in esclusiva per la maison per la sua somiglianza con Coco Chanel. Sfilò inoltre per Versace, Valentino, Calvin Klein, Alexander McQueen e Burberry. Nel 2012 è tornata a calcare le passerelle davanti a milioni di spettatori per la chiusura delle olimpiadi di Londra come testimonial del British Style. Sposata con il fotografo parigino David Lesnet, era madre di quattro figli Iris, 15, Jasmine, 17, Cecily, 20, e Marcel, 22 e si era ritirata dalle passerelle nel 1998 quando aspettava il primo. Di tanto in tanto veniva richiamata nelle sfilate come simbolo iconico. L’ultima passerella proprio nel 2020 per la collezione Haute Couture 2020 di Valentino. La modella viveva con la famiglia vicino a Duns, nel piccolo villaggio di Edrom nel Berwickshire, negli Scottish Borders.
· E’ morto l’attore Claude Brasseur.
Marco Giusti per Dagospia il 23 dicembre 2020. Un centinaio di film, due Cèsar, grandi successi, tanto teatro, perfino un passato da sportivo, tra ciclismo, bob e automobili. Se ne va Claude Brasseur, 84 anni, ottimo attore, capace di passare dalla commedia al noir senza nessuna difficoltà. Figlio d’arte, il padre era il grande Pierre Brasseur e la madre Odile Joyeux, nella sua infanzia gli amici di famiglia erano stelle come Louis Jouvet, Jean-Paul Sartre, André Malraux, suo padrino addirittura Ernest Hemingway. Per tutta la vita ha dovuto sostenere il peso del confronto con un padre importante e egocentrico e ha risposto con una modestia assoluta. “Se tu cerchi di somigliare a me o di non assomigliarmi, rischi di fuggire dalla tua vera natura e di diventare un attore bastardo”, gli aveva detto Pierre Brasseur. Nato a Neully sur Seine nel 1936, cerca di fare il giornalista, ma con quel nome è inevitabile che diventi attore. Il suo esordio a teatro è nel 1955, nel cinema un anno dopo in “Rencontre à Paris” di Georges Lampin seguito da “Il fantastico Gilbert” di Marcel Carné. Nel 1957 fa il militare in Algeria come paracadutista. Torna e seguita a dividersi fra cinema e teatro. Lo vediamo come figlio di Jean Gabin in “Mio figlio” di Denys de la Patellière, poi nel capolavoro di Georges Franju “Gli occhi senza volto” con Edith Scob. Nel 1961 si sposa con Peggy Roche. Ma il matrimonio durerà poco. E la moglie diventerà la compagna di Françoise Sagan. Si risposerà nel 1970 con Michele Cabon e avranno un figlio, Alexandre, attore. Negli anni ’60 lo troviamo attivissimo al cinema, “Le distrazioni” di Jacques Dupont, “A briglia sciolta” di Roger Vadim con Brigitte Bardot, “La casa del peccato” di Edmond T. Greville, il film ad episodi “I sette vizi capitali”, “Confetti al pepe” di Jacques Baratier, “Buccia di banana” di Marcel Ophuls. Jean Renoir lo chiama per “Le strane licenze del caporale Dupont”. Henri-Geroges Clouzot lo vuole a fianco di Romy Schneider nel mai finito “L’enfer”, mentre Jean-Luc Godard lo sceglie per il ruolo di Arthur, copratogonista assieme a Anna Karina e Sami Frey di “Bande à part”. I tre percorrerrano in 9 minuti e 43 secondi la Grande Galerie del Louvre in una delle sequenze più celebri della Nouvelle Vague. «Claude Brasseur ha l’innocenza e la follia dei ragazzi che giocano a biglie o alla guerra. Cioè ha sia la brutalità necessaria che il candore sufficiente”. E’ uno sportivo, tenta col ciclismo, eccelle nel bob, ma ai Giochi Olimpici Invernali del 1964 il suo casco esplode e rischia la vita. Non si perderà d’animo e lo ritroveremo nel 1983 correre e vincere come copilota di Jacky Ickx la Paris-Dakar. Dopo Godard lavora anche con Michelle Deville in “Lucky Jo” dove lo troviamo a fianco di suo padre, poi con François Truffaut in “Mica scema la ragazza”, con Costa Gavras in “Il 13°uomo”, ma il vero successo arriva dalla tv, grazie al ruolo di Rouletabille in “Le Mistére dela chambre jaune”, a quello di Sganarallo a fianco di Michel Piccoli nel “Don Juan” e a quello di François Vidocq in “Les nouvelles aventures de Vidock”, dove prende il ruolo che aveva interpretato Bernard Noel. Ha successo anche al cinema. “Esecutore oltre la legge” di Georges Lautner con Alain Delon e Mireille Darc lo rilancerà nel noir e nel poliziesco. “Certi piccolissimi peccati” di Yves Robert, un film corale con Jean Rochefort, Guy Bedos, Victor Lanoux e la bellissima Annie Duperey, modello per cento altri film francese, lo lancerà nella commedia. Accetta il ruolo dell’omosessuale a patto che non sia una macchietta, che sembri un eterosessuale. Diventa così uno dei primi gay positivi del cinema francese e vince così il suo primo César, il secondo lo vincerà per il polizisco “La guerra delle polizie” di Robin Davis. Gira subito dopo il sequel con lo stesso cast. Si divide presto fra Francia e Italia, Lo troviamo ne “Il genio” di Claude Pinoteau con Yves Montand e Agostina Belli, in “Barocco” di André Techné e in film italiani come “Gli eroi” di Duccio Tessari, “Quando la coppia scoppia” di Steno e, soprattutto, “Aragosta a colazione” di Giorgio Capitani dove recita assieme a Enrico Montesano e Claudine Auger. Arrivano grandi successi di pubblico, come “La banchiera” di Francis Girod a fianco di Romy Schneider, e soprattutto “Il tempo delle mele” di Claude Pinoteau, dove è il padre della ragazzina Vic di Sophie Marceau. Lavora nei noir di José Giovanni, Philippe Labro, Alexander Arcady, Gilles Grangier, adatto sia a fare il poliziotto come il bandito o il detective privato. Jean-Luc Godard lo richiama per “Detective” a fianco di Nathalie Baye e Johnny Holliday. Ma sono lontani i tempi di “Bande à part”. Lo massacra durante la lavorazione. "Mio povero Claude," gli dice, "vent'anni fa avevi ancora delle buone qualità, ora hai perso tutto. Non hai più niente”. E poi prosegue sui Cahiérs du cinéma: "Claude è un bravo attore ma sopravvalutato, uno che non sa più cosa fare, che fa solo brutti film ...". Brasseur risponde così: “Sono passati vent’anni. Ora fa psicoterapia. Spinge i suoi attori al limite per vedere quando scoppieranno”. Seguita a lavorare moltissimo. Ritrova Romy Schneider in “Une histoire simple” di Claude Sautet, uno dei suoi migliori film. Lavora con un altro figlio d’arte, Bertrand Blier, in “Un, due, tre, stella!” e “Actors”. In Italia gira “Matrimoni” di Cristina Comencini e più recentemente il televisivo “Soraya” di Ludovico Gasperini. Ha grande successo recentemente a fianco di Franck Dubosc nella saga di “Camping”, dove è Jackie Pic, innamorato del pastis. Il suo ultimo film è “Tutti in piedi” di e con Franck Dubosc. Schivo, serio, per tutta la vita ha mantenuto un certo distacco dal suo lavoro e dal mondo dello spettacolo. "Non mi piace parlare di me", ha detto. “Non è un argomento entusiasmante. Il lavoro di una vita è definire il margine tra ciò che vuoi e ciò che puoi."
· E’ morto il Serial Killer Donato Bilancia.
Morto Donato Bilancia, il "serial killer dei treni". Donato Bilancia, noto come "il serial killer dei treni", è morto per Covid all'età di 69. È stato condannato a 13 ergastoli. Rosa Scognamiglio, Giovedì 17/12/2020 su Il Giornale. Il serial killer Donato Bilancia, 69 anni, nato a Potenza il 10 luglio del 1951 e conosciuto come il "Mostro della Liguria" o "serial killer delle prostitute", è morto per Covid nel carcere Due Palazzi di Padova. I suoi problemi con la giustizia iniziano fin dall'adolescenza, quando viene fermato prima per furto e in seguito per rapina. Successivamente cade nella dipendenza del gioco d'azzardo. Nel 1984 un tremendo evento lo segna per sempre. Il fratello con in braccio il figlio di appena quattro anni si suicida buttandosi sotto un treno a Genova. Tra i delitti più efferati quello commesso il 12 aprile '98, sull'Intercity La Spezia-Venezia, quando scassinò la porta del bagno del vagone e sparò a Elisabetta Zoppetti, uccidendola. Venne arrestato nel 1998, a tradirlo fu una Mercedes nera, l'auto usata per alcuni suoi spostamenti. Il primo omicidio, che confessa lui stesso, risale al 16 ottobre 1997 quando Bilancia uccide il gestore di una bisca Giorgio Centanaro nella sua casa, soffocandolo con le mani e con del nastro adesivo. Il secondo pochi giorni dopo, il 24 ottobre, in piazza Cavour per motivi analoghi quando uccide nella loro casa Maurizio Parenti cui doveva dei soldi e la moglie Carla Scotto, sottraendo 13 milioni e mezzo di lire in contanti e alcuni orologi di valore. Tre giorni dopo, il 27 ottobre, uccide sempre a scopo di rapina i coniugi Bruno Solari e Maria Luigia Pitto, titolari di un'oreficeria e il 13 novembre a Ventimiglia, Luciano Marro, un cambiavalute, a cui ruba 45 milioni di lire.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. Uccideva con una P38, le prime volte per vendetta personale, poi forse per il solo piacere del sangue. Nessuno ha mai trovato una vera logica in quei 17 omicidi commessi quasi tutti in Liguria da Donato Bilancia tra il 1997 e il 1998 in meno di sette mesi. Ragione per cui anche i cronisti di nera lo definivano in vari modi, «serial killer dei treni» ma uccideva anche sui marciapiedi, «mostro della Liguria», ma talvolta sconfinava, «serial killer delle prostitute», ma fra le sue vittime c'erano biscazzieri, cambiavalute, commercianti, metronotte. Una cosa è certa: Bilancia è stato uno dei più spietati criminali della storia d'Italia. Siamo qui a scriverne al passato perché da ieri non c'è più. È morto nel carcere Due Palazzi di Padova dopo 22 anni di reclusione, per mano di un killer molto più seriale e invisibile di lui, contro il quale non avrebbe potuto nulla neppure la sua P38: il Covid. Bilancia aveva 69 anni, era nato a Potenza e per quella lunga scia di delitti la giustizia lo condannò a 13 ergastoli. La sua fu una confessione piena. Successe subito dopo l'arresto del 6 maggio 1998, quando decise di raccontare tutto, fin dalla sua difficile infanzia, il rapporto complicato con i genitori, l'omicidio-suicidio del fratello, il gioco d'azzardo e i primi furti per saldare i debiti. Poi spiegò la furia omicida. Che ebbe inizio il giorno in cui capì di essere stato tradito dal suo miglior amico, Maurizio Parenti. Nell'estate del 1997 Parenti lo portò in una bisca clandestina, ambiente familiare a Bilancia che era un appassionato di gioco d'azzardo. Dopo un paio di vincite, iniziò a perdere pesantemente. Una sera, nel bagno del locale, sentì una conversazione fra l'amico e il gestore, Giorgio Centenaro. «Hai visto in che modo sono riuscito ad agganciarlo e a portarlo qui da noi?», disse Parenti all'altro. Bilancia uscì sconvolto dal locale e qualche giorno dopo, il 14 ottobre 1997, bussò alla porta di Centenaro, lo legò con il nastro adesivo, e lo soffocò. Unico delitto commesso senza sparare. Il 24 ottobre fu la volta di Parenti, freddato con la moglie a colpi di pistola. Consumata la vendetta, qualcosa di ossessivo e incomprensibile scattò nella sua mente. Da allora Bilancia iniziò infatti a uccidere in modo apparentemente casuale. Il 27 ottobre toccò ai coniugi Bruno Solari e Maria Luigia Pitto, titolari di un'oreficeria, il 13 novembre a Luciano Marro, cambiavalute, il 25 gennaio 1998 a Giangiorgio Canu, metronotte... Il delitto più efferato fu forse quello commesso il 12 aprile successivo, sull'Intercity La Spezia-Venezia, quando scassinò la porta del bagno del vagone e sparò a Elisabetta Zoppetti che non ebbe scampo. La caccia all'uomo che terrorizzava Liguria e Piemonte si spostò sui treni, dove lui colpì più volte. E terminò il giorno in cui gli investigatori scoprirono che i luoghi delle contravvenzioni della Mercedes con cui viaggiava coincidevano con quelle di alcuni delitti. Per incastrarlo bastò il Dna su un mozzicone di sigaretta lasciato accanto al cadavere di una delle vittime. Poi venne il carcere. Una reclusione ultraventennale e un cammino di rieducazione personale con un diploma in ragioneria e addirittura una laurea in Progettazione e gestione del turismo culturale. «Quando ho ricominciato a studiare la professoressa che mi seguiva ha preteso che durante la nostra lezione la porta della mia cella rimanesse aperta - ha detto in un'intervista al Mattino di Padova -. Ci sono voluti tre anni, ma alla fine è stata lei a volerla chiudere. Queste attività ci aiutano a non morire dentro».
Edoardo Montolli per gqitalia.it il 18 dicembre 2020. La trovano morta nella toilette dell’Intercity 631 La Spezia-Venezia, all’altezza della tratta Brescia-Verona. Elisabetta Zoppetti, 32 anni, doveva scendere a Milano, dove faceva l’infermiera all’Istituto dei Tumori e dove alle 22 avrebbe iniziato il turno. Era salita a Chiavari, poco prima delle 14,30, accompagnata dal marito e dalla figlia, pronti a raggiungerla a casa nella giornata successiva. Invece qualcuno le ha sparato un colpo di pistola alla nuca e l’ha lasciata lì, prima di dileguarsi. È la Pasqua del 1998, esattamente il 12 aprile. L’episodio viene subito messo in relazione alla scia di sangue che sta gettando nel panico la Liguria da quasi duecento giorni. Anche se, fino a questo momento, si stava cercando l’assassino di alcune prostitute. Mentre qui, si tratta di una vittima scelta a caso negli scompartimenti. Non si fa in tempo a mettere giù un piano d’azione per capire con chi si abbia a che fare, che sei giorni più tardi, un’altra donna, Maria Angela Rubino, viene uccisa nel bagno di un treno, stavolta a Ventimiglia. Prima di arrivare all’esecutore bisogna attendere così il 6 maggio. A tradirlo è un errore commesso il 24 marzo a Novi Ligure, quando ferisce al ventre la transessuale John Alberto Zambrano Idrovo, alias Lorena, che finge di essere morta a fianco dei metronotte Candido Randò e Massimo Gualillo, uccisi con una calibro 38. Sarà lei a incastrarlo in un drammatico faccia a faccia, cinque delitti più tardi. L’assassino si chiama Donato Bilancia, 47 anni, e diverrà noto come il più feroce serial killer italiano. Confessa nel giro di pochi giorni. E confessa molto di più di ciò che gli inquirenti si aspettano. Ladro professionista, giocatore d’azzardo e viveur di casinò noto nell’ambiente con il nomignolo di Walter, ha ucciso la prima volta il 13 ottobre ’97, soffocando con un nastro adesivo Giorgio Centenaro, quando i debiti di gioco lo stavano facendo soccombere; unico omicidio per il quale non ha usato le pallottole. Ed anche unica vittima che conosceva unitamente ai coniugi Maurizio Parenti e Carla Scotti. Le altre vittime sono state in effetti scelte a caso: una coppia di orafi, due cambiavalute, tre metronotte, quattro prostitute, un benzinaio e le due passeggere ferroviarie Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino. Nel cercare di spiegare la personalità del serial killer, si fa una gran fatica. Se ne scopre l’infanzia densa di umiliazioni, la vita carente di affetti, il trauma per il suicidio del fratello Michele nel 1987, gettatosi sotto un treno con il figlioletto in braccio. Ma nessuno riesce a spiegare a fondo i moventi per tutti i delitti commessi da Bilancia, tanto che verrà considerato dai criminologi il serial killer italiano dalla personalità più complessa. L’omicidio di Elisabetta Zoppetti, Bilancia, il 15 maggio 1998, lo spiega infatti così: «Ho preso il treno a Genova. In uno scompartimento di prima classe c’era una donna, che io chiaramente non ho mai visto e conosciuto…Preciso che io non mi sono mica seduto con lei, ero in piedi in fondo al corridoio. Questa mi ha detto: “Mi scusi, per andare in bagno?”». Ed è successo: «Aveva la borsa con sé quando si è alzata. Io ho aperto la porta con una chiave falsa. È una normalissima chiave a quattro, una femmina a quattro ecco. L’ho buttata via dopo il secondo episodio, e preciso che l’avevo fatta io stesso, è... una sciocchezza. Questa qua s’è messa ad urlare e io le ho messo la giacca sulla testa e le ho sparato. L’ho fatto per non vedere cosa succedeva al momento dello sparo. L’unica cosa che ho preso è il biglietto, perché spuntava lì dalla borsa e io non avevo biglietto perché avevo preso il treno così, senza mete». Condannato a tredici ergastoli per 17 omicidi, dall’isolamento in una cella della prigione di Padova nell’aprile 2001 scrive una lettera al settimanale Cronaca Vera offrendo 500mila lire al mese a qualsiasi donna che abbia voglia di andare a trovarlo una volta al mese: “poi non si sa mai, potrei diventare anche molto più generoso, abitando a Genova Cogoleto, le sarà facile fare un breve sondaggio e scoprire che in effetti sono sempre stato molto generoso. Quest’insolita richiesta è dovuta alla figura che i media hanno fatto voler credere, e che mi ha determinato un totale abbandono da parte di tutti”. È il primo tentativo del serial killer di aprire un rapporto con i mass media. Tempo più tardi, rilascerà alcune interviste, una anche televisiva a Paolo Bonolis, annunciando rivelazioni sui suoi delitti e l’esistenza di complici nel duplice omicidio Scotto e Parenti, tali da poter chiedere la revisione del processo. Non gli hanno creduto. A gennaio 2012 la Procura di Genova chiede l’archiviazione. Negli ultimi anni si torna a parlare di lui. Accade quando Beppe Grillo porta il Movimento 5 Stelle in politica. Vien fuori che i due, da ragazzi, erano vicini di casa. Scherzerà il comico: «Ero ragazzino, abitavamo a Genova, ed il nostro vicino di casa era il killer Donato Bilancia, aveva 3 anni più di me. Quando la sera stavo fuori mia mamma mi diceva, “torna con Donato così sto più tranquilla». In carcere il serial killer non sta fermo. Si mette a studiare. E nel 2016 si diploma ragioniere con 83 centesimi. Poi tenta la sorte chiedendo la commutazione dell’ergastolo in 30 anni, sostenendo di non aver potuto chiedere il rito abbreviato in quanto soppresso all’epoca dei suoi processi, ma rimesso in gioco da una sentenza della Corte di Strasburgo. Ci fosse riuscito, sarebbe stato un primo decisivo passo verso la richiesta di benefici carcerari. Ma, ne dà notizia la Gazzetta del Mezzogiorno, prima il tribunale di Padova, e poi, a maggio 2017, la Cassazione, respingono la sua richiesta.
Franca Leosini per “la Stampa” il 18 dicembre 2020. Nella vicenda giudiziaria di Donato Bilancia, responsabile di 17 omicidi soprattutto di giovani donne, per lo più dedite al piu antico mestiere del mondo, pesa un "troppo tardi". Morto ieri a 69 anni per Covid nel carcere di Padova, Bilancia sarà consegnato alla storia criminale di questo Paese come "il mostro dei treni" e "il serial killer delle prostitute". Per la cadenza quasi rituale degli omicidi, avvenuti tra il '97 e il '98, nonché per la loro tipologia, Bilancia poteva forse essere fermato prima. Quando parlo di tipologia pressoché rituale dei delitti intendo riferirmi alla scelta delle vittime, nonché alla realtà ambientale nella quale Bilancia dava sfogo alla sua furia omicida. Con il dovuto rispetto per gli inquirenti, per le forze dell'ordine, va detto che nel caso di Donato Bilancia esiste un "troppo tardi": un "troppo tardi" nell'individuazione della mano omicida. Di contro, se da una parte ci si rammarica per quel "troppo tardi" (17 delitti in sei mesi), dall'altra, si plaude, per rigore della magistratura, al mancato riconoscimento a Bilancia di una possibile infermità mentale, vale a dire nessuna forma di attenuante che potesse ridurre i termini della condanna. Donato Bilancia, stava infatti scontando la pena definitiva di 13 ergastoli più un'aggiuntina di 16 anni per un tentato omicidio. Una indubbia devianza mentale, quella di Bilancia, suggerita dalla tipologia ricorrente e ossessiva dei suoi delitti: vittime infatti sempre giovani donne, giovani prostitute. Nel caso di Bilancia, al quale non é stata saggiamente riconosciuta in sede processuale l'attenuante dell'infermità mentale, si deve fare riferimento a un individuo che uccideva perché dominato da un'ossessione insopprimibile. Ossessione che trova riscontro anche nel comportamento che ha fatto seguito al suo arresto per l'omicidio della giovane prostituta nigeriana. La confessione di Bilancia, avvenuta a due giorni dall'arresto, più che un'ammissione di colpa appare quasi uno sfogo al pm che nel raccogliere le sue parole veniva a conoscenza anche di chi fosse il responsabile di delitti rimasti fino ad allora senza autore. A conferma dell'orrifica confessione di Bilancia, anche l'identikit perfettamente aderente tracciato agli inquirenti da una vittima fortuitamente mancata. La scaltrezza diabolica del killer, ha sicuramente pesato sulle indubbie carenze delle indagini. Bilancia, va detto con rammarico, rappresenta infatti un insuccesso sul piano investigativo: due mozziconi di sigaretta e l'abilità nel disegno di una giovane donna, vittima scampata, hanno per buona sorte consegnato alla giustizia uno dei più spietati assassini della storia del crimine. Breve l'arco di tempo in cui hanno avuto luogo i delitti, a cavallo tra il 1997 e il 1998. É dell'aprile del 1998, sull'Intercity La Spezia-Venezia il più efferato dei suoi omicidi: per raggiungere la vittima prescelta, come sempre una giovane donna, Bilancia sfonda addirittura la porta del bagno del vagone e con un colpo di pistola la uccide. Nel caso di Donato Bilancia, va riconosciuta alla magistratura una sentenza di massimo equilibrio: nessuna apertura per una possibile nonché richiesta infermità mentale. Per lui nessuno sconto per tante colpe senza remissione.
Donato Bilancia: "Se fosse stato libero avrebbe ucciso ancora". Il criminologo Carmelo Lavorino racconta di Donato Bilancia, il "killer dei treni": "Errori nelle indagini, avrebbero potuto catturarlo già al secondo omicidio". Rosa Scognamiglio, Sabato 19/12/2020 su Il Giornale. "Un super serial killer che aveva la cosiddetta 'coazione a ripetere'. Se fosse tornato a piede libero avrebbe continuato a uccidere, ne sono certo". È così che il criminologo Carmelo Lavorino descrive Donato Bilancia, uno degli assassini più prolifici della storia italiana, deceduto per Covid all'età di 69 anni lo scorso giovedì 17 dicembre. Tredici condanne all'ergastolo e 17 omicidi, Bilancia è passato alle cronache come "il serial killer delle prostitute" e "il mostro della Liguria" per aver dato seguito, tra 1997 e il 1998, a una attività delittuosa, quasi "compulsiva", tra Liguria e basso Piemonte.
Che tipo di seriar killer è stato Donato Bilancia?
"Bilancia è stato un serial killer del tipo complesso, atipico e multiforme perché, anche se usava sempre la stessa arma per uccidere, le vittime erano di psicologia diversa, così come lo erano i moventi e il modus operandi. Il suo profilo risponde a tutte le caratteristiche delle diverse tipologie di serial killer comprendendo, tutte insieme, la categoria degli assassini seriali vendicativi, quella dei narcisisti, collezionisti e vendicativi".
Quale era il suo modus operandi?
"Bilancia aveva più di un modus operandi, a seconda della vittima che intendeva colpire. In linea generale, lo schema che seguiva era il seguente: ideazione del delitto, sopralluogo della scena del crimine, modalità di approccio alla vittima e, successivamente all'azione omicidiaria, trasferimento del corpo da luogo del delitto".
Come "siglava" gli omicidi?
"Sceglieva pallottole grosse, un colpo solo al petto, alla tempia o alla nuca. Scaricava più colpi di pistola solo se era sopraffatto dalla rabbia".
Un criminale prolifico che ha ucciso 17 persone in un solo anno. Chi erano le sue vittime?
"I primi tre omicidi li commise per vendetta diretta - quello nei confronti dei due biscazzieri e della moglie di uno di questi - poi uccise un cambiavalute e un orefice perché aveva bisogno di soldi. Dopodiché passò alle prostitute per ragioni afferenti alla sfera sessuale e infine colpì vittime occasionali sui treni per puro edonismo".
Nel mirino soprattutto prostitute. Perché?
"Bilancia ha ucciso prostitute di diversa nazionalità, quasi tutte straniere, e due donne in treno. Le uccideva con un colpo solo di pistola o alla nuca o alla tempia, però faceva attenzione a coprire loro il volto perché aveva il terrore del sangue e non voleva fissare le vittime negli occhi".
Per quale motivo non fissava le vittime negli occhi?
"Perché se le avesse fissate negli occhi non avrebbe più avuto il coraggio di ucciderle. Tanto è vero che una volta ha risparmiato una potenziale vittima per questo motivo. Stava puntando l'arma contro una prostituta ma, nel momento in cui questa donna lo ha fissato, mostrandogli la foto di un bambino che ha spacciato per suo figlio, Bilancia ha gettato via la pistola risparmiandole la vita. Questo accade perché i serial killer tendono a disumanizzare le vittime, a trattarle come oggetti. Ma nel momento in cui la vittima riesce a fare capire loro che sono esseri umani, anche i serial killer crollano. Ovviamente non sempre".
Qual è stato il movente degli omicidi?
"Ha cominciato ad uccidere, pare, nel 1997. In realtà, credo che abbia slantetizzato (sopito, ndr) un istinto omicida che già covava da tempo. Dieci anni prima, nel 1987, il fratello si suicidò gettandosi sotto un treno insieme al proprio figlioletto di 4 anni perché la sua ex aveva ottenuto l'affidamento del bambino. Quella tragedia rappresentò un vero e proprio trauma per Bilancia che cominciò a covare rabbia nei confronti della cognata, desiderava inconsciamente ucciderla. Ma non è l'unico movente, ve ne sono svariati: dalla ferita di tipo narcisistica a quella sessuale".
Quanto ha inciso il rapporto turbolento con il padre?
"Moltissimo. Quando era bambino, Bilancia veniva spesso umiliato dal padre perché non tratteneva l'urina, sicché il papà lo derideva alla presenza dei cuginetti, calandogli le braghe per schernirlo sessualmente. Un'umiliazione che ha interiorizzato e di cui si è vendicato da adulto. Le prostitute con cui si intratteneva, dopo averle uccise, venivano scaricate in prossimità dell'abitazione dei suoi genitori, a mo' di biglietto da visita destinato in primis al padre, ma anche alla mamma che non lo aveva mai difeso".
C'è un numero ricorrente nei delitti messi a segno da Bilancia: il 32. Un caso?
"No, affatto. Bilancia era un grandissimo giocatore d'azzardo, associava ai numeri un valore simbolico. Ornella, la cognata, aveva 32 anni quando è morto il fratello, la stessa età della moglie del secondo biscazziere che ha ucciso. Così come 32 era il numero della Mercedes con cui si spostava. Quelli di Bilancia sono delitti dal valore fortemente simbolico".
Un assassino freddo e spietato ma che poi commette degli errori. Bilancia è stato catturato a seguito di una multa pervenuta alla persona che gli aveva venduto l'auto. Come è possibile?
"Perché era un assassino lucido e spietato nella parte organizzativa del crimine ma, sostanzialmente, non era così astuto. Dopo aver commesso il crimine aveva un crollo, quello che in psicologia si chiama crisi ossessivo-compulsiva, ovvero la fase in cui il killer perde completamente il controllo di se stesso e ciò che ha fatto. Ecco perché dico che era intelligente ma non aveva un particolare 'talento criminale', se vogliamo dirla in maniera spiccia".
Se è vero che non fosse così astuto, come mai l'ha fatta franca per ben 17 volte?
"C'è stata una gestione sbagliata delle indagini, questo è l'unico motivo. Bilancia commetteva molti errori, imprecisioni e leggerezze. Se gli inquirenti avessero notato alcuni dettagli, tipo quello della Mercedes nera che si spostava nei luoghi in cui erano stati commessi i primi tre delitti senza mai pagare il pedaggio autostradale, lo avrebbero catturato già al secondo omicidio. Ma erano i tempi in cui in Italia mancava l'idea che dietro una sequenza di crimini, tutti uguali, potesse esserci la mano di un serial killer. Ma ormai, c'è poco da ragionarci su".
Bilancia è morto due giorni fa in carcere, per Covid. Cosa ha pensato quando ha appreso la notizia?
"Che è morto laddove avrebbe dovuto trascorrere tutta la sua intera esistenza, in carcere. Di fronte a un numero così elevato di vittime, c'è ben poco di cui dispiacersi".
Un inedito di Donato Bilancia: «Condannato anche all’ergastolo mediatico». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 dicembre 2020. Donato Bilancia, detenuto nel carcere di Padova e morto di Covid il 17 dicembre scorso, scrisse quest’articolo che diede a Carmelo Musumeci. Pubblichiamo un articolo, mai reso pubblico e quindi inedito, a firma di Donato Bilancia. Non servono presentazioni. Parliamo del serial killer che fra il 1997 e il 1998 terrorizzò il Nord Italia con 17 omicidi. Il 6 maggio del ’98 viene arrestato e infine condannato all’ergastolo. Arriva la pandemia, il Covid irrompe anche al carcere di Due Palazzi di Padova dove Bilancia è recluso. Si contagia, lo stato di salute si aggrava e finisce in ospedale. Secondo la ricostruzione della Gazzetta di Padova avrebbe rifiutato le cure per lasciarsi morire il 17 dicembre scorso. Una sorte, la sua, uguale a quella di un altro serial killer. Parliamo de “Lo squartatore” dello Yorkshire, vicenda trattata da una docuserie appena uscita su Netflix. È incentrata sugli omicidi da lui commessi a fine anni 70 nei confronti di tredici donne. Secondo la polizia britannica di allora – complice la loro sottocultura maschilista -, le donne che uscivano da sole di notte non potevano che essere delle prostitute. Invece, tante di loro non lo erano affatto. Quindi, sbagliando il profilo del killer, non sono riusciti ad identificarlo subito e per 5 anni ha potuto agire con tranquillità. Solo per un caso fortuito sono riusciti a prenderlo. Peter Sutcliffe, così si chiamava il killer, è risultato positivo al Covid 19 il mese scorso. Si è aggravato, ma anche lui, come Bilancia, ha rifiutato le cure per combattere questa malattia ed è morto. Molto probabilmente entrambi non avevano un motivo sufficiente per lottare per la vita e forse l’ergastolo in questo ha avuto un ruolo determinante.
Il ricordo di don Marco Pozza. Come ha scritto recentemente Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, non esistono i “mostri”, «ma uomini in grado di fare cose mostruose, che però non esauriscono la loro umanità in quei gesti ». Don Marco Pozza, sacerdote del carcere Due Palazzi ha ricordato cosa Donato Bilancia gli disse una volta: «Andrò all’inferno, ma prego Dio che mi dia un istante di tempo per passare da loro a chiedere scusa». Di recente Bilancia aveva chiesto dei permessi per poter assistere un ragazzo disabile, ma non gli sono stati concessi. La sua è una figura ancora incomprensibile per gli stessi psichiatri e criminologi. Intelligente sopra la media, con un QI di 120, eppure disorganizzato. Nato in Basilicata, ma cresciuto in Liguria, segnato dagli abusi fisici ed emotivi del padre, che lo umiliava in pubblico mostrando i suoi genitali per schernirlo, finisce due volte in coma per due diversi incidenti stradali. Alla fine degli anni Ottanta, a 37 anni, resta scioccato dal suicidio del fratello, lanciatosi sotto un treno con in braccio il figlioletto di 4 anni. Giocatore compulsivo, nell’ambiente delle bische clandestine diventa noto con il nome di “Walterino”. Vince soldi, li perde, gioca di nuovo. È allora che comincia a uccidere creditori e nemici del mondo delle bische. Cambiando vittimologia e schema per poi passare alle prostitute e infine, ai viaggiatori dei treni.
L’articolo di Bilancia consegnato a Carmelo Musumeci. L’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci è stato nello stesso carcere di Bilancia, lo ha conosciuto ed è lui che ha dato a Il Dubbio questo articolo inedito che pubblichiamo integralmente. Di lui parlano libri e serie Tv – per questo nel suo articolo inedito parla dell’ergastolo “mediatico”, senza riuscire a spiegare quello che lui stesso ignorava. A tal proposito l’ex ergastolano Musumeci ci ha raccontato questo aneddoto: «Una volta l’avevo rimproverato per i reati che aveva fatto e lui mi aveva risposto che non lo sapeva neppure lui perché li aveva commessi. L’ho sentito sincero».
L’articolo di Donato Bilancia. Qualche tempo fa ho letto un articolo scritto da un compagno di detenzione il cui nome è Carmelo Musumeci. Pur apprezzandone l’esposizione dei contenuti, non mi trovo affatto d’accordo quando sostiene vi siano solo due tipi di ergastolo, quello normale e quello ostativo. Ho ragione di credere che ne esista un terzo che paradossalmente si chiama ergastolo “mediatico”. Senza fare inutili esempi entrando nello specifico, posso comunque affermare con fondata certezza che, dopo aver parlato per i primi anni successivi alla tragedia che mi ha visto responsabile di fatti gravissimi, tutti i mezzi d’informazione hanno continuato e continuano a parlare di me attaccandomi. Da sempre, per qualsiasi cosa che di clamoroso accada a Genova come a Padova, vengo tirato in ballo pur non entrandoci mai per nulla. Sono sicuro che in questi ultimi diciassette anni non siano mai trascorsi ininterrottamente sei mesi senza che giornali, riviste, talk televisivi, persone che hanno scritto libri ed altri, non abbiano parlato di me. Si pensi che addirittura viene persino proiettato periodicamente anche il film realizzato sulla mia storia. Questo tanto feroce quanto ingiustificato accanimento mediatico penalizza ulteriormente in tutto e per tutto il mio già non facile percorso penitenziario. Il continuo parlare di me soprattutto a vanvera, serve soltanto ad acuire l’acrimonia in tutte le persone con le quali a vario titolo devo confrontarmi giornalmente all’interno della struttura penitenziaria, figuriamoci l’impatto che avrà in quelle al di là del muro di cinta. Pur di sottrarmi definitivamente a questa gogna mediatica, qualche anno fa, favorito dalla condizione d’isolamento durato per ben undici anni, durante i quali presi anche coscienza di ciò che mi era capitato, colto da grande sconforto avevo pensato di farla finita ma poi, solo per mera vigliaccheria, mi è mancato il coraggio di mettere in atto il gesto estremo. Come potrò mai dare un briciolo di dignità al rimanente non lunghissimo percorso di vita rimastomi (ho 64 anni) se tutte le possibilità mi verranno precluse a prescindere solo perché mi chiamo Donato Bilancia? Come portò mai porvi anche un piccolo rimedio al male fatto se il muro di mattoncini che riesco a costruire pian pianino mettendone lì uno dopo l’altro con enorme fatica, viene subito abbattuto senza alcuna apparente ragione? Con grande difficoltà ho iniziato da tempo un complicato percorso per riuscire a riconquistare la fede, questo mi porta a credere che perfino il nostro Papa Francesco si ribellerebbe se venisse a conoscenza di questo infinito attanagliamento mediatico posto in atto nei miei confronti. Certo, come già detto, i fatti dei quali mi sono reso responsabile sono gravissimi, questo è indiscutibile, che vi sia poi stata la volontà oppure no, in questo preciso momento non ha alcuna rilevanza. Tuttavia l’Art. 27 della Costituzione italiana parla chiaro in relazione allo scopo che deve avere la detenzione di qualsiasi persona condannata in via definitiva, ed in vero non ricordo di aver letto che in calce vi sia scritto: “Asterisco, Donato Bilancia escluso”. Donato Bilancia Carcere di Padova luglio 2015
· È morto l’ex ministro Enrico Ferri.
È morto Enrico Ferri, il ministro del limite dei 110 km in autostrada. Enrico Ferri a destra stringe la mano al segretario del Psdi Antonio Cariglia. La Repubblica il 17 dicembre 2020. Aveva 78 anni ed era da tempo malato. Dirigente del Psdi, ne è stato anche segretario. Dopo Tangentopoli approdò a Forza Italia e all'Udc e fu eletto europarlamentare. È stato anche leader della corrente di Magistratura indipendente. È morto stasera, nella sua casa di Pontremoli (Massa Carrara), l'onorevole Enrico Ferri. Aveva 78 anni ed era malato da tempo. Magistrato e politico, fu esponente del Psdi, Partito socialdemocratico italiano, ed è ricordato ancora da molti perché nel 1988, da ministro dei Lavori pubblici, impose con un decreto legge il limite di velocità di 110 chilometri all'ora sulle autostrade italiane. Una decisione che divise gli italiani, era il 7 luglio, proprio alla vigilia del grande esodo estivo. Ferri è stato dirigente e anche segretario del Partito socialdemocratico italiano. Dopo Tangentopoli e lo scioglimento del partito ha partecipato a diversi tentativi di ridare vita al Psdi e in compagnia di un altro socialdemocratico storico come Luigi Preti. Poi approdò a Forza Italia e ai centristi dell'Udc e fu eletto anche all'Europarlamento nel 1999.È stato per diversi mandati anche sindaco di Pontremoli. Infine si avvicinò alle posizioni di Clemente Mastella e dell'Udeur, formazione allora collocata nel centrosinistra, prima di rientrare nei ranghi della magistratura. Fece parte anche del Csm ed è stato leader di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice della magistratura, diretta poi da suo figlio Cosimo Ferri, oggi deputato di Italia Viva, coinvolto nello scandalo Palamara.
È morto Enrico Ferri, l’ex ministro che impose il limite di 110 chilometri orari in autostrada. Fanpage il 18 dicembre 2020. È morto Enrico Ferri, l'ex ministro conosciuto per aver fissato il limite dei 110 chilometri orari in autostrada. Aveva 78 anni e da tempo era malato: si è spento nella sua casa a Pontremoli (Massa Carrara). Magistrato e politico, alla fine degli anni Ottanta Ferri ricoprì la carica di ministro dei Lavori pubblici. È stato esponente di Forza Italia e di Udeur, ma non solo. Deputato ed europarlamentare, è stato più volte anche cittadino di Pontremoli tra il 1990 e il 2004. Nella sua esperienza a Palazzo Chigi si è guadagnato il soprannome di "ministro dei 110 all'ora", in quanto fu durante il suo ministero, durante il governo De Mita, che si decise di porre il limite di velocità in autostrada proprio a 110 chilometri orari. Una decisione che suscitò anche un'accesa discussione tra l'opinione pubblica. A ricordarlo è Gianfranco Rotondi, che scrive: "Mi addolora la scomparsa di Enrico Ferri, gentiluomo della politica e della magistratura, ministro dei Lavori Pubblici, socialdemocratico idealista e grande amico della migliore Democrazia Cristiana. Fu amico di Fiorentino Sullo, e fu il solo – venti anni fa – ad accettare di commemorarlo rompendo il silenzio che circondava una delle figure più scomode della prima Repubblica. Esprimo al figlio Cosimo, collega parlamentare, le condoglianze mie personali e della fondazione ‘Fiorentino Sullo' che ho l'onore di presiedere". E ancora, Raffaella Paita, presidente della commissione Trasporti a Montecitorio: "La notizia della scomparsa di Enrico Ferri ci addolora molto, non solo per le qualità umane delle persona ma anche perché con lui se ne va una figura fondamentale per la cultura della sicurezza stradale in Italia. Ferri, da politico di grande spessore, trovò il coraggio per andare controcorrente e introdurre quella che fu una vera e propria rivoluzione, ovvero il limite dei 110 km/h in autostrada. È stato grazie a quel provvedimento se la cultura della sicurezza stradale ha potuto attecchire e diffondersi nel Paese, ponendo le basi per altre norme che antepongano il valore della vita alla velocità".
· Morto lo scrittore John le Carré.
Antonio Carioti per il “Corriere della sera” il 14 dicembre 2020. Sarebbe non solo riduttivo, ma profondamente ingiusto, confinare il romanziere inglese John le Carré, scomparso all' età di 89 anni, nell' ambito della letteratura di genere, considerarlo in sostanza l' alternativa colta e sofisticata, nell' ambito delle storie di spionaggio, a Ian Fleming e al suo 007. Bisogna invece riconoscere che David Cornwell (questo era il suo vero nome), è stato in assoluto uno degli autori di lingua inglese più importanti nella seconda metà del Novecento. L' efficacia del suo periodare, l' accurata introspezione psicologica, la capacità di costruire intrecci complessi e sorprendenti, in cui nulla è come sembra, ne facevano un narratore di prim' ordine. Ottimo conoscitore dell' universo spietato e cinico dei servizi segreti, di cui (come peraltro Fleming) aveva fatto parte, le Carré ne aveva fornito un quadro realistico, lontanissimo dall' eroismo patinato di James Bond, ma al tempo stesso attraente per la massa dei lettori, che avevano premiato il suo talento sin dal suo primo bestseller mondiale del 1963, La spia che venne dal freddo (Longanesi, 1964). Critico dell' establishment inglese, le Carré era un uomo di sinistra e non aveva una visione manichea della guerra fredda: era stato tra l' altro invitato a Mosca in epoca gorbacioviana, anche se nei suoi romanzi più famosi alla fine il servizio segreto britannico prevale su quello sovietico. Dopo la caduta dell' Urss aveva dichiarato che a quel punto bisognava «combattere i mali del capitalismo». E in seguito si era schierato con la massima energia contro la Brexit, posizione che si rifletteva già nel romanzo Un passato da spia (Mondadori, 2017) e poi in La spia corre sul campo (Mondadori, 2019). David Cornwell era nato in Inghilterra, nella cittadina meridionale di Poole, il 19 ottobre 1931. I suoi genitori si erano separati quando era bambino e non aveva più rivisto la madre fino all' età di 21 anni. Assai difficile era stato poi il suo rapporto con il padre Ronald Cornwell. A un certo punto era intervenuta la ribellione del ragazzo, che era riuscito a farsi mandare a studiare in Svizzera. Fu una svolta: sia perché a Berna si era manifestata la sua passione per la cultura tedesca, che caratterizza anche il personaggio di maggior spicco dei suoi romanzi, George Smiley; sia perché proprio nella capitale elvetica, pullulante di spie, era avvenuta l' iniziazione al mondo dei servizi segreti. Mentre lavorava in Germania per l' intelligence sotto copertura diplomatica, aveva scritto e pubblicato nel 1961 il suo primo romanzo, Chiamata per il morto (Feltrinelli, 1965). Qui entra in scena subito Smiley, individuo pingue e sgraziato, sempre vestito con abiti di taglio scadente, umiliato dalla moglie infedele e dai capi arroganti, ma dotato a profusione di intuito, memoria e capacità investigative. È lui che risolve il primo intrigo. La fama planetaria e l' agiatezza per l' autore inglese, che scrive sotto pseudonimo come si conviene a un diplomatico (e per di più agente segreto), arriva nel 1963 con La spia che venne dal freddo . Un bestseller che in Gran Bretagna vende mezzo milione di copie in tre mesi e negli Stati Uniti rimane in testa alla classifica per 43 settimane consecutive. Nel 1965 ne viene tratto un film omonimo con l' attore Richard Burton. Nel romanzo Smiley ha stavolta un ruolo secondario, ma il protagonista Alec Leamas, vittima di una intricata girandola d' inganni nella Berlino del Muro, ne condivide il grigiore di fondo. L' affermazione come romanziere aveva consentito a le Carré di chiudere la sua carriera al servizio della Corona e di dedicarsi soltanto alla scrittura. Un' attività che aveva toccato l' apice con la cosiddetta «trilogia di Karla», dal nome in codice del capo dei servizi segreti sovietici che è il rivale di Smiley in una lunga partita a scacchi destinata a dipanarsi appunto per tre libri di enorme successo: La talpa (Rizzoli, 1975), L' onorevole scolaro (Rizzoli, 1978) e Tutti gli uomini di Smiley (Rizzoli, 1980). Il duello passa attraverso diverse fasi: viene scoperto un insospettabile infiltrato del Kgb, la cosiddetta «talpa», al vertice dell' intelligence britannica; Smiley passa da momenti di grande difficoltà ad altri in cui si ritrova alla guida del «Circus» (nome convenzionale che le Carré usa per il servizio segreto del suo Paese). Alla fine del terzo romanzo Karla è in trappola e si consegna sconfitto al suo avversario di sempre. Smiley avrebbe fatto un' altra fugace apparizione nel romanzo Il visitatore segreto (Mondadori, 1991), per poi tornare di nuovo, a molti anni di distanza, nel libro del 2017 Un passato da spia. I giudizi sulla seconda parte dell' opera di le Carré variavano: alcuni ritenevano che con romanzi come La spia perfetta (Mondadori, 1986) e La casa Russia (Mondadori, 1989), l' autore avesse raggiunto la piena maturità; altri erano più critici, ritenevano che fosse entrato in una fase involutiva. Ma non gli si poteva certo contestare un eccezionale primato. Nessun altro aveva saputo raccontare con tanta efficacia l' atmosfera ambigua e soffocante dell' ambiente spionistico.
Morto di polmonite lo scrittore John le Carré. È morto a 89 John le Carrè, scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio. Luisa De Montis, Domenica 13/12/2020 su Il Giornale. È morto a 89 John le Carrè, scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio. A darne la notizia Jonny Geller, ceo del Curtis Brown Group. Il suo vero nome era David Cornwell. "È stato un gigante della letteratura inglese. L'ho rappresentato per 15 anni, ho perso un amico", le parole di Geller in una nota. La famiglia ha confermato che Le Carrè è morto di polmonite al Royal Cornwall Hospital, a Treliske, la notte di sabato. La malattia, si legge in un comunicato della sua agenzia letteraria, non era collegata al Covid-19. Lascia la moglie Jane e 4 figli. "Per sei decenni - si legge nella nota - John Le Carrè (il cui vero nome era David Cornwell, ndr) ha dominato le classifiche dei bestseller con il suo monumentale corpus di opere". Attraverso il suo personaggio George Smiley, Le Carrè ha descritto in moltissimi romanzi gli intrighi spionistici della guerra fredda, forte di una personale esperienza come agente dei servizi segreti britannici. La fama mondiale giunse quando aveva 32 anni, nel 1963, con il terzo romanzo, "La spia che venne dal freddo". Il lavoro di Le Carré è per molti versi una risposta critica e ragionata al sensazionalismo che contraddistingue il più celebre esponente letterario del genere: James Bond. I suoi protagonisti sono tridimensionali e l'interazione con il mondo che li circonda è complessivamente più realistica e meno "glamour". George Smiley, uno degli agenti segreti più amati dai lettori di tutto il mondo, nasce nel 1961 con il primo romanzo "Chiamata per il morto". Nei romanzi di Le Carré spesso risalta la fallibilità dei sistemi di spionaggio occidentali, con la considerazione implicita che Unione Sovietica e NATO sono sostanzialmente i due lati della stessa moneta, in cui i protagonisti sembrano votati allo spionaggio più che all'ideologia che dovrebbero difendere. I romanzi successivi, in quello che si potrebbe definire il ciclo di Smiley, La talpa, L'onorevole scolaro, Tutti gli uomini di Smiley, consacrano Le Carré come uno dei massimi esponenti della narrativa di spionaggio. La fine improvvisa della Guerra Fredda con il crollo del Patto di Varsavia, mette in crisi tutto il genere, non risparmiando neppure l'autore inglese, che sembra incapace di trovare una nuova vena creativa. Tuttavia, con Il sarto di Panama (1996) e Il giardiniere tenace (2001) dove si ispira ad una vicenda realmente accaduta, ritorna al successo, adattando lo spionaggio a nuove necessità, comiche nel primo titolo dichiaratamente ispirato a Graham Greene e al suo Il nostro agente all'Avana, sociali nel secondo in cui attacca lo strapotere delle multinazionali farmaceutiche e denuncia la tragica situazione africana.
Il lutto. Morto lo scrittore John le Carré, re dei romanzi di spionaggio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Dicembre 2020. E’ morto a 89 anni John le Carré, scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio. A darne la notizia Jonny Geller, ceo del Curtis Brown Group. Il suo vero nome era David Cornwell. “E’ stato un gigante della letteratura inglese. L’ho rappresentato per 15 anni, ho perso un amico”, le parole di Geller in una nota. Le Carrè è scomparso a causa di una polmonite, non legata al Covid-19, al Royal Cornwall Hospital sabato sera. La sua fama mondiale è dovuta alla sua firma su alcuni dei più grandi romanzi thriller e di spionaggio dell’ultimo secolo: romanzi diversi rispetto a quelli di Ian Fleming, creatore del ‘patinato’ James Bond. Le Carrè da profondo conoscitore dei servizi segreti, di cui aveva fatto parte proprio come Fleming, ne aveva fornito infatti un quadro ben più realistico. Nota anche la sua militanza di sinistra: dopo la caduta dell’Unione Sovietica il suo ‘nemico’ era diventato “combattere i mali del capitalismo”. Nato nel 131 a Poole, nell’Inghilterra meridionale, si laurea al Lincoln College di Oxford in letteratura tedesca e diventa docente all’Eton College, poi nel 1959 diventa funzionario del Foreign Office, il Ministero degli Esteri britannico. Inizialmente riceve la carica di Secondo Segretario presso l’Ambasciata del Regno Unito a Bonn e successivamente viene trasferito al Consolato di Amburgo, come Consigliere politico. In questo periodo viene reclutato dall’MI6. Il suo primo romanzo è del 1961, quando è ancora membro dei servizi segreti: “Chiamata per il morto”. Il successo planetario arriva due anni più tardi con “La spia che venne dal freddo”, bestseller che in Gran Bretagna vende mezzo milione di copie in tre mesi e negli Stati Uniti rimane in testa alla classifica di diffusione per 43 settimane consecutive.
Addio Jhon Le Carrè, con lui la spy story divenne letteratura. Lo scrittore britannico Jhon Le Carrè è morto di polmonite a 84 anni. Il Dubbio il 14 dicembre 2020. Lo scrittore britannico David Cornwell, meglio conosciuto con il suo pseudonimo John Le Carrè, è morto all’età di 89 anni. Ad annunciarlo il suo agente. Lo scrittore, diventato famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi thriller e di spionaggio è morto a causa di una polmonite. Il suo agente Jonny Geller lo ha descritto come “un gigante indiscusso della letteratura inglese e ha detto di aver perso “un mentore, un’ispirazione e, soprattutto, un amico. Non lo rivedremo più”.
La storia di John Le Carrè. Nel gelido inverno del 1948, mentre Le strade delle città europee erano ancora ingombre delle macerie della Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo di 17 anni combatte già un’altra guerra, che sarebbe andata avanti per un altro mezzo secolo e di cui sarebbe riuscito a vedere la fine, uscendone vivo e straordinariamente celebre. Il suo nome è David Cornwell, ed è un ragazzo prodigio, tanto che a 16 anni è già iscritto all’università’ a Berna. Ma, anche se studia in Svizzera, era pur sempre nato nel Dorset e il suo talento viene notato in patria, dove uno sguardo molto particolare lo tiene sotto osservazione. Sono gli occhi dell’MI6, il servizio di intelligence britannico, che decide di mandare un agente a reclutarlo. Due anni dopo, a nemmeno 20 anni, fa il servizio militare nei servizi segreti dell’esercito britannico in Austria, ma per mandarlo sul campo bisogna ricostruirgli una verginità, così va prima a Oxford, dove impara, e poi a Eton, dove insegna: alla creme dei rampolli della nobiltà e dell’alta borghesia inglese. Lo spionaggio è una cosa che richiede tempo e così David ha quasi 27 anni quando finalmente entra nell’MI5 (il controspionaggio). Il suo compito è – finalmente – sul campo: deve pedinare agenti stranieri, intercettare telefoni ed entrare nelle case dei sospettati senza che se ne accorgano. Passa poco e l’Mi6 lo rivuole indietro: nel 1960 si trasferisce dall’intelligence interna a quella esterna. Ed è in quel momento, secondo gli studiosi che hanno esaminato a fondo Le sue opere, che David Cornwell diventa John Le Carrè. Non sulla carta, ancora, ma secondo Timothy Garton Ash – autore nel 1999 di un articolo su Life and Letters dedicato allo scrittore/spia – è alla minuziosità del lavoro nell’intelligence che si deve molto dello stile di Cornwell diventato Le Carrè. Le Carrè ha scritto gran parte del suo primo romanzo, “Chiamata per il morto”, mentre era ancora in servizio, usando lo stile dell’Mi6: stile asciutto, nemico degli aggettivi e imperniato sul verbo. In realtà Le Carrè non è un agente di rilievo e cerca di superare questa frustrazione creando la sua versione del mondo segreto in cui lavora, dando corpo sulla carta al desiderio di sognare il sogno della grande spia, di essere al centro del grande gioco raccontato da Kipling in “Kim”. E lo fa inventando un mondo spettrale più adatto alle sue esigenze, un mondo che si alimenta della paranoia che percorre il mondo dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, quando praticamente tutti, ovunque, sono sospettati di essere spie sovietiche. Per Le Carrè, Le questioni di tradimento e paranoia hanno radici che vanno più in profondità della sua esperienza professionale come spia. Possono essere ricondotti alla sua vita familiare, e in particolare al rapporto con suo padre, Ronnie Cornwell, che gli studiosi descrivono come “un truffatore picaresco, energico, affascinante, di livello mondiale”. Era stato per sfuggire all’influenza del padre che il giovane Le Carrè si era trasferito a Berna. Ma era una fuga impossibile perchè Ronnie avrebbe tentato in tutto i modi di sfruttare la fama del figlio: ad esempio presentandosi nel più grande studio cinematografico di Berlino Ovest millantando di rappresentare il figlio per l’adattamento cinematografico di “La spia che venne dal freddo” o facendogli causa per ottenere il rimborso delle spese sostenute per la sua istruzione. Ma quale sarebbe il libro migliore per conoscere Le Carrè? Publisher Weekly, che nel 2006, 43 anni dopo la sua pubblicazione, lo aveva definito “il miglior romanzo di spionaggio di tutti i tempi” non avrebbe dubbi: “La spia che è venuta dal freddo”.
Scritto al culmine della Guerra Fredda, ritrae i metodi di intelligence dei Paesi occidentali e comunisti come vili e moralmente insensati. La trama dipende da una serie di capovolgimenti: mentre lo si legge, bisogna rivedere continuamente l’idea che ci si è fatti di quello che sta succedendo, il che fa parte del divertimento, ma lo rende schematico come il disegno di un architetto. Eppure “La talpa” è il più divertente. Uscito nel 1974, quando tutti ricordavano ancora quanto l’intelligence britannica fosse stata compromessa negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta da agenti doppiogiochisti come Kim Philby e Guy Burgess, dice molto poco su come inizia il tradimento, ma crea un racconto fittizio di come potrebbe essere chiuso. Come Raymond Chandler, un altro scrittore di genere, Le Carrè offre una visione peculiare della vita, ma così persuasiva che molti lettori iniziano a vedere Le cose a modo suo. Tanto Chandler era un maestro della squallida e seducente amoralità di Los Angeles, quanto Le Carrè è riuscito a creare un mondo e un gergo – soave, spietato, tagliente – da inglese istruito che in alcuni tratti è mutuato dalle spie vere. Secondo Philip Roth, un altro libro di Le Carrè, “Una spia perfetta” del 1986, è non solo il suo migliore ma “il miglior romanzo inglese del dopoguerra”. Con buona pace di George Orwell, Graham Greene, Muriel Spark e Anthony Burgess. Le Carrè ha sempre disprezzato lo spionaggio americano. Gli americani mancano di stile, sottigliezza, pazienza, diceva e non si divertono a spiare come in un gioco insidioso. Pensano di salvare il mondo, mentre i britannici sanno che, a parte gli interessi della Gran Bretagna, non c’è niente da salvare, se non la stessa, interminabile, eterna guerra tra spie.
Dagospia il 14 dicembre 2020. Dal Daily Mail. Il capo dell'MI6 Richard Moore ha reso omaggio con un tweet all'ex agente John le Carré: “Un gigante della letteratura che ha lasciato il segno” nei servizi segreti britannici “attraverso i suoi brillanti romanzi''. Il predecessore di Richard Moore una volta aveva affermato che i suoi libri elettrizzanti avevano dato ai servizi segreti britannici una "cattiva reputazione". Lo scrittore, padre di 4 figli, è morto sabato in Cornovaglia dopo una breve battaglia con la polmonite, ma non aveva il Covid-19. L'89enne aveva trascorso un isolamento in Cornovaglia ed era stato molto critico nei confronti della gestione del governo della pandemia, descrivendo Boris Johnson come "più ignorante del maiale". Ha anche affermato di sperare che la pandemia porti a una "società più giusta" con una "distribuzione più equa della ricchezza". Le Carré, che ha rifiutato onori letterari e un cavalierato, ha detto in un'intervista del 2017 a ‘’60 Minutes’’ di essere ‘’così sospettoso del mondo letterario che non voglio i suoi riconoscimenti'', aggiungendo: ``e meno di tutto voglio essere chiamato Comandante dell'Impero britannico o qualsiasi altra cosa dell'Impero britannico”. "Non voglio assumere la posizione di qualcuno che è stato onorato dallo stato e deve quindi in qualche modo conformarsi allo stato, e non voglio indossare l'armatura". "La mia Inghilterra sarebbe quella che riconosce il suo posto nell'UE. L'Inghilterra sciovinista che sta cercando di farci uscire dall'UE, è un'Inghilterra che non voglio conoscere". Laureato a Oxford nel 1956 con una laurea in lingue moderne, iniziò a insegnare all'Eton College. Dopo essersi unito ai servizi segreti dell'esercito britannico nel 1950, ha lavorato di nascosto per l'MI5, spiando i gruppi di sinistra al Lincoln College di Oxford, per individuare eventuali potenziali agenti sovietici. Nel 1958 divenne ufficiale dell'MI5 dove condusse interrogatori e svolse attività più segrete come intercettare linee telefoniche ed effettuare irruzioni. Le Carre fu attratto dallo spionaggio da un'educazione superficialmente convenzionale ma segretamente tumultuosa. Suo padre, Ronnie Cornwell, era un truffatore che era un socio di gangster e ha trascorso del tempo in prigione per frode assicurativa. Sua madre lasciò la famiglia quando David aveva 5 anni; non l'ha incontrata di nuovo fino all'età di 21 anni. Ha iniziato a scrivere romanzi mentre lavorava come spia britannica. Lo pseudonimo di John Le Carre è stato creato da Cornwell al momento della pubblicazione del suo primo libro, Call for the Dead, come mezzo per aggirare il divieto al personale del Foreign Office di pubblicare lavori a proprio nome. La sua carriera di spia finì nel 1963 quando Kim Philby, uno dei famigerati Cambridge Five, aveva rivelato la sua vera identità con la Russia sovietica. Le opere di Le Carre sono state spesso elogiate per aver spogliato della vita affascinante di una spia spesso raffigurata nel romanzo di James Bond e concentrandosi invece sugli aspetti più grintosi e oscuri del lavoro. Margaret Atwood ha twittato che i romanzi di Cornwell Smiley erano la ”chiave per comprendere la metà del 20° secolo’', mentre il brasiliano Paulo Coelho ha detto: "Non sei stato solo un grande scrittore, ma un visionario. Goditi la tua nuova casa". Stephen King ha twittato: "John le Carré è morto all'età di 89 anni. Quest'anno terribile ha rivendicato un gigante letterario e uno spirito umanitario. Little Drummer Girl è stato uno dei migliori romanzi che abbia mai letto’'. Il romanziere Robert Harris ha definito le Carre "uno di quegli scrittori che non era solo uno scrittore brillante, ma è anche penetrato nella cultura popolare - e questa è una grande rarità". Il suo ultimo romanzo, Agent Running in the Field, è stato pubblicato nell'ottobre 2019. David ha scritto venticinque romanzi e un volume di memorie, The Pigeon Tunnel (2016), e ha venduto più di sessanta milioni di copie del suo lavoro in tutto il mondo."
Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 14 dicembre 2020. Picchiato dal padre, abbandonato dalla madre, adottato per così dire dal servizio britannico, salvato dalla scrittura, dissidente per vocazione. Potrebbe riassumersi così l'autobiografia di John le Carré, uno dei più grandi scrittori del dopoguerra, che ha deciso di raccontare se stesso nel suo prossimo libro. Per quanto si sapesse già molto dell' autore di "La spia che venne dal freddo" e tanti altri best- seller tradotti in tutto il mondo, le sue memorie aggiungono rivelazioni e particolari illuminanti sulla vita e sull' arte di un romanziere che abita da 40 anni in un' isolata villa sulla costa della Cornovaglia, concede rare interviste, sta lontano dai talk show televisivi, dai festival di letteratura e dai corsi di scrittura creativa. In David Cornwall, questo il suo vero nome, c' è sempre stato qualcosa di enigmatico, e la nuova opera conferma il senso di mistero a partire dal titolo: "The pigeon' s tunnel" (Il tunnel dei piccioni). Si riferisce - come spiega lui stesso- a un club di tiro al piccione a Montecarlo che visitò insieme a suo padre quando era bambino. I piccioni venivano immessi in un tunnel, da cui sbucavano prendendo il volo e finendo nel mirino dei tiratori. Quelli che sfuggivano alle fucilate ritornavano sul tetto del casinò che organizzava l'evento, dopodiché venivano infilati di nuovo nel tunnel per un altro volo verso una probabile morte. «Per quale motivo questa immagine mi abbia perseguitato per così tanto tempo è qualcosa che il lettore può giudicare meglio di me», scrive le Carré. Il difficile rapporto con il genitore è uno dei passaggi più intimi del libro. L' 84enne scrittore descrive il padre Ronnie come «un imbroglione, un sognatore e un avanzo di galera», che picchiava selvaggiamente la madre. «Picchiava anche me, ma solo ogni tanto e senza troppa convinzione», aggiunge, ricordando che Ronnie gli telefonava da varie prigioni all' estero chiedendogli soldi. La mamma lo abbandonò quando aveva 5 anni: «Non ricordo di avere provato affetto per nessuno durante la mia infanzia, tranne che per mio fratello maggiore (Rupert, diventato un noto giornalista, da tempo corrispondente estero del quotidiano Independent, ndr.), che a tratti era come il mio unico genitore». Una carenza di affetti che può avere influito sui suoi comportamenti da adulto: «Non sono stato né un marito né un padre modello e non ho interesse a cercare di sembrare tale», confida le Carré. Degli anni in cui lavorò per l'Mi6, il servizio di spionaggio britannico, afferma: «Mi sento uno scrittore a cui a un certo punto è capitato di essere una spia piuttosto che una spia che a un certo punto si è messa a scrivere». Confessa che preferisce rimanere fedele «alla tradizione secolare della scrittura non meccanizzata», trovando meglio l'ispirazione con penna e quaderno, «durante passeggiate, sul treno e al caffè». Scrivere, ribadisce, è comunque quello che gli «piace fare», dividendo la sua vita tra il periodo prima della pubblicazione di "La spia che venne dal freddo", il romanzo che gli ha dato fama e successo, e tutto quello che è venuto dopo. Nelle memorie le Carré non risparmia dettagli sui suoi incontri con personaggi famosi. Ricorda un invito a colazione da Margaret Thatcher, in cui chiese all' allora premier britannico di fare di più per la causa dei palestinesi: «Mi rispose freddamente che i palestinesi avevano addestrato i guerriglieri nord-irlandesi dell' Ira, i quali avevano assassinato un suo amico». Il magnate dei media Rupert Murdoch voleva sapere da lui chi fosse responsabile della morte dell' editore rivale Robert Maxwell, misteriosamente affogato dopo essere caduto in mare dal suo yacht: quando Le Carrè risponde di non saperlo, Murdoch perde interesse e se ne va. Lo scrittore esprime scarsa simpatia per Kim Philby, l'agente segreto britannico che faceva il doppio gioco per l' Urss e fuggì a Mosca, mentre è più solidale con Edward Snowden, l'ex-agente della Cia autore delle rivelazioni sul Datagate: «Siamo diventati troppo mansueti riguardo alle violazioni della privacy». La sua, finora, l'ha difesa puntigliosamente. Fino a quando ha deciso di scrivere un libro di memorie.
"Scrivere è come spiare". Parola dell'autore-talpa. Lo scrittore britannico è morto a 89 anni. Nei suoi thriller, l'opposto di 007: l'agente Smiley. Alessandro Gnocchi, Martedì 15/12/2020 su Il Giornale. John Le Carré, morto sabato notte all'età di 88 anni, era nato nel 1931, nel Dorset. Lo scrittore è deceduto a causa di una polmonite al Royal Cornwall Hospital, a Treliske. La malattia, si legge in un comunicato della sua agenzia letteraria, non era collegata al Covid-19. Lascia la moglie Jane e 4 figli. «Per sei decenni - si legge nella nota - John Le Carré ha dominato le classifiche dei bestseller con il suo monumentale corpus di opere». In effetti Le Carré ha scritto 25 romanzi e un'autobiografia. In tutto il mondo sono state vendute più di 60 milioni di copie dei suoi libri. Nel 1965 il regista Martin Ritt dirige il primo di una lunga serie di adattamenti cinematografici dei suoi romanzi, scegliendo La spia che venne dal freddo, attore protagonista Richard Burton. All'epoca si chiamava David John Moore Cornwell. Dopo essersi laureato in letteratura tedesca al Lincoln College, a Oxford, viaggia per la Svizzera, per perfezionare la pronuncia. Viene avvicinato per la prima volta dai servizi segreti. In seguito è docente di lingue a Eton. Negli anni Cinquanta, è reclutato dal Foreign Office. Trasferito al Consolato d'Amburgo, diventa agente del servizio segreto MI6. Dal tranquillo insegnamento in università elitarie del Regno Unito al rischio di beccarsi una pallottola dai sovietici. Un bel salto. Tre anni fa, aveva spiegato la sua decisione con queste parole: «Non so perché sono diventato una spia. Magari per assaporare quell'infanzia felice che non ho avuto». Il padre Ronnie era un truffatore di professione, galeotto e sospettato di essere un agente della Stasi: «Tanti indizi mi fanno credere che lo fosse, ma resterà un mistero. Di certo è stato lui ad avvicinarmi ai servizi segreti, conosceva bene quel mondo». Nel 1964, è costretto a lasciare a causa dell'infiltrato più famoso di tutti i tempi, Kim Philby, un agente di alto profilo, peccato fosse un uomo del KGB sotto copertura dal 1936. Nel frattempo Le Carré ha scritto il suo primo romanzo nel 1961, Chiamata per il morto (in Italia uscì per Feltrinelli nel 1965). Nel 1963 pubblica il romanzo che lo consacra come bestsellerista e scrittore di caratura mondiale: La spia che venne dal freddo (prima edizione italiana, Longanesi, 1964). Insomma, l'addio ai servizi non lo trova impreparato. Il caso Philby finisce al centro de La talpa (Mondadori, 1974), forse il romanzo di Le Carré oggi più noto. Il protagonista è l'agente George Smiley, timido, dimesso, tradito dalla moglie, insomma il contrario di James Bond, altra creatura di uno scrittore, Ian Fleming, dai trascorsi nei servizi britannici. Le Carré: «È il meglio di me, ammiro il suo senso del dovere, il suo impegno e la responsabilità che sente verso il prossimo. Siamo cresciuti assieme, io e Smiley, era presente nella prima pagina del mio primo romanzo. Ma quando è diventato troppo famoso, l'ho accantonato». Smiley torna in Un passato da spia (Mondadori, 2017). Come scrittore, Le Carré esalta due fattori fondamentali. Il primo: la routine: «Fa parte della mia quotidianità. Quando termino un libro, comincio subito quello successivo. Inizia tutto dai due o tre personaggi che ho in testa. Posso avere un'idea generale, mentre la trama nel suo dettaglio emerge solo durante la scrittura. Ma fin da subito conosco l'immagine finale che voglio raggiungere con il libro, e la ricerco attraverso la storia». Secondo: l'informazione: «Sono stato ovunque per raccogliere informazioni per i miei libri. Ho incontrato chiunque avesse qualcosa da dirmi, millantatori o capi. Sempre a disposizione, a qualsiasi ora del giorno e della notte. La regola era trascrivere tutto, il prima possibile, per non dimenticare nulla. D'altronde essere una spia non è poi così diverso dallo scrivere libri». Niente di strano, eppure Le Carré riesce a essere inimitabile. Nei suoi libri, spesso, la trama è affidata al dialogo serrato tra pochi personaggi, che ricordano, spiegano, depistano, cercano di ingannarsi... Di fatto la storia è già avvenuta o sta avvenendo altrove. Eppure, la bravura di Le Carré è tale da sopperire alla mancanza di azione in presa diretta (in alcuni romanzi echeggia al massimo un colpo di pistola). I dialoghi sono elettrizzanti, tengono sulla corda, sottintendono raffinatezza psicologica ed esprimono una fantastica ironia british. Legato al mondo della guerra fredda, Le Carré ha saputo descrivere anche la lotta al terrore e il nuovo mondo ultraviolento dei mercenari. Era rimasto aggiornato: «Non sono un vecchio con il vizio di rimpiangere il passato. Ma ho avuto la fortuna di vivere lo spionaggio non violento. Oggi è tutto cambiato, il mondo è più inquieto di prima, è più difficile distinguere i buoni dai cattivi. Il maggiore rischio oggi non è una nuova Guerra fredda, ma il fattore imprevedibilità. Come la Corea del Nord, e per certi versi anche l'Isis, che sfugge alle logiche d'ingaggio di un tempo. Minacce terribili, perché ogni sforzo, militare o diplomatico che sia, rischia di risultare inutile». Radical chic, ospite fisso alle proiezioni di casa Kubrick, Le Carré ogni tanto eccedeva nelle dichiarazioni politiche. Fece molto discutere la sua presa di posizione su Salman Rushdie ai tempi della fatwa scagliata da Khomeini contro lo scrittore dei Versi satanici (1989). La ex-spia definì Rushdie un «cretino» prima di lanciarsi in un'aperta polemica contro lo scrittore rivale: «Non esiste una legge di natura o dello Stato secondo la quale le grandi religioni possono essere insultate impunemente». E aggiunse che la maggior preoccupazione di Rushdie erano i «diritti d'autore». Iniziava così una delle faide letterarie più lunghe di tutti i tempi: «Rushdie piega la verità ai propri comodi» diceva Le Carré; «Le Carré è un inutile borioso ignorante» rispondeva Rushdie. La pace fu suggellata soltanto nel 2012.
· E’ morto il regista Kim Ki-duk.
Marco Giusti per Dagospia l'11 dicembre 2020. Kim Ki-duk, geniale e controverso regista sud-coreano, autore di una trentina di film come “Pietà”, “Ferro-3”, L’isola”, “Arirang”, forti, controcorrente, anche sgradevoli ma premiatissimi a ogni festival da Venezia a Berlino a Cannes, ci lascia oggi in un ospedale di Litva, in Lettonia, fulminato dal Covid, a soli 59 anni. Sembra che fosse arrivato in Lettonia per comprarsi una casa sul mare a Jurmala, vicino a Riga, dove intendeva vivere in tranquillità. Sfortunatamente non è andata così. Lo ricordiamo bene quando si presentò sul palco in ciabatte, vestito da cacciatore sul palco del Festival di Venezia nel 2012, dove era stato premiato con il Leone d’Oro il suo notevole e durissimo “Pietà”, a discapito di “The Master” di Paul Thomas Anderson, cantare a una esterrefatta platea “Ariran”. Tendeva sempre a stupire Kim Ki-duk, fin dall’inizio, sia con “Ag-o” nel 1996 che nel 2000 con “L’isola”, altro film difficile, ma a suo modo anche divertente, che aveva molto colpito Alberto Barbera che lo volle in concorso a Venezia già nel 2000. Ci furono poi “Shiljie Sanghwang”, girato tutto in 200 minuto, “Indirizzo sconosciuto” del 2001, “Spring, Summer, Autumn, Winter... and Spring”, 2003, “La samaritana”, che vinse l’Orso d’Argento a Berlino nel 2004, “Ferro-3”, che molto piacque al pubblico italiano più snob. Ricordo come reagirono i poveri critici al Lido di Venezia nel 2012 di fronte al suo “Pietà”, che andava avanti a martellate e coltellate su gambe e piedi, che già dal titolo e dal bellissimo manifesto cerca di rimandarci al capolavoro di Michelangelo. La pietà a cui rimandava il film era quella che avrebbe dovuto mostrare Dio nei confronti di una società e di una umanità distrutta dal capitalismo e dall’inutile sogno di poter rimediare a tutto solo col denaro. Una umanità che sembrava non avere altro futuro che la morte e la distruzione. Violentissimo, impiccagioni, amputazioni, stupri, al punto che dopo mezzora molti scappavano dalla sala. Il tutto ambientato in uno dei quartieri più degradati di Seoul, l’impronunciabile Cheonggyecheon, che era poi il quartiere dove era cresciuto il regista, che stava per essere assorbito dai ricchi centri commerciali della città. Non ci faceva sconti Kim ki-duk. Rispetto a altri celebri registi della Corea del Sud, come Park Chan-wook o Bong Joon-ho, non si riteneva in grado di poter adattarsi al cinema più popolare e di cassetta. “Penso di essere un elemento diverso da quei registi. Se loro sono più legno o metallo, io sono suolo. Loro potrebbero essere trasformati in qualcos'altro, ma io non posso. Non ho la capacità di trovare una via di mezzo con il mio pubblico, e lo so troppo bene. Ho girato 18 film e nessuno di loro aveva una via di mezzo. Penso che ciò sia dovuto principalmente al fatto che non ho studiato regia e non ne so molto di come si fa un film come loro. Non so altro a parte girare. Quindi il pubblico può scegliere se seguirmi o non seguirmi, e non li biasimo se scelgono di non guardare”. Nato a Bonghwa in Corea del Sud nel 1960 aveva studiato Belle Arti a Parigi nei primi anni ’90 e era arrivato al cinema, quindi, non in maniera tradizionale. Pronto a colpire lo spettatore, per arrivare al cuore della sua ricerca, ebbe problemi su un film quando venne accusato da un'attrice di aver esagerato con le scene di sesso che la riguardavano ben oltre quello che era stato stabilito in sceneggiatura. La grande platea dei cinefili di tutto il mondo si divise, ma in molti seguitarono però a vederlo come un maestro. Presentando “Moebius” nel 2013 era già chiaro che stava facendo un cinema violento e sessualmente forte. “Noi non siamo mai liberi dal desiderio fisico per tutta la nostra vita. E a causa di ciò, ci auto-torturiamo, maltrattiamo o diventiamo maltrattati. E nel mezzo di tutto questo si trovano i nostri genitali”. In anni di femminismo e di #metoo il suo approccio alla sessualità creò non poco imbarazzo. Ma quello che realmente gli interessava era l’umanità, in tutte le sue distorsioni, che seguitò a essere il tema anche dei suoi film successivi, come “Il prigioniero coreano”, sui rapporti tra il sud e il nord della Corea o il recentissimo “Din” del 2019.
· E’ morto Paolo Rossi. Il Pablito Mundial.
Addio Paolo Rossi, campione del mondo. A soli 64 anni ci lascia l'uomo che portò l'Italia alla vittoria nell'82. Un eroe del calcio che non ha mai voluto essere Dio. Ma che ci ha regalato la gioia pura. Gianfranco Turano su L'Espresso il 10 dicembre 2020. Paolo Rossi è morto a 64 anni nel modo in cui faceva gol. Ha sorpreso tutti tranne chi lo conosceva bene. Ci ha messo a sedere, come ha fatto per tre volte con il numero uno del Brasile Waldir Peres il 5 luglio 1982 ai Mondiali di Spagna,e se ne è andato da una porta senza rete con il suo sorriso meraviglioso, specchio di un'anima che non sapeva essere cattiva. Prima della vittoria del 1982, e un po' anche dopo, Paolo Rossi era argomento di lite. C'era tutta una famiglia umana a sostenere che non era buono perché segnava gol facili mentre qualcuno diceva che lui era buono proprio perché segnava i gol facili, com'è dovere di ogni grande attaccante. Alla fine, è sempre il solito discorso. Un fuoriclasse come è stato Paolo – sempre detestato il termine Pablito – faceva sembrare tutto semplice. La sua storia è nota a chi segue il gioco più bello del mondo. Rossi inizia come ala destra nelle giovanili. Poi un po' il dribbling si appanna, il dribbling si perde presto. Soprattutto ci si accorge che il ragazzo martoriato dagli infortuni, dalle botte da orbi che allora si prendevano, è nato per fare gol. E quello non si perde mai. Trasforma in grandi due squadre di provincia come il Vicenza, al tempo LaneRossi Vicenza, e il Perugia con la sua capacità di segnare tutti i gol facili cioè quei gol che, essendo frutto di un buon gioco di squadra, ne sono la conclusione logica. Enzo Bearzot lo porta in Argentina al Mondiale del 1978 dove forse si è vista la più bella Nazionale italiana da quando esistono le dirette tv. Due anni dopo, il buco nero del calcioscommesse. Rossi, calciatore famoso e strapagato, viene squalificato nell'incredulità generale per una storia da quattro soldi all'apice della carriera. Quando torna è un fantasma. Ma la testa dura di Bearzot lo vuole in Spagna. Gliene dicono di tutti i colori al ct friulano perché Rossi non tocca palla per le prime tre partite. Gioca bene per la prima volta contro l'Argentina di Diego Armando Maradona ma non segna. Con il Brasile nessuno scommetterebbe, se non per tifo, una lira sull'Italia. Ma lo squadrone giallo-oro ha un centravanti, si chiama Serginho, che quando sbaglia un gol si mette a ridere. Rossi invece fa piangere la torcida. Poi ne fa due in semifinale alla Polonia e segna il primo, il più importante, in finale alla Germania, dopo che Antonio Cabrini ha sbagliato il rigore. Il telecronista brasiliano lo celebra con la o di gol urlata per mezzo minuto, capolavoro da melodramma, e chiude con “Paulo Hossi, o artilheiro do Mundial”. Strilla un po' per dovere contrattuale e un po' perché intanto sta cercando di capire chi ha segnato nell'ammucchiata sotto la porta di Harald Schumacher. Non conosce l'aforisma di Gianni Agnelli: «Quando non si capisce chi ha segnato, ha segnato Rossi». Adesso sarebbe facile mettersi a piangere sui migliori anni della nostra vita e un altro dio del calcio che se ne va dopo Maradona. Paolo Rossi non ha mai voluto essere dio. È stato un simbolo, però, forse contro la sua stessa volontà, di momenti terribili della storia italiana e del mondo, quando ci si svegliava e si poteva scegliere fra minaccia nucleare, terrorismo di destra e di sinistra, l'occasionale guerra di mafia. Ma sono stati anni di divertimento immenso, difficili da spiegare, quando un attaccante magro, non troppo alto, poteva rubare palla a Leovegildo Lins da Gama detto Juniore portare l'Italia in strada. Pura gioia. Questo è stato Paolo Rossi. Questo abbiamo perso oggi.
L'Italia piange Pablito: a 64 anni muore Paolo Rossi, l'eroe del Mundial '82. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 10 dicembre 2020. A soli 64 anni è morto Paolo Rossi, per tutti era Pablito, l’eroe dei Mondiali del 1982, i mondiali della “pipa” di Enzo Bearzot in panchina e di Sandro Pertini in tribuna a Madrid al fianco di re Juan Carlos. I mondiali che hanno riscoperto una Italia vincente oltre i pronostici, i mondiali del riscatto, dell’urlo di Tardelli dello scopone in aereo tra il Presidente e i Nazionali. Il mondiale di Pablito. Anche se quel nome, Pablito, era eredità del mondiale precedente, Argentina 78…Paolo Rossi è venuto a mancare afflitto da un male incurabile. L’annuncio della sua scomparsa è stato dato dalla moglie, Federica Cappelletti, con un post pubblicato su Instagram e una foto che ritrae i due coniugi stretti e sorridenti ed è accompagnata dal commento “Per sempre”, seguito da un cuore. Paolo Rossi è diventato un simbolo per gli italiani dopo che 38 anni fa con i suoi gol trascinò gli Azzurri di Enzo Bearzot a vincere i campionati del Mondo in Spagna. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale. Il trionfo, il titolo di capocannoniere, il pallone d’oro. E un posto indelebile nella storia sportiva del Paese che cancella quello che era avvenuto prima. A quei Mondiali, i primi della storia con 24 squadre, Rossi ci era arrivato dopo due anni di squalifica per il calcio scommesse e in lui in sostanza credeva solo Bearzot. Molte erano state le critiche di chi lo vedeva spento e ormai fuori dai giochi ma il ct Bearzot lo difese da tutto e tutti convinto che un campione resta un campione e ne fu ripagato da una prestazione scritta nella storia del calcio. Da giocatore Rossi era un attaccante pure, un rapace dell’area di rigore, un centravanti piccolo di statura ma veloce e, soprattutto, furbo, capace di apparire dal nulla alle spalle del difensore e superarlo per trasformare un pallone spizzato e sporco in un gol. La sua carriera era esplosa nel Vicenza poi, passando dal Perugia, era approdato alla Juventus. Tra le sue esperienze anche un periodo al Milan mentre a Verona arriva la chiusura della carriera. Con Vieri e Baggio poteva vantare il record azzurro di nove reti siglate ai Mondiali, mentre fu il primo nella storia del calcio, seguito poi da Ronaldo, a vincere nello stesso anno campionati del Mondo, titolo di capocannoniere della fase finale e pallone d’oro. Con la Juventus ha conquistato due scudetti, una coppa delle coppe, una Supercoppa e una Coppa dei Campioni. Fu anche capocannoniere della Serie B con il Vicenza. Chiusa la carriera di calciatore è stato a lungo opinionista in Tv, prima che la malattia lo allontanasse dagli schermi. Lascia la moglie Federica e tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro. Nel 2004 era stato inserito nel Fifa 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelè’ e dalla Fifa in occasione del centenario della federazione.
Addio a Paolo Rossi, «un ragazzo come noi». L’ex campione del mondo era afflitto da un male incurabile. Il Dubbio il 10 dicembre 2020. Per tutti era Pablito, l’eroe del Mundial ’82. Paolo Rossi è morto a 64 anni, era afflitto da un male incurabile. L’annuncio è stato dato dalla moglie, Federica Cappelletti, con un post su Instagram. La foto ritrae i due coniugi stretti e sorridenti ed è accompagnata dal commento «Per sempre», seguito da un cuore. E nel cuore di tutti gli appassionati di calcio italiani Rossi era entrato in quell’estate di 38 anni fa quando con i suoi gol trascinò gli Azzurri di Enzo Bearzot a vincere i campionati del Mondo in Spagna. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale. Il trionfo, il titolo di capocannoniere, il pallone d’oro. E un posto indelebile nella storia sportiva del Paese. A quella competizione Rossi era arrivato dopo due anni di squalifica per il calcio scommesse. Nonostante le critiche di chi lo vedeva spento, Bearzot lo difese contro tutto e tutti e ne fu ripagato. Tutta l’Italia scese in piazza per festeggiare. Nell’immaginario del paese brilla ancora il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, esultante in tribuna a Madrid al fianco di re Juan Carlos. A rendere Rossi un’icona ci ha pensato anche la musica: «Paolo Rossi era ragazzo come noi», è il verso di una famosissima canzone di Antonello Venditti (che adesso saluta con queste parole il campione su Facebook) . «Eravamo trentaquattro, adesso non ci siamo più, e seduto in questo banco ci sei tu. Era l’anno dei Mondiali quelli dell’86, Paolo Rossi era un ragazzo come noi». Rossi era un rapace dell’area di rigore, un centravanti piccolo e furbo, capace di apparire alle spalle dello sventurato difensore di turno per trasformare un mezzo pallone in un gol. Era esploso nel Vicenza. Poi, dal Perugia era passato alla Juventus. Tra le sue maglie figura anche quella del Milan. A Verona la chiusura della carriera. Con Vieri e Baggio condivide il record azzurro di nove marcature ai Mondiali. Fu il primo, seguito poi da Ronaldo, a vincere nello stesso anno campionati del Mondo, titolo di capocannoniere della fase finale e pallone d’oro. Con la Juventus ha conquistato due scudetti, una coppa delle coppe, una Supercoppa e una Coppa dei Campioni. Fu anche capocannoniere della Serie B con il Vicenza. Dopo la carriera di calciatore è stato a lungo opinionista in Tv, prima che la malattia lo allontanasse dagli schermi. Lascia la moglie Federica e tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro. Nel 2004 era stato inserito nel Fifa 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelè e dalla stessa Fifa in occasione del centenario della federazione.
Paolo Tomaselli per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2020. Ha fermato il tempo un' altra volta, Paolo Rossi. Ha fatto tornare tutti ragazzi o bambini, fanatici del pallone e semplici appassionati di uno sport che grazie a lui e ai campioni del Mondo del 1982 è diventato una parte felice e condivisa della storia d' Italia. Stavolta non c' è lieto fine, Pablito (ribattezzato così dal giornalista Giorgio Lago al Mondiale argentino di quattro anni prima) è morto all' ospedale Le Scotte di Siena nella notte tra mercoledì e giovedì, dopo una battaglia contro un tumore ai polmoni scoperto un anno fa, al rientro da una vacanza alle Maldive. «Mercoledì era entrato in coma, fino al giorno prima sorrideva anche se aveva perduto la forza di parlare - ha raccontato il fratello maggiore Rossano a La Nazione - . Dalla malattia originaria se ne sono sviluppate altre, anche alle ossa, indotte dalla debilitazione che ogni giorno lo rendeva più vulnerabile. No, il Covid non lo ha colpito». Rossi, che viveva a Bucine in provincia di Arezzo se ne è andato tra le braccia della moglie Federica Cappelletti dalla quale ha avuto due bambine di 11 e 8 anni. È stata lei a dare notizia della morte di Paolo nella notte di mercoledì, attraverso i social. L' ex campione lascia anche il figlio Alessandro avuto dalla prima moglie Simonetta Rizzato nel 1982: «È stato un papà fantastico, semplice ed umile. Abbiamo sperato fino all' ultimo che le cose andassero meglio ma alla fine il male ha vinto. La routine lo aiutava a pensare un po' meno alla malattia. Il calcio, che è stata la sua vita, lo ha aiutato anche in queste ultime settimane». Pablito aveva comunicato la malattia solo ai famigliari e agli amici più stretti, anche se in tanti avevano capito che c' era qualcosa che non andava, perché alla ripresa delle partite della Nazionale aveva lasciato il suo ruolo di commentatore Rai ed era uscito dalla chat dei compagni del Mundial. «Noi familiari annunciavamo che si era operato alla schiena - ha spiegato il fratello -. E non era una bugia, perché in questi mesi si è sottoposto anche a un intervento alla vertebra. Prima dell' ultima sua presenza in tv, collegato con la Domenica Sportiva, aveva dovuto fare una puntura». Pablito ha seguito negli anni diverse attività imprenditoriali e aveva avviato da poco una scuola calcio in Umbria, della quale andava orgoglioso. Tra le città dove aveva giocato, Vicenza gli era rimasta nel cuore, anche perché fu lì che la sua carriera prese il volo grazie all' intuizione di G.B.Fabbri, che lo spostò da ala a centravanti. Da oggi pomeriggio allo stadio Menti sarà aperta la camera ardente. I funerali si terranno domani alle 10.30 nel Duomo: saranno ammessi solo gli invitati della famiglia, ma l' addio a Pablito sarà trasmesso in diretta Rai.
DOPO MARADONA QUESTO 2020 DI MERDA SI PORTA VIA ANCHE PAOLO ROSSI. Da gazzetta.it il 10 dicembre 2020. La tragica notizia della morte di Paolo Rossi arriva dal profilo Instagram di Federica Cappelletti, moglie di Pablito. Con una foto postata poco dopo la mezzanotte, la moglie di Rossi ricorda "per sempre" il suo Paolo. Giornalista professionista, scrittrice, sceneggiatrice, esperta in comunicazione internazionale, la Cappelletti era sposata con Rossi dal 2010. Anche su Facebok Federica ha ricordato il suo Pablito: "Non ci sarà mai nessuno come te, unico, speciale, dopo te il niente assoluto....".
Aldo Cazzullo per corriere.it il 10 dicembre 2020. «El hombre del partido es Paolo Rossi (ITA)». La scritta sul tabellone del Camp Nou – che allora era nuovo davvero – comparve mentre le squadre stavano ancora giocando. Era l’8 luglio 1982, a Barcellona l’Italia stava battendo la Polonia nella semifinale del Mundial con una doppietta del centravanti: quasi normale amministrazione dopo la vera impresa, i tre gol rifilati al Brasile. Quella scritta non celebrava soltanto un calciatore. Non soltanto una Nazionale, e una nazione, la nostra. Quella scritta chiudeva un’epoca, e ne inaugurava un’altra. Tre giorni dopo, lo stesso Rossi apriva le marcature nella finale con la Germania, e le feste in un’Italia all’improvviso irriconoscibile, stravolta dalla gioia e dall’emozione. Grazie a Paolo Rossi, che tutti da quel momento e per sempre chiamarono Pablito – pareva davvero un ragazzino, e così l’abbiamo pensato sino all’ultimo, tanto che la notizia della sua morte ci pare impossibile -, l’Italia cambiò umore. Nella percezione comune, finivano gli anni di piombo e cominciavano davvero gli Anni 80: il riflusso, la febbre del sabato sera, il campionato di calcio più bello del mondo, la Milano da bere, eccetera eccetera. Era una percezione; non la realtà. Il 1982 fu un anno terribile per il terrorismo. Ma quella festa collettiva era il segno che il Paese voleva voltare pagina, chiudere il tempo degli scontri di piazza, della violenza politica, della battaglia ideologica. Libero ognuno di distinguere il confine tra levità e superficialità, di coltivare nostalgie, di stilare graduatorie di valore, di dare il proprio giudizio; resta il fatto che è andata così. Paolo Rossi si era affacciato alla ribalta già quattro anni prima, al Mondiale argentino. Non era un calciatore appariscente. Al contrario, la sua principale qualità era che non lo vedevi arrivare. Rapidissimo. Con un senso unico della posizione e del gol. Con un nome e un cognome talmente diffusi da avere migliaia di omonimi, da consentire a chiunque di rivedersi in lui. Cresciuto in provincia: l’esplosione nel Vicenza, poi l’approdo a sorpresa al Perugia, quindi la squalifica per il coinvolgimento (marginale) nello scandalo scommesse, infine l’arrivo alla Juve: il tempo di festeggiare lo scudetto del 1982 con una manciata di minuti in campo, e di partire per la Spagna. Bearzot lo aspettò. Lo difese da tutto e da tutti, nelle prime tre deludenti partite. Gli diede fiducia anche dopo una prova non brillante con l’Argentina di Maradona. Gioì con moderazione quando Pablito si sbloccò contro il Brasile. Solo alla fine della semifinale con la Polonia non si trattenne, ed entrò in campo ad abbracciarlo. C’è un’immagine in cui Rossi, tra una stretta e l’altra, si accorge di quella frase luminosa sul tabellone del Camp Nou, e la indica sorridendo felice. L’ha scritto lui stesso, nella sua autobiografia: “Ecco, mi piacerebbe si ricordassero di me con un solo fotogramma: maglia azzurra addosso, braccia aperte al cielo: Paolo Rossi, el hombre del partido”. E così noi lo ricordiamo: eternamente giovane. Altro che “scomparso ieri a 64 anni”; un ragazzino – Pablito – per sempre.
L’ADDIO DELLA MOGLIE DI ROSSI. Da gazzetta.it il 9 dicembre 2020. La tragica notizia della morte di Paolo Rossi arriva dal profilo Instagram di Federica Cappelletti, moglie di Pablito. Con una foto postata poco dopo la mezzanotte, la moglie di Rossi ricorda "per sempre" il suo Paolo. Giornalista professionista, scrittrice, sceneggiatrice, esperta in comunicazione internazionale, la Cappelletti era sposata con Rossi dal 2010. Anche su Facebok Federica ha ricordato il suo Pablito: "Non ci sarà mai nessuno come te, unico, speciale, dopo te il niente assoluto....".
La triste rivelazione della moglie di Rossi: "Gli ultimi istanti di vita di Paolo". Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, ha svelato: "Gli ho preso la sua mano e me la sono appoggiata sulla mia testa. Gli ultimi istanti sono stati atroci, disumani". Marco Gentile, Sabato 19/12/2020 su Il Giornale. La morte di Paolo Rossi ha gettato nello sconforto tutto il mondo del calcio italiano. Le immagini dei campioni del mondo nel 1982 che portano a braccio il feretro di Pablito all'interno del Duomo di Vicenza e le parole della moglie Federica Cappelletti resteranno in maniera indelebile nel cuore, nelle orecchie e nelle menti dei suoi tifosi, e non solo, per tempo immemore.
Il ricordo di Federica. La moglie di Rossi ai microfoni di Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport, ha raccontato gli ultimi istanti di vita del marito: "Lo amerò per l’eternità, perché Pablito non si può dimenticare, ma nemmeno Paolo. Gli ultimi sono stati attimi disumani, atroci, nei quali avevo in pugno la sua e la mia vita. Lasciarlo andare avrebbe significato non vedere più i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli che ho tanto accarezzato, i suoi piedi gentili; avrebbe voluto dire non poterlo più toccare, non sentire più la sua voce rassicurante e la sua risata felice. Così ho preso la sua mano e me la sono appoggiata sopra la testa,per sentire ancora una volta la sua protezione". Federica ha poi continuato: "Ho avuto la sensazione che in pochi istanti fosse davvero uscito da quel corpo, un corpo che aveva già perso colore e vibrazioni. Anche il profumo della sua pelle era sfumato".
Gli amici del 1982. Il tanto affetto da cui è stato travolto Paolo hanno lasciato senza parole Federica che parlando dei suoi ex compagni di squadra del Mondiale del 1982 ha svelato: "Paolo amava i suoi amici, quelli scelti fuori dal calcio ma anche la sua “squadra”. I ragazzi dell’82 con i quali conservava una chat e si sentiva ogni giorno. Il primo messaggio, dopo la sua morte, è stato proprio per loro. Non ne potevo fare ameno. Non me lo avrebbero perdonato. E, forse, nemmeno Paolo me lo avrebbe perdonato se non lo avessi inviato. Perché sapevo quanto voleva rivederli e riabbracciarli. Perché sapevo quanto ci teneva a tutti loro".
La moglie di Rossi: "Paolo voleva venire a Napoli, quando è morto Maradona ha pianto". La Repubblica l'11/12/2020. "Il rifiuto al Napoli? Paolo mi ha sempre spiegato che non ha mai rifiutato Napoli", racconta Federica, la moglie di Rossi, all'indomani della morte del campione che ha fatto sognare l'Italia. "Paolo chiese a Ferlaino di fare una squadra vincente, Ferlaino disse che non avrebbe fatto una squadra vincente ed allora rifiutò. Ma, Paolo adorava Napoli ed il popolo napoletano - continua Federica - gli è sempre dispiaciuto non vestire la maglia azzurra". "Quando è morto Maradona, Paolo ha iniziato a singhiozzare come un bambino, è stato un momento doloroso. Spero che adesso stiano assieme", dice Federica. "Le nostre figlie? Sono molto brave, hanno fatto un percorso di crescita, le abbiamo spiegato tante cose. Paolo era il papà eroe per loro: ma, abbiamo fatto una promessa a Paolo. Andremo avanti con la Paolo Rossi Accademy, spero con la collaborazione di Tardelli e Cabrini, anche con borse di studio internazionali", conclude.
La squalifica per il totonero. "Abbiamo ricostruito questa vicenda, avrei giurato che non avesse fatto nulla del genere - dice la vedova di Pablito - non era attaccato ai soldi. Abbiamo trovato tutti i documenti: anche gli accusatori di allora lo hanno dovuto scagionare, lo hanno trascinato dentro perché era il nome più importante".
Il rapporto con Bearzot. "Bearzot? L'ultimo incontro prima che Bearzot morisse gli disse: 'Ho sempre creduto in te e nella tua innocenza. E sapevo che mi avresti fatto vincere il mondiale'", racconta. "Cabrini? Ho sentito Antonio e Tardelli non riescono neppure a parlare, con tutti quelli dell'82 c'è un rapporto bellissimo, ma con Marco ed Antonio c'è un rapporto speciale. Tardelli mi diceva tutti i giorni: 'Ricordati che è mio fratello, non mi mentire sulle sue condizioni'", rivela.
Paolo Rossi alla moglie: “Sei unica, grazie per quello che stai facendo”. Notizie.it l'11/12/2020. "Non riesco a dormire, sono agitato. Sei davvero unica. Spero che il Signore ti possa riconoscere tutto questo", sono le ultime parole di Pablito. Una folla di mani e bandiere tricolore, un brivido d’emozione si alza tra gli spalti del Bernabeu. L’Italia è campione del Mondo. Pablito Rossi, capocannoniere di Spagna ’82 con 6 reti, contempla quel sussulto di commozione e di gioia incontenibile. “Guardavo la folla e i compagni. Dentro sentivo un fondo di amarezza. “Adesso dovete fermare il tempo”, mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito”. Ma il suo talento, un portento in un corpo tanto gracile, resta eterno. Dopo 24 mesi di stop e una carriera quasi stroncata, a salvarlo ci pensarono Boniperti e Bearzot. Boniperti lo convoca un anno prima della fine della squalifica. Il Vecio, invece, lo porta al Mondiale del 1982. Il resto è storia. Era un idolo, fu squalificato, tornò e divenne mundial. Di fronte alla sua morte così prematura l’intero Paese (e non solo) si stringe attorno al dolore della famiglia. Moltissimi i messaggi di cordoglio. Tantissimi i tifosi, i calciatori e gli storici compagni che hanno dedicato a Paolo Rossi un ultimo saluto: tra i più commoventi, è il messaggio della moglie Federica. A inviare un ultimo pensiero al campione toscano ci hanno pensato anche Antonello Venditti e Barbara D’Urso, che sui suoi social ha pubblicato una foto in compagnia di Rossi. Profondamente toccanti anche le parole del figlio Alessandro, avuto con la prima moglie. Strazianti, infine, le ultime parole dell’intramontabile campione. Il mondo del calcio nazionale e internazionale commemora Paolo Rossi, la cui scomparsa ha sconvolto un intero Paese. Simbolo di quella Nazionale che è stata collante di un’Italia al catafascio, esausta e disunita all’indomani dei drammatici anni di piombo, Paolo Rossi ha segnato un’epoca e il suo ricordo resterà eterno. Lo sa bene la moglie Federica, innamorata di lui e del suo sorriso, della sua gentilezza e della sua bontà. Difficile trovare le parole per raccontare cos’è successo al marito, descrivere la forza con cui ha resistito fino all’ultimo respiro, nonostante la potenza di una malattia disarmante. Paolo Rossi era ricoverato nel reparto di Neurochirurgia dell’ospedale Le Scotte di Siena. A prendersi cura di lui c’era il primario Giuseppe Oliveri, lo stesso specialista che ha operato Alex Zanardi. Insieme hanno visto in tv il derby della Mole. Pablito era un grande tifoso della vecchia signora. Il dottore, invece, ha il cuore granata. Ora portava avanti la “partita della nostra vita, il nostro Mondiale. Ma questa volta non l’abbiamo vinto“, sono le parole strazianti pronunciate dalla moglie. Paolo e Federica si erano conosciuti nel 2003. Lei, giornalista e scrittrice, aveva curato insieme ad altri colleghi il libro “Razza Juve”. Sette anni più tardi il matrimonio. Dalla loro storia d’amore sono nate le figlie Maria Vittoria (11 anni) e Sofia Elena (8 anni). All’indomani della scomparsa di Pablito, la moglie racconta: “Mi sono innamorata subito del suo sorriso, della sua generosità, della intelligenza con cui riusciva a vedere le cose. Con Paolo ogni momento è stato bello. Affrontava le cure con coraggio, la riabilitazione con volontà”. Confidando la paura per un momento così delicato e di grande sofferenza, Paolo Rossi non si è mai arreso e fino all’ultimo ha lottato per restare aggrappato a una vita che amava profondamente. Come immenso era l’amore per Federica e i suoi figli. Alla moglie che gli è stata affianco fino alla fine, ha detto: “Purtroppo non riesco a dormire e sono agitato. Guardo le foto che mi invii e penso al nostro grande amore. Vorrei solo dirti grazie per quello che stai facendo, per me e per le nostre meravigliose bambine. Sei davvero unica per le energie che profondi e per l’amore che riesci a dare in ogni cosa. Spero che il Signore ti possa riconoscere tutto questo. Darti tutto quello che meriti”.
Paolo Rossi, le parole del figlio Alessandro: “Mi occuperò di loro”. Notizie.it il 10/12/2020. “Ci sarò sempre io per le mie sorelline”. Queste le commoventi parole di Alessandro Rossi primogenito di Paolo Rossi. “Papà non si preoccupi, ci sarò sempre io per le mie sorelline e per la nostra famiglia”, queste le emozionate parole di Alessandro Rossi il figlio 38enne di Paolo Rossi e avuto dalla relazione con Simonetta Rizzato che davanti ai microfoni di Rai Sport non ha mancato di ricordare il padre. Nelle parole di Alessandro si traspare dolore eppure allo stesso tempo una consapevolezza di ciò che ha lasciato il padre il Paolo non solo al mondo dello sport, ma anche e soprattutto ai suoi familiari. “Papà è sempre stata una persona umile, generosa, sempre presente”, ha dichiarato il figlio di 38 anni Alessandro. Il grande calciatore Paolo Rossi è stato nella vita un uomo forte e con un carattere da combattente, anche e soprattutto nel periodo della lotta contro il male che lo attanagliava specialmente negli ultimi mesi. Questo è il ritratto del calciatore che il primo figlio di Paolo Rossi Alessandro ha raccontato davanti ai microfoni di Rai Sport che ha voluto tenere vivo il ricordo del padre. Il figlio ha poi annunciato che i funerali di Paolo Rossi si terranno sabato 12 dicembre in forma privata a Vicenza. Così come voluto da lui stesso e dalla seconda moglie Federica il corpo verrà cremato e riposto nell’abitazione nella quale risiedeva. Poi un impegno solenne vale a dire quello di prendersi cura delle sue sorelline Maria Vittoria e Sofia Elena e avute dal secondo matrimonio. “È una promessa che gli ho fatto. Gli ho detto che non mancherò mai, glielo devo”, ha dichiarato.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport l'11 dicembre 2020. Senza tregua. Rieccola, la smorfia dello stupore, la traccia del dolore. A seguire, immancabile, ripartirà l’apparato del lutto di massa che non ha ancora smesso l’icona di Diego e già deve lucidare quella di Pablito. Come sempre non sapremo cogliere l’attimo, interrompere quando è il momento, quando l’emozione sbiadisce nell’esibizione e poi nella ripetizione, quando il sacro diventa simulacro. L’inerzia del gesto. L’immutabilità del gregge. Pablito, lui sì, avrebbe saputo cogliere l’attimo. Accendere quando serve e spegnere quando si deve. Lui era il re dell’attimo. Il suo calcio era l’apoteosi dell’attimo fuggente. Paolo Rossi era l’opposto di Diego Armando Maradona. Difficile immaginare due più diversi. Poche cose in comune, l’aver vinto un mondiale, i palloni d’oro nei loro continenti, l’essere star planetarie, ancora di più, l’incarnare la sinossi esemplare, scritta da zampa caprina, di come la vita possa dare e togliere allo stesso uomo e alla stessa storia. La celebrità, lo scandalo, poi ancora la gloria, una vita da invidiare e una morte da compatire. Crudelmente precoce. Avevano in comune anche le ginocchia a pezzi, non riuscivano quasi più nemmeno a camminare. Ventenne, Paolo non ancora Pablito, e già la fama del talento fatto di vetro. Inaffidabile. Tre menischi in tre anni, una specie di record planetario, quando i menischi erano un guaio serio. Uno dei motivi per cui smise il pallone a trent’anni, l’età in cui oggi, a uno come Ibra, per dire, gli avrebbero strizzato i pannolini. I due erano una versione estrema dello zolfo e dell’acqua santa. Diego fornicava da sempre con le lusinghe di Satana dentro un cuore unico, sempre stato gigantesco nelle passioni prima ancora che nelle dimensioni. Diego si è assunto fino in fondo la croce sublime dell’essere Diego. Senza calcoli o riserve. L’ebbrezza e il calvario della dismisura. Diego era eccesso allo stato puro. Paolo Rossi, da oggi più che mai Paolino, meno che mai Pablito, era minimalismo totale. Tanto più stupefacente se contrapposto al boato di trofei, medaglie e titoli sparsi. Un uomo amabile e carezzevole, che non ha mai creduto fino in fondo alla balla mitologico dell’essere “Paolo Rossi”, “il fidanzato d’Italia” e via straparlando. Anche quando ci ha creduto, sempre per un attimo, non ha mai saputo né voluto esserne all’altezza. Che, in questo caso, significava anche spocchia, vanagloria, esibizione. Pablito era, è, uno degli italiani più famosi al mondo. L’abbiamo saputo con certezza il giorno in cui Mick Jagger in concerto, a Torino nell’82, si presentò sul palco con la sua maglia azzurra numero 20, vaticinando, da strega qual era: “Vincerete la finale 3 a 1”. Infinite conferme. Due anni dopo il mondiale, capito a Tokyo e non credo ai miei occhi quando un cuoco di Shinjuku mi mostra umido di commozione la foto di Pablito che teneva sotto il cuscino. O lo stesso Rossi che mi racconta di quando un tassista di Rio lo riconosce all’aeroporto e lo fa scendere dalla macchina per punirlo dello strazio che gli aveva inflitto. Mille altre di queste storie, quanto basta e avanza per avvertirsi un semidio, ma lui nisba, niente da fare. Nulla che potesse scalfire l’atrofia impermeabile del suo ego. L’anima dimessa era il suo limite ma anche la sua forza. Lo ha sempre tenuto al riparo dalle grandi ustioni, ma non dalla crudeltà, della vita. Paolino è rimasto davvero fino in fondo quello dei primi gracili dribbling dell’oratorio. Destinato a un avvenire da onesto ragioniere o da sacerdote ispirato, si è ritrovato in cima al mondo, senza nemmeno soffrire di vertigine, perché la vertigine è un lusso dell’immaginazione. La foto che più racconta Paolo Rossi non era la sua: papà e mamma che si fanno quasi mille chilometri per andare a vedere il loro ragazzo con la maglia della Juventus, da Prato a Torino, andata e ritorno, con la loro vecchia Nsu Prinz e il santino sul cruscotto. L’unica vicenda infernale fu quella del calcio scommesse ma, anche lì, ci finì dentro più per inerzia che altro, per un difetto di coinvolgimento che il contrario, per quella sua attitudine ad assecondare chi desidera più forte di lui. Anche nelle conseguenze del fattaccio non si smentì. Due anni di squalifica, senza meritarli. Due anni di vita. Chiunque altro avrebbe dato quanto meno un’occhiata alla canna del gas o si sarebbe sfondato di benzodiazepine. Lui niente. Depressione? Nemmeno a parlarne. Accettazione placida del destino. “Le cose nella vita ti succedono, positive e negative, e non puoi farci niente. Quella fu orribile. Hanno estratto un numero e sono uscito io. Mi hanno tolto due anni di vita, ma sono stato ripagato con gli interessi”. Un tratto luciferino ce l’aveva anche lui, Paolino. Rubava l’attimo. Con lucidità e destrezza. Il passo del tempo rubato nel jazz. Un talento innato. Da centravanti molto atipico anticipava tutto, l’attimo, il pensiero, l’avversario. Non aveva il fisico di Cristiano Ronaldo. Doveva prevalere con la testa, in difetto di quadricipiti e testosterone. Quasi tutti i suoi gol erano le imprese di una volpe. Chiedere a Falcao e compagni. Quella volpe ancora popola i loro incubi. In quel ritiro della Galizia, nell’82, arrivò la pallida controfigura di Paolino Rossi, palpeggiando il proprio teschio tra bordate moralistiche e improperi. Lo scarto umano riemerso da due anni di cancellazione. Se non nella psiche, annichilito nel fisico. Ferocemente voluto da Bearzot con una testardaggine eroica e apparentemente suicida. Fu così che, tra tutti i soldatini di piombo, fu quello claudicante, senza una gamba e dall’anima ferita, che diventò l’eroe principale della favola. Grazie specialmente alle amorevoli attenzioni di papà Enzo. Come ricorda Francesco de Core nel suo volume sui mondiali dell’82, Dalla polvere alla gloria, Gallego, il difensore dell’Argentina, s’era lasciato crescere apposta le unghie per graffiarlo in partita. Ma non servì. Le unghie di Gallego erano un’inezia al confronto di quelle che aveva sopportato per due anni da una nazione intera. A 64 anni, avendo ceduto al desiderio dell’amatissima moglie Federica (una giornalista, lui che i giornalisti li scansava, prima per timidezza, poi per diffidenza) di scrivere finalmente la sua autobiografia (fosse stato per lui…), l’eterno ragazzo non aveva nulla di più da chiedere alla vita. Si guardava intorno e trovava tutto quello che amava. La campagna toscana, la moglie Federica, le due figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena. Più lontano ma comunque vicino Alessandro, il figlio nato dalla prima moglie, lo stesso anno in cui il padre diventò una star mondiale. Si prestava da opinionista in tivù ma, anche qui, senza molta convinzione. Il calcio lo guardava solo per dovere, per lo più lo annoiava (faceva un’eccezione per il suo Vicenza a cui si era ravvicinato negli ultimi tempi), lontano anni luce dai compulsivi maniaci dei giorni nostri. Il resto del tempo tra il suo agriturismo nel Valdarno, l’attività vinicola condivisa con il figlio, la scuola calcio e la mostra itinerante con tutti i suoi cimeli, anche questa all’inizio più subita che voluta. L’idea di studiare da allenatore non lo ha mai sfiorato. Non si sentiva caratterialmente portato. Capiva che fare l’allenatore oggi è un mestiere spietato, troppo per lui. Gestire più di venti professionisti, spesso capricciosi, e tutto l’andazzo che li circonda. Bisogna essere molto duri dentro e fuori. Troppo stress. Troppe ulcere. Non era cosa per lui. “Devo ancora incontrarlo un allenatore felice”, mi diceva. Paolino, padre affettuoso, ha avuto un padre naturale e tre padri putativi, l’allenatore Fabbri, il presidente Farina, Enzo Bearzot su tutti. L’uomo che lo guardava negli occhi. La prima volta: “Ti porto in Spagna con me, ma devi giurarmi sul tuo onore che non c’entri nulla con quella storia schifosa…”. Quattro anni dopo: “Ti porto in Messico con me perché fai gruppo, ma non ti farò giocare”. Paolino si sentiva protetto dalla sua lealtà. Ora se n’è andato. Ha raggiunto quasi tutti i suoi padri, portandosi dietro la sua natura placida e pochi dubbi che non lo hanno mai tormentato più di tanto. Uno di questi, se ci sia una vita dopo la morte. “Diamoci una speranza - mi disse l’ultima volta che ci siamo parlati - altrimenti quale sarebbe il senso di tutto questo?”. La certezza è che di Paolino resteranno, su questa terra, i ricordi di chi gli ha voluto bene, dei tanti che quella notte di luglio si sono buttati vestiti e felici nelle fontane di tutta Italia, e il suo cordone ombelicale ancora seppellito nel giardino della casa materna. Così usavano fare le famiglie di un tempo.
Grazie Pablito per quel mondiale che ci fece scordare Rebibbia. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. Gioimmo dei gol di Pablito, uno per uno, sembravano impossibili sembravano così facili – come pazzi, in quei pochi metri quadri, ci abbracciavamo, saltavamo sulle brande, facevamo un casino infernale, sbattendo le cose, quelle poche che non erano cementate o imbullonate. Ci sentivamo vivi. In quell’estate del 1982 ero a Rebibbia. C’ero arrivato per un processo. Dai carceri speciali, il circuito dei camosci: li avevo girati quasi tutti, Cuneo, Fossombrone, Palmi, Trani, Badu ‘e Carros. Mi avesse dato ognuno il suo adesivo di ricordo, li avrei collezionati sul mio zaino e ora sarebbero stati in bella mostra. M’avevano messo in un reparto isolato, “in transito”, i miei coimputati stavano tutti assieme da un’altra parte: una banda che si era sciolta da un pezzo, quasi tutti rientrando nei ranghi, e che adesso un paio di pentiti chiamavano a render conto dei reati. Non ciascuno per quello che aveva commesso, ma tutti per quello che ognuno aveva commesso – si chiamava «concorso morale». Io ero in cella con Valerio. Morucci. Eravamo entrambi stanchi – ci sembrava ormai tutto finito, tutto impazzito. Cercavamo una via d’uscita. E non era facile: lui se n’era andato portandosi dietro soldi e armi- e quegli altri non è che l’avessero presa proprio bene. Io avevo tutta un’altra storia ma gli esiti sembravano uguali. S’era provato a discutere, erano girati dei documenti: scritti su una carta velina più velina delle cartine da sigaretta. Ma nessuno aveva voglia e capacità di discutere – un piano inclinato su cui si rotolava lentamente, inesorabilmente. Dopo Moro, non c’era più via d’uscita. Un esito suicida e mortale. C’era un caldo infernale – un’estate di quelle che si scrivono nelle serie storiche. Noi non avevamo modo di andare all’aria, non c’era neanche un cortiletto in quel reparto, e la cella era rovente. Peraltro, infestata di zanzare. Subito al di là delle sbarre – eravamo a un primo piano – vedevamo della sterpaglia e degli scoli di qualche tubatura. Valerio, che si innamorava facile dei marchingegni, aveva avuto la balzana idea di chiedere un aggeggio che emettendo un ultrasuono le allontanasse. Garantito. Aveva fatto la sua brava domandina – brigadiere, domandina – e in direzione ci avevano pensato su parecchio: chissà cosa poteva combinarci con quella diavoleria, ma poi s’erano convinti che fosse innocua e gliel’avevano data. Ovviamente, sembrava invece richiamarle come suoni d’amore. Un inferno. La geometrica potenza, mah. Stavo sempre con i piedi ammollo in una bagnarola striminzita: dopo due minuti l’acqua era già calda. Così, bagnavo degli asciugamani, poi li strizzavo e li tenevo addosso. Ci dormivo a volte. Per ammazzare il tempo, giocavamo a ricordarci i film – quelli del carcere li sapevamo tutti, anche le battute. «Ehi boss, mi levo la maglietta». «Ehi boss, sto togliendo il cappellino». Nick mano fredda, Quella sporca ultima meta. Ma anche se hai visto tutti i film del mondo sul carcere, del carcere non sai una sega. L’avevamo capito presto. Oppure, giocavamo alle strade di Roma, i vicoli, gli incroci, gli slarghi, le edicole. Ma se sui film litigavamo alla pari (una volta non ci parlammo per giorni, per via di Michael Sarrazin, che sta in Non si uccidono così anche i cavalli? ma adesso non mi ricordo più perché, forse perché era fidanzato a Jacqueline Bisset e ne eravamo entrambi gelosi), su Roma era imbattibile, sapeva pure i tombini delle strade. D’altronde. C’era un televisore piccolo piccolo, in bianco e nero, che stava appollaiato come un gufo su un trabiccolo in alto che per vederci qualcosa dovevi starci vicino in piedi. Eravamo incollati lì. È lì che vedemmo il mondiale di Spagna. Valerio di calcio non ci ha mai capito niente e con i piedi era un disastro, troppo legnoso – anche se poi gli facemmo fare il falso nueve, quando riuscimmo a stare in mezzo agli altri e c’era un campetto e mettemmo su le squadre e avemmo anche un pezzetto di gloria nel torneo con gli altri reparti. Con i “comuni”. Fu un mese di passione. Sentimenti a vagonate, saliscendi emotivi. L’inizio lo sapete tutti – tre pareggi pasticciati con formazioni che non erano certo fulmini di guerra e una squadra completamente in panne. Bearzot che decide il silenzio stampa – e quel Rossi, nella polvere e sull’altare, che s’era portato dietro a tutti i costi e che sembra dormire in mezzo al campo.
Poi, i miracoli, uno dietro l’altro – che non è vero che i miracoli non si ripetono nello stesso luogo e nello stesso tempo. L’Argentina, il Brasile, la Polonia e infine la Germania, smentendo la dannata battuta di Lineker: «Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince». Beh, se c’è l’Italia con la Germania, alla fine vince l’Italia. Gioimmo dei gol di Pablito, uno per uno, sembravano impossibili e sembravano così facili – come pazzi, in quei pochi metri quadri, ci abbracciavamo, saltavamo sulle brande, facevamo un casino infernale, sbattendo le cose, quelle poche che non erano cementate o imbullonate. Ci sentivamo vivi, stupidamente felici. Una volta venne pure la squadretta delle guardie – magari gli rodeva il culo che eravamo così entusiasti e volevano menarci ma, giuro, mi pare di ricordare che abbracciai pure il capoguardia gridando gol gol gol.
Per me Pablito è questa storia qua e lui non saprà mai quanto io gli possa essere stato grato.
Antonello Piroso per la Verità l'11 dicembre 2020. «Paolo Rossi? Fratello?». Era la notte della finale dei Mondiali di Spagna, nel 1982.L'Italia aveva battuto la Germania con i gol di Rossi-Tardelli-Altobelli. Pablito aveva vinto il titolo di capocannoniere con 6 reti, a scalare: tripletta al Brasile, doppietta alla Polonia, una appunto. Ai tedeschi. La Nazione intera aveva perso ogni freno inibitorio, e si era ritrovata assembrata - diremmo oggi - in un'unica, enorme piazza. E... stop. Anche «basta» con la retorica patriottarda, l'amarcord con l'occhio umido, il necrologio condito con la sociologia e la storia da piazzisti della riflessione («Venivamo fuori, ancora ragazzi, da anni di terrorismo, paura, infelicità»: è l'inizio di un tweet standard, alla fiera dell'ovvio dei popoli), che in occasioni come queste deflagrano a livello mediatico. Ecco perché, memore anche di quanto scritto dal campione nell'incipit della sua autobiografia del 2002 («Non vivo nel ricordo, non ho nostalgia, non ho malinconie»), ora che è morto all'età di 64 anni sconfitto da un tumore, preferisco raccontarlo partendo dal dopo quel match, con la disavventura capitata all'omonimo Paolo Rossi, il comico. Che, insieme a un amico con cui si era gustato la partita in tv, in una serata euforica anche per via dell'alcol e dell'«erba spinella» (il racconto sul palco era dello stesso artista), viene fermato dai carabinieri, a bordo della sua utilitaria, mentre sta festeggiando per strada con i milanesi tutti. I militi chiedono i documenti, e ritrovandosi in mano la patente su cui leggono «Paolo Rossi», guardano il guidatore, poi di nuovo la foto sul documento, e infine chiedono: «Paolo Rossi? Fratello?...». A quel punto il teatro esplodeva in una risata corale, per quell'epilogo da «barzelletta sui carabinieri», che in seguito fece ridere lo stesso calciatore. Il Paolo Rossi che invece aveva fatto piangere il Brasile, come da titolo dell'opera citata, in cui si mette a nudo vent' anni dopo l'evento, «ritrovata l'intimità interiore». Perché fu quell'incontro con la squadra verdeoro, il 5 luglio (prima ancora della conquista della Coppa, avvenuta l'11) a fare da spartiacque nella sua vita e nella sua carriera. «Sarà una festa da ricordare, della quale ancora parleranno quando saranno trascorsi molti anni e i suoi principali protagonisti saranno ormai solo nomi legati alla mitologia del calcio», dirà il 7 luglio, a botta ancora calda, il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, peruviano naturalizzato spagnolo (se volete approfondire la storia di quell'epico incontro, vi rimando volentieri alle 600 pagine di ricostruzione dettagliata del prima, durante e dopo di Piero Tellini La partita: il romanzo di Italia-Brasile). Chiariamo intanto un punto: Rossi non diventa Pablito in Spagna, ma addirittura prima dei Mondiali di Argentina del 1978.Convocato tra gli azzurri dal c.t. Enzo Bearzot per due amichevoli preparatorie, con il Belgio e la Spagna, non segnò (come invece stava facendo in campionato con il Vicenza) ma convinse tutti, perfino il selezionatore delle furie rosse Lazlo Kubala: «Me gustò muchissimo Rossi». Sul volo di ritorno da Madrid, Giorgio Lago - allora capo dello sport al Gazzettino - seduto vicino a Piero Dardanello, direttore di Tuttosport, e a Sandro Ciotti, voce della Rai, commenta: «L'Italia ha trovato il suo centravanti per il Mondiale, d'ora in poi possiamo chiamarlo Pablito». E così sarà, ben oltre i tornei del '78 e dell'82. Anno in cui gettò un Paese intero nell'incubo, e questo davvero senza esagerazioni. La dimensione della tragedia collettiva sta tutta nell'immagine, oggi la definiremmo «iconica», di un bambino di 10 anni che piange, con addosso la maglietta del Brasile in tribuna allo stadio, immortalato dal pluripremiato fotoreporter Reginaldo Manente, anche lui brasiliano tra le lacrime per la sconfitta, il quale distoglie lo sguardo dal campo, vede e scatta. Così il primo giornale a uscire in Sudamerica, il Jornal da tarde di San Paolo, avrà quella foto a tutta pagina, con una semplice didascalia come epitaffio: «Barcelona, 5 de julho de 1982».
Racconterà Pablito: «Quando nel 1989 sono tornato in Brasile per partecipare alla Coppa Pelè, una specie di Mondiale per over 34, mi sono ritrovato in uno stadio con 35.000 persone che mi urlavano qualunque cosa, perché per loro ero O carrasco do Brasil, il boia del Brasile. Non potevo avvicinarmi alla linea laterale perché mi tiravano di tutto: noccoline, bucce di banana, monetine. Tanto che, all'intervallo, ho deciso di non rientrare per il secondo tempo». E dire che la competizione dell'82 non era iniziata benissimo per l'Italia, tanto da indurre tecnico e atleti a trincerarsi in un coriaceo silenzio stampa viste le critiche che si abbattevano sulla squadra e le sue prestazioni. Con un sovrappiù che riguardava proprio Rossi, portato in Spagna dopo aver ripreso a giocare in campionato solo da poco, vista la squalifica di tre anni, ridotta poi a due, che gli era stata inflitta per il suo coinvolgimento nel calcioscommesse del 1980. Rossi fu accusato di aver intascato 2.000.000 di lire dell'epoca (oggi sarebbero 4.000 euro) per partecipare alla combine che blindava il pareggio tra Avellino e Perugia, in cui al momento militava. Unica condizione che Rossi avrebbe posto: «Devo segnare una doppietta», cosa che in effetti avvenne. Al processo ci fu un confronto tra Massimo Cruciani, l'organizzatore del «Totonero», e lo stesso Rossi. Cruciani: «C'incontrammo prima della partita e si parlò in termini chiarissimi, io mi resi garante che l'Avellino avrebbe consentito le due reti. Rossi allora si rivolse al suo compagno di squadra Della Martira dicendogli: Mauro, fai tu, per me va bene». A distanza di anni, Rossi ancora non si capacitava: «A Della Martira, reo confesso (di aver preso gli 8 milioni da smistare a 4 giocatori del Perugia, di cui appunto 2 a Rossi, ndr) 5 anni, e a me 3? E quelli dell'Avellino? Tutti assolti!». Comunque la si pensi, valgono le dichiarazioni successivamente messe agli atti da Cesare Bartolucci, complice di Cruciani: «Rossi non c'entrava nulla, non ha preso una lira», e da Fabrizio Corti, il contabile della banda di cui gestiva il libro mastro. Torchiato da Oliviero Beha e Roberto Chiodi per il settimanale Epoca, nel 1985 Corti confesserà: «Rossi era innocente. Ho avuto la colpa di dar retta a Cruciani, che alla fine lo ammise pure lui: aveva messo in mezzo Rossi perché serviva (un capro espiatorio, ndr), colpendo l'emblema del calcio italiano si chiudeva la bocca a tutti coloro che pretendevano la pulizia dell'ambiente. Cruciani staccò un solo assegno di 8 milioni a favore di Della Martira. Le due reti Rossi le segnò non perché d'accordo, ma solo perché era in forma, perché era... Paolo Rossi». Capace di resuscitare dalle sue ceneri, autoironico (quando gli fu riferito il gossip sulla sua presunta «affettuosa amicizia», non solo di spogliatoio, con Antonio Cabrini, Rossi commentò, adeguandosi al livello: «Sì, stavamo insieme, ma per fortuna io facevo la parte dell'uomo»), era una persona di grande sensibilità. La conferma l'ho trovata nelle sue parole dopo la fine del match con la Germania: «Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi». Attimi che talvolta valgono una vita intera.
Raffaella Silipo per "la Stampa" l'11 dicembre 2020. «Oggi continuiamo a rivedere le immagini mitiche dei gol di Paolo Rossi al Mondiale 1982, credo che dovremmo rivedere anche come ha giocato male le partite appena prima: è una lezione da non dimenticare». Alessandro Baricco si definisce «grandissimo tifoso di calcio», ne scrive con amore e competenza, lo guarda con passione e talvolta sofferenza da cuore granata, lo gioca con la maglia numero 10 nella nazionale scrittori Osvaldo Soriano Football Club, da lui fondata qualche anno fa.
Quale è la lezione che dobbiamo imparare da Paolo Rossi, Baricco?
«Primo: che il calcio è irragionevole, irrazionale, misterioso. Il calcio ci stupisce sempre, proprio come quell' immagine di Paolo Rossi che appare dal nulla in area e subito scompare. Secondo: che nella vita si può venir fuori anche dai tombini più profondi. Per fortuna, per ostinazione, forse anche per destino. È un incoraggiamento per tutti: magari senti di non averne fatta nemmeno una giusta e, appena girato l' angolo, le cose cambiano. Non soltanto si raddrizzano un po', addirittura puoi finire sul tetto del mondo ».
A onor del vero non capita spesso... ma è forse per questo che l' Italia del 1982 si è identificata in Paolo Rossi?
«Certo quella squadra e quella vittoria coincidevano con l' immagine che avevamo di noi stessi come popolo. Non eravamo all' altezza di altre squadre, prima di tutto fisicamente. Abbiamo vinto in rimonta, da outsider, da perdenti. Non eravamo degli dèi, gli dèi erano altri, noi eravamo provinciali e magrolini, come Paolo Rossi, appunto. È stata la vittoria del talento e di un' astuzia sapientemente nascosta e saltata fuori in area all' ultimo».
Una vittoria simbolica anche perchè ha aperto una nuova fase nella vita nazionale?
«L' Italia del 1982 aveva un disperato bisogno di gioco, di leggerezza. Gli Anni Settanta sono stati durissimi, quasi un' anomala guerra civile. La gente aveva fame di allegria, per questo è così forte ancora oggi la gratitudine per Paolo Rossi che, come un giocoliere, è riuscito a regalarci momenti di felicità perfetta. No è un caso se è rimasto così profondamente impresso nella coscienza collettiva».
La felicità di gioco era una caratteristica di Paolo Rossi?
«Sì, e penso soprattutto al Paolo Rossi del Lanerossi Vicenza. Grandissimo, imprendibile in campo, molto più veloce e più leggero degli altri, l' incarnazione della rapidità, con un tocco di follia che prima si era visto solo nei giocatori olandesi, alla Crujiff per intendersi. Era l' alfiere di un calcio nuovo».
Lei dove era la sera di quella finale?
«Ero in un momento un po' strano della mia vita, ospite nell' entroterra ligure di intellettuali comunisti che non sapevano assolutamente nulla di calcio. Mi sono ritrovato per tutta la partita a dover spiegare persino le regole base del gioco, dal contropiede al catenaccio. E quando abbiamo vinto, intorno c' era il silenzio più totale, esultare sembrava così inelegante... Dal terrazzo vedevo le luci della costa e la gente, lontano, che festeggiava. Insomma, quel Mondiale me lo sono perso alla grandissima. Per questo forse non ne ho mai scritto».
E gli Anni 80? Come li ha vissuti Alessandro Baricco gli anni della Milano da bere?
«Mi sono perso alla grandissima anche la Milano da bere. Mi sono laureato nel 1981 e poi è iniziato un periodo matto e disperatissimo di studio, lavoro e concorsi. Allora il mio scopo era insegnare all' università, poi mi sono accorto che per me era un mondo allo stesso tempo troppo noioso e troppo difficile. A parte il mio caso, penso che la Milano da bere sia stata un' esperienza per pochi, dilatata nella memoria collettiva grazie a cinema e tv. Un po' come è successo con la Dolce Vita negli Anni Sessanta: un' esperienza élitaria, mentre la gran parte della gente faticava. Insomma, dire che gli Ottanta sono gli anni dell' edonismo è una semplificazione, non mi pare che dessero tutte queste chances, se si esclude una certa fiducia di tipo economico. Io penso che gli anni determinanti per l' Italia siano stati i Novanta».
Diego Armando Maradona e Paolo Rossi hanno condiviso i giorni della fine, oltre che quei campi di gioco di Spagna 1982.
«È impossibile non subire il fascino di Maradona, un fascino che nasce proprio da quel suo essere sghembo, sbagliato, eccessivo. Mi annoiano gli sportivi a tutto tondo, troppo perfetti, alla Federer per intendersi. Mi piacciono gli sghembi, quelli che cadono e si rialzano».
Anche Paolo Rossi è un po' sghembo, no?
«Molto meno: nel calcio scommesse è finito quasi per caso, apparso dal nulla, come in area, e subito scomparso».
Che scrittore sarebbe Paolo Rossi?
«Un incrocio tra vari scrittori, una creatura mitica a più teste: ha la malinconia di uno Stefano Benni, l' astuzia di un Sandro Veronesi e un pizzico di follia tondelliana».
Enrico Vanzina per il Messaggero l'11 dicembre 2020. Lo ricordo come se fosse oggi quel mio 11 luglio del 1982. Ricordo la tensione, la paura, la speranza, la fede, la gioia, le lacrime. E poi quella sera, io in giro come un matto per via del Tritone, con in mano il tricolore, a sventolare la nostra bandiera tra la folla in preda al delirio. Eravamo Campioni del Mondo. Dietro a questi ricordi indelebili c' era un gruppo formidabile di persone. Le conosciamo a memoria. Grandi atleti, grandi sportivi, grandi politici, ma soprattutto grandi uomini. Quelli, come si dice, che fanno la storia. E tra di loro, un quasi ragazzino, un talento nostrano che riuscì a riportarci un po' tutti con le mani levate al cielo, come usava fare lui quando segnava, il capocannoniere dei Mondiali, dal soprannome esotico Pablito, toscano dalla gentilezza insolita, timido, riservato, un bravo ragazzo italiano, semplice nel cognome e coraggioso nei fatti: Paolo Rossi. Adesso che ci ha lasciati fa tenerezza ricordare la sua vita, le sue imprese, con l' alone di malinconia per la sua scomparsa precoce che lo accompagnerà verso un' altra vita. Eterna. Se ci chiedessimo cosa ha rappresentato Paolo Rossi per il nostro paese mi verrebbe da dire: grazie a lui, dopo una stagione di sangue e terrore, noi italiani, con due anni di ritardo, siamo entrati negli Anni 80. Sì, quella sera allo stadio Bernabeu, Paolo Rossi, alla testa dei suoi compagni, ha strappato definitivamente la cappa di dolore che pesava da anni sul nostro paese. Ci ha avvicinati al cielo. Un cielo azzurro come la sua maglia. Un cielo finalmente rischiarato dalla voglia di rinascere e di ripartire. E infatti tutto si rischiarò e ripartimmo. Con quel biglietto da visita di carattere sportivo l' Italia rialzò la testa e intorno a noi cominciarono a guardarci come vincenti. E infatti vincemmo. Iniziò la grande stagione del made in Italy, della moda italiana che sbarcava in tutto il pianeta, il cibo, il vino, la Ferrari che riprendeva a vincere nel campionato costruttori, il mare italiano che attraeva il mondo intero, l' Italia come luogo iconico della migliore qualità della vita. Quella dell' 11 luglio del 1982 fu qualcosa di più di una partita di calcio, fu il passaporto per entrare nella leggenda del paese davvero più bello del mondo. Insieme a Paolo Rossi, simbolo calcistico di quel trionfo epocale, c' era un grande presidente: Sandro Pertini. Tutti i presidenti dicono di voler essere il presidente di tutti, ma non me ne vogliamo alcuni se ad esserlo per davvero fu proprio Sandro Pertini. Lui, il presidente socialista e partigiano, che ebbe la forza di sdoganare il valore del tricolore dopo anni cupi di massimalismo politico. Perché quella sera, sulle finestre di tutti gli italiani, apparve dopo anni di inutili sospetti nazionalistici e di violenta contrapposizione ideologica, la bandiera italiana. Fu grazie a Sandro Pertini e a Paolo Rossi. Ritrovammo l' orgoglio, a destra, al centro e anche a sinistra, di sentirci uniti da quel tricolore vincente. Da allora, nei momenti più difficili per il nostro paese, quel tricolore risalta fuori sui balconi e sui davanzali, a testimoniare una unità non solo necessaria ma veramente sentita. Forse oggi non ce ne rendiamo più conto ma allora fu qualcosa di straordinario. Nel decennio dopo, quegli Anni 80 durante i quali l' Italia salì di grado, sono stati criticati usando dei pregiudizi di nuovo ideologici. L' edonismo, il berlusconismo, il craxismo, insieme alle parabole di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, hanno monopolizzato tutto e il decennio 80 è stato messo all' indice come momento di decadenza reazionaria. Oggi, però, soprattutto i giovanissimi, hanno riscoperto quegli anni che fanno da sotto testo alla loro visione estetica. E in cima a quel periodo, in verità per molti versi formidabile, svetta la figurina Panini di Paolino Rossi, con le sue braccia esili rivolte verso il cielo. Peccato che Rino Gaetano, il quale aveva cantato quasi come una premonizione il cielo è sempre più blu , era scomparso un anno prima senza poter vedere che quel cielo, e stavolta sul serio, era tornato a colorarsi con la vena cromatica della gioia. Grazie Pablito. Grazie per aver reso veri, per Italia e per tutti noi , quei bellissimi sogni che non svaniranno mai più.
Giulia Zonca per "la Stampa" l'11 dicembre 2020. L'estate del 1982 è una promessa di felicità che ancora riesce a inebriare. L' Italia ci arriva stravolta: anni di piombo e petrolio, anni scuri, da sopportare una crisi dopo l'altra e all'improvviso solo azzurro, un colore abbagliante in mesi di caldo torrido che scioglie le inibizioni. In strada, a torso nudo, con le macchine scoperte e le bandiere, ma pure prima di vincere, quel mondiale si vede così: poco vestiti, con le finestre aperte, mescolati, con una casa che risponde all' altra, in un Paese che si dà appuntamento. È tutto pieno, saturo di colori, di cibo, di musica e di possibilità. E quando arrivano le notti di Pablito, la nazione si sovrappone al proprio idolo come non era mai successo prima e come non è più capitato. I tre gol al Brasile sono l' unità di misura di quel tempo, il formato maxi. «Rocky 3», le prove di «Fantastico 3», «Thriller», il disco più venduto della storia che sarebbe uscito in quell' autunno, Armani sulla copertina di «Time» e il Mondiale in tasca, in tasche che si scoprono ricche perché i soldi girano ed è quasi strano. In effetti ci stiamo indebitando, un buco che dobbiamo ancora riassorbire, ma allora non lo sapevamo, le previsioni di crescita erano infinite e ci si correva dietro. Il Paese sente di meritare la leggerezza che respira, fino a essere a semplicemente frivolo, eppure non è così superficiale come lo si dipinge proprio perché non abbiamo la faccia di Reagan, non siamo cowboy con il copione, siamo Paolo Rossi. Un tipo che esulta per gol storici come fa chiunque altro alla partita del dopolavoro, uno che ha letteralmente il nome di chiunque altro e che si pianta in quel luglio mai più uscito dalla testa. L' estate del 1982 la ricorda pure chi non era nemmeno nato, se non altro perché di sicuro a un certo punto se l' è trovata tra i piedi, nel sorriso beato di un genitore perso nella propria infanzia, nel paragone infinito con un benessere di cui non si ricorda il gusto, ma se ne conosce il potere. Ben oltre quello d' acquisto. Non ricchezza, scelta. Non sicurezza, riparo. Nel ritiro dell' Italia in Spagna si sente «Sotto la pioggia» di Antonello Venditti, una pioggia che non ci bagna e invece ci racconta: «Il presidente dietro i vetri un po' appannati/ fuma la pipa/ il presidente pensa solo agli operai» ed è pure il presidente che giocherà a scopone con gli azzurri, con l' Italia intera. Fiducia, sempre in quella canzone, diventata casualmente tormentone nelle stanze da mundial, c' è la colomba che vola, la stessa paloma di Picasso disegnata sul campo di Barcellona nella cerimonia inaugurale che dà il via all' avventura. In realtà c' è lo scandalo del Banco Ambrosiano, non stiamo in un Eden senza problemi, però abbiamo allargato gli orizzonti e sembra tutto meno ridotto, meno scontato. Se prima ogni brutta notizia usciva dalla tv per piazzarsi direttamente in salotto, ora c' è altro a cui pensare. Si diffondono i personal computer, non li ha ancora quasi nessuno nella case sintonizzate sui 44 gradi spagnoli eppure è già un oggetto del desiderio, una ventata di futuro che spinge le angosce dove non danno più fastidio. E poi c' è «E.T», non lo abbiamo ancora visto perché in Italia esce in dicembre, ma l' 11 giugno è entrato nelle sale americane ed è già l' extraterrestre da scoprire, la favola che cambia la dimensione dei sogni. Si tende verso l' infinito, si sta per vedere «Blade Runner» e non ci sono limiti se segni tre gol al Brasile, se batti l' Argentina, se vai in finale dopo 44 anni. Dopo tanta di quella tristezza da digerire che ogni singola rete di Rossi è una liberazione, una soddisfazione, è un motivo per festeggiare, volare, esagerare. Undici luglio, giorno della sfida con la Germania Ovest e pure del concerto dei Rolling Stones a Torino. Loro, come noi, vengono da anni complicati, dopo il successo più sfrenato, si sono sentiti sopraffatti, si sono drogati troppo, confusi, stancati. Poi Mick Jagger sale sul montacarichi tappezzato di bianco, rosso e verde con la maglia azzurra. Non mette solo quella di Pablito, ma quando indossa la sua, ci somiglia persino un po'. La faccia lunga, le spalle strette, le caviglie sottili che sbucano dai fuseaux che Rossi non avrebbe indossato mai. L' omaggio esalta, sfida la scaramanzia. Le labbra più sexy di sempre annunciano: «Vincete 3-1». La butta lì e gli riesce. Se ne vanta il giorno dopo, quando l' introduzione gliela fa Gentile, campione del mondo. E per questo il numero cambia dal 20 al 6, ma sono tutte cifre su cui puntare, da sfoggiare, esibire. In mezzo a tanta gioia capita di inventarsi persino altre vite: «Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, me ne andai a Genova e mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana», tra i Rolling Stones che in azzurro sembrano persino avvicinabili e i ragazzi che hanno vinto la Coppa del Mondo c'è il Verdone di «Borotalco». Un film in cui il protagonista finge di essere più brillante e di quanto sia e non è il solo, ma ci si vanta senza cattiveria: siam tutti figli di Bearzot. Tutti orfani di Paolo Rossi e di quell' estate che ci ha stregato.
Emiliano Guanella per "la Stampa" l'11 dicembre 2020. La notizia della morte dell' amico Paolo Rossi ha raggiunto Zico in Giappone, dove si trova per lavoro. Il «Galinho» ricorda la gentilezza di Pablito e gli incontri diventati sempre più assidui quando entrambi hanno smesso di giocare a calcio. Le vacanze in Sardegna, il calcetto con i figli, le visite in Brasile. La prima partita risale al 1979, l' Argentina campione più Maradona contro la selezione del resto del mondo della Fifa.
«Ero con Paolo e giocavamo contro Diego. Sembra incredibile che in due settimane abbiamo perso entrambi. Maradona è stato il migliore della mia epoca, Paolo l' anima della nazionale che ci eliminò dai mondiali».
Al Sarria eravate i favoriti, quale fu la molla in più di quell' Italia?
«La qualità, eccelsa, dei suoi giocatori, con la base della Juventus che poi sarebbe diventata campione d' Europa. La classe di Paolo esplose proprio contro di noi. I nostri errori, poi, fecero il resto».
Per il Brasile fu un grande trauma nazionale, per la generazione post Pelè quella Seleçao è stata la più bella in assoluto da vedere. Come fu assorbire la sconfitta?
«Ai brasiliani non piace perdere, molti dissero che non ci eravamo impegnati abbastanza, che avevamo sottovalutato un' Italia partita così sottotono. Non credo che fu così, nel calcio si vince e si perde, l' Italia meritò di andare avanti e infatti divenne campione del mondo».
Col tempo è nata una forte amicizia con Pablito; cosa vi legava?
«Il rispetto, prima di tutto. Paolo non si è mai vantato di aver battuto quel Brasile, era consapevole di cosa avesse rappresentato per noi quella sconfitta. Io riconoscevo in lui lo spirito gentile, la passione per il calcio come sport di persone per bene. I suoi viaggi in Brasile lo hanno aiutato a capire la nostra gente, non ha mai voluto infierire, aveva sempre quel sorriso che ti dava molta serenità. Amava raccontare del tassista di San Paolo che lo fece scendere dall' auto quando lo riconobbe. Oggi i brasiliani soffrono quanto voi questa perdita».
Vi siete visti a Rio nel 2018 e poi recentemente nei pressi di Firenze per una premiazione. La pandemia, però, vi ha tenuti distanti quest' anno.
«Avremmo dovuto trovarci in ottobre, ma siamo tutti bloccati. Non sapevo che stesse male, la notizia è stata una doccia fredda per me. Restano i buoni ricordi dei momenti vissuti insieme. Ho buoni rapporti anche con altri protagonisti di quell' epoca come Causio o Cabrini. L' Italia è sempre nel mio cuore».
È morto Paolo Rossi: il calcio e l'Italia piangono il simbolo della nazionale Mondiale del 1982. L'ex attaccante nel 1982 fu capocannoniere del Mondiale vinto dagli Azzurri di Bearzot e vinse anche il Pallone d'oro. Morto a 64 anni per un male incurabile. Mimmo Cugini il 10 dicembre su Gazzetta.it. Paolo Rossi aveva 64 anni. Una notizia terribile, nel cuore della notte. Che sconvolge il mondo del calcio, italiano e mondiale. E gli italiani tutti insieme. A 64 anni è morto Paolo Rossi, sconfitto da un male inesorabile, l’eroe dell’Italia campione del mondo del 1982, quella che battè il Brasile di Zico, l’Argentina di Maradona, la Polonia di Boniek e in finale la Germania di Rummenigge. L’Italia di Zoff e Bearzot. Il protagonista principale fu Pablito, che veniva dalla squalifica per calcio scommesse e dopo un brutto inizio di Mondiale, decollò e con lui l’Italia di Collovati e del giovane Bergomi, di Tardelli che diventerà l’uomo dell’urlo e di Gentile attaccato ai pantaloncini di Diego, di Antognoni e del fantastico Bruno Conti.
CHE ANNO, IL 1982...In quella estate del 1982 l’Italia intera scese in piazza per far festa, a Madrid per la finale volò anche il presidente Pertini, esultante in tribuna al fianco del re di Spagna. Paolo Rossi era un centravanti da area di rigore che viveva per il gol. Esplose nel Vicenza, passò al Perugia e poi alla Juventus per i suoi anni migliori. In nazionale fu il simbolo dell’Italia di Bearzot e alla fine di quella magica cavalcata vinse il Pallone d’Oro. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale e così l’Italia conquistò il terzo titolo di campione del mondo. Dopo la Juve andò al Milan prima di chiudere la carriera a Verona. Insieme a Baggio e Vieri detiene il record di gol azzurro ai Mondali con 9, è stato il primo giocatore, poi eguagliato da Ronaldo, a vincere nelle stesso anno il Mondiale, il titolo di capocannoniere e il Pallone d’oro. Con la Juve ha vinto due scudetti, una coppa delle coppe, una Supercoppa Uefa e una Coppa dei Campioni, con il Vicenza un campionato di serie B nel quale fu capocannoniere. Conclusa la carriera di calciatore è stato a lungo opinionista per Mediaset e la Rai. Lascia la moglie, Federica, e tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro.
LA MORTE DI PABLITO. A dare la notizia della scomparsa dell'eroe del Mundial è stata la moglie Federica Cappelletti, con un due commoventi post sui social.
Dal profilo facebook di Marino Bartoletti il 10 dicembre 2020. È morto Pablito! E il sangue ti si gela. No, lui no! Il più mite, il più gentile, l'amico più fraterno degli eroi del Mundial (è il secondo che se ne va dopo Gaetano). E la mente si blocca. E le mani si paralizzano. L'unica cosa che mi sento di fare è riproporre, senza cambiare una virgola, il pensiero che gli dedicai per i suoi 60 anni (per il quale ebbe, come sempre, la non dovuta delicatezza di ringraziarmi). Era un uomo sereno e finalmente felice. Ma, porca miseria, non si fa così! Quando gli parlai per la prima volta, il Rossi “bravo” si chiamava Renzo. Giocavano entrambi in Serie A nel Como e lui, a 19 anni, sembrava davvero un bimbo: educato e timido. E comunque le partite le guardava quasi sempre dalla tribuna, perché in campo ci andavano, oltre all’”altro” Rossi, Guidetti, Garbarini, Correnti, Pozzato, Scanziani, il vecchio Renato Cappellini e Rigamonti, il portiere che tirava i rigori. E in panchina, oltre al portiere di riserva ci stavano solo altri due giocatori. Nel dicembre del ’75 lo vidi per caso scendere in campo contro la Fiorentina di Mazzone: fu l’unica delle 6 partite disputate quell’anno in cui entrò nella formazione titolare. Non segnò mai. La Juventus, che ne era proprietaria, lo mandò a farsi le ossa (peraltro fragiline) nel Vicenza in Serie B. Quando gli parlai per la seconda volta era già quasi Paolo Rossi: stava esplodendo appunto nel Vicenza dell’indimenticabile GB Fabbri e Azeglio Vicini lo aveva chiamato nella sua bellissima Under 21, con Galli, Cabrini, Manfredonia, Di Bartolomei, Giordano e persino - udite udite - Francesco Guidolin. Da allora ci saremmo parlati tante, tante e tante altre volte ancora: a cominciare dagli esordi in azzurro nella meravigliosa Nazionale che Bearzot, suo “padre”, assemblò e inventò per i Mondiali d’Argentina del 1978, gettando le basi del trionfo di quattro anni dopo. Lì, all’”Hindu Club”, sede del ritiro della spedizione azzurra, nacque “Pablito”. Ora “Pablito” compie 60 anni: ma non li ha. Non li ha nel cuore, non li ha nell’animo, non li ha nella sua bellezza interiore mai compromessa né dalle (tante e immeritate) amarezza e neanche dalle, a volte ingannevoli, scariche di felicità. Forse li ha nelle ginocchia, martoriate dalle operazioni, dall’usura e dal tempo. Ma per fortuna il cervello è più di un metro sopra ai menischi. Ed è quello di un ragazzo che continua a nuotare nella serenità che si è costruito con amore e tenacia, senza che nessuno gli abbia MAI regalato nulla. Quando, da campione del mondo e da eroe nazionale, andò da Boniperti a chiedere un piccolo aumento, se ne uscì con un 20% in più che gli garantì 135 milioni all’anno (l’equivalente dello stipendio di un terzo portiere di un attuale top team di Serie A): e Boniperti gli tenne pure il muso per aver osato tanto. Non è mai diventato ricco: e se ha navigato in un accettabile benessere è perché ha sempre investito con intelligenza il suo denaro, dando soprattutto al “mattone” quella fiducia che è tipica di chi ama la concretezza (il suo gioiello è l’agriturismo di Poggio Cennina, un paradiso alla cui inaugurazione mi invitò in una dolcissima notte d’estate di qualche anno fa). Di lui, in questi giorni, scriveranno (e in parte stanno già cominciando a scrivere) di tutto. Anche chi lo ha visto solo nei filmati o conosciuto solo su Wikipedia. Io non mi avventuro né in riassunti statistici, né in epinici storici, né in scontati trionfalismi calcistici: lo ringrazio semplicemente per avermi regalato la genuinità - rarissima - della sua gentilezza e del suo sorriso.
Maurizio Crosetti per repubblica.it il 10 dicembre 2020. Le care, vecchie icone mondiali si tolgono vent'anni di dosso in molti modi. Oriali sta comodo in una bella canzone di Ligabue. Tardelli mette tristezza nella pubblicità delle pillole contro la pancia. E Paolo Rossi detto Pablito, l'italiano per lunghi anni più famoso al mondo si è messo a raccontare una storia, la sua. Ne è uscito un libro che s'intitola "Ho fatto piangere il Brasile" (edizioni Limina), scritto con il giornalista Antonio Finco. Prima prova letteraria per il centravanti più rapido di ogni tempo: lui segnava in un milionesimo di secondo, invece per scrivere si è preso un po' di tempo.
Perché?
«Perché non volevo le solite memorie commerciali, oppure il libello con lo spunto polemico messo apposta perché se ne parli. Nessuno si aspetti scandali o rivelazioni clamorose. Si trattava di scrivere la storia della mia carriera, che è anche quella della mia vita, e per farlo servivano pazienza, memoria e voglia di verità. Ci abbiamo messo due anni e sono soddisfatto delle parole usate, mi sembrano giuste».
Anche lei aveva un messaggio da chiudere nella bottiglia?
«Forse sì. Di sicuro volevo che quella bottiglia la aprissero i giovani, i ragazzini. Spero che lo trovino istruttivo, mi sono rivolto soprattutto a loro».
Per dire cosa?
«Che uno qualsiasi, uno normale, può farcela. Non ero un fenomeno atletico, non ero neanche un fuoriclasse, ma ero uno che ha messo le sue qualità al servizio della volontà. Mi pare un buon messaggio, non solo nello sport».
Nel libro si parla molto delle scommesse, cioè il grande buio della sua carriera. Una scelta coraggiosa.
«Non ho scheletri nell' armadio. Mi sono fatto due anni di squalifica senza colpe, ma una morale della favola esiste: si può essere stritolati da qualcosa che ci cattura senza che noi abbiamo fatto nulla perché accadesse. Si può diventare vittime e non riuscire a dimostrarlo».
Il libro è anche un racconto di ombre: perché?
«Perché è sincero. Uno normale può riuscire, se lo vuole, ma non deve dimenticare che esistono i "se" e i "ma". Si deve mettere in conto il dolore, la delusione».
Il titolo parla del Brasile, di quel pomeriggio al Sarrià: il cuore della sua storia?
«Sì. Io sono il centravanti che fece tre gol ai brasiliani. Sono anche altre cose, ma essenzialmente quella. Mi rivedo con la maglia azzurra numero venti, e mi fa piacere perché la Nazionale unisce mentre le squadre di club dividono. A volte passano anni senza che mi arrivino telefonate speciali, ma quando mancano due mesi al Mondiale comincia a squillare il telefono. E tutti mi chiedono del Brasile, anche se è passata una vita».
Ma che vita è passata?
«Bella, senza nostalgia né rimpianti. Oggi mi occupo di edilizia, vivo sempre di corsa».
Come in campo, insomma.
«Ho detto di corsa, non veloce. Il calcio lo vedo quando posso e non mi diverte granché, almeno quello italiano. Troppo tatticismo. Per lo spettacolo, meglio guardarsi le Coppe internazionali. Barcellona-Real è il calcio che non morirà mai».
Il suo amico Platini sostiene che il calcio attuale non solo non diverte il pubblico, ma non diverte neppure se stesso.
«È vero, anche se si rischia sempre di passare per tromboni. Ma io, lo ripeto, sono fuori dal giro e parlo senza interessi. Questo è uno sport divorato dall' eccesso, non solo economico. Tutto è troppo».
Anche i soldi? Non siete un po' invidiosi, voi dell'altra generazione?
«Nel libro c'è un capitolo in cui racconto le battaglie con Boniperti per il rinnovo dei contratti. Una volta impiegai due mesi per avere dieci milioni d'aumento: ascoltati adesso, certi aneddoti non sembrano di vent'anni fa ma di cinquanta. Eppure io sono contento di essere stato Paolo Rossi nel 1982 e non nel 2002».
Dipende dal cosiddetto "aspetto umano"?
«Direi di sì. Allora i rapporti erano più semplici con tutti, c'era meno veleno, anche se poi potevi restare fregato com'è successo a me con le scommesse. Un'epoca senza paragoni, ed è per questo che ho preferito uscirne del tutto, senza voltarmi».
Da storiedicalcio.altervista.org il 10 dicembre 2020. I primi tempi ebbe la stessa reazione di Gregor Samsa nella Metamorfosi di Kafka. E’ un incubo, un lungo incubo, prima o poi mi sveglio e tutto sparisce. No, non sono io, quello che mi sta succedendo è irreale. Invece era terribilmente vero. Paolo Rossi non si era trasformato in uno scarafaggio ma in un campione di calcio senza calcio. Di più: un traditore della fedeltà dei tifosi; un giocatore dalla faccia pulita, ricco e realizzato, che si era venduto per un paio di milioni e un paio di gol. Mese di marzo, anno di grazia 1980. Il fruttivendolo Massimo Cruciani, stanco di pagare giocatori e perdere soldi in scommesse per risultati di partite che non si avverano, fa un esposto alla magistratura. Chiama in causa il suo compagno di merende, il ristoratore Alvaro Trinca, e denuncia 27 giocatori di A e B di aver preso assegni dai 10 ai 15 milioni per truccare partite. Domenica 23 marzo il blitz dei carabinieri: vengono arrestati, negli stadi, il presidente del Milan, Felice Colombo, e 12 giocatori. Il 29 aprile anche Rossi entra ufficialmente nella pagina più squallida del calcio italiano, il Calcioscommesse. Essendo il giocatore più famoso, ne diventa la copertina. Viene sospeso dalla Disciplinare, non può più giocare nel suo Perugia e tantomeno in nazionale. Poi arrivano i processi e le condanne. Le più dure: Milan e Lazio in B; Colombo, Albertosi (Milan) e Cacciatori (Avellino) radiati. Cinque anni di squalifica per Della Martira, compagno – galeotto nel Perugia, e Pellegrini (Avellino). Per Rossi e Zecchini gli anni sono tre. Poi la Caf aumenterà il castigo per alcuni, come Giordano e Manfredonia (Lazio) che passano da nove mesi a tre anni e sei mesi, e lo diminuirà per altri, come Rossi: due anni. Siamo in luglio. Paolo Rossi ha capito che non è un incubo. Comincia la più brutta estate della sua vita. E’ proprio lui, uno dei giocatori che non giocheranno, che perde 24 mesi di una carriera in ascesa, di ingaggi milionari. E quando ritorno, come sarò? Ho perso tutto, forse? E’ proprio lui che viene guardato di sottecchi, che capta commenti sottovoce: “Chi se lo aspettava da Paolo Rossi, un così bravo ragazzo. E poi che gli fregava di due milioni e due gol in più?“. Qui sta il punto: Rossi ancora oggi non riesce a capire come abbiano potuto credere a loschi figuri e non a lui. Soprattutto, come abbiano potuto credere che si sarebbe venduto per così poco. Condannato per testimonianze e una partita: Avellino – Perugia 2-2, doppietta sua. Uno dei pochi risultati finiti come Trinca e Cruciani desideravano. Paolo Rossi riesce a sorridere di tutta la faccenda, anche perchè il futuro subito dopo gli ha riservato un’ estate da resurrezione, un’estate da re al mondiale di Spagna. Risarcimento del destino? Forse. Forse Pablito ha trovato la legge e non la giustizia. La verità, spesso, è solo un desiderio. E’ rimasta tale. Colpevole con dolo? Colpevole d’ingenuità? Innocente? Qui non si giudica, si ricorda. E la memoria è la cosa più umana che ci sia. Rimuove delle cose, ne porta a galla delle altre. Rossi racconta, e dice anche qualcosa che non aveva mai detto. L’estate più brutta ha origine nell’inverno. Si parte dalla famosa tombola di Vietri sul Mare, ritiro del Perugia che prepara la gara con l’Avellino. Paolo Rossi sorseggia un’aranciata e racconta: “Sto giocando coi compagni quando arriva Della Martira e mi dice: “Paolo, vieni un attimo che ti presento qualcuno”. Mi alzo e penso ai soliti tifosi, con Della Martira ci sono Crociani, Cruciani, come si chiamava? e un altro tipo (Bartolucci, amico di Cruciani, ndr.). Il mio compagno mi dice: “Sai, L’Avellino sarebbe d’accordo per pareggiare”. Io gli rispondo: “Cosa vuoi che ti dica, poi ne parliamo con la squadra”. Alt. Un passo indietro. Eccola qui, la cosa che non aveva mai detto. Al processo, Cruciani affermò che Rossi aveva accettato a patto che lui segnasse due reti. E che poi divise con Rossi, Zecchini e Casarsa l’assegno da otto milioni. Bartolucci confermò il colloquio (in un secondo tempo ritrattò tutto). In un drammatico faccia a faccia con Cruciani, un Rossi imbarazzato si difese dicendo che l’incontro durò pochi secondi, il tempo di sbuffare e andarsene per poi rimproverare Della Martira di avergli “presentato dei balordi“. Ma la frase “poi ne parliamo con la squadra” non la riferì allora. Poteva peggiorare la situazione? Forse no. Perchè ora spiega: “Io pensavo alle solite partite che si concordano tra due squadre. Se a tutti va bene il pari, si pareggia. Ci sono sempre state nel calcio e sempre ci saranno, anche adesso. Ma al Calcioscommesse non ho pensato mai, non sapevo nemmeno che esistesse. La sera ne parlammo con la squadra ma nessuno era d’accordo, volevamo vincere, il punto non ci interessava. Sfortuna volle che pareggiammo 2-2, con due reti mie. Ma fu partita vera, basta andare a rivederla. Botte, tante, nessuno si è risparmiato. Altro che accordo“. Ma il processo, e la storia, l’hanno infilata tra le partite marce. “Quella domenica di marzo, nel famoso blitz agli stadi, giocavamo a Roma. Quando i carabinieri arrestarono Zecchini e Della Martira, io e i miei compagni ci chiedemmo cosa mai potessero aver combinato. Non ci sfiorava il pensiero che fosse collegato al calcio. Poi ho saputo e purtroppo sono stato coinvolto pure io. Ma durante tutto il periodo, dalla mia sospensione ai processi, ogni giorno pensavo: adesso salta fuori la verità, l’incubo finisce, non può che andare così. Ho vissuto come se tutto accadesse a un altro. Aspettavo il processo come una liberazione, invece… Lo giuro, mai ho immaginato di poter avere nemmeno un giorno di squalifica. Quando poi la Caf mi ha soltanto tolto un anno, mi è crollato il mondo addosso. Sono scappato a casa a Prato, e ho visto mio padre disperato e mia madre che piangeva: lì ho realizzato davvero cosa mi era capitato. Mi avevano tolto due anni di lavoro, due anni di vita. E ripensai alle parole di Simonetta, allora mia fidanzata: “Paolo, attento, ti vogliono incastrare”. Anche ora sono convinto di essere stato strumentalizzato. Federazione e giustizia sportiva hanno voluto usare la mano pesante: non potevano scagionare il più famoso e condannare gli altri“. Ripensa ai suoi compagni del Perugia. “Sono convinto che anche Zecchini fosse innocente. Della Martira? Un ragazzo piacevole, affabile. Qualcosa avrà combinato, per ingenuità. Facili guadagni? Ma erano cifre ridicole. Forse voleva farsi grande davanti a qualcuno facendo credere di poter truccare le partite. No, mai più visto nè sentito. Certo, un pò di rancore lo provo“. Paolo Rossi ride, ma dentro rivede l’inferno. E i pensieri girano come un vortice. Li butta lì, come vengono. “Quell’estate mi allenai qualche volta con il Vicenza (al Perugia era in prestito, ndr) ma senza voglia. Provavo disgusto per il calcio. Ho pensato di andar via dall’Italia, di smettere. Dissi: “Non mi vedrete più in nazionale”. Mi diedi all’abbigliamento sportivo, con Thoeni. Le cose peggiori? Il sospetto della gente, quegli sguardi… e le notti del sabato, sapendo che al risveglio non c’erano partite ad aspettarmi. Mi ha salvato la consapevolezza di essere innocente. E la Juve“. La Juventus: nel marzo 1981 acquista Rossi. Manca più di un anno alla fine della squalifica. “Boniperti mi chiamò: “Verrai con noi in ritiro, ti allenerai con gli altri, anzi più degli altri”. Mi sono sentito di nuovo calciatore. La lettera di convocazione adesso farebbe ridere. Diceva di presentarsi con i capelli corti, indicava cosa mangiare e cosa bere. Boniperti era un mago in queste cose. Quando arrivai mi disse: “Paolo, se ti sposi è meglio, così sei più tranquillo“. Mi sono sposato a settembre. L’avrei fatto lo stesso, diciamo che sono stato un pò spinto (ride, ndr). Comunque devo ringraziare lui, Trapattoni e Bearzot. Il Trap mi ha allenato con la sua grinta, ci ha messo molta dedizione, Bearzot mi chiamava spesso. Non mi faceva promesse ma mi incoraggiava a lavorare bene, perchè lui mi teneva sempre in considerazione. E arrivò il mese del ritorno, maggio 1982. La Juve gioca e vince a Udine, c’è anche Paolo Rossi in campo. Trapattoni dice: “E’ quello di un tempo”. E lui: “Non ricordavo più l’emozione di un partita vera. Due anni di silenzio mi hanno maturato. Proprio in questo momento mi dico: non c’è solo il calcio“. Ma per lui di calcio, e che calcio, ce ne sarà tanto. La nazionale che stenta in zona gol ha bisogno di lui, Bearzot lo chiama per i mondiali di Spagna. La memoria svolta sull’estate della gioia. “La convocazione me l’aspettavo, Bearzot aveva fiducia in me, in Argentina ero andato bene“. Ma le prime partite sono un disastro. Tre pari con Polonia, Perù e Camerun: qualificazione per differenza reti. Critiche, polemiche e Rossi che non segna. Anzi, è un disastro. “Non ero in forma, anzi. Un fantasma. Trovavo difficoltà a fare tutto, era anche un blocco mentale. Ma la fiducia dei compagni e del ct mi hanno dato una carica eccezionale. I ragazzi scherzavano sul fatto che mi reggessi a stento in piedi. Era importante anche la presa in giro. Per lo stress ero dimagrito 5 chili. Mi facevano stimolazioni elettriche alle gambe. E ricordo che il cuoco tutte le sere, alle 22.30, mi portava in camera un bicchiere di latte e una brioche. Finita ogni gara Bearzot mi diceva: “Stai tranquillo, ora preparati per la prossima”. Anche dopo la sostituzione col Perù. Eravamo un gruppo eccellente, la prova fu il silenzio stampa di Vigo. Accettavamo le critiche tecniche, ma non le cattiverie gratuite. Si scrisse di tutto: bella vita, casinò, Graziani che aveva perso 70 milioni. Che io e Cabrini stavamo insieme. Per fortuna io facevo la parte dell’uomo (ride, ndr). Non ne potevamo più di stupide illazioni e decidemmo di starcene zitti“. Dal silenzio alle vittorie. Strepitose: con Argentina, Brasile, Polonia e Germania in finale. Dalle figuracce a un gioco bellissimo. Dal fantasma Rossi al Pablito uomo mondiale. Sei reti, capocannoniere. “La gara con l’Argentina è stata decisiva, vinta giocando bene. Io non segnai, ma stavo meglio. Non pensavamo certo di vincere il mondiale, però ci convincemmo di poter giocare alla pari con chiunque. Forse nel ’78 eravamo più forti, io compreso, ma questa squadra era un concentrato di carattere. Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. E’ incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza. Ma non pensate che ci siamo goduti le vittorie. Una volta qualificati per la semifinale, Bearzot disse solo: “Pensiamo alla Polonia”. Sempre concentrati, sempre in apnea fino alla finale. Per questo forse il ricordo più nitido che ho è la sensazione al fischio finale contro la Germania. Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: “Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi“.
Mario Sconcerti per corriere.it il 10 dicembre 2020. Paolo Rossi era mio amico. Forse è per questo che non riesco a scrivere la sua morte. Non so scegliere tra i ricordi. Cominciare dai tre gol al Brasile è facile ma non mi sembra corretto. Paolo è stato molto altro, un uomo buono, un eroe dei tempi, leggero come una piuma e disinteressato alla sua bravura. La conosceva, e più passava il tempo e più l’amava. Ma non gli ho mai sentito dire una volta che è stato un grande giocatore. Prendersi poco sul serio era il suo modo allenarsi, quasi un clandestino dell’area di rigore, aveva imparato a nascondersi perché non aveva il fisico, arrivava come un tradimento, rubava un metro ed era gol. A Madrid, la notte del Mondiale, ne fece uno alla Germania indescrivibile senza moviola. Oriali mise da destra un pallone al centro che non sembrava niente di che. Cabrini, che marcava Kaltz, fu il primo a tuffarsi per andare a prenderlo. Foerster, un difensore magnifico e scolpito, capì il pericolo e si buttò per anticipare Rossi, ma quando aprì gli occhi, Paolo gli era già sopra le spalle e aveva colpito con la fronte. Era gol. Stavamo diventando campioni del mondo. Dalla tribuna non capimmo niente, si era visto solo un mucchio di uomini accartocciati e la palla in rete due metri più avanti. Ricordo che il grande Schumacher non fece in tempo nemmeno a muoversi. Poi, dalla polvere della terra, si alzarono al cielo le braccia magre di Rossi. Quello era il suo mestiere, rubare il tempo. Aveva grande tecnica, giocava benissimo a calcio e non aveva mai pensato di essere un centravanti. Ma quando G.B. Fabbri a Vicenza gli disse che il suo ruolo era quello, lui cominciò a studiarlo. Era magro, aveva un’altezza normale, poteva solo contare su controllo e scatto, colpo d’occhio, posizione. Finì per farlo meglio di chiunque altro. Ci sono stati anni in cui è stato celebre come i Beatles, ambasciatore di qualunque cosa. Lo invitavano dovunque, lo premiavano e lo ascoltavano come un reduce dallo spazio. Un giornalista che seguiva i ministri italiani mi raccontò che in Cina i diplomatici, per rompere il ghiaccio della conversazione ufficiale, parlarono un quarto d’ora di Paolo Rossi. In Brasile per quei tre gol lo hanno odiato, un sentimento reale, sincero, mai nascosto. Pochi anni dopo il mondiale Paolo fu invitato in Brasile per una partita di beneficienza. Giocò solo un tempo. Ogni volta che si avvicinava alle tribune con la palla gli tiravano di tutto, monete, noccioline, bucce di banana. Raccontava poi che un tassista, quando capì chi era, accostò e voleva imporgli di scendere. Paolo non sapeva arrabbiarsi, riuscì a trovare un compromesso. Il tassista non lo avrebbe portato a destinazione, ma solo riaccompagnato all’hotel da dove erano partiti. Paolo era soprattutto una bella persona. Diceva di sì a tutti, passava dagli inviti di Stato alle cene di paese. Era un allegro pensieroso, come i toscani furbi, che mandano via la malinconia con la voglia di passare il giorno, uno per volta. Stava dovunque ma era di pochi. Gli piaceva che tutto finisse a cena, col vino che faceva lui sulla collina di Bucine, sopra la valle dell’Arno, dove aveva preso dei ruderi e la terra e aveva trasformato tutto in un grande agriturismo, una quindicina di villette indipendenti, autosufficienti in tutto. Con intorno una grande piscina e il campo da calciotto. E una signora che faceva da cuoca nella vecchia cucina per chi ne avesse bisogno e solo se erano amici di Paolo. Di fianco la sua casa, quella con Federica, la moglie della maturità, che è riuscita a dargli tre figli in pochi anni facendolo padre quando era già nonno. Era stato un amore profondo Federica, così come il suo bisogno dei figli. A quasi sessant’anni si era abbandonato all’idea di quella deriva paterna. Non si faceva domande, cercava altre vite e le chiudeva nella sua collina fuori dal mondo, senza una casa intorno e col vino più buono da lì a Montalcino. Ha avuto molte cose in comune con Baggio: la popolarità, il Vicenza e i ginocchi. Paolo si operò tre volte già quando era un ragazzo nella Primavera della Juve. Allora si diceva che si era rotto il menisco, non c’era artroscopia. Per capire davvero dovevi aprire. Ed erano quasi sempre legamenti saltati. I dolori lo hanno accompagnato sempre, diventarono non resistibili. A ventotto anni smise di essere se stesso. A trenta chiuse la carriera. L’ultima prodezza erano stati due gol all’Inter con la maglia del Milan, gli unici due gol di quella stagione. Dopo divenne la memoria di se stesso. Cercò altre strade, non era uno che buttava via i soldi. Aveva una società a Vicenza con il suo vecchio compagno Salvi, assicurazioni, imprese edili. Aveva un figlio di quarant’anni che dava una mano. Non ha mai pensato di fare l’allenatore, il calcio non lo ha mai cercato troppo. Pesava troppo e non era di nessuno. Con la Juve aveva vinto un campionato segnando 13 gol, ma anche perso una finale di Champions. E comunque quella era la Juve di Platini, Boniek e Boniperti, non la sua. Non aveva retroterra come ex se non a Vicenza. Così è diventato opinionista, tanti anni a Sky altri alla Rai. Credo non fosse esattamente il suo mestiere, il calcio alla televisione fondamentalmente lo annoiava. Però con quell’aria quasi svogliata tirava sempre fuori un concetto ardito, sorprendente. Ha avuto un momento molto brutto nel 1980, quando prese due anni di squalifica per il caso delle scommesse clandestine. Lui lo racconta molto bene nei due libri sulla sua vita. Pensava si accennasse a uno di quei pareggi che erano convenienti a tutte e due le squadre. Non restò più di cinque minuti in quella compagnia, portato da un compagno mentre giocava a tombola. La domenica fece due gol, questo lo condannò, fece sembrare il pareggio convenienza. Ma di gol ne aveva fatti tanti anche prima. Il processo penale assolse lui e tutti gli altri giocatori, lui si fece in silenzio i due anni di squalifica. Il secondo lo passò ad allenarsi con la Juve che lo aveva rivoluto. Io lo attaccai spesso in quel periodo, ero un colpevolista. Quando ci ritrovammo a Torino a pranzo cercai di spiegare. Lui mise l’indice sul naso e mi pregò di stare zitto. «È finita. Restiamo amici». Perché Paolo era così, non voleva complicazioni, accettava tutto. Forse tutti noi non eravamo che piccoli elementi della sua voglia di vivere sereno, non tranquillo ma sereno. Come se un po’ per uno, tutti contribuissimo a difenderlo. Non si arrabbiò nemmeno quando in tutto il mondo le agenzia di stampa rimbalzarono la storia che lui e Cabrini erano fidanzati, nel senso vero del termine. Erano in camera insieme ai mondiali e amici di sempre. Un giornalista italiano scrisse che nell’ora di libertà Rossi e Cabrini stavano sul balcone mano nella mano come due fidanzatini. Era una battuta innocente, ma non esiste l’innocenza nella comunicazione di un mondiale. Il giorno dopo, quando andammo a prendere il Brasile all’aeroporto di Barcellona, la prima cosa che disse Socrates fu: «Ma è vero che Rossi e Cabrini sono maricones?». Cioè gay. Lui la prese così poco sul serio che venticinque anni dopo, al suo matrimonio, sulla collina, nel villaggio sopra Bucine, al tavolo con Cabrini, mi raccontò ridendo che a Vigo si erano messi paura: avevano avuto lo stesso fungo su parti opposte del torace, come se uno l’avesse attaccato all’altro. Ridemmo molto e continuammo a bere. Ciao Paolo, non dimenticarmi.
Paolo Rossi e la malattia, la moglie Federica: «La diagnosi dopo il viaggio alle Maldive, sembrava una cosa risolvibile». Marco Gasperetti e Marco Letizia su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Federica Cappelletti e la malattia del bomber del Mundial. Racconta Federica che Paolo non voleva andarsene da questo mondo che amava moltissimo e che quegli ultimi istanti di vita sono stati i più strazianti. Ha lottato sino alla fine, convinto di farcela. Forse voleva fare gol anche al destino, malgrado il pronostico avverso. Ci era già riuscito tante volte in campo. La moglie di Paolo Rossi, Federica Cappelletti, 48 anni, giornalista e scrittrice, ricorda che poco prima che il marito morisse tra le sue braccia in un letto dell’ospedale di Siena è riuscita sussurrargli una frase. «Sono sicura che l’ha capita», dice ora lei in lacrime.
Che cosa gli ha detto?
«”Sappi che io crescerò le nostre bambine e sarò vicina al tuo primo figlio Alessandro”, che in quel momento era accanto a me. Poi gli ho detto di portarsi via tutto il mio amore e quello dei figli e di cercare di stare bene, di essere felice per sempre. Ci siamo amati ogni giorno, siamo stati sempre vicini. E anche Paolo me lo ha ricordato nell’ultimo messaggio che mi ha scritto».
Cosa le aveva scritto?
«Le leggo il testo integrale: “Purtroppo non riesco a dormire e sono agitato, guardo le foto che mi invii e penso al nostro grande amore. Vorrei solo dirti grazie per quello che stai facendo, per me e per le nostre meravigliose bambine. Sei davvero unica per le energie che profondi e per l’amore che riesci a dare in ogni cosa. Spero che il Signore ti possa riconoscere tutto questo. Darti tutto quello che meriti”. Era la prima volta che non parlava anche di sé. C’era Dio ma Paolo non c’era più, anche se coscientemente lui era certo di potercela fare. L’altro giorno aveva visto il derby Juve-Torino alla tv come un tifoso».
Da solo?
«No, era ricoverato nel reparto di neurochirurgia e accanto aveva il primario Giuseppe Oliveri, lo stesso medico che ha operato Alex Zanardi, una persona speciale. Il professore Oliveri stavolta non era solo un dottore con il suo paziente, ma un appassionato di calcio. Lui tifava Torino e Paolo Juventus. Si sono divertiti molto».
Quando era stato ricoverato suo marito?
«Pochi giorni fa, ma tutto era iniziato un anno fa, improvvisamente, durante un viaggio alle Maldive dove avevamo deciso di rinnovare il nostro amore e di sposarci per la seconda volta, dopo la cerimonia nuziale del 2010 in Campidoglio a Roma. Sono stati giorni straordinari. Tornati in Italia, la diagnosi. Ma sembrava una cosa assolutamente risolvibile. Poi sono arrivati altri problemi».
Quali?
«Mio marito si è rotto il femore, è stato operato alla schiena. È stata una terribile escalation. Nella nostra casa di Bucine, in provincia di Arezzo, abbiamo cercato di superare i problemi e lui sembrava più forte di prima. Quindi l’ultimo ricovero al Policlinico Le Scotte: aveva il tutore, liquido nei polmoni, ma niente avrebbe potuto farci pensare a un epilogo così improvviso, nessuno in famiglia se lo aspettava, né io né le mie bambine».
È stato difficile dare loro la notizia della morte del papà?
«Sono tornata di notte a casa. Le ho abbracciate senza svegliarle. E stamani ho acceso la tv. C’erano le foto e i video del loro papà. Ho detto loro che Paolo è ovunque e che il suo ricordo meraviglioso sarà sempre nel loro cuore. Maria Vittoria ha 11 anni, Sofia Elena 8. Hanno pianto, ma sono bambine forti come il loro padre».
Come ha conosciuto Paolo Rossi?
«A Perugia nel 2003, a una presentazione del libro “Razza Juve” che avevo scritto insieme ad altri colleghi giornalisti. Non lo conoscevo personalmente ma lo avevo precedentemente chiamato per invitarlo alla presentazione. Mi aveva chiuso il telefono in faccia, ma poi era venuto, ci siamo conosciuti. Mi sono innamorata subito del suo sorriso, della sua generosità, della intelligenza con cui riusciva a vedere le cose. Con Paolo ogni momento è stato bello, e non è retorica. Anche questi giorni in ospedale lo vedevo sempre bello, il campione di sempre. Affrontava le cure con coraggio, la riabilitazione con volontà. Certo, il morale andava giù a volte, ma io ho sempre cercato di spingerlo a continuare a combattere. Era la partita della nostra vita, il nostro fatidico Mondiale. Ma stavolta non l’abbiamo vinto».
Ha già pensato al luogo dei funerali?
«Sì, sarà Vicenza, dove ha iniziato la carriera da campione. Dopo la cerimonia sarà cremato e l’urna starà sempre accanto a me».
Paolo Rossi ricorda Paolo Rossi: «Che dispiacere: quell’omonimia che mi ha portato fortuna (e qualche imbarazzo)». Il Corriere della Sera il 10/12/2020. «Stamattina mi sono arrivate telefonate, messaggi, whatsapp, come se fosse morto un mio parente. E chissà forse un po’ lo era». Uno strano lutto quello del secondo Paolo Rossi più famoso d’Italia, l’attore che imparammo a conoscere nei leggendari programmi in seconda serata su Raitre all’inizio degli anni’90. Dove uno dei suoi pezzi più celebri era proprio quello in cui scherzava sull’omonimia col calciatore scomparso, come quando veniva fermato dai carabinieri («ah lei è il fratello?» «Mi scusi ma come avrebbe fatto nostra madre a chiamarci allo stesso modo?»)
«Pa-o-lo Ros-si, Pao-lo Ros-si». «Oggi mi viene difficile scherzarci ancora, quando uno muore bisognare rispettare la giusta distanza. E ho pensato che non rifarò più quel pezzo, se non quando sarò molto vecchio e mi chiederanno una serata in suo onore» racconta Paolo l’attore, 67 anni, in una delle pause delle prove del nuovo spettacolo che sta preparando. Quel pezzo gli ha portato però fortuna a inizio carriera: «È stato uno dei primi sketch di stand up che ho fatto e che mi ha dato un po’ di spinta per intraprendere questo percorso». E quell’omonimia ha creato una serie di altri equivoci, prima che le apparizioni in tv gli dessero una fama diciamo autonoma: «Nell’estate del Mundial, i promoter giocavano su questo fraintendimento: ricordo una serata ad Ancona, i manifesti scritti a mano:”Questa sera cabaret mundial con Paolo Rossi” e poi la gente che lanciava oggetti quando scopriva la verità». Mundial che Paolo l’attore ricorda molto bene del resto: «Dopo il Brasile, andai in Piazza Duomo e non nascondo che mi fece un certo effetto sentire il mio nome scandito all’unisono: Pa-o-lo Ros-si, Pa-o-lo Ros-si».
Incontri cordiali. Perché il Paolo Rossi calciatore rappresentava molto per il Paolo Rossi attore (tra l’altro notoriamente interista, vedi altro celebre monologo su Beccalossi): «Beh, avrei dato tutti i miei spettacoli per segnare tre quei gol al Brasile. Un idolo , come per molti. Con cui mi sono poi incontrato più avanti, tre o quattro volte, in occasioni televisive. Incontri cordiali, rapidi, dove non abbiamo mai scherzato però su quell’omonimia. Anche perché in fin dei conti non ci sembrava così incredibile: sia io che lui, non abbiamo avuto bisogno di pseudonimi strani per farci strada, pur avendo il nome più comune di Italia. Per dire, c’era un altro Paolo Rossi noto, filosofo della scienza: capitava mi mandassero libri a suo nome ricordandosi di fantomatiche vecchie bevute insieme». E Paolo se l’immagina così l’altro Paolo, ora: «Stara sicuramente palleggiando con Maradona, chissà che spettacolo». Sarebbe proprio da farci un monologo...
Il dolore per la morte di Paolo Rossi tra ricordi e lacrime: «Un grande uomo, mai sopra le righe». Massimo Baiocchi giovedì 10 Dicembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Anche la Camera dei deputati si unisce al ricordo di Paolo Rossi, che ha perso la sua ultima battaglia contro una lunga e inesorabile, malattia. Molti deputati, in apertura di seduta, intervengono per commemorare brevemente Pablito, tributando, in piedi, un lungo applauso all’eroe calcistico di Spagna 82.
Il grande dolore per Paolo Rossi. Il dolore colpisce tutti, dal mondo dello sport al mondo della politica e dello spettacolo. «Campione del mondo, Campione del mondo… Campione del mondo». Sono le uniche parole in cima alla foto più famosa di Paolo Rossi che Angelo Branduardi posta su facebook.
Lollobrigida: «Quando accadde l’impossibile». «Spagna ’82… accadde l’impossibile. Il mito di Paolo Rossi e di quella nazionale imparata a memoria ha segnato l’esistenza di una generazione. Quella squadra è stata simbolo moderno di una Nazione capace di cose straordinarie. A Dio Campione del Mondo!». Lo scrive su Facebook il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida.
Le lacrime di Boniek e Dossena. «Lo ammetto… piango. Facevi parte dei gruppo di “Amici Veri”… con Te non solo ho vinto… ma anche vissuto…». Sono le parole dell’ex attaccante della Juventus Zbigniew Boniek su Twitter. «Alla notizia», dice Beppe Dossena, «mi mancava l’aria e il fiato e sono dovuto uscire di casa. Ho avuto anche un rapporto particolare con lui, nel 1982-83 abbiamo fatto una campagna pubblicitaria insieme. Avevano un ristorante insieme, abbiamo passato le vacanze insieme a Ibiza e a Forte del Marmi. Siamo stati a casa di Miguel Bosè, sono tanti i ricordi».
Salvini: «Un campione, dentro e fuori». «Mamma mia, questo è stato un anno terribile, speriamo passi presto», dice Matteo Salvini a Radio Anch’io. Quella vittoria azzurra resta negli occhi di ogni italiano. «Avevo 9 anni ed ero al campo scout in Trentino, festeggiammo tutta la notte. Ricordo quella gioia pazzesca che regalò a tutti gli italiani e poi, da milanista, ricordo anche qualche gol segnato nel derby. È stata una persona eccezionale, mai sopra le righe, umile. Un campione in campo e fuori». Lo ha detto a ‘Radio Anch’io’ su Radio Raiuno il leader della Lega, Matteo Salvini, ricordando Paolo Rossi, protagonista delle vittoria azzurra ai mondiali di calcio di Spagna ’82.
Pietro Vierchowood: «In area di rigore…». «È stato un grande giocatore del Mondiale ’82. E soprattutto era una persona molto sensibile, una brava persona. Ci siamo visti nella Nazionale master. Era anche molto a modo, era un bravo “ragazzo” anche se aveva 64 anni. Il 2020 è stato un anno veramente infausto, nato male e finito peggio». È il ricordo di Pietro Vierchowod all’Adnkronos. «Rossi l’ho visto dagli esordi fino a quando ha smesso, era un centravanti atipico. Si vedeva poco durante la partita ma in area di rigore come arrivava il pallone faceva gol. Giocatori con queste caratteristiche di “rapina” non ce ne sono. Lui aveva la capacità di capire prima dove arrivava la palla anche dopo un rimbalzo o una carambola. È una grande perdita per il calcio mondiale. Avevo letto che non stava bene ma non pensavo che potesse lasciarci così presto».
«Paolo Rossi nei nostri cuori». «Nei nostri cuori, per sempre. Addio Pablito», scrive Matteo Renzi su Twitter. E Giovanni Toti aggiunge: «Gli italiani perdono il loro eroe del Mundial, Paolo Rossi. Il fuoriclasse timido ma implacabile che nel 1982 trascinò gli azzurri alla conquista della coppa del mondo. Addio Pablito, resterai nella storia dell’Italia più bella».
Zaia e Fontana, l’addio a Paolo Rossi. «Ciao grande campione. Riposa in pace». È il messaggio che insieme a due foto di Paolo Rossi, il presidente del Veneto Luca Zaia ha postato sul proprio. «Addio Paolo, in quel 1982 ci hai regalato un sogno. Riposa in pace’», dice a sua volta il governatore della Lombardia, Attilio Fontana.
Antonella Clerici: «Ci ha fatto sognare». «Anche Paolo Rossi se ne va in questo terribile 2020», dice Antonella Clerici. «Un uomo gentile, un indimenticabile calciatore che ci ha fatto sognare. Per sempre campione del mondo nel cuore di tutti gli italiani».
Matteo Nava per gazzetta.it il 10 dicembre 2020. Pronunci Paolo Rossi e pensi al Campionato del Mondo del 1982, al trionfo in Spagna della leggendaria Nazionale di Enzo Bearzot e ai suoi gol nei match decisivi dopo l’incerta fase a gironi. Il collegamento con il soprannome Pablito è immediato, logico, visto il tenore del successo azzurro e della terza stella mondiale nel cuore degli italiani. Ogni tanto, però, la logica inganna: Paolo Rossi, infatti, non è diventato Pablito nel 1982. L’attaccante ha sicuramente visto il suo nomignolo consacrato con i 6 gol in Spagna e il conseguente Pallone d’Oro, ma l’appellativo è già pronto all’uso da ben quattro anni: con la Nazionale di Bearzot del 1982 quel Pablito viene ripescato, perfetto per l’assonanza con la lingua della nazione ospitante. La realtà racconta però che nel 1978 il Mondiale è ospitato da un altro Paese ispanofono, l’Argentina. Gli Azzurri si fermano alle porte della finale, ma la prima fase a gironi (ce n’erano due in quel format) è memorabile, nel segno di Pablito. La squadra lo chiude a punteggio pieno contro Francia, Ungheria e Argentina. Nel match d’esordio contro i transalpini è proprio la punta del Lanerossi Vicenza a pareggiare il fulmineo vantaggio di Bernard Lacombe, permettendo poi a Renato Zaccarelli di completare il sorpasso a inizio ripresa. Anche nel 3-1 su i magiari il primo gol azzurro è di Paolo Rossi, mentre il delicato incrocio al Monumental contro la nazionale ospitante è deciso dal solo Roberto Bettega. Nella seconda fase a gironi arriva una sola vittoria per l’Italia - sull’Austria - con un 1-0 firmato proprio dall’attaccante che in quei giorni diventa Pablito. Essendo il talento più cristallino del Vicenza, infatti, Rossi riceve sempre uno speciale occhio di riguardo dalle testate regionali venete, in particolare Il Gazzettino. Il quotidiano non perde giustamente occasione di celebrarlo e Giorgio Lago, futuro direttore della testata veneziana, lo appella Pablito. Viene automatico, visto che si gioca in Argentina: il piccolo Paolo, o Paolino, a quelle latitudini si declina così. Come nei migliori romanzi, è con una sconfitta che si gettano le basi per un clamoroso successo e il caso vuole che anche quattro anni dopo il Campionato del Mondo si disputi dove Paolino è Pablito per eccezione, in Spagna. Convocato nuovamente da Bearzot tra le critiche (l’attaccante era fermo dopo la squalifica per calcioscommesse e il commissario tecnico rinuncia a Roberto Pruzzo per fargli posto), nello zoppicante girone iniziale Rossi rimedia solo un assist contro il Camerun, ma negli ultimi tre match ripropone quel suo soprannome a suon di gol, pesantissimi. L’indimenticabile tripletta al Brasile nel secondo girone, la doppietta alla Polonia in semifinale e la rete alla Germania al Santiago Bernabeu di Madrid, quella del vantaggio azzurro. Risultato: il titolo di capocannoniere del torneo, la Coppa del Mondo alzata al cielo, il Pallone d’Oro. E Pablito è tornato Pablito, per sempre.
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 dicembre 2020. Caro Dago, ringrazio il cielo di poter usufruire della tua amicizia e della tua ospitalità a ospitare i miei pensierini in questo giorno per me luttuosissimo su tutti, il giorno attiguo alla morte di Paolo Rossi e di Elena Marco, amica cara e moglie di Mario Bellini, uno dei maestri della mia generazione. So che sulle tue pagine posso accostare i due personaggi diversissimi, e che sono invece tutt’uno nel giorno del mio dolore. Al momento della finale Italia-Germania al campionato del mondo del 1982, al momento in cui ho acceso il televisore ero solo in casa. Un’amica aveva ventilato la possibilità di esserci anche lei. Non s’era fatta più viva. Guardavo quella partita drammatica da solo e in silenzio. Nel primo tempo Antonio Cabrini aveva sbagliato un rigore che un po’ c’era e un po’ non c’era. Meglio così, a ragionare col senno di poi. I tedeschi che ci fronteggiano erano rocciosi. All’inizio del secondo tempo arriva una punizione a favore dell’Italia, a una decina di metri fuori dall’area tedesca. La batte Gentile, se non vado errato. Parte il cross, su cui si avventano cinque o sei fra italiani e tedeschi. Fra gli italiani Paolo Rossi che fisicamente non era strabocchevole per niente, solo che ce l’aveva dentro il cento per cento del tempo e dell’istinto del gol. Succede che in quell’avventarsi gli dia fastidio alla sua sinistra la presenza di un altro azzurro, mi pare fosse Cabrini, tanto che lui lo spinge via per trovare l’agio e il tempo di colpire di testa prima che gli arrivasse addosso lo stopper tedesco, il quale sino a quel momento aveva sotterrato tutti i punteros che aveva avuto contro, nessuno dei quali era riuscito a metterla dentro. E’ il gol più bello del Paolo Rossi “hombre del partido” nel Mundial 1982, il più importante e decisivo ancor più che i tre magnifici gol inflitti al Brasile. Dopo la partita (vinta dall’Italia 3-1 con i gol uno più bello dell’altro di Tardelli e Altobelli) scesi giù in strada a immettermi nel mezzo dell’ “assembramento” il più gioioso e spettacolare degli anni Ottanta, i ragazzi e le ragazze italiane che celebravano il terzo dei quattro mundial vinti dalla nazionale italiana. Ti ripeto, era lo spettacolo della gioia assoluta vissuta e condivisa da tanti. Da tantissimi. Irripetibile. Assolutamente irripetibile. Elena Marco, che di mestiere faceva la giornalista e che era la moglie del maestro Mario Bellini e che è morta lo stesso giorno di Rossi, era un po’ meno nota al grande pubblico. Solo che nel mio animo lei e Mario avevano e hanno lo stesso posto di Paolo Rossi in quella che è ai miei occhi la storia più avvincente del mondo, la storia della bellezza. La loro casa milanese era ed è uno dei musei del Novecento più belli d’Italia. Elena era triestina, e per me Trieste è una città molto più importante che non la Catania in cui sono nato. Tanto che ho scritto su Trieste uno dei libri miei di cui sono più orgoglioso. Quanto a Mario, un maestro forse meno citato che non Enzo Mari Ettore Sottsass Alessandro Mendini, ai miei occhi è stato per cinquant’anni un protagonista micidiale di quella storia del design moderno italiano di cui io sono un tossico dipendente. Appena disegnò il suo primo tavolo, non ricordo più se ultimi Cinquanta o primi Sessanta, subito vinse il primo Compasso d’Oro. Quando lavorava alla Olivetti - a fianco e in rivalità con Sottsass - Steve Jobs gli propose di venire da lui in America. Lui rispose di no, che gli piaceva l’Italia. Mario è stato in Giappone più che un centinaio di volte. E’ un maestro internazionale. Quando gli chiesi di disegnarmi il tavolo su cui sto battendo al computer, lui venne a casa mia. Si sedette accanto a me. Io gli spiegavo le mie necessità, lui con un occhio mi ascoltava e con una mano aveva preso a disegnare. Non mi fece pagare nemmeno un euro per il tavolo che adesso ospita il mio computer. Per garbo ed eleganza lui e Elena erano ospiti unici al mondo nella loro casa milanese nel centro di Milano. Elena era una giornalista accorta e consapevole. Nel mio telefonino ho i messaggi che ci scambiavamo, l’ultimo dei quali alcuni mesi fa in cui mi diceva che quanto alla sua “salute” me ne avrebbe parlato un’altra volta. Il segno garbato che le cose non erano le migliori possibili, anzi. Paolo (Rossi) ed Elena sono morti lo stesso giorno. Dio, il mio dolore. Dio che lutto per la bellezza del vivere e dell’essere l’essere privati di due personaggi così
IL RICORDO DI PAOLO ROSSI MORTO a 64 ANNI. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Questo anno maledetto sembra voglia strapparci dalla vita che abbiamo vissuto ogni istante di gioia. Voglia toglierci il colore dei giorni in cui siamo stati felici, in cui ci siamo abbracciati. In questo mondo in bianco e nero, mascherato e distanziato, anche il ricordo della gioia diventa quasi eversivo, innaturale. Per Paolo Rossi, grazie a Paolo Rossi, gli italiani hanno vissuto il momento di allegria collettiva più importante che possano ricordare. Quattro anni prima che la meravigliosa nazionale di Bearzot vincesse i mondiali di Spagna Aldo Moro veniva rapito e ucciso, due anni prima la stazione di Bologna saltava in aria con il suo carico di corpi straziati. Erano anni di piombo. Non solo quello con cui si fabbricavano le pallottole che con grande facilità venivano conficcate nelle gambe o nel cuore delle persone ma quello che gravava sull’atmosfera della nostra vita che si era fatta grigia, scura, pesante. Poi arrivò quell’estate, l’estate del 1982. E tutto cambiò. Paolo Rossi fu il simbolo di quella impresa sportiva magnifica. Anche per lui, quelli appena trascorsi, erano stati anni di piombo. La sua magnifica carriera di goleador interrotta dallo scandalo del calcio scommesse, la squalifica, la mortificazione di una delle tante gogne pubbliche di questo paese. Tornò un giorno di maggio del 1982, dopo due anni in cui era stato fermo. Lui, con il suo corpo esile, le sue gambe magre e il suo talento per il gol. Tornò, dopo gli anni con il Lanerossi e il Perugia, con la maglia della Juventus, quel giorno inopinatamente blu. Tornò e segnò. Puntuale come un orologio. Un vecchio friulano, la faccia scolpita, lo aspettava. Enzo Bearzot, commissario tecnico della nazionale, lo aveva perso per gli infausti europei del 1980, ma non voleva succedesse lo stesso per i mondiali di Spagna. Lo aveva aspettato, memore delle meraviglie vissute con lui al centro dell’attacco in Argentina, dando a Paolo serenità e sicurezza. Quella nazionale era la più forte che io ricordi di aver visto. Eppure nel girone eliminatorio stentò e Paolo sembrava imbrigliato. Non un gol in tre partite, una stranezza per lui che ne segnava sempre, comunque. Non essendo potente fisicamente suppliva con una innata capacità di essere sempre dove bisognava essere, sembrava che il pallone lo cercasse per essere deposto in fondo alla rete. Alla fine del girone con Polonia, Perù e Camerun tutta la stampa si scagliò contro la nazionale, Bearzot e, in particolare, contro Rossi reo di non fare il suo mestiere, segnare. Furono usati toni belluini, secondo la cattiva abitudine di esagerare. Gli urlatori spesso sono poi costretti a rimpiangere di aver gridato. Così fu. Mentre tutti sgranavano il rosario e preparavano la consueta cassa di pomodori da tirare all’aeroporto pensando a quello che ci aspettava nei quarti avendo nel girone l’Argentina di Maradona e il Brasile di Falcao e Zico, i giocatori si ruppero le scatole, anche perché furono attaccati sul piano personale, e iniziarono un silenzio stampa. A incontrare i giornalisti andava ogni giorno il capitano Zoff, l’uomo più taciturno che si possa immaginare. La nazionale taceva e si preparava a due partite campali. Bearzot trasmetteva fiducia, specie a Paolo che era frustrato dall’assenza del gol e dagli attacchi subiti. Con l’Argentina ci pensarono quei due fenomeni di Tardelli e Cabrini, mentre Gentile imbrigliava Diego Maradona. Poi arrivò la partita, decisiva, con il Brasile. Segnatevi questa data. Cinque luglio del 1982, ore 17,15 nello stadio del Sarrià di Barcellona. E se vi capita andate a cercare su You Tube un bellissimo servizio di Michele Plastino girato dagli spalti, come un tifoso qualsiasi. Paolo segnò di testa, su cross perfetto di Cabrini, poi rubò un pallone ai brasiliani e volò verso la rete, infine aggiunse una zampata a un tiro di Tardelli segnando il gol decisivo. Se chiedete a chiunque era in età della ragione nel 1982 vi descriverà quelle azioni come se le avesse viste ieri. Poi i gol con la Polonia, in semifinale. Uno di astuzia, uno di testa, come inginocchiato in preghiera sul campo. Gli urlatori batterono immediatamente in ritirata e ovviamente diventarono aedi, perché in Italia in fondo è sempre l’otto settembre. Il reprobo Rossi diventò l’eroe assoluto, con la rapidità di un baleno. Gli italiani impazzirono per lui e per quella nazionale. E tornarono finalmente per strada, spezzando il piombo nel cielo e ritrovandosi abbracciati e uniti. Ebbri di una gioia bambina, come quella che lo sport sa dare. Poi arrivò la finale, quella in cui Pertini in piedi diceva “Non ci prendono più”. Una volta Paolo mi descrisse così quei momenti. Gli chiesi: “Se lei potesse rivivere un momento, uno solo, di quel mondiale, quale sceglierebbe? “Non ho dubbi. Il finale della finale. Mentre le parlo lo rivedo. Noi che facciamo il giro del campo, con la Coppa in mano e una gran confusione in testa. Io vengo preso dai crampi. Mi fermo, mi siedo sui cartelloni. Alzo lentamente la testa e vedo la folla, la gente che piange, le bandiere tricolori che sventolano, persone che si abbracciano e i miei compagni che sorridono. Tutto in una volta. Capisco che cosa vuol dire davvero la parola felicità. Mi piacerebbe poter fermare questo istante per sempre. Invece so che passerà, ma ora non ci voglio pensare. So che quella felicità è anche per merito mio. E mentre guardo quei sorrisi e quelle lacrime, seduto su quei tabelloni, mi tornano in mente le mie figurine, il primo pallone, la maglia giallorossa, l’oratorio, i miei con la Prinz che viaggiano verso Torino. E capisco che la gioia degli altri è anche merito della mia fatica, dei miei sacrifici e anche del dolore, tanto, patito in una strana carriera. Eccolo, il momento che vorrei rivivere”.
Noi, che quel momento abbiamo vissuto, ora proviamo solo un gran dolore e una grande riconoscenza per Paolo Rossi. Per il nostro Pablito. Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Paolo Rossi era mio amico. Forse è per questo che non riesco a scrivere la sua morte. Non so scegliere tra i ricordi. Cominciare dai tre gol al Brasile è facile ma non mi sembra corretto. Paolo è stato molto altro, un uomo buono, un eroe dei tempi, leggero come una piuma e disinteressato alla sua bravura. La conosceva, e più passava il tempo e più l’amava. Ma non gli ho mai sentito dire una volta che è stato un grande giocatore. Prendersi poco sul serio era il suo modo allenarsi, quasi un clandestino dell’area di rigore, aveva imparato a nascondersi perché non aveva il fisico, arrivava come un tradimento, rubava un metro ed era gol. A Madrid, la notte del Mondiale, ne fece uno alla Germania indescrivibile senza moviola. Oriali mise da destra un pallone al centro che non sembrava niente di che. Cabrini, che marcava Kaltz, fu il primo a tuffarsi per andare a prenderlo. Foerster, un difensore magnifico e scolpito, capì il pericolo e si buttò per anticipare Rossi, ma quando aprì gli occhi, Paolo gli era già sopra le spalle e aveva colpito con la fronte. Era gol. Stavamo diventando campioni del mondo. Dalla tribuna non capimmo niente, si era visto solo un mucchio di uomini accartocciati e la palla in rete due metri più avanti. Ricordo che il grande Schumacher non fece in tempo nemmeno a muoversi. Poi, dalla polvere della terra, si alzarono al cielo le braccia magre di Rossi. Quello era il suo mestiere, rubare il tempo. Aveva grande tecnica, giocava benissimo a calcio e non aveva mai pensato di essere un centravanti. Ma quando G.B. Fabbri a Vicenza gli disse che il suo ruolo era quello, lui cominciò a studiarlo. Era magro, aveva un’altezza normale, poteva solo contare su controllo e scatto, colpo d’occhio, posizione. Finì per farlo meglio di chiunque altro. Ci sono stati anni in cui è stato celebre come i Beatles, ambasciatore di qualunque cosa. Lo invitavano dovunque, lo premiavano e lo ascoltavano come un reduce dallo spazio. Un giornalista che seguiva i ministri italiani mi raccontò che in Cina i diplomatici, per rompere il ghiaccio della conversazione ufficiale, parlarono un quarto d’ora di Paolo Rossi. In Brasile per quei tre gol lo hanno odiato, un sentimento reale, sincero, mai nascosto. Pochi anni dopo il mondiale Paolo fu invitato in Brasile per una partita di beneficienza. Giocò solo un tempo. Ogni volta che si avvicinava alle tribune con la palla gli tiravano di tutto, monete, noccioline, bucce di banana. Raccontava poi che un tassista, quando capì chi era, accostò e voleva imporgli di scendere. Paolo non sapeva arrabbiarsi, riuscì a trovare un compromesso. Il tassista non lo avrebbe portato a destinazione, ma solo riaccompagnato all’hotel da dove erano partiti. Paolo era soprattutto una bella persona. Diceva di sì a tutti, passava dagli inviti di Stato alle cene di paese. Era un allegro pensieroso, come i toscani furbi, che mandano via la malinconia con la voglia di passare il giorno, uno per volta. Stava dovunque ma era di pochi. Gli piaceva che tutto finisse a cena, col vino che faceva lui sulla collina di Bucine, sopra la valle dell’Arno, dove aveva preso dei ruderi e la terra e aveva trasformato tutto in un grande agriturismo, una quindicina di villette indipendenti, autosufficienti in tutto. Con intorno una grande piscina e il campo da calciotto. E una signora che faceva da cuoca nella vecchia cucina per chi ne avesse bisogno e solo se erano amici di Paolo. Di fianco la sua casa, quella con Federica, la moglie della maturità, che è riuscita a dargli due figli in pochi anni, (un altro lo aveva avuto dalla moglie precedente, Simonetta) facendolo di nuovo padre quando aveva già l'età per essere nonno. Era stato un amore profondo Federica, così come il suo bisogno di altri figli. A quasi sessant’anni si era abbandonato all’idea di quella deriva paterna. Non si faceva domande, cercava altre vite e le chiudeva nella sua collina fuori dal mondo, senza una casa intorno e col vino più buono da lì a Montalcino. Ha avuto molte cose in comune con Baggio: la popolarità, il Vicenza e i ginocchi. Paolo si operò tre volte già quando era un ragazzo nella Primavera della Juve. Allora si diceva che si era rotto il menisco, non c’era artroscopia. Per capire davvero dovevi aprire. Ed erano quasi sempre legamenti saltati. I dolori lo hanno accompagnato sempre, diventarono non resistibili. A ventotto anni smise di essere se stesso. A trenta chiuse la carriera. L’ultima prodezza erano stati due gol all’Inter con la maglia del Milan, gli unici due gol di quella stagione. Dopo divenne la memoria di se stesso. Cercò altre strade, non era uno che buttava via i soldi. Aveva una società a Vicenza con il suo vecchio compagno Salvi, assicurazioni, imprese edili. Aveva un figlio di quarant’anni che dava una mano. Non ha mai pensato di fare l’allenatore, il calcio non lo ha mai cercato troppo. Pesava troppo e non era di nessuno. Con la Juve aveva vinto un campionato segnando 13 gol, ma anche perso una finale di Champions. E comunque quella era la Juve di Platini, Boniek e Boniperti, non la sua. Non aveva retroterra come ex se non a Vicenza. Così è diventato opinionista, tanti anni a Mediaset, Sky altri alla Rai. Credo non fosse esattamente il suo mestiere, il calcio alla televisione fondamentalmente lo annoiava. Però con quell’aria quasi svogliata tirava sempre fuori un concetto ardito, sorprendente. Ha avuto un momento molto brutto nel 1980, quando prese due anni di squalifica per il caso delle scommesse clandestine. Lui lo racconta molto bene nei due libri sulla sua vita. Pensava si accennasse a uno di quei pareggi che erano convenienti a tutte e due le squadre. Non restò più di cinque minuti in quella compagnia, portato da un compagno mentre giocava a tombola. La domenica fece due gol, questo lo condannò, fece sembrare il pareggio convenienza. Ma di gol ne aveva fatti tanti anche prima. Il processo penale assolse lui e tutti gli altri giocatori, lui si fece in silenzio i due anni di squalifica. Il secondo lo passò ad allenarsi con la Juve che lo aveva rivoluto. Io lo attaccai spesso in quel periodo, ero un colpevolista. Quando ci ritrovammo a Torino a pranzo cercai di spiegare. Lui mise l’indice sul naso e mi pregò di stare zitto. «È finita. Restiamo amici». Perché Paolo era così, non voleva complicazioni, accettava tutto. Forse tutti noi non eravamo che piccoli elementi della sua voglia di vivere sereno, non tranquillo ma sereno. Come se un po’ per uno, tutti contribuissimo a difenderlo. Non si arrabbiò nemmeno quando in tutto il mondo le agenzia di stampa rimbalzarono la storia che lui e Cabrini erano fidanzati, nel senso vero del termine. Erano in camera insieme ai mondiali e amici di sempre. Un giornalista italiano scrisse che nell’ora di libertà Rossi e Cabrini stavano sul balcone mano nella mano come due fidanzatini. Era una battuta innocente, ma non esiste l’innocenza nella comunicazione di un mondiale. Il giorno dopo, quando andammo a prendere il Brasile all’aeroporto di Barcellona, la prima cosa che disse Socrates fu: «Ma è vero che Rossi e Cabrini sono maricones?». Cioè gay. Lui la prese così poco sul serio che venticinque anni dopo, al suo matrimonio, sulla collina, nel villaggio sopra Bucine, al tavolo con Cabrini, mi raccontò ridendo che a Vigo si erano messi paura: avevano avuto lo stesso fungo su parti opposte del torace, come se uno l’avesse attaccato all’altro. Ridemmo molto e continuammo a bere. Ciao Paolo, non dimenticarmi.
Paolo Rossi, l’ultima intervista al Corriere. «Volevo fare l’astronauta, ho messo la famiglia prima di tutto». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera l'11/12/2020. Il 2 marzo il grande bomber dell'Italia si raccontava: «Colleziono i cimeli dell'Italia del Mondiale, volevano comprarli tutti ma non li vendo. Ai figli ho insegnato la semplicità». Il 2 marzo scorso, alla sua maniera, guidando scanzonato tra le colline di Bucine con la linea che andava e veniva, Paolo Rossi ci aveva dato questa intervista. Era destinata a un inserto del Corriere della Sera che, causa lockdown, non ha mai visto la luce. La pubblichiamo perché, dentro, c’è tutto Pablito. Origini, amori, sogni realizzati e ancora da sognare. L’insostenibile leggerezza dell’essere Paolo Rossi: da Prato al mondo senza prendersi troppo sul serio. «Sono nato in casa di domenica alle tre, mentre mio padre ascoltava la telecronaca della Fiorentina», racconta in «Quanto dura un attimo», la biografia firmata con la moglie Federica Cappelletti. Il destino già scritto di un Paolo Rossi non qualunque. Sono passati 38 anni dal giro di campo al Bernabeu accanto a Zoff serissimo, Causio a petto nudo, Selvaggi e Massaro con la tuta delle riserve, Tardelli rauco per l’urlo, Bergomi baffuto, Bearzot venerabile vecio. La notte più bella della nostra vita. E della sua.
Come è stata l’infanzia di un bambino venuto al mondo il 23 settembre ‘56, l’anno dei Giochi di Cortina, della prima seduta della Corte Costituzionale, dell’Oscar alla Magnani, dell’affondamento dell’Andrea Doria?
«Felicissima. Papà Vittorio ragioniere in una ditta di tessuti, mamma Amelia sarta. La casa era un porto di mare: io entravo e uscivo per andare nel campo di ulivi, lì accanto, a giocare a pallone».
Mai avuta la tentazione di diventare qualcos’altro?
«L’idea di fare l’astronauta l’ho avuta: l’immagine di Neil Armstrong sulla luna, il 20 luglio ‘69, mi rimase scolpita dentro. Avevo 12 anni. Nonno, ma come hanno fatto? E lui: hanno asfaltato la strada e sono andati su… Geniale!».
Che potere esercitò su di lei un pallone che rotola?
«Essere magrolino non è mai stato un impedimento: era un calcio diverso, si poteva sopperire con altre doti. Quando mi sono diplomato in ragioneria, ho letto negli occhi dei miei il desiderio che mi trovassi un posto sicuro, con la tredicesima e la quattordicesima a fine anno: la banca. Ma io volevo il calcio».
Il sacrificio più grande?
«I sacrifici li fa chi lavora in miniera. Il calcio è stato prima un piacere, poi una graditissima professione. Il sacrificio lo fece la mia famiglia: vedermi uscire di casa a 15 anni, senza sapere se e quando sarei tornato. Mia madre so che ha sofferto. Ma lì prevalse il bene per il figlio: lasciamolo fare la sua strada, si disse».
Moderna, mamma.
«Mah in realtà eravamo una famiglia tradizionalista, però i miei non sono mai stati invadenti. Un miracolo, se penso a certi genitori oggi».
Come li ricompensò con i primi guadagni?
«Alla Juve comprai una Fiat 127 per papà, scontata al 50%. Ma il nostro affetto non è mai stato fatto di cose materiali. Si viveva, molto dignitosamente, di quello che c’era».
Quali valori dei suoi genitori ha voluto passare ai figli?
«La semplicità: per me è un valore. I miei erano così facili da leggere, da interpretare: onesti, con principi importanti. E così sono io con i miei tre figli. Da papà ho preso la precisione nel fare le cose, da mamma volontà e bontà».
Paolo Rossi è un papà ingombrante?
«In famiglia ho sempre cercato di sminuire le conquiste dello sport, però senza sentirmi in colpa: mi piaceva il calcio e ho provato a vincere tutto quello che potevo. Alessandro ha 38 anni, è nato nell’anno del Mundial: forse è quello che ha patito di più la mia popolarità. Maria Vittoria e Sofia Elena sono cresciute con il Pallone d’oro come soprammobile, scherzandoci sopra».
Di cosa va più fiero?
«Della famiglia, e non è retorica. Se sei sereno dentro casa, hai tutto. Alla fine è la vita quotidiana che ti riempie, non un Mondiale, per quanto straordinario. Quello evapora. Ho il privilegio di poter fare ciò che mi piace: la scuola calcio, l’agriturismo, il vino, la tv, il cda del Vicenza Calcio».
Il cimelio a cui è più legato?
«La maglia azzurra numero 20 della partita contro il Brasile, quella della tripletta al Mundial. Ho raccolto i cimeli in una mostra itinerante, due tir che vanno in giro per l’Italia. Ho richieste da Dubai!».
Tornando indietro rifarebbe tutto, Paolo?
«Ogni singola cosa. A cercare il pelo nell’uovo vorrei rigiocare il Mondiale ‘78 in Argentina: quell’Italia in finale poteva arrivarci. Però è vero che il Mondiale perso è servito a vincere il titolo nell’82, che tanta gioia ha regalato».
E tra mille anni come vorrebbe essere ricordato?
«Come Pablito. O Paolorossi. Tutto attaccato».
Intervista di Giancarlo Dotto a Paolo Rossi per "Diva e Donna" – dicembre 2019. Dal suo rifugio protetto della Valdarno, Paolo Rossi arriva per quello che è, un uomo amabile e carezzevole, conciliato con il mondo anche quando il mondo si manifesta incomprensibilmente crudele (ne sa più di qualcosa, Pablito). Minimalismo tanto più seducente, il suo, per quanto gli fa da contraltare il boato di trofei, medaglie e titoli sparsi. A 63 anni, il ragazzo si guarda intorno e trova quello che ama, nulla di più da chiedere alla vita. La campagna toscana, la moglie Federica, le due figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena, 10 e 8 anni. Più lontano ma vicino Alessandro, il figlio nato dalla prima moglie Simonetta nell’82, lo stesso anno in cui il padre diventò una star mondiale. Capitai l’anno dopo a Tokyo e non credevo ai miei occhi quando un cuoco di Shinjuku mi mostrò umido di commozione la foto di Pablito che teneva sotto il cuscino. Paolo Rossi è così, prendere o lasciare, io prendo. La vita poteva fare di lui un onesto ragioniere o un prete ispirato, ne ha fatto un campione del mondo, un pallone d’oro, ma il suo modo di stare al mondo non è cambiato. L’immagine che più di tutte lo racconta: papà e mamma che si fanno quasi mille chilometri per andare a trovarlo, da Prato a Torino, andata e ritorno, con la loro vecchia Nsu Prinz e il santino sul cruscotto. “Quanto dura un attimo” (Ed. Mondadori), ottima strenna per tutti ma soprattutto per i tanti che quella notte si sono buttati nelle fontane di tutta Italia, conferma l’atrofia rassicurante del suo ego. Un’autobiografia in terza persona, già questo una rarità, scritta da Federica Cappelletti, moglie e complice, giornalista e scrittrice. La mano femminile c’è tutta nel raccontare un mondo che più maschio non si può. Dal Paolino dei primi gracili dribbling dell’oratorio al celebrato Pablito del Santiago Bernabeu, fino al precocissimo ritiro. “Quanto dura un attimo”. Titolo molto pertinente. Il tuo era il calcio dell’attimo fuggente. Il passo del tempo rubato nel jazz. “Fa riferimento a questo. Anticipare l’attimo, il pensiero, l’avversario. Io ero un centroavanti atipico, non avevo il fisico di Cristiano Ronaldo. Dovevo prevalere con la testa prima che col fisico. Quasi tutti i miei gol nascono così”.
Chi è il signore che sta abbaiando con questo entusiasmo?
“Si chiama Black, un bastardino. Ma noi qui abbiamo uno zoo, dentro e fuori, un pastore maremmano, due pony, le galline…”.
Si dicono cose paradisiache del vostro agriturismo a Poggio Cennina.
“È soprattutto Federica che ci si dedica. Viviamo qua con le due bimbe da undici anni. La qualità della vita è ottima. Non cambierei questo posto con nessun altro al mondo”.
Come ti hanno convinto a raccontarti?
“È stata Federica. Lei il mondiale dell’82 non l’ha vissuto. Era una bambina di dieci anni. I miei racconti l’hanno sempre affascinata e incuriosita. Pensare di farne un libro, ripercorrendo la mia vita, è venuto naturale”.
Quindici anni di calcio e una storia incandescente, tra abissi e paradisi. A cominciare da quando eri un ragazzo alla Juve. Tre menischi in tre anni. Un record planetario.
“Oggi i menischi sono una sciocchezza, ma allora erano guai seri. Stavi fermo dei mesi. Nonostante ciò ho fatto in tempo a esordire con la Juventus a diciassette anni”.
La fama era quella del talento fatto di vetro, dunque inaffidabile.
“Mi ero posto un limite. Riuscire a giocare con continuità e capire quello che sarei riuscito a fare. La mia grande fortuna fu andare a Vicenza a vent’anni. Ci ho vissuto più di vent’anni, ho ancora casa lì, in primavera mi daranno la cittadinanza onoraria”.
Marco Tardelli, altro eroe dei mondiali, ha scritto il suo libro con la figlia Sara. Mi raccontava di come l’avesse tormentato per indurlo a raccontare.
“Nel caso nostro è stato il contrario. È stato tutto molto facile. Siamo stati su anche la notte a scriverlo. Federica è una che si butta nelle cose con passione. Senza di lei non l’avrei mai fatto. Ci ha molto aiutato l’enorme archivio storico che tengo qui a casa”.
La passione travolgente per il pallone fino a che l’hai giocato. Oggi fai l’opinionista in Rai. Sbaglio se dico che a guardarlo, il calcio, sembri molto meno coinvolto?
“Non sbagli. Se è una partita bella partecipo, altrimenti mi annoio. Non sono un appassionato dei dettagli. Prendo appunti per il mio lavoro, ma non sto lì a studiare e ad approfondire maniacalmente. Il calcio oggi non è la mia unica ragione di vita”.
Cosa ti coinvolge oggi?
“La famiglia su tutto. Prima viaggiavo spesso, oggi ho rallentato per stare con loro. Agriturismo a parte, faccio tante cose. Mi restano la scuola calcio e la mostra itinerante che gira per l’Italia da tre anni con tutti i miei cimeli. Aggiungi la collaborazione anche affettiva con il Vicenza calcio e l’attività vinicola che ho con mio figlio”.
L’idea di fare l’allenatore ti ha mai sfiorato?
“Mai. Non sono caratterialmente portato. Fare l’allenatore oggi è un mestiere totalizzante. Dover gestire più di venti professionisti a certi livelli, bisogna essere molto duri dentro e fuori”.
Mourinho è il prototipo dei duri.
“Gli allenatori di oggi, i più grandi, li vedo tutti arrabbiati, nervosi o molto pensierosi, se non depressi. Devo ancora incontrarlo un allenatore felice”.
Ti ha impressionato la storia di Ancelotti a Napoli?
“Mi dispiace per lui, Carlo è un amico. Ecco, lui è un’eccezione. Pacato, corretto, sempre equilibrato, anche nei frangenti più duri. Resta la sua carriera straordinaria”.
Che padre sei?
“Molto affettuoso. Avere due bambine a più di cinquant’anni vuol dire molto. Hai più gioia, più consapevolezza, più attenzioni. Con Alessandro, sei mesi l’anno li vivevo lontano da casa”.
Hai avuto tre grandi padri putativi. Bearzot su tutti, Fabbri e il presidente Farina.
“Fabbri è stato il primo. L’allenatore che più mi ha seguito e insegnato. L’ho vissuto come un papà. A Vicenza, con lui, era una gioia allenarmi. Il presidente Farina vedeva i giocatori come un business, ma su di me ha mollato. “Sei l’unico giocatore che ho amato”, mi ha detto”.
Dimmi di Enzo Bearzot. C’eri anche tu il giorno del suo funerale, con Zoff, Cabrini, Tardelli e Conti, a portare il feretro sulle spalle.
“Bearzot aveva un carattere spigoloso, per niente facile. Entrava a gamba tesa quando doveva. Le cose non te le mandava a dire. Ma era un uomo di una lealtà assoluta. Prima dei mondiali ’86 mi chiamò e mi disse: “Ti porto con me perché fai gruppo, ma non ti farò giocare”.
Ti è stato molto vicino anche nella vicenda del calcio scommesse.
“Ha voluto sapere da me tutta la storia, guardarmi negli occhi e avere la conferma che non c’entrassi niente. Avesse avuto il minimo dubbio non mi avrebbe chiamato per i mondiali. Per lui le doti morali erano più importanti di quelle tecniche”.
Eri il suo preferito?
“Lui non aveva preferenze, difendeva tutti. Forse, in cuor suo, aveva un legame speciale con Zoff. Avevano le stesse radici, la stessa estrazione”.
Hai smesso giovanissimo. Poco più che trentenne.
“I danni alle ginocchia erano una storia che mi portavo dietro da ragazzo. Ancora oggi mi fanno malissimo, non ce la faccio nemmeno a corricchiare. Oggi il calcio è completamente cambiato. Penso a Ibrahimovic trentotto anni, Ronaldo trentacinque. Sono ancora dei ragazzi...”.
Di quel gruppo mitico è mancato anche Gaetano Scirea.
“Tutto il bene che puoi dire di lui è sempre troppo poco. Era un modello per tutti. Un grande giocatore e un ragazzo buono che si faceva voler bene da tutti. Mai una parola di troppo”.
Una persona esemplare e una fine atroce. Storie così non fanno vacillare la tua fede?
“I dubbi ti vengono, ma resto convinto che dopo questa vita ce ne sia un’altra. Diamoci una speranza, altrimenti quale sarebbe il senso di tutto questo? E comunque, la chiesa e la fede mi danno tutt’ora un senso di tranquillità”.
Tua mamma Amelia, tuo fratello Rossano in tribuna quella sera della finale al Santiago Bernabeu, vicini a Sandro Pertini. Non c’era tuo padre Vittorio.
“Me li portò a Madrid il sindaco di Prato. Papà rimase a casa, a guardarla in televisione. Non si fidava degli aerei. Ho avuto due genitori meravigliosi, mai ingombranti. Mio padre, soprattutto, era molto riservato. Amava il calcio, ma non è mai entrato nelle mie vicende”.
La vicenda della squalifica. Due anni fuori dal calcio. Hai rischiato la depressione?
“Mai. Le cose nella vita ti succedono, positive e negative, e non puoi farci niente. Quella fu orribile. Hanno estratto un numero e sono uscito io. Mi ha salvato avere la coscienza pulita. Mi hanno tolto due anni di vita, ma poi sono stato ripagato con gli interessi”.
Torniamo indietro. A quel giorno. Stavi in ritiro con il Perugia…
“Viene da me un compagno e mi fa: ti presento un signore. Questo mi dice: i giocatori dell’Avellino sarebbero d’accordo sul pareggio e tu potresti fare uno o due gol”.
E tu?
“Risposi che io da solo non sarei in grado di fare niente. Il tutto durò un minuto, questo è stato il mio contatto. La sera parlammo e nessuno della squadra era d’accordo. Io feci due gol, pareggiammo, ma fu una partita normale. Mai saputo che c’era questo giro di scommesse dietro”.
Avresti potuto segnalare il tentativo di combine…
“Avrei dovuto denunciare il mio compagno. Non è nella mia indole. La beffa vuole che riprendo a giocare per il mondiale, lo vinciamo grazie anche ai miei gol e vengono condonate le squalifiche di tutti gli altri”.
La tua amicizia con Antonio Cabrini. Ci hanno ricamato sopra all’epoca. Allusioni pesanti di omosessualità.
“Con Antonio ci conoscevamo da sempre. Ai mondiali stavamo in stanza insieme, quel giorno ci affacciamo sul davanzale e ci scattano una foto. Fanno un pezzo ironico su di noi, Pablito l’hombre e Cabrini la muchacha. I giornali stranieri riprendono la cosa e ne fanno un gossip mondiale”.
Giornalisti felloni. Il destino vuole che ti sposi poi proprio una giornalista.
“Ho sposato una donna bella e intelligente che con il calcio c’entra poco. Oggi, poi, si occupa d’altro”.
Mick Jagger in concerto a Torino nell’82 che si presenta con la maglia numero 20 di Paolo Rossi.
“Fantastico. Ha pure indovinato il risultato della finale. “Stasera vincete 3 a 1”. Un mito”.
Il più forte con cui hai giocato?
“Ho avuto la fortuna di giocare con Michel Platinì, il più bravo di tutti. Tra gli avversari, Maradona il più grande, dopo di lui Zico”.
Il tuo cordone ombelicale è ancora seppellito nel giardino di casa?
“Penso di sì. Era usanza fare così nelle famiglie vecchio stampo. Venivano i miei fans all’epoca a chiedere di averlo come cimelio”.
Si parla poco di donne nel libro.
“La parte del leone all’epoca la facevano Antonio Cabrini e Marco Tardelli”.
Si parla poco anche della tua prima moglie, Simonetta. Fai capire che il matrimonio fu quasi imposto dalla Juventus.
“Imposto no, suggerito e forse anticipato. Magari l’avrei fatto l’anno dopo”.
Era vero amore o un calesse?
“Poi si è rivelato un calesse. Sai, eravamo così giovani, però siamo rimasti in buoni rapporti”.
Cosa ti lega a Federica?
“L’amore che resta intatto dopo quindici anni. Penso di aver fatto la scelta giusta. Stiamo davvero bene insieme”.
Tardelli nel suo libro scrive che eri il più taccagno del gruppo.
“È bugiardo. Mi sa che lo querelo. Quando stiamo insieme sono sempre io a offrire. La storia nasce dal fatto che mangiavo le caramelle e lui sosteneva che le scartavo in tasca per non dividerle. Marco ha mentito, ma gli voglio bene lo stesso”.
Rossi, Zoff e quei giorni condivisi: "Ho saputo, e mi è mancato il fiato". Matteo Pinci su La Repubblica l'11/12/2020. Intervista al portiere, capitano dell'Italia '82 e della Juventus: "Paolo era davvero divertente". "Mi ero appena svegliato, ho acceso la tv e ho visto il tg. E mi è mancato il fiato". La notizia della morte di Paolo Rossi l'ha appresa così Dino Zoff. Di quell'Italia del 1982 era il capitano, le sue mani sulla coppa sono uno dei due simboli di quel trionfo, insieme ai gol di Pablito.
Zoff, vi eravate sentiti negli ultimi giorni?
"E' un colpo notevole, e alla mia età fa ogni volta più male. L'ultima volta ci eravamo visti lo scorso anno: lui era a Roma per uno dei suoi impegni in tv e mi aveva chiamato ed eravamo andati a cena al Circolo Aniene, io, lui e Tardelli. Una serata bellissima, come una volta: ci eravamo presi in giro, avevamo scherzato sui comportamenti, sai loro sembravano ragazzini, con questi telefonini, le attrezzature elettroniche a cui io non riesco a stare dietro. Ma avevamo un feeling particolare, come ha solo chi ha vissuto qualcosa di irripetibile".
Lei e Pablito siete stati forse i due simboli del Mundial del 1982, ne parlavate?
"Non solo siamo stati i due simboli, ma quelli con più pressione addosso. Entrambi ci sentivamo responsabili delle critiche che venivano rivolte al ct Bearzot per averci convocato: io per l'età, Paolo perché veniva da un anno in cui non aveva giocato".
E Rossi ne soffriva?
"Certamente la sentiva tanto. Avvertiva forte questa pressione, ma è meglio dire responsabilità di dimostrare che la scelta di puntare su di lui fosse giusta. Anche perché entrambi eravamo fortemente legati al Vecio: con lui non c'era blocco Juve o altro, c'era la Nazionale, una squadra. Era un uomo che sapeva tenere il gruppo, puntando su una cosa, sempre: l'educazione".
E con lei ne parlava, si confidava?
"No, ma era una sensazione che aleggiava, poi col silenzio stampa che appesantiva ancora il clima. C'era un'aria tesa, che poi proprio Paolo trasformò in una festa con i tre gol al Brasile che fecero esplodere l'entusiasmo: quello della gente in Italia, certo. Ma anche il nostro eh".
In più eravate legati anche dalla maglia della Juventus.
"A volte ancora mi chiamava capitano, ma mica per rispetto, per prendermi in giro. Appena capitava a Roma, per delle promozioni o per commentare una partita, cercavamo di organizzare per vederci: erano momenti belli, intensi, profondi. Avevamo un bel rapporto, e poi Paolo era davvero una persona straordinaria: un generoso, e poi simpatico, fresco. Forse non lo sa, ma c'è una cosa che non gli mancava: l'ironia. Paolo era davvero divertente".
Quando vi siete visti l'ultima volta non stava ancora male?
"Era qualche tempo che non ci sentivamo, non ero del tutto al corrente della sua malattia, non sapevo che le condizioni fossero peggiorate così tanto. È stato un colpo inaspettato, dolorosissimo: credo non volesse farlo sapere per discrezione, per proteggere la sua intimità. E della sua famiglia".
Paolo Rossi, la struggente lettera di Roberto Baggio. Notizie.it l'11/12/2020. In questa lettera scritta a cuore aperto Roberto Baggio ricorda Paolo Rossi, grande idolo d'infanzia e amico. In una commovente lettera a cuore aperto Roberto Baggio scrive al compianto Paolo Rossi, idolo d’infanzia del divin codino. In questo flusso di coscienza, Baggio racconta i suoi sogni di diventare un grande campione sulle orme di Pablito: “Facevo 12 chilometri in bici per venire a vederti. Ti imitavo per poter diventare come te“. Tutta l’Italia è in lutto per la scomparsa di Paolo Rossi, soprattutto il grande Roberto Baggio che sulla Gazzetta dello Sport ha voluto pubblicare una lettera in cui a cuore aperto parla del suo idolo di infanzia. ” Paolo, PABLITO, PAOLO ROSSI, quasi si dovesse sempre chiamare con nome e cognome: lui non era Rossi lui è, e sempre sarà, PAOLO ROSSI. Tornano in superficie i dolci ricordi di quando avevo 10 anni, conservati per decenni in uno dei tanti album della mia memoria“, così inizia il divin codino. “Con il mio adorato papà Fiorindo, mancato solo qualche mese fa, percorrevamo quasi 12 chilometri, in due su una bicicletta, per andare allo stadio Menti a vedere il grande Paolo Rossi. Poi, per tutta la partita, mi aggrappavo alla rete per vederlo giocare e segnare“. Tanta ammirazione e affetto per Pablito, trasformate poi nell’ambizione di diventare come lui, nel replicare le sue gesta: “Pensavo che un giorno avrei anche io giocato in quello stadio, imitando Paolo Rossi avrei potuto realizzare quanto lui è riuscito a realizzare. Vincere un campionato del mondo in finale contro il Brasile. Come Paolo Rossi ha fatto contro la Germania. Vincere il Pallone d’oro. Come Paolo Rossi”. A quasi fine lettera, Baggio parla di un incontro quasi fortuito avvenuto in Cina, dove ovviamente oggetto della conversazione non poteva che essere il calcio: “Un meraviglioso viaggio in Cina recentemente ci ha fatto rincontrare. Abbiamo parlato a lungo su quanto avessimo vissuto in comune, e su quanto si sarebbe dovuto fare per un futuro migliore. Soprattutto nel calcio”. In conclusione, un ultimo e dolcissimo saluto all’amico scomparso, e a quel sorriso che ha reso Paolo Rossi un’icona immortale del nostro calcio: “Ciao Paolo, chissà se infilerai le tue scarpette da calcio quando sarai in cielo. Spero che il tuo sorriso arrivi anche li. Noi qui lo ricorderemo a lungo“.
Indimenticabile, grande Pablito: il ricordo di Paolo Rossi. Paolo Rossi è stato il punto più luminoso di quella rivoluzione «cultural-calcistica» messa in opera da Enzo Bearzot a cavallo fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80. Fabrizio Nitti su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Dicembre 2020. È il 5 luglio del 1982 (anno indimenticabile) e al «Sarrià» di Barcellona fa caldissimo. Il cross di Cabrini «gira» da sinistra a destra, profondo, nell'area brasiliana. Lacera la difesa dei sudamericani, la prende alle spalle. Dietro a tutti c'è lui, Paolo Rossi. In quei pochi secondi, dalla palla che lascia il piede di Cabrini fino all'impatto con la testa e il gol, c'è tutto «Pablito». C'è tutta la storia dell'attaccante più forte che il calcio italiano abbia mai conosciuto. In quel preciso istante nasce il «Mito». Rossi diventa Rossi, quello che ha affossato il Brasile in semifinale e lanciato l'Italia verso il titolo di campione del Mondo. Quello che fu costretto a scendere da un taxi, in Brasile, perché riconosciuto come il «killer» dei carioca anche a distanza di anni. Dannato, dannatissimo 2020. S'è portato via anche il «Re Mida» delle aree di rigore, dopo «el pibe de oro», oltre a migliaia di persone incolpevoli. Speriamo finisca presto, questo disgraziatissimo anno. Paolo Rossi è andato via in silenzio, vinto da un avversario ancora, purtroppo, ingestibile. Un uomo perbene, oltre che un fuoriclasse, etichetta che mai ha fatto pesare. Un uomo dal sorriso contagioso e dai modi pacati. Paolo Rossi è stato il punto più luminoso di quella rivoluzione «cultural-calcistica» messa in opera da Enzo Bearzot a cavallo fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80. Quando l'Italia scelse di rifondarsi e di ripensarsi in maniera decisa dopo la cocente delusione di Germania 1974. Un po' come quello che sta accadendo di questi tempi con gli Azzurri di Mancini. I Mondiali del 1978 in Argentina hanno consegnato alla storia del pallone italiano, la miglior Nazionale in fatto di qualità di gioco. C'è poco da discutere. Perfino l'Italia-Mondiale del 1982 e quella di Lippi del 2006, pur giocando un buon calcio, sono state inferiori quanto a varietà di schemi e proposta di gioco. Di calciatori come Rossi non ne sono più nati. Certo, qualcuno ha provato ad assomigliargli. Pippo Inzaghi, ad esempio, uno che ha fondato la sua carriera da calciatore vivendo perennemente in bilico fra la vita e il fuorigioco. Ma «Pablito» resterà un dipinto unico nel panorama del calcio italiano. Come l'urlo di Tardelli (Pertini show in tribuna) nella finale Mondiale del 1982. Veloce, intuitivo, mentalmente un passo avanti a tutti, difensori e compagni. Chi lo aveva in squadra se lo teneva stretto, chi lo trovava da avversario provava a fare altrettanto, senza riuscirci. Chi non lo ha visto giocare dal vivo s'è perso uno spettacolo. Compariva dal nulla, sbucava improvviso come la nebbia. Alle spalle di stopper, terzini, portieri. Non c'era palla vagante in area di rigore che non si trasformasse in pepita d'oro. Cioé in gol. Ladro di attimi, rapinatore di secondi. Paolo Rossi è stato amato anche perché era una persona a modo, con una educazione d'altri tempi. E le brave persone si possono solo amare. Rimase impigliato nella brutta storia del calcioscommesse degli anni ‘80, una storia poco chiara nella quale lui c'entrava nulla. La sua carriera da opinionista non è mai stata trascinata da polemiche per fare audience o da giudizi gridati. Era uno di quelli che sapeva cosa dire in ogni occasione. Con calma e serenità. Pungente e gentile allo stesso tempo. A pensarci bene, la stessa «tattica» usata per fare gol. Sì, ci mancherà. Mancherà a chi ama il calcio, a chi ama lo sport. Perché «PaoloRossi», tutto attaccato, è entrato in silenzio nella storia degli italiani, conquistandoli tutti, amici e nemici. È un pezzo di storia. E anche di vita che se ne va.
Paolo Rossi, il ricordo dell’ex moglie Simonetta Rizzato. Notizie.it il 12/12/2020. Paolo Rossi e Simonetta Rizzato, l'ex moglie di Pablito ricorda gli anni passati insieme al campione di Spagna '82. L’ex moglie di Paolo Rossi, Simonetta Rizzato, ha concesso un’intervista al Corriere della Sera nella quale ha raccontato dell’amore che per tanti anni l’ha unita a Pablito con il quale hanno messo al mondo il loro primogenito, Alessandro. Parla di una relazione nata quando entrambi erano molto giovani, lui 20enne lei 17enne, a Vicenza, città dove Pablito era appena arrivato per iniziare la sua personale carriera nel calcio che conta. “Ci presentarono alcuni amici comuni – dice la Rizzato – eravamo piccoli, molto teneri. Io il calcio non lo seguivo granché, non ero una tifosa. In fondo quando l’ho conosciuto, per me, era soltanto Paolo. Fu un colpo di fulmine. E dopo quell’incontro ci sono stati diciotto anni d’amore”. Poi il ricordo dell’ex moglie di Paolo Rossi va al momento più importante della carriera di Pablito, quel mondiale in Spagna nel 1982 che lei seguì da casa perchè incinta: “Fu un’esperienza pazzesca, ma io ero incinta e rimasi a casa temendo rischi per la gravidanza. Ricordo i tifosi sotto le finestre, fu tutto bellissimo. Ma – precisa la Rizzato – c’è un episodio che descrive bene che persona fosse Paolo: quando i giornalisti gli chiesero come si sentiva, lui rispose ‘Questo è un anno importante per me: nascerà mio figlio e ho vinto un Mondiale‘. Ecco, per lui erano più importanti gli affetti“. “Paolo – prosegue – è stato il primo amore, quel sentimento puro che si può vivere soltanto a quell’età. Poi, siamo cresciuti e maturando siamo cambiati. Lui era spesso lontano per lavoro e alla fine, dopo tanti anni insieme, abbiamo deciso di lasciarci e prendere strade diverse”. Malgrado la fine del loro matrimonio tra i due è rimasta una grande stima e la voglia di non far gravare il fallimento della loro unione sul figlio Alessandro. “Paolo era una persona così dolce che non aveva senso escluderlo dalla mia vita. Io – continua l’ex moglie di Pablito – mi sono risposata e anche lui ha conosciuto Federica, una donna stupenda e che gli è stata accanto in modo straordinario in questo periodo così doloroso. Anche dopo la separazione, l’ho sempre sentito parte della mia famiglia”. Poi il racconto dell’ultimo incontro prima della fine: “L’ho visto il giorno prima che morisse. Sono andata a trovarlo in ospedale a Siena e ci siamo detti addio. Nel suo cuore – conclude – la famiglia veniva prima di tutto e ora che se n’è andato mi lascia con un dolore immenso e con la consapevolezza di aver avuto il privilegio di passare la prima parte della mia vita con un uomo straordinario”.
Vi racconto Paolo Rossi, chi era prima di essere Pablito. Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 12 dicembre 2020.
Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.
Da fuori non si può capire quanto possa essere costellata di imprevisti la vita calcistica di un giocatore, soprattutto a livello di infortuni. Chi vi scrive ha costruito la sua carriera andando a scovare i giovani talenti in qualità di osservatore, per poi gestirli in tutte le loro esigenze per farli diventare insieme uomini ed atleti. In quest'ottica capitava di tutto: che alcuni mancassero caratterialmente, che altri non studiassero marinando la scuola. E anche che qualcuno, dotato magari di tecnica calcistica non comune, dovesse essere seguito attentamente per sopravvenute carenze fisiche. È il caso di Paolino Rossi che, venuto giovanissimo alla Juve, ho seguito come si fa con un figlio, certo della sua riuscita come uomo e come calciatore. Non mi ero sbagliato. Dicendolo solo a me stesso, penso di essere stato l'artefice della riuscita della sua grande carriera proprio per la mia cocciutaggine nel perseguire l'obiettivo. Lo vidi giocare, appena quindicenne, in un torneo in Abruzzo e poi lo andai a vedere nelle competizioni della sua squadra, la Cattolica Virtus di Firenze. Non ebbi mai dubbi sul suo acquisto, ma solo qualche problema nell'ambito familiare per il trasferimento a Torino, dove giocava già suo fratello che proposi di rimandare a Firenze. Inizialmente il padre oppose delle resistenze, ma poi, rassicurato dalle mie parole circa l'avvenire di Paolo, diede il suo benestare e così i due fratelli poterono scambiarsi la residenza. Paolo venne a Torino e mise in mostra tutte le sue grandi qualità.
I GUAI ALLE GINOCCHIA. Poi però, con l'andar del tempo, cominciarono ad affiorare in lui problemi fisici notevoli: era infatti debole nelle ginocchia per mancanza di menischi. Per questo fu difficile trovare una società che lo potesse far giocare e curare. Provai a darlo al Como con un diritto di riscatto della comproprietà, che alla fine i lariani non esercitarono. Non mi persi però di coraggio e l'occasione capitò quando GB Fabbri, allenatore del Lanerossi Vicenza, telefonò a Boniperti per chiedergli Vinicio Verza, un giocatore che lui aveva avuto a Cesena con ottimi risultati ma che io, nel frattempo, stavo trattando con il Varese di Guido Borghi, con il quale intrattenevo buoni rapporti per aver acquistato da lui Claudio Gentile. Tentai allora di forzare la mano a GB Fabbri facendogli capire che gli avrei dato Verza solo se avesse preso in prestito anche Rossi, e l'allenatore vicentino, pur di prendere Verza, accettò la proposta. Paolo fece la riserva per tutto il girone di andata ma poi, a seguito della morte del centravanti Vitali (in un incidente automobilistico), venne promosso titolare e con 24 reti al suo attivo iniziò la sua carriera di grande campione. Io in quel momento provai la gioia di chi si sentiva ripagato per aver creduto in qualcosa che stava prendendo corpo. In quel tempo fui chiamato dal presidente Anzalone a dirigere la Roma e Boniperti, che evidentemente non aveva molta fiducia nelle condizioni fisiche di Rossi, acquistò Virdis dal Cagliari e perse le buste con il Vicenza di Farina che si assicurò così la totale proprietà di Paolo. Ma ormai la carriera di Rossi era diventata inarrestabile e il Campionato del Mondo del 1982 in Spagna, vinto dalla nostra Nazionale, rappresentò il suggello delle doti da gran campione di Paolo che poi vinse il Pallone D'Oro. Pochi mesi addietro Paolo e la moglie Federica vennero a Torino per intervistarmi rievocando quei bei momenti per un docufilm che stavano girando sulla sua vita di calciatore. Ricordo la gioia di quell'incontro che ripercorreva le fasi iniziali della sua carriera, rivedo il sorriso e la felicità di Federica nel rivivere le tappe essenziali che poi hanno costituito l'asse portante della carriera di suo marito. Poi di colpo, e del tutto inaspettata, la tristezza nell'apprendere della morte. In quel momento non ho potuto che piangere al pensiero che le persone buone come Paolo non dovrebbero mai andarsene. E non parlo del campione, mi riferisco all'uomo.
Addio Rossi, Vicenza saluta il suo Pablito. Lutto al braccio e minuto di silenzio in A. La Repubblica l'11/12/2020. Oggi Paolo Rossi è tornato nella sua Vicenza. Il feretro del campione scomparso mercoledì all'età di 64 anni, ha lasciato la camera mortuaria dell'ospedale Le Scotte di Siena su un carro funebre con la bara coperta da una corona di rose bianche della moglie Federica. Nel pomeriggio, intorno alle 15, lo stadio Menti ha accolto poi Pablito per l'omaggio dei tifosi e dei cittadini con la camera ardente che resterà aperta fino alle 20 di questa sera. L'ultimo saluto all'eroe dell'Italia che conquistò il mondo calcistico, nel 1982, verrà celebrato domani, alle 10.30, nel Duomo di Vicenza. Morto Paolo Rossi, il figlio Alessandro: "Era un papà fantastico. Ha combattuto la malattia con l'amore per il calcio". La Lega Serie A e tutti i club lo ricorderanno e gli renderanno omaggio attraverso una serie di iniziative in occasione del prossimo turno di campionato. I calciatori scenderanno in campo indossando una fascia nera al braccio sinistro e prima del calcio d'inizio di ogni partita sarà osservato un minuto di raccoglimento. Prima delle gare, inoltre, verrà diffuso all'interno di ciascun impianto un audio storico che ricorderà le gesta di Rossi al Mondiale del 1982. Sui maxischermi di tutti gli impianti sarà proiettata un'immagine commemorativa del campione e, infine, verrà realizzata una virtualizzazione del cerchio di centrocampo che riporterà una sua immagine.
Vicentini in fila per rendere omaggio. Vicenza era stata eletta da Paolo Rossi come la sua "seconda casa" e il sindaco Francesco Rucco ha proclamato il lutto cittadino fino a domani, con bandiere a mezz'asta nei palazzi comunali. Proprio Rucco aveva consegnato lo scorso il 18 febbraio la cittadinanza onoraria a Pablito, primo sportivo nella storia a ottenerla. Il sindaco ha confermato oggi l'intenzione di dedicare in tempi brevi all'ex campione una parte dello stadio (già intitolato a Romeo Menti, morto nella strage di Superga) o la via in cui si trova l'impianto, via dello Stadio. All'esterno del Menti, quando mancava ancora un'ora all'apertura della camera ardente, sono arrivate tantissime persone. La bara, di noce chiaro, è stata sistemata all'uscita degli spogliatoi, sotto la tribuna centrale. E' riparata da una struttura metallica di color nero, alta circa 3 metri, con quattro grandi mazzi di fiori, bianco e Rossi, adagiati a terra all'altezza dei sostegni. Inoltre, decine di cartelli e striscioni con la scritta "ROSSI GOL" sono stati esposti alle finestre e sui terrazzi della città veneta. Lutto cittadino anche a Prato, città natale di Rossi. "Invito tutti i pratesi a ricordare Paolo Rossi mettendo sui propri balconi e alle proprie finestre una bandiera italiana, esattamente come in quella splendida estate", ha proposto il sindaco Matteo Biffoni. Sempre il Comune di Prato si appresterebbe a valutare la possibilità di intitolare a quest'ultimo il proprio stadio, che attualmente porta il nome di Lungobisenzio. L'idea è già partita da alcuni consiglieri comunali pratesi e deve ora seguire un iter politico che non dovrebbe conoscere ostacoli ma che prevede alcuni giorni perché diventi ufficiale. A Perugia due monumenti-simbolo della città, la Torre degli Sciri e la Fontana Maggiore, saranno illuminati di rosso, in ricordo di Pablito.
Prandelli: "Un amico, non lo accetto"
"Per me è un amico, un amico sincero: non riesco a trovare le parole, non l'ho ancora accettato" ha detto Cesare Prandelli. Il tecnico della Fiorentina è andato a Vicenza alla camera ardente: "E' la testimonianza di come ha vissuto Paolo la propria professione, la gente viene a salutare Paolo non il calciatore. E' riuscito come pochi al mondo a riprendersi da momenti sempre difficili ricordando i valori dell'amicizia. Non è mai stato un personaggio, lo è diventato perché nel calcio ha fatto quello che ha fatto. Come persona è sempre stato di grande umanità e sensibilità".
Malagò: "Bella idea dedicargli la classifica cannonieri". E' partita inoltre in queste ore l'idea di dedicare a Paolo Rossi il titolo di capocannoniere della Serie A. "E' una bella idea", ha detto il presidente del Coni, Giovanni Malagò. "È un diritto che devono esercitare la Figc e la Lega Serie A. Non mi permetto di prevaricare ma mi sembra che l'idea sia straordinaria - ha commentato Malagò -. Abbiamo il dovere di ricordarlo: è stato lui, con un lavoro di squadra in un meraviglioso gruppo e con un grande allenatore, che ci ha permesso di battere le leggende del calcio e di farci salire sul tetto del mondo, e di renderci, una delle poche volte, orgogliosi e uniti, un unico Paese. Purtroppo la storia dell'Italia non è stata spesso caratterizzata da situazioni analoghe. Il merito di Paolo Rossi, non solo per quel motivo, va molto, molto oltre le gesta sportive".
Francesco Persili per Dagospia il 12 dicembre 2020. “Paolo Rossi era un uomo che univa. Non a caso è un simbolo della Nazionale. Ironico, dolce, perbene. Era un leader con il sorriso, oggi non ce ne sono più”. Marco Lollobrigida si fa portavoce del “grande dolore” di Raisport per la scomparsa di Pablito e si commuove nel ricordare viaggi a Sarajevo, cene, partite della Nazionale commentate con Rossi. “Non aveva l’insofferenza delle prime donne, era sempre disponibile con tutti. Non si risparmiava con quelli che gli chiedevano autografi, foto, video. A un ragazzo che gli chiese che valore avesse la maglia azzurra, rispose da innamorato della Nazionale: “Ho vissuto un sogno. Indossare la maglia azzurra è la cosa più bella che può capitare a uno sportivo. Sono stato un privilegiato. Ancora oggi quando la indosso mi sento come riparato…”. Un sentimento di gratitudine immenso nei confronti di Bearzot: “Lo considerava un papà”. Lo aveva aspettato dopo la squalifica di due anni per il calcioscommesse, lo aveva protetto e imposto a dispetto di chi voleva a tutti costi la convocazione di Pruzzo. Paolo sentiva la responsabilità per quello che il ct aveva fatto per lui e doveva ripagarlo”. La stampa parlò di fughe al casinò, notti con majorette, si inventò una presunta love story tra Rossi e Cabrini. E lui si fece una risata. “Io e Cabrini stavamo insieme ma per fortuna io facevo la parte dell’uomo”. “Se c’era una polemica la stemperava con una battuta. Sapeva fare gruppo”. Uno dei suoi più grandi amici, Marco Tardelli, lo saluta con le parole di Francesco De Gregori: “sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Ha sofferto delle ingiustizie, si è beccato una squalifica da innocente, è diventato un capro espiatorio, l’Enzo Tortora del calcio italiano. “Ma non aveva nessuna amarezza, ha avuto una carriera breve ma ha vinto tutto quello che poteva vincere. Forse è rimasto dispiaciuto della coppa campioni dell’Heysel…”
Da corrieredellosport.it il 12 dicembre 2020. Sono ore di cordoglio per la famiglia di Paolo Rossi, tra i messaggi degli ex compagni e colleghi ci sono quelli strazianti di Paola Ferrari. La conduttrice Rai, via Twitter, ha espresso la sua tristezza per la scomparsa dell'amico e collega con tre messaggi, il primo è stato quello più forte: "Voglio morire anche io con lui #paolorossi". Poi, altra dedica: "Il mio cuore si ferma con il tuo. Sei e sempre sarai la persona più bella vera semplice sincera che ho abbia mai avuto al mio fianco #paolorossi #amico #vita". Infine, un messaggio sui momenti passati insieme: "Questa notte non si può dormire. Eri un uomo meraviglioso. Mi parlavi sempre della tua famiglia ,della sorpresa che ti aveva emozionato di tua moglie alle Maldive, delle colline del Chianti e di come eri felice .#unico #campiondelmondo".
Paolo Rossi, Matarrese: «Unico, splendida persona». «Un campione “strano”, nel senso che non ha mai fatto pesare il suo nome. E comunque un fuoriclasse, anche nella vita». Fabrizio Nitti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Dicembre 2020. «Unico». È l’aggettivo che Antonio Matarrese appiccica a Paolo Rossi. «Un campione “strano”, nel senso che non ha mai fatto pesare il suo nome. E comunque un fuoriclasse, anche nella vita. Troppi dolori in questo 2020, troppi. E due grandi giocatori andati via, scomparsi all’improvviso. Di Maradona si è detto tutto... Quello di Rossi, però, lo avverto come un lutto “famigliare”. Era una persona squisita». Antonio Matarrese nella sua trentennale esperienza calcistica ha ovviamente avuto modo di conoscere da vicino anche Paolo Rossi. Anche se l’impatto non fu proprio dei migliori. Quell’impatto oggi è diventato tema di risate e rimpianti. «Io questi azzurri li prenderei a calci nel sedere». Se la ricorda questa frase dettata durante i Mondiali del 1982? Accadde il finimondo. «E certo (ride, ndr). Ero appena stato eletto alla presidenza della Lega. I primi risultati di quell’Italia non furono proprio esaltanti. Diciamo che quelle mie parole contribuirono alla rincorsa verso il titolo?. Da quel momento gli Azzurri si scatenarono. E pure Rossi. Pensate che in quei giorni, a causa anche di altre e più roventi polemiche, perfino il presidente federale Sordillo chiedeva il permesso al capo delegazione De Gaudio per salutare la squadra. Bearzot coprì a puntino i suoi uomini. Altra scelta azzeccata». Insomma, meno male che nessuno li prese a calci. Quelli furono i Mondiali di «Pablito». E di una vittoria nel nome di Paolo Rossi. «Non lo conoscevo di persona, all’epoca. Ma dalle mie mani “passavano” tutti gli incartamenti dei giocatori della A. Bearzot fece bene a portarlo in Spagna, nonostante la situazione complicata che si era creata per le vicende post calcio scommesse. Il cittì forzò la mano ed ebbe ragione. Era una squadra di campioni. Ma lui, Rossi, cercava di non farsi notare. Rimaneva quasi in disparte. Poi, quando vinsero il titolo, mi si avvicinò dicendomi: “Presidente, io sono Rossi. Ora mi darà un po’ di considerazione?”. Ma nelle sue parole non c’era spirito di rivalsa, anzi. Leggevo in quella frase, invece, una voglia di protezione e tanta semplicità Nacque un rapporto stupendo e simpatico, andato avanti nel corso degli anni».
Omaggio del Vicenza a Paolo Rossi: tutti i calciatori con la maglia numero 9. Notizie.it il 12/12/2020. Il Vicenza ha reso omaggio a Paolo Rossi nel giorno dei suoi funerali: tutti i calciatori in campo hanno indossato la leggendaria maglia numero 9. I calciatori del Vicenza, impegnati in una partita contro il Pescara, hanno deciso di onorare il leggendario Paolo Rossi indossando tutti la maglia numero 9. La partita Pescara-Vicenza si è tenuta alle ore 16:00 di sabato 12 dicembre e ha visto trionfare la squadra veneta con un punteggio di 2-3. L’incontro si è tenuto nello stesso giorno in cui sono state celebrate le esequie di Paolo Rossi, deceduto a causa di un tumore ai polmoni il 9 dicembre. Per l’occasione, i giocatori del Vicenza allenati da Mimmo Di Carlo hanno omaggiato l’attaccante scomparso scendendo in campo, nel pre-partita, con la casacca numero 9 e il cognome ‘Rossi’ stampato sulle spalle. Il gesto è stato accompagnato anche dal saluto «Ciao Paolo. Per sempre con noi…». La commozione dei presenti allo Stadio Adriatico di Pescara, poi, ha raggiunto l’apice durante il minuto di raccoglimento celebrato in onore dell’ex-calciatore, prima del fischio d’inizio. Il Vicenza ha ricordato Paolo Rossi anche facendo realizzare una fascia da capitano appositamente personalizza. Paolo Rossi ha giocato nel Vicenza per tre stagioni, dal 1976 al 1979, segnando 60 in 94 presenze e vincendo un campionato di Serie B. Innegabile, quindi, il fortissimo legame tra l’ex-calciatore e la squadra veneta. Da allora, la carriera da attaccante è apparsa in costante ascesa e costellata di successi che lo hanno consacrato come una delle leggende del calcio italiano.
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 13 dicembre 2020. Oggi abbiamo finalmente capito perché l' Italia vinse il Mondiale del 1982. L' immagine straziante di Marco Tardelli e Antonio Cabrini, invecchiati e addolorati, che portano la bara di Paolo Rossi; il racconto di calciatori che non erano mai stati suoi compagni in un club, e ai quali lui aveva tolto il posto in Nazionale, come Ciccio Graziani e Sandro Altobelli; le parole di campioni venuti dopo, da Paolo Maldini - «era il mio eroe» - a Roberto Baggio: «Rossi ha regalato il Mondiale agli italiani, cosa che non è riuscita a me». Tutti dicono in sostanza la stessa cosa: quella del 1982 era una vera squadra; ed era un gruppo di amici. (Chiunque abbia visto come si comportava qualche convocato al ritiro brasiliano del 2014, avrebbe potuto facilmente dedurne che l' Italia non avrebbe vinto i Mondiali). La rivalità fa parte dello sport. In uno sport di squadra come il calcio, la rivalità di solito divide, soprattutto quando non c' è un leader riconosciuto; ma a volte può unire. L' Italia del 1982 si unì dietro due friulani silenziosi, Enzo Bearzot e Dino Zoff. Aveva, come da tradizione, una difesa formidabile; ma poi serviva qualcuno che la mettesse dentro. Non a caso, ieri campioni meravigliosi come Fulvio Collovati e Beppe Bergomi l' hanno ripetuto: «Paolo Rossi ci ha fatto vincere il Mondiale». Si è parlato molto più di Maradona, è vero. Perché Maradona, calciatore immenso, è stato un uomo divisivo, amato e odiato, benedetto e maledetto. Odiare Paolo Rossi era impossibile, forse persino per il tassista brasiliano che lo lasciò a piedi. Ogni italiano si è sentito chiamare con il suo nome - paolorossi - almeno una volta nella vita, in molti Paesi e per molti estati. Per questo, se è vero che a ogni funerale ognuno piange anche la propria morte, al funerale di Paolo Rossi non solo i ragazzi dell' 82, ma pure noi abbiamo perso qualcuno e qualcosa: una persona cara, e una parte di noi stessi.
GIUSEPPE ALBERTO FALCI per ilquotidianodelsud.it il 12 dicembre 2020. Un destino tricolore quello di Paolo Rossi. Nella Nazionale, si sa. Ma il suo impegno in Alleanza nazionale – candidato alle Europee nelle liste di Gianfranco Fini – passa quasi sotto silenzio. Nessuno ne parla in queste ore di amarcord del «ragazzo come noi». Corre l’anno 1999, il centrosinistra è al governo con il primo esecutivo a guida Massimo D’Alema, il centrodestra di Silvio Berlusconi studia come ritornare a Palazzo Chigi ma deve cimentarsi alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Nel frattempo gli eredi del Movimento sociale italiano capitanati da Gianfranco Fini, leader di Alleanza nazionale e alleato del Cavaliere, si cimentano nell’esperienza non proprio felice dell’Elefantino: una lista unica assieme al Patto Segni con un esplicito richiamo al partito repubblicano statunitense, sul cui modello Fini e Segni avrebbero voluto investire per far nascere in Italia un grande partito liberale di centrodestra. Ecco, proprio in quei giorni nasce la candidatura di un certo paolorossi tutto attaccato, il capo cannoniere del Mundial di Spagna del ‘82, l’autore della celebre tripletta al Brasile di Falcao, il centravanti di Vicenza, Juventus, Milan e Verona. Gastone Parigi, europarlamentare e dirigente pordenonese di An, si mette in testa che ci sarebbe voluto un bomber di razza, per di più campione del mondo, per sbancare nella circoscrizione del Nord-Est. Il primo pensiero di Parigi è: «Qui ci vuole Pablito». E Pablito si tuffa come se dovesse colpire una palla di testa nell’area piccola di rigore. Gastone incontra Paolo e poi entrambi si recano da Gianfranco Fini. Dalle parti di An si leva subito un’esultanza da curva. Perché Paolo Rossi è un eroe nazionale, riconosciuto dal mondo intero per le sue gesta calcistiche, per la sua acclarata moderazione. Mai un’uscita fuori luogo, sempre elegante, sempre sincero, sempre puntuale. Ammette l’ex segretario di An: «Per noi fu un orgoglio anche perché la sua candidatura è nata in prima luogo da una certa simpatia nei nostri confronti». Ricorda ancora Fini: « Era una persona simpatica, intelligente, equilibrata. Fu una sorpresa per tutti noi e si fece ben volere». Un altro protagonista di quella stagione, come Ignazio La Russa, racconta con un filo di malizia che «si è rivelato un signore anche in quella circostanza». Perché? «Perché se candidi Pablito devi lottare per farlo eleggere. Ebbe tanti voti ma ce ne sarebbero voluti di più per farsi eleggere. Tuttavia non si trova una sua dichiarazione del tipo: “Ho commesso un errore a candidarmi”. Un signore in campo e fuori. Punto». Il legame con il partito di via della Scrofa rimane anche negli anni a seguire ma sempre con il garbo e con il distacco del signor Paolo Rossi. Eppure c’è un dettaglio che più di ogni altro rivela la grandezza del «ragazzo come noi»: «Se avessimo candidato chiunque altro – osservano da via della Scrofa – sarebbe stato tacciato di fascismo. Ma nel caso di Paolo non fu possibile perché Paolo era un mito».
Da sport.virgilio.it il 12 dicembre 2020. Roberto Baggio omaggia Paolo Rossi con una lettera pubblicata dalla Gazzetta dello Sport. Più che il calciatore, da questa struggente lettera emerge il lato umano, esaltandone il mito che resterà immortale nella memoria di tutti quelli che hanno vissuto quei momenti speciali. “Il mio risveglio un’altra mazzata. Un grande pilastro del calcio italiano ci saluta. Paolo, PABLITO, PAOLO ROSSI, quasi si dovesse sempre chiamare con nome e cognome: lui non era Rossi, lui e, e sempre sarà, PAOLO ROSSI. Tornano in superficie i dolci ricordi di quando avevo 10 anni, conservati per decenni in uno dei tanti album della mia memoria. Oggi, grazie a Pablito, sfoglio quell’album e tornano a farsi sentire il freddo pungente e la dura canna della bicicletta. Con il mio adorato papa Fiorindo, mancato solo qualche mese fa, percorrevamo quasi 12 chilometri, in due su una bicicletta, per arrivare a Vicenza partendo da Caldogno. Per andare allo stadio Menti a vedere il grande Paolo Rossi. Poi, per tutta la partita, mi aggrappavo alla rete per vederlo giocare e segnare. Erano gli anni dell’Austerity e delle targhe alterne. Erano gli anni in cui cullavo i miei sogni. Pensavo che un giorno avrei anche io giocato in quello stadio, che avrei indossato quella maglia bellissima con la grande R sul petto. Imitando Paolo Rossi avrei potuto realizzare quanto lui e riuscito a realizzare. Vincere un campionato del mondo in finale contro il Brasile. Come Paolo Rossi ha fatto contro la Germania . Vincere il Pallone d’oro. Come Paolo Rossi. Vincere sulla sofferenza di ginocchia doloranti. Come Paolo Rossi. Vincere in un mondo che ha sempre più bisogno del sorriso di Paolo Rossi. Un meraviglioso viaggio in Cina recentemente ci ha fatto rincontrare. Abbiamo parlato a lungo su quanto avessimo vissuto in comune, e su quanto si sarebbe dovuto fare per un futuro migliore. Soprattutto nel calcio. Oggi Paolo e volato in cielo lasciandoci tutto quello che il calcio di buono sa offrire. Paolo ha regalato un sogno a milioni di italiani, cosa che a me non e riuscita. Oggi comprendere il mistero della vita, e dare un perchè alle cose che ci accadono, non e mai semplice. Cosi, come il vuoto che lascia Paolo nel cuore di sua moglie e dei suoi tre figli a cui va il mio pensiero e la mia comprensione. Ciao Paolo, chissà se infilerai le tue scarpette da calcio quando sarai in cielo. Spero di si, spero che il tuo sorriso arrivi anche li. Noi qui lo ricorderemo a lungo. Buon viaggio Paolo , nell’eterno cielo della luce tranquilla”.
Funerali Paolo Rossi, le lacrime di Roberto Baggio. Notizie.it il 12/12/2020. Nel Duomo di Santa Maria Annunciata a Vicenza è stato dato questa mattina, 12 dicembre, l’ultimo saluto a Paolo Rossi, il campione di Spagna ’82, l’attaccante dei gol al Brasile che ha fatto gioire una nazione intera. Ai funerali di Pablito, così come era stato soprannominato proprio durante quel Mondiale, erano presenti molti dei suoi ex compagni di nazionale e dei vari club in cui ha giocato. Circa 300 persone, radunatesi nel rispetto delle attuali norme anti covid. Tra loro c’era anche Roberto Baggio, in lacrime per la scomparsa di un grande campione del calcio. Paolo Rossi e Baggio hanno in comune molte cose: l’amore per il calcio, l’istinto del gol e il Vicenza, punto di partenza della carriera di entrambi. Per il Divin codino la maglia bianco rossa del settore giovanile era arrivata nel 1980, Rossi invece più o meno in quel periodo andava via, direzione Perugia. Molti anche i messaggi d’amore da parte di altri campioni del mondo dell”82, come quello di Cabrini che ha così ricordato Pablito: “Non ho perso solo un compagno di squadra ma un amico e un fratello. Insieme abbiamo combattuto, vinto e a volte perso, sempre rialzandoci anche davanti alle delusioni”. Dopo i funerali, la salma sarà cremata per poi essere riportata a Bucine, in provincia di Arezzo, per volontà della famiglia. In Val d’Ambra Rossi riposerà vicino alla moglie e alle figlie.
Funerale Paolo Rossi, Cabrini: “Perdo un amico e un fratello”. Notizie.it il 12/12/2020. Si sono tenuti questa mattina, 12 dicembre, nel Duomo di Vicenza i funerali di Paolo Rossi, il campione di Spagna ’82 che con i suoi famosi gol permise alla rappresentativa italiana di portare in patria la Coppa del Mondo. Alla cerimonia, riservata a pochi intimi per via delle normative anti contagio, erano presenti molti ex compagni di squadra di Pablito, tutti visibilmente commossi dall’ultimo saluto. A portare in spalla il feretro di Paolo Rossi c’erano alcuni suoi ex compagni del Mondiale del 1982: Tardelli, Cabrini, Antognoni, Collovati, Altobelli, Causio, Oriali, Dossena, Massaro, Bergomi, Franco Baresi e Galli. Ad accompagnare il loro cammino il coro delle persone che da lontano gridano “Paolo, Paolo…”. Molte anche le dichiarazioni da parte dei suoi ex compagni di squadra rilasciate prima della cerimonia, tra queste quelle commosse di Antonio Cabrini. “Non ho perso solo un compagno di squadra – ha detto Cabrini – ma un amico e un fratello. Insieme abbiamo combattuto, vinto e a volte perso, sempre rialzandoci anche davanti alle delusioni. Siamo stati parte di un gruppo, quel gruppo, il nostro gruppo. Non pensavo ti saresti allontanato così presto, ma che avremmo camminato ancora tanto insieme”. “Già mi manchi – continua l’ex Juve – le tue parole di conforto, le tue battute e i tuoi stupidi scherzi. Le tue improvvisate e il tuo sorriso. Mi manca proprio tutto di te, oggi voglio ringraziarti perché se sono quello che sono lo devo anche al meraviglioso amico che sei stato. Io non ti lascerò mai, ma tu stai vicino a tutti noi, come io starò vicino a Federica e ai tuoi figli. Ma tu – conclude – resta vicino a me”.
Dagospia il 13 dicembre 2020. Da “Campioni del Mondo – Radio 2”. Grazie Paolo per avermi insegnato ad amare, nella semplicità della quotidianità, del dolore e della sofferenza. Grazie di avermi dato due figlie speciali, di avermi reso migliore. Il tuo amore mi aiuterà a sopravvivere e a crescere al meglio le nostre Maria Vittoria e Sofia Elena. Francesco Persili per Dagospia il 13 dicembre 2020. “Tardelli grande amatore, Cabrini bello, lui Paolo Rossi. Pensate la fatica che facevo io con le donne…”. Il bon vivant Domenico Marocchino ricorda a “Campioni del mondo” su Radio 2 l’amico Paolino, compagno di squadra ai tempi della Juve e prima ancora nelle giovanili bianconere. “Quando l’ho visto giocare nella prima partita ho pensato di smettere. Faceva delle cose stratosferiche. Non aveva un fisicaccio, veniva un po’ sottovalutato. In campo era scaltro, rapido, sembrava che non facesse fatica. Leggero come una piuma, una di quelle che ti entra nel naso e ti manda in tilt”. Avrà avuto anche qualche difetto. “A scopa era scarso. Aveva un po’ il braccino al ristorante ma era una persona indimenticabile anche fuori dal campo. Aveva delle affinità a livello comportamentale con Scirea, che non era un musone. Dino Zoff era il papà di tutti, io ero il figlio un po’ cattivello…”. “No, il papà in ambito Nazionale era Bearzot”, lo corregge Zoff, il capitano della Nazionale del 1982. “Rossi? In campo era l’uomo giusto al momento giusto. Faceva le cose che andavano fatte. La serenità, la freschezza di favella, i toni sempre adeguati”. Un altro mondo. “Adesso si vive tutto con esagerazione. Appena c’è uno scontro, si va per terra. il calcio è uno sport di contatto ma il Var ha condizionato tutto e tutti ne approfittano. Per me sono cose insopportabili”. Ciccio Graziani ripercorre la cavalcata del Mundial e l’intervista che Paolo Rossi gli fece sull’aereo che riportava in Italia gli azzurri dopo la conquista della Coppa del mondo. Pablito si sentiva come “il primo uomo sulla luna”, il bomber di Subiaco sente ancora addosso l’entusiasmo di quei momenti: “Non avevo rivincite particolari, quella vittoria mi aveva ripagato dei tanti sacrifici che avevo fatto per il mondiale del 1978 che non era andato come avrei voluto. Abbiamo vissuto un’avventura meravigliosa in Spagna. Italia-Brasile non fu solo la tripletta di Rossi ma anche il miracolo di Zoff. “Fece la parata della vita. Oscar, il difensore centrale lo dovevo marcare io, Cerezo mi fece un blocco, e io lo persi. Meno male che c’era San Dino…”
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 12 dicembre 2020. Per capire ma anche per farmi un po’ male, sono andato a riascoltare la sua voce registrata della nostra ultima telefonata, esattamente un anno fa, 12 dicembre 2019, 9 e 41 del m attino. 81 minuti e 13 secondi di amabile conversazione, pretesto l’uscita in libreria della sua biografia, Quanto dura un attimo (Ed. Mondadori), scritta per e con la moglie Federica (“Senza di lei non l’avrei mai fatta”). Lui nella sua fattoria in compagnia dei suoi animali, cani, pony, oche e galline. Come fosse una seduta spiritica. Ho ascoltato e ho capito. Ho capito che non bastava. Che bisognava tornarci sopra, che il caso “Paolino Rossi” non lo potevi liquidare con la doverosa eruzione del giorno dopo, di una o cento pagine. Funziona così con i morti di successo, i coccodrilli sono spesso già apparecchiati, si va giù a tavoletta con le iperboli, ma la voglia dentro è quella di andare oltre. I vivi hanno fretta di tornare alla vita. La morte di Maradona è stata sconvolgente, un brivido in tutto il pianeta, quella di Paolo Rossi cova un confessabile segreto. Basta saperlo spiare. La sua vera grandezza. Detesto la parola umiltà. Sa di superbia. Paolino non era umile, era innocente. Inverosimilmente, scandalosamente innocente. Nell’Italia di oggi, uno come lui era un freak. Un’anomalia socialmente riprovevole. Uno fuori dall’andazzo. In un Paese dominato dallo schiamazzo del vacuo. Delle ideologie divise in bande, prima e della vanità infondata sul vano, dopo. Nullità bercianti che ammazzerebbero Woody Allen, e in qualche caso ci hanno provato, per meno di un quarto d’ora di celebrità. Paolino era come l’amico Gaetano, altro esclamativo campione del mondo, Scirea. Paolino e Gaetano non hanno mai esibito nulla di esclamativo, nemmeno quando alzavano la coppa in mondovisione. Nemmeno quando sono morti e nemmeno quando la morte è stata atroce. Uno, Paolino, che poteva andare a morire solo con la sua amata donna, i suoi adorati figli, i cani, i cavalli, le oche e le galline. Lo ascolto. Ascolto la sua voce soave, la conoscete tutti, i corpi se ne vanno, le voci restano. Sono ovunque, nella testa, nei muri e nelle cose. La voce di Paolino non ha quasi corpo, non ha testosterone, è la voce da cherubino che trovi nei cori implumi delle parrocchie di provincia. Una voce mai scontrosa, mai minacciosa, mai urlante, mai maligna e mai allusiva, a volte pigra o reticente, sì, a volte banale. Era una voce che non usava mai le parole e nemmeno i silenzi per far male, era una voce da cui non ti dovevi mai difendere. La bellezza di Paolino era la sua totale assenza di ego. Tatuato solo dal dono di un’elementare disposizione al dovere. Con quel suo cognome così genialmente qualunque, Paolino ha sempre fatto quello che doveva. Mai farsi domande, senza mai protestare o lamentarsi, senza iscriversi a nessun partito, meno che mai a quello della vanità. Che fosse il chierichetto, il calciatore, il padre, il compagno, l’amico, l’opinionista o il contadino. Che fosse il morente, anche quando il tumore gli mangiava le ossa. Lui era sempre Paolino. Gli davano i compiti e lui eseguiva. Senza menischi e senza padrini. Quando si trattava di portare il feretro di Bearzot, lui, insieme a Zoff, Tardelli, Bruno Conti e gli altri, di quello che era stato il suo padre putativo. Paolino non aveva bisogno di essere un pazzo o un disperato per essere un samurai. Di italiani come Paolino ne trovi a migliaia. I tanti samurai che stanno anonimi dietro quelle finestre, sotterrati nella corvée del giorno dopo giorno, a fare le cose che vanno fatte. Testardi senza gloria. La grandezza di Paolino, il segreto che si è portato chi sa dove, non erano i tre gol al Brasile, ma i tre menischi infranti, quando stava appena nascendo come calciatore e la storia sembrava già finita. Ricominciare da zero, mesi di calvario, ma senza croci e senza bestemmie, senza darsi addosso per tanta zella. Non so se lui ha letto Borges, ma certo Borges ha letto lui e tutti quelli come lui quando scriveva che “un destino non è migliore di altri, ma ognuno deve compiere quello che porta in sé”. Paolino portava in sé il senso naturale del dovere, delle cose che andavano fatte. Che si tratti di diventare campione del mondo o raccogliere la cacca di Bleki, il suo cagnolino. Con la stessa enfasi. Zero. Paolino non ha fatto altro. Come il soldatino di piombo, claudicante, senza una gamba e a volte spaventato, ma senza mai arretrare. Ascolto questa sua voce così gentile. Quando ti dice quello che ti deve dire e quando ride perché c’è da ridere. L’uomo senza ginocchia. L’uomo squalificato perché troppo avulso dalla mischia. Defilato, non per abulia, ma per difetto di strategia. Perché Paolino non ha la più pallida idea di essere quello che è. Non l’ha mai avuta, anche quando subiva lo stalking dei titoli e delle lusinghe. Su uno come Paolino forse non scrivi un romanzo epico, ma certo una magnifica storia.
Da Corriere.it il 12 dicembre 2020. Già venerdì 11 dicembre erano migliaia i fan e i cittadini in coda, allo stadio Menti di Vicenza, a rendere omaggio al grande Pablito, il campione che ha fatto sognare l’Italia ai Mondiali dell’82. I funerali di Paolo Rossi, morto dopo una lunga malattia il 10 dicembre, si tengono oggi 12 dicembre. Ad accompagnarlo, verso la Cattedrale della città, tanti cartelloni di ricordo alle finestre, sui balconi e sugli alberi. Ma anche i tanti compagni di squadra del campione e non solo. Il mondo del calcio si è raccolto per dirgli addio. A Vicenza come negli stadi. Tutta la serie A gli dedicherà un minuto di silenzio. «Paolo, Paolo, Paolo». Così i suoi tifosi hanno accolto l’arrivo del feretro di Paolo Rossi, portato a spalla dai suoi ex compagni della nazionale vincitrice dei Mondiali dell’ 82 in Spagna, entrato nel duomo. Il presidente della Figc, Gravina, ha appoggiato sopra la bara una maglia azzurra della nazionale italiana con il numero 20. I funerali sono iniziati alle 10.30. Poco prima, alcuni degli ex calciatori presenti hanno raccontato ai microfoni dei cronisti il loro ricordo di Paolo Rossi.
Il ricordo di Altobelli. L’altra sera quando la moglie ci ha mandato il messaggio dicendo che Paolo se ne era andato con lei che lo ha accompagnato stringendogli la mano ho invidiato quel momento, avrei voluto essere lì anche io ad accompagnarlo», ha detto Alessandro Altobelli, ex attaccante dell’Italia e compagno di squadra nella vittoria al Mondiale del 1982 a Sky. «La nostra è una chat dove parliamo, siccome era un periodo che non rispondeva più ho provato a mettere delle foto per farlo intervenire. Visto che non interveniva ho provato a capire cosa fosse successo e invece Marco (Tardelli, ndr) mi ha detto che sarebbe presto tornato. Poi avevamo sentito delle voci ma speravamo non fossero vero, ma purtroppo erano vere», ha aggiunto l’ex calciatore. «Con Paolo siamo stati insieme in Nazionale fino all’86’. Lui era molto più forte di me. Io in allenamento ho sempre cercato di copiare qualcosa, anche se era molto difficile perché aveva qualità naturali ed era difficile. Lui era sempre nel posto giusto nel momento giusto».
Il ricordo di Collovati. Si aggiunge poi il ricordo di un commosso Fulvio Collovati, anche lui eroe azzurro del mondiale del 1982. «Se ne è andato con dignità, voleva essere il Paolo Rossi che ho sempre visto, sempre sorridente. Noi siamo andati al Mondiale come l’armata brancaleone, Paolo arrivò dopo due anni di inattività. Era deriso da tutti, il suo riscatto e la sua rivincita hanno coinciso con la nostra rivincita. Io se sono campione del mondo lo devo a lui».
Maldini: «Per me un eroe, un esempio e un compagno». «Per me è stato tante cose: un eroe da 14enne quando ha vinto i Mondiali con mio papà che faceva parte di quella spedizione, un compagno di squadra al Milan che mi ha dato tanti consigli», ha detto Paolo Maldini, direttore tecnico ed ex bandiera del Milan e della Nazionale, appena prima dei funerali. «Per tutti gli italiani era un mito, un supercampione conosciuto in tutto il mondo, ma era una persona normale. Mi rimarrà sempre in mente la sua leggerezza, senza sentirsi una star. È stato di grande esempio», ha aggiunto. «Di lui parlano i numeri, ci dimentichiamo la sua grandezza: ha vinto un Mondiale, il Pallone d’oro e il titolo di capocannoniere. Questo già basta», ha concluso.
Emanuela Audisio per la Repubblica il 13 dicembre 2020. È stato l' addio a un uomo felice. Non solo a un grande giocatore e a un campione. Il primo della generazione '82 (a parte Scirea) a fare i conti con il tempo e la malattia. Paolorossi se n' è andato sulle spalle dei suoi compagni, ormai quasi tutti uguali, con i capelli bianchi, sopra la mascherina e sotto i corpi di un calcio antico, ma ancora vincente per dignità e rispetto. Con i fiori del figlio e della moglie, con le rose delle sue ragazze. E con l' affetto di una famiglia allargata, fatta di persone e di calciatori, con la disperazione del fratello, con il dolore di tutti. Bearzot dieci anni fa era stato l' addio al patriarca, Rossi al figlio più importante, scomparso troppo presto. C' è stata compostezza, umiltà (bara a terra), nessuna pomposità. Tutti si sono inginocchiati, per sentirlo ancora vicino, anche le sue bambine Maria Vittoria e Sofia Elena, e anche Alessandro, ormai il suo ex ragazzo, che è andato a consolarle. Verrebbe da dire: guardatelo questo addio per capire cos' è lo sport, un gioco di squadra come la vita, per decifrare cos' è stato il calcio e quella Nazionale, una famiglia dove ci si aiuta, per comprendere come si possano costruire affetti, innamorarsi, separarsi, risposarsi, senza perdere il sentimento di un viaggio comune. E come allora fosse possibile, con un fisico scarno, partire da una parrocchia per arrivare in cima al mondo. Anche nel giorno del suo addio Paolorossi ha vinto: molta delicatezza, poca retorica, la sua maglia azzurra numero 20 e la sciarpa del Lanerossi Vicenza, l' Italia e la provincia. E non uno dei suoi compagni che dica una parola di più. Forse perché capiscono che con Paolo, sempre veloce nel rubare il tempo, se ne va il primo di loro, quello di una generazione con i calzoncini corti e con le maglie che non si allungavano. Non un divo, ma un eroe discreto del quotidiano. Rossi non seminava palloni ma piuttosto la terra: il suo futuro l' aveva costruito in un pezzo di Toscana, tra vigne e ulivi. E molta di quella sincerità c' era in chiesa: occhi gonfi, come il cuore, volti segnati, tanta condivisione. È vero quello che dice Nabokov, che nel proprio passato ci si sente sempre a casa. E loro, quelli dell' 82, c' erano quasi tutti: Cabrini, Tardelli, Conti, Gentile, Antognoni, Bergomi, Oriali, Collovati, Massaro, Marini, Dossena, Galli. E anche la generazione dopo: Galderisi, Baggio, Baresi, Paolo Maldini. Perché certi legami non c' entrano con la marea del tempo, con le vittorie, ma piuttosto con la durezza di certe salite. Che diversità dall' addio a Maradona: lì a Baires c' erano famiglie che litigavano e urlavano su un cadavere, i selfie sciagurati con il morto, figli veri e presunti che reclamavano, risse nella camera ardente, accuse tra le parti, funerale chiuso e frettoloso, senza chiesa, quasi un dribbling per scappare dalla gente, dai tifosi, da un popolo. Diego se n' è andato da privato cittadino, perché così hanno voluto ex moglie e figlie, in quel momento doveva essere finalmente solo loro. Federica, la seconda e ultima moglie di Paolo, è stata più generosa: ha preferito che Rossi fosse di tutti. Come sempre. Perché sa che a lei e alle figlie ne resterà comunque tanto. Non c' erano isterie, né riscatti o orgogli da lucidare. Paolo s e n' è andato tra molto amore che in questi tempi di odio facile e di offese volgari vale molto. Senza perdere la magia. E rendendo dopo 38 anni ancora bella l' Italia.
Paolo Rossi e l'amico giovanissimo, "sapete chi sono questi due ragazzini?". Il dramma dietro questa foto straziante. Libero Quotidiano il 14 dicembre 2020. Una foto commovente, due destini incrociati. Paolo Rossi da una parte, morto a 64 la scorsa settimana. Dall'altra un volto amatissimo del cinema italiano, Francesco Nuti. Entrambi giovanissimi, in tenuta da calciatori Andrea Scanzi del Fatto quotidiano ripercorre sui social la loro storia parallela: "Entrambi di Prato. Francesco ha un anno in più. Prima di un provino a Coverciano, dormono nella stessa stanza. In campo Francesco è centrocampista e Paolo attaccante. Francesco è bravino, ma quando vede giocare Paolo pensa: 'Non sarò mai forte come lui. Meglio che cambi aspirazioni, va'. Passano gli anni e i due si rivedono ogni tanto. Sempre con affetto. Entrambi raggiungono l’apice. Sono due fenomeni. Poi Francesco vive il calvario che sappiamo, e che dura ancora". Pochi sanno che proprio Pablito ha voluto partecipare in prima persona al docufilm su Nuti, da molti anni malato, realizzato due anni fa dal regista Enio Drovandi, "dialogando" a distanza con l'amico d'infanzia. Nel film in uscita, dopo la scena della sforbiciata di Nuti nel celebre Tutta colpa del paradiso la palla arriva a Rossi, che, rivela, Scanzi, per l'occasione ha voluto indossare la stessa maglia numero 20 del Mondiale 1982, quella con cui ha segnato il gol in finale alla Germania. Una dimostrazione di spessore umano e dolcezza incommensurabile. "L’ultimo gol della sua vita - scrive Scanzi -, Paolo l’ha segnato due anni fa. Con quella maglia lì. Su assist di un vecchio amico, che di nome fa Francesco".
Da liberoquotidiano.it il 13 dicembre 2020. Ultimo saluto a Paolo Rossi ieri, sabato 12 dicembre, nel Duomo di Vicenza con 300 persone. «Caro Paolo, da oggi sarai nella Coverciano del cielo per giocare con la Nazionale di lassù», ha detto nell'omelia don Pierangelo Ruaro, delegato dal vescovo. Commovente il ricordo di Antonio Cabrini: «Già mi manchi, le tue parole di conforto, le tue battute e i tuoi stupidi scherzi, il tuo sorriso. Oggi voglio ringraziarti perché se sono quello che sono lo devo anche al meraviglioso amico che sei stato». Al termine dei funerali, con il feretro portato in spalla dai compagni di un tempo tanti applausi e il coro "Pablito Pablito". E però proprio ieri la sua casa di Bucine, nella campagna toscana, è stata svaligiata. Lo ha scoperto la moglie Federica al rientro. Tra gli oggetti mancanti, l'orologio di Rossi, un Rolex a cui era molto legato. Uno sfregio, una bassezza ancor più grave: approfittando dell'assenza della famiglia, i banditi hanno potuto agire indisturbati e mettere a segno il loro colpo. Stando a quanto trapelato sembra che i malviventi abbiano rubato anche gioielli, come detto in particolari degli orologi e non avrebbero toccato dei cimeli sportivi, che si può immaginare siano numerosi on considerazione la strepitosa carriera di Paolo Rossi, che nel 1982 vinse il Mondiale, è stato capocannoniere di quella edizione e conquistò anche in quello stesso anno il Pallone d'Oro. E a verbale vanno messi anche i premi ottenuti singolarmente e quelli che ha vinto con la Juventus, con cui vinse anche la Coppa dei Campioni. Ladri senza onore né pudore, contro i quali si è scagliata la moglie di Paolo Rossi, Federica Cappelletti, che interpellata da QN ha tuonato: "Il furto? Sì, è vero. Ma scusate, non ho neppure la forza di parlare. Non bastava la morte di Paolo, non bastava lo stress di queste giornate massacranti, non bastava il dolore di tutti noi. Hanno voluto infangarlo anche nel giorno in cui tutta Italia piangeva". E ancora: "Non mi importa di quello che hanno rubato. Potrebbero essersi portati via anche 100mila euro e non me ne fregherebbe niente. Ma è il gesto che stordisce". Successivamente, si è appreso che i banditi sarebbero entrati nella villa-agriturismo da una finestra, ritrovata spaccata. All'interno della casa, avrebbero sfasciato tutto, alla ricerca di oggetti da rubare. Anche se, come detto, il bottino non sarebbe stato particolarmente ricco.
Da gazzetta.it il 12 dicembre 2020. Furto in casa dei Paolo Rossi. I ladri pare abbiano agito nel corso del funerale, portando via dall'abitazione di Bucine in provincia di Arezzo alcuni gioielli. Tra questi un orologio appartenente a Rossi. Per fortuna non sono stati rubati gli oggetti più preziosi legati alla carriera dell'ex calciatore. Al rientro da Vicenza nell'agriturismo in Toscana, la moglie Federica ha trovato il caos conseguente a un furto. Sono in corso i rilievi da parte della Polizia scientifica.
Furto a casa di Paolo Rossi durante il funerale: rubati gioielli ma non i suoi cimeli sportivi. Il Corriere della Sera il 13/12/2020. Volevano oro e soldi e soprattutto i trofei di Rossi. Hanno messo a soqquadro l’intera casa, hanno rovistato ovunque provocando anche danni. Non hanno risparmiato neppure la camerette delle figlie di Pablito: Maria Vittoria ha 11 anni, Sofia Elena 8. E alla fine sono scappati con un centinaio di euro e un orologio d’oro dileguandosi nelle campagne aretine. Ad accorgersi del furto è stato un collaboratore della famiglia che ha trovato la finestra forzata e spalancata, si è insospettito e ha telefonato ai carabinieri del comando di Arezzo. Appena la moglie del campione, Federica Cappelletti è tornata a casa, dopo aver assistito al funerale del marito, ha trovato le stanze a soqquadro. Fine a tarda notte si cercava di capire che cosa avessero rubato i banditi e probabilmente solo stamani si riuscirà ad avere un quadro dei danni subiti da una famiglia già duramente provata. Sembra che i trofei e i ricordi di Rossi non siano stati depredati, per fortuna. Oggi la famiglia Rossi sarà a Perugia per la cremazione. «Lo porterò sempre con me», aveva detto la moglie commossa.
Dagonews il 14 dicembre 2020. “Sono stati dei vigliacchi. Non si sono fermati neanche davanti al dolore”. Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, interviene nella trasmissione di Rai2 “A tutta rete” per parlare del furto subito in casa, nella campagna toscana, durante i funerali a Vicenza dell’eroe del Mundial ‘82. “È stato rubato un Rolex a cui Paolo era molto affezionato oltre a una statuetta. Questo mi ha fatto molto male. Ma anche lui diceva che i sentimenti valgono più delle cose materiali. Per fortuna i cimeli sportivi non li hanno rubati perché non erano in casa, li conservavamo da un’altra parte”. Una lunga storia d’amore quella tra Federica e Pablito iniziata nel 2003. La ricorda anche il giornalista ed editore Francesco Bogliari su Facebook: Nell’aprile di quell’anno, Libri Schweiller, di cui ero amministratore delegato pubblicò un libro sulla Juventus (“Razza Juve, 15 uomini che hanno fatto la storia bianconera”) nato su iniziativa di Giancarlo Mazzuca”. Uno degli autori di quel volume era Federica Cappelletti, giornalista de “La Nazione”. In giugno il libro fu presentato a Perugia. Federica e Paolo si conobbero in quell’occasione. Parlando degli ultimi giorni di Rossi, la moglie ha spiegato di aver cercato di “proteggerlo” fino all’ultimo. Sandro Altobelli confessa che gli sarebbe piaciuto “accompagnarlo negli ultimi momenti. “Avrei voluto chiamarvi – risponde Federica - ci ho pensato molto ma per lui sarebbe stato troppo, vedendovi avrebbe capito di essere vicino alla fine”. “Spillo” definisce “inimitabile” Paolino. “Mai nessuno potrà fare quello che ha fatto lui nonostante i problemi alle ginocchia. Gli mancavano tre menischi. Noi gli dicevamo: ma come fai a giocare?” Paolo Rossi, il giocatore di tutti. Si parla dell’idea di intitolargli lo Stadio Olimpico di Roma? La moglie appoggia l’iniziativa. “La maglia azzurra se la sentiva cucita addosso…”
Estratto dell'intervista di MARIA NOVELLA DE LUCA PER LA REPUBBLICA il 14 dicembre 2020. (...)
Federica Cappelletti, cosa vi hanno rubato?
«L'oggetto a cui tenevo di più era l'orologio che Paolo indossava tutti i giorni, per fortuna i trofei ci sono ancora tutti, così le maglie e i ricordi. Ma ci vorrà del tempo per capire davvero cosa ci hanno portato via».
Come si è sentita quando ha saputo del furto?
«Addolorata, sconvolta. Hanno voluto infangare la cerimonia dell'addio di un uomo amato da tutti. Sciacalli del dolore. Ma permetterò a queste miserie di oscurare il fiume d'amore che ha circondato Paolo e noi in questi giorni. Paolo non l'avrebbe voluto. Lui riusciva sempre a sorridere alla vita. Anche durante la malattia».
Eravate tornati da un viaggio alle Maldive con le bambine.
«Sì, a marzo 2020, per festeggiare i nostri dieci anni di matrimonio e i nostri diciotto anni d'amore. Dopo la gioia del viaggio, la scoperta del tumore. Una beffa del destino. Ma sembrava risolvibile. Dicevo sempre: "Paolo, la battaglia contro la malattia è il nostro Mundial, mica possiamo perderlo". Un campionato nostro, di noi due, così come il 1982 era stato la vittoria di tutti gli italiani. Invece la speranza è andata via via spegnendosi».
(...)
Ci saranno stadi, ma anche vie e piazze intitolate a suo marito.
«È vero, ed è bellissimo. Ci sono proposte da Prato, Vicenza, per il settore giovanile dello stadio di Perugia. E intitoleranno a Paolo il premio per il miglior capocannoniere dell'anno».
Si parla anche dell'Olimpico.
«Sarebbe un onore. Ma forse Totti poi potrebbe dispiacersi».
Roberto Baggio ha detto a Giampaolo Visetti di Repubblica che "il sorriso di Pablito era come l'amore materno".
«Baggio è un grandissimo amico. Sua moglie Andreina mi ha chiamato e mi ha detto che Roberto non smette di piangere».
Estratto dall'articolo di Massimo Fini per ''il Fatto Quotidiano'' il 15 dicembre 2020. Paolo Rossi, per tutti Pablito, è stato sempre molto amato dagli italiani, e continuerà a esserlo, perché principale artefice della vittoria della nostra Nazionale ai Mondiali del 1982 (…) Vedo però che anche con Rossi si sta ripetendo l’errore fatto con Diego Armando Maradona. (…) Lo si descrive innanzitutto come “uomo probo”. Bene, Rossi fu uno dei protagonisti del calcioscommesse nel quale noti malviventi si mettevano d’accordo con i calciatori per truccare le partite. All’epoca mi colpì in particolare un episodio, uno di questi malviventi era andato nel ritiro del Perugia, dove allora giocava Rossi. Avvicinò un giocatore perugino per trovare un accordo e quello gli disse “chiedilo al ‘nove’, è lui che decide”. E il ‘nove’ era Paolo Rossi, “l’uomo probo”. Fu squalificato per due anni e forse fu proprio questo lungo digiuno che lo rese, lui che aveva come massima dote grandi riflessi, non la tecnica, ancora più reattivo del solito. (…) Ogni volta che muore qualcuno per un qualche accidente umano che arriva alla cronaca coloro che conoscevano il “caro estinto”, e con essi i media riportanti, lo descrivono sempre come “marito esemplare”, “padre affettuosissimo”, “gran lavoratore”. Ora se così è non si capisce perché mai siamo immersi in un mondo di canaglie. (…)
· E’ morto Maradona. E’ morto il calcio.
LA MALATTIA
Da liberoquotidiano.it il 4 novembre 2020. Dopo l'operazione riuscita per Diego Armando Maradona inizia la fase di recupero. "Siamo felici che tutto sia andato per il meglio", ha dichiarato il figlio Diego. "L'ultimo contatto che ho avuto è stato con una mia zia alle 8 di stamattina in Italia: è stata una nottata insonne, per il trascorso clinico di mio padre ogni operazione diventa sempre un po' preoccupante. Ci tengo a dire che papà ha reagito benissimo, è nelle mani di un'equipe medica di altissimo livello", ha precisato. Sulle origini dell'edema: "Sono state scritte tante cose inesatte, anche brutte e senza rispetto. Noi come familiari abbiamo sofferto molto della dipendenza di mio padre in passato, ora ne è uscito alla grande e il suo passato con quanto accaduto non c'entra niente", taglia corto Maradona jr ai microfoni di Sky Sport. "Alla base di questo trauma c'è una botta riportata in una caduta o in qualche situazione domestica, della quale non ci eravamo mai accorti. La Tac ha rivelato questo edema che è stato rimosso tempestivamente", conclude Diego jr.
Da gazzetta.it il 4 novembre 2020. L’operazione al cervello per rimuovere il coagulo si è conclusa ed è andata a buon fine. “L’intervento a Maradona è stato un successo”, ha detto il portavoce del campione argentino Sebastian Sanchi. Che aggiunge: “Tutto è andato come previsto, Diego sta bene e sta riposando nella sua stanza”. Maradona è stato operato dal suo medico personale Leopoldo Luque, che ha detto: “Siamo riusciti a rimuovere il coagulo di sangue. Diego ha affrontato bene l’operazione. È sotto controllo. C’è un po’ di drenaggio. Rimarrà sotto osservazione”. Inizialmente Maradona era stato ricoverato per quella che pareva soltanto una forma di anemia, con un persistente stato di ansia e depressione. Poi invece è emersa la necessità di andare sotto i ferri. Diego è stato dunque trasferito nella clinica Olivos di Buenos Aires e l'ingresso dell'ambulanza è stato accompagnato da un corteo di mezzi delle forze dell'ordine, come si vede dalle immagini trasmesse sui social da TyC Sports, e di tifosi, alcuni con fumogeni azzurri. L'ematoma subdurale è un coagulo di sangue che fuoriesce dalle vene e mette sotto pressione il cervello. Può ferire o lacerare il tessuto cerebrale vicino. In altri casi, la quantità di sangue non è abbastanza significativa e si ha una prognosi migliore. Il quadro clinico di Maradona è peggiorato nelle ultime settimane ed è esploso in vista del suo 60° compleanno. Era in pubblico nei pochi minuti in cui ha potuto essere presente sul campo del Gimnasia per il debutto della sua squadra in Coppa. Altri dettagli arrivano da Stefano Ceci, amico e manager di Diego Armando Maradona, che ha parlato a Kiss Kiss Napoli: "Sarà operato, gli è stato trovato dopo una Tac un ematoma al cervello dovuto a un trauma. Avrà sbattuto la testa e non se ne sarà reso conto, capita dopo le pillole che prende per la mancanza del sonno. Erano diversi giorni che era abbattuto, è molto giù a livello psicologico e a questo si è aggiunta anche l'anemia. Il suo corpo negli anni è stato molto provato dalla vita sregolata che ha condotto e anche la pandemia a livello psicologico non l’ha aiutato. È stato rinchiuso da mesi solo con la cuoca e un aiutante, non incontra neanche i familiari da inizio pandemia".
Maradona operato, salvo «solo per l’intuizione di un medico». Ma restano i problemi. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2020. Rimosso l’edema, adesso Diego è in rianimazione. Il neurologo: «Parametri ottimali, recupero avviato». Il racconto dell’ex fidanzata sull’abuso di alcol e i tanti ricoveri. Se l’è cavata anche questa volta, il vecchio Maradona. Martedì notte i chirurghi della Clinica Olivos di Buenos Aires (un sanatorio di proprietà svizzera per argentini ricchi come lui) hanno impiegato 80 minuti (dieci in meno di una partita di calcio) per asportargli un pezzo della calotta cranica, rimuovere l’edema che faceva pressione sul cervello e richiudere tutto. Poi l’hanno spostato in rianimazione (ci resterà qualche giorno) dove già nel pomeriggio avrebbe sorriso e stretto la mano al dottor Luque, il neurologo che lo segue e che ha rassicurato il mondo parlando di «parametri neurologici ottimali, stato del paziente eccellente, recupero avviato». Pochi ammettono che Diego è vivo solo per «una felice intuizione medica», come ha dichiarato Matias Morla, il suo avvocato, che ha ribaltato la diagnosi iniziale e consolatoria di stress. La varia e abbondante umanità che da martedì sera (quando l’ambulanza con Diego a bordo è arrivata da La Plata) sosta adorante davanti al sanatorio di avenida Maipù ha tirato un sospiro di sollievo: l’Argentina non è pronta a lasciarlo andare, non a sessant’anni appena compiuti. Idealmente, attorno al suo letto si sono stretti gli otto figli, capi di stato (i presidenti argentino Fernández e venezuelano Maduro), colleghi come Messi, (che però non gli aveva fatto gli auguri per il compleanno, «Tutta la forza del mondo con te, Diego»), milioni di like e post di tifosi. Ma, come ha scritto su Facebook Fernando Signorini, il suo storico preparatore atletico, «la migliore cura per Diego sarebbe isolarlo, soprattutto per dargli la pace interiore di cui ha bisogno e che merita». Una pace che non ha trovato tuffandosi sulla panchina del glorioso ma decaduto Gimnasia La Plata, prima divisione del campionato nazionale, da cui si alzava a fatica, passando da un farmaco all’altro per combattere la depressione o abusando di alcool, come sostiene la sua ex fidanzata Rocio che ha parlato di recenti, ripetuti ricoveri in clinica completamente infruttuosi perché all’uscita «tanto Diego torna a bere, disidratarsi e cadere nella depressione». Non l’aiutano i rapporti pessimi con la ex moglie Claudia e le figlie, in particolare con Giannina, con cui da anni è in causa per questioni di soldi col contorno di orrende liti via social. Per sfuggire da una routine che lo stava opprimendo, lo scorso anno Maradona ha accettato di allenare pur non avendo forza fisica ed equilibrio mentale per gestire una squadra, lui che da mister anarchico ne ha combinate di tutti i colori anche quando era abbastanza in forma e lucido. Quando uscirà dalla clinica (se va bene la prossima settimana) dovrà decidere il suo futuro. O potrà come sempre delegarlo alla sua variopinta cricca di avvocati, medici, agenti e improbabili tuttofare. Senza un vero percorso di guarigione (Cuba sarebbe di nuovo pronta ad ospitarlo) la sua salute resterà a forte rischio di ricadute e il mondo di perdere per sempre un fenomeno irregolare, irraggiungibile.
Maradona ha 60 anni: ecco i 7 «miracoli» del Pibe de oro a Napoli. L’arrivo in una città simile alla sua Buenos Aires, la promessa di lottare per i poveri come lui, tanti ricordi-simbolo da far scorrere più di trent’anni dopo...Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 29/10/2020. Travolgente e viscerale; folkloristica e multicolore; vincente eppure dolente. Simbiosi - oltre il calcio - di riaffermazione identitaria; di riscatto (non solo sportivo) di un popolo intero e la sua metropoli. Bellissima, affastellata e incompresa (anche da sé stessa) nelle proprie enormi potenzialità. È la storia di Diego Armando Maradona (60 anni questo 30 ottobre) a Napoli.
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 5 novembre 2020. Se l' è cavata anche questa volta, il vecchio Maradona. Ieri notte i chirurghi della Clinica Olivos di Buenos Aires (un sanatorio di proprietà svizzera per argentini ricchi come lui) hanno impiegato 80 minuti (dieci in meno di una partita di calcio) per asportargli un pezzo della calotta cranica, rimuovere l' edema che faceva pressione sul cervello e richiudere tutto. Poi l' hanno spostato in rianimazione (ci resterà qualche giorno) dove già nel pomeriggio avrebbe sorriso e stretto la mano al dottor Luque, il neurologo che lo segue e che ha rassicurato il mondo parlando di «parametri neurologici ottimali, stato del paziente eccellente, recupero avviato». Pochi ammettono che Diego è vivo solo per «una felice intuizione medica», come ha dichiarato Matias Morla, il suo avvocato, che ha ribaltato la diagnosi iniziale e consolatoria di stress. La varia e abbondante umanità che da ieri sera (quando l' ambulanza con Diego a bordo è arrivata da La Plata) sosta adorante davanti al sanatorio di avenida Maipù ha tirato un sospiro di sollievo: l' Argentina non è pronta a lasciarlo andare, non a sessant' anni appena compiuti. Idealmente, attorno al suo letto si sono stretti gli otto figli, capi di stato (i presidenti argentino Fernández e venezuelano Maduro), colleghi come Messi («Tutta la forza del mondo con te, Diego»), milioni di like e post di tifosi. Ma, come ha scritto su Facebook Fernando Signorini, il suo storico preparatore atletico, «la migliore cura per Diego sarebbe isolarlo, soprattutto per dargli la pace interiore di cui ha bisogno e che merita». Una pace che non ha trovato tuffandosi sulla panchina del glorioso ma decaduto Gimnasia La Plata, prima divisione del campionato nazionale, da cui si alzava a fatica, passando da un farmaco all' altro per combattere la depressione o abusando di alcool, come sostiene la sua ex fidanzata Rocio che ha parlato di recenti, ripetuti ricoveri in clinica completamente infruttuosi perché all' uscita «tanto Diego torna a bere, disidratarsi e cadere nella depressione». Non l' aiutano i rapporti pessimi con la ex moglie Claudia e le figlie, in particolare con Giannina, con cui da anni è in causa per questioni di soldi col contorno di orrende liti via social. Per sfuggire da una routine che lo stava opprimendo, lo scorso anno Maradona ha accettato di allenare pur non avendo forza fisica ed equilibrio mentale per gestire una squadra, lui che da mister anarchico ne ha combinate di tutti i colori anche quando era abbastanza in forma e lucido. Quando uscirà dalla clinica (se va bene la prossima settimana) dovrà decidere il suo futuro. O potrà come sempre delegarlo alla sua variopinta cricca di avvocati, medici, agenti e improbabili tuttofare. Senza un vero percorso di guarigione (Cuba sarebbe di nuovo pronta ad ospitarlo) la sua salute resterà a forte rischio di ricadute e il mondo di perdere un fenomeno irregolare, irraggiungibile.
Paolo Galassi per la Repubblica il 5 novembre 2020. L'operazione alla testa, nella notte fra lunedì e martedì, è andata bene. Almeno sembra. Per Diego Armando Maradona si prevede una degenza di una settimana e un periodo indefinito di riposo. Forse non era il caso di farlo sfilare in campo, il giorno del suo 60° compleanno. Forse, per la sua salute, non era nemmeno il caso di mettergli in mano una squadra, come se alla fine non fosse il suo vice Sebastián Méndez a dirigerla e metterla in campo. Difficile dirgli di no, certo. Difficile anche rinunciare ai ghiotti contratti che lo accompagnano ovunque, inevitabilmente destinati a solleticare chi lo circonda. Finché dura, meglio essere nel posto giusto al momento giusto. Gli hanno mandato abbracci il presidente argentino Alberto Fernández e l'ex presidenta Cristina Kirchner, passata più o meno per lo stesso problema sei anni fa. Evo Morales, Nicolás Maduro e pure un figlio di Fidel Castro. Una carovana di devoti è partita da La Plata in direzione Buenos Aires, con l'idea di stazionare fuori dalla Clinica Olivos per il cosiddetto aguante , ennesimo termine che fuori dal Rio de la Plata è difficile spiegare. Un po' come il culto del Diego e del dizionario Maradoniano, un'antologia di metafore con cui immortalare luci e ombre di un paese intero. El perfume del pasto, il profumo dell'erba, è l'immagine con cui negli ultimi tempi era solito spiegare la sua nostalgia per il campo da pallone. L'odore del cuoio, il sapore del fútbol. Se non giocato, almeno accarezzato a bordocampo, come un nonno che porta il nipote a veder passare i treni. Un Maradona acciaccato, portato in giro dal Diego fanciullo, immune al tempo e alle stagioni. Dalla panchina dei Dorados di Sinaloa, in Messico, a quella del Gimnasia di La Plata, strategia di mercato costruita attorno a lui dai personaggi che ne gestiscono l'immagine, i telefoni, l'agenda e che ne filtrano persino le relazioni familiari. Almeno così pare, stando agli sfoghi di Dalma e Gianinna, figlie del suo primo e unico matrimonio (con Claudia Villafañe), capostipiti di un clan infinito, oggi sul piede di guerra con l'altro clan, quello dei «chupasangre». I succhiasangue che badano solo a «spremere il limone fino all'ultima goccia», secondo l'espressione usata da Fernando Signorini, storico preparatore atletico di Diego tra Barcellona e Napoli. Uno dei pochi a mettere in guardia il pibe Pelusa dall'idolo capace di inghiottirlo. Cupio Dissolvi, il motto latino sul'autodistruzione attribuito a San Paolo, che non a caso a Fuorigrotta ha il suo tempio pagano. «Scrivi un messaggio a Maradona, qualcuno lo legge per lui e ti blocca », ha detto lunedì il Negro Enrique, ex compagno di nazionale, abituato a scherzare sul presunto assist servito a Diego per il gol del secolo agli inglesi nell'86. In pratica, l'ultimo a toccare la palla prima del miracolo. Lo stesso reclamo burlone di Eraldo Pecci sull'impossibile punizione segnata da Diego alla Juve, il 3 novembre del 1985. Lo stesso giorno in cui, 35 anni dopo, finirà sotto ai ferri. Oggi come allora, il nucleo dell'affaire Maradona si riassume con un concetto spesso associato a Johan Cruyff (parentesi: la sua prima volta con il leggendario numero 14 sarà un 30 ottobre del '70, giorno del compleanno di Diego, ma questa è un altra storia). Da allenatore del Barça, il divino Johan parlò di entorno, per definire tutto ciò che circonda e influenza un calciatore o una squadra. Un parametro utilizzato per spiegare la Messi-novela di qualche tempo fa, e per giustificare l'ultima deriva di Diego. Ormai abituato ai fantasmi di certe notti buie, e spesso sporche.
Da ansa.it il 6 novembre 2020. "Per prima cosa vorrei dire che Diego sta bene. E anche la tomografia a cui è stato sottoposto è andata bene. Abbiamo perfino ballato...sì, ballato". Lo ha detto poco fa il dottor Leopoldo Luque, il medico neurologo che segue da anni Diego Maradona e che due giorni fa lo ha operato per un ematoma al cervello. "A margine di tutto questo - ha aggiunto Luque - abbiamo rilevato degli episodi di 'confusione' e, assieme ai colleghi del reparto di terapia intensiva, li abbiamo associati a un quadro di astinenza. Quindi pensiamo debba rimanere ancora qui, è la cosa migliore per Diego e lui lo sa". Il problema di Maradona sarebbe di dover 'pulire' il corpo dagli effetti collaterali dei farmaci che prende da anni e che, in qualche caso, non facendo quasi più effetto arriverebbero ad essere tossici. L'ex fuoriclasse ha bisogno di riposo ma ha comunque ribadito al suo avvocato, e amico, Matias Morla, che lo è andato a trovare, di voler continuare a fare l'allenatore del Gimnasia La Plata. Il club, da parte sua, ha fatto sapere che lo aspetterà.
Da repubblica.it il 6 novembre 2020. Nessuna complicazione e il recupero procede a passi spediti. Arrivano buone notizie dalla clinica privata di Buenos Aires sulle condizioni di Diego Armando Maradona dopo l'operazione al cervello per rimuovere un coagulo di sangue a cui l'ex Pibe de Oro si è dovuto sottoporre martedì dopo un malore improvviso. "L'ho appena visto, è di ottimo umore. Siamo stupiti di come sta guarendo", ha detto il medico, Leopoldo Luque, che nella notte italiana ha fornito un aggiornamento sulle condizioni del campione, oggi 60enne. "Dobbiamo essere cauti, perché siamo ancora nel periodo post-operatorio - ha ammonito il dottore parlando con i giornalisti -. Ma è chiaro che non ha complicazioni neurologiche. Ci sono altri parametri che aspettiamo di valutare perché è ancora molto presto. Ma la ripresa è ottima". I commenti hanno suscitato forti applausi e cori di incoraggiamento da parte dei sostenitori di Maradona che attendono notizie fuori dalla clinica. Maradona era stato portato all'ospedale di La Plata - dove è l'allenatore della squadra Gimnasia ed Esgrima - lunedì per una serie di test dopo essersi sentito male. Una tac ha rivelato il coagulo di sangue. Il "Pibe de Oro" ha già sofferto di problemi di salute. È sopravvissuto a due attacchi di cuore, ha anche contratto l'epatite e ha subito un intervento di bypass gastrico. Per questi motivi è considerato ad alto rischio in relazione alla pandemia di coronavirus, che ha colpito duramente l'Argentina. Diverse volte negli ultimi otto mesi è stato in isolamento ed è stato costretto a rimanere a casa la scorsa settimana dopo che una guardia del corpo ha mostrato sintomi del Covid, anche se in seguito è risultato negativo. La figlia Dalma ha detto di avergli fatto visita dopo l'operazione, ma non ha fornito ulteriori dettagli sulle sue condizioni. "Voglio solo ringraziare tutti per le continue dimostrazioni di amore per mio padre, per mia sorella e per me, grazie a tutti coloro che hanno pregato per lui", ha twittato.
Maradona, ex medico: “Ingestibile, ha sostituito la droga con l’alcool”. Notizie.it l'08/11/2020. Maradona deve fare i conti con l’astinenza: “Le sue condizioni ricordano quelle di quando fu costretto a ricoverarsi a Cuba". L’ex campione del mondo argentino Diego Armando Maradona è ancora ricoverato in ospedale dopo l’operazione al cervello di qualche giorno fa per rimuovere un edema subdurale. I medici, durante una conferenza stampa, hanno aggiornato tutti gli appassionati sulle sue condizioni, raccontando dei suoi “progressi costanti e l’eccellente decorso post operatorio”. “Si sente molto debole anche per la dieta alla quale si è sottoposto – hanno continuato i medici -. La realtà è che per Diego è stata una settimana particolare. Ha subito molte pressioni dal punto di vista emotivo e queste cose hanno influito sulla sua condizione generale”. Durante il lungo ricovero, però, Diego Armando Maradona deve fare i conti con l’astinenza: “Le sue condizioni oggi ricordano molto quelle di quando fu costretto a ricoverarsi a Cuba per disintossicarsi dalla cocaina. Maradona ha sostituito la droga con l’alcool. Così è ingestibile“, ha svelato Alfredo Cahe, ex medico che curò Maradona. E ancora: “Un problema dovuto allo stile di vita passato. Maradona resta sedato per via endovenosa, anche se stiamo progressivamente diminuendo le dosi. Ma non ci saranno grandi cambiamenti di terapia nei prossimi giorni. Resterà ricoverato almeno fino a lunedì”. Infine: “La riabilitazione richiederà tempo“. Intanto qualche utente ha scritto un Tweet dai toni poetici: “Forza, Diego. È come contro l’Inghilterra, anche questa sfida tocca vincerla ‘un poco con la cabeza y otro poco con la mano de Dios‘”.
Da ansa.it il 12 novembre 2020. Diego Armando Maradona è stato dimesso ieri dalla clinica di Olivos, dove otto giorni fa era stato operato per un ematoma subdurale. L'ex fuoriclasse del calcio è stato portato in una casa affittata nel centro residenziale Villanueva a Tigre, località a nord dell'area metropolitana di Buenos Aires. Qui Maradona si sottoporrà ai trattamenti necessari per curare la sua dipendenza dall'alcol e da alcuni farmaci. La località dove Maradona trascorrerà questo periodo non è stata scelta a caso, in quanto a poche centinaia di metri vive Giannina, figlia dell'ex Pibe de oro e autentica 'capofamiglia' in questo delicato momento. Sarà lei a occuparsi del padre e a stargli vicina.
Da sport.sky.it il 12 novembre 2020. A rassicurare sulle condizioni di Maradona in seguito all'intervento di rimozione di un edema subdurale era già stato nel pomeriggio di mercoledì il suo avvocato-manager Matias Morla: "Quella a cui è stato sottoposto Diego non è stata affatto un'operazione di routine, per me è un miracolo che sia vivo. Credo che Diego abbia vissuto il momento più duro della sua vita. Per fortuna la settimana scorsa questo pericolo è passato perchè l'intervento del dottor Luque è stato tempestivo. Diego è una roccia e ora credo che oggi verrà dimesso, ma non so a che ora. Con lui ho parlato e so che ha tanta voglia di tirarsi fuori dai problemi personali che ha. Intanto bisogna che ci sia una riunione con i suoi familiari e con i medici che si occupano di lui. Con attorno i dottori e la sua famiglia, Diego tornerà felice come dovrebbe essere. Insieme dovremo fargli ritrovare amore e serenità".
Salvatore Riggio per corriere.it il 13 dicembre 2020. Proseguono le indagini sulla morte di Diego Armando Maradona, morto il 25 novembre a Tigre in circostanze ancora da chiarire. Come riportano i media argentini, gli investigatori hanno raccolto tutto il materiale requisito nelle perquisizioni fatte nei domicili e negli studi professionali dei due indagati: il neurochirurgo Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. Dove dormiva. «I magistrati hanno aperto le scatole e i faldoni in cui sono stati classificati i documenti e gli oggetti requisiti, compresi cellulari», ha spiegato l’avvocato dell’ex psichiatra del Pibe de Oro, Vadim Mischanchuk. Nei prossimi giorni saranno analizzati i cellulari e le conversazioni intercorse tra Luque e Cosachov: «Da quanto ho potuto constatare io, tra la mia cliente e gli altri specialisti che seguivano Maradona c’era una comunicazione costante e fluida. So per certo che c’erano in tutto sei infermieri a darsi il cambio e con tutti c’era totale collaborazione circa il trattamento da fornire a Maradona. Il coordinamento tra medici, infermieri e famiglia è sempre stato massimo», ha continuato il legale.
I soccorsi chiamati in ritardo da un medico che non era con Diego. Intanto, proseguono anche la lotta per l’eredità dell’ex fuoriclasse del Napoli e quella per il riconoscimento di altri sei presunti figli sparsi tra Argentina e Cuba (oltre ai cinque legittimi). Sempre secondo quanto riporta la stampa argentina, le primogenite di Diego – Dalma e Giannina – sono disposte a eseguire una prova del Dna per capire se Santiago Lara e Magalì – i due argentini da poco maggiorenni che sostengono di essere figli di Diego – dicano il vero.
Pillole, alcool e sigari: il video di Maradona prima del ricovero. Notizie.it il 13/12/2020. Sigaro in mano, alcool e pillole: ecco come viveva Maradona pochi giorni prima dell'intervento alla testa. In un video esclusivo pubblicato dalla trasmissione “Confrontados” dell’emittente televisiva “El Nueve” Maradona canta e balla con un amico, e si intravedono sul tavolo alcool, sigaro in mano e un tubetto di pillole. Secondo l’emittente argentina, così viveva l’ex pibe de oro pochi giorni prima dell’operazione alla testa. In un video pubblicato dalla Gazzetta dello Sport Diego Armando Maradona canta con l’amico Mariano Castro, ma preoccupa la presenza di alcool, sigari e un tubetto di pillole sul tavolo accanto. Questo video di pochi secondi è un estratto di un documentario pubblicato dalla trasmissione “Confrontados” dell’emittente televisiva argentina “El Nueve”. Secondo quanto dichiarato nel programma, pare che queste immagini risalgano a pochi giorni prima dell’operazione alla testa e conseguente ricovero. Intanto gli inquirenti continuano nelle indagini sulla morte del diez argentino. In particolare, questa volta si prevede una perizia accurata dei cellulari dei due medici attualmente indagati come primi responsabili della morte di Maradona. In corso l’esame delle conversazioni telefoniche tra il medico Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachev. Entrambi sono accusati di negligenza, e nel caso le indagini portassero a prove schiaccianti, potrebbero essere accusati di omicidio colposo. “Da quanto ho potuto constatare io, tra la mia cliente e gli altri specialisti che seguivano Maradona c’era una comunicazione costante e fluida. Il coordinamento tra medici, infermieri e famiglia è sempre stato massimo“, ha commentato Vadima Mishancuk, il legale della Cosachov.
Salvatore Riggio per corriere.it il 2 novembre 2020. Possibile che Lionel Messi non abbia fatto gli auguri a Diego Armando Maradona? Sì, possibile. Due giorni fa, venerdì 30 ottobre, l’ex Pibe de Oro ha compiuto 60 anni e tutto il mondo del calcio (e non solo) lo ha osannato ricordando le sue meravigliose imprese con l’Argentina e, soprattutto, con il Napoli. Il demone che ha portato il calcio in Paradiso con le sue giocate, i suoi dribbling, i suoi gol. Il fuoriclasse che ha saputo contrastare nel migliore dei modi ogni avversario. All’appello degli auguri, però, non sono presenti quelli di Messi. Tra tutti, proprio quello che è considerato il suo degno erede, nonostante gli manchi il grande successo con l’Albiceleste, sfiorato in quattro occasioni, una volta al Mondiale 2014 in Brasile (sconfitta ai supplementari contro la Germania) e tre volte in Coppa America (2007, 2015 e 2016). Come si può ben comprendere, il silenzio dell’attaccante del Barcellona non poteva passare inosservato. Perfino Cristiano Ronaldo, acerrimo rivale della Pulce in campo, ha elogiato Maradona, nonostante in passato si fosse autoproclamato il calciatore migliore di tutti i tempi, anche al di sopra di Maradona stesso o di Pelé. Le ipotesi In Argentina sono divisi sul mutismo di Messi. C’è chi lo difende, spiegando che la Pulce non è mai stato molto presente sui social per eventi del genere, c’è chi però gli ricorda gli auguri dell’ex Pibe de Oro il 24 giugno, quando Leo ha compiuto 33 anni: «Il mondo ti saluta, Leo Messi, che tu sia felicissimo». C’è chi parla di gelosia verso il più grande, c’è chi spiega di litigi o incomprensioni, magari mai realmente avvenuti. Ma c’è chi fa della sana ironia. E se Messi si fosse dimenticato il compleanno del suo maestro, suo c.t. al Mondiale di Sudafrica 2010? Chissà. Magari un fraintendimento tra il campione del Barcellona – in questo momento affaccendato in altre faccende, dopo le dimissioni del nemico Josep Maria Bartomeu, oggi ex presidente dei catalani – e il suo social manager, uno dei tanti elementi di spicco del proprio entourage. Non lo sapremo mai, se non sarà lui stesso a spiegarlo. Intanto, forse, suonano a pennello le parole di Quique Setien, ex allenatore dei blaugrana. Per lui non è stato facile allenare Messi, come ha rivelato a El Pais: «È il migliore di sempre. Ci sono stati altri grandi calciatori, ma la continuità che ha avuto lui nel corso degli anni non ce l’ha avuta nessuno, neanche Pelè. È molti riservato, ma ti fa capire quello che vuole. Non parla molto, ma con lo sguardo ti dice tutto. La verità è che ci sono calciatori complicati da gestire e Leo è uno di quelli. È il migliore di sempre e chi sono io per cambiarlo?». Basteranno queste parole per giustificare l’assenza di Lionel nel giorno del 60esimo compleanno di Maradona?
Da itasportpress.itil 27 ottobre 2020. Diego Maradona, ha detto che considera l’attaccante del Barcellona Lionel Messi e l’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo i migliori calciatori del mondo. “Messi e Ronaldo, Ronaldo e Messi … Per me, questi due sono superiori agli altri. Non vedo nessuno che si avvicina a loro. Nessuno fa nemmeno la metà di quello che fanno i due”, cita Maradona, France Football. Poi l’ex campione del mondo con l’Argentina ricorda l’episodio della ‘mano di Dio’ nel 1986: “Sogno di segnare un altro gol all’Inghilterra, ma questa volta con la mano destra!”. Maradona nei quarti di finale della Coppa del Mondo 1986, realizzò un gol alla nazionale inglese con la mano sinistra. L’arbitro ritenne che la palla fosse stata colpita con la testa e assegnò il gol. In quella partita, la nazionale argentina batté l’Inghilterra 2-1 e successivamente vinse la finale con la Germania. Maradona è stato nominato il miglior giocatore del campionato del mondo in Messico.
Maradona ha 60 anni: Diego simbolo di liberazione, ha giocato il calcio più bello di sempre. Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 30/10/2020. È impossibile giudicare Maradona solo come calciatore. Si può fare per Di Stefano, Pelè, non per lui. Maradona. è stato un simbolo di liberazione, uno che attraverso il calcio guidava la gente a riscattarsi, che dentro di sé non tollerava regole ma le portava agli altri. Era un sole dell’avvenire prosaico ma reale. Ha portato felicità concreta sbattendo Napoli in faccia all’Italia, ne ha descritto la grandezza moderna, l’ha scossa dalla sua distrazione e rimessa al centro del mondo. Maradona non è un eroe positivo né ha mai voluto esserlo. Credo si sia sempre sentito un martire della sua diversità, il mondo era cattivo perché la rifiutava, perché lui era eccessivo, melodrammatico, esagerato da sopportare. Viveva in mezzo a una corte di amici che lo aiutava a farsi re, una corte fraterna e golosa, fra concubine e cocaina. Poi alle prime luci dell’alba le prostitute di strada lo vedevano arrivare malinconico, meditando sui suoi errori. Gli si mettevano intorno e lo ascoltavano, dicono si commuovesse.
Momenti scioccanti di un uomo «scioccante». Tutti gli hanno sempre perdonato tutto perché Maradona ha preso e dato tutto. Commiserandosi, piangendo, gridando, non rispettando né il calcio né se stesso, ma dicendo sempre sì agli altri. Ho parlato con tanti suoi ex compagni di squadra, lo adorano ancora. Perché li ha fatti vincere dove nessuno aveva vinto e perché era davvero un compagno di strada, era generoso, esagerato. Un leader mai sospettoso ma dirimente, sentivi che aveva ragione perché lo diceva lui. È andato oltre il calcio, ha preso la vita a dosi massicce, ne è stato qualche volta travolto, è rimasto sempre ben dentro al mondo, sempre certo di due cose: che erano giuste le sue visioni e che non avrebbe mai potuto essere come gli altri. Ha sbagliato molto, si è entusiasmato anche di più. Credo sia un buon risultato. Il giocatore è stato unico, questo è facile, lo abbiamo visto tutti. Il calcio si stava organizzando e lui era un solista naturale. Scelse di farlo in mezzo agli altri. Il Napoli vinceva, dei valori si rovesciavano, bastava poco per chiamarla rivoluzione. Nessuno ha mai giocato al calcio come Maradona. Alcuni hanno fatto di più, vinto di più, vissuto meglio. Ma il calcio di Maradona resta il calcio più bello, scolaro della migliore grammatica tecnica. Si può interpretarlo diversamente come Cruyff, o in altri ruoli come per esempio Guardiola in panchina, ma non si può fare di meglio.
Maradonapoli. Ha vinto tutto, è riuscito ad appaiare Pelè come miglior giocatore del Novecento nelle classiche ufficiali della Fifa, lui che è stato sospeso dal calcio due volte per doping. Ha avuto il Pallone d’oro alla carriera perché inesistente quando giocava lui (era riservato solo agli europei). Ha segnato un gol all’Inghilterra che è ancora il più bello e nella stessa partita ne ha segnato un altro d’inganno con la mano. Questo era Maradona, le due facce della medaglia. Ma quando mi sono trovato solo con lui dietro i palcoscenici di Sky a parlare di vita, dopo quarant’anni di mestiere sentii che ero in soggezione. Avevo davanti un uomo sbagliato e magico che sembrava travolgerti ad ogni idea. Era piccolo e grasso, allora tanto grasso, ma sentivi solo il rumore del fascino. Buon compleanno Diego. Non ti scusare mai. Siamo tutti pari.
Claudio De Carli per “il Giornale” il 27 ottobre 2020. Ho sempre detto a Diego di smettere di mangiare troppo. Gli dico sempre che è grasso, sono la sua mamma, so quando certe cose sono sbagliate, adesso si è fatto una bella indigestione, comunque gli faranno una flebo e tutto tornerà a posto. Forse la vita del Pibe si può riassumere in questa reazione di mamma Tota quando quel giorno le telefonano da Punte de l' Este in Uruguay per avvisarla che il figlio è ricoverato per arresto cardiaco. Senza altri particolari. Quante cose nascoste e quante ne ha nascoste lui: Hai voluto vedere come palleggio con un' arancia, ha detto a un cronista ficcanaso, ti è piaciuto? Ti sei accorto che mentre palleggiavo l' ho toccata anche con la mano? No?
Neanche l' arbitro quel giorno contro gli inglesi. Con quel bel faccione d' argentino di casa nostra. Adesso ne fa sessanta e il meglio lo abbiamo visto qui noi, compreso il suo miglior mondiale, ne ha vinti uno ma quello che ha lasciato giù all' Olimpico per una ingiusta decisione del signor Codesal, è stato il suo, con una gamba sola e dieci modesti amici che ha portato in finale. Se ne era sorpreso anche Pelè: Questa Argentina è radicalmente cambiata da Messico '86, così mediocre non l' avevo mai vista, povero Maradona, deve sentirsi così solo...O' Rey ha fatto male i conti, non era iniziata bene a Milano con quel gol di Oman Biyik, ma El Diez non si era scosso: arriviamo fino in fondo. Per uno che se va a una festa in smoking bianco e dal cielo piove un pallone infangato lo stoppa col petto, dichiarazione di Cornejo il suo scopritore ufficiale, niente è già scritto. Nuvole sopra Baires, Lanus, una ventina di chilometri dalla capitale, qui Dona Tota regala al mondo un bambino che resta solo suo per pochissimo tempo e le ha dato più gioie e dolori di qualunque altro figlio sulla terra. Diego quando è cresciuto e ha fatto i soldi l' ha ricompensata per non farle mancare niente e a Villa Devoto, il quartiere periferico più pulito di Baires, ha costruito una residenza con un enorme parco attorno e una piscina dove la mamma galleggia mentre alza gli occhi e vede le nuvole passare. Lui è andato al quartiere Palermo, appartamento al decimo piano in Avenida Libertador 2.800, nel viale dove passeggia l' upper class argentina, e anche se ha volentieri cambiato letto, Dona Tota è sempre stata la prima a saperlo, prima che Coppola le desse un colpo di telefono e prima che uscisse la storia triste sulle edizioni straordinarie. Attorno a lui tutto è straordinario, immenso, gol di destro, di sinistro, di testa, capolavori, il rigore camminando che schianta Walter Zenga nella semifinale di Napoli non lo dimenticheremo mai. Con un rispetto poco consono sui campi per gli avversari, ne ha prese tante, falciato, insultato, non si ricordano reazioni. A Napoli volevano che lui li toccasse, erano e sono tuttora convinti che possa fare miracoli, volevano essere benedetti. Come quella volta che si trova nel parco divertimenti di Edenlandia in fuga dalla folla che lo circonda. Entra in un bar, c' è una signora in stato interessante che lo osserva: Ma che bel pancione, esclama, e le posa una mano sul grembo: Signora le faccio i miei complimenti e tanti auguri per il suo bambino. Bè, si racconta che quel bambino a due anni già palleggiava come un adulto, e tutti i mariti volevano portare le loro signore in gravidanza da Diego per ricevere una carezza sul pancione. «Guagliò, che vi siete persi», c' è scritto sui muri del cimitero. Poi da Napoli è dovuto scappare, brutte faccende, camorra, cocaina, un figlio, è arrivato dal cielo sopra un elicottero sceso dritto dritto sul cerchio del San Paolo quel giorno strapieno. Si è messo a palleggiare e non la finiva più, lo hanno interrotto perché stava andando a scatafascio il cerimoniale. Le Notti Magiche sono sue, con la Romania gioca con una caviglia gonfia contro il parere del medico, arriva il Brasile e Alemao, compagno al Napoli, prega gli altri nazionali: Niente calci al principale. Poi all' 82' dopo una partita dominata dai brasiliani, inventa una magia e manda Caniggia solo davanti al portiere, 1-0, avanti Argentina. E quando quella maledetta semifinale contro l' Italia si è giocata a Napoli, non è mai stato chiaro da che parte stava la gente. Lui uno degli scugnizzi che girano per il Maschio Angioino, uno come loro abituati a vendere tutto, soprattutto quello che non hanno, l' importante è confondere le idee e impacchettarle col fiocco. Lui bambino lo è sempre rimasto, facile incunearsi nelle sue debolezze. Prima della sfida con gli azzurri tira fuori le tre carte e incanta tutti. Poi è arrivata la Germania a Roma, lacrime durante l' inno argentino e quel rigore trasformato da Brehme: Un complotto contro di noi, hanno strappato anche la nostra bandiera. Ospiti a Trigoria? Il presidente della Roma veniva ogni giorno a vedere se avessimo fatto danni, per chi ci aveva preso? Sconfitti dalla mafia e da un rigore che non ha visto nessuno. Poi in America lo trattano da latinos, prima lo invitano con tante mille grazie, poi quando vedono che può andare a vincere il Mondiale lo squalificano per uso di sostanze stupefacenti. Tutti sapevano e conoscevano le sue abitudini. Adesso sul web non girano bei filmati, ma la gente gira la testa: È lui? Mah, io non ci credo.
LA MORTE
E' morto il calcio.
Dagospia il 25 novembre 2020. Ultim'ora drammatica proveniente dai media argentini: Diego Armando Maradona, il miglior calciatore di tutti i tempi, è morto questo mercoledì all'età di 60 anni dopo aver subito un arresto cardiorespiratorio. Inutlie il soccorso di tre ambulanze al Barrio San Andres, suo domicilio attuale a Buenos Aires.
Dal sito anteprima.news a cura di Giorgio Dell'Arti. Diego Armando Maradona, nato a Lanús (Buenos Aires, Argentina) il 30 ottobre 1960 (58 anni). Allenatore. Attualmente, tecnico dei Dorados de Sinaloa (dal 2018). Dirigente sportivo. Ex calciatore, di ruolo centrocampista, al suo apice nel Napoli (1984-1991) e nella Nazionale argentina (1977-1994). «Diego, fra Napoli e il mondo, vince tutto. Campionato mondiale, tre scudetti – uno con il Boca, due sotto il Vesuvio. Una Coppa Uefa, due coppe e due supercoppe nazionali con Barcellona e Napoli. Vince sei volte la classifica cannonieri, cinque in Argentina e una in Italia. Non vince un Pallone d’oro perché a quel tempo gli extraeuropei non potevano vincerlo. Nel 1995 glielo danno alla carriera» (Germano Bovolenta).
«Se anche fossi a un matrimonio vestito di bianco e vedessi un pallone infangato venire verso di me, lo prenderei di petto senza pensarci» «Se si conosce Buenos Aires, […] e soprattutto quel sud di Buenos Aires, rigorosamente povero, […] si capirà meglio il paesaggio urbano e umano in cui era cresciuto il mito Diego Armando Maradona, nato a Lanús il 30 ottobre 1960, quinto figlio di Dalma e Diego Maradona. Il padre disse appena lo vide: “Questo è un maschio: puro muscolo”» (Manuel Vázquez Montalbán).
«Il barrio di Maradona a Buenos Aires era Villa Fiorito, negli anni ’60 una giungla corrotta. […] Tutti i dieci Maradona vivevano in una baracca di tre stanze in cui l’unica acqua corrente era quella che arrivava dal tetto (“Ti bagnavi di più dentro che fuori”). L’ossessione per il calcio sembra assolutamente innata; non ci sono memorie che la precedono, e nessun interesse a sfidarla. Quando il bambino Diego andava a fare le commissioni, lo faceva palleggiando con un’arancia. Quando aveva tre anni il cugino gli regalò la sua prima palla di cuoio (“Dormivo con la palla e l’abbracciavo al mio petto”). E quando si recò al suo primo provino, all’età di nove anni, era così avanti che l’allenatore credette veramente di avere davanti un nano» (Martin Amis). «Il quadrilatero composto dalle strade Gavilán, Juan Agustín García, San Blás e Boyacá racchiude uno stadio vecchio e arrugginito, casa dell’Argentinos Juniors, che oggi porta il nome di […] Diego Armando Maradona. È in questo fazzoletto di terreno che è cominciata la carriera del “Pibe de Oro”. Fu lì che per la prima volta Maradona attirò l’attenzione su di sé e il suo nome comparve in un articolo: nel 1971, quando si mise a palleggiare durante l’intervallo di una partita per il piacere del pubblico presente, e il giorno dopo il principale quotidiano argentino, El Clarín, parlò di un giovane fenomeno chiamato “Diego Armando Caradona”. Un errore di battitura o di stampa che nessuno avrebbe più ripetuto» (Antonio Moschella).
«Anche la tv […] si era occupata di lui. Sábados circulares, un rotocalco dell’Atc, la televisione di Stato, aveva realizzato un servizio che ritraeva l’undicenne Dieguito impegnato a palleggiare davanti alla sua umile casa di Villa Fiorito. Al microfono del conduttore del programma, Pipo Mancera, una sorta di Pippo Baudo d’Argentina, quel bimbetto avrebbe rilasciato dichiarazioni incredibilmente premonitrici: “Il mio sogno è giocare un Mondiale e vincerlo”. […] Da quel 20 ottobre 1976, il mondo (del calcio) non sarebbe più stato lo stesso. […] Esordiva a 15 anni, 11 mesi e 20 giorni Diego Armando Maradona, […] stellina dell’Argentinos Juniors pronto a entrare nella storia. Nella storia non sarebbe entrato Rubén Aníbal Giacobetti, che in quella partita di campionato contro il Talleres di Córdoba sarebbe uscito alla fine del primo tempo per far spazio all’emergente Dieguito. L’Argentinos Juniors stava già perdendo in casa 0-1, e neppure l’ingresso del piccolo Maradona sarebbe servito a cambiare il risultato. Prese 4, quel giorno, Giacobetti nelle pagelle del settimanale sportivo El Gráfico. Un bel 7 invece per Maradona, sfacciato al punto da fare subito un tunnel al suo marcatore Juan Domingo Cabrera. Il giornalista Héctor Vega Onesime appioppò nel suo articolo tre aggettivi all’esordiente Diego che non hanno bisogno di traduzioni: “sorprendente”, “habilidoso” e “inteligente”» (Matteo Dotto).
«Diventa subito una piccola stella, "más grande", "pibe de oro", "divino". Va al Boca Juniors e in Europa: Barcellona. Quando arriva al Barça, il "Don Balón" titola: "Boom Maradona: 15 miliardi che parlano, corrono e segnano". Lui incanta, ma la Spagna non lo ama. Un giocatore basco, Andoni Goikoetxea, gli sfascia la caviglia sinistra. Due ore di operazione, alcune viti, e il piede, il magico sinistro, ricostruito. Goikoetxea squalificato 18 giornate. A Napoli Corrado Ferlaino e Antonio Juliano lo corteggiano e riescono a prenderlo. Si dirà: una cifra pazzesca, più di 13 miliardi di lire per un piccolo re, triste e massacrato. Ma anche: una lucida, meravigliosa follia. Giovedì, 5 luglio 1984, ore 18.31, Fuorigrotta. "Buonasera, napolitani. Sono molto felice di essere qui con voi", dice Diego Armando Maradona, e palleggia dentro il grande San Paolo. La sua voce rimbomba da sette altoparlanti. Alla presentazione ci sono 70 mila tifosi, prezzo d’ingresso mille lire. Ha i pantaloni lunghi di una tuta grigia e una sciarpa azzurra. Calcia forte e il pallone va in cielo. Poi dice: "A Barcellona mi sentivo in catene. Napoli sarà la mia città". Comincia quella sera il romanzo di un’esistenza dorata e amara, dell’uomo e del suo numero. Il dieci. Napoli è la sua città e lui diventa Maradonapoli, spettacolo degli spettacoli» (Bovolenta). «Il genio si manifestò su un campo di calcio il 3 novembre. […] Punizione a due in area di rigore, quando ancora venivano fischiate, stagione 1985/86. Attacca il Napoli, che da un anno si gode le magie di Diego Armando Maradona. Non è ancora il fenomeno che conquisterà il mondo in Messico: comincerà a diventarlo quel giorno. Difende la Juventus, la squadra più forte d’Italia, abituata a vincere lo scudetto tutti gli anni e vogliosa di ricucirsi il tricolore sul petto dopo il colpo grosso del Verona di Bagnoli l’anno prima. A un quarto d’ora dal termine viene fischiata una punizione a due in area. Maradona sistema la palla alla sinistra di Tacconi, è all’altezza del dischetto, 10-12 metri. La barriera è vicina al punto di battuta, forse 7 metri, più probabilmente 5. Maradona parlotta con Pecci: “Eraldo, passamela un pochino indietro”. Il centrocampista lo prende per matto: “Diego, da qui non passa”. “Tu toccala, e non preoccuparti”. Il resto della squadra continua a protestare, Bruscolotti è inviperito, Maradona lo avvicina: “Beppe, tranquillo: faccio gol lo stesso”. Il resto è una parabola magica, la punizione divina (copyright Ottavio Bianchi). Diego disegna un cucchiaio nell’aria, una palombella, il pallone carico d’effetto scavalca la barriera di 6 juventini e gira fino ad insaccarsi tra palo e traversa, col povero Tacconi che rischia l’osso del collo per raggiungerlo.
[…] Napoli-Juventus di quel 3 novembre 1985 doveva essere la sfida tra Maradona e Platini. Segnerà anche un passaggio generazionale: il tramonto di Le Roi e l’alba del Pibe. È un gol dal significato simbolico fortissimo, per i tifosi azzurri. Si diceva in città che lo scudetto è un mare che non bagna Napoli. Qualche secondo e terzo posto in sessant’anni di storia, poca roba. Quel giorno, Maradona guida la rivoluzione calcistica, dice ad un intero popolo che vincere, sì, è possibile. Per i napoletani è come il gol di mano all’Inghilterra per un argentino: la rivincita della storia in un campo di calcio» (Marco Caiazzo). «In mezzo all’esperienza napoletana, ci fu il Mondiale del 1986, giocato e vinto da Diego con la famosa doppietta all’Inghilterra, con il primo gol siglato di mano (la famosa “mano de Dios”) e il secondo che fu definito il gol del secolo: Maradona partendo dalla sua metà campo riuscì a dribblare tutti i calciatori che gli si pararono davanti e a insaccare il raddoppio per l’Argentina. A Napoli, Diego vinse due campionati, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa, facendo diventare quel Napoli il più vincente della storia» (Luca Pagano). «Ma il 17 marzo 1991 la coca spunta nella provetta del doping, dopo Napoli-Bari: un addetto dimentica di urinare al suo posto. Il 5 aprile abbandona Posillipo di notte e torna in Argentina. Più che vergogna, una fuga dal suo inferno. S’illudeva. "Non sei tu che cerchi la droga: è lei che cerca te", dirà in uno squarcio. Tocca i 143 kg, "il suo cuore è quello di un ottantenne", dice un medico a Punta del Este mentre lo scarica l’ennesima ambulanza. […] Dal 1991 cade e si rialza, avvilito e spergiuro, promette e ricade. Si era ripreso nel 1994, ultimo mondiale da calciatore. Ma l’urlo dissennato, quel faccione felice e feroce ripreso in tv dopo il gol alla Grecia, inquieta gli americani. Temono che sia l’involontario testimonial del cartello colombiano di Medellín: dimostra che con la coca si vince. Possibile? Due crocerossine, gelide come agenti federali, lo portano per mano dal campo alla sala doping. Verdetto annunciato: fuori. Quel mondiale poteva salvargli carriera e vita, peccato. È il 1994, the end, partita finita a 34 anni. Ricomincia uno dei suoi disperati tramonti. "Lo faccio per le mie figlie, voglio curarmi per la felicità mia e della mia famiglia, parto in cerca di aiuto", polemizza con il presidente argentino Menem, suo amico che però "non aiuta chi incappa nella droga". Non gli perdonano i tifosi del Boca Juniors lo scudetto perso con il quinto rigore fallito. Una polemica e via. Vola verso la sua nuova Lourdes, entra come in un santuario nella clinica svizzera di Montreux. Sembra guarito. […] Amici e Cuba, Fidel Castro e il medico personale Alfredo Cahe contro tutti e sempre accanto a lui, golf e cure all’Avana ma anche in Svizzera, si risolleva sempre fino al 18 aprile 2004, l’ultimo drammatico ricovero alla Sacre Coeur. Esce dalla sala di rianimazione e racconta in tv alla show-woman argentina Susana Giménez: "Ho visto la morte, ho visto El Barba". Che per lui è Dio. Ha pregato e prega ancora» (Antonio Corbo).
Conclusa ufficialmente la sua carriera da calciatore nelle file del Boca Juniors il 25 ottobre 1997 (dopo essere passato per il Siviglia e per il Newell’s Old Boys), una volta ristabilitosi ha tentato senza successo di reinventarsi allenatore, guidando dapprima la Nazionale argentina, collassata dopo quattro reti («dure come quattro pugni di Alì») segnate dalla Germania ai quarti di finale dei Mondiali sudafricani del 2010, per finire poi negli Emirati Arabi e, da ultimo, in Messico. Tipico suo movimento di gioco la «rabona», «intreccio di gambe per fare di sinistro il cross che il manuale del calcio pretenderebbe di destro» (Edmondo Berselli) «Nell’America del Sud si dice a volte, o si suppone, che la chiave per capire il carattere degli argentini si trovi nella loro valutazione dei due gol di Maradona nella Coppa del Mondo dell’86. Per il primo gol, battezzato “la mano di Dio”, Maradona era lievitato in maniera incredibile su un cross e aveva mandato la palla in porta con un intelligentemente nascosto colpo della mano sinistra. Ma il secondo gol, che arrivò pochi minuti dopo, fu uno di quelli che Bobby Robson chiama un “maledetto miracolo”: raccogliendo un passaggio da una punizione nella sua stessa area, Maradona, come in un’espiazione, chinò la testa e sembrò volesse aprirsi una strada attraverso tutta la squadra inglese prima di mandare a terra Shilton con una finta e di mandare la palla in rete. Ebbene, in Argentina è il primo gol, e non il secondo, quello che piace veramente. Per il macho argentino (o così dice almeno questa calunniosa generalizzazione), i modi furbi danno molta più soddisfazione di quelli corretti» (Amis)
Storicamente conflittuale il rapporto con Pelé, da sempre visto da Maradona come l’unico ostacolo alla sua unanime incoronazione quale miglior calciatore della storia. «Pelé cortese ed elegante, […] quello che Maradona non è mai voluto diventare: un uomo rispettabile. Pelé, che a Rio, quando Diego era ragazzo e doveva vincere il mondiale giovanile, gli disse: “Non ti credere mai il migliore: anche se lo sei, il giorno che ti ci sentirai smetterai di esserlo”. Ignorando che Diego proprio quello voleva: stare in cima, sentirsi in cima, godere senza misura di se stesso, come molti di quelli che sono nati in una famiglia numerosa, sotto un tetto di latta, due stanze e cucina» (Emanuela Audisio).
«Per decenni ancora si discuterà se Maradona sia stato o meno il più grande giocatore mai esistito, accanto a Pelé e Di Stéfano. Incontestabilmente, è comunque il fuoriclasse più dotato di talento dell’ultimo quarto di secolo. Mai campione è stato così grande e insieme così scellerato: di certo, per quello che ha fatto vedere sul campo ha incarnato l’essenza stessa dello spettacolo applicato al gioco del calcio, piegandone la modernità degli schemi e del fattore atletico a un estro semplicemente inarrivabile» (Marino Bartoletti) • Due figlie dal ventennale matrimonio con Claudia Villafañe, finito nel 2004; altri tre figli (due maschi e una femmina) da altrettante relazioni, tra cui il calciatore Diego Armando Maradona Sinagra (1986), nato da una ragazza napoletana e riconosciuto dal campione solo nel 2007, dopo lunghe battaglie legali. Oggetto di autentica idolatria sia a Napoli sia in Argentina, dove è stata persino istituita la «Iglesia Maradoniana». «La Chiesa è stata fondata nel 2001 a Rosario, 200 km dalla capitale, da due aficionados del campione argentino. In quindici anni di vita ha raggiunto i 120 mila fedeli in tutto il mondo, dall’Argentina alla Cina. Il culto del “D10s” Maradona ha i suoi dieci comandamenti, celebra matrimoni e battesimi e ha il suo Natale il 30 ottobre, giorno di nascita del messia, e l’anno 1960 dà il via al calendario maradoniano. La Pasqua cade ogni 22 giugno, anniversario della “mano de Dios”» (Roberto Pellegrino)
«Guardo la sua faccia grassa e triste con un immancabile principio di groppo in gola. Gli occhi sono piccoli, tondi, neri. Le labbra tumide, i denti come perle rade nelle gengive alte, abbondanti. La piega amara della bocca testimonia l’angoscia di molte generazioni umiliate dagli uomini e mortificate dalla fame. Il collo scompare nell’unione fin troppo anticipata dei cucullari con gli sterno-cleido-mastoidei. Il petto è del bagonghi predestinato. L’addome è del bevitore di birra (qualche volta ricorda Bibendum). Le gambe sono corte e ipertrofiche…Morfologicamente, sembra uno sgorbio irrecuperabile: ma, non appena in lui si accende l’uranio, quel goffo anatroccolo assurge a cigno solenne. Allora devi escluderlo dal genere umano e trovargli d’urgenza una specie differente. Sia dunque il leone andino, e in definitiva re Puma» (Gianni Brera). «Maradona rappresenta l’avventura contro le convenzioni, è il caos contro l’ordine. Sniffava cocaina, andava per night, si dedicava a nottate folli sempre circondato dal suo pittoresco clan. Era ed è molto sudamericano, molto populista: per questo è amato dai populisti. I fan di Maradona sono anche quelli che adorano il subcomandante Marcos, Diego è visto come il difensore dei deboli contro lo strapotere dei ricchi» (Edmondo Berselli)
«"Il gol più bello è quello contro l’Inghilterra ai Mondiali, dove scartai tutti fino ad arrivare in porta, ma anche i gol alla Juve piacevano tanto ai napoletani". E quello di mano? "Non ho mai segnato con le mani e non lo farei mai. Quella fu la mano di Dio e vinse il migliore, con l’altro gol fantastico"» (Tommaso Cerno) • «Povero, vecchio Diego. Abbiamo continuato a dirgli per tanti anni “Sei un dio”, “Sei una stella”, e ci siamo scordati di dirgli la cosa più importante: “Sei un uomo”» (Jorge Valdano).
GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 29 ottobre 2018 (fonte Anteprima)
Dall'Argentina. Com’è morto Maradona, la causa del decesso del Pibe de Oro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Novembre 2020. È morto a 60 anni Diego Armando Maradona. L’ex calciatore argentino, campione del Mondo con l’Albiceleste e d’Italia con il Napoli aveva 60 anni. Era stato ricoverato agli inizi di novembre a causa di un ematoma subdurale cronico. Era stato quindi operato al cervello per un accumulo di sangue e prodotti di decomposizione del sangue di origine venosa. Era stato dimesso lo scorso 11 novembre. L’operazione, avevano detto i medici, era andata bene e le sue condizioni erano buone. A dare la notizia della morte il quotidiano argentino Clarín. Maradona si trovava nell’abitazione di Tigre, nella provincia di Buenos Aires. Secondo il giornale è stato un arresto cardiorespiratorio a causare la morte di El Pibe de Oro. Vani i tentativi di rianimarlo. La morte sarebbe avvenuta intorno alle 12:00 locali. Nove ambulanze sarebbero state inviate presso l’abitazione presso la quale si trovava in convalescenza. Secondo la ricostruzione del giornale argentino Clarin, il primo a dare la notizia della morte del Pibe de oro, Maradona si era alzato verso le 10, sentendosi male e tornando a letto. I suoi più stretti collaboratori, Maximiliano Pomargo e Johnny Esposito, si erano dunque messi in contatto immediatamente col medico Leopoldo Luque, con l’amico e avvocato Matias Morla e con le tre figlie che vivono in Argentina: Dalma, Gianinna e Jana. Verso mezzogiorno le prime ambulanze sul posto, nel quartiere di San Andre’s, al confine tra Tigre ed Escobar, con la notizia della morte. A quanto scrive Clarin, Diego negli ultimi giorni era ansioso, depresso e angosciato. Maradona, ha confermato il procuratore generale di San Isidro, John Broyard, è morto per cause naturali. In una breve dichiarazione alla stampa argentina rilasciata fuori dalla casa in cui è morto l’ex fuoriclasse del Napoli, il procuratore ha precisando che “sul corpo non sono stati rilevati segni di violenza“. La camera ardente del fenomeno argentino sarà aperta invece alla Casa Rosada, il palazzo della presidenza argentina, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa statale Telam e come confermato poi da un portavoce della Casa Militare di Buenos Aires. Maradona è considerato il più grande calciatore di tutti i tempi. La Fifa lo ha eletto miglior calciatore del XX secolo al pari del brasiliano Pelé. Ha segnato il gol del secolo ai mondiali del 1986 in Messico – che vinse con l’Argentina – contro l’Inghilterra. Nella stessa partita segnò un gol di mano: da cui il nome La Mano de Dios, come la ribattezzò lui stesso. Una sorta di vendetta anche per la guerra delle Malvinas che vide contrapposti i due Paesi. L’ultima intervista l’aveva rilasciata alla rivista francese France Football in occasione dei suoi 60 anni. Era nato a Villa Fiorito, un barrio popolare, povero, di Buenos Aires.Alessio Morra per fanpage.it il 27 novembre 2020. Gli ultimi giorni della sua vita Diego Armando Maradona li ha vissuti nella cittadina di Tigre, non lontano da Buenos Aires dove si era stabilito quand'era uscito dall'ospedale a inizio novembre. Diego era assistito da degli infermieri che lo seguivano sempre. Nei giorni scorsi il campione aveva deciso di fare una passeggiata, e una vicina di casa ha immortalato quella passeggiata in un video, che la donna ha poi diffuso sul suo profilo Instagram. E si vede Maradona, aiutato da un infermiere, saluta un bambino. Non si sono incrociati i due, il piccolo era a casa sua, ma qualche parola con il Pibe de Oro l'ha scambiata e da Maradona è stato salutato. Immagini tenere che sono le ultime pubbliche dell'ex capitano dell'Argentina. Dunque una vicina di casa di D10S ha visto nei giorni scorsi Maradona uscire dalla sua abitazione e ha deciso di filmare Diego, che era accompagnato molto probabilmente da uno degli infermieri che lo assisteva. Una passeggiata, una cosa semplice, probabilmente voleva stare un po' all'aria fresca. La signora stava effettuando quel video perché voleva immortalare il saluto a distanza di Maradona al figlio, un bambino che vede uno dei suoi eroi e lo saluta. Diego risponde con affetto. Un momento davvero bello, dolce. Poi i due si scambiano qualche battuta e Maradona continua a camminare, anche se poi è costretto a fermarsi e si siede, su una sedia portata da un altro accompagnatore. Quelle immagini, purtroppo, diventano storiche perché quelle sono le ultime del più grande calciatore di ogni tempo che qualche giorno dopo, il 25 novembre, muore all'età di 60 anni. L'Argentina gli ha dato tutti gli onori, e anche il suo mondo quello del calcio gli ha regalato tanto affetto, con messaggi, post, fotografie che da ogni parte sono piovuti e hanno fatto capire quant'era amato Diego Armando Maradona.
L'Argentina, Napoli e il mondo piangono il campione: tensioni a Buenos Aires. Funerali Maradona, Diego sepolto vicino ai genitori: l’ultimo saluto ripreso dai droni. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2020. Diego Armando Maradona è stato sepolto vicino ai genitori, Dona Tota, morta nel 2011, e Don Diego, scomparso nel 2015, nel cimitero privato Jardìn de Bella Vista, a 35 chilometri da Buenos Aires. Una cerimonia intima e religiosa disturbata dalla presenza di alcuni droni delle tv che hanno immortalato l’ultimo saluto dei familiari al campione. La bara è stata avvolta in una bandiera argentina. Tra i presenti c’erano le figlie Dalma, Gianina e Jana, l’ex moglie, Claudia Villafañe, e la sua ex compagna Verónica Ojeda. Presente anche il nipote Johnny, che viveva con lui e che è stato una delle ultime persone a vederlo in vita. La cerimonia è terminata poco dopo le 20 (ora locale, mezzanotte in Italia). Ad accogliere il feretro, una folla di persone con striscioni e bandiere, che ha intonato cori e salutato il ‘Pibe’ con lunghi applausi. Nei pressi del cimitero si sono registrati dei disordini.
L’ABBRACCIO DELLA SUA GENTE – L’ultimo saluto assomiglia tanto a una processione. Anche se la polizia si è dovuta impegnare non poco per tenere a bada diversi ‘fedeli’ scalmanati, alcuni dei quali in veglia tutta la notte sulla soglia della Casa Rosada, il palazzo presidenziale, uno dei simboli di Buenos Aires. Quasi quanto Diego. Uomini e donne, anziani e bambini, tifosi del Boca e del River uniti sotto un’unica bandiera: quella dell’Argentina. La camera ardente di Maradona si trasforma così in una sfilata dove si incontrano sofferenza e orgoglio (di un paese intero), fiori e magliette numero 10, silenzi e lacrime, commozione – dentro la Casa Rosada – e tensioni fuori. C’è tutto e il contrario di tutto, proprio come avvenuto nella vita del diez più conosciuto del pianeta. Per qualche ora la pandemia passa in secondo piano. Se non fosse per le mascherine probabilmente non se accorgerebbe nessuno. Perché non c’è restrizione che tenga al cospetto del mito. Migliaia di persone hanno voluto omaggiare Diego: la bara, chiusa, diventa ben presto un blocco biancoazzurro: sono ammessi sprazzi di blu notte e giallo, i colori sociali del Boca Juniors. In giornata arriva poi anche una maglietta del Napoli. Ma questa è una cerimonia tutta argentina, di un popolo che si stringe attorno al suo idolo nell’ultimo viaggio. Prima di Maradona le porte della Casa Rosada, per una personalità sportiva, si erano aperte esclusivamente nel 1995 per Juan Manuel Fangio, pilota di Formula 1 cinque volte campione del mondo. Un simile onore, dieci anni fa, era toccato all’ex presidente Nestor Kirchner. La massa di gente – la sua gente – che è riuscito a richiamare Diego ricorda però un altro funerale, quello nel 1952 di Eva Peron, venerata e celebrata ancora oggi. L’apertura pubblica della camera ardente è stata preceduta da una funzione riservata a parenti e amici. Assente Diego Maradona Junior, alle prese con il Covid-19 (“il capitano del mio cuore non morirà mai”, ha scritto dall’Italia su Instagram) e l’ultima compagna Rocio Oliva, non senza un velo di polemica. “Non so perché stanno facendo questo”, ha raccontato la donna, rimasta accanto al diez fino a due anni fa, indicando come responsabile l’ex moglie di Maradona Claudia Villafane, presente insieme alle figlie. “Avevo diritto quanto gli altri di dirgli addio – ha aggiunto – Volevo solo salutarlo”. Hanno omaggiato l’ex stella del Napoli anche diverse personalità del mondo del calcio – tra cui Carlos Tevez, in rappresentanza del Boca – e in particolare dell’Argentina campione del mondo nel 1986. Un messaggio di preghiera è arrivato anche da un altro grande argentino, Papa Francesco, che – secondo l’emittente Radio Mitre – ha inviato un rosario e una lettera di condoglianze alla famiglia. Su Instagram poi il Papa ha ricordato “con affetto” gli incontri avvenuti in Vaticano negli anni scorsi, pubblicando una foto che ritrae entrambi sorridenti.
LE FOTO CON LA SALMA – Scoppiano le polemiche in Argentina e sul web dopo che Diego Molina, un impiegato dell’impresa funebre Funeraria Pinier, si è fatto scattare una foto con il cadavere di Diego Armando Maradona nella bara. L’avvocato del calciatore, Matias Morla, ha dichiarato di essere pronto a portarlo in tribunale “perché paghi questa aberrazione”, come si legge sul suo profilo Twitter.
FRANCESCO BATTISTINI per il Corriere della Sera il 3 dicembre 2020. Nemmeno Pantani. Neppure la morte solitaria del Pirata, in quella stanzetta spoglia d'un residence vuoto che tanto inorridì Maradona e tutti noi, era uno squallore simile. «Cabezòn , testina, se fossi entrato dove viveva Diego, saresti morto anche tu!», confida al telefono l'ex moglie Claudia Villafane a un amico, Oscar Ruggeri, vecchio eroe Mundial. Escono le foto e guardatela, cabezones che l'avete prima abbandonato e poi osannato, l'ultima casa del D10s nel ricco quartiere tutto bosso, dobermann e domestici di San Andres. La sua prima tomba è presto descritta: un materasso matrimoniale nero, senza lenzuola, con un televisore mezzo incellofanato e rovesciato sopra; l'affaccio su un canale e le finestre prive di tapparelle; un angolo cottura e box di panini sbocconcellati; scaffali vuoti e sul pavimento sporte di carta piene di panni, vicine a sacchi di plastica con effetti personali Niente che somigli a un'assistenza ospedaliera domiciliare. Nessun defibrillatore, né bombole a ossigeno. Nulla che servisse ad assistere un paziente grave e incapace di badare a se stesso. Maradona in vita aveva posseduto decine di case lussuose, ma nell'ora della morte non stava neanche in una vera camera: lo facevano dormire, quando i dolori e la depressione gli permettevano di riposare, nella stanza destinata al biliardo. Al piano terra. Sistemato alla bell'e meglio, di fianco a un cesso chimico e al cucinotto. Il più grande giocatore del mondo buttato in una sala giochi. «È perché non poteva salire le scale», si giustifica adesso il suo amico-avvocato Matias Morla, quello che gestisce gran parte delle proprietà immobiliari all'estero e che una settimana fa accusava i soccorritori d'inesistenti ritardi (l'ambulanza arrivò in 11 minuti). Il contratto d'affitto l'avevano firmato lui e una delle figlie di Diego, Jana, scadenza 31 gennaio 2021. Doveva essere un'abitazione provvisoria, di convalescenza, e forse per questo s' era risparmiato sui soldi. Nelle parole di Claudia, «una vergogna». A sentire la descrizione di Morla, un lusso: «Non è poi così piccola. Ha la vista lago, una poltrona massaggiante, tv 32 pollici, aria condizionata. E al piano sopra ci sono quattro camere, una col bagno privato. Il letto stava nella sala giochi al piano sotto, perché Diego non ce la faceva ad andare di sopra. Aveva le ginocchia malridotte. E dopo l'intervento si sentiva fragile». Si prevede che Morla sia il prossimo indagato, assieme ai due medici Leopoldo Luque e Agustina Cosachov. «Quando siamo entrati in quel posto - rivela una fonte di polizia -, tutto era molto precario e sconcertante. Le prove, le testimonianze, i rilievi indicano che le condizioni di salute di Maradona sono state gestite in maniera disastrosa. Un caos». Urgono risposte. Confrontate a quelle dello staff medico, le miserie dei familiari non sono da meno. E nella guerra per l'eredità, già dichiarata, s' incrociano le accuse tra ex compagne, figli, nipoti: una delle sorelle di Diego è finita in tv a rispondere del sospetto d'avere passato la vita a spennare il fratello ricco. Ma una domanda resta: con tanti disinteressati affetti intorno, che ci faceva Maradona da solo in quello squallore? «Può sembrare forte dire che l'hanno lasciato morire, ma è così», dice tramite il suo avvocato l'infermiera Gisela Madrid, sulla quale i medici han provato a scaricare tutte le colpe. La donna era l'ultima arrivata (dieci giorni) e non si tiene col clan Maradona, accusa Luque e la Cosachov, si pente d'aver dato retta a chi le ha consigliato di falsificare il primo rapporto sui soccorsi. I magistrati della procura di San Isidro stanno controllando i due cellulari, il tablet, il notebook e i dodici ricettari sequestrati nello studio della Cosachov: si parla d'un cocktail di psicofarmaci prescritto senza tener conto del cuore gonfio e malato di Diego, un mix che potrebbe averlo stroncato. I difensori hanno chiesto ai pm di risparmiare ai due medici il carcere: c'è già stato un tentativo di depistaggio, però, e il pericolo d'inquinamento delle prove rimane alto. Anche perché l'esame delle urine e dei tamponi, prelevati nell'autopsia, richiedono un tempo supplementare. Se si scopre che Maradona ancora beveva, o peggio, dovranno risponderne un po' tutti.
Stefano Chioffi per il Corriere dello Sport il 3 dicembre 2020. L’inchiesta della magistratura, gli interrogatori dei medici e dell’infermiera che seguivano Diego nella villa presa in affitto, la battaglia per l’eredità: sono giornate infinite. L’ultima accusa arriva da Ana Maradona, una delle sorelle maggiori dell’ex campione argentino. “Le figlie Dalma e Giannina quando sono venute a trovarlo? Mai, mai”. Una denuncia grave: il Pibe, negli ultimi tempi, era stato abbandonato. E’ intervenuta poche ore fa durante il programma “Los Angeles de la Mañana” su Canale 13. Ana ha parlato dei suoi rapporti con Diego. Un legame forte, dettato solo dagli affetti e mai dagli interessi, come ha sottolineato nel corso dell’intervista, ripresa anche dal Diario Olé: “Non accetto speculazioni. Nessuno viveva con i soldi di Diego, nessuno. Era molto generoso, sì, era generoso, a volte ci aiutava, ci dava qualcosa, ma niente di più. Non vivevamo sulle sue spalle. Mai è stato così. Troppi parlano invece di stare zitti. Mi auguro che si rispetti il dolore che abbiamo”.
Rapporti gelidi con Dalma e Giannina. Gelidi i rapporti con Dalma e Giannina, le due figlie avute da Diego durante il matrimonio con Claudia Villafane, che ora ha 58 anni, si è dedicata a soap opera e teatro, ha fatto la produttrice tv, la concorrente a MasterChef e si è fidanzata qualche tempo fa con l’attore Jorge Taiana: “Quando andavamo a trovarlo (Diego, ndr) - ha continuato Ana Maradona - era solo perché volevamo stare con lui. Era stato abbandonato dalle sue figlie. Noi non siamo contro di loro, sono loro contro di noi, e non so perché. Lascia che mi spieghino e mi chiamino. Se fossero state le figlie di un signore qualunque, di uno dei tanti Juan Pérez, chi le avrebbe portate dove sono? Chiedete alle figlie quando lo hanno visto. Non le abbiamo mai incontrate”.
"Lasciateci in pace". Ana ha spiegato che non vedeva Diego da marzo, a causa della pandemia, ma sostiene di essere informata su ogni dettaglio della vita del Diez perché si sentivano spesso al telefono. E ha chiarito che l'ultima a vederlo è stata l’altra sorella, Kitty (Rita), il giorno in cui Maradona ha lasciato l’ospedale dopo l’operazione alla testa. “Voglio che tutti ci lascino in pace, perché non diamo fastidio a nessuno e nemmeno vogliamo niente. Noi parliamo di lui con amore, con affetto e con il rispetto che gli abbiamo sempre dimostrato”.
Da ilnapolista.it il 2 dicembre 2020. Ecco dove è morto Maradona. Ad un certo punto, dove non arrivano le parole, le descrizioni, arrivano le immagini. Era solo questione di ore. La casa “senza gabinetto” è ora una gallery sul quotidiano argentino Olé, e da lì rimbalza velocissima su tutti i media del mondo, con il “sottofondo di sospetti, accuse e domande su cui sta lavorando la Giustizia”. Il luogo della morte, la casa nel quartiere di San Andrés, la stanza dei giochi attrezzata per la degenza, ora gli obiettivi sono concentrati lì. Olé scrive e fotografa: non aveva le condizioni necessarie. “L’immobile affittato ha un piano superiore con quattro camere da letto e bagni privati. Ma dato che Diego non poteva né salire né scendere le scale, questa stanza al pianterreno era stata adattata per lui”. C’è un letto matrimoniale, una da 32 pollici, un bagno chimico portatile, una poltrona massaggiante e l’aria condizionata. Le finestre chiuse con assi Durlock per bloccare la luce naturale. C’era anche una porta scorrevole per dare a Maradona un po’ di privacy. Come scrive il Clarìn, “non ci si può credere che lo abbiano mandato in una stanza dietro la cucina, dove c’erano rumori tutto il giorno. E senza bagno in camera. Non è così che ti prendi cura di una persona che era nello stato di Diego, qualunque sia il suo nome. Perché non hanno affittato una casa che aveva una stanza con bagno al pianterreno? Maradona aveva abbastanza soldi per stare in un luogo comodo e confortevole. Non meritava una cosa del genere”. Olé ricostruisce la dinamica burocratica: Diego è stato trasferito in questa casa l’11 novembre, quando è stato dimesso dalla Clinica Olivos, dopo otto giorni di ricovero dopo essere stato operato per un ematoma subdurale. La sua dimissione è stata firmata dal Dott. Leopoldo Luque, dalla Dott.ssa Agustina Cosachov, e da Dalma e Gianinna, seguendo le indicazioni di entrambi i professionisti. La Procura Generale di San Isidro – guidata dai procuratori Laura Capra, John Broyard, Patricio Ferrari e Cosme Iribarren – sta conducendo un’indagine che mira a scoprire se c’è stata negligenza nelle cure mediche fornite a Maradona. Non per niente, il giudice di garanzia, Orlando Díaz, ha cambiato il titolo della causa della morte: è passato da “indagine e causa di morte” a “morte ingiusta”. E le prime prove, rivelano che sono state fatte cose decisamente sbagliate.
Diego Maradona, l'ex medico personale: "Per me si è suicidato. Ci aveva già provato a Cuba". Libero Quotidiano il 21 dicembre 2020. Più di un mese dopo, la morte di Diego Armando Maradona continua a far parlare e continua a far sorgere sospetti (il Pibe de Oro se ne è andato il 25 novembre 2020). Ora, l'ultima bomba, la sgancia Alfredo Cahe, storico medico personale del fuoriclasse argentino (lo ha avuto in cura per circa 30 anni), il quale si spinge a parlare di suicidio. Intervistato da due trasmissioni televisive argentine, dove si è speso sui disturbi del linguaggio di Diego, ha poi criticato le cure degli ultimi mesi di vita. Ma, soprattutto, ha rivelato un presunto tentato suicidio di Maradona a Cuba. Cahe ha raccontato che Maradona si sarebbe lanciato con la sua auto contro un autobus, a Cuba: "Lì gli autobus pubblici sono chiamati guagua. In un’occasione Diego ne puntò uno con la sua auto cercando di uccidersi - afferma -. A noi disse: Non l’ho visto, me lo sono trovato di fronte. Ma è stato salvato per miracolo". E ancora, il medico ha sostenuto che le ultime cure a Maradona fossero sbagliate, nella fattispecie ha affermato che le sostanze psicofarmacologiche che assumeva non sarebbero state idonee alla sua situazione sanitaria. Tanto che, secondo Cahe, si sarebbe lasciato morire: "Per me la sua morte è stata un suicidio. Diego era stanco di vivere e si è lasciato andare. Non ce la faceva più". E ancora: "Non si sono presi cura di lui come avrebbero dovuto", ha concluso. Parole che faranno, ancora una volta, molto discutere.
Da ilnapolista.it il 21 dicembre 2020. Maradona è morto su un materasso a terra, accanto a un wc chimico, dopo un cocktail di farmaci. Repubblica ripercorre le ultime ore di Diego Armando Maradona in un lungo reportage di Maurizio Crosetti. Abbiamo scelto di riportarvi alcuni stralci. Maradona ha il cuore che pompa al 38% ma comunque il suo medico e il direttore sanitario della clinica Olivos autorizzano il suo ritorno a casa, come fortemente voluto da Diego.
Diego, prima, pensa di scappare: Dopo qualche giorno già smania, il ricovero gli pesa, vuole tornare a casa. A un altro paziente propone, per gioco, di scambiarsi i vestiti. «Amico, se mi presti i tuoi, io scappo». Ma quell’altro lo gela: «Mi dispiace, io non vorrei essere Maradona neanche per un minuto». E qui Diego ha un guizzo come ai tempi belli: «A volte, neppure io» risponde. Poi, riesce a uscire dall’ospedale. La famiglia (l’ex moglie Claudia, le figlie Dalma, Gianinna e Jana) e i medici decidono per l’assistenza domiciliare, ma prima occorre un domicilio perché, incredibilmente, Maradona non possiede una casa a Buenos Aires, neppure in affitto. Ci pensa Jana, che firma il contratto di locazione di un immobile, la villetta a due piani che si trova nella cittadina di Tigre. Lì vicino abita Giannina Maradona: si pensa che questo servirà a Diego ad essere meno solo, ma è un abbaglio. Lei andrà a trovarlo una volta sola. Nello staff sanitario entra a far parte la dottoressa Agustina Cosachov, 34 anni, psichiatra. Sarà lei a prescrivere a Maradona un cocktail di farmaci che comprende due antiepilettici (Gabapertin e Levetiracetam), un antipsicotico (Lurasidone), un antagonista degli oppiodi, inibitore del desiderio dell’alcol (Naltrexone), un farmaco per la schizofrenia e il disturbo bipolare (Quetiapina) e un antidepressivo (Venlafaxina). Una terapia per un malato psichico grave, ai limiti del ricovero coatto. Un peso notevole si qualunque organismo. Diego poteva reggerlo? Ci hanno pensato? Il primo giorno a casa è già un tumulto. L’infermiera va a misurargli la pressione, Diego si scoccia, è abituato a certi scatti nervosi. In meno di un’ora licenzia Gisela Madrid. «Cosa devo fare?», domanda la donna ai suoi superiori. Le chiedono di restare, per vigilare sulla somministrazione dei farmaci anche senza varcare la porta della camera di fortuna nella quale hanno sistemato Maradona, la sala giochi al piano terra tra karaoke e Playstation. Manca la bombola dell’ossigeno ma c’è il karaoke. È un paziente difficile. Caratteriale, compulsivo. Da sempre è abituato a essere il re che non chiede ma ordina. Vuole una pizza, e il giorno prima di morire riuscirà a ottenerla.
Il racconto prosegue: Adesso Diego dorme per ore, o prova a farlo, su un materasso appoggiato a terra, senza lenzuolo né coperta. È primavera. Maradona è un uomo malato, scosso e confuso. (…) Diego sta sdraiato sul materasso quasi tutto il tempo, è apatico, sfinito, non ha più voglia di niente. È il penultimo giorno della sua vita. La governante Monona lo aiuta a lavarsi, al piano terra un bagno ci sarebbe ma è scomodo, Diego va sorretto, non riesce a usare la tazza e per questo gli procurano un wc chimico portatile. Lo sistemano vicino al materasso, coperto da un cartone. Ed è così che il leggendario Diego Armando Maradona trascorre le ultime ore della sua vita terrena, accanto a un gabinetto di fortuna, accucciato a un passo dai suoi bisogni.
Da corrieredellosport.it il 21 dicembre 2020. Diego Maradona è morto circa un mese fa, ma le polemiche su stato, condizioni e cure non si placano. Alfredo Cahe, storico medico personale del Pibe de Oro, ha spiegato nel corso delle trasmissioni"Intratables" e "Confrontados" le ragioni dei disturbi del linguaggio del Diez, ma ha soprattutto criticato le cure adottate e raccontato di un tentato suicidio a Cuba. Maradona si sarebbe lanciato con la propria auto contro un autobus. Secondo Cahe, che lo avuto in cura per oltre 30 anni: "Diego era stanco di vivere e si è lasciato andare".
Le parole di Cahe su Maradona. Queste le parole di Alfredo Cahe:"Maradona aveva una lesione cerebrale, ma non l'Alzheimer come si diceva. E il farmaco psicofarmacologico che stava assumendo non era adeguato. Diego aveva bisogno di pace e tranquillità e non riusciva a raggiungerle attraverso i farmaci". Cahe voleva far tornare Maradona Cuba, dopo l'operazione subita il 4 novembre; suggerì a Leopoldo Luque di riportarlo all'Avana. Poi il racconto del tragico episodio successo proprio a Cuba: "Lì gli autobus pubblici sono chiamati guagua. In un'occasione Diego ne puntò uno con la sua auto cercando di uccidersi. A noi disse: "Non l'ho visto, me lo sono trovato di fronte". Ma è stato salvato per miracolo". Ma Chae si è spinto ancora oltre: "Per me la sua morte è stata un suicidio: Diego era stanco di vivere e si è lasciato andare, non ce la faceva più. E ha avuto intorno persone che non si sono prese cura di lui come avrebbero dovuto. L'ultima volta che l'ho visto Diego era completamente sedato e non mi è stato permesso di parlare con nessuno".
Da sportmediaset.mediaset.it il 23 dicembre 2020. A un mese dalla scomparsa di Diego Armando Maradona sono stati resi noti dei dettagli della sua autopsia. Secondo quanto riporta il giornale spagnolo AS, sarebbe emerso come nell’organismo non fossero presenti tracce di alcol o droga, mentre è stata riscontrata la presenza di psicofarmaci: si tratterebbe di antidepressivi, antiepilettici e di un farmaco contro l’astinenza da alcol. Nessuna presenza di tracce delle medicine per la sua cardiopatia. Secondo le analisi Maradona non sarebbe morto immediatamente ma avrebbe sofferto per ore nella sua stanza, addirittura 6 o 8, prima dell'edema polmonare dovuto a un’insufficienza cardiaca riacutizzata, con annessa scoperta di una miocardiopatia dilatata. Tutti particolari utili per le indagini sui presunti colpevoli del decesso. I risultati dell’autopsia, insomma, rafforzerebbero l’ipotesi di reato per coloro che monitoravano le condizioni di salute dell’ex fuoriclasse. Dopo aver appreso questi dettagli, la figlia Gianinna ha pubblicato un messaggio polemico su Twitter: "A tutti i figli di p... che aspettavano l'autopsia di mio padre per avere droghe, marijuana e alcol. Non sono un dottore, ma sembrava molto gonfio. La voce era robotica. Non era la sua voce. Stava succedendo ed io ero la pazza fuori di testa".
Paolo Manzo per “il Giornale” il 24 dicembre 2020. «Tutti i figli di puttana aspettando che l' autopsia di mio padre abbia (sic) droghe, marijuana e alcol. Non sono un dottore e sembrava molto gonfio. La voce robotica. Non era la sua voce. Se ne stava andando ed io ero la PAZZA FUORI DI TESTA». Questo il tweet sgrammaticato ed illogico di Giannina Maradona, la figlia del Pibe de Oro, quando l' altroieri notte è stato diffuso in Argentina l' esito degli esami tossicologici, l' ultima parte dell' autopsia che mancava per capire come sia morto Diego. Niente coca né altre droghe dunque e, soprattutto, zero alcol, ma un' agonia infinita, atroce, dalle sei alle otto ore, senza nessuna assistenza. Un tweet sgrammaticato perché lo spagnolo della 31enne Giannina fa a pugni con i congiuntivi ma, soprattutto, illogico perché a firmare le dimissioni di suo padre dalla clinica Olivos, lo scorso 11 novembre, era stata proprio lei con Jana, l' altra figlia italiana riconosciuta da Diego. Inoltre Giannina e Jana, insieme a Dalma e a Diego Jr (che però causa Covid19 proprio nell' ultima settimana prima della morte di Maradona era ricoverato) dopo le dimissioni del padre si scambiavano informazioni con la psichiatra Agustina Cosachov ed il neurochirurgo Leopoldo Luque su una chat di Whatsapp. Da quelle conversazioni uscite sui media argentini si evince che la gestione medica di Maradona è stata, come minimo, carente. Dalma aveva centrato il problema sin dal 14 novembre, nove giorni prima della morte di Maradona: «Gli manca un medico di famiglia» che «coordini» le terapie. «Sono appena stata contattata da una persona che si occupa del ricovero domiciliare così si sfogava Dalma in chat mi ha detto che papà ha vomitato (ha mangiato gamberetti con aglio e broccoli) ma non vuole che un' ambulanza vada a vederlo. Mi ha detto che ha parlato con Agustina (la psichiatra Cosachov, nda) e lei le ha detto che era una decisione della famiglia! Ecco perché scrivo. Penso che ci sono decisioni che noi parenti non possiamo prendere. Per quello ci vorrebbe un medico di famiglia». Purtroppo il medico di famiglia storico che ha seguito Maradona per 33 anni, Alfredo Cahe, non solo non è stato coinvolto ma, quando si era recato alla clinica Olivos per vedere Maradona sabato 10 novembre, il giorno prima delle sue dimissioni, era stato addirittura bloccato al cancello d' entrata per non meglio specificati timori di contagio da Covid19». Di sicuro né i figli, né Cosachov, né Luque hanno risolto il problema del «medico di famiglia» che si assumesse responsabilità che loro non volevano assumersi mentre, da ieri, i magistrati che indagano sulla morte per «omicidio colposo» hanno un elemento in più, il rapporto tossicologico e istopatologico, che mostra uno scenario clinico disastroso di Maradona. Diego soffriva infatti di ben cinque patologie gravi: cirrosi, insufficienza renale cronica acuta, cardiomiopatia ischemica, coronaropatia aterosclerotica e malattia polmonare cronica con segni acuti compatibili con l' insufficienza cardiaca. Per ora al centro dell' attenzione dei magistrati, che hanno istituito una «Giunta Medica» per analizzare il caso, ci sono sempre Luque e Cosachov, che con Gianinna e Jana avevano autorizzato il trasferimento di Diego nella casa dove poi è morto. E questo nonostante la Swiss Medical, l' assicurazione medica di Maradona, avesse negato «l' alta medica» (in italiano, «le dimissioni») raccomandando in caso di trasporto fuori dalla clinica di «continuare invece le cure psichiatriche, cliniche, riabilitative e tossicologiche secondo la modalità del ricovero in un centro di riabilitazione con un' équipe psichiatrica di supporto».
Emiliano Guanella per “la Stampa” il 24 dicembre 2020. Nei suoi ultimi giorni di vita Diego Armando Maradona era imbottito di psicofarmaci, non ha fatto consumo di alcol o sostanze stupefacenti, ma non stava nemmeno ricevendo un' adeguata terapia per controllare i suoi problemi cardiaci. Questa la sintesi degli studi patologici su sangue e urina del campione argentino scomparso un mese fa a Buenos Aires. Nessuna traccia di droga Un referto che complica, nell' ambito dell' inchiesta aperta per omicidio colposo, la posizione dei due medici che lo avevano in cura, il neurochirurgo Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. L' analisi ha rivelato la presenza del cocktail di psicofarmaci che Maradona stava assumendo regolarmente. Tra questi vi è la quetiapina, un antidepressivo, il levetatiracetam, un tranquillante che opera sul sistema nervoso, la naltrexona, usata per combattere stati di dipendenza a sostanza alcoliche. Farmaci che risultano nel registro delle ricette somministrate dalla Cosachov per curare l' alcolismo del paziente ed evitare crisi d' astinenza. Non è stata trovata traccia, però, di un trattamento cardiaco, nonostante Maradona da anni soffrisse di scompensi e aritmie. Il cuore di Diego, che è stato analizzato dai medici forensi pesava 500 grammi, il doppio del normale per una persona della sua età, conseguenza della cardiomiopatia dilatativa, una malattia del muscolo cardiaco che si manifesta con dilatazione e disfunzione ventricolare e comporta scompensi cardiaci e un serio rischio di trombosi. Maradona, secondo quando rivelato di chi lo ha visto negli ultimi mesi riuscendo a penetrare nel rigido cordone di sicurezza che lo accompagnava, appariva spesso stanco e assente, sedato dai farmaci e con forti sbalzi d' umore. Secondo Luque, che lo ha operato per rimuovere un edema al cervello ai primi di novembre, Maradona era un paziente difficile, che non accettava le cure. «Io l' ho operato - ha dichiarato Luque subito dopo la morte - ma non ero il coordinatore del pool di medici». Agli inquirenti è parso fin dall' inizio molto strano che non ci fosse un cardiologo di riferimento capace di verificare la compatibilità dei farmaci che stava prendendo con le sue condizioni. Luque e la Cosachov, a questo punto, dovranno fornire spiegazioni. A sfogarsi subito dopo la diffusione dei risultati è stata anche Gianinna Maradona. «Penso a tutti quei "figli di.." che speravano che si trovassero resti di droga o alcol. Io vedevo mio padre molto gonfio, la sua voce sembrava quella di un robot, non era la sua. Mi davano della matta». Le figlie hanno attaccato il clan che ha accompagnato Maradona negli ultimi mesi, ad iniziare dal suo avvocato personale Matias Morla, a cui fu precluso l'accesso ai funerali. Una guerra che continuerà nelle aule dei tribunali per l' eredità del campione.
Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 5 dicembre 2020. Le foto pubblicate dal “Clarin” del luogo dove Diego ha vissuto le sue ultime ore, ammesso che sia stato vivere, lo raccontano più di tanto inutile chiacchiericcio. Ci vuole il dono per raccontare uno come Diego. Pochi ce l’hanno. Quelle immagini raccontano. La grandezza e la miseria. Lo stesso uomo. Una casa vista lago, nel quartiere San André di Tigre, lotto 45. Più che una casa, la sistemazione di un accampato che arrangia i suoi ultimi, faticosi patti con la vita. Mobilacci sparsi di pessima fattura, di quelli che i poveri comprano a rate per l’eternità, confidando che resistano almeno il tempo della loro vita residua. Il pavimento in qualche resina o plastica di terz’ordine, color vomito. Un divano letto dozzinale, buono per cimici di lusso e quel che resta del Pibe, il materasso matrimoniale, la tristissima tivù 32 pollici, un gabinetto chimico, una sala giochi quando non c’è più niente da giocare. Un’ancor più triste poltrona con massaggio incorporato, di quelle che sostituiscono in molti casi l’abbraccio e le carezze di una donna, probabilmente l’ultimo che ti sarà dato. C’è un piano superiore, più confortevole e spazioso, ma inaccessibile per le ginocchia ridotte in briciole di Maradona. Uno che era caduto tante volte nella vita ma ora, dopo l’operazione al cervello, non poteva più permettersi di cadere. Salire una scala? L’equivalente dell’Everest. Ma quella che più stringe il cuore è l’immagine della cucina. Le tue sinapsi non ce la fanno a mettere insieme la star planetaria, celebrata dalle folle e dai capi di stato, il divo che si affacciava dai palazzi presidenziali e dalle suite di alberghi pentastellati, con quell’opprimente bugigattolo dove galleggiano sparsi una vecchia caffettiera, un thermos bluastro, orrende scodelle, un fornello da battaglia, ai suoi ultimi fuochi. Stai lì per declamare l’inevitabile stupore, l’ovvio sdegno, ma poi capisci in tempo che la miseria di Diego era la sua grandezza. Ciò che lo ha reso unico e irripetibile. A dirla tutta, la fedeltà commovente, irriducibile alle sue radici. Al suo piccolo mondo antico di Villa Fiorito, nome che la dice lunga su quanto si può essere crudeli nell’assegnare un nome. Il quartiere dov’è cresciuto. Niente fogne, niente luce, strade il minimo indispensabile, quanto serviva per i corrieri della droga. Ma, in quelle case al confine della baracca Diego deve aver conosciuto una qualche felicità, frugolo pirotecnico tra i piedi di un padre analfabeta ma dal cuore grande come una casa e una madre che lo ha amato come nessun’altra donna mai più. Domandate a Diego se trovate il modo di comunicare con lui: dove hai vissuto i giorni più belli nel tanto inferno dei tuoi ultimi anni, dove le ore più serene? Lui non avrà esitazioni: “Nelle due stagioni in cui ho allenato i “Dorados de Sinaloa” un club della serie B messicana”. Tutti. Ci siamo dati di gomito alla notizia: è andato nella terra del Chapo e dei narcos come Pinocchio nel Paese dei balocchi. A fare scorpacciate. Guardatevelo e stupite “Maradona in Messico”, la serie di Netflix, e scoprirete finalmente chi è Maradona, dopo averlo celebrato per quello che non è. Un ragazzo che, alla fine della sua vita, cercava l’unica cosa che aveva veramente perduto. Il suo piccolo, semplice, mondo antico.
PAOLO MANZO per il Giornale il 3 dicembre 2020. È iniziato ieri l'esame tossicologico sulle spoglie mortali di Maradona. Estratti capelli, sangue, urina, campioni del tessuto di cuore, polmoni e fegato del campionissimo e i test, rigorosamente top secret, potranno presto dirci se Diego aveva assunto alcol, droghe o farmaci in eccesso, causando il blocco cardiorespiratorio che lo ha poi portato via. Quando ieri sono entrati nella sala dell'istituto di medicina legale per presenziare alla procedura, tutti i periti di parte ma anche i procuratori che indagano per «omicidio colposo» il decesso di Diego hanno dovuto lasciare fuori i cellulari per evitare la fuoriuscita di materiale video compromettente visto che i mass-media argentini seguono in modo spasmodico ogni vicenda del Pibe de Oro, anche post mortem. Ieri Repubblica scriveva che la morte del 10 sarebbe stata causata da un cocktail di 6 psicofarmaci ma la notizia in Argentina non l'ha data nessuno visto che gli esiti autoptici usciranno solo la prossima settimana. Ciò che invece si vocifera a Buenos Aires, invece, è che se venissero trovate nel sangue o nei capelli di Diego tracce di cocaina, allora vorrebbe dire che qualcuno della ventina di persone che avevano accesso all'ultimo rifugio di Maradona e che dovevano proteggerlo, lo ha invece rifornito di droga, visto che lui non era in grado neanche di camminare da solo nelle ultime settimane. Di certo c'è che le disposizioni date dal neurochirurgo Luque e dalla psichiatra Cosachov all'infermiera che aveva il compito di tenere d'occhio Maradona al Tigre - «Non faccia nulla e non si avvicini» fanno impressione. Questo almeno ha detto la paramedico agli inquirenti. Che ieri hanno ribadito come il ricovero al Tigre di Diego sia stato inadeguato. Per questo hanno già convocato il dottor Cahe, per 33 anni medico personale di Maradona e che già poche ore dopo la morte del 10 aveva accusato con veemenza la pessima assistenza data al campionissimo dalla sua famiglia e dal suo entourage. Oggi tutte le strade della giustizia vanno contro la psichiatra Cosachov e, soprattutto, il dottor Luque, ma anche i famigliari hanno gravi responsabilità. A scegliere la casa del Tigre assolutamente inadatta, con Diego costretto a stare in stanza con un bagno chimico sarebbero state infatti Dalma, Giannina e Jana, le tre figlie riconosciute di Maradona. A metterlo a verbale è la psicologa Sandra Borghi, anche lei interrogata dai magistrati e che nell'ultimo mese accompagnava la fragile salute mentale del campione, insieme a Cosachov. Per i biografi del 10, tuttavia, la notizia forse più importante di ieri è la rivelazione fatta da Carlos Fren, già compagno di Diego nell'Argentinos Juniors e al Mondiale giovanile vinto nel 1979 in Giappone con la Selección bianco-celeste: «Maradona assumeva cocaina già dal 1981, quando giocava nel Boca». Un uso prolungato che, a detta degli esperti, spiega perché il cuore di Maradona pesava oltre mezzo Kg e non 250 grammi, come qualsiasi normale sessantenne.
Maurizio Crosetti per repubblica.it il 30 novembre 2020. Maradona è morto in crisi di astinenza ed è caduto in casa una settimana prima di morire, ha battuto la testa ma nessuno lo ha portato all'ospedale. Lo rivela l'avvocato di Gisela Madrid, l'infermiera che si occupava del campione. "Maradona è caduto il mercoledì della settimana precedente la sua morte. E' caduto e ha battuto la testa, ma non l'hanno portato in ospedale per una risonanza magnetica o una Tac ...", ha detto l'avvocato, citato dai media argentini. Nello specifico, Baquè ha spiegato che Maradona ha battuto il lato destro della testa, la parte opposta a quella interessata dall'operazione, e poi ha aggiunto: "Maradona non era in grado di decidere niente: dopo la caduta è rimasto da solo tre giorni nella sua stanza, senza essere visto da nessuno e senza essere aiutato". L'infermiera ha poi rivelato di avere avuto contatti con l'ex calciatore solo una volta, il venerdì prima della morte, dopodiché Maradona l'ha licenziata, e sebbene sia rimasta su richiesta dell'entourage del pibe non gli ha più rilevato la pressione né controllato in alcun modo. "Ha solo consegnato i farmaci, è rimasta alla porta e ha controllato che gli fossero somministrati", ha spiegato l'avvocato Baqué. Ma c'è dell'altro. Al momento delle dimissioni dalla clinica Olivos, dopo l'operazione al cervello, Diego Maradona presentava chiari segni di astinenza da sostanze. Lo ha scritto la psichiatra Agustina Cosachov, che poi ha seguito Diego nella casa di Tigre dov'è morto. La specialista aveva consigliato anche la presenza continua di un'ambulanza, inutilmente. Rischia intanto di aggravarsi la posizione giudiziaria del dottor Leopoldo Luque, il medico personale di Maradona indagato per omicidio colposo dalla procura di San Isidro. Dagli atti è infatti emerso che la dottoressa Cosachov aveva chiesto per l'ex campione un'assistenza specialistica e infermieristica 24 ore su 24, ma Luque questa assistenza non l'aveva predisposta. "Se la dottoressa Cosachov mi avesse scritto una relazione precisa, avremmo potuto internare Diego in una clinica psichiatrica" si è difeso Luque. "Ma senza questo documento, nessun paziente può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori. E Maradona non voleva più mettere piede in ospedale, aveva deciso di farsi curare in casa: stava meglio, io non l'ho certo abbandonato, è morto d'infarto e non era prevedibile". "Non è vero", ha ribattuto l'avvocato dell'infermiera: "Il cuore di Maradona aveva mandato precisi segnali di sofferenza, ma nessuno li ha ascoltati". Si è dunque scatenata una triste guerra tra medici, mentre la prima moglie di Diego, Claudia Villafane, e le figlie Dalma e Gianinna accusano a loro volta il dottor Luque: "Era lui il responsabile, toccava a lui organizzare l'assistenza per Maradona che invece è stato lasciato solo". Però Luque ha dichiarato che Diego a volte non voleva neppure alzarsi dal letto per ricevere le figlie, e che di fatto era ingestibile. Anche l'avvocato di Maradona, Matias Morla, è convinto che l'inchiesta dovrà chiarire molti aspetti oscuri e punire quelli che lui chiama "idioti criminali".
Carlos Passerini per corriere.it il 17 dicembre 2020. Ora spunta fuori anche l’autista bugiardo. Perché ha mentito? A quasi un mese dalla morte, il giallo sugli ultimi giorni di Diego Maradona s’infittisce sempre più. Emerge ora un nuovo personaggio, quello dello chaffeur personale del Diez, un certo Maximiliano Trimarchi, 44 anni. I tre magistrati della procura di San Isidro hanno disposto un supplemento d’indagini nei suoi confronti.
Incastrato dal telefono. Agli inquirenti Trimarchi avrebbe testimoniato di non esser stato presente sul luogo del decesso, il 25 novembre scorso nella villa di Tigre, ma telecamere e celle telefoniche lo incastrano. Dicono che ha raccontato il falso. Lui quella mattina c’era. La domanda è: perché ha mentito? Nasconde qualcosa? Di certo ora rischia grosso. Al momento non figura ancora nel registro degli indagati ma potrebbe finirci nelle prossime ore. Intanto i magistrati hanno sequestrato il suo telefono.
Il terzo uomo. Gli indagati per omicidio colposo sono Leopoldo Luque e Agustina Cosachov, rispettivamente neurochirurgo e psichiatra di Maradona. Trimarchi potrebbe diventare il terzo. Oltre a essere autista di Diego, è anche il fratello della contabile che gestiva diverse società dell’ex campione.
Presente in casa. «Trimarchi è stato ripreso più volte a entrare e uscire dall’abitazione di Tigre in cui Maradona si è spento la mattina del 25 novembre. Lo dicono i dati del suo cellulare e le immagini delle telecamere a circuito chiuso. Faremo luce su tutto», ha dichiarato Mario Baudry, il legale che difende gli interessi di Diego Fernando, l’ultimogenito di Maradona.
Questione di paternità. Eredità e verità: il giallo Maradona, purtroppo, è ancora tutto da scrivere. Non si esauriscono infatti le serie di complicazioni legali legate alla comparsa di presunti nuovi figli. In merito alla questione della paternità, il tribunale argentino ha accolto la richiesta della giovane Magalí Alejadra Gil, che vuole conoscere la sua identità e sapere se l’ex campione è suo padre oppure no. Nella delibera del Tribunale Civile Nazionale Gil richiede che l’esame di istocompatibilità sia effettuato subito come prova. Pertanto il cadavere di Diego Armando Maradona non può essere cremato al momento dato che il corpo serve per effettuare il test di paternità.
Salvatore Riggio per corriere.it il 5 dicembre 2020. Ennesimo mistero su Diego Armando Maradona, morto mercoledì 25 novembre a Tigre in circostanze ancora da chiarire, tanto che è stata aperta un’inchiesta che vede coinvolti i sanitari che dovevano vegliare sulla salute del Pibe de Oro. Non sarà facile far luce su tutta la vicenda, mentre gli argentini sono ancora in lutto per la perdita del più grande calciatore di sempre. Adesso è arrivata un’altra indiscrezione, che riguarda l’eredità del Pibe de Oro. Una vera e propria battaglia, come anticipato dal Corriere della Sera. Un intrigo, un mistero. Sono tanti a voler mettere le mani sul patrimonio dell’ex fuoriclasse del Napoli. Sono i discendenti diretti a promettere battaglia. Si tratta dell’ex moglie Claudia Villafane – il divorzio con Maradona arrivò dopo 24 anni di matrimonio – e le due figlie, Dalma e Giannina. Ma da quanto sostengono in Argentina sono proprio loro che rischiano di restare senza. Lo riporta il Clarin, rispolverando un’accesa battaglia legale tra Diego e Claudia. Questa è una vicenda che risale a cinque anni fa, nel 2015. Sempre secondo quanto sostiene il Clarin, Maradona scoprì un ammanco di circa sei milioni di dollari oltre alla sparizione di 458 cimeli collezionati in carriera (trofei, magliette autografate e oggetti preziosi). Il Pibe de Oro si infuriò e accusò l’ex moglie, all’epoca sua tutrice legale. Da qui arrivarono denunce, due sentenze dall’esito opposto, tanto che la causa si è trascinata fino a oggi, che Diego non c’è più. Una causa, però, che impedirebbe di fatto a Claudia di beneficiare della porzione di eredità che le spetterebbe. Non solo. Sempre quanto sostengono in Argentina giornali e televisioni, Maradona qualche anno fa avrebbe rivisto il testamento. Escludendo da qui proprio Claudia, Dalma e Giannina dall’asse ereditario. Ma le tre promettono battaglia contro il circolo intimo che, negli ultimi anni, si muoveva accanto al Pibe de Oro. Per loro colpevole di averlo lasciato solo in un grave momento di difficoltà. Sarà una lotta senza precedenti.
Da leggo.it il 6 dicembre 2020. "Nessuno aveva il controllo del paziente". Diego Armando Maradona abbandonato a se stesso. È questo, secondo una fonte investigativa citata dal quotidiano La Nacion, il quadro che si delinea attorno alla morte del Pibe de oro, deceduto 10 giorni fa per un'insufficienza cardiaca. Nel mirino, il neurochirurgo Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. "Ogni nuovo elemento che viene acquisito nell'indagine rafforza l'ipotesi provvisoria che ci sia stata una gestione lacunosa nel trattamento che ha ricevuto Maradona. Siamo davanti alla possibilità che sia stato commesso un reato. E' possibile dire che potremmo trovarci davanti ad un omicidio colposo", aggiunge la fonte. Il codice penale, all'articolo 84, prevede una pena tra 1 e 5 anni di carcere per chi, nell'esercizio della propria professione, causi la morte di qualcuno per imprudenza, negligenza o imperizia. L'indagine è affidata al procuratore generale di San Isidro, John Broyad, che coordina un team speciale di inquirenti. Si attende l'esito degli esami supplementari legati all'autopsia, in particolare quelli tossicologici, che verranno poi sottoposti ad una commissione di periti: la loro valutazione sarà determinante per stabilire la qualità delle cure ricevute da Maradona. Per La Nacion ha un ruolo decisivo il documento firmato il 3 novembre, quando Maradona è stato dimesso dalla Clinica Olivos dopo l'intervento per la rimozione di un ematoma subdurale. Il documento reca la firma di Luque, di due figlie di Maradona -Gianinna e Jana- e del direttore medico della struttura, Pablo Dimitroff. Il documento in sostanza non determinava le dimissioni e sollecitava la prosecuzione di terapie psichiatriche, cliniche e riabilitative in un centro specializzato. Il Pibe, invece, è stato trasferito nella casa del barrio San Andres dove è morto dopo poche settimane. Il trattamento domiciliare, secondo gli inquirenti allestito "in una disorganizzazione totale", sarebbe stato proposto da Luque e Cosachov e accettato dalla famiglia. "Non c'era nessun sistema di controllo del paziente, abbiamo accertato che un medico è andato un paio di volte a vedere Maradona -sostiene la fonte- ma non sappiamo cosa abbia fatto. Non è accertata la presenza di un cardiologo nella casa, di uno specialista che si occupasse delle patologie cardiache".
Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” il 7 dicembre 2020. «Grave incuria da parte dei medici, nessuno si occupava del paziente». Non che ci fossero grossi dubbi, le fotografie dell' indegno letto di morte nella villa di Tigre le abbiamo purtroppo viste tutti, ma a dieci giorni dalla morte di Diego Maradona l' inchiesta penale sugli ultimi giorni del Diez e sulle responsabilità di chi gli stava accanto potrebbe essere a una svolta. Stando al quotidiano La Nacion prende infatti sempre più corpo l' ipotesi di «morte derivata da mala gestione del paziente». Si complicano quindi sempre più la posizione del medico Leopoldo Luque e della psichiatra Agustina Cosachov. «Nessuno aveva il controllo del paziente» ha riferito una fonte investigativa, parlando di «disorganizzazione totale» nella gestione postoperatoria. Nelle prime relazioni dei giudici della Procura di San Isidro si nota che «il paziente non era monitorato, non era sottoposto a continuo controllo medico come le sue condizioni avrebbero richiesto e non assumeva alcun farmaco per le sue patologie cardiache». In sostanza sta emergendo in maniera sempre più chiara che Diego non doveva essere dimesso dalla clinica Olivos, ma andava portato in un centro specializzato per proseguire la riabilitazione. E non di certo una squallida stanza senza nemmeno le ante, senza un bagno vero. «Siamo davanti alla possibilità che sia stato commesso un reato, è possibile dire che potremmo trovarci davanti a un omicidio colposo» ha aggiunto la fonte investigativa. L' inchiesta penale sta prendendo insomma la piega più prevedibile, la più scontata: è stato chiaro fin da subito che qualcuno ha sbagliato, che Diego è stato lasciato solo, abbandonato a se stesso. Il processo sarà però tortuoso, innanzi tutto bisognerà attendere l' esito degli esami supplementari legati all' autopsia. Ma il rimpallo di responsabilità è già cominciato, l' accusa è pesante: una condanna potrebbe costare cinque anni di prigione. Sarà una battaglia lunga e senza esclusione di colpi, come per l' eredità, una telenovela triste che ogni giorno riserva episodi nuovi. Ora prende corpo l' ipotesi che i resti del Diez vengano addirittura riesumati. A richiederlo è uno dei presunti figli segreti, Santiago Lara, che ha bisogno del dna per effettuare il test e dimostrare la parentela. «Voglio solo la verità» dice, ma in ballo c' è una fortuna da 70 milioni di dollari e la sua richiesta ha scatenato una battaglia nella battaglia. L' ex moglie Claudia con le figlie Dalma e Giannina non ne vogliono sapere: il corpo non si tocca. Da una parte i cinque figli riconosciuti, dall' altra i sei che da ogni parte del mondo stanno avviando azioni legali: in mezzo, ovvio, i soldi di Diego, il suo tesoro maledetto, in vita come in morte.
Dagospia il 7 dicembre 2020. Stanno destando grande scalpore i risultati dell’inchiesta sulla morte di Diego Armando Maradona: secondo i giudici, i medici sarebbero colpevoli di una grave incuria che avrebbe causato il suo decesso. E a commentare le ultime vicende oggi è stato l’avvocato Angelo Pisani, ex legale di Maradona. Intervenuto tramite collegamento a Storie Italiane, su Rai1, ospitato da Eleonora Daniele, Pisani ha sottolineato: “La droga non centra nulla con la morte di Diego. La situazione è molto più chiara di quella che può sembrare. C’è stata negligenza, perciò i medici dovranno assumersi le loro responsabilità”. Parlando, invece, di Matias Morla, l’attuale legale di Diego Armando Maradona, l’avvocato Pisani ai microfoni di Storie Italiane ha dichiarato: “In Italia un legale che si intesta i diritti del cliente o che subentra nel suo patrimonio verrebbe radiato immediatamente dall’albo. È una cosa illegittima […] Io ho dovuto lasciare Maradona altrimenti mi sarei dovuto trasferire a Dubai. Nel 2017 hanno preso il mio posto l’avvocato Morla e una serie di consiglieri che hanno allontanato Diego dalla famiglia e dagli amici. Da quel momento nessun calciatore del Napoli ha più potuto chiamarlo. Addirittura io stesso non sono mai più riuscito a parlare con lui: mi è sempre stato detto che non c’era”. Le rivelazioni dell’avvocato Pisani hanno lasciato di sasso Eleonora Daniele e gli ospiti di Storie Italiane. “Lei sta lanciando una bomba enorme” ha infatti commentato la conduttrice. “Diego è stato isolato. Nessuno dei suoi amici è mai più riuscito a parlare con lui” ha ribadito Pisani. “Le sue dichiarazioni faranno il giro del mondo” ha replicato, visibilmente sbalordita, Eleonora Daniele, sottolineando: “Sia della gestione dell’eredità che della stipula del contratto per la cessione del brand se ne quindi è occupato l’avvocato Morla a Dubai quando lei non ha più potuto seguire fisicamente Maradona”. Pisani ha dunque ribadito: “Dal 2017 nessuno è più riuscito a parlare con Diego, nessun calciatore, nessun amico e neppure io”. Dichiarazioni, quelle che l’avvocato Angelo Pisani ha rilasciato in esclusiva a Storie Italiane, che gettano senza dubbio una nuova luce sull’intricata vicenda della morte del calciatore argentino.
Da ilmessaggero.it il 26 novembre 2020. Diego Maradona, l'autopsia sul suo corpo fa luce sulle cause della morte: «Insufficienza cardiaca ha generato un edema del polmone». I medici legali che hanno realizzato ieri sera l'autopsia sul cadavere di Diego Maradona nell'Ospedale di San Fernando, in provincia di Buenos Aires, hanno diffuso un referto con i risultati del loro lavoro. Il decesso, si legge nel documento, è stato attribuito a «insufficienza cardiaca acuta, in un paziente con una miocardiopatia dilatata, insufficienza cardiaca congestizia cronica che ha generato un edema acuto del polmone». Si è infine appreso che lo studio realizzato per determinare le cause della morte sarà completato con analisi tossicologiche che nel giro di una settimana preciseranno se Maradona, prima di morire, ha ingerito farmaci, droghe o alcol.
Sei medici. I media argentini hanno indicato che l'autopsia è durata circa tre ore, fra le 19.30 e le 22.30, e che vi hanno partecipato cinque sanitari convocati dall'Ufficio del Pubblico ministero di San Isidro, guidati dal direttore del Corpo medico forense di San Isidro, Federico Corasaniti. A questi cinque si è unito un sesto medico designato dalla famiglia.
Da leggo.it il 26 novembre 2020. Alle 6.18 locali (le 10.18 italiane) in punto di oggi sono state aperte le porte della camera ardente nella Casa Rosada presidenziale di Buenos Aires dove si trova il feretro che contiene il corpo di Diego Armando Maradona. Numerosi tifosi erano in fila dalla notte. Alla vigilia si parlava di un omaggio che doveva durare 48-72 ore, ma la famiglia ha disposto che l'ingresso delle persone avvenga solo per dieci ore, ossia fino alle 16 (le 20). Nelle ore precedenti all'apertura della camera ardente al pubblico, nella sala dove si trovano i resti di Diego Maradona sono entrati i famigliari (la ex moglie Claudia Villafañe e le figlie Dalma e Giannina) e numerosi calciatori ed amici storici del "pibe de oro" (Carlos Tevez, Martin Palermo, i membri della nazionale argentina vittoriosa a Messico 1986, e Guillermo Coppola). Nella notte è stata nella sala dove dieci anni fa fu reso l'estremo omaggio all'ex presidente Nestor Kirchner anche l'ultima fidanzata di Maradona, Vernica Ojeda, con il figlio Dieguito Fernando. Secondo il quotidiano Clarin il corpo di Maradona non sarà visibile, per cui la bara sarà chiusa. La famiglia di Maradona non ha fatto richieste particolari per le modalità della cerimonia, si è infine appreso, indicando solo l'utilizzazione di una bandiera argentina vicino o sopra il feretro.
C.Pass per il "Corriere della Sera" il 27 novembre 2020. Crisi cardiaca provocata da un edema polmonare: così è morto Diego Maradona stando all' autopsia preliminare effettuata sul suo corpo all' ospedale di San Fernando poche ore dopo il decesso. La formula esatta è «insufficienza cardiaca acuta con cardiomiopatia dilatativa». E la crisi, hanno potuto accertare i medici durante le tre ore dell' esame, è stata provocata da un «edema polmonare acuto», secondo quanto scrive il quotidiano argentino Clarìn , il primo a dare la notizia della scomparsa del campione mercoledì pomeriggio. L' autopsia c' è, ma il mistero resta. Anzi i misteri, al plurale. Bisognerà attendere infatti le analisi tossicologiche che, entro una settimana, faranno luce sulla domanda che tutti si fanno: prima di morire, Diego ha ingerito farmaci, droghe o alcol? Negli ultimi tempi era soprattutto quest' ultimo, il suo problema. Beveva troppo. E abusava di psicofarmaci. Se questo è collegabile alla crisi fatale, lo dovrà chiarire l' analisi tossicologica. L' altro mistero riguarda invece le cure alle quali Diego era sottoposto negli ultimi giorni. Perché dopo l' intervento dello scorso 3 novembre per rimuovere un coagulo al cervello era stato subito dimesso? Ad accusare la gestione post operatoria è stato l' ex medico dell' argentino, Alfredo Cahe: «Un decesso quantomeno insolito - ha detto, con tono volutamente polemico a Telefe - nel senso che Maradona non è stato curato a dovere. Prima di tutto, avrebbe dovuto restare ricoverato. Non esiste che un paziente nelle sue condizioni venga dimesso una settimana dopo quel tipo di intervento. Mandarlo a casa è stata una stupidaggine. In secondo luogo avrebbe dovuto avere un medico adeguato accanto, che fosse in grado di assisterlo in caso di emergenze, cosa che evidentemente non è accaduta. Non so perché ci fosse tanta urgenza di operarlo, ho molti dubbi. Non era necessario intervenire subito». Cahe è stato per 33 anni responsabile della salute di Maradona, salvo poi allontanarsi negli ultimi tempi. Ora il suo medico era Leopoldo Luque, che mercoledì è arrivato nella villa di Tigre quando Diego era già morto. Momenti drammatici, convulsi, sui quali la polizia di San Isidro sta cercando di fare luce. L' inchiesta penale è solo all' inizio e per ora ha solo escluso la morte violenta. Ma lo scenario è caotico, somiglia molto a un tutti contro tutti. L' avvocato di Maradona, Matias Morla, ha denunciato ritardi nei soccorsi: «L' ambulanza ha tardato più di mezz' ora, non è una cosa che può passare sotto silenzio, bisogna indagare». Morla ha poi emesso un comunicato in cui si specifica che nelle dodici ore antecedenti alla morte, Maradona «non avrebbe avuto le attenzioni e i controlli da parte del personale sanitario deputato». Quello che si sa è che Diego negli ultimi giorni della sua vita desiderava soltanto tornare nell' amata Cuba. Stava programmando il viaggio. Ma era debole, depresso e angosciato. E solo, dannatamente solo.
Emiliano Guanella per “la Stampa” il 2 dicembre 2020. Il cuore di Maradona, che pesava il doppio del normale, non è più con lui, ma sul tavolo di un laboratorio specializzato a La Plata dove oggi sarà analizzato a fondo dai medici forensi che stanno indagando sulla sua morte. I migliori esperti in materia condurranno sotto gli occhi dei procuratori Laura Capra e Cosme Iribarren un accurato esame istologico per approfondire il risultato della prima autopsia, che determinava un edema polmonare ed insufficienza ventricolare. Si vuole andare a fondo e per questo sono stati estratti frammenti di altri organi, oltre a urina, sangue e una ciocca di capelli. L'esame tossicologico scoprirà se c' erano nel suo corpo tracce di alcool o sostanze stupefacenti, quello su organi e tessuti se c' erano delle patologie che non sono state curate come meritavano. L'Argentina è ancora stravolta dalla perdita del campione, la sensazione è che si voglia arrivare ad un colpevole, un responsabile di quanto è successo. Nessuno può accettare che il maggior idolo nazionale sia stato abbandonato a se stesso, alla sua depressione, al suo delicatissimo stato di salute. Convalescente dopo un' operazione al cervello Diego soffriva di un quadro di depressione e d' alcolismo, ma è morto per un attacco di cuore. Per il neurochirurgo Leopoldo Luque non c' erano problemi cardiaci, ma le sue parole cozzano con quanto dice l' infermiera Dahiana Gisela Madrid, che si sta rilevando una fonte importante per la procura. Mediante il suo avvocato la Madrid ha detto che Maradona aveva battuto la testa il 18 novembre e che il giorno dopo stava soffrendo di tachicardia, con il cuore a 115 battiti per il minuto. «Il battito alto è una conseguenza delle pastiglie che prendeva per la depressione, ma nessun cardiologo lo ha visitato». Per gli inquirenti risulta chiaro che c' è stata una negligenza da parte dei medici. Il cerchio si chiude, oltre che su Luque, anche sulla psichiatra Agustina Cosechov il cui studio è stato perquisito ieri pomeriggio. La si considera responsabile delle scelte che venivano prese, ad iniziare dal «ricovero domiciliare» poco adatto al trattamento di un paziente nel suo stato. L'ex compagno di squadra Oscar Ruggeri ha riportato in televisione quanto gli ha detto Claudia Villafane. «Viene da morire nel vedere il posto dove l' hanno messo». L'avvocato dell' infermiera ha rincarato la dose. «La casa non era preparata per accoglierlo, non c' era un piano per un'emergenza. Non si capisce perché non l' abbiano portato a casa sua, a Brandsen, dove si sarebbe sentito più a suo agio». Le figlie Giannina e Jana, oltre all' ex fidanzata Veronica Ojeda, assieme al piccolo Diego Fernando sono andate e visitarlo, ma lui non aveva voglia di parlare, sembrava un leone malato chiuso in una gabbia. La giustizia ha esaminato anche le conversazioni del gruppo di whatsapp composta da Dalma, Giannina, Jana, Diego Junior e la psichiatra Cosachov. Il 14 novembre Dalma propone di cercare un medico che coordini il pool, Giannina chiede come sta il padre, Jana risponde che sta vedendo video di vecchie partite, ma che si lamenta perché vorrebbe più privacy. Mentre le indagini proseguono e si attende il risultato degli esami ci si chiede che fare con i resti di Diego. Lui voleva essere sepolto accanto agli amatissimi genitori, ma c' è il rischio di trasformare il cimitero Bella Vista, ancora presidiato dalla polizia e chiuso agli estranei, in un mausoleo non autorizzato, oltre al timore che la tomba sia profanata. La storia argentina ha una lunga tradizione di necromania; nel 1987 fu profanata la tomba del generale Peron, il cadavere della moglie Evita fu nascosto per 13 anni sotto mentite spoglie al cimitero Musocco di Milano per paura di atti vandalici. Per ora, comunque, non si può fare molto: la legge argentina impedisce la cremazione quando c' è un' inchiesta aperta e poi ci sono le istanze di riconoscimento di altri presunti figli di Maradona, tra Argentina, Cuba e la Colombia. Dopo una vita vissuta a mille all' ora per Diego non c' è pace nemmeno dopo la morte.
Da corrieredellosport.it il 2 dicembre 2020. Il cuore completo di Diego Armando Maradona, prelevato durante l'autopsia pesava il doppio di quello normale. Domani in diversi laboratori argentini saranno effettuati vari test come parte delle perizie complementari richieste dai medici forensi che hanno eseguito l'autopsia. Lo hanno riferito fonti giudiziarie citate dall'agenzia di stampa statale Telam. Si tratta di studi tossicologici, attraverso i quali si cercherà di determinare se Maradona avesse tracce di alcol, droghe o qualche altra sostanza nel corpo nelle ore precedenti la sua morte, e analisi istopatologiche, che studiano gli organi e tessuti. La maggior parte delle perizie degli esperti inizierà mercoledì presso la sede della Soprintendenza della Polizia Scientifica nella città di La Plata.
Il cuore di Maradona. La sezione di patologia lavorerà sul cuore di Maradona che, secondo quanto osservato dai medici forensi che hanno eseguito l'autopsia, soffriva di "cardiomiopatia dilatativa" e pesava più di 500 grammi, quasi il doppio del peso di un cuore normale. Nello stesso laboratorio, domani inizieranno anche le analisi dei campioni di urina, sangue e tamponi nasali prelevati dall'autopsia per gli studi tossicologici. Le fonti della magistratura hanno chiarito che questo mercoledì non si conoscerà il risultato di nessuno degli studi, nemmeno quelli che verranno effettuati sui prelievi di urina e sangue, che solitamente sono i primi a essere ottenuti.
Da corrieredellosport.it il 2 dicembre 2020. La magistratura argentina continua a indagare sulla morte di Diego Maradona, per capire se l'ex calciatore sia stato assistito in maniera adeguata dopo l'operazione alla testa di inizio novembre: nelle ultime ore i magistrati hanno messo sotto sequestro i dialoghi su una chat di Whatsapp di cui facevano parte le figlie di Maradona, Dalma e Giannina, il figlio italiano Diego Junior e due degli specialisti che seguivano l'ex fuoriclasse, la psichiatra Agustina Cosachov e lo psicologo Carlos Diaz. Dalla chat emerge la preoccupazione di Dalma sulla necessità di mettere a un medico a controllare la condizioni del padre: "Sono appena stata contattata da una persona che si occupa dei ricoveri domiciliari e mi ha detto che papà ha vomitato (ha mangiato gamberi con aglio e broccoli) - sono le parole di Dalma in una chat - non vuole che un'ambulanza vada a controllarlo. Mi ha detto che ha parlato con Agustina (Cosachov, n.d.r.) e che lei gli ha detto che era una decisione della famiglia! Ecco perché scrivo. Credo che ci siano cose che i famigliari non debbano decidere. Per questo servirebbe un medico clinico o almeno un medico che risponda per lui". Intanto, in un programma tv, spunta anche l'ultimo audio di Diego Maradona, in cui raccomanda all'attuale compagno dell'ex fidanzata Veronica Ojeda, di occuparsi del figlio di 7 anni Diego Fernando, l'ultimo di quelli riconosciuti.
Indagata la psichiatra: perquisiti ufficio e casa. La casa e l'ufficio di Agustina Cosachov, psichiatra di Maradona, sono stati perquisiti dagli investigatori sulla morte dell'ex stella del calcio. Lo hanno riferito fonti giudiziarie citate dall'agenzia di stampa statale Telam. La Cosachov si trova nella stessa situazione del neurologo Luque: è indagata, sospettata, ma non ancora formalmente imputata nel procedimento giudiziario per l'ipotesi di omicidio colposo. "La misura è assolutamente normale. Si stanno cercando la storia clinica e qualche altro tipo di documentazione. Per conoscere la responsabilità del mio cliente devo avere accesso al caso", ha dichiarato l'avvocato della psichiatra, Vadim Mischanchuk, citato dal quotidiano Clarin. Il legale ha detto che la sua cliente si sente "tranquilla" riguardo alle "decisioni mediche che ha preso" sul trattamento di Maradona. Al momento delle perquisizioni, Cosachov non si trovava in nessuno dei due luoghi, ma successivamente ha raggiunto la sua abitazione. Cosachov e Luque sono coloro che hanno firmato la dimissione di Maradona dalla Clinica Olivos dopo l'intervento per un ematoma subdurale al cervello, e i pubblici ministeri stanno esaminando le loro responsabilità, anche per il ricovero domiciliare nella casa di Tigre.
Maurizio Crosetti per repubblica.it il 30 novembre 2020. Il medico personale di Maradona è indagato per omicidio colposo. La procura di San Isidro ha perquisito lo studio e l'abitazione del dottor Leopoldo Luque, 39 anni, il neurochirurgo che il 3 novembre scorso aveva operato Diego al cervello e che, soprattutto, ha gestito le fasi delle dimissioni e dell'assistenza domiciliare. Svolta, secondo i magistrati, con incuria e negligenza. "Ma io so di avere fatto tutto il possibile", si è difeso con veemenza il medico nel corso di una conferenza stampa improvvisata. "Maradona è morto di cuore, la cosa più comune al mondo. Quel mondo che Diego odiava, lui odiava tutto e tutti ma io sentivo la responsabilità di volergli bene, io ero suo amico e lui aveva bisogno di aiuto". La tesi difensiva del chirurgo è che nessuno può essere curato contro la propria volontà: "Maradona era un paziente molto difficile. Perché adesso non indagano su chi era quest'uomo? A volte mi cacciava di casa, poi mi richiamava indietro. Non potevo certo internarlo in manicomio senza l'autorizzazione di uno psichiatra, e neppure potevo obbligarlo ad entrare in una clinica di riabilitazione. Quando è stato dimesso c'era l'autorizzazione, abbiamo dei filmati in cui si vede chiaramente che stava bene. Non ho fatto meno del dovuto per lui, ma di più: ho le prove, ho i documenti e lo dimostrerò. A volte Diego non si alzava neppure dal letto per ricevere le figlie". Eppure restano ampie zone d'ombra sulla fine di Maradona e sul dottor Luque, colui che chiamò l'ambulanza alle 12.23 di mercoledì 25 novembre con una voce assai calma, come se tutto fosse già accaduto, e senza neppure fare il nome di Maradona. Luque nella telefonata di soccorso con gli operatori parlò solo di un paziente di 60 anni in arresto cardiocircolatorio. Il campione si era molto legato a questo giovane medico di vent'anni più giovane, ma come spesso gli accadeva anche nei rapporti umani importanti passava dall'amore all'odio e di nuovo all'amore con grande disinvoltura, e con quegli sbalzi d'umore che spesso accompagnano le sindromi depressive. Nell'inchiesta appena aperta si dovranno chiarire quelle cinque ore di cui si sa ancora troppo poco. A che ora è morto davvero Maradona? I soccorsi sono stati chiamati subito? Perché, chi era in casa, telefonò al dottor Luque e non al pronto soccorso? Forse Diego aveva già smesso di vivere? E come mai è stato dichiarato morto soltanto dopo le 13? Come mai Gisela Madrid, l'infermiera che lo accudiva, ha ritrattato la prima testimonianza in cui asseriva di avere assistito Maradona per tutta la mattinata, quando forse non lo aveva neppure visto? Chi l'ha costretta a mentire, e soprattutto perché?
Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" il 29 novembre 2020. Un decesso, quello di Diego Armando Maradona, quantomai insolito e che ha lasciato sconcertato il mondo intero. La crisi fatale che lo ha condotto a morte è stata accertata e certificata dal referto dell' autopsia durata tre ore, eseguita nella serata di giovedì 26 novembre da un team di sei medici anatomopatologi dell' ospedale San Fernando di BuenosAires: "arresto cardiocircolatorio provocato da un edema polmonare acuto", diagnosi riportata anche dal quotidiano argentino Clarin, il primo a dare la notizia della scomparsa del campione mercoledì scorso. Naturalmente bisognerà attendere i referti delle analisi tossicologiche post-mortem per accertare se Maradona prima di morire abbia ingerito psicofarmaci, droghe od alcool, ma la domanda resta ed è questa: perché nessuno si è accorto in tempo delle gravi condizioni cliniche e cardiache di Diego? L'edema polmonare acuto infatti, non è una complicanza che insorge in un solo giorno all'improvviso in un paziente cardiopatico, perché è una patologia che abbisogna di alcune settimane di decorso per completarsi e manifestarsi in tutta la sua gravità, per poi accelerare e comparire con le sue note manifestazione cliniche, i cui sintomi e segni fisici inequivocabili sono riconoscibili facilmente anche da uno studente di medicina. Perché il paziente in preda a questa grave insufficienza respiratoria di origine cardiaca presenta innanzitutto la diaforesi, ovvero una sudorazione eccessiva che imperla la fronte di gocce di sudore freddo, come il resto del corpo, che al tatto appare di temperatura marmorea, in contemporanea a dispnea parossistica, cioè un grave affanno accompagnato da tosse, ansia, dispnea, cianosi con labbra scure ed ortopnea, al punto che il malato ha importante difficoltà a parlare e respirare sdraiato nel letto e deve assumere la posizione seduta per la grave fame d' aria che accusa, con l' angoscia e la paura che gli si legge negli occhi. Inoltre il soggetto in crisi di edema polmonare acuto presenta, all' ascoltazione cardiaca, aritmie, con ritmi di galoppo diastolico e sistolico del cuore, espettorato di colore rosato da emoftoe, dovuto alle tracce di sangue nello sputo che sgorga dalla bocca, e ipotensione, ovvero pressione arteriosa che tende ad abbassarsi pericolosamente, cosa che aggrava di molto la prognosi infausta ed imminente se non si interviene tempestivamente. Non solo. In presenza di un medico che sospetti tale complicanza e visiti il paziente, anche l' auscultazione polmonare non lascia dubbi, poiché i rumori 'umidi' o i 'crepitii', rantoli sempre presenti in tale patologia, dalle basi polmonari agli apici, indirizzano e rappresentano inequivocabilmente il quadro clinico succitato, come anche una una radiografia del torace, l'esame di elezione per confermare la diagnosi clinica di edema polmonare, non può lasciare dubbi, in quanto esplicita nelle immagini le opacità delle basi respiratorie e l' aspetto sfumato ed offuscato dei profili dei vasi e dei bronchi polmonari, ai quali spesso si associa la presenza di versamento pleurico più o meno evidente (acqua nei polmoni) sempre ben visibile radiologicamente. L' elettrocardiogramma, in grado di identificare le tachiaritmie, spesso causa del peggioramento dell' insufficienza cardiaca o causa determinante della stessa, insieme all' emogasanalisi del sangue, confermano l'insufficienza e l' acidosi respiratoria, ed impongono, nei casi di edema polmonare, di procedere immediatamente alla somministrazione di ossigeno al 100%, di sedare l'ansia del paziente che non respira anche con la morfina solfato in dosi determinate dalla gravità del momento, e di infonderlo di diuretici ad azione immediata (furosemide) per favorire il deflusso e la conseguente eliminazione attraverso le urine dei liquidi trattenuti in eccesso, quelli che il cuore, in difficoltà di pompa contrattile, non riesce ad eliminare. Infatti il cardine del trattamento farmacologico dell' edema polmonare acuto è rappresentato principalmente dai diuretici (Lasix) che agiscono sul versante renale e vascolare, insieme ai farmaci vasodilatatori e alla morfina, arrivando finanche al salasso di sangue se necessario, per ridurre il volume di carico di liquidi che arriva al cuore, tentare di migliorare la sua performance contrattile e non aumentare l'ansia del paziente in pericolo di vita, il quale, ingorgato nel respiro, nella pressione e nella tachicardia, percepisce l'imminenza della fine. La mortalità dell' edema polmonare acuto di norma dipende solo ed esclusivamente dalla tempestività dell' intervento medico, dalla immediata ospedalizzazione e dalla presenza di comorbilità, poiché l' aumento e l' accumulo dei liquidi nello spazio extra vascolare a livello del parenchima polmonare ( dove dovrebbe esserci solo aria ossigenata) è da solo in grado di far perire soffocato il paziente che si avvia all' arresto cardiaco irreversibile. Nessun essere umano, a meno che non sia sedato o indotto in coma farmacologico, muore addormentato nel sonno per edema polmonare acuto, perché la fame d'aria ed il bisogno impellente di respirare tiene svegli, non consente lo stato saporoso, ma impone quello vigile in quanto drammaticamente bisognoso di aiuto e di aria da inalare nei polmoni. Nei casi complicati ed accertati di cardiomiopatia dilatativa, ovvero affaticamento ed aumento patologico di volume del cuore, come nel caso di sofferenza riferito di Maradona, a maggior ragione l' attenzione medica e clinica sarebbe dovuta essere alta e continuativa, soprattutto dopo un recente intervento al cervello per la rimozione di un ematoma subdurale cronico, come quello subìto due settimane prima dal campione, che invece è stato dimesso lo scorso 11novembre, dopo pochi giorni dall' operazione e rimandato a casa in convalescenza sotto le luci accese delle telecamere, in compagnia di un giovane nipote, Johnny Esposito, figlio della sorella Maria Rosa, l'unico esponente del numeroso clan familiare ad averlo visto l' ultima volta prima che morisse. Secondo la ricostruzione del giornale argentino Clarin, Maradona la mattina del 25novembre si sarebbe alzato poco prima delle dieci accusando affanno e dolore al petto, manifestando malore e nausea e lamentando debolezza estrema, e per questo era tornato a letto, mentre i due suoi più stretti collaboratori si mettevano in contatto con il suo medico curante Leopoldo Luque ed il suo amico avvocato Matias Morla, ma le prime ambulanze sul posto, nel quartiere di Sant' Andre's, al confine tra Tigre ed Escobar, risultano arrivate verso mezzogiorno, quando il paziente era già morto da solo nella sua camera, con due ore di grave ritardo dall' inizio della sintomatologia conclamata. Un lasso di tempo non più utile per contenere e risolvere, in un soggetto con miocardiopatia dilatativa complicata da scompenso, una crisi cardiaca in rapida evoluzione verso l' edema polmonare acuto, aggravato certamente da altre criticità preesistenti, che ha stroncato il numero 10 del calcio mondiale alle ore 11,30, quando è stato trovato senza vita nel suo letto, e quando a nulla sono serviti i tentativi di rianimazione. Maradona ha smesso di vivere a 60anni, un'età ancora giovane per morire, in una casa che non era la sua, in una camera dove era da solo, senza alcun familiare accanto, senza nemmeno un medico che invece avrebbe dovuto essere sempre presente in quella villa in affitto, e nonostante i soccorritori arrivati a mezzogiorno gli abbiano somministrato atropina ed adrenalina direttamente e con diverse iniezioni tra le costole sul cuore già fermo, quel suo cuore non ha ripreso vita, non ha risposto ai potenti stimoli farmaceutici nemmeno con un accenno di battito, poiché forse quel cuore poteva essere aggredito ed assistito diversamente nei giorni precedenti, quando certamente aveva dato segni di sofferenza, manifestando sintomi chiari e indicativi, non recepiti o compresi dal paziente stesso e da chi lo aveva in cura.
Carlos Passerini per corriere.it il 29 novembre 2020. Tanti, troppi misteri. E una sola, unica, drammatica, certezza: Diego quella notte era solo, abbandonato a se stesso. L’inchiesta della procura di San Isidro sta cercando di far luce su una storia che fa acqua da tutte le parti e che, anche a distanza di giorni, continua a essere piena di dubbi, incongruenze, misteri. Troppi, gli interrogativi. Che in fondo però si riassumono in uno solo: è stato davvero fatto tutto quanto era possibile per salvare la vita a Maradona oppure qualcuno ha sbagliato? Col passare delle ore il giallo è sempre più fitto. Troppi episodi oscuri, come il fatto che in casa mancasse un defibrillatore, troppe figure contraddittorie. Due, soprattutto. Quella del medico Leopoldo Luque, il chirurgo che l’ha operato al cervello il 3 novembre, onnipresente da anni ma assente nella casa al momento della morte di Diego. Dov’era? A Buenos Aires, un’ora di macchina. Perché non era con lui? C’entra forse il fatto che, come raccontano due testimoni, avessero litigato di brutto il 19 di novembre, cioè una settimana prima del malore fatale del 25? Secondo fonti giudiziarie, Diego avrebbe anche dato uno spintone al dottore e lo avrebbe sbattuto fuori di casa, dopo averlo insultato. «È la prova di quanto fosse difficile discutere con Maradona» ha raccontato all’agenzia Télam la stessa fonte giudiziaria. La procura sta cercando di capire se effettivamente, come pare, quella è stata l’ultima visita da parte del dottor Luque a Maradona nella villa di Tigre.
I soccorsi chiamati in ritardo da un medico che non era con Diego. Figura chiave, quella del dottore. Ieri il sito El Dia ha diffuso l’audio della chiamata del dottor ai soccorsi: «Ciao, c’è una persona che da quanto mi dicono è in arresto cardiorespiratorio — si sente — . Un dottore lo sta assistendo. È un uomo di esattamente 60 anni». Luque non fa mai il nome del paziente: perché? Poi: la telefonata è stata fatta alle 12.16 e secondo i pubblici ministeri la prima ambulanza è arrivata alle 12.28, questo quindi sconfessa la denuncia dell’avvocato Morla che aveva parlato di «più di mezz’ora di ritardo». L’ambulanza era arrivata invece in soli 11 minuti. L’altra figura oscura è quella dell’infermiera Dahiana Gisela Madrid, che ha fornito due versioni clamorosamente discordanti circa gli orari dei controlli nella stanza. Perché? Davvero solo per le «pressioni dei datori di lavoro»? Gli inquirenti vogliono capire cosa sia accaduto in quel buco di sei ore dalle 6 alle 12, ma anche nei giorni precedenti. Primo interrogativo: mentre era solo Diego ha abusato di alcol o farmaci? Qui una risposta arriverà a giorni, grazie all’esame tossicologico. Secondo interrogativo, sollevato dall’ex medico Alfredo Cahe: perché aveva lasciato l’ospedale? Chi lo ha deciso? Ma soprattutto: se ci fosse rimasto anziché tornare a casa oggi sarebbe ancora vivo?
Da huffingtonpost.it il 27 novembre 2020. Un selfie accanto alla bara aperta di Diego Armando Maradona: questo il gesto compiuto da tre dipendenti dell’impresa di pompe funebri Pinier, incaricata delle esequie del campione scomparso il 25 novembre. Uno dei dipendenti è già stato identificato e licenziato. Gli altri due attendono una decisione. A riportarlo è la testata argentina La Nacion. Il lavoratore licenziato si chiama Diego Molina e, insieme ai colleghi, si era fatto fotografare accanto alla salma durante il trasporto dall’abitazione di Tigre, luogo in cui è avvenuta la morte di Maradona, fino al palazzo presidenziale nella capitale. Le foto sono state diffuse dai media argentini e condannate duramente da Matias Morla, avvocato del campione scomparso: “Pagherà per l’aberrazione”. L’impresa di pompe funebri Pinier ha fornito la sua versione dei fatti, riportata da La Nacion: “Il corpo è stato preparato da tre di noi: siamo quattro fratelli e gestiamo l’impresa insieme a nostro padre. Mentre siamo usciti dalla sala per parlare con la polizia e coordinare la traslazione della salma alla Casa Rosada, quelle persone hanno scattato le foto. È successo nei due minuti in cui sono rimasti soli”. I proprietari dell’impresa hanno poi cercato di rintracciare i tre autori dello scatto, che però si erano resi irreperibili non facendosi trovare a casa e spegnendo i telefoni cellulari. “Sentiamo vergogna perché Diego era tutto per tutti. È una cosa che non avremmo mai pensato potesse accadere”, sono state le parole dell’impresa funebre riportate dalla testata La Nacion. Rimane da chiarire come sia stato possibile per i tre dipendenti introdurre telefoni cellulari all’interno della sala, visto che la famiglia di Maradona aveva imposto a chiunque (comprese le forze di polizia) di lasciare il telefonino all’ingresso.
Ipotesi omicidio colposo. Maradona, indagato il medico che lo ha operato: “Non doveva tornare a casa”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2020. Nuovi sviluppi nell’indagine sulla morte di Diego Armando Maradona. La magistratura argentina ha disposto una perquisizione della casa e dell’ufficio del medico personale del Pibe de Oro, Leopoldo Luque. Secondo quanto riferisce La Nacion da fonti giudiziarie qualificate, il medico sarebbe indagato per omicidio colposo in seguito a presunte irregolarità nel ricovero domiciliare di Maradona. Le perquisizioni sono state disposte dalla procuratrice di Benavídez, Laura Capra, e dai sostituti procuratori generali di San Isidro, Patricio Ferrari e Cosme Irribaren. Sempre secondo La Nacion, quando sono arrivati gli ufficiali giudiziari e il personale di polizia, Luque è rimasto sorpreso e avrebbe esclamato: “non me l’aspettavo”.
POOL SPECIALE DI PM – L’idea di formare una squadra speciale di investigatori è stata una decisione presa dal procuratore generale di San Isidro, John Broyad, poco dopo aver appreso della morte di Maradona mercoledì scorso 25 novembre. Le indagini mirano a trovare elementi per determinare eventuali responsabilità del medico di Maradona dopo che era stato dimesso dalla clinica dove era stato operato al cervello per un "ematoma subdurale". Mercoledì scorso il dottore non era a casa quando Maradona è morto, ma ha chiamato il numero di emergenza 911 per richiedere un’ambulanza alle 12.16. Gli investigatori vogliono capire quante volte il dottor Luque è andato a casa per controllare il suo paziente. Finora, il neurochirurgo era l’unico membro dell’entourage di Maradona a non essere stato ascoltato come testimone. “Ieri abbiamo proseguito con le indagini prendendo anche alcune dichiarazioni testimoniali di parenti diretti di Maradona”, ha spiegato in un comunicato il procuratore generale di San Isidro.
DIMISSIONI PRECOCI – E’ proprio sulle dimissioni dalla clinica considerate troppo repentine che parte l’accusa di Alfredo Cahe, storico medico di Maradona per 33 anni. “Mi è sembrato sbagliato – ha raccontato in una intervista all’argentina Telefe – Doveva restare in una struttura diversa, non è stato curato come si doveva“.
GLI ULTIMI ISTANTI DI VITA – Secondo una prima ricostruzione del Clarin l’ultima persona a vedere da vivo Maradona nella sua casa di Tigre era stato il nipote, Jonathan Esposito (figlio di Maria Rosa, la sorella di Diego), alle 23 di martedì, prima di addormentarsi. Eppure per Cahe “con lui in casa doveva esserci un medico, per le condizioni in cui si trovava. E poi il controllo cardiovascolare non è stato fatto in maniera completa – ha evidenziato – Non so quanto tempo abbia impiegato il medico ad arrivare con il defibrillatore: Diego non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto, questo è ciò che penso”.
Gli ultimi giorni di Maradona tra litigi, botte e tè con biscotti: “Ingestibile, non voleva vedere le figlie”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Novembre 2020. “Non posso obbligare un paziente e ricoverarlo in un manicomio se non ho un parere in questo senso da uno psichiatra. Per Maradona ho fatto più del dovuto, non meno”. Queste le parole di Leopoldo Luque, 39 anni, il neurochirurgo che a inizio novembre ha operato al cervello Maradona per un ematoma subdurale e che oggi è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di omicidio colposo da parte della procura di San Isidro che vuole far luce sulla morte del campione argentino. “Ogni volta ci riunivamo per capire cosa fosse meglio per Maradona, e non potevamo andare contro la sua volontà. Senza Diego niente poteva essere fatto. Perché adesso non indagano su chi era Maradona?” si difende Luque che spiega: “Non ci sono errori medici, Maradona ha avuto un attacco cardiaco, un infarto, e purtroppo è la cosa più comune del mondo morire così”. La polizia, su disposizione del pool di magistrati istituito dal procuratore generale di San Isidro, John Broyad, ha perquisito la casa e la clinica del neurochirurgo. L’accelerazione nelle indagini arriva dopo che gli inquirenti hanno acquisito le testimonianze di un infermiere dello staff di assistenza di Maradona e della sua cuoca fidata, Monona, e dopo aver ascoltato le tre figlie di Maradona (Dalma, Giannina e Jana). Quelle figlie che il fuoriclasse argentino non voleva vedere negli ultimi tempi, compreso il 30 ottobre scorso, giorno del suo 60esimo compleanno, perché era depresso. “Gli ho chiesto di alzarsi per ricevere le figlie, perché non le voleva ricevere – racconta Luque -. Il controllo neurologico era buono, non stava bevendo alcol e i farmaci che stava assumendo erano stati predisposti da una equipe di sanitari e psicologi. Diego era un paziente difficile, a volte mi cacciava di casa, poi mi telefonava chiedendomi di tornare”. Maradona è stato dimesso dalla clinica dove è stato operato l’11 novembre scorso e dalle prime indagini è emerso che Luque non si era più recato nella villa del quartiere di San Andres, nella zona di Tigre, dove Maradona trascorreva la sua convalescenza. Alla base ci sarebbe stato un furibondo litigio avvenuto il 19 novembre, sei giorni prima del decesso, con grida e insulti. Una lite che sarebbe arrivata anche alle mani, secondo quanto riferito dall’infermiere e anche dalla cuoca. “Con Diego era così – spiega il neurochirurgo – lui odiava i medici, odiava gli psicologi, ma con me era diverso. Diego aveva tanti problemi prima che lo incontrassi, Diego aveva bisogno di aiuto, non era un pazzo”. “Maradona era caduto e aveva battuto la testa, ma nessuno lo ha fatto controllare”, la rivelazione sugli ultimi giorni del Pibe. “Non so perché stiano cercando un colpevole” ha detto Luque intervistato dalla stampa argentina. “Sono rimasto sorpreso – aggiunge – perché quando Diego e’ morto io sono arrivato sul posto e le forze dell’ordine stavano lavorando. Ero a loro disposizione. E’ il loro lavoro, sono procedure legali che non ho intenzione di criticare. So cosa ho fatto, so come l’ho fatto. Sono assolutamente sicuro di aver fatto del mio meglio”. Per Luque “Diego era un paziente dimesso. Sono io che l’ho accompagnato in clinica. Il mio ruolo era quello di riuscire a far capire le cose a Diego. Non poteva essere portato in un ospedale neuropsichiatrico perché non c’erano criteri medici e un centro di riabilitazione richiede la volontà di Diego” ma “non voleva, né voleva un accompagnamento terapeutico”. Sulla presunta raccomandazione della Clinica Olivos, dove Maradona è stato operato il 3 novembre scorso, di non dimetterlo, Luque ha chiarito: “E’ una bugia. La clinica ha funzionato perfettamente. Lo abbiamo operato, era in condizione di dimissione e nonostante ciò prima di farlo uscire lo abbiamo trattenuto ancora un pò”. Poi, tra le lacrime, ha concluso: “Se io sono responsabile di qualcosa, è di aver amato Diego, di essermi preso cura di lui per prolungare la sua vita il più a lungo possibile, fino all’ultimo. Ho amato Diego, era un padre per me. Ho fatto quello che doveva essere fatto e anche di più. Non ho niente da nascondere, niente. Sono orgoglioso”.
LE PAROLE DI MONONA – La domestica ha raccontato alla giornalista argentina Luciana Geuna le ultime ore di vita di Maradona. “L’ultima notte ha chiesto un te e dei biscotti”. Monona ha poi riferito di averlo visto “arrabbiato, perché l’infermiere voleva cambiargli la maglietta e lui non voleva. Voleva restare solo”. Dopo l’operazione Monona raccontò che Diego aveva “un comportamento bipolare, alcuni giorni stava bene, era socievole e gli ultimi tre giorni era chiuso in camera e voleva stare solo. Addirittura le chiese di colpire il medico”, racconta ancora la giornalista argentina. “Monona e Johny entravano a dargli le medicine perché Diego non voleva gli infermieri. Apriva la porta solo a Maxi e Monona”. L’ultimo a vedere in vita Diego Armando Maradona è stato il nipote, Johnny Espósito, figlio della sorella Maria Rosa. Erano le 23 di martedì 24 novembre, molte ore prima del decesso ufficiale, avvenuto nella tarda mattinata di mercoledì 25 novembre (le 15.30 in Italia) nella casa del quartiere San Andres, nella località di Benavidez, nel dipartimento di Tigre in provincia di Buenos Aires.
L'ipotesi di reato. Chi è Leopoldo Luque, il medico di Maradona indagato per omicidio colposo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Novembre 2020. È ancora al centro della cronaca e delle polemiche la morte di Diego Armando Maradona. E sotto i riflettori c’è il suo medico, ora indagato per omicidio, Leopoldo Luque. Il campione argentino è morto lo scorso 25 novembre, a 60 anni, all’improvviso. È stato sepolto al Jardin de Bella Vista. Soltanto l’11 novembre era stato dimesso dopo esser stato operato al cervello. Luque ha 39 anni, è neurochirurgo specializzato in interventi al cervello e alla colonna vertebrale. L’ipotesi di reato mossa nei suoi confronti e di omicidio colposo. “Sto molto male perché è morto il mio amico. Non posso credere al fatto che si continui a dire che non sono stato con lui – ha detto Luque ai giornalisti nel patio della sua casa dove ha improvvisato una conferenza stampa – Tutto quello che ho fatto per Diego è stato più del dovuto, non meno. Ogni volta ci riunivamo per capire cosa fosse meglio per Maradona, e non potevamo andare contro la sua volontà, perché senza di lui niente poteva essere fatto. Allora perché adesso non indagano su chi era Diego?”. La Procura di San Isidro ha ordinato la perquisizione e dell’ambulatorio privato del medico. Gli sono stati sequestrati documenti, computer e cinque telefoni cellulari. Luque è nato a Lanús (dov’è nato anche Maradona) e vive ad Adrogué. È sposato e ha due figli. Curiosità: è omonimo di un altro calciatore, peraltro campione del Mondo ai Mondiali in Argentina del 1978, Leopoldo Luque, attaccante di Santa Fe.
IL RAPPORTO – Il rapporto professionale cominciò nel 2016. Come ricostruisce il Clarin, il giornale che ha dato per primo la notizia della morte di Maradona, il telefono di Luque squillò: era un collega che gli riferiva che il Pibe de Oro cercava un neurologo. Il pensiero era andato proprio a lui e al suo socio Ariel Sainz, con il quale guidano il centro medico Columna Baires, che punta a risolvere patologie spinali con interventi mininvasivi e con recupero rapido. “Non riuscivamo a crederci – ha raccontato in seguito Luque – ‘Quale Diego? Diego Maradona?’ ci chiedevamo. Fino al giorno in cui lo incontrammo non dicemmo niente a nessuno, avevamo dubbi. La notte prima dell’appuntamento nessuno dei due ha dormito, prima di arrivare prendemmo un miorilassante (rilassante muscolare, ndr) perché eravamo molto nervosi”. La missione principale del medico in questi anni è stata occuparsi del miglioramento delle capacità deambulatorie di Maradona. L’ex campione e allenatore soffriva infatti dolori alle ginocchia e alle caviglie. Negli anni la relazione, anche personale, tra i due è diventata molto più intima dopo il suo ritorno in Argentina. Prima di tornare Maradona aveva infatti allenato negli Emirato Arabi e in Messico. El Pibe de Oro si è sottomesso a più stringenti controlli e cure motorie. Nel luglio 2019, si sottomise a un’operazione al ginocchio destro, al quale venne applicata una protesi. Dopo un paio di mesi divenne allenatore del Gimnasia Esgrimia La Plata.
LA CARRIERA – Luque ha ricevuto un diploma onorario per i suoi studi dall’Università di Buenos Aires, dove ha cominciato una carriera universitaria alla Cattedra di Neurochirurgia della Facoltà di Medicina. Ha lavorato sei anni alla Fundación Barceló e dal 2017 all’Ospedale Tedesco e al Cruce. Dal 2019 è uno dei direttori di Columna Baires. Dopo l’operazione dei primi di novembre, Luque era stato al centro delle attenzioni dei media. “Diego è incredibile – aveva detto il medico – ma dobbiamo continuare a lavorare su di lui. Troveremo un posto adatto alla sua convalescenza”. Maradona era stato operato, ai primi di novembre, per un ematoma subdurale che aveva generato un coagulo nel cervello. La Nación scrive che “in virtù delle prove che si stanno accumulando è stata decisa la perquisizione. Se verranno confermate le irregolarità nel ricovero domestico di Maradona, si potrebbe configurare il reato di omicidio colposo”. Le perquisizioni sono state ordinate dal procuratore di Benavidez Laura Capra e dai giudici e dai procuratori aggiunti di San Isidro, Patricio Ferrari e Cosme Irribaren.
LO SFOGO – “Diego era un paziente che poteva essere dimesso – si è difeso Luque – Aveva l’autorizzazione di andarsene, per la parte neurochirurgica, dalla clinica. Poi è cominciato un dibattito su scelte per le quali il paziente deve collaborare, io non posso obbligare un paziente e ricoverarlo in un manicomio se non ho un parere in questo senso da uno psichiatra”, così come non “posso portarlo in un centro di riabilitazione se lui non vuole. Perché poi il paziente se ne sarebbe potuto andare via a suoi piacimento. Ci sono video in cui si vede che sta bene. Ancora non sono stati diffusi, ma lo saranno presto”. L’ultima immagine di Maradona in vita lo mostra zoppicante, accompagnato da due persone, mentre saluta un bambino che lo chiama da lontano. “Tutto quello che ho fatto per Diego – ha detto il medico – è stato più del dovuto, non meno. Ogni volta ci riunivamo per capire cosa fosse meglio per Maradona, e non potevamo andare contro la sua volontà, perché senza di lui niente poteva essere fatto. Allora perché adesso non indagano su chi era Diego?” Un vero e proprio sfogo quello di Luque, nel punto stampa nei pressi della sua abitazione: “Non ci sono stati errori medici. Maradona ha avuto un attacco cardiaco, e purtroppo è la cosa più comune del mondo morire così, voglio dire che può succedere – ha aggiunto – In ogni momento sono stato con lui. E ho visto molta gente che prima non avevo mai visto. Sono un neurochirurgo, Diego odiava i medici, odiava gli psicologi, odiava tutto il mondo, Ma era mio amico e io stavo sempre con lui. Aveva bisogno di aiuto, ma era difficile convincerlo a fare certe cose. Lui aveva autonomia e lui decideva”.
I dubbi sul decesso del Pibe de Oro. Maradona, il giallo sulle ultime ore di vita: infermiera “obbligata” a dichiarare di averlo controllato. Redazione su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Quando e in che circostanze è morto Diego Armando Maradona? La scomparsa del Pibe de Oro si tinge di giallo, con le prime ricostruzioni che iniziano a vacillare. Il mistero nasce da quanto scrive il quotidiano argentino Clarin che cita gli infermieri che si sono occupati del numero dieci di Napoli e Agentina nella notte del martedì e nelle prime ore del mercoledì, giorno in cui è deceduto il campione argentino. Se da una parte non sembrano in discussione i risultati preliminari dell’autopsia effettuata sul corpo di Diego, ovvero una morte causata da insufficienza cardiaca acuta in un paziente con cardiomiopatia dilatativa, dall’altra qualcosa non torna sugli orari. Torniamo all’infermiere. Quest’ultimo ha dichiarato al Clarin che prima di lasciare il turno alle 6.30 del mattino, ha verificato che Diego era vivo. Entra quindi in gioco una seconda infermiera, quella del turno successivo, che racconta di “averlo sentito muoversi all’interno della stanza alle 7:30”, senza però entrare a controllare. L’infermiera spiega quindi che “l’hanno obbligata” a scrivere nel rapporto di aver controllato il D10S, quando in realtà non l’aveva fatto. Maradona è stato operato al cervello lo scorso 4 novembre per la rimozione di un edema subdurale per poi essere dimesso dalla Clinica Olivos otto giorni dopo. Da qui parte l’accusa di Alfredo Cahe, storico medico di Maradona per 33 anni. “Mi è sembrato sbagliato – ha raccontato in una intervista all’argentina Telefe – Doveva restare in una struttura diversa, non è stato curato come si doveva“. Secondo una prima ricostruzione del Clarin l’ultima persona a vedere da vivo Maradona nella sua casa di Tigre era stato il nipote, Jonathan Esposito (figlio di Maria Rosa, la sorella di Diego), alle 23 di martedì, prima di addormentarsi. Eppure per Cahe “con lui in casa doveva esserci un medico, per le condizioni in cui si trovava. E poi il controllo cardiovascolare non è stato fatto in maniera completa – ha evidenziato – Non so quanto tempo abbia impiegato il medico ad arrivare con il defibrillatore: Diego non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto, questo è ciò che penso”. Se confermata, la ricostruzione del Clarin apre diversi interrogativi sulla scomparsa del Pibe. L’ultima persona ad averlo visto vivo non sarebbe stato il nipote Johnny Esposito, che lo aveva visto in vita alle 23.30 di martedì notte, bensì l’infermiere la mattina di mercoledì. Smentita anche l’accusa di Matias Morla, avvocato di Maradona, che aveva accusato l’ambulanza di essere arrivata “in ritardo di mezz’ora”. Alle 12:17 la segretaria personale di Maradona, Maxi Pomargo, ha richiesto un’ambulanza della società +Vida che è giunta alla villa della località di Tigre, dove si trovava l’ex calciatore, alle 12:28: un viaggio di solo 11 minuti.
Le dichiarazioni dell'infermiera. “Maradona era caduto e aveva battuto la testa, ma nessuno lo ha fatto controllare”, la rivelazione sugli ultimi giorni del Pibe. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Novembre 2020. Diego Armando Maradona era caduto una settimana prima della morte, ha battuto la testa, ma nessuno lo ha portato all’ospedale per una risonanza o una TAC. È soltanto l’ultima rivelazione che alimenta le polemiche sulla morte del campione argentino, deceduto lo scorso mercoledì 25 novembre, a 60 anni. E l’incidente si sarebbe verificato proprio una settimana prima, di mercoledì. La dichiarazione arriva da Rodolfo Barqué, avvocato difensore di Dahiana Madrid, l’infermiera che si occupava del Pibe de Oro nella casa di San Andrés, Tigre, nella provincia di Buenos Aires dove Maradona è morto. Madrid avrebbe anche specificato: nella caduta Maradona aveva battuto il lato destro della testa. Soltanto a inizio novembre aveva subito un intervento sul lato sinistro, al cervello, per via di un ematoma subdurale. Il Clarin, quotidiano che ha dato per primo la notizia della morte del campione, ha comunque consultato fonti nell’entourage di Maradona; nessuno ha registrato l’incidente nella storia clinica del paziente, hanno dichiarato. “Quando è caduto lo hanno rimesso in piedi – ha continuato Baqué a Todo Noticias – e ha continuato la sua vita normale. Ma a decidere se doveva essere visitato è il medico”. L’avvocato ha anche osservato che il paziente non era in condizioni di decidere cosa fare ed è rimasto chiuso nella sua stanza per tre giorni. Al pubblico ministero l’infermiera aveva dichiarato di aver sentito Maradona muoversi nella sua stanza intorno alle 7:30, il giorno del decesso, e di non essere mai entrata. Il legale ha insistito: mancava un medico di base, le condizioni cardiache peggioravano e non era stata prescritta “nemmeno una pastiglia” – “aveva frequenza cardiaca a 115 e il giorno prima della morte a 109. E tutti sappiamo che un paziente con problemi coronari non deve superare le 80 pulsazioni” – e che quell’appartamento non era il luogo adatto alla convalescenza. La sua assistita ha fatto quindi sapere che avrebbe potuto avere contatti con l’ex calciatore solo una volta, il venerdì prima della morte, dopodiché Maradona l’ha licenziata e sebbene sia rimasta su richiesta dell’entourage, non gli ha più rilevato la pressione né controllato in alcun modo. “Ha solo consegnato i farmaci all’assistente di Maradona: lei rimaneva sulla porta della stanza del campione a controllare”.
LA POSIZIONE DEL MEDICO – Altre dichiarazioni mettono al centro delle attenzioni il medico Leopoldo Luque. La dottoressa Agustina Cosachov, psichiatra che aveva avuto in cura Maradona nelle ultime settimane, aveva chiesto per l’ex campione un’assistenza specialistica e infermieristica di 24 ore su 24, che Luque non ha predisposto. È quanto sarebbe emerso dagli atti dell’inchiesta. La stessa psichiatra ha rivelato che il campione presentava evidenti segni di astinenza da sostanze dopo l’operazione. “Se la dottoressa Cosachov mi avesse scritto una relazione precisa, avremmo potuto internare Diego in una clinica psichiatrica – si è difeso Luque – Ma senza questo documento, nessun paziente può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori. E Maradona non voleva più mettere piede in ospedale, aveva deciso di farsi curare in casa: stava meglio, io non l’ho certo abbandonato, è morto d’infarto e non era prevedibile”.
LA FAMIGLIA – Ad accusare il medico anche la famiglia di Maradona. La prima moglie Claudia Villafane e le figlie Dalma e Giannina lo ritengono responsabile: “Toccava a lui organizzare l’assistenza per Maradona che invece è rimasto solo”. Il medico ha invece parlato del paziente come “ingestibile”, si sarebbe rifiutato anche di alzarsi dal letto per ricevere le figlie. Lo stesso avvocato del campione ribadisce che l’inchiesta dovrà chiarire molti aspetti oscuri e punire gli “idioti criminali” agitati come i responsabili della morte di Maradona.
L'infermiera di Maradona: "È stato Diego ad allontanare i medici". Parla l'avvocato dell'infermiera di Maradona, una figura con molti lati oscura vicina al campione fino alla sua morte. Spunta ora un documento inedito. Roberta Damiata, Lunedì 14/12/2020 su Il Giornale. Come era lo stato di salute di Maradona poco prima della sua scomparsa? Chi c’era insieme a Diego e perché l’infermiera che doveva curarlo è stata allontanata? Ci sono video, immagini e dichiarazioni contrastati sugli ultimi giorni del grande campione di calcio ed è quello che si cerca di capire questa sera a “Live non è la d’Urso” alla presenza del figlio Diego, ma anche dell’avvocato dell’infermiera Gisela Madrid, il paramedico che sarebbe stato vicino a Maradona durante le ultime ore della sua vita. La cosa certa è che negli ultimi video che ritraggono Diego ancora in vita, nonostante lo stato di saluto estremamente cagionevole dopo l'intervento alla testa, lui aveva sempre in mano un bicchiere di vino, cosa incomprensibile che lascia molti dubbi. Tornando all’infermiera, sono tanti i misteri su questa figura molto vicina al campione che avrebbe dovuto curarlo dopo l’intervento. È stata proprio lei, secondo dichiarazioni spontanee, ad aver trovato il corpo e avergli praticato la respirazione bocca a bocca. Queste parole pero sono state da lei stessa ritrattate dopo poche ore. Il sospetto è che questa donna conosca una terribile verità che non può essere dichiarata. Proprio per questo la presenza in studio del legale della donna con un documento inedito. Una dichiarazione che spiega come fosse stato proprio Maradona ad allontanare tutti dal suo capezzale. “Dobbiamo pensare a lui come ad un paziente schiavo di una dipendenza - racconta l’avvocato - con la volontà di poter decidere cosa fare”. In questo foglio scritto di proprio pugno, l’infermiera racconta come qualche giorno prima aveva somministrato a Diego un farmaco con una nuova indicazione da parte della psichiatra. “Il paziente - scrive - cade dalla sua stessa altezza senza perdere conoscenza e sbattendo la parte destra della testa. Al tentativo di essere osservato da uno psichiatra chiede a tutti di ritirarsi e andare via non consentendo il controllo delle sue funzioni vitali". Una dichiarazione firmata che in qualche modo spiega e racconta quali fossero state le ultime volontà di Maradona e il suo desiderio di non avere più nessuno al suo capezzale, soprattutto i medici. “Con questa scrittura - continua l’avvocato - possiamo vedere che Maradona era solo perché lui stesso aveva mandato via tutti. Dopo l’operazione era stato dimesso ma in realtà avrebbe dovuto essere assistito 24 ore su 24”. In studio, però, ci sono pareri discordanti. Tra gli ospiti c'è l'ex calciatore Fulvio Collovati che sostiene sia stata presa la decisione quasi di farlo morire: "Non è possibile che i medici lo abbiamo lasciato solo sapendo in che condizioni si trovava". Ma Diego, il figlio italiano di Maradona, e sua madre, Cristiana Sinagra, sono di opinione diversa. "Non credo assolutamente che ci sia stata questa volontà. Queste sono notizie che arrivano dall'Argentina", racconta la donna. "Ci sono cose - dice invece il figlio - che non si comprendono semplicemente. Io sono qui e difendo la mia famiglia. Noi ad esempio abbiamo sempre cercato di soddisfare la volontà di mio padre".
Il compleanno, l'operazione al cervello e la scomparsa in silenzio. Gli ultimi istanti di vita di Maradona, Diego morto nel sonno: “Depresso e angosciato”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Novembre 2020. L’ultimo a vedere in vita Diego Armando Maradona è stato il nipote, Johnny Espósito, figlio della sorella Maria Rosa. Erano le 23 di martedì 24 novembre, molte ore prima del decesso ufficiale, avvenuto nella tarda mattinata di mercoledì 25 novembre (le 15.30 in Italia) nella casa del quartiere San Andres, nella località di Benavidez, nel dipartimento di Tigre in provincia di Buenos Aires. Maradona, che lo scorso 30 ottobre ha compito 60 anni, era stato operato il 3 novembre al cervello a causa di un ematoma subdurale che aveva generato un coagulo in una regione del cervello. L’11 viene dimesso dall’ospedale e si trasferisce nell’abitazione di San Andres per proseguire la riabilitazione e sconfiggere la dipendenza alcolica che l’aveva fatto sprofondare in una crisi depressiva. Secondo la ricostruzione della Procura di San Isidro, riportata dal Clarin (quotidiano argentino che ha dato per primo la notizia del decesso di Maradona), quando alle 11.30 del 25 novembre lo psicologo (Carlos Dìaz) e la psichiatra (Augustina Cosachov) entrano nella stanza del campione argentino non subito si rendono conto che qualcosa non va. Diego non risponde ma pensano dorma. Nella casa sono presenti anche il nipote e un assistente dell’ex fuoriclasse argentino. Dopo un po’ provano a svegliarlo ma non arrivano cenni di vita. Così chiamano i primi soccorsi: arrivano i sanitari che provano la rianimazione cardiopolmonare. Niente. Diego non reagisce. Vengono chiamate numerose ambulanze, circa una decina. Nel frattempo un medico chirurgo che abita nelle vicinanze prova a soccorrerlo. Quando arrivano i rinforzi, oltre al medico Leopoldo Luque (quello che lo ha operato al cervello), vengono portate avanti le manovre di rianimazione con la somministrazione di adrenalina e atropina prima di constatare il decesso. Nel frattempo arrivano al capezzale del Pibe de Oro anche le figlie Dalma, Gianinna e Jana e l’avvocato Matìas Morla. Secondo il risultato preliminare dell’autopsia, la morte è stata il risultato di uno scompenso cardiaco acuto che ha generato un edema polmonare. La notizia inizia a diffondersi intorno alle 13.20 (le 17.20 in Italia) e viene confermata dalla Procura Generale di San Isidro, con il procuratore John Broyad che dispone l’esame autoptico poi effettuato intorno alle 19 (23 in Italia) all’ospedale di San Fernando. Le indagini, guidate da un pool di tre magistrati, sono chiamate a stabilire le cause che hanno portato al decesso. Maradona negli ultimi giorni, secondo quanto descritto dai suoi familiari e dalle persone che lo frequentavamo, era molto ansioso, depresso e angosciato. Il suo staff medico valutava la possibilità di proseguire la riabilitazione a Cuba, l’isola dell’amico Fidel Castro (morto anche lui il 25 novembre del 2016) dove già curò in passato la sua dipendenza dalla cocaina. Non c’è stato tempo. Diego è morto probabilmente nel sonno. Triste, solitario y final. Se ne è andato con il rimorso di non aver riunito tutti i suoi figli in occasione dei 60 anni: oltre a Dalma e Gianinna, anche Jana, Diego Fernando e Diego Armando Maradona jr, il figlio napoletano che proprio nelle scorse ore è stato dimesso dall’ospedale Cotugno di Napoli dopo settimane di ricovero per la positività al coronavirus. Il presidente argentino Alberto Fernández ha disposto tre giorni di lutto nazionale a partire da mercoledì 25 novembre. La camera ardente sarà allestita già da giovedì 26 novembre nella Casa Rosada, il palazzo della presidenza argentina a Buenos Aires. Si stima, nonostante la pandemia, il via vai di almeno un milione di persone.
LA DROGA
"Faceva fatica a...". Diego Maradona morto, Paola Perego reagisce così: cosa sa su di lui, sconvolgente. Diego Maradona, la morte 20 giorni dopo il ricovero: “Era depresso, zero energia”. Libero Quotidiano il 25 novembre 2020. Diego Armando Maradona aveva manifestato le sue ultime volontà per quanto riguarda la sepoltura già quindici anni fa. D’altronde la salute del Pibe de Oro è sempre stato un argomento molto delicato, come conseguenza degli eccessi che hanno caratterizzato quasi tutta la vita di quello che è largamente ritenuto il calciatore più forte di tutti i tempi. Nell'ultimo periodo veniva descritto in uno stato di depressione abbastanza pesante, tra problemi di salute e con l’alcool, che aveva gradualmente sostituito la cocaina tra le sue dipendenze: la morte a 60 anni ha sconvolto il mondo intero, a cominciare dall'Argentina che ha dichiarato lutto nazionale per tre giorni, mentre a Napoli è iniziato il lutto cittadino. “Grazie alla pelota”, dovrebbe essere scritto sulla lapide di Maradona, come espressamente richiesto da Diego nella sua storica ‘auto intervista’ andata in onda nel 2005 al programma argentino La noche del 10. In quell’occasione la leggenda aveva parlato di calcio, ma soprattutto della sua famiglia e della morte, rivelando cosa avrebbe voluto che si scrivesse sulla sua lapide: “Il calcio è lo sport che mi ha dato più allegria, più libertà, come toccare il cielo con la mano. Grazie alla pelota. Scriverei questo sulla lapide”. Nell’ultima intervista al Clarin, risalente allo scorso 30 ottobre in occasione del suo 60esimo compleanno, Maradona aveva invece dichiarato di essere stato molto felice perché “il calcio mi ha dato tutto quello che ho, più di quanto immaginavo. Sarò eternamente grato ai tifosi”, e loro lo saranno a lui, da oggi in poi più che mai.
Dagospia il 26 novembre 2020. Puntata molto intensa quella di Storie Italiane di oggi, su Rai1, in gran parte dedicata a Diego Armando Maradona, scomparso improvvisamente ieri pomeriggio all’età di 60 anni per un attacco cardiaco. Tanti i contributi sul leggendario calciatore argentino che Eleonora Daniele ha mandato in onda durante la lunga diretta di Storie Italiane questa mattina, tra i quali la toccante testimonianza di Lapo Elkann, intervenuto tramite collegamento. “Sono molto triste. Diego era un uomo con un cuore d’oro, che ha sofferto fino all’ultimo giorno. La sua era una sofferenza enorme, un dolore interiore che aveva nonostante la fama, il successo e le vittorie. Ha combattuto la povertà e le dipendenze. Era un guerriero” ha dichiarato. “Per curare le sue sofferenze sia io che lui abbiamo usato cose che ci hanno fatto stare ancora più male” ha confessato inoltre, continuando: “Era un uomo unico, un amico eccezionale. Considerava Fidel Castro come un padre e sono morti addirittura lo stesso giorno”. Tornando, invece, al delicato tema delle dipendenze, Lapo Elkann a Storie Italiane ha rivelato: “Sono stato spesso paragonato a Diego per via di questo problema. Per me è stato un onore. Quando lo penso mi rivedo in lui in tante cose. Era un emanatore di umanità”. Elkann ha raccontato inoltre: “Come succede a tutte le persone che hanno soldi e successo, hanno provato a spremere come dei limoni sia me che Diego. Lui è stato usato e sfruttato per questo […] Aveva un cuore buono e puro. Nessuno al mondo ha un cuore come il suo e non esiste un calciatore bravo come lo era lui”. Prima della fine del collegamento, Lapo Elkann ha confidato ad Eleonora Daniele: “Ieri ho pianto come un bambino. Ho perso un fratello”. Non è riuscito a trattenere le lacrime, infine, ammettendo di sentire già molto la sua mancanza: “Resterai per sempre il numero uno” ha asserito addolorato.
Da liberoquotidiano.it il 26 novembre 2020. “Sul web vedevo spesso la mia foto con Maradona. Era per prenderci in giro per le nostre dipendenze”. Così Lapo Elkann ha commentato su Twitter la scomparsa del genio e sregolatezza per eccellenza: Diego Armando Maradona è venuto a mancare a 60 anni a causa di un arresto cardiaco che lo ha sorpreso mentre era a casa. Stavolta non c’è stato nulla da fare per il Pibe de Oro, che soltanto 20 giorni fa era stato ricoverato d’urgenza ma sembrava essersela cavata bene. “Quelli che ci prendevano in giro - ha aggiunto Lapo - non sapevano che io ero onorato di stare vicino a Diego perché era un mio vero amico. Mi manchi già leggenda dal cuore d’oro. Sei e rimarrai il numero uno, eterno”.
Lapo Elkann, la foto con Diego Maradona: "Io, lui e le nostre dipendenze. Ci prendevano in giro, cosa non sapevano". Libero Quotidiano il 25 novembre 2020. “Sul web vedevo spesso la mia foto con Maradona. Era per prenderci in giro per le nostre dipendenze”. Così Lapo Elkann ha commentato su Twitter la scomparsa del genio e sregolatezza per eccellenza: Diego Armando Maradona è venuto a mancare a 60 anni a causa di un arresto cardiaco che lo ha sorpreso mentre era a casa. Stavolta non c’è stato nulla da fare per il Pibe de Oro, che soltanto 20 giorni fa era stato ricoverato d’urgenza ma sembrava essersela cavata bene. “Quelli che ci prendevano in giro - ha aggiunto Lapo - non sapevano che io ero onorato di stare vicino a Diego perché era un mio vero amico. Mi manchi già leggenda dal cuore d’oro. Sei e rimarrai il numero uno, eterno”.
Diego Maradona incastrato a Usa '94, la testimonianza di Abel Balbo: "Complotto della Fifa". Libero Quotidiano il 7 maggio 2020. La positività di Diego Maradona dopo Argentina-Nigeria e l’esclusione dal Mondiale del 1994 è una delle vicende più oscure nella storia del calcio. A distanza di 26 anni, Abel Balbo ha rilanciato la polemica, ribadendo che si è trattato di uno spregevole intervento della Fifa per punire la voce fuori dal coro del “Diez”. Che sarà stato anche un drogato, ma il tempo gli ha dato ragione: tutto quello che diceva sulla Fifa era vero, visto quanto emerso negli ultimi anni. “È stata la prima volta che un’infermiera è entrata dentro al campo per prelevare un giocatore per il controllo antidoping - ha ricordato a Tnt Sports Balbo, attaccante argentino con un passato in serie A - Quello che è successo a Diego è stato un complotto. Davamo fastidio e non potevano permettere che diventassimo campioni del mondo. Era tutto molto strano, Diego con noi è sempre stato molto sincero e stava facendo le cose per bene. Ma lo hanno cercato e se lo sono venuti a prendere, hanno messo su un teatrino. Poi tutti hanno visto che nella Fifa c’era qualcosa di losco”.
LA CRIMINALITA’
Paolo Manzo per ''il Giornale'' il 28 novembre 2020. Ci sono misteri nella vita del Pibe de Oro poco conosciuti ma che, dopo la sua morte, stanno affiorando. Il primo, reso noto ieri dal quotidiano argentino La Nación con un grafico molto preciso della famiglia allargata di Maradona, è che durante la sua disintossicazione all'Avana, Diego ha messo al mondo altre tre creature da due donne cubane. In nome delle donne non è stato ancora reso noto perché, come aveva anticipato nel 2019 in un'intervista l'ultimo avvocato di Diego, Matías Morla, entrambe avevano iniziato cause per il riconoscimento dei loro tre figli che oggi hanno tra i 15 ed i 20 anni. Saranno loro, certamente, i primi tre figli del Pibe de Oro ad essere riconosciuti post mortem. Altre tre richieste sono però già in corso. Una sempre da Cuba, isola in cui il seme della Mano di Dio è stato sparso copiosamente. Le altre due, sostengono i bene informati, da Messico e Colombia. Questo per quanto concerne le cause già note di riconoscimento di figli che sono sei in tutto, da aggiungersi ai 5 già noti, due dei quali italiani, Diego jr e Jana ma è risaputo che in America latina il test del Dna post mortem è una prassi. Soprattutto quando in ballo ci sono eredità con proprietà ed investimenti cospicui in Cina, Bielorussia, Cuba, Italia, Dubai oltre che, naturalmente, in Argentina. L'altra storia poco nota risale al 1991, quando El Pibe de Oro ricevette l'invito del capo del cartello di Medellín, Pablo Escobar per andare a giocare un'amichevole nel carcere de La Catedral, sulle alture intorno a Medellín e dove all'epoca era imprigionato il super boss colombiano. Una prigione per modo di dire visto che Escobar la gestiva in tutto e per tutto, facendo arrivare qualsiasi cosa desiderasse, dalle Jacuzzi ultimo modello alle top model dell'epoca a, ça va sans dire, i calciatori che più apprezzava. Come il mitico portiere René Higuita, o l'ex capitano dell'Indipendiente Medellín, Oscar Pareja, entrambi invitati a giocare a La Catedral. Ma anche Maradona, che lo raccontò personalmente ad una radio argentina nel 2014. Una notizia ripresa nel 2016 da El Diario de Mendoza. Diego aveva visitato Escobar in prigione senza sapere chi fosse la persona importante che aveva pagato così tanti soldi per un'amichevole in un carcere. «Quando sono entrato, il posto sembrava un hotel di lusso di Dubai. Abbiamo giocato e ci siamo divertiti molto. La sera c'era una festa con le donne migliori, e io ero in prigione! Non ci potevo credere. La mattina dopo mi ha pagato e mi ha salutato gentilmente», confermò 4 anni fa Diego al quotidiano di Mendoza. Una notizia ripresa lo scorso anno dal quotidiano sportivo AS. La persona che gli aveva fatto l'invito era il manager di Maradona dell'epoca, Guillermo Coppola, già in carcere per droga, che gli assicurò che avrebbe intascato una cifra enorme giocando una semplice partitella con alcuni calciatori come Higuita a La Catedral. «Quando sono arrivato a Medellín e mi hanno portato in una prigione circondato da migliaia di soldati, ho pensato tra me e me: Che cazzo sta succedendo? Mi metteranno in galera? Quando sono entrato in quel posto e me l'hanno presentato personalmente, mi hanno detto: Diego, questo è il patrón, il capo. L'ho salutato e lui fu molto rispettoso, piuttosto freddo, ma mi ha dimostrò gentilezza. Dal momento che non seguivo né i notiziari né le televisioni, non sapevo davvero chi fosse» scriveva AS aggiungendo dettagli dell'intervista radiofonica di Diego del 2014. Il portale sportivo iberico fornì ulteriori dettagli sull'incontro tra Escobar e Maradona in quel lontano 1991: «Pablo mi disse che ammirava il mio calcio e che si sentiva identificato con me, perché come me, era uscito dalla povertà per avere successo». Qualche mese prima di morire Maradona smentì «sulla tomba della mamma» la sua intervista del 2014 ma, probabilmente, non era già più così lucido a causa della sua dipendenza dall'alcol.
Daniela De Crescenzo per ''Il Messaggero'' il 28 novembre 2020. «Non dimenticherò mai la notte in cui conobbi Maradona. Arrivò nella casa di mio zio, Luigi Giuliano, quando lui era in carcere e il palazzetto di vico Pace a Forcella era abitato da un altro dei miei zii, Carmine, che vi passava la latitanza. Al piano terra c'era una grande sala con un biliardo. Diego entrò, prese una boccia e se la mise sul piede. La palla rotava su se stessa e non cadeva. Restammo muti, poi Carmine lo abbracciò e gli disse: Sei un mostro. Lo toccava in continuazione e continuava a ripetere Sei un mostro, sei un mostro. Ma Maradona, invece, era Di». Luigi Giuliano, che oggi ha 48 anni e vive a Reggio Emilia dove si è trasferito dopo aver inanellato e pagato una lunga sfilza di reati, è il figlio di Nunzio Giuliano, il primo dei figli di Pio Vittorio, ed era lì con i suoi zii, Carmine e Raffaele quando fu scattata la famosa foto che li ritrae con Maradona accanto a una vasca da bagno a forma di conchiglia. Una foto che ha poi perseguitato el pibe. Era il 1986 e Maradona era a Napoli da due anni. I Giuliano erano i «re» di Forcella, ma Nunzio si era già allontanato dal quartiere. Non aveva mai voluto fare il boss, racconta il figlio, e quando il primogenito aveva cominciato a drogarsi aveva tappezzato il quartiere di manifesti contro l'eroina. Poi era andato a vivere a Chiaia, dove aveva sognato una vita diversa per sé e per i suoi figli. Poco tempo dopo era stato arrestato per un vecchio reato. «E io e mio fratello ce ne tornammo a Forcella: là eravamo i Giuliano, ci sentivamo importanti. E facevamo quello che volevamo». Fu così che Luigi partecipò alla festa in onore di Diego Armando Maradona. «Carmine Giuliano era un patito del Napoli e chiese a un capotifoso di fargli incontrare Maradona», racconta Luigi che all'epoca aveva quattordici anni. «Era passata mezzanotte e noi ragazzi armati presidiavamo il quartiere per controllare che non ci fosse la polizia in giro. Ma Maradona è Maradona e io non volevo perderlo, perciò ogni tanto lasciavo il posto di guardia ed entravo nel palazzetto dove si svolgeva la festa. Lui, il nostro mito, era lì e rideva, scherzava con tutti. Mio zio gli stava accanto, lo abbracciava continuamente. Parlavano tra di loro, credo che discutessero soprattutto di pallone. E poi bevevano champagne. E ridevano, ridevano tanto». E la cocaina? «Credo che mio fratello ne avesse portata una busta, era un po' come lo champagne, ravvivava la festa. Ma Maradona non era venuto a Forcella per quello. No. Lui era venuto per noi, era venuto perché noi glielo avevamo chiesto. Io credo che non si fosse assolutamente domandato se fosse giusto o meno andare da un camorrista, da un latitante. Lui era così, era uno che non si negava a nessuno. E quella era una festa con delle persone che lo adoravano». E poi ci fu la famosa foto, quella che anni dopo, ritrovata nel corso di una perquisizione, finita in un fascicolo sbagliato e poi pubblicata dal Mattino, diventò la prima avvisaglia di una vita in bilico. Quella sera fu la prima che Diego passò con i Giuliano, ma non certo l'ultima. «Lui e Carmine diventarono amici - racconta Luigi - e continuarono a incontrarsi. Diego partecipò al matrimonio di mio cugino, anche lui Luigi Giuliano, che tutti chiamavano Zecchetella, e poi a feste e comunioni. Io, invece, lo ho incontrato spesso nei locali alla moda che frequentavamo entrambi. Ero un ragazzino anche se a quattordici anni giravo armato e guidavo auto e moto: facevo il gradasso, ma come tutti davanti a Diego mi ammutolivo». Nell'87 quando il Napoli vinse il primo scudetto, i Giuliano trasformarono Forcella in un enorme ristorante, l'intero quartiere brindò alla sua squadra e al suo capitano. «Noi eravamo Forcella - ricorda Luigi - I miei nonni con il contrabbando avevano dato lavoro a tutto il quartiere, noi e il rione eravamo una cosa».
Gigi Di Fiore per ilmattino.it il 2 dicembre 2020. Ci toccò un compito ingrato, a me e al collega Elio Scribani nella Cronaca allora guidata da Peppe Calise. Ingrato come doversi occupare e scrivere, a volte per primi con inviti a trasmissioni Rai, altre con i colleghi di più giornali, delle pagine amare di Diego. Era il Maradona uomo, «vittima della sua fragilità e della sua solitudine» ha ricordato il suo storico avvocato penalista, Vincenzo Siniscalchi. Ci toccò e tutto cominciò nella terribile estate del 1989. Quell’estate, Maradona era in Argentina e non rientrava. Si parlava di contrasti con il presidente Corrado Ferlaino, ma anche di minacce dei clan della camorra. Calise aveva avuto soffiate buone da ambienti giudiziari, con la conferma che alcune foto compromettenti su Maradona a casa della potente famiglia camorristica dei Giuliano di Forcella, di cui si vociferava da almeno un paio d’anni, esistevano. E si mosse. Ricordo che aveva un appuntamento a Castelcapuano, sua guida fu un avvocato, oggi scomparso, che difendeva clienti nell’indagine per droga su due coniugi di Forcella: Emilia Troncone e Raffaele De Clemente. E Peppe andò «a pesca», tornando con alcune di quelle 71 foto che il 27 febbraio 1986 la Squadra mobile di Napoli, guidata da Matteo Cinque, aveva sequestrato nel corso della perquisizione a Forcella in casa di Carmine Giuliano legata a quell’indagine. Foto tenute a lungo nascoste: Maradona nella famosa vasca a forma di conchiglia con Carmine Giuliano, uno dei fratelli boss scomparso per tumore schiavo della cocaina; il brindisi con Erminia Celeste Giuliano, la sorella. Il Mattino le pubblicò. Fu uno scoop, ripreso dai giornali di tutto il mondo. Scrisse Calise, in un pezzo a quattro mani con Enzo Perez: «Diego Maradona si è lamentato perché il suo nome è stato associato a fatti di droga e camorra. È apparso addolorato. Nessuno vuole fare collegamenti diretti, ma è innegabile che certe voci circolano e circolavano. Perché?». Il tappo era saltato, le protezioni a Maradona franavano. E la sua assenza prolungata da Napoli alimentava sospetti. Maradona lo avrebbe ammesso nel 2017. Quell’estate sentì a telefono Carmine Giuliano. Le foto avevano scatenato un putiferio e lui temeva ritorsioni. Aveva scritto il 6 marzo 1986 Matteo Cinque, nel suo rapporto sulle foto: «Non sfugge a quest’ufficio la strana presenza di Maradona in compagnia di pregiudicati inquisiti di associazione camorristica, ritenuti organizzatori del lotto e totocalcio clandestino. Appare opportuno procedere a ulteriori accertamenti per acclarare il ruolo del Maradona nel contesto sopramenzionato». L’anno dopo, il Napoli avrebbe vinto il primo scudetto. Maradona in campo faceva scintille, incantava. Tutto fu messo a tacere. Eppure, il 3 dicembre del 1986, in gran segreto Diego fu sentito dai pm Lucio Di Pietro e Linda Gabriele. E spiegò: «Normali foto con tifosi, nel corso di festeggiamenti». A Carmine Giuliano piaceva vantarsi della conoscenza famosa e, sentito in Procura sempre nel 1986, dichiarò: «Sono un acceso tifoso di Maradona, un ultras come tutte le persone nelle foto. Dopo l’inaugurazione del Napoli club a Forcella, è stato a casa di tanti tifosi e anche a casa mia». Diego non si sottraeva, sempre disponibile con i tifosi, sottovalutava i clan di cui nulla sapeva. Erano passati solo due anni dall’apoteosi del 5 luglio 1984, con la presentazione al San Paolo dinanzi a migliaia di tifosi. E fu invitato all’inaugurazione del Napoli club a Forcella. Così lo descrisse il giornalista argentino Guillermo Blanco: «Era l’idolo arrivato nel cuore di Forcella, la Casbah napoletana. Arrivò con altri calciatori del Napoli. Fu un caos totale». Naturalmente, Diego fu invitato dai Giuliano e nella loro casa accettò di brindare e farsi fotografare. Nell’estate del 1989, in contemporanea con la bomba delle foto, circolavano voci sulle minacce dei clan a Diego che temeva per le figlie e restava in Argentina. Diffuse un comunicato parlando di «complotto». «Se toccano le mie figlie, non giocherò più al calcio» disse al telefono a Carmine Giuliano che lo rassicurò: «Nessuno farà del male a te e alla tua famiglia». Maradona tornò e il 28 settembre del 1989 fu sentito come teste da Federico Cafiero de Raho, allora pm a Napoli, oggi procuratore nazionale antimafia, che indagava sulle minacce. Alla fine, il fascicolo fu archiviato. Poi, l’inchiesta su droga e prostituzione alla fine del 1990, che coinvolse il clan Lo Russo. Ci fu un processo e l’avvocato Siniscalchi ottenne per Maradona il patteggiamento a un anno e tre mesi. Quando l’otto febbraio 1991 Diego fu interrogato a Castelcapuano, ci mise tempo a salire in Procura al terzo piano. Centinaia tra agenti e dipendenti lo fermavano per foto e autografi. Quando scese, mi avvicinai per una dichiarazione. Mi gelò: «Sei del Mattino, con voi non parlo». Non aveva perdonato la pubblicazione delle foto. Ci volle tutto il tatto e l’abilità di Ciccio Marolda allo sport per recuperare il rapporto del Mattino con il campione. Ma il 1991 e l’anno successivo fu un susseguirsi di vicende, che dovemmo seguire: la droga, le prostitute, le amicizie discutibili. In via Chiatamone venne uno strano personaggio, una ex guardia giurata che mi consegnò un memoriale. Era Pietro Pugliese. Pubblicammo e fu scoop con invito da Biscardi. Nel memoriale si parlava del Pallone d’oro di Maradona rubato alla Banca della Provincia di Napoli che Diego tentò di recuperare interessando il clan Lo Russo di Miano e anche di risentimenti particolari verso tre giornalisti sportivi, tra cui Mimmo Carratelli del Mattino, con minacce. Andai anche a Como, dove si era trasferita Juana Bergara, ex cameriera di casa Maradona. Chiese soldi per un’intervista e me ne tornai. Sciacalli si catapultavano sulle fragilità dell’uomo, insuperabile in campo. Poi la triste fuga nella notte da Napoli, il primo aprile 1991. «Voglio bene ai napoletani anche se c’è qualcuno che vuole mettermi contro di loro» dichiarò. Al processo a Roma, seguito alle dichiarazioni di Pugliese, non fu mai presente. Venne assolto. Indimenticabile per le sue prodezze di calciatore. Fu triste raccontare le sue fragilità, in una città che sa amare, ma riesce anche a stritolare i suoi miti.
MARADONA E L’ARGENTINA
Da ilnapolista.it l'8 dicembre 2020. “Eravamo giovani e Maradona veniva a prenderci a scuola la sera. Anni dopo, quando lui aveva già lasciato il quartiere, lavoravo in una casa di famiglia a Villa Crespo, accanto a un negozio di abbigliamento sportivo. Un giorno ci fu un parapiglia perché Maradona era lì, dissi alla signora dove lavoravo che lo conoscevo. Gli bastò vedermi e mi disse: “Ciao, Lila, vuoi uscire stasera?”. “Ma Diego, ho un ragazzo,” gli dico. Avevamo 18 anni. A Maradona piacevano molto le ragazze, era un “chamuyero”. Anche io avrei potuto avere un figlio da Maradona! Mia figlia mi chiede sempre se è figlia di Maradona ”, e non smette di sorridere“. El Pais pubblica un lungo e bellissimo reportage da Villa Fiorito, “la culla di terra di Maradona”: il luogo dove è cresciuto il mito, dove vivono “lavoratori autonomi, operai del cartone, venditori ambulanti o dipendenti di piccole fabbriche. Molti vivono grazie all’aiuto del governo. Sono tutti poveri, ma non sono tutti uguali. Se il vicino ha 60 anni e non è un nuovo arrivato, deve aver giocato a palla con Maradona. Potrebbe anche essere un suo amico, come Serrucho e Orlando Miño, che non vuole parlare di Diego perché i suoi occhi si riempiono di lacrime. Sua sorella Lila parla, molto”. A pochi metri da Villa Fiorito scorre il Riachuelo, il fiume più inquinato dell’Argentina, lo superi e sei a Buenos Aires. Serrucho racconta al Pais che da piccoli “non avevano acqua corrente, che un solo rubinetto riforniva dozzine di famiglie, che la pioggia aveva trasformato il quartiere in un pantano e che vivevano tutti in case di latta e cartone. Suo padre, come quello di Maradona, sostituì gradualmente il cartone con i mattoni, fino a riempire il quartiere di cemento. Nel 2008 le strade sterrate sono state ricoperte di asfalto e sono arrivate le fogne“. La casa di Maradona sembra quasi abbandonata. “L’attuale inquilino, che è lì da 45 anni come “padrone di casa”, si rade davanti a un minuscolo specchio appeso vicino alla porta. La spazzatura è ammucchiata tra la casa e la strada. Suo figlio, sulla quarantina, diventa violento perché crede che Serrucho ci guadagni facendo da cicerone. “Tutti fanno soldi tranne noi”, si lamenta. Lorenzo salda una staccionata a pochi metri dal luogo. Era l’allenatore di Maradona e conosce Serrucho da quegli anni. “Dì la verità, che Maradona ci ha abbandonati”, dice, molto arrabbiato”. Ma le nuove generazioni affrontano la morte del Pibe con un altro punto di vista, più distaccato. Gastón Flores ha 28 anni: “Siamo nell’epoca di Messi, non di Maradona. La morte di Messi farebbe più casino di quella di Maradona“. Gli aneddoti di calcio dei più anziani sono infiniti: “Di tanto in tanto, Maradona veniva a giocare per la squadra di Goyo (l’amico d’infanzia che lo portò all’Argentinos Juniors) su questo campo. Ma il padre non voleva, perché Diego era già a Los Cebollitas e aveva paura che si facesse male”, dice Francisco Centurión, 70 anni. Da dietro una recinzione rattoppata, rivive le scappatelle di Maradona per aggirare il divieto. “Quando arrivava il padre, Diego si nascondeva in un fosso vicino al campo e i ragazzi si mettevano a sedere davanti a lui per coprirlo. “Dicci quando il vecchio se ne va”, mi dicevano”. Hugo Cordero ha due anni in più di Maradona. E ricorda: “Quando è partito da qui, ha preso tutta la famiglia, ma la nonna non voleva andarsene. Allora ha chiesto ad alcuni amici di simulare un’aggressione per spaventarla. E così se l’è portata via dal quartiere”. I ritorni del campione a Villa Fiorito sono pochi e si confondono con il mito. “Tre anni dopo la sua partenza ci siamo incontrati, è arrivato con una limousine”, ricorda Serrucho. “Mi vede e dice: “Dai, Serrucho, dai, andiamo a scopare“. Gli dissi di no, e ci mettemmo a bere whisky nella limousine. Tornò di nuovo nel 1977, con un camion giocattolo per la Giornata dei bambini”. Maradona sarebbe tornato nel 2005, accompagnato dal regista Emir Kusturica, che stava girando il documentario sulla sua vita. Durante quella visita, la prima che Diego faceva al quartiere da 14 anni, riusciva a malapena a muoversi tra la folla che lo importunava. Villa Fiorito non era più un posto per lui, anche se chi lo ha visto giocare per le strade sterrate non la pensa così. Lila ora dice: “Sono sicura che se Maradona fosse tornato nel quartiere, sarebbe stato più felice”.
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 2 dicembre 2020. Quando El Gringo, El Negro, El Vasco "Nuca de Dios", El Cabezon e Nery si sono accorti che El Pelusa si era tolto dal gruppo Whatsapp del mondiale '86, tutti hanno capito che il loro amico stava male, male dentro e male più di sempre, perché una cosa così non l' aveva mai fatta. E che forse stavolta avrebbe davvero raggiunto lassù El Tata e El Cuchu. «Oh sì, adesso Pelusa è in cielo con El Profe Echeverria, che era il nostro preparatore atletico, e con Molina il massaggiatore, e naturalmente col Tata Brown e con Joselito Cuciuffo, il nostro Cuchu morto in un incidente di caccia». Piange, Oscar Ruggeri (lui è il Cabezon, il testone) alle prese con tutti questi morti e l' ultimo è naturalmente Diego, "El Pelusa", "El Pelu", il capellone, così lo chiamavano da ragazzino e così hanno continuato a chiamarlo solo gli intimi: uomini, ma di più soprannomi. E quando si spento un cellulare, si è spento un universo. «Provavamo a chiamarlo, a scrivergli. Tutto inutile». El Negro è Hector Enrique, l' uomo che passò la palla a Dieguito nel gol del secolo, l' azione infinita, un po' come questo dolore. «Non rispondeva alla chat da almeno due settimane, non ce lo passavano al telefono, dicevano che dormiva: io non ci credo». I ragazzi sanno che il loro capitano alla fine si è lasciato morire, è scivolato laggiù da solo. «E questo è terribile, perché Diego aveva dato gioia a tutti. Adesso anche il pallone è triste perché il pallone festeggiava gli anni il 30 di ottobre, insieme a Maradona. Io lo so che Pelu ora è in cielo col suo papà, la sua mamma e l' altro dio, il Padreterno. Diego non ha mai dimenticato da dove arrivava e non ha mai lasciato nessuno solo. Ci ha mostrato la strada e ci ha insegnato ad amare la maglia. Lui è il nostro "gran capitan"». Questi omoni stempiati, questi bambinoni giganti frantumati dentro. Nery Pumpido era il portiere. «Diego ci faceva sempre ridere, anche al telefono con i suoi vocali. Ha smesso di colpo, dopo l' operazione. Sapete, lui aveva regalato a tutti noi compagni una riproduzione della Coppa del mondo, la mia sta su una mensola e quando sono venuto a salutare Diego l' ho presa, volevo metterla nella bara, l' ho detto a Claudia, la Coppa deve stare col Pelu per l' eternità. Mi sono avvicinato e l' ho guardato: sorrideva. Gli ho detto grazie amico, grazie di tutto». La lunghissima morte di Diego Maradona si era presentata così tante volte da non sembrare neanche credibile. Pareva una finta di gioco, ormai. «Ma quando ha smesso di risponderci, mi è venuto un brivido». Ricardo Giusti, El Gringo, era un pilastro della Nazionale. «Abbiamo vissuto con Diego la nostra parte migliore. Ha sofferto tanto. Tutti ripetevano che il Pelusa era immortale, e io lo so cosa vuol dire: perché quell' immortalità l' ho vista con questi miei occhi, giocandogli accanto. Nella bara il mio amico era finalmente in pace, sei diventato un ragazzo tranquillo, gli ho detto». Senza misura piange Julio Olarticoechea, El Vasco, che sarebbe il basco. Lui di soprannomi ne ha addirittura due, perché da quel giorno contro gli inglesi è anche la Nuca de Dios: se la mano di Dio (Diego) segnò, la nuca di Dio (Julio) respinse sulla linea. «Sono in bicicletta quando mi dicono che Maradona è morto. Torno e casa e mi metto a camminare, per due ore ho camminato, pensato e ricordato. Gli avevo scritto, non rispondeva più. Parlargli era impossibile anche per noi chicos dell' 86. È tremendo sapere che il nostro amico è morto solo. Me lo rivedo in camera che non si alza mai dal letto e mi dice scusami Vasco, lasciami dormire ancora un po'». Era un gruppo particolare, quell' Argentina dell' 86 agli ordini di Carlos Bilardo. Ancora non gli hanno detto che Diego è morto, lui ha l' Alzheimer, ne soffrirebbe troppo. Suo fratello Jorge gli ha raccontato che il cavo del televisore è rotto e bisogna tenere spento.
Una squadra segnata dal destino. Josè Cuciuffo, El Cuche, difensore e marcatore, venne ucciso durante una battuta di caccia da un colpo sparato per sbaglio: aveva solo 43 anni. E il Tata Brown se n' è andato l' anno scorso, anche lui aveva la malattia che spegne il cervello, i ricordi e poi tutto il resto. La chat su Whatsapp li teneva uniti, ora che il tempo e le strade li avevano un po' sparpagliati ma non divisi, finché proprio Diego ha schiacciato un pulsante e addio. «Mi costa piangerlo, però mi serve farlo». Scuote il testone, Cabezon Ruggeri. «Ci ho creduto soltanto quando ho visto la bara. Quando l' ho saputo ero a casa, e sono rimasto a piangere da solo non so per quanto tempo: piangevo Diego e la nostra vita che lentamente se ne va, la sua parte migliore, la più felice, i compagni che non ci sono più. Quei giorni in Messico, nell' 86: cosa avremmo potuto avere, dopo? Cosa, più grande di questo? Ma lui nella bara era sereno, ognuno di noi l' ha notato. Questa cosa ci ha fatto bene. Sul volto di Diego c' era una pace enorme, veramente. E io ho pensato che quando entrava in campo, sorrideva sempre. Era una cosa veloce, un attimo appena, poi la sua faccia diventava dura e quasi cattiva. Ma prima c' era quel sorriso».
Carlos Passerini per corriere.it il 26 novembre 2020. Troppo dolore, troppa gente, troppo tutto. L’Argentina è sotto choc e «col corazon sufrido», il cuore che soffre, tanto che i funerali di Diego Maradona si dovrebbero tenere già stasera e non sabato, per espressa richiesta della famiglia, ma anche del governo e delle forze dell’ordine, che devono fronteggiare un’ondata di uomini e di commozione impressionante, incontrollabile. E ora anche di attacchi e polemiche, come forse inevitabile quando si tratta di Diego. Le prime accuse le ha lanciate il suo avvocato, Matias Morla, che chiede un’indagine perché «è inspiegabile che per 12 ore non abbia avuto attenzioni o controlli da parte del personale sanitario» e definisce una «idiozia criminale» il fatto che l’ambulanza «abbia impiegato mezzora per raggiungere l’abitazione dove Maradona era andato a vivere per iniziare la riabilitazione». La veglia al palazzo del governo nel centro di Buenos Aires durerà fino alle 16 locali, le 20 italiane. Ma già in queste ore la situazione è impazzita, la polizia davanti alla Casa Rosada non sa più come trattenere le persone, in coda da ore. Com’era in fondo prevedibile, immaginabile, naturale. Non puoi non piangere, Argentina. Come per Evita, come per Carlos Gardel, come per Ernesto Guevara, anche se al Che, che era di Rosario, gli argentini in fondo non perdonarono mai d’aver fatto la rivoluzione lontano dalla sua terra. Non come Diego, che per la sua gente ha dato tutto, nella sua eterna guerra santa contro tutto ciò che era imposizione, sopruso, imperialismo. «Oggi, quando uscirete sul campo, ricordatevi che state giocando non solo per voi, ma per i vostri fratelli, i vostri cugini, i vostri amici che sono morti ammazzati alle Malvinas» fu il discorso da brividi ai compagni prima di quella leggendaria partita con l’Inghilterra nel 1986 che è un pezzo della vita di tutti noi, non solo degli argentini. Era questo, Diego. Eccessivo e sbagliato quanto si vuole. Ma di certo per gli argentini un eroe della gente, un capo popolo, un padre della patria, perché il suo non era solo calcio, era il «grito sacrado», l’urlo sacro di «libertad libertad libertad» che gridò in faccia al mondo quella notte all’Olimpico nella finale del 1990, quando gli fischiarono l’inno, che per un argentino è come insultarti la mamma. L’ultima e l’unica volta che la Casa Rosada aveva ospitato la camera ardente per uno sportivo era stato nel 1995 per il pilota Juan Manuel Fangio. Chi conosce però la mistica che fa degli argentini «un popolo unico perché incomprensibile e incomprensibile perché unico», come scriveva Osvaldo Soriano, sa che il solo paragone che regge è quello con Evita Peron, al cui funerale nel 1952 parteciparono milioni di persone. Stesse origini umili, lei e Diego, stessa rabbia popolare, stessa rivalsa sociale, stesso senso del popolo, stesso talento per la parola a effetto, per la provocazione, per il gesto teatrale.
MARADONA E NAPOLI
Il lutto di Napoli: "Addio Diego, uno di noi". Dario del Porto, Giovanni Marino su la Repubblica il 25 novembre 2020. Cori ai Quartieri Spagnoli, San Paolo illuminato a giorno e lutto cittadino: la città piange il suo campione. Napoli ha perso uno dei suoi più amati figli. Al quale ha sempre perdonato tutto. Il lutto colpisce la città nel silenzio da coprifuoco del Covid ma in un lampo si diffonde in ogni casa, in ogni famiglia, in ogni quartiere. Sui social scrivono: "Addio Diego, ma per noi sarai sempre qui, che dribbli gli avversari e segni con la maglia azzurra". Un sentimento diffuso. Totale. La morte di Maradona lascia sgomenta l'intera città di Napoli. In particolare, i Quartieri Spagnoli si listano a lutto. Alcuni affiggono manifesti funebri, altri stendono vecchi striscioni del Napoli, legati ai fasti calcistici degli anni Ottanta. Molte persone, tifosi di tutte le età, scendono in strada e si riuniscono sotto il grande murale dedicato a Diego, in via Emanuele De Deo. In tanti accendono un lumino, come in una lunga veglia funebre per accompagnare "l'ultimo re di Napoli". Quartieri Spagnoli, le otto della sera. La notizia della morte di Diego Armando Maradona sta facendo il giro del mondo mentre proprio davanti al murale disegnato in una delle zone più popolari della città si raduna una folla commossa. "Siamo qui per salutare Diego. Uno di noi", dicono. In mezzo alla gente c'è anche una ragazza che piange. "Mi chiamo Pilar, sono argentina e studio a Napoli. Maradona è stato un padre per il nostro popolo. Ma non solo del calcio. Ci ha fatto vincere un Mondiale, ci ha dato le soddisfazioni più importanti della nostra storia. Ed sempre stato dalla parte del popolo. Un grande. E lo sarà sempre. Vivrà sempre nei nostri ricordi». Un gruppo di tifosi accende un fumogeno e partono i cori che infiammavano la curva negli anni degli scudetti. Il Comune proclama il lutto cittadino. Dall'altro capo della metropoli, lo stadio San Paolo che fu teatro dei successi sportivi del Dio del pallone accende le luci come nelle più emozionanti notti di Coppa. Un gruppo di tifosi si muove proprio verso lo stadio San Paolo, affiggendo uno striscione all'esterno della curva B: «'O re immortale, il tuo vessillo mai smetterà di sventolare». Quell'impianto che adesso già si pensa di intitolargli. Un altro striscione viene esposto sul cancello azzurro di quello che fu il Centro Paradiso di Soccavo, sede e campo di allenamento del Napoli che guidato dal fuoriclasse argentino vinse due volte lo scudetto. L'ultimo esattamente trent'anni fa: «Questo è il tuo Paradiso, immortale 10». La città saluta il figlio prediletto, ma non vuole dimenticarlo. "Sei sempre con noi, capitano". Maradona e Napoli, per sempre.
Conchita Sannino per “la Repubblica” il 2 dicembre 2020. «Io volevo blindare Napoli e il suo lutto collettivo dai giudizi trancianti, dalle tesi che quasi sempre arrivano da alcune parti. Volevo proteggere ciò che di prezioso ci lega per sempre a Maradona». Ed è per questo, ingegnere Corrado Ferlaino, che è scivolato su un episodio doloroso (ormai datato, e ben superato) del dirigente della Juve, Pessotto?
«Io non ho fatto in tv il suo nome».
Ma ha parlato di un giocatore della Juve che tentò il suicidio.
«Chiarisco l'equivoco. Mi hanno chiesto di commentare in tv le parole di Cabrini: e cioè la colossale sciocchezza che se Maradona fosse andato alla Juve non gli sarebbe capitato di farsi del male. Ho ribattuto che, invece, un latino come lui a Torino non ci sarebbe mai andato, o si sarebbe incupito. E ho aggiunto che a Napoli, per la sua vitalità, diventa più difficile lanciarsi giù dalla finestra. In ogni caso, mi ha chiamato il dottor Pessotto, ho chiarito anche con lui, gli rinnovo i miei migliori auguri».
Il piglio di sempre, oggi, a 89 anni, mentre nel suo ufficio a Palazzo d'Avalos - l'imponente edificio del Cinquecento che ha acquistato trent'anni fa nel cuore della Chiaia nobiliare - lo inseguono dirette tv e le call con giornali dal mondo. Vogliono che l'uomo rimasto per 23 anni al vertice del Calcio Napoli racconti il "suo" Diego. Ma lui è napoletano atipico: lo chiama sempre Maradona, tiene il ciglio asciutto, serra l'emozione sotto il peso dei ricordi.
Che idea si è fatto sulla mancanza dei soccorsi, su una fine senza affetti...
«Fa male pensarlo. E non voglio sapere, a cosa serve. Voglio pensarlo vitale, ironico».
L'ultimo saluto tra voi, quando?
«Pochi mesi fa. Lo chiamai io in Argentina. sembrava sereno, ci demmo appuntamento come si fa sempre, chi poteva immaginare...».
Avevate ricucito già da tempo.
«Ma sì. Sono andato a trovarlo a Buenos Aires in un paio di volte. Ero stato con lui anche a Cuba. E poi, sempre in anni recenti, mi ricordo una sera a Roma... Riuscì a giocarmi un bel tiro».
Perché?
«Venne a trovarmi al Grand Hotel. Credo fosse ospite di uno show del sabato in Rai, dove esibirsi e ballare forse lo riportava all'amore del pubblico. Dovevamo vederci a cena. "Sei mio ospite, decidi". E lui sceglie un ristorante caro e noto di pesce, al Pantheon. Vado lì, s'era accomodato con dieci persone».
Perché questo moto d'affetto inarrestabile, a Napoli e non solo?
«Perché il suo calcio faceva impazzire. Perché oltre all'enorme talento, aveva coraggio e lealtà. Perché era un generoso. Lui entrava in casa del principe, ma non lo curava. Si affezionava al suo cameriere».
Cioè, concretamente?
«Un politico, molto potente, non ne farò mai il nome, lo implorò di fare una partitella in provincia: lo avrebbe anche ben remunerato. Niente, gli chiuse sempre la porta. Invece andò ad Acerra, in un campetto fangoso, a raccogliere 20 milioni e fare operare al volto un bimbo di una povera famiglia».
Non si pente di nulla? Non potevate proteggerlo meglio?
«Ma un presidente non è mica un tutore, un predicatore. Poi d' estate lo perdevo di vista. Andava in Argentina, come lo controllavi? Era un campione, con la sua vita...».
Non in Argentina, ma con i boss Giuliano a Forcella, affondava nella cocaina.
«Tutti parlano di camorra, di boss. Ma io lavoro a Napoli da quando avevo 16 anni, da 70 faccio l' imprenditore qui. Non mi drogo, non incontro camorre. C'erano in lui fragilità, c'era voglia di sentirsi circondato, a costo di perdersi».
Non parlaste di questo, tra voi?
«Un presidente non può stare addosso a un giocatore, anche se è Maradona. Ma gli mandavo i miei dirigenti più in gamba, più forti. Così come, quando finì in un guaio giudiziario, lo feci assistere dal migliore, l'avvocato Siniscalchi».
Nel docufilm di Kapadia, Diego ripete a un certo punto, adirato: decide Ferlaino, è il mio capo.
«Dopo il primo scudetto, le cose cambiarono. Certo, si riferisce a me quando non volli cederlo. Era un suo mantra».
Ma come le venne in mente di puntare a Maradona, 13 miliardi e mezzo di lire, mentre quasi non riuscivate a pagare i dipendenti?
«La follia, quando ci sei dentro, mica la vedi. Avevamo davvero seri problemi. Proprio per il bisogno di fare cassa, organizzammo un' amichevole con il Barcellona. Volevamo venisse Maradona. Ci risposero che non stava bene».
Scopriste che in realtà Diego era in rotta con i blaugrana.
«E cominciò un film. Un thriller...».
Che culmina nella missione impossibile del 30 giugno '84.
«Oltre alla follia di credere in quel progetto, pesarono alcune coincidenze irripetibili. Era un amico Enzo Scotti, che diventò sindaco Dc di Napoli per cento giorni. Ed avevo ascolto presso l'allora potentissimo presidente del Banco di Napoli, Ventriglia».
Che diede la fideiussione, 9 zeri.
«Un sabato. Mi svegliai prestissimo, ottenni i documenti in banca, ma prima che leggessero i giornali: attaccavano l'idea di spendere tanti soldi per un campione. Andai in Lega, depositai una busta vuota. Proseguii, sempre in aereo privato, per Barcellona. Col contratto firmato da Maradona, feci tappa ancora a Milano, a sera: convinsi un vigilante a farmi entrare, al posto di quella vuota depositai la busta con il contratto, tornai a Napoli non so a che ora. La città esplodeva di gioia. Lo sa l'enorme dispiacere qual è? ».
Più grande del tutto?
«Sì, non poterlo rivedere neanche dopo. Lui sarà in paradiso. Dove io non andrò».
Alberto Francavilla per blitzquotidiano.it il 27 novembre 2020. Maradona a Napoli. Intervista a Luca Ferlaino: dalla vera storia del suo arrivo in Italia agli sfottò a Bianchi in allenamento…Vivere Maradona a Napoli da vicino, ogni giorno. Non sono in molti ad aver avuto questo privilegio. Ma se sei il figlio del presidente che l’ha portato in Italia, qualcosa da raccontare ce l’hai. Luca Ferlaino è uno dei figli di Corrado, il presidente che portò il Pibe de Oro in Italia e con cui ha vinto 2 Scudetti e 1 Coppa Uefa. Luca Ferlaino è il fondatore di Socialcom, un’agenzia di comunicazione molto attiva nel settore dei new media e della digital communications. BlitzQuotidiano l’ha intervistato in esclusiva. Luca Ferlaino e la vera storia dell’arrivo di Maradona a Napoli. Luca Ferlaino aveva solo 14 anni quando Maradona arrivò in Italia, ma ricorda nitidamente il primo incontro. Tutto nasce dalle voci sulla lunghissima trattativa di cui ormai si parlava da tempo. “Fu una trattativa molto lunga. La sera prima di incontrarlo venne fuori che tutto era saltato, e anche mio padre credeva che fosse finito il sogno. Invece la sera dopo, io avevo 14 anni, papà mi disse: “Scendi Luca, che ti devo presentare una persona“. Eravamo a Capri e quando entrai in questo albergo in zona centrale, beh, nell’albergo c’era Maradona. Quando ci fu la presentazione ufficiale, tutti pensavano che venisse da Barcellona. E invece era a Capri”. Ferlaino Jr ricorda che tutto questo probabilmente non sarebbe stato possibile senza la “genialata della busta bianca di mio padre”. L’episodio è stato raccontato qualche anno fa dall’ex presidente in persona. Il calciomercato era agli sgoccioli e mancava ancora il contratto firmato da Maradona. Ferlaino si reca negli uffici della Lega Calcio a Milano e consegna una busta vuota (facendo presumere di aver depositato il regolare contratto). Poi vola a Barcellona, fa firmare Maradona e torna in nottata a Milano. A quel punto con un escamotage si fa accompagnare dalla guardia giurata negli uffici e riesce a sostituire la busta “vuota” con quella “piena”. Ma quando Maradona è arrivato a Napoli, avevate coscienza che avevate comprato il calciatore più forte della storia? “No, non eravamo ancora consapevoli della sua reale grandezza. Sapevamo che era un giocatore molto molto forte. Aveva fatto grandi cose in Argentina, poi però a Barcellona era andato così così, e aveva anche avuto un brutto infortunio. Al Mondiale dell’82, contro le squadre europee, non aveva brillato”.
Cosa voleva dire vivere Maradona a Napoli?
Che voleva dire vivere ogni giorno Maradona? “Due cose – prosegue Luca Ferlaino – mi hanno colpito:
1 – In allenamento già vedevi che era in grado di fare cose con una semplicità e facilità sconcertanti. Scommetteva con tutti: dal segnare 30 rigori consecutivi a centrare la porta da centrocampo o qualsiasi altra posizione del campo. Non solo: lì capivi la sua importanza nello spogliatoio. Ma in allenamento spingeva tutti a superare i propri limiti. Ti faccio un esempio: quando arrivò Zola, spesso giocavano Maradona, Zola e Careca contro tutti. Maradona invitava Zola a tirare da centrocampo. Zola diceva: “Ma come, Diego, devo tirare da qua?”. E lui rispondeva: “Ma sì, è facile, appena superi il centrocampo prova a tirare in porta”. E così era, era impossibile dirgli di no.
2 – Tu eri convinto di vincere sempre perché avevi Maradona in campo. Infatti l‘obiettivo principale era farlo giocare la domenica. Ti spiego. Quando cominciò a fare le bizze perché non si allenava o si allenava poco e male, partiva il tira e molla con Bianchi (l’allenatore di quel Napoli, nda). Fino a giovedì Bianchi diceva che non avrebbe giocato. Da lunedì a mercoledì si assentava, non rispondeva al telefono. Poi però giovedì si presentava per giocare la partitella, perché a lui piaceva giocare. Non lo faceva per recuperare la considerazione dell’allenatore ma perché a lui piaceva giocare. Magari giocava con la Primavera perché era in punizione e vinceva contro la prima squadra. E alla fine, la domenica è sempre andato in campo”.
Lo sgarro a Bianchi e lo sfregio Di Fusco. E per farci capire il rapporto burrascoso che c’era tra Bianchi e Maradona (e quanto Diego influenzasse i compagni), Luca ci racconta un aneddoto. Anno 86/87, quello del primo Scudetto. “A fine campionato il Napoli andò a pareggiare con l’Ascoli per far retrocedere il Como (che era la squadra di Bianchi). Allora Bianchi fece entrare Di Fusco (il portiere di riserva, nda) come centravanti in segno di sfregio alla squadra che aveva fatto uno sfregio a lui. Ma questo gesto assunse un significato preciso all’interno della squadra. Da quel momento Maradona, quando voleva prendere in giro Bianchi, durante le partitelle (visto che giocava spesso con la seconda squadra) metteva Di Fusco in attacco per farlo segnare“. E dimostrare che, se avesse voluto, avrebbe vinto anche con Di Fusco centravanti. “Tra l’altro questo ti dimostra che Maradona poteva fare quello che voleva col pallone. Ma non perché si allenava o si sacrificava, gli veniva proprio naturale. E dimostra che lui poteva vincere le partite da solo. Nonostante fosse un selvaggio, non proprio una persona di cultura e si contornasse di gente discutibile, aveva questa forza, questo carisma, che riusciva a fare delle cose impensabili”.
Quando Maradona convinse Napoli a tifare per l’Argentina. “Come a Italia 90, quando convinse una città a tifare Argentina contro Italia. Aveva solo toccato le corde giuste, dicendo: ‘Come, gli italiani schifano Napoli tutto l’anno e voi ora volete tifare Italia? Chi è che difende i colori di Napoli per tutto l’anno, io o loro?’. E ha avuto ragione: la maggior parte dei napoletani ha tifato Argentina. L’Italia poi ha fatto degli errori strategici: si allenava a Roma, alla Borghesiana, mentre l’Argentina a Soccavo (la sede degli allenamenti del Napoli, nda). L’Argentina usava gli spogliatoi del Napoli al San Paolo, mentre l’Italia quello degli ospiti…l’Argentina praticamente giocava in casa“. Anche se “lo stadio era a prevalenza italiana, perché i biglietti erano stati venduti dall’organizzazione di Italia 90, quindi c’era gente da tutta Italia”. Maradona non ha mai avuto particolari problemi nello spogliatoio, riusciva a farsi amare da tutti i compagni di squadra. Dice Ferlaino che “l’unico con cui ha avuto brutti rapporti è stato Giuliani. Ma non so perché. Forse dipende dalla diversa etica del lavoro”.
Difendere Maradona a ogni costo dalle minacce esterne. Luca Ferlaino ricorda quegli anni folli: “Grazie a Maradona venivano i più importanti giornalisti italiani a Napoli, c’erano sempre le televisioni. Per 7 anni c’è stato un clima di difesa da parte della società, l’obiettivo era far giocare Maradona. Dunque tutto ciò che poteva rappresentare una minaccia veniva lasciato fuori”. Anche perché “aveva questa capacità di contornarsi di gente discutibile, era proprio attratto da questo tipo di persone. Lui non frequentava la Napoli bene, la borghesia napoletana”. Emblematica la storia della casa: “Aveva una bella casa, grande, con vista del mare… ma non una villa con la sicurezza, il giardino. Aveva una bella casa in un palazzo a Posillipo, come tanti miei amici. Coi soldi che guadagnava avrebbe potuto permettersi qualunque cosa”. Ma cosa vuol dire che si contornava di gente discutibile? “Un anno prese in affitto un piano dell’hotel Hoyal con parenti, amici e conoscenti. L’hanno devastato”. Quanto al suo essere selvaggio (in senso affettuoso), c’è un altro aneddoto. “Al secondo scudetto papà gli regalò la Ferrari. Lui voleva la radio e l’aria condizionata. E mio padre tentò di spiegargli che una macchina sportiva non ha gli stessi optional di una berlina. Ma lui rispose: “Ingegnè, gliel’hanno messa nel c…”.
Il rapporto tra Maradona e Corrado Ferlaino. Poi si passa al rapporto padre-figlio con il presidente Ferlaino. “Papà è sempre stato tutta una cosa col Napoli, faceva gli interessi del Napoli non di Maradona. Mentre ora De Laurentiis non sta sempre a Napoli, mio padre non poteva andare a prendere il caffè al bar che gli chiedevano del Napoli, di Maradona…A volte lui (Maradona) lo vedeva come un carceriere, ma mio padre non l’avrebbe mai venduto. Anche quando voleva andarsene (per esempio al Marsiglia), cercava di accontentarlo: gli dava continuamente premi extra, ma alla fine è sempre riuscito a trattenerlo. Mio padre era il capo, per cui Maradona, anche per indole, tendeva ad andargli contro. Maradona dava un sacco di problemi, però alla fine essendo mio padre malato di calcio non poteva non amarlo. Questo lo condizionava”. Per capire la grandezza del personaggio Maradona, Luca torna ai giorni nostri: “Se pensi che lui è morto in epoca Covid e la notizia della sua morte ha avuto una rilevanza mondiale. Mentre parliamo, in piena zona rossa ci sono le persone vicino allo stadio (a Napoli, dove si gioca l’Europa League a porte chiuse, nda), e nessuno si permette di andare a interrompere le manifestazioni pro Maradona”. L’importanza di Maradona all’interno della società Napoli è stata indiscutibile: “Ha sovvertito ogni logica: far vincere Napoli non era facile, non c’erano i soldi e la cultura manageriale dei club del Nord”.
Quando Maradona si impuntò per il tartufo. Un aneddoto che ricordi di aver vissuto in prima persona? “Anni dopo, quando venne a Roma a ritirare il premio Fifa, andammo a un ristorante di pesce vicino al Pantheon. Quando arrivammo là lui disse: ‘Voglio il tartufo’. Io tentai di farlo ragionare ma lui si impuntò, e non era neanche periodo di tartufi. Fece uscire tutti di testa ma alla fine abbiamo trovato il tartufo in un albergo di lusso”.
Maradona rompe con l’Italia dopo Italia 90. Ma perché ancora oggi una parte dei tifosi napoletani ce l’ha con Corrado Ferlaino, nonostante sia stato lui a portare Maradona a Napoli? “Quello tra papà e Maradona è stato un grande amore, come tra un uomo e una donna. Un amore fatto di amore, litigi, bisticci. E’ chiaro che ci fosse una chiara distinzione di ruoli: per noi l’importante era che giocasse la domenica”. Un momento in cui lo scontro si è acuito è stato il 1990: “Dopo la finale dei Mondiali Maradona era molto arrabbiato per la finale (lo stadio Olimpico fischiò l’inno argentino e lui rispose dicendo “Hijos de puta”, nda) e per la squalifica per doping (nel 1991, nda). E mio padre era parte del sistema calcio, visto che all’epoca era consigliere federale“. Quindi non è casuale la squalifica proprio quell’anno? “Maradona aveva tanti punti deboli, non gli hanno perdonato l’eliminazione dell’Italia nel Mondiale in casa. Era capace di sovvertire tutto, e lo dimostrò anche a Italia 90. L’Italia era più forte e lui l’aveva eliminata. E gliel’hanno fatta pagare. Quando l’hanno squalificato lui si drogava da tanti anni. Ma l’hanno beccato subito dopo i Mondiali…”. Una storia che si ripete anche quattro anni più tardi. “Anche a Usa 94 se non l’avessero fermato forse avrebbe portato l’Argentina in finale. Ma dopo il gol con la Grecia e quella famosa scena degli occhi da pazzo non dava una immagine edificante e gli Stati Uniti non se lo potevano permettere con la loro moralità. Prima gli americani lo hanno sfruttato per lanciare il mondiale e poi l’hanno cacciato”.
Da ilnapoilsta.it il 27 novembre 2020. A Radio Punto Nuovo Sport Show è intervenuto Paolo Cirino Pomicino. "La Dc era un partito collegiale, nel caso Maradona un ruolo lo ebbe il Comune di Napoli che avevamo conquistato con Scotti sindaco. Peraltro era sindaco di transizione: assunse l’iniziativa per nome e per conto di Antonio Gava e del sottoscritto, di sollecitare Ventriglia del Banco di Napoli nell’atto di un interesse cittadino. Fu sollecitato Ventriglia anche da Gava e da me: era un’iniziativa corale. Senza di noi, Ferlaino non ce l’avrebbe fatta a portare Maradona a Napoli. Scotti non si è mai interessato di calcio, io sono tifoso del Milan. I miei idoli erano quelli del GreNoLi. Maradona mi ha dato grandi dolori essendo tifoso milanista. Ma Maradona era una piacevolezza infinita: livelli impossibile da raggiungere. Gava tifava Napoli, De Mita tifava Avellino. Scudetto del ’90 per fermare Berlusconi? La verità fu che Berlusconi si voleva mettere a disposizione di Martinazzoli, ma al rifiuto di Martinazzoli, a quel punto Berlusconi scese in campo da solo. Ho subito 42 processi con 41 assoluzioni, solo una condanna per finanziamento illecito: ma, è quello che ancora fanno tutti. In Tangentopoli, l’unico che si è arricchito è il dottor Di Pietro. Berlusconi voleva Maradona? Lo volevano tutti, ma al Milan c’era il trio olandese".
Da ilnapolista.it il 27 novembre 2020. Nel pellegrinaggio dei saluti per Maradona, Antonio Corbo su Repubblica ricorda oggi la figura di Antonino Restino, un omone di Santa Lucia, che si è creato una fortuna spiando Maradona nelle sue notti brave, su idea di Ferlaino. Restino ha comprato uno spazio su “Repubblica” per inviare le sue scuse 30 anni dopo, Diego non potrà leggere, peccato. Tanti gli aneddoti da lui raccontati nelle notti passate a seguirlo: «Ci piazzammo in via Scipione Capece, vedevamo io e il mio gruppo anche gli interni. Una foto di Diego sfatto sul letto fu una spina nel cuore, era nei giorni peggiori. Alla fine. Hotel Paradiso, ristorante Sacrestia, discoteche dal 1988 al 1990. La cosa più buffa? Al Casale di Posillipo Diego scese dalla Mercedes nera per giocare in strada con i ragazzi. Dal balcone arriva lo scroscio d’acqua, e una signora che urla come una ossessa. Diego ha lo smoking e va a cambiarsi d’abito per una festa. Sì, Diego aveva lo smoking». E nella sua lettera a Diego traspare tutto l’affetto nato in quei 3 anni di pedinamenti: «Ma ora il ricordo ha un sapore diverso. È intriso di malinconia, come quella che spesso si vedeva nei tuoi occhi. Investigare il più grande giocatore di tutti i tempi, te Diego, in quegli anni meravigliosi e maledetti in cui sei stato a Napoli non è stato facile, ma allo stesso tempo è stata una delle esperienze più esaltanti della mia vita». Alla fine il suo saluto e il suo grazie a Maradona: «Ti ho osservato, seguito, aspettato e apprezzato, tra le tante cose, la tua immensa generosità e il tuo coraggio, proprie solo di un cuore grande. Fare il detective privato non è un lavoro facile, ma con te è stato meraviglioso».
Il ricordo del Pibe de Oro. “Diego ha ridato dignità a Napoli, per questo la città lo piange”, intervista a Clemente Mastella. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 26 Novembre 2020. «Magari non ne era consapevole, ma Diego è stato uno degli esponenti politici più forti e autorevoli che Napoli abbia mai avuto»: non ha dubbi Clemente Mastella, sindaco di Benevento con un passato da ministro della Giustizia, oltre che da consigliere di amministrazione della società che proprio Maradona guidò alla vittoria di due scudetti e di una coppa Uefa. Iscritto al club dei parlamentari tifosi del Napoli, Mastella è stato testimone privilegiato delle imprese e delle cadute di un campione tanto amato quanto discusso. Fu proprio Mastella, per esempio, a fare in modo che Maradona disputasse almeno uno spezzone della partita di Coppa dei Campioni contro lo Spartak Mosca, in quella maledetta sera del 7 novembre 1990. L’allora dirigente azzurro Luciano Moggi e l’allenatore Albertino Bigon decisero di escludere dalla formazione iniziale Maradona che aveva deciso di non salire a bordo dell’aereo della squadra diretto in Russia. A promuovere una mediazione, da buon democristiano, fu proprio Mastella che si confrontò con il presidente Corrado Ferlaino, Moggi e Bigon in una Piazza Rossa blindata dalla polizia sovietica.
Onorevole, quali sentimenti ha scatenato la notizia della morte di Maradona?
«Sono attonito. Avevo delle faccende da sbrigare ma, quando ho saputo della scomparsa di Diego, sono rimasto impietrito. A lui mi legano tanti ricordi. Ero negli spogliatoi quando il Napoli vinse il primo scudetto nel 1987. Ero a Stoccarda quando portammo a casa la coppa Uefa nel 1989. Ed ero presente anche a Italia-Argentina, ai Mondiali del 1990, quando il pubblico fischiò l’inno della squadra sudamericana. Per me Diego era un idolo, ma soprattutto un amico col quale avevo un rapporto splendido».
Quindi che ricordo conserva del suo amico Diego?
«Ogni domenica andavo a messa a Ceppaloni, mio paese d’origine, dopodiché raggiungevo la squadra e pranzavo con Maradona e con gli altri calciatori. Spesso Diego, che amava anche il basket, mi accompagnava a seguire le partite della Juve Caserta. Quando cominciai a occuparmi di politica estera, prese l’abitudine di chiedermi notizie sullo scenario internazionale. Anzi, all’epoca della prima guerra del golfo, voleva essere ragguagliato quotidianamente sull’evoluzione del conflitto».
Dunque Maradona era interessato alla politica: a quale partito era vicino?
«Se avesse potuto, in Italia avrebbe votato sicuramente per me, vista l’amicizia che ci legava. Col tempo si è avvicinato a Fidel Castro e a Hugo Chavez anche perché proveniva dai quartieri più disagiati di Buenos Aires e, di conseguenza, era espressione del mondo popolare: il sottoproletariato si riconosceva in lui e lo amava».
Per il modo di fare e il carattere che lo contraddistinguevano, a quale politico della Prima Repubblica lo paragonerebbe?
«A nessuno. Di Diego si conserva un ricordo di natura sportiva e calcistica. Il fuoriclasse che palleggia in maniera divina, il giocatore fenomenale che dribbla gli avversari fino a fare gol, il campione capace di guidare alla vittoria una squadra che fino a quel momento aveva portato a casa pochi trofei: ecco, questo è il principale ricordo di Diego».
Vuol dire che Maradona non ebbe un ruolo politico?
«Certo che lo ebbe, ma forse inconsapevolmente. Diego elevò il popolo napoletano a maggiore dignità e, guidando il Napoli verso traguardi nazionali e internazionali, fece in modo che molti prendessero finalmente coscienza dei problemi della città. Questo è il tipico compito della politica. Diego l’ha svolto inconsapevolmente fino a diventare uno dei più autorevoli ambasciatore di Napoli in Italia e nel mondo».
Che cosa ha rappresentato per Napoli?
«Diego ha incarnato il riscatto di un mondo, di una società e di una cultura. Ha sottratto Napoli alla ghettizzazione e le ha restituito una dimensione internazionale. È anche grazie a lui che la città è diventata qualcosa di più rispetto all’Italia e ha nuovamente ricominciato a giocare una partita internazionale. Diciamoci la verità, dopo il trionfo in coppa Uefa Napoli è diventata uno Stato nello Stato. E Diego ha fatto lo stesso con l’Argentina: ha preso una nazione distrutta e demoralizzata dalla sconfitta nella guerra per le isole Malvine e le ha regalato la rivincita sugli inglesi segnando due gol all’Inghilterra (quello indicato da tutti come il più bello del secolo e quello di mano) ai Mondiali del 1986».
Com’era la Napoli in cui Maradona arrivò nel 1984?
«Era una città in forte difficoltà. Nel 1973 c’era stata l’epidemia di colera, nel 1980 il terremoto, poi la difficile fase della ricostruzione. Per molti, in Italia, Napoli era un luogo abitati da colerosi prima e da terremotati poi. Diego incarnò alla perfezione la condizione della Napoli dell’epoca: una città eternamente sospesa tra l’infinito e l’abisso alla quale seppe restituire l’orgoglio e la capacità di pensare in grande».
A Napoli Maradona visse anche momenti di grossa difficoltà personale, senz’altro amplificata dalle amicizie sbagliate e dal consumo di droga. Pure sotto questo aspetto può essere considerato un eccezionale interprete della napoletanità?
«Per certi versi, Diego incarnava i vizi e le virtù di Napoli. Una certa indolenza, per esempio, che in alcuni casi lo portava a fregarsene di tutto e di tutti. Ma anche la capacità di mettersi alle spalle le difficoltà per affrontare le grandi prove della storia. Ecco, Diego era indolente e, nello stesso tempo, resiliente come solo i napoletani hanno dimostrato più volte di essere».
Che cosa perde Napoli con Maradona?
«Paradossalmente continua a guadagnare. La scomparsa di Diego riaccende i riflettori sia sul Napoli che sull’Argentina. Non è un caso che la città sia in lutto e che lo Stato sudamericano abbia proclamato tre giorni di lutto nazionale. Sono tributi che si concedono solo ai più grandi».
Il sindaco Luigi de Magistris ha annunciato che lo stadio San Paolo sarà presto intitolato a Maradona: è d’accordo?
«L’avevo proposto in tempi non sospetti. De Magistris, in qualità di primo cittadino, avrebbe potuto e dovuto farlo prima. Ma si sa, è un tipo che arriva sempre in ritardo. L’importante, comunque, è che a Diego sia tributato il riconoscimento che merita in virtù di tutto ciò che ha fatto per Napoli e per i napoletani».
Come custodirà il ricordo di Maradona?
«Da uomo di fede quale sono, innanzitutto pregherò per lui. Dopodiché riaprirò il cassetto dei ricordi più belli. Come quando, nel deserto dell’Iraq, incontrai un gruppo di bambini che vestivano la sua maglia numero dieci. O come quando Diego mi invitò al suo matrimonio o mi regalò un orologio che mia moglie Sandra ancora custodisce gelosamente. Ecco, per me Maradona è stato tutto questo: il simbolo di una città desiderosa di riscatto, un fenomeno di portata globale, ma soprattutto uno dei miei migliori amici».
Napoli piange Maradona: “Quando ci sarà il funerale in Argentina lo faremo anche qui”. La morte del campione. L’ultima intervista di Maradona: “A volte mi chiedo se la gente continuerà ad amarmi”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Novembre 2020. È stato il quotidiano argentino Clarín a dare la notizia della morte di Diego Armando Maradona. Ed è lo stesso giornale a pubblicare l’ultima chiacchierata con l’ex campione dell’Albiceleste e del Napoli. Un’intervista in esclusiva in occasione del suo compleanno, lo scorso 30 ottobre. È morto a 60 anni a Tigre, nella provincia di Buenos Aires, a causa di un arresto cardiorespiratorio. Soltanto l’11 novembre era stato dimesso dalla clinica Los Olivos dov’era stato ricoverato e operato al cervello. “Io sarò eternamente grato alla gente – aveva dichiarato El Pibe de Oro – tutti i giorni mi sorprende, quello che ho vissuto al mio ritorno nel calcio argentino non lo dimenticherò mai. Ha superato quello che potevo immaginare. Perché sono stato molto tempo fuori e a volte uno si chiede se la gente continuerà ad amarmi, se continueranno a sentire la stessa emozione … quando sono entrato nel campo del Gimnasia (l’ultima squadra della quale è stato allenatore, ndr) il giorno della presentazione ho sentito che l’amore della gente non sarebbe mai finito”. “Sono stato e sono molto felice. Il calcio mi ha dato tutto quello che ho, più di quello che avrei immaginato – aveva dichiarato – ma oggi tutto questo è già passato, sto bene e quello che mi fa soffrire di più è non poter avere più vicino i miei genitori. Ho sempre espresso questo desiderio, un giorno in più con la Tota (sua madre, ndr) ma so che dal cielo è orgogliosa di me e che è stata molto felice”. Il giornalista chiese a Maradona di esprimere un desiderio per il suo compleanno per tutti gli argentini: “Il mio desiderio è che passi quanto prima questa pandemia e che la mia Argentina possa andare avanti”.
DAGOREPORT il 28 novembre 2020. C’è la “mano di Dio”, Diego Maradona, ma senza i miracoli del banchiere Ferdinando Ventriglia nel giugno del 1984 el Pibe de Oro non avrebbe mai indossato la maglia del Napoli. La storia è nota e ci riporta dritti-dritti ai tempi della prima Repubblica quando anche la politica a volte scendeva sul terreno di gioco. E sotto il Vesuvio i diccì Gava, Scotti, Grippo e Pomicino governavo la città anche se il Pci non avrebbe mai ostacolato l’abile direttore generale del Banco di Napoli, poltrona che aveva riconquistato l’anno prima, per contrastare l’arrivo di Maradona. Tornato nella sua Campania dopo che Guido Carli, suo estimatore e amico, che l’aveva disegnato suo successore alla guida di Bankitalia con il sostegno di Emilio Colombo, fu bloccato dal segretario del Pri Ugo La Malfa. “Per chiedermi contributi mi chiamano anche quando sto al cesso”, si lasciò sfuggire una volta Ventriglia. Ma anche in quell’estate del 1984 don Ferdinando non si rifiutò ai suoi amici democristiani e all'allora presidente del club, Corrado Ferlaino. L’artefice di una operazione a dir poco romanzesca e ai limiti della giustizia sportiva. “Quando annunciai ai giornalisti per prima volta che avrei comprato Maradona in rotta di collisione con il Barcellona era soltanto bluff”, ha ricordato Ferlaino. “Nel frattempo – ha spiegato – il nostro direttore generale, Antonio Julano, aveva contatto la squadra catalana per organizzare un amichevole. Ma a Barcellona scoprimmo che Diego non avrebbe giocato non a causa di un infortunio bensì perché voleva cambiare aria”. Ma la dirigenza blaugrana per “liberare” Diego chiedeva 13 miliardi immaginando che il Napoli non disponesse di quella cifra da capogiro. A quel punto entrano in scena il sindaco di Napoli, Vincenzo Scotti, il banchiere Ventriglia e l’astuzia dell’ingegner Ferlaino. La trattativa fu chiusa infatti sul filo di lana. A poche ore dalla chiusura del mercato pallonaro, vola a Milano e alla Lega consegna una busta vuota. Così l’ha rivelato il diretto interessato: “Da Milano con un volo privato sbarcai a Barcellona per avere la firma di Maradona sul contratto e fare ritorno sotto la Madonnina la stessa notte”. E qui arriva il colpo rocambolesco alla Totò-truffa che porterà Diego a Napoli. Ferlaino torna nella sede della Lega e riesce a convincere la guardia giurata che aveva sbagliato la procedura e doveva salire ai piani alti per regolarizzare la pratica. “Salimmo negli uffici con una scusa banale e di nascosto sostituimmo la busta: portai via quella vuota e depositai quella con il contratto da 13 miliardi grazie alla fideiussione del Banco di Napoli”. Già, “la mano di Dio” e i “miracoli” di Re Ferdinando.
Estratto dell’articolo di Gigi Garanzini per "la Stampa" il 27 novembre 2020. Ottavio Bianchi, resta quella del limone, un' ora prima di una partita a San Siro. «C' era un cesto pieno di agrumi, e Diego quella volta anziché un' arancia agguantò un limone e cominciò a palleggiare. Tutti a guardarlo ovviamente, qualcuno a provarci con esiti modesti. Arrivò a una ventina di colpi e avrebbe potuto continuare, invece lo calciò secco in una porta immaginaria e io dissi una cosa tipo, ma queste sono cose da circo. Mi porse un altro limone, e visto che ormai ero in ballo ci provai. Com' è, come non è, gli diedi il giro giusto e cominciai a mia volta col colpo sotto, mentre la squadra scandiva il numero progressivo. Arrivai a un colpo in più e lo calciai via a mia volta. Diego diventò matto, andò avanti mesi a implorare la rivincita che ovviamente non gli diedi mai perché i miracoli non si ripetono».
Andrea Di Caro per gazzetta.it il 27 novembre 2020. "Come davanti a un quadro di Picasso o alle grandi opere degli espressionisti che ho sempre amato. Lo guardavo inebriato e ogni volta che aveva la palla tra i piedi avevo la sensazione di assistere a qualcosa di perfetto, unico e irripetibile. Ho avuto un enorme privilegio, assistere ogni giorno alla realizzazione dei suoi capolavori: perché le prodezze che tutti ricordano, le sue punizioni impossibili, i gol da centrocampo, le serpentine, le acrobazie, io le ho viste replicate dal vivo milioni di volte". "Ogni giorno, in ogni allenamento Diego regalava quelle prodezze con la semplicità e la naturalezza di chi è baciato dalla grazia. Lo osservavo e dentro di me applaudivo e mi chiedevo come fosse possibile. Da tecnico freddo e impassibile evitavo di manifestare il mio stupore davanti a tutti. Ma mi gustavo ogni suo singolo gesto. Arte pura. Come lo spiega lei il genio? Vederlo giocare era come ascoltare Mozart. Anche i più bravi dei suoi compagni e dei suoi avversari, al massimo erano dei Salieri, lui no. Lui era Mozart". Ottavio Bianchi, tecnico del Napoli del primo scudetto, ammette la fortuna "di essere stato in quegli anni l'allenatore del più forte calciatore di ogni tempo", ma mentre gol e colpi di Maradona prendevano la forma della meraviglia neanche Bianchi poteva avere ancora chiaro che Diego stava cambiando il suo ruolo nella storia passando da straordinario campione a icona mondiale senza tempo. Unendo in sé le caratteristiche di miti immortali: rivoluzionario come Che Guevara, antisistema come Alì e Owens, autodistruttivo come Marilyn, Elvis, Jackson. "Diego era un uomo estremamente generoso. Un leader nato. Non per quello che faceva in campo, ma per come si comportava con i suoi compagni. Non l'ho mai sentito rimproverarne uno per un passaggio sbagliato. Li difendeva tutti, li spronava, li caricava, pur essendo lui di un altro pianeta rispetto a loro". Già, di un altro pianeta... E qui Bianchi scava nel profondo: "Non so neanche se si rendesse davvero conto della sua straordinarietà. Lui si divertiva a giocare, come quando era un ragazzino in Argentina. Negli spogliatoi palleggiava con i limoni. Quando pioveva si buttava nelle pozzanghere con il pallone come fanno i bambini. Diego aveva l'ingenuità e la gioia dei bambini". Ma fuori dal campo intorno a lui insieme alla fama crescevano il business, gli interessi e il numero di squali che l'hanno sfruttato, spolpato, tradito. E la genialità è stata presa per mano dalla dannazione. Fino all'autodistruzione. "Nessuno, neanche un uomo carismatico come lui poteva sopportare quella pressione assurda, pazzesca in ogni angolo del mondo. Non voglio giustificarlo. Non voglio sminuire i suoi errori e i suoi sbagli. Ma quella grancassa intorno, quei lacchè disposti sempre a dirgli sì e a offrirgli qualsiasi tentazione sono stati la sua rovina". E qui Bianchi, che pure non aveva alcuna frequentazione con Maradona fuori campo, si unisce al refrain di tanti, troppi ex compagni di Diego: "Se gli avessimo detto ogni tanto qualche No... Il suo dopo sarebbe stato diverso". E ascoltando queste parole piene di rimpianto, tornano in mente quelle dell'ex compagno in nazionale Jorge Valdano, uno scrittore prestato al calcio che anni fa profetizzò: "Lui giocava e saliva. Da quaggiù noi mortali lo spingevamo con parole incantate. E così è arrivato al cielo. Da solo. È stato un prodotto di consumo. Ne avevano tutti bisogno per lo spettacolo quotidiano e se lui non voleva o non poteva i cannibali lo facevano a pezzettini. Si sono mangiati prima la parte visibile, poi nel fondo di quella grande miniera d'oro che Diego rappresentava hanno visto un dramma e vi hanno affondato i coltelli per divorare tutto il meglio della sua dolorosa intimità. (...) Un giorno Diego guarderà se stesso dal balcone della sua memoria e ricorderà con calma la gente semplice che gli ha voluto bene, i leccapiedi che lo hanno usato e i traditori che un momento lo hanno amato e il seguente lo hanno accoltellato. Questo è l'uomo. Tutti siamo più o meno così. Anche lui. L'errore imperdonabile o inevitabile è non averlo aiutato ad accorgersene prima. Avremmo dovuto dirgli tutta la verità: guarda Diego, giochi a pallone da Dio, ma sei soltanto un uomo".
Trent'anni fa il secondo scudetto del Napoli.
Giuseppe Falcao per leggo.it il 12 maggio 2020. Diego jr e suo padre Maradona ai tempi del coronavirus. Lontani in linea d’aria, tra Buenos Aires e Napoli, vicinissimi con il cuore. Dopo anni difficili, il loro rapporto è sbocciato ed è diventato bellissimo. In questi mesi anche di più, durante il periodo buio delle quarantene, tappati in casa, tra ansie e paure.
Ha un segreto per tirare su il morale di Diego Armando Maradona?
«Sì. In questo periodo di quarantena gli mando spesso su whatsapp le foto dei suoi due nipoti, i piccoli Diego Matias e India Nicole. Provo a fargli delle sorprese ma so che ormai lui se le aspetta. È molto felice di vederle e di sapere che stiamo tutti bene. Mi chiede di noi, di Napoli, di come sta la città, dei napoletani che lui ama profondamente».
Nonno Maradona, suona un po’ strano a dirsi.
«Ama i suoi nipoti e io ne sono felice. Ci sentiamo al telefono e ci mandiamo dei messaggi. Anche a me fa bene sentirlo così vicino, anche se in linea d’aria siamo distanti. Magari è vero che in questo assurdo periodo abbiamo più tempo libero per noi, ma abbiamo anche più pensieri, si è più apatici, chiusi in casa. Insomma, non è facile. L’affetto delle persone che ami aiuta tanto».
Cosa le racconta Maradona dell’Argentina, come stanno affrontando l’emergenza?
«È orgoglioso del suo Paese. In Argentina la situazione è sotto controllo. Il Governo ha preso delle decisioni drastiche e sono riusciti a contenere il virus, a differenza del Brasile; lì Bolsonaro ha sottovalutato il problema e oggi ne stanno pagando le conseguenze».
Come vive l’isolamento uno come Maradona?
«È chiuso in casa, come quasi tutti, ma non è preoccupato per se stesso, piuttosto per il futuro del calcio argentino. E allora si è messo a disposizione degli altri, si è dimezzato lo stipendio per aiutare il presidente del Gimnasia La Plata, il club che ha allenato fino alla sospensione del campionato, a pagare tutti gli impiegati del club. Non lo dico perché sono il figlio, ma lo hanno raccontato i giornali. Un grande gesto».
E il calcio italiano? Ne parlate mai?
«Meno. Lui segue il Napoli, come me, ma oggi la priorità per lui è la salute e, naturalmente, il calcio argentino».
Che papà è per lei Diego Armando Maradona?
«Le persone che ho incontrato nella mia vita prima di conoscerlo, lo avevano descritto come un mostro. Invece è proprio il contrario. E’ un papà affettuoso, giocherellone con i nipoti. Sicuramente è una persona che ha avuto delle esperienze di vita che l’hanno segnato. E sono davvero felice del rapporto che giorno per giorno stiamo costruendo insieme».
Napoli e Maradona, lo scudetto bis per dirsi addio. Fabrizio Bocca il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Trent'anni fa, il 29 aprile 1990, il secondo storico trionfo in campionato degli azzurri. Diego fu l'anti Sacchi, lo stratega di un Milan destinato a vincere tutto. Ma invece fermato dall'argentino tra imprese straordinarie e veleni infiniti: la monetina di Alemao e la Fatal Verona bis...Non avrebbe mai dovuto esserci un pomeriggio così. Anzi a esser precisi un momento fissato nel tempo e nella memoria: le 17.47 di domenica 29 aprile 1990. Da quando sei anni prima Maradona era entrato dentro il San Paolo la storia aveva già bussato troppe volte per poter pensare che certi corto-circuiti spazio temporali potessero ripetersi con inconcepibile frequenza. Era stato talmente eccezionale il primo scudetto del Napoli - tre anni prima tra l'altro - da pensare che non sarebbe mai potuto esistere un secondo. Per giunta strappato a un drago dalle 7 teste come il Milan di Arrigo Sacchi e dei tre olandesi, già trionfatore dell'ultima Coppa dei Campioni. La ripetizione dell'impresa era un qualcosa che faceva parte di mondi diversi e paralleli: la Juve, il Milan e l'Inter quelli potevano vincere e ripetersi, gli altri no. Tutti gli altri erano (sono?) destinati a fare da contorno, da riempitivo, da intermezzo, da simpatico colore: il primo scudetto del Napoli era stato così straordinario da far esplodere la leggenda popolare, l'arte, la letteratura europea e sudamericana e soprattutto tutto l'esoterismo partenopeo col fantastico "Che ve site perso" rivolto ai defunti del cimitero di Poggioreale. (Per inciso, sembra proprio che quella scritta non fu mai fatta, almeno lì e in quel momento, e che fu solo la fantasia di un giornalista napoletano a creare la meravigliosa leggenda). Ce ne era abbastanza insomma per non dare null'altro al Napoli di Maradona e Careca e dare tutto invece al Milan divino di Gullit, Van Basten e Rijkaard. Non era previsto che anche il Napoli potesse fare epoca. E invece il Napoli aveva strappato il secondo e ultimo scudetto della sua storia al fotofinish proprio col Milan di Sacchi, in un esibizione eccezionale di talento e fantasia, rabbia e volontà, veleno e congiura. Né il Milan tutto, né Berlusconi, ancora non "sceso in campo" in politica ma comunque popolare dispensatore di intrattenimento tv, fossero le tette di "Colpo Grosso", le risate di Drive In o i gol dei suoi olandesi, né Arrigo Sacchi stesso, né Van Basten, addirittura fino a oggi - "Quello del 1990 fu uno scudetto rubato al Milan" - riconobbero mai la legittimità di quel successo. Per la storia della moneta di Alemao a Bergamo e per il crac del Milan a Verona con l'arbitro Rosario Lo Bello accusato di essere il killer del sogno rossonero. La realtà è che il primo scudetto del Napoli non ebbe quasi avversari mentre il secondo fu uno scontro fra due partiti. Il partito di Maradona e il partito di Sacchi. Essere e avere, sinistra e destra, cuore e cervello, Yin e Yang, bianco e nero. Due poli contrapposti che ora si respingono e ora si attraggono come una calamita. Il vero, ideale e simbolico avversario di Maradona non fu dunque Van Basten (capocannoniere con 19 gol, davanti a Baggio 17 e Maradona 16) che pure era fatto della medesima materia celestiale, ma Arrigo Sacchi stesso. Perché Diego era il genio fatto uomo, lo scugnizzo del popolo, e Arrigo Sacchi invece Napoleone, il generale filosofo del calcio collettivo. Anzi il dittatore del collettivo. Avreste mai potuto mettere insieme quello del gol all'Inghilterra e quello che prevedeva un'orchestra governata dal suo spartito e basta? No, o stavi con l'uno o stavi con l'altro, non era possibile alcun compromesso. "Persino a De Niro servono un copione e un regista" diceva Arrigo. Anche se l'uno riconosceva la grandezza dell'altro. Sacchi disse che "Diego è l'unica eccezione possibile, l'unico che può giocare da solo e senza spartito" e Maradona disse a Sacchi stesso: "Devi venire al Napoli, con me e Careca partirai sempre dall'1-0". La realtà è che il Napoli di Maradona aveva tenuto testa al Milan di Sacchi (anzi lo aveva tenuto dietro...), nei confronti diretti 3-0 al San Paolo e 3-0 a San Siro. Perfettamente pari. E al di là delle famigerate 100 lire in testa ad Alemao - su cui lucrò un punto in più a tavolino - il Milan non era stato perfettamente all'altezza della sua stessa straordinarietà. La Fatal Verona 1990 più che un delitto perfetto eseguito da Lo Bello jr. con l'espulsione di Sacchi, Rijkaard, Van Basten e Costacurta, fu soprattutto il collasso del sacchismo mandato in tilt da un uomo solo. Addirittura a distanza. Quel Verona lì stava finendo in B, e anzi all'ultima di campionato perse col Cesena e non ebbe scampo. Il grandissimo Milan di Sacchi seppe vincere due Coppe dei Campioni consecutive ma non due scudetti. All'uscita degli anni 80 si compì così la parabola più straordinaria del nostro calcio, Maradona portò un altro scudetto a Napoli - non molto distante, come impresa, dal vincere un mondiale... - mentre andava già manifestando propositi di addio. Anche Sacchi poco dopo avrebbe vinto la sua seconda Coppa dei Campioni. E da allora nessuno dei due avrebbe vinto altro.
Gianfranco Zola e il suo legame con Maradona: “Una fortuna averlo incontrato”. Redazione su Il Riformista il 4 Maggio 2020. “Prima Maradona, poi Gianfranco Zola”, cantavano i tifosi del Napoli. Quella era una squadra reduce dal punto più alto della sua storia – due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa, una coppa Uefa, tra il 1986 e il 1990 – e orfana del Pibe de Oro. Toccò proprio a Zola, il fantasista sardo, caricarsi sulle spalle l’eredità da leader tecnico dell’argentino. E proprio del suo legame con il Napoli, dove ha giocato fino al 1993, e con Maradona è tornato a parlare in un’intervista a Repubblica. “Aver incrociato Maradona — che ricami con Careca — è stata la mia fortuna”, ha confidato nell’intervista Zola, oggi allenatore. Per lui 105 partite in azzurro e 32 gol. Poi una carriera internazionale, con la stagione di un grande Parma e poi l’Inghilterra con il Chelsea. Fino al ritorno in Sardegna, al Cagliari, dove ha chiuso la carriera nel 2005. Una lunga carriera lungo la quale ha incontrato molti altri campioni. “Maldini e Roby Baggio: unici. In un’amichevole per beneficenza ho giocato con Ronaldinho e Iniesta, stratosferici. Mi sarebbe piaciuto duettare con Cristiano Ronaldo, un marziano. Meglio lui o Messi? È come dover scegliere tra Marilyn Monroe e Carla Bruni… Mi sarei divertito a giocare con entrambi”. Zola ha anche stilato una sua top 11. Anzi una rosa, perché completa anche di panchina. “La mia top 11: Buffon, Ferrara, Baresi, Desailly, Maldini, Lampard, Albertini, Di Matteo, Maradona, Roby Baggio e Careca. In panchina, io con Peruzzi, Benarrivo, Francini, Poyet, Wise, Casiraghi, Vialli e Asprilla. Allenatore Nevio Scala e Arrigo Sacchi”. Sul ritorno in campo e la ripresa delle attività: “Si riparte con le condizioni giuste, la salute prima di tutto. Serve equilibrio, vanno seguite le indicazioni mediche e del governo. Ma una delle industrie più importanti del Paese deve ridare divertimento e coraggio agli italiani. La passione aiuta anche in questi casi”.
Mario Sconcerti per il Corriere della Sera il 25 febbraio 2020. Credo che a Napoli abbiano sempre sentito un dovere che Messi passasse da casa loro. È un gradino naturale nella saga di Maradona. Non importa che Messi venga da avversario, è il ritorno del mito che avvolge la città e ne racconta la sua differenza. Gli altri vincono di più, ma Napoli ha avuto Maradona. La città è ancora un museo del suo passaggio. Qui parlava alla gente, qua gli facevano la pizza, là proteggeva i deboli, più avanti a destra c' è l' angolo dove si nascondeva nelle sere buie. La gente vorrebbe prendere per mano Messi e portarlo nei luoghi di Maradona, perché sono i suoi. Gli appartengono per eredità e leggenda. Era tempo li conoscesse. Temo sia difficile che Messi capisca e ricambi. Mi è sempre sembrato uno che ha la freddezza dei timidi. La vita gli ha dato tanto ma gli passa sempre un po' di lato. Ha un carisma triangolare, pieno di spigoli; non ha complici, sembra un poeta solitario, inverosimile. Forse è questo che lo rende inafferrabile. Come potrà marcarlo stasera il Napoli? Certamente non a uomo. Una marcatura fissa lo toglierebbe dalla partita ma non dagli episodi. Messi avrebbe tre scatti e segnerebbe due gol. Il calcio di Messi è un corridoio, devi coprirlo dall' inizio alla fine. Messi va marcato di squadra, da nessuno e da tutti, perché nessuno ha il suo tempo ma tutti devono avvicinarlo. Non una griglia, non tanta gente intorno, una serie di ostacoli progressivi, farsi trovare là da dove lui passerà dopo aver saltato il primo uomo. E incrociare le dita. Partirà lontano dalla porta, dove ha più spazio per cominciare il dribbling. Messi fa facilmente la cosa più difficile: saltare l' avversario. Per questo non bisogna stargli addosso, ma cominciare subito ad aspettarlo. Maradona era più universale, aveva un dribbling più rotondo. Era un capo. Messi è un attaccante migliore, forse solo un Maradona moderno, meno epico, senza visioni, con questa sua sfacciata facilità di segnare. Comunque andrà i napoletani lo adoreranno. Fa parte dell' eleganza dei ricordi. E del piacere di avere ancora una leggenda in casa.
Salvatore Riggio per corriere.it il 27 aprile 2020. A volte ritornano, anche nel calcio. Adesso è il caso di Edgardo Codesal, che magari alla nuova generazione non dice nulla, ma è l’arbitro della finale mondiale tra Germania Ovest e Argentina a Italia ‘90. Una gara vinta dai tedeschi, all’Olimpico di Roma (8 luglio), per 1-0 grazie al rigore nel finale realizzato da Brehme. È una gara passata alla storia per le lacrime a fine match di Diego Armando Maradona, che sognava tanto di vincere il suo secondo Mondiale e regalare all’Albiceleste il terzo titolo iridato dopo quelli conquistati nel 1978 e nel 1986. Non solo. È la gara anche del famoso «Hijos de puta», che il Pibe de Oro aveva rivolto ai tifosi italiani che avevano fischiato l’inno della sua Nazionale, «colpevole» di aver eliminato l’Italia in semifinale ai rigori, impendendo le rivincite della semifinale di Messico ‘70 e, soprattutto della finalissima Mondiale di Spagna ‘82, quello dell’urlo di Tardelli e dell’esultanza sugli spalti dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini. «Avrei potuto espellere Maradona già prima dell’inizio della partita, ma ho capito il momento e ho deciso di gestire la situazione», il racconto di Codesal alla radio Tirando Paredes. Inoltre, dopo il rosso sventolato a Monzon al 65’ per un brutto fallo su Klinsmann, Maradona gli ha detto che gli stava derubando la partita. Quella finale, infatti, è stata oggetto di contestazione da parte dell’Argentina. Secondo l’Albiceleste, era stato negato un rigore a Dezotti e ne era stato dato subito dopo uno alla Germania Ovest, poi realizzato da Brehme appunto, per un fallo analogo di Sensini su Voeller. E per le vibranti proteste, Dezotti era stato anche espulso. L’Argentina aveva chiuso in nove quella partita: «Ho visto Maradona fare cose in campo degne della mia ammirazione e del mio rispetto. Io stesso ho visto come la sua caviglia fosse una palla. Come giocatore era il migliore, ma fuori è una persona spiacevole. Una delle peggiori che abbia mai incontrato in vita mia», ha continuato Codesal. Infine: «Il fallo da rigore di Sensini su Voeller non è in discussione. Lui è andato a contrastare l’attaccante in maniera difficile, era quasi impossibile evitare il contatto con la gamba destra. Ci sono stati un paio di contrasti simili. Uno di Goycochea e uno di Calderon. Ma all’epoca si potevano fischiare i falli solo se intenzionali. In questi casi, quindi, erano falli involontari». Chissà se Maradona avrà voglia di rispondere.
Carmando: "Vi racconto il mio Maradona segreto". Marco Azzi il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Lo storico massaggiatore degli anni d'oro racconta il secondo scudetto, oltre la monetina di Bergamo ("Con Alemao feci la cosa giusta"). Il suo legame speciale con Diego e quel rito prima di ogni partita. Trent'anni dalla pietra miliare del secondo scudetto del Napoli: scolpita con impareggiabile maestria dai piedi fatati di Diego Armando Maradona, ma plasmata dietro le quinte pure dalle mani d'oro di Salvatore Carmando, massaggiatore tout court, diventato però un personaggio pubblico per il suo rapporto personale e professionale con il fuoriclasse argentino (“Mi volle al suo fianco in due Mondiali”) e per il famigerato episodio della monetina di Bergamo. "Di questa storia se n'è parlato fin troppo e io non ne ho più voglia, dopo tanto tempo. Ripeto solo che feci la cosa giusta: Alemao venne colpito alla testa, lo invitai a rimanere steso e gli curai la ferita”. Era l'8 aprile del 1990, il Napoli vinse 2-0 a tavolino contro l'Atalanta e tre settimane dopo arrivò il secondo scudetto. “Strameritato, altro che ombre. Quella squadra era formidabile, andava convinta su ogni campo di essere più forte degli avversari e vinceva. Era la grande forza del Napoli, all'epoca. Maradona era il numero uno per distacco, ma aveva al suo fianco tanti altri campioni. Careca secondo me è stato il secondo giocatore più talentuoso del mondo. Un attaccante come il brasiliano non l'ho mai più visto”.
Prima dello scudetto del 1990, c'era stato quello del 1987. Quale è stato il più bello, Carmando?
“Lo spettacolo al San Paolo e in tutta la città, la gioia dei tifosi napoletani e le lacrime dei giocatori furono uguali. Non si può scegliere tra il primo e il secondo. Anche Maradona li amò entrambi nello stesso modo. Nel 1987 fu una festa di liberazione, il sogno di una vita che finalmente diventò realtà. Nel 1990 eravamo consapevoli dall'inizio di poter vincere, ormai il Napoli era entrato in un'altra dimensione. La squadra era formata da un gruppo di ragazzi fantastici e amicissimi tra di loro. Negli spogliatoi ci divertivamo tanto, uno scherzo dopo l'altro. Ma il clou fu il party sulla nave nel mezzo del Golfo, dopo la vittoria decisiva contro la Lazio. Mi ricordo che c'era tra gli ospiti pure Massimo Troisi. Si divertiva molto per le mie battute e mi disse: ”Lo sai che sei un grande comico, più bravo di me?”. Anche il presidente Ferlaino la pensava così e gli diede ragione. Fu una notte di baldoria”.
I suoi sette anni con Maradona come furono, invece?
“Speciali. Con Diego diventammo amici praticamente subito, nel ritiro estivo di Castel Del Piano. Mi osservò per un po' di tempo mentre lavoravo, in silenzio. Poi Maradona mi scelse: sarai tu il mio unico massaggiatore. Non si faceva toccare da altri e per stendersi sul lettino dei massaggi aspettava che tutti i compagni fossero andati via dallo spogliatoio. Restavamo lì, da soli. Per ore. Nacque così un rapporto personale, oltre che professionale”.
Diventaste inseparabili, infatti.
“Maradona mi volle con lui anche ai Mondiali in Messico, non me l'aspettavo. Feci un viaggio in aereo lunghissimo e con tre scali, per raggiungere Diego al seguito della sua nazionale. Ma il regalo me lo fece lui”.
Estate 1986, racconti Carmando.
“Arriviamo in Messico e per dieci giorni la dissenteria non mi dà tregua. A un certo punto avviso Diego che non ce la faccio più e che voglio andare via. Lui capisce che faccio sul serio solo quando mi vede preparare la valigia: viene in camera mia e mi ferma. 'Resisti almeno un altro po', dai'. Un attimo dopo Maradona lascia il ritiro con un componente dello staff della nazionale argentina e ricomparire dopo un'ora, trascinando due cassette d'acqua minerale italiana. Non seppi mai dove le aveva trovate, Ma il mal di pancia mi passò”.
Valse la pena di resistere.
“Altroché, Maradona in Messico fece la storia del calcio. Il suo gol all'Inghilterra lo vidi da bordo del campo, anche se non mi era permesso di stare sulla panchina dell'Argentina. Ma quella fu la mia fortuna. Diego venne infatti a festeggiare proprio sotto la tribuna di fronte, dove mi trovavo io. Capii subito d'aver ammirato dal vivo un prodigio, la prodezza più bella di sempre: ci abbracciammo e piangemmo insieme”.
L'abbraccio tra Maradona e Carmando diventò un rito, da allora.
“Sì, specialmente con il Napoli. Prima di ogni partita Diego s'avvicinava per darmi un bacio sulla fronte, era un momento tutto nostro”.
Il bacio, e poi?
“Adesso posso rivelarlo, non l'ho mai detto. Recitavamo una preghiera, era la nostra benedizione prima della battaglia”.
Nemici mai, eppure a Italia '90 le vostre strade si divisero...
“Ero entrato nello staff dell'Italia in quel Mondiale e Diego l'accettò, non provò nemmeno a farmi tradire la nostra Nazionale. Solamente prima della sfortunata semifinale al San Paolo mi rimproverò con dolcezza. Peccato che non stai con noi, disse. Vinse lui ai calci di rigore con l'Argentina e mi è rimasto un grande rimpianto, perché l'Italia era la squadra più forte del torneo e avrebbe meritato di alzare la Coppa. Avevamo attaccanti come Vialli, Baggio, Mancini, Schillaci. Ci mancò la fortuna”.
Fu il suo secondo Mondiale, Carmando.
“Grandi emozioni. Gigi Riva era il nostro team manager, le colazioni con lui le conservo nel mio cuore. Nel ritiro d'Italia '90 bussava ogni mattina alle 6 precise alla mia porta: caffè e sigaretta. Non eravamo molto loquaci, ma ci intendevamo. Poi Riva si faceva preparare un'altra macchinetta intera e se la portava in camera. Amava la mozzarella e i frutti di mare, ricordo che li feci arrivare solo per lui da Salerno. I giocatori erano a dieta e non potevano mangiarli”.
Tornando a Maradona, invece, lui qualche stravizio se lo concedeva.
“Ma era un super atleta, fisicamente formidabile. Ritornò al top per i Mondiali nel 1994 ed ero di nuovo al suo fianco negli Stati Uniti, dove purtroppo lo incastrarono. È la festa del Napoli, però: via i cattivi ricordi”.
Mauro e il romanzo scudetto: "Io, Diego e una Napoli che mi è entrata nel cuore". Luigi Panella il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Il fantasista, in azzurro nell'estate del 1989, ripercorre una stagione pazzesca, tra polemiche, imprese, aneddoti e trionfo finale. ''Uno scudetto come quello in una stagione come quella, tra voci, sussurri e polemiche di ogni tipo. Solo a Napoli poteva essere vinto un campionato del genere''. Massimo Mauro sfoglia le pagine di uno dei più grandi romanzi popolari del calcio italiano, quello del secondo scudetto del Napoli. Una realtà in cui si trova catapultato nell'estate del 1989, dopo quattro anni alla Juventus.
Mauro, ci spiega il suo trasferimento al Napoli?
"Sono arrabbiatissimo con Boniperti che ha puntato su Zavarov e chiedo la cessione. Io in quella Juve non mi ritengo inferiore a nessuno. Zoff (l'allenatore, ndr) stravede per me, ma decido di andar via. All'ultimo giorno del mercato lo stesso Boniperti cerca di farmi cambiae ideao, ma ormai ho deciso".
Dall'altra parte c'è Moggi che la vuole fortemente.
''Mi tranquillizza. Vieni, al Napoli per te c'è spazio. Dico sì, mentre la Juve insiste con Zavarov. Per carità, un buon giocatore, ma in un contesto esterno alla Dinamo Kiev un pesce fuor d'acqua''.
Lascia Zoff a Torino, trova Bigon. Con gli allenatori è fortunato.
''Fortunato a dir poco. Bigon è un uomo intelligentissimo, gestisce con pacatezza una situazione subito complicata''.
Già, perché Maradona vuole andare al Marsiglia di Bernard Tapie, Ferlaino fa avanti e indietro con la parola, è rottura.
''Mi rendo subito conto di quanto la mia vita calcistica sia cambiata. Alla Juve devi pensare solo a giocare, a Napoli questa è la seconda cosa. Prima c'è da mettere insieme il pranzo con la cena''.
Addirittura il pranzo con la cena...
''E' una metafora che rende l'idea. Ore e ore di confronto, discussioni infinite per affrontare i tanti problemi. La partita poco ci manca che sia un dettaglio''.
Maradona in effetti tarda a presentarsi, ma la squadra parte bene. A Verona lei fa un gran gol ed è artefice di una vittoria pesante.
''E gioco anche con la numero 10... Vincere e segnare nello stadio dove l'anno prima era arrivata una sconfitta letale per lo scudetto mi fa entrare subito nel cuore dei tifosi''.
E finalmente arriva il giorno. Napoli-Fiorentina 0-2 al 45': esce Mauro, entra Maradona, finisce 3-2...
''E mica stavamo sotto per colpa mia (ride, ndr). Fa due gol Roberto Baggio. Poi con Diego la musica cambia, ma non è una novità. E' un'altra vittoria di svolta''.
Maradona, Platini alla Juve, Zico all'Udinese. Tutti suoi compagni di squadra. E' come se un attore che ha una macchina del tempo reciti accanto a Greta Garbo, Anna Magnani e Meryl Streep. Un po' di timore riverenziale è inevitabile?
''Invece no, nessun timore. Devi tenere la testa alta e vedere tutto. E poi giocare con i fuoriclasse è più facile di quello che sembra''.
E il Maradona dei rapporti umani vale quello che gioca...
''Un fuoriclasse sia in campo che fuori. Mai sentita una parola fuori posto, una mezza protesta per una giocata sbagliata di un compagno. Tanta roba per quello che a mio avviso è il più grande giocatore di tutti i tempi. Ma anche gli avversari, per fermarlo lo riempivano di botte, ma al tempo stesso lo rispettavano''.
Torniamo al campionato. Il girone d'andata va alla grande, le milanesi cadono al San Paolo. In coppa invece la squadra fa fatica. Qualificazioni sofferte con Sporting Lisbona e Wettingen, poi il tracollo contro il Werder Brema.
''Non c'era spazio per la coppa. Come ho detto, la settimana ci serviva per parlare, non per giocare al calcio''.
E contro il Wettingen un nuovo caso Maradona. Non si allena in settimana e non viene convocato. Tocca ancora a lei trascinare la squadra.
''Gli svizzeri vanno avanti, sbagliano un sacco di occasioni. Pareggiamo, poi mi procuro il rigore del sorpasso, ma senza Diego nessuno lo vuole tirare. Manca un quarto d'ora e quel pallone è un macigno. Alla fine mi prendo la responsabilità e non sbaglio''.
Rivedendo le immagini, un rigore inesistente...
''Confermo, mi sono buttato. Però un leggero tocco c'era. Insomma è uno di quei rigori che non esistono ma che oggi il Var assegna in quantità industriali...''.
Tra l'altro l'undici iniziale di quella gara è tutto italiano.
''Un dato che mi dà lo spunto per esaltare l'altro segreto. Va bene Diego, Careca, Alemao. Ma raramente ho visto un gruppo di italiani così forte e compatto. Dal povero Giuliani a Crippa, a De Napoli, Baroni, Francini, Fusi, Carnevale, il primo Zola''.
Archiviate le coppe, la prima parte del 1990 è difficile. Il Milan vi travolge, poi vi sorpassa dopo la sconfitta con l'Inter. Poi anche la squadra di Sacchi perde con Juve e Inter, ma non riuscite a rispondere pareggiando a Lecce e perdendo a Genova con la Samp. Siete rassegnati?
''No, nessuna rassegnazione. In fondo dietro al Milan ci stiamo poco, e sempre senza un distacco importante. Piuttosto in quella fase siamo preoccupati per Diego. Verso la metà di marzo inizia a fare la preparazione per i mondiali per conto suo, arriviamo al centro di allenamento e lui fa il tapis roulant con il suo preparatore personale Signorini. Non lavoriamo insieme, ma la domenica arriva, gioca alla grandissima e ci fa vincere...''.
Per l'aggancio però ci vuole la monetina in testa ad Alemao a Bergamo...
''Io sono quello più vicino quando Alemao viene colpito. Lui è un leone e vuole restare in campo ma il massaggiatore Carmando gli dice di restare per terra per prendersi lo 0-2 a tavolino''.
Una furbata da scugnizzo...
''No, una regola sbagliata che però in quegli anni penalizzava o favoriva a turno un po' tutte le squadre. E poi a chi dice che lo scudetto lo abbiamo vinto con la monetina replico che quell'episodio ci ha fatto guadagnare un punto. Noi però abbiamo chiuso avanti di due, quindi...''.
Già perché il Milan cade nella fatal Verona.
''Una sorpresa non prevista. Quel giorno noi prendiamo il largo a Bologna giocando una partita fantastica. Bigon mi lascia in panchina ma pazienza, mi godo la coreografia dei napoletani arrivati in Emilia. Una cosa da brividi''.
Uno spareggio evitato in extremis.
"Fossimo andati ad un terzo Milan-Napoli avremmo perso. O forse no, magari van Basten aveva già litigato con Sacchi. Ma la storia non si fa con i se e i ma".
Con la Lazio all'ultima giornata è festa.
''Si, il giorno meno sofferto della stagione. Quello che ricordo con più piacere è il venerdì che precede la partita. Vespa e casco, vado da solo a Forcella e respiro l'atmosfera di festa popolare. Indimenticabile''.
E' quello il punto più alto della sua vicenda a Napoli. Ormai è uno della città, al suo 30esimo compleanno viene anche Pino Daniele.
''Lo invito e lui, reduce da un intervento per mettere un bypass, mi chiede di poter portare la chitarra e tornare a suonare. Quasi non ci credo, chiamo amici musicisti ed organizzo in giardino una mini orchestra per cantare le canzoni di Pino. La voce si sparge e davanti al cancello di casa mia, in zona Posillipo, si raduna una folla enorme, tipo concerto''.
E come finisce?
"La stradina è abbastanza stretta, si crea un ingorgo incredibile. Tutto è talmente bloccato che sono costretto a chiamare i vigili. Ma Napoli si porta nel cuore anche per queste cose''.
Il caso Alemao, cento lire per un affare da cento miliardi. Antonio Corbo il 29 aprile 2020 su La Repubblica. L'8 aprile 1990 una monetina colpisce Alemao durante Atalanta-Napoli e trasforma il pareggio degli azzurri sul campo in una vittoria a tavolino. La rabbia del brasiliano: "Non sono bugiardo, non ho finto". I dubbi sulla frase del massaggiatore Carmando: "Buttati a terra!". La difesa di Luciano Moggi: "Dovevano curarlo in piedi?". E la tesi balistica: è stata usata una fionda. Otto grammi, valore cento lire. Una moneta ormai vecchia, presto fuori corso, s'infila in un affare da cento miliardi. Milan e Napoli ne fatturano cinquanta l'anno. Da ieri si giocano lo scudetto su tre sentenze, inaugurando il più celere rito dei processi nel calcio. L'esigenza di un verdetto che anticipi la fine del campionato (29 aprile, fra tre domeniche) ha spinto il presidente federale Matarrese ad abbreviare i tempi, per procedimenti di illecito sportivo e per le infrazioni connesse allo svolgimento delle gare di serie A e B da domenica 8 aprile. Per Atalanta-Napoli, quindi. Ventiquattro ore per annunciare il reclamo con un telegramma, 48 per presentarlo. Già domani la sentenza del giudice sportivo, a Milano. Lunedì quella della disciplinare. Il 18 aprile terza ed ultima: sarà emessa dalla commissione federale d'appello. Mancheranno undici giorni alla fine del campionato. Lanciata forse da una fionda, una moneta da cento lire ha colpito il ventinovenne centrocampista brasiliano Alemao. Dimesso poche ore prima dall'ospedale di Bergamo, in viaggio da Milano a Napoli, ieri il giocatore ormai guarito accusava: "Sono ferito, ma dentro. Sono offeso. Non ho mai pensato di ricorrere ad una farsa per modificare il pareggio nella vittoria a tavolino per la mia squadra. Non sono bugiardo, non ho finto". Un giornalista ha insistito. L' ha provocato, ricordandogli che molti sportivi italiani considerano il giallo di Bergamo solo una commedia. Ed Alemao d' impeto: "Voi dite che il Brasile fa parte del Terzo mondo. A Bergamo, allora io vi dico che ho visto il quarto...." "Dalla curva arrivavano sul campo monetine, e tante. Se le avessi raccolte, sarei diventato ricchissimo", è l' ironica denuncia di Giuliani. Il sorriso dei sospetti ha irritato Ferlaino. "Nessuno del Napoli faccia commenti, ora. Contano i fatti, e sono questi: un giocatore colpito, la ferita accertata, l'arbitro che ha visto, le diagnosi scritte che sono diverse dalle dichiarazioni che leggo". Ma il massaggiatore, Salvatore Carmando, ha alimentato i dubbi con le sue urla, registrate dalla tv. "Buttati a terra!". Il direttore generale, Moggi, ha reagito: "La più elementare norma nel soccorso, è far sdraiare il ferito. Dovevano curare Alemao in piedi?". Moggi tenta di spiegare anche perché Alemao avrebbe chiesto di continuare a giocare, come si è intuito in tv, prima di essere inchiodato a terra dal massaggiatore. "Anche un pugile suonato vuole continuare. E' una prova in più dello stato confusionale. Ma ormai sono rassegnato, barzellette chissà quante dovrò sentirne ancora, per questi due punti sacrosanti che ci spettano. Dimostreremo semmai anche sul campo di essere più forti del Milan". Alemao, arrivato senza bende né cerotti, ma ferito dentro, racconta: "Ho sentito un colpo alla testa, un dolore forte, mi sono toccato il capo, ho visto le dita sporche di sangue. Agnolin, l'arbitro, e Maradona, i primi a soccorrerlo. Agnolin ha visto tutto. Anche il sangue? Ha visto tutto insiste Alemao, anche una piccola ferita. Sì, volevo continuare a giocare, poi non ho retto. Credetemi. Maradona ha raccolto la moneta, a pochi metri. L'ha consegnata all' arbitro". Ma il Napoli domenica sera temeva che Alemao fosse stato colpito da un accendino. Solo ieri, un esperto di balistica si è proposto per dimostrare che anche una moneta di otto grammi, lanciata da lontano, può abbattere un calciatore peraltro provato da ottantuno minuti di gioco. La moneta, come si è visto in tv, è rimbalzata lontano, è schizzata via. Immaginate che violenza.... C'è chi ha pensato quindi ad una fionda. Decisivo sarà il referto di Agnolin. Ma il Napoli punta su altre due testimonianze: l'ufficio inchieste (Giampaolo Tosel, magistrato di Udine) e un medico federale, inviato a Bergamo per l' antidoping, e subito interpellato da Moggi. Al pronto soccorso Alemao faceva rilevare trauma cranico con breve perdita di conoscenza. Negativi gli esami di ieri, radiografie e Tac. Oggi Alemao li ripeterà a Villa del Sole, domani tornerà ad allenarsi. "Ora sto meglio, ma nell'ospedale di Bergamo, per tutta la notte, ho avuto gli incubi. Anche quello di non essere creduto e giocarmi la reputazione". (10 aprile 1990)
Elogio di Bigon l'italianista. Gianni Brera il 29 aprile 2020 su La Repubblica. Così Gianni Brera rese omaggio ad Alberto Bigon, il tecnico del secondo scudetto: "Un allenatore che ha parlato di sé unicamente a obiettivo raggiunto". Napoli ha decretato il trionfo ai suoi campioni. La festa si profilava così caotica e delirante che la squadra si è salvata sul mare. Gli osservatori attenti hanno notato che alle celebrazioni pubbliche hanno preso parte con inaudito trasporto anche le donne. Il fenomeno è nuovo e lascia intravvedere sviluppi inquietanti: per esempio, che il grandioso San Paolo non debba bastare più dopo i mondiali. Altri, compresi e intrigati di sociologia, limitano la portata psicologica dell'evento calcistico, destinato a lasciare poche ceneri in un organismo irreparabilmente malato: la parentesi festosa sarebbe dunque un sollievo ingannevole, un labile nepente destinato a rincrudire i contrasti fra il sogno di grandeur sportiva e la realtà economica. Da questa, comunque, esulerebbe il calcio con felice prepotenza: ed io personalmente penso che solo il cattivo gusto può indurre certa gente a così sgradevoli distinzioni. La portata sociale del calcio non è solo pretesto di baraonde campanilistiche. I paragoni con il Carnevale di Rio sono del tutto arbitrari. Laggiù ci si abbandona all'orgia per tradizione; qui si festeggia un evento che onora comunque la città, anzi la Polis, e con quella il sentimento che la anima, la cultura che la distingue. Gli stessi incidenti sono un richiamo utile alla moderazione. Che un ragazzo si accoppi in moto non è fatto da ascrivere alla gioia dissennata bensì al costume, che troppo s'informa agli eccessi del motorismo. Prima ancora che la conquista del secondo scudetto diventasse realtà noi ci eravamo affidati all' entusiasmo invocando che salissero in alto le bandiere e i canti per il Napoli campione d' Italia. E' una formula retorica alla quale siamo ricorsi da molti anni, celebrando vittorie di squadre e di singoli atleti. L'enfasi è nel ritmo (in alto le bandiere e i canti), la retorica nell'uso ripetitivo. Il tutto è plausibile penso io per la sincerità degli accenti. Non valgono infatti lusinghe a smuovere gli humores del vecchio cronista, cocciutamente fedele alle sue convinzioni critico-tecniche. Per lui il Napoli aveva già vinto lo scudetto quando aveva assunto un italianista convinto come Bigon: in pratica, veniva continuata senza impennate e dirizzoni di sorta la scuola di Bianchi, al quale era accaduto di compiere il primo miracolo in terra napoletana. Conservare la condizione atletica al canto dolce e ingannatore delle sirene è impresa memorabile. Bianchi vi è riuscito con redine tesa e muso duro. Ha avuto pericolose frizioni con i grandi attori che stavano alla ribalta. E' stato inflessibile al punto da farsi sospendere a divinis: e da buon pragmatico ha preteso che gli venisse pagato fin l'ultimo centesimo previsto dal contratto: trattandosi di un miliardo, ha anche sopportato senza battere ciglio che si dicessero di lui cose poco gradevoli. Dal canto loro, i dirigenti napoletani hanno pagato pro bono pacis, salvo far dire a uno di loro che per la prima volta la squadra non era scoppiata a primavera. Era senza dubbio un cattiveria: ma intanto rendeva omaggio a Bigon, il cui lavoro non aveva mai preoccupato per mancanza di linearità e di chiarezza. Presi gli uomini (e quali), Bigon si era messo umilmente al loro fianco senza impettire mai. Quando ha visto gonfiarsi altri toraci, ha atteso che il respiro tornasse normale prima di accennare minimamente alle proprie necessità di lavoro, alle esigenze della squadra, ai vantaggi di tutti. Maradona aveva fatto follie da primadonna astuta, non dissennata come si temeva: Re Puma intendeva semplicemente arrivare ai mondiali e allo scudetto nella forma migliore. I cerberi più incattiviti si sono dovuti convincere che il genio non s'inventa. L'ultimo recital meritava un altro paio di golletti, ma forse avrebbe tolto suspence all'attesa dei napoletani... Bigon ha parlato di sé unicamente a obiettivo raggiunto. Bravissimi loro ha detto e forse anch'io. Molto spirito in eccellente misura. Bigon ha vinto il suo primo scudetto e il secondo del Napoli quando ha dovuto reggere con i soli italiani allo sprint iniziale delle protagoniste più attese. Il Milan pareva avviato a travolgere tutti. In novembre aveva 6 punti di ritardo! Per colmare quel distacco si è stroncato. Lo aveva previsto con noi un solo milanista: il parmense Gheddafi. Ho un suo documento del 5 marzo 1990. Tutti gli altri stavano affogando, com'è avvenuto, nell'ottimismo. Il Napoli non ha mai incantato se non in alcuni momenti di vena, presenti tutti gli assi foresti e di casa. Il merito di Bigon è proprio di aver saputo prescindere dalle esaltazioni estetiche (le quali non danno punti). In casa non ha mai perso; ha concesso un punto alla sola impuntigliata Samp; tutte le altre hanno lasciato le cuoia al San Paolo. In totale ha perso 4 volte contro le 7 (un po' troppe, via!) del principale avversario, il Milan. A lungo Bigon si è dovuto inventare un libero lasciando il minimo spazio agli avversari. Del portiere, che è buono, si ha la civetteria di ammettere che forse verrà sostituito (è capitato anche al suo precedessore). I buoni difensori scarseggiano lontano da San Siro, dove due difese mondiali vengono diversamente protette e impiegate (da Sacchi e da Trap). Fuori Milano si è indotti a cercare dalle parti di Genova (Samp) e ancora di Napoli. Stupisce tuttavia che qualcuno, sopraffatto forse dalla fama dei vicini, desideri lasciare il Napoli neo-campione: o forse, chissà?, è trapelata qualche voce sui possibili sostituti. Quello che sta tramando quel briccone di Moggi, confortato dall'apparente semplicità di Ferlaino (furbissimo, invece), ancora non è dato sapere: ma le voci corrono sempre, e qualcuno può pure ascoltarle (come Fusi e Carnevale). Re Puma ha già rinnovato il contratto con Bigon: segno che non si batte più per Bilardo, come pareva facesse un certo anno. Ora Bigon seguirà i mondiali augurandosi che l' evento non incida troppo sulle tossine dei suoi. L'egoismo è sacro quando riguarda la patria e il pane. Il nostro calcio ha bisogno di ingegni liberi e nuovi, così fuori come dentro i campi di gioco. L' azzurro del Napoli è auspicio irresistibile. La sua solare allegria esige ottimismo. Grazie, Napoli. (1 maggio 1990)
Un comunista ha tolto lo scudetto a Berlusconi. Beniamino Placido il 28 aprile 2020 su La Repubblica. Osvaldo Bagnoli non poteva allenare il Milan per le sue simpatie politiche, spiegò Silvio Berlusconi a Gianni Brera. Dopo la sconfitta nella fatal Verona, il presidente rossonero interviene in tv al Processo del lunedì. Il racconto imperdibile di Beniamino Placido. Lunedì sera avrei voluto trovarmi anch'io al Processo del lunedì. Avevo una cosa da dire. Non mi capita spesso. Le cose che potrei voler dire io le sanno già, e le ripetono senza stancarsi gli ospiti consueti del Processo del lunedì (RaiTre). Per sovrammercato, lo fanno com'io non saprei. Con faccia serissima. Mai un sorriso, uno scherzo, una presa in giro. E dire che il calcio è un gioco. Nella trasmissione di Biscardi è sempre e soltanto un dramma. Un melodramma, una Cavalleria Rusticana: con soprani, tenori, baritoni; odi feroci; tradimenti congiure complotti e passioni scatenate. Lunedì sera si è parlato molto di congiura. Quella congiura che sarebbe stata ordita in alto loco ai danni del Milan. Che domenica difatti ha praticamente perso lo scudetto a Verona, dove è stato sconfitto inopinatamente dalla locale squadra. Quindi grande amarezza da parte dei tifosi e dei dirigenti milanisti. Cesare Lanza, direttore de La Notte ha parlato di uno scudetto della vergogna. Silvano Ramaccioni, team manager del Milan (baritono, conosciuto in arte come Ramaccion de' Ramaccioni) ha parlato di disgusto. Di fronte a questa mostruosa, misteriosa cospirazione degli eventi. Meno male ha aggiunto che di fronte allo scudetto esteriore, ufficiale che il Napoli ha quasi vinto, c'è lo scudetto interiore che ci ha assegnato generosamente il nostro Presidente (dove si vede che Ramaccion de' Ramaccioni è un appassionato lettore di Sant' Agostino: In interiore homine habitat veritas). Il presidente Berlusconi si è fatto vivo per telefono, dopo lunga lunghissima attesa, a mezzanotte scoccata, per dire che no. Non di congiura aveva parlato lui, ma di cultura dell'invidia. Il Milan è stato troppo invidiato e malvoluto per i suoi successi. Può darsi. Tuttavia, a tutte le ragioni proposte per spiegare la drammatica svolta del campionato, avrei potuto, voluto, e forse dovuto aggiungerne un'altra. Le ragioni addotte vanno dal severo comportamento dell'arbitro Lo Bello: che ha espulso prima l'allenatore Sacchi, poi tre giocatori del Milan, alle evidenti responsabilità del numero 17, indicate con mano ferma dai giornali di lunedì mattina. Proprio diciassette anni fa accadde la stessa cosa, sullo stesso campo veronese, ai danni dello stesso Milan. E il primo goal del Verona, quello di Sotomayor, è stato segnato proprio al diciassettesimo minuto del secondo tempo. Avrei voluto, potuto e forse dovuto portare un documento. Una pagina di questo giornale. La pagina 26 de la Repubblica in data 23 marzo. Dove c' è L'accademia di Brera. Quel giorno un lettore chiede al nostro Brera: "Ma perché Berlusconi non ha voluto e non vuole prendere per allenatore del Milan il bravissimo Bagnoli, tanto più bravo e più capace di Sacchi?" Risposta di Gianni Brera: una risposta sorprendente; tanto da indurre a ritagliare e conservare quella pagina di giornale come documento di costume. O, direbbe il cavalier Berlusconi, di cultura. "Ma certo, ma il lettore ha ragione", dice Brera: "Anch'io sono arrivato un giorno a proporre Bagnoli al Cavalier Berlusconi, il quale pari pari mi rispose che no, non voleva al Milan un comunista!". Ecco una risposta come dire? poco moderna. Certo non saremo noi ad insegnare la modernità al cavalier Berlusconi, che ha il radiotelefono in macchina e si sposta quando può in elicottero: quindi è modernissimo. Qui si tratta di quell' altra modernità di fondo che consiste semplicemente nel distinguere. Quand'eravamo bambini tifavamo tranquillamente (e appassionatamente) per Gino Bartali, anche se era terziario francescano. Mentre alcuni protervi compagni di scuola ci volevano imporre di tifare per il ciclista Vito Ortelli, che era un compagno. Ma sentite che razza di ragionamento. Ora si dà il caso che Osvaldo Bagnoli sia l' allenatore udite, udite proprio di quel Verona che ha battuto il Milan domenica scorsa. E volete che questo Bagnoli non abbia infiammato di sacro sdegno i suoi giocatori, domenica scorsa, prima che scendessero in campo contro il grande Milan? Molte partite è ben noto si risolvono nello spogliatoio: sulla base di una parola giusta, detta al momento giusto: dall' allenatore giusto. Il Milan ha perso lo scudetto, probabilmente. Ma deve ancora disputare la finale della Coppa dei Campioni. Quel giorno, che è prossimo, noi tiferemo per i rossoneri. Perché sono bravissimi, perché giocano benissimo, perché avrebbero meritato anche lo scudetto esteriore: oltre a quello interiore che ha assegnato loro, generosamente, Ramaccion de' Ramaccioni. Senza starci a chiedere se sono, politicamente parlando, socialdemocratici, liberali o craxiani: o se il loro team-manager Ramaccioni non è per caso della Lega lombardo-veneta. Di loro, questa è l' ultima cosa che ci interessa. Siamo moderni noialtri che non abbiamo il radiotelefono nell' automobile proprio per questo. (25 aprile 1990)
Nino Materi per “il Giornale” il 19 maggio 2020. «Il» Verona (inteso come società Hellas Football Club) ha forse dimenticato Claudio Garella, ma «la» Verona (intesa come tifoseria) non ha mai smesso di sfogliare le gesta del suo portiere con la «k» finale: Garellik.
Unico. Irripetibile. Come lo scudetto conquistato dalla città di Romeo e Giulietta nel 1985, pegno d' amore per collezionisti di emozioni. Figurine belle e brutte. Garella ne ha raccolte tante. Chissà se ha completato l' album dei sentimenti. Garellik osserva il calendario. Non ha voglia di brindare. O forse sì. Ci sarebbero le occasioni addirittura per un triplice cin cin. Per lui, questo di maggio, è un mese da incorniciare: domenica 10 maggio, anniversario dello scudetto vinto con Napoli nel 1987; martedì 12 maggio, celebrazione dello scudetto conquistato col Verona 35 anni fa; sabato 16 maggio, il suo 65esimo compleanno.
Ricordi. Custoditi gelosamente, «ma che nulla hanno a che fare col calcio-business e senz' anima di oggi». Adesso meglio godersi la serenità degli affetti più cari. Nella tranquillità della provincia piemontese, dove ha scelto di trasferirsi da quando il suo vecchio mondo ha preso a orbitare in un universo estraneo. Per Garella un ritorno al passato: nato a Torino, il 16 maggio 1955, cresciuto col «giaguaro» Castellini a fargli da chioccia tra i granata. La prima occasione presa al volo: trasferimento nella Capitale, sponda Lazio. Ma ci arriveremo. Iniziamo dall' uomo. «Preparato, onesto, fedele alla parola data - così ce lo descrive Leonardo Tortorelli, appassionato presidente della polisportiva «Barracuda» di Torino, club che Garella ha allenato per varie stagioni -. Grazie a lui abbiamo ottenuto una promozione e le sue conoscenze sono state fondamentale per richiamare sui nostri giovani l' attenzione di osservatori di serie A. Claudio ora conduce un' esistenza riservata, ma sono sicuro che sarebbe pronto a rimettersi in gioco». Il profumo dell' erba è inebriante per tutti. Figuriamoci per un portiere. Anche se c' è chi ti volta le spalle. È capitato a tanti. Capiterà ancora. Sensazione dura da metabolizzare. Garella è restio a parlarne. Così non resta che l' amarcord. C' era una volta, il calcio. «Claudio era eccezionale - narra Osvaldo Bagnoli, il mister del gloria veronese -. Parava ogni pallone, con qualsiasi parte del corpo. I giornalisti ne esaltavano le imprese. Io una volta sbottai: Ma basta con questo Garella!. Ma lo feci non per mancare di rispetto a Claudio, ma per mettere tutta la squadra sul suo stesso piano». Fatto sta che Garella interveniva perfino in rovesciata, o con il «lato b»: una specie di Higuita, ma scevro da profili clowneschi. Perché Claudio è sempre stato un tipo serio, dentro e fuori il campo. Con la schiena dritta. «Oggi nei suoi discorsi c' è un velo di malinconia», testimoniano i pochi che lo frequentano. Ma basta un niente per risvegliare le zone di luce. Come il bagliore esaltante di quel 12 maggio di 35 anni, fa quando il Verona venne incoronato sul trono della serie A e Claudio mostrò ai suoi critici (Gianni Brera in primis) quanto fossero infondati i loro giudizi. Quell' anno Garella fu quasi imbattibile. Garellik si rivede nello specchietto retrovisore e il riflesso gli piace: «Ero un portiere controcorrente, diverso dai portieri belli da vedere, ma non meno efficace di loro. Usando i piedi ho interpretato il ruolo in maniera moderna». Vladimiro Caminiti scriveva che «sembrava un panettiere, un pasticciere». Invece Garella brillava nel campionato delle stelle: «I campioni più famosi erano tutti in Italia. Zico, Platini, Falcao, Junior, Rumenigge, Socrates... Ma il numero uno rimaneva lui, Maradona. Sognavo di giocare col più grande, e ci sono riuscito. Allenarsi con lui era uno show. A Genova, durante la seduta di rifinitura pre-partita lo sfidai, Diego non voleva più smettere di battere punizioni. Il resto della squadra era ormai sul pullman, ma lui continuava a stare in campo». Garella, capace di fare autocritica e ammettere gli errori: «Il modo in cui ruppi col mister Ottavio Bianchi fu sbagliato, e sbagliai anche il 10 settembre '89, quando commisi un fallaccio su Borgonovo del Milan. Berlusconi si arrabbiò, aveva ragione». Camorra a Napoli? Doping? «Non so neanche cosa siano. Se avessi visto qualcosa non l' avrei mai accettata». Eccolo, il Garella tutto d' un pezzo, il Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento dell' ipocrisia. Per questo ogni mattina può guardarsi allo specchio. A testa alta. Garella conosce bene l' ambiente del football. Ha imparato, a proprie spese, che la correttezza non sempre è apprezzata. Forse per questo non è rimasto nel, cosiddetto, «giro che conta». Dopo il corso federale a Coverciano, avrebbe le carte in regola per fare il direttore sportivo o l' allenatore. Ma troppi presidenti preferiscono circondarsi di yes man con la testa girevole, pronti a voltarsi dall' altra parte fingendo di non vedere e non sentire. Insomma, l'opposto di Garella. «Dopo scudetto e Coppa Italia, col Napoli avremmo potuto fare il bis l' anno successivo - dice il portiere -.Invece perdemmo il campionato sul filo di lana. Ma il Milan di Sacchi lo meritò». Garella capisce che deve fare le valigie. Un addio doloroso con negli occhi due fermo immagine di segno opposto: «La parata più bella, contro il Milan: palla smanacciata sul palo su colpo di testa di Hateley. Il gol più amaro: quello di Butragueño nella gara di ritorno contro il Real Madrid che ci eliminò dalla Coppa dei Campioni. Nel primo tempo facemmo una partita strepitosa, il Real sembrava una squadretta». Ma Garella non ha rimpianti. È stato infatti tra i protagonisti dell' apoteosi partenopea: «Un' atmosfera favolosa, ben simboleggiata dallo striscione dedicato ai defunti appeso dai tifosi sul muro del cimitero nel giorno dello scudetto: 'Uagliò, cosa vi siete perso!. Geniale. Idem per la risposta dei... defunti: 'Uagliò, ma chi ve l' ha detto che ce lo siamo perso?». L' altra impresa memorabile Garella l' aveva compiuta due anni prima a Verona: «Bagnoli credeva in noi, l' intera squadra lo seguiva. Senza bisogno di tante parole. Eravamo un gruppo di amici. La sera si usciva insieme. Senza prime donne. Anche se a Pietro Fanna piaceva interpretare e questo ruolo. E noi glielo lasciavamo fare...». Di quella alchimia perfetta Garella fu un elemento essenziale. Alla faccia dei detrattori tanto al chilo: «Chi era a corto di argomenti tirava fuori la storia delle garellate (copyright, Beppe Viola) o di "paperella". La verità è che alla Lazio ero arrivato troppo giovane. Caratterialmente non ero ancora corazzato per pressioni di quel tipo». Senza contare il peso dell' eredità di Felice Pulici, portiere-icona e beniamino dei tifosi biancocelesti. «Quando mi cedettero in B alla Sampdoria giurai al direttore sportivo della Lazio: tornerò in A e ci resterò a lungo». Promessa mantenuta. Quattro stagioni alla grande difendendo la porta dei blucerchiati, poi il periodo d' oro di Verona. La convocazione in Nazionale sarebbe stato un giusto premio, ma Garella non aveva santi in paradiso. Due fuoriclasse come Diego Maradona e Gianni Agnelli si accorsero però delle sue parate «sgraziate» (stesso aggettivo usato per il portiere dell' Olanda, Jan Jongbloed). Lui, intanto, è diventato Garellik: «Il soprannome me lo mise un giornalista del quotidiano L' Arena di Verona, ispirandosi ai colpi di clamorosi di Diabolik». Gianni Mura lo battezzò invece «Compare Orso», aggiungendo: «capace però di volare come Batman». «Ma il complimento più bello - ammette - lo ricevetti dall' Avvocato che, col suo umorismo, coniò una definizione passata agli annali: Garella è il miglior portiere del mondo. Senza mani, però. Si riferiva alla mia capacità di saper parare anche con i piedi. Aver meritato una battuta da Gianni Agnelli è importante, significa aver lasciato un segno nel mondo del calcio». Ma anche Maradona ed Italo Allodi lo stimavano, tanto da caldeggiare il suo acquisto al Napoli di Ferlaino. Era al top della forma, avrebbe meritato una convocazione in Nazionale. Dopo Napoli per Garella iniziò il crepuscolo degli dei: due anni nell' Udinese (con una promozione dalla B alla A) e uno ad Avellino, con l' infortunio e l' addio al calcio a 35 anni. Da allora promesse, delusioni. Inevitabili per gente come lui, non avvezza ai compromessi. Eppure il richiamo del campo è rimasto sempre suadente, come il canto delle sirene per Ulisse. A lui interessava allenare una squadra, e chi se ne frega se era solo una squadra di dilettanti. Lo ricordano con affetto i ragazzi del Barracuda, società di prima categoria piemontese dal nome feroce ma dal cuore tenero; tanto diverso dagli squali del calcio professionistico. Predatori da cui Garella si è sempre tenuto alla larga. Continuerà a farlo. Guardandosi ogni mattina allo specchio. A testa alta. Auguri, mitico Garellik.
Riti, stadio e sofferenza: quell'anno mi innamorai del Napoli e non lo lasciai più. Nicola Apicella il 28 aprile 2020. Gli occhi del tifoso raccontano la stagione del secondo scudetto, dalla partita col Pisa in Coppa Italia fino al fatidico 29 aprile con il gol di Baroni urlato a squarciagola dal mitico radiocronista locale Antonio Fontana. Pensandoci bene diventai tifoso del Napoli proprio in quegli anni. Il primo scudetto, quello del maggio '87, mi colse per così dire impreparato. Avevo 12 anni, un'età in cui allora, almeno per me, il calcio era fatto solo delle infinite partite che si giocavano in strada, con due pietre a fare da pali e una traversa immaginaria. Tre anni dopo fu tutta un'altra storia, sarà stata l'età, oppure semplicemente il fatto che nel frattempo lo svezzamento si era compiuto, andai infatti per la prima volta allo stadio. In questi casi c'è sempre un prima e un dopo. Nulla di eccezionale, un semplice Napoli-Pisa di coppa Italia se la memoria non mi inganna (con Maradona assente e io che mi affannavo a cercarlo in tribuna col binocolo), però da quel momento io e il Napoli non ci siamo più lasciati. Come si dice, nella vita si può cambiare casa, auto, moglie, ma non la squadra del cuore. C'è un momento in cui la scegli e quella resterà per sempre. Quando il Napoli vinse il suo secondo (e ahimè finora ultimo) scudetto, avevo da poco compiuto 15 anni, come detto ero stato allo stadio giusto un paio di volte perché convincere mio padre, da sempre poco tenero nei confronti di quelli che definiva "22 sfaticati in mutande", non era esercizio facile. Per fortuna a mettere una buona parola ci pensava mamma, napoletana di San Giovanni a Teduccio e molto più tifosa di papà. Ricordo benissimo quel 29 aprile, giorno di Napoli-Lazio, e ricordo tutti gli episodi, i preparativi, che hanno accompagnato quella settimana. Non stavo nella pelle, non vedevo l'ora che arrivasse domenica. Si respirava l'attesa per qualcosa di importante, bastava vedere il numero di bandiere che tappezzavano la città crescere di giorno in giorno. Con Felice, un mio compagno di classe, avevamo i nostri riti e guai a saltarli: il pagellone del lunedì, i commenti alle trasmissioni viste sulle tv locali e la cronaca scritta di come sarebbe andata (secondo noi) la partita della domenica successiva. E poi la nostra agenda, che ancora conservo, ricca di ritagli di giornali, figurine, disegni. Per Napoli-Lazio decidemmo di fare le cose in grande, una cintura con i volti dei giocatori utilizzando le figurine Panini, un cartellone gigante con sopra incollate le foto di Maradona e i titoli fatti con i ritagli di giornale, un bandierone trasformato in mantello. Il sabato prima di Napoli-Lazio mio padre mi mandò al solito bar del centro a giocare la schedina, le solite due colonne, 1200 lire. Ora, voi sapete cos'era la 'macchia' in una schedina? Il risultato a sorpresa, quello che avrebbe fatto saltare il banco e reso ricchi i 13 e in parte pure i 12. Ecco, quella volta mia padre decise che la 'macchia' era la vittoria della Lazio a Napoli. Ora, immaginate con quanta preoccupazione ho giocato quella schedina. Per fortuna mio padre non fece né 13 e neanche 12. Arrivò la domenica accompagnata da tutti i suoi riti. La messa delle 10, i dolci, il saluto a mio nonno e poi il pranzo, la domenica non si scappava, menò fisso: ragù e carne con insalata. E poi la partita, vissuta rigorosamente in strada, la radio e un pallone. La nostra voce non era Ameri e neanche Ciotti. La nostra voce era Antonio Fontana. Il vero tifoso del Napoli non può non aver sentito almeno una volta il suo “Gol del Napoli, gol del Napoli”. Successe anche quel giorno, la punizione di Maradona, Rubén Sosa che non rispetta la barriera, poi Diego pennella al centro e Baroni, professione stopper, sale in cielo e la mette all'incrocio dei pali dove Fiori non ci arriva. Il boato che uscì dalla radio e l'urlo che arrivò dai palazzi attorno fu impressionante, ricordo quelle trombette che poi ti lasciavano il dito freddissimo, le bandiere, gli striscioni da balcone a balcone. Il Napoli era campione d'Italia e a me non sembrava vero.
Da ilnapolista.it il 29 Aprile 2020. Il Corriere dello Sport, con Antonio Giordano, intervista Ottavio Bianchi. Nato a Brescia, vive a Bergamo, vive in prima persona l’emergenza sanitaria nella regione più colpita dal virus, la Lombardia.
«Una vita che non è più vita. Rinchiuso dentro casa senza avere un orizzonte, in giornate che sono tutte eguali e tutte piatte, aspettando il bollettino serale dei Tg che fanno la conta dei morti».
Con l’incertezza più totale circa il futuro in assenza di informazioni sui vaccini. Con un incubo, quello di sentire squillare il telefono.
«Il telefono adesso è un tormento. Hai paura che ti chiamino per dirti che un parente o un amico sia scomparso. Ho davanti agli occhi, ogni notte, le immagini delle bare portate sui camion militari. È la scena più dolorosa a cui abbia assistito. Ci siamo ritrovati dentro a questo orribile film, però scoprendo che era la realtà a cui siamo costretti. Vorremmo il conforto della scienza ma spesso i virologi sono in contrasto tra di loro. C’è fumo nelle teorie e psicologicamente si fa sempre più dura. Non trovi che dei cretini, l’uno il prolungamento dell’altro. E a volte ti accordi anche che qualcuno di questi signori riesce persino a dare dimostrazione di comicità involontaria».
Non torneremo più alla normalità, secondo lui.
«Muteremo i nostri rapporti sociali, a meno che non trovino un rimedio scientifico, quindi medicinali che fronteggino il virus. Questa è una piaga che ci porteremo appresso, anzi, dentro».
Ripensando al passato dice: «Io non mi sono fatto mancare niente, ho trascorso talmente tanti giorni negli Ospedali che per riassumerli lei avrebbe bisogno di una pagina intera. Ho conosciuto la terapia intensiva, mi hanno tirato fuori per i pochi capelli che avevo. Ho giocato sul dolore, per parecchio».
In questo momento, confessa, non riesce a pensare al calcio.
«In queste ore non riesco a concentrarmi né sul calcio né su altro. Credo sia indispensabile prestare attenzione alla vita sociale, che ha la priorità assoluta. Se diamo un’occhiata intorno a noi, ci accorgiamo che se ne sono andati amici, conoscenti, un vicino di casa. E bisogna organizzarsi per combattere il virus nel modo più appropriato ma anche uscire da questa forma di depressione che può colpire chiunque. So che l’inattività di quello che è stato e rimane il mio mondo colpisce figure a cui sono legato – i magazzinieri, i massaggiatori, ad esempio, gente che mi ha viziato e verso i quali ho sempre provato affetto. So che ci sono società di serie C che faranno fatica a riprendere. Ho fatto la gavetta, ho attraversato il calcio, ne conosco le difficoltà. Ma aspetto che passi la nottata, come dicono a Napoli, dove dentro ad una frase c’è spesso la filosofia dell’esistenza. Le conosco tutte, perché lì c’è la parte più forte della mia storia personale».
Intervista allo scrittore Massimiliano Virgilio. Maradona e i fischi di Napoli: “Non fu soltanto amore”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Dicembre 2020. Qualcosa che non muore e che non morirà. Diego Armando Maradona e Napoli. Napoli e Maradona. E una ragione in più, rispetto alla solita solfa: il riscatto del Sud, la passione cchiù forte e ‘na catena, un posto a piacere tra il primo e il secondo nelle cose belle con il Vesuvio e le sfogliatelle. Insomma: El Pibe de Oro è stato anche qualcosa di simile all’avvento della modernità nella città sconquassata dei primi anni ottanta. Tutta un’altra storia e dimensione, rispetto al cliché. Più o meno così la mette lo scrittore napoletano Massimiliano Virgilio. Da una settimana – da quando il campione argentino che con gli azzurri ha vinto due Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una Coppa UEFA, è morto, all’improvviso a 60 anni, in un appartamento nella provincia di Buenos Aires, in una solitudine sconcertante (a quanto emerge nelle ultime ore) mentre il giorno dopo la notizia sarebbe stata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo – da una settimana, dunque, lo scrittore napoletano (Le Creature il suo ultimo romanzo, 2020, Rizzoli) è inconsolabile. Quello che ha significato nella sua educazione sentimentale e sportiva El Diez lo scriverà eventualmente lui stesso – che è quello che fa nella vita. C’è una ragione in più intanto per parlare della città porosa, popolare, schifiltosa, accogliente, ruffiana e pericolosa e del suo per sempre eroe giovane e bello oggi, ma anche qualcos’altro ai tempi belli di una volta.
“Sicuramente Maradona ha rappresentato un riscatto per la città, ma questa dimensione del rivincita da una condizione di grave inferiorità è stata esagerata. Quindi sì, c’è anche del cliché tipico di chi guarda a Napoli con occhio coloniale, con sguardo di superiorità. Un atteggiamento che gli stessi napoletani spesso assumono su sé stessi”.
Quale può essere quindi una lettura meno stereotipata e più utile?
“Quello della metropoli: una metropoli che prima non aveva coscienza di sé”.
Ci spieghi.
“Quando Maradona è arrivato, Napoli era la città del post-terremoto, del colera di poco più di dieci anni prima, della criminalità che faceva il salto di qualità. Ma era anche una città vivissima: c’è Lucio D’Amelio e da poco è passato Andy Warhol, sono gli anni della musica di Sergio Bruni e di Pino Daniele e di tutto il neapolitan power; di una scena letteraria florida. Non una Napoli milionaria, ma ricchissima sì, vivace. È però la sola presenza di Maradona ad accendere un faro: il mondo guarda Napoli. Per la prima volta, con intensità, come non succede da tempo. Come non succedeva, forse, da quando era una capitale borbonica”.
Un taumaturgo in pratica.
“Improvvisamente Napoli ha preso consapevolezza del suo essere metropoli. Ed è tornata a essere la Capitale perduta che sempre si ripete di essere”.
Non è però tutto rose e fiori: Napoli-Pisa, maggio 1989, i fischi del San Paolo. Da dove vengono?
“La relazione con la città è sempre stata riportata nei termini dell’amore infinito e incontrastato. In realtà gli stessi napoletani, con le voci che giravano, il segreto di Pulcinella della cocaina, e soprattutto dopo i Mondiali del 1990, hanno cominciato a sentirsi meglio di Maradona dopo qualche tempo. Lo hanno giudicato: e quei fischi lo hanno raccontato. Hanno rappresentato un’incrinatura nella narrazione maggioritaria di quel rapporto”.
Il campione è stato quindi più divisivo di quello che si è detto in questi giorni?
“Maradona è sempre stato indigesto alla borghesia. A quella italiana soprattutto, e a quella napoletana che giocava e gioca ancora a scimmiottare la borghesia di altri luoghi. Orribile. Questo perché Maradona era un impresentabile, o così veniva percepito: con le sue origini, le sue camicie, i suoi capelli, la droga, la criminalità, le sue donne; perciò molti sentono il bisogno di santificarlo, di beatificarlo come da morale cattolica. È stato invece il primo grande populista dell’era contemporanea e uno degli ultimi del ventesimo secolo”.
A proposito di retorica: si può parlare di un avanti e di un dopo Maradona?
“Non credo sia un caso che tra la città del post-terremoto e il cosiddetto Rinascimento ci sia stato lui. Napoli ha usato Maradona come hanno fatto tanti altri nella sua vita. Com’è successo nel privato: con il clan, i familiari, i manager, i presunti amici. La metropoli si è servita di questo faro gettato su di lei, su di noi. Ricordiamo che comunque se ne andò da solo. All’aeroporto di Capodichino era solo dopo la squalifica (per doping, nel 1991, dopo la partita con il Bari, ndr)”.
Oltre ai titoli, cosa lascia Maradona a Napoli?
“Una grande eredità tra le mani della città. Culturale e immaginaria. Un tesoro che non va sperperato perché l’ultima e unica possibilità per la città di restare sullo scenario mondiale. Lo abbiamo visto in questi giorni: gli occhi di tutto il mondo su Napoli. Allo stato attuale la città non può vantare niente di lontanamente paragonabile. Né simboli, icone, luoghi della memoria condivisi. Non bisogna farsi sfuggire, da questo punto di vista, l’opportunità di esistere”.
Alla notizia della morte molti hanno parlato di Maradona come di un parente. Napoli è orfana?
“È orfana, sì, ma come si è orfani di un padre o di una madre che ti hanno reso la vita migliore, non peggiore. Quella Napoli, e come abbiamo visto anche quella di oggi, è diventata davvero straordinaria ed eccezionale attraverso l’esperienza di una delle più grandi icone del ventesimo secolo. È orfana ma anche cosciente di aver vissuto qualcosa di speciale e indimenticabile, è stato meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati”.
La resurrezione di Maradona, dai fischi alla rinascita. Corrado Sannucci il 29 aprile 2020 su La Repubblica. Il secondo scudetto del Napoli arriva a sorpresa: per la prima volta i tifosi avevano contestato il proprio idolo. Ma nel momento in cui è finito sotto accusa Diego ha dimostrato di essere indispensabile. Va bene la maturità, la città che sa vincere, e tutte le vecchie ragioni per spiegare la calma che c'è intorno a questo nuovo scudetto, ma certo alla base di tutto c'è la sorpresa, cosicché anche l'ultrà, ignaro di questa retorica dell'antiretorica, non ha ancora fatto in tempo ad accendere i mortaretti. Quello che ha fatto da guida a questa flemma sembra così essere stato il serioso distacco con il quale Maradona ha parlato alla fine della gara di Bologna, quando ha precisato come questo scudetto sia diverso e in qualche maniera forse inferiore a quell'altro. Strana reazione per un uomo e un giocatore che ha fatto dell'impulsività, dell'emotività alleata ai capricci, la forza del suo personaggio e anche la simpatia che emana. Ora questo silenzio pesa sulla festa, così come sulla vita della squadra hanno pesato le vacanze a pescare dorados, le nozze a novembre, le assenze dal ritiro, il mal di schiena che torna periodicamente. Sulle sue bizze e sulle malattie di Careca si è avvitata quest'anno la stagione del Napoli, nell'attesa che i due Grandi guarissero e restituissero a Bigon, che a lungo ha atteso, una parte delle meraviglie che avevano dato a Bianchi. Questo silenzio, questa morte dell'entusiasmo, spiegano anche quale stagione abbia vissuto Maradona, da una parte sempre più insofferente, dall'altra sempre più disciplinato. Ma questa convivenza degli estremi ha rotto qualche meccanismo nel suo rapporto con la città e la società. "Questo non è lo scudetto dei tifosi, è lo scudetto della squadra. Solo a Bologna ho rivisto i tifosi, al San Paolo spesso è un'altra cosa. Troppe le polemiche e non mi piace che a pagare poi siano solo i giocatori". Una stagione in testa per venticinque giornate e poi la delusione del sorpasso, i fischi per troppo amore, come dicevano i tifosi. E' successo semplicemente che quest'anno il pubblico ha cominciato a contestare il suo idolo, per la prima volta a Maradona è venuto qualche dubbio, di non essere immortale, perfetto o qualcosa del genere. "Mah, chissà, forse è stata colpa mia e di Ferlaino" ammette ora, ora che tiene a ribadire come il suo rapporto con il presidente sia solo quello tra un presidente e un giocatore qualsiasi. Eppure, paradossalmente, è stata la ferita dei fischi, l'orrendo 3,5 in pagella che qualcuno gli affibbiò al termine della partita di Udine, è stata la sfiducia e lo scherno per la prima volta affioranti nei quartieri a smuovere il campione, che sa usare sempre l'orgoglio come una cura dimagrante. Nel momento in cui era sotto accusa ha dimostrato di essere indispensabile; e ha dimostrato di essere indispensabile anche per dire che qui non sta più volentieri, anche se in maniera più sottile di quando denunciò di essere minacciato da un complotto, non si sa se della camorra o del semplice popolo. "Quando sono tornato ho detto: o così o niente. Non so se "così" è bastato. Nessuno può pretendere di cambiare la mia vita. Ma a modo mio io fatto il mio dovere". E il suo dovere è stato quello di vincere un campionato in un mese e mezzo, da quando ha deciso di alzare i suoi voti in pagella e ha ripreso la strada dell'Istituto di Medicina dello Sport per curarsi e ha ritrovato i gol su punizione e altri ancora, fino ad arrivare al suo record, per ora, di sedici gol. "Dopo le due sconfitte di San Siro mi venne rabbia, ma solo con il pareggio a Lecce ho temuto di non farcela". A questa resurrezione del genio si è unito solo in ultimo Careca, anche lui pellegrino da Dal Monte, impegnato negli strani calcoli tra potenza e lunghezza della sua muscolatura, che fanno il paio con il suo carattere nel quale precisione e musoneria convivono. Careca è un altro che in questa festa non sorride, infastidito com'è da sempre dall'improvvisazione locale alla quale vorrebbe contrapporre maggior professionismo, ma al termine, finalmente, di quel brutto sogno cominciato quando il Milan gli sfilò da sotto gli occhi lo scudetto di due anni fa. Ma la squadra è stata sempre con i suoi campioni, anche quando questi, alla fine, l'hanno ridotta al porteur che sventola in aria la ballerina per tutto il palcoscenico. La forza del Napoli è stata quella di restare in alto con Zola e Mauro, di resistere anche quando tutto sembrava finito, anche quando contro il Milan, a febbraio, non aveva passato che una volta la metà campo. La squadra ha resistito, sulla fatica di Alemao e Crippa, ha aspettato e sperato nei suoi Geni e a Bologna si è rivista la squadra che può dare la palla al Tridente e poi contare i gol. "L'altra volta arrivammo distrutti al traguardo, quest'anno siamo molto più freschi. Abbiamo corso molto proprio nelle ultime gare. Sapevamo di stare meglio del Milan e questa consapevolezza non ci ha mai fatto temere per lo spareggio contro il Milan. E' uno scudetto questo che nonostante le assenze e le stanchezze di Maradona e Careca non riesce a distribuire i meriti sugli altri, così che tutto torna in un boomerang a loro, fino a far ricordare il tacco per Francini o sciccherie del genere. Tutto il resto sembra essere opera di uomini senza qualità, di gregari che portano la borraccia e prendono in testa la monetina. A gestire il tutto un antieroe, Bigon, che ha saputo accontentare tutti e ora prende, oltre i complimenti, la riconferma da Maradona. Merita di restare per come ha gestito i nuovi arrivati. Non era facile, ma con il suo modo di fare ha messo d'accordo tutti, grandi e piccoli. Non è stato abile solo con me, ma anche con Corradini". Ma questo scudetto non è solo una firma sul contratto di Bigon ma anche un cemento per la squadra, valeriana sui malumori diffusi. "Cambieremo? Chissà. Vorrei restassero tutti". Grandi e Piccoli ancora alleati, a disagio non sono solo Maradona e Careca, ma anche altri, da Fusi a Carnevale. I tifosi facciano festa anche a loro, se gli riesce; di sicuro, Maradona aspetta che vadano in pellegrinaggio da lui. Nella strana calma di questi giorni starà rimuginando chissà quali altre evasioni. (24 aprile 1990)
“Io, Maradona, l’elettricista e il figlio del barbiere: il suo amore per il calcio in quel match di Agnano”. Giovanni Marino su la Repubblica il 29 novembre 2020. L'avvocato penalista Luigi Ferrante racconta che, in piena tempesta giudiziaria, il campione gli chiese di giocare a calcetto: “Mancava Careca e si rivolse a me nell'ascensore della Procura dopo un interrogatorio...Era pazzo del pallone: giocò per vincere, fece i complimenti a tutti noi e poi raccolse e piegò le maglie come il più umile dei magazzinieri”. Innamorato del pallone. Anche quando tutto, intorno a lui, precipitava rapidamente e drammaticamente. Il gioco del calcio, unico disperato antidoto al suo mal di vivere. Marzo 1991, inseguito dalle accuse per droga, Diego Armando Maradona deve difendersi in Procura. Con l’avvocato Vincenzo Maria Siniscalchi, nel vecchio Castel Capuano, c’è un giovane penalista, Luigi Ferrante. Dopo un interrogatorio del pool antidroga, per le nuove accuse di traffico internazionale di cocaina che gli rivolge un pentito, Pietro Pugliese (che dice di esser stato anche un sicario della camorra), Maradona e Ferrante stanno per lasciare palazzo di giustizia. Ma la polizia chiede loro di temporeggiare: «Ci sono centinaia di tifosi là fuori, non li conteniamo, per favore, aspettate in ascensore». Lì, l’allora trentenne Ferrante, non può fare a meno di dire: «Mamma mia, ma è sempre così?». Il campione dei due scudetti abbozza un sorriso triste: «Gigi, è tutta la mia vita che è così…». E subito dopo: «Avogado, giochi a calcio?». E lui: «Sì, ma insomma, per divertirmi eh…». «Bien - afferma Maradona - giovedì giochi con me. Ho una squadra di calcetto con Taglialatela e Careca ma Antonio si è stirato un muscolo e non ci sarà. Giochi tu. Andiamo ad Agnano». Luigi Ferrante, oggi affermato penalista, lo racconta ancora con emozione. Come andò, avvocato? «Fernando Signorini, preparatore atletico dell’argentino e suo vero amico, mi disse di andare sotto casa, in via Scipione Capece e di seguire l’auto dove si trovava il calciatore. Raggiungemmo i campi di calcetto di Agnano e andammo negli spogliatoi per cambiarci. Lui tirò fuori le seconde maglie ufficiali del calcio Napoli, rosse, belle e particolari. Mi diede la 5, quella di Ricardo Alemao, lui indossò la 9 di Antonio Careca. Era da settimane che non metteva più la 10. Perché, ma non lo ha mai detto ufficialmente, essendo un po’ fuori forma e in quella situazione, non se ne sentiva più davvero degno». Chi c’era in quella partita così particolare? «La nostra squadra era composta da Pino Taglialatela in porta, Luca, un allora fortissimo ragazzo delle giovanili del Napoli, il suo elettricista di fiducia e io. Dall’altra parte c’erano quattro talentuosi e giovani giocatori di calcetto e il figlio del suo barbiere. Ne venne fuori una partita intensa e Diego non la voleva proprio perdere. Giocava con gioia e quando andavamo sotto nel punteggio scartava l’intera squadra avversaria e ci riportava in vantaggio. Mi colpì questa sua felicità nel giocare a pallone, quella che provano i bambini che ancora non sono gravati dai pensieri della vita adulta. Fantastico». C’è un altro particolare di quella partita che racconta il carattere di Diego. «Era un leader assoluto. Io iniziai molto contratto, capirete: giocavo con Maradona. Taglialatela in porta parava l’imparabile e a un certo punto presi palla e lanciai Diego. Lui, mentre agganciava il pallone per poi scaraventarlo in rete gridò: “Bella palla, bella!”. Un elogio a un operaio del calcio quale ero io…Nella partita incoraggiò tutti e non rimproverò mai i compagni per gli errori di gioco. Compresi perché gli altri calciatori professionisti lo adoravano».
L'unica foto. L'unica immagine di quella partita ad Agnano, scoperta dall'avvocato Ferrante in un bar del centro di Napoli e rifotografata dal penalista. Mostra Maradona, un bambino (oggi un adulto ovviamente), figlio del barista che ha esposto l'immagine e l'avvocato Luigi Ferrante. A fine gara, negli spogliatoi, Maradona raccolse le maglie da terra… «Sì, che straordinaria persona, umile e disponibile. Quasi fosse un magazziniere. Oh, Maradona! Mise tutto a posto, ci ringraziò e andò via». Era giovedì. Domenica lo attendeva Napoli-Bari, la partita in cui l’antidoping lo trovò positivo mettendo fine alla sua storia azzurra. «Non andai lì con la macchina fotografica e dunque non avevo alcun ricordo di quella esperienza. Il caso ha voluto che molti anni dopo in un bar della Torretta vidi una foto con Diego, me e un bambino dopo quel match. Mi venne in mente che a fine partita si era radunata una folla e alcuni avevano scattato delle foto. C’era anche il barista che ne aveva approfittato per immortalare suo figlio accanto a noi. Ho solo potuto fare una foto sulla foto - dice Ferrante - così come non ho mai chiesto la maglia a Diego. Ne ho una con dedica, ma del Newell’s Old Boys, solo perché me la fece avere dall’Argentina tramite il suo manager Carlos Franchi». «Quell’episodio di Agnano - conclude - svelò il vero animo di Diego: amava il calcio in ogni sua espressione e anzi era stanco delle pressioni esasperate del football professionale. Era innamorato del pallone. Quando glielo hanno tolto ha cominciato a morire».
I CONTRO
Attacco Hacker. “Maradona drogato e cocainomane!”, irruzione squadrista al convegno: “Erano juventini”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Dicembre 2020. Maradona campione e Maradona eroe, mito, popolare e populista, storico, poeta, ribelle, bandiera, icona, bersaglio, fenomeno, fenomeno da baraccone, antropologo, immortale e Diego Armando Maradona: una moltitudine. Tutto quello che è stato per Napoli lo hanno pianto i napoletani nelle loro case, e tra lo Stadio San Paolo e i Quartieri Spagnoli, subito dopo che la notizia della sua improvvisa morte, lo scorso 25 novembre, a 60 anni, ha fatto il giro del mondo. Maradona come complessità era al centro del webinar dell’Università degli Studi di Salerno Ho visto Maradona organizzato venerdì 4 novembre. Tra i relatori: lo scrittore Maurizio De Giovanni, Vittorio Dini dell’Università di Salerno, Oscar Nicolaus dell’Università Suor Orsola Benincasa. Start alle 15:45. E una centinaia di persone collegate quando il convegno online è stato praticamente sabotato. “Drogato! – hanno cominciato a urlare alcune voci – Era un cocainomane!”. Un tentativo di hackeraggio, l’hanno definito. Il webinar è dovuto finire così. Maradona come drogato, e basta, insomma. Adios complessità. È successo quando i tre relatori avevano appena finito i loro interventi. De Giovanni in particolare si era concentrato sul rischio che la figura del Pibe de Oro venga sommersa da giudizi sommari: compito di chi ha vissuto quell’esperienza di offrire testimonianza di quello che Maradona è stato per la città – l’eredità del campione argentino a Napoli è un tema da non lasciarsi sfuggire dalle mani. La parola era appena passata a Vincenzo Siniscalchi, in passato avvocato di Maradona. Il legale aveva appunto precisato come il suo assistito non avesse mai sofferto una condanna per droga, quando è partita l’aggressione. “Drogato, eroinomane! Era solo uno che tirava di cocaina! Delinquente!”. Sono più voci ad attaccare il webinar, che finisce così. Qualcuno parla di bravata, da parte probabilmente di adolescenti. Ma non tutti sono d’accordo, anche perché il fatto è stato definito come un tentativo di hackeraggio, mentre il tentativo è stato riuscitissimo, almeno nei confronti del convegno, che si è dovuto chiudere così. “Per la prima volta ho provato quello che i nostri padri e nonni devono aver sofferto durante il ventennio fascista, con manganello e olio di ricino”, dice Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. “Mi è sembrata un’azione di squadrismo. Hanno impedito di fatto il confronto, che tra l’altro in questo momento è possibile soltanto in questa modalità, online”. L’allarme non è isolato: anche altri webinar sono stati recentemente interrotti o invasi. Una relatrice, in uno di questi casi, è stata apostrofata da indicibili offese, sessiste e becere. “Ho avuto la netta sensazione che attraverso questa manifestazione si voglia impedire la libertà di espressione”, osserva ancora sgomento Guido Clemente di San Luca. Maradona non c’entra nulla quindi? Tutt’altro. “È insopportabile questa stantia distinzione tra atleta e calciatore: una teorizzazione manichea, tipico moralismo benpensante – commenta – Primo: non è vero che è stato un uomo disdicevole; era anche esempio di bontà, generosità, fedeltà e di difesa degli ultimi. Secondo: la droga è un’esperienza drammatica, merita soltanto solidarietà umana, compassione, è stato vittima, e ha riconosciuto onestamente i suoi sbagli”. E quindi ricorda la frase che Maradona regalò al regista Premio Oscar Emir Kustrica per il celebre documentario: “Pensate che giocatore sarei stato senza la cocaina”. Che tutto questo non venga ancora perdonato, continua Clemente Di San Luca, da molti, dipende anche dal fatto che El Pibe de Oro vinse e divenne il giocatore più forte del mondo a Napoli. “Dovevano essere juventini. Questa è stata la sensazione”, chiosa.
Francesco Merlo per "la Repubblica" il 27 novembre 2020. Non si può beatificare la Napoletanitá di Maradona e battersi contro la maledizione del Sud plebeo. Il genio di Napoli non è il pittoresco sottoproletario che piace agli stranieri benevolmente razzisti: pizza, malavita e fantasia. L' arte magica del gol non redime la vita mascalzona di tasse non pagate, droga e camorrismi che del gol mai sono il presupposto. Un Re Lazzarone ogni cent' anni non vale cent' anni di poveri lazzaroni.
Mario Giordano per "la Verità" il 27 novembre 2020.
Dio? Proprio Dio? Davvero? Non Dio del pallone (che è già tanto). Non Dio del calcio. Non Dio degli stadi. No, proprio Dio. L'Eterno. L'Onnipotente. Il Creatore. Ma vi sembra normale leggere nell' articolessa principale di Repubblica, nuovo vangelo di papa Bergoglio, che «Maradona non era un santo» (troppo poco) «ma era un dio» (tout court)? Vi sembra normale girare pagina e trovare Roberto Saviano che, diventando all'improvviso clemente con i peccati di camorra, sostiene che Diego era «veramente Dio» e, perciò, ora che è morto «ci accorgiamo che Dio era mortale»? Vi sembra normale che persino il presidente francese Emmanuel Macron, dimenticando all' improvviso la sbandierata laicité, dichiari: «C'era un re Pelé, ora c'è un Dio, Diego»? Vi sembra normale che il titolo del Corriere del Mezzogiorno sia «D10s è morto»? E quello del Domani: «Maradona, un Dio a Napoli»? A me no. Non sembra normale. Scusatemi, questa volta sono proprio fuori dal coro, ma continuo a pensare che sarebbe meglio non nominare il nome di Dio invano. Lo dicono i comandamenti, che sono opera della mano del Supremo più di un gol all' Inghilterra, fino a prova contraria. Per altro oserei sperare che il Dio in cui credo sia leggermente diverso da Maradona. E che per lo meno, con rispetto parlando, non si faccia di cocaina, non sia alcolizzato (al massimo un po' di vin santo durante la messa) e non si diverta ad andare a puttane. Vi sembra una terribile offesa a Napoli e alla sua voglia di riscatto se dico che Maradona è stato un fuoriclasse, un campione, il più grande di tutti, magari anche un simbolo se volete, ma che confondere lui e il Padreterno è e resta una bestemmia? Quel giocatore ha regalato sogni. Ha saputo farsi amare. Ma ha faticato a essere un uomo onesto. Figurarsi se può essere Dio. Eppure tutto vale nello tsunami di retorica che ci ha travolti dal momento in cui è stata annunciata la morte del campione argentino. Abbiamo scoperto che Maradona, oltre naturalmente a essere Dio, era anche alternativamente Picasso, Caravaggio, Picasso e Caravaggio insieme, Mozart, Beethoven, Che Guevara, Jorge Luis Borges, Simon Bolivar, Evita Peron, napoleonico e kennediano (insieme), Mohammed Alì, il Neo di Matrix, l' elettricista di Eraldo Pecci e un taumaturgo. Uno e trino, onnipresente, onnisciente. Ogni cosa la faceva da padreterno qual era, fosse anche solo cucinare la pasta, come raccontano i compagni di squadra che rispuntano fuori come funghi. Tutti amicissimi. Tutti intimi. E tutti emozionati. Santo Maradona. E santi pure i suoi spaghetti. Che già nel momento di essere cucinati non erano cibo. Erano immediatamente reliquia. E in campo? Beh, lo sanno tutti: Maradona era una specie di Don Bosco in braghette corte, san Domenico Savio in versione mezzala. Non sudava: traspirava incenso. Non parlava: salmodiava. «Non ha mai offeso un avversario», assicura per dire Ciro Ferrara. «Mai un' intemperanza, mai un fallo di reazione», certifica Gigi Garanzini. Dimenticando forse alcuni episodi memorabili, come quello del 5 maggio 1984 quando colui che non ha mai offeso un avversario mandò un avversario all' ospedale tirandogli un calcione nello stomaco a gioco fermo. Gli spezzò alcune costole e scatenò una rissa da far west in cui si distinse per come menava fendenti. Però, ecco, erano fendenti che non offendevano. Quasi carezze. Una benedizione impartita da un aspirante dio a un aspirante protomartire. E quando urlò «figli di p.» a quelli che lo fischiavano durante la finale dei mondiali in Italia? Non erano insulti, ovvio. Perché lui non ha mai offeso nessuno. Mai. Era una liturgia che noi, poveretti, non avevamo ancora capito. Del resto chi è che può comprendere Dio? Lui «negli anni Ottanta era già nel futuro» (La Stampa). E perciò con lui «si chiude finalmente il Novecento». Capito? Ha oltrepassato la soglia del tempo e ha allungato il secolo breve fino a oggi, in barba al calendario. È stato contemporaneamente passato, presente e futuro. Ovviamente eterno. Lui, infatti, non era un uomo. E non era nemmeno un calciatore. Era, direttamente, il calcio. Niente meno. E adesso infatti, con la sua morte, «è finito il calcio»., come titolano in tanti. Le prossime partite? Non esistono. Ronaldo e Messi? Probabilmente fanno i ballerini. Il calcio è finito, stop. L' unico sport che rimane è il salto triplo dell' iperbole. Il tuffo sincronizzato nella retorica. E guai a voi se provate a dire che Maradona è «il più grande». Gente come Maurizio de Giovanni (Corriere del Mezzogiorno) s' indigna: «Se dite così lasciate pensare che esista un metro di paragone. Lui non era il più grande. Lui era in una categoria a parte. Che gli altri si disputino pure la miseria di una graduatoria umana e terrestre». Lui non era né umano né terrestre. Lui era semplicemente Dio. Dal Te Deum al Te Diegum, osanna nell' alto dei dribbling. In effetti di Maradona si ricordano innumerevoli miracoli: quando moltiplicava gli stipendi dei giocatori, per esempio, o quando appariva contemporaneamente in più campetti di periferia a rotolarsi nel fango con i bambini, o quando spiegava a Wojtyla come si deve fare il Papa o quando frequentava i camorristi per fare festini a base di cocaina. Tutti eventi stupefacenti, si capisce. Soprattutto l'ultimo, che però nelle agiografie a reti unificate viene minimizzato. Del resto uno che sa essere insieme napoleonico e kennediano, Che Guevara e Picasso, Mozart e Simon Bolivar, uno soprattutto che sa aggiustare il televisore di Eraldo Pecci, chi se ne importa se poi è tossicodipendente in combutta con i peggio criminali della città? Infatti per onorarlo degnamente a Napoli hanno pensato bene di violare tutte le regole del coprifuoco, calpestando distanziamenti e zona rossa. Nessuno, però, si è indignato. Ovvio: la Messa di Natale si può sacrificare, la Messa di Diego no. Anche San Paolo appare ormai un nome indegno per lo stadio: verrà cambiato in San Maradona. «È stato un fuoriclasse», ha scritto Luciano Moggi. Ma non un fuoriclasse sul campo. Non un fuoriclasse del pallone. Non un fuoriclasse per la sua capacità di interpretare la voglia di riscatto di una città e di un popolo. No. «È stato un fuoriclasse come uomo». In effetti, come non averci pensato prima? In fondo tutti noi sogniamo che i nostri figli prendano a modello fuoriclasse così.
Un gesto che fa scalpore. Paula Dapena, la calciatrice che rifiuta il minuto di silenzio per Maradona: “Era un violentatore”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 30 Novembre 2020. Mentre il mondo del calcio (e non solo) è ancora in lutto per la scomparsa di Diego Armando Maradona, col Pibe de Oro omaggiato nel weekend sui campi di calcio di tutto il mondo, c’è chi va controcorrente. Non tutti infatti hanno voluto rispettare il minuto di silenzio dedicato al D10S: è il caso della calciatrice spagnola Paula Dapena, 24enne tesserata per la squadra di terza divisione Viajes Interrìas. È diventata virale infatti l’immagine della calciatrice seduta sul campo, dando le spalle alle telecamere, mentre le compagne e le avversarie ricordavano Diego con un minuto di silenzio. L’episodio, che ha scatenato polemiche fortissime, è avvenuto prima dell’amichevole contro il Deportivo La Coruna persa 10-0 dalla formazione di Paula Dapena. Ma cosa ha spinto la calciatrice a compiere il gesto? A spiegarlo è stata la stessa Dapena alla testata spagnola Pontevedra Viva: “Pochi giorni fa c’è stata la Giornata contro la violenza sulle donne e non è stato nessun gesto del genere. Se non è stato osservato un minuto di silenzio per le vittime, non sono disposta a farlo io per un violentatore. Ho detto che mi sarei rifiutata di rispettare quel minuto di silenzio, che mi sarei seduta a terra di spalle. Per essere un giocatore devi essere una persona e avere dei valori al di là delle capacità tecniche e spettacolari come quelle che aveva”. La 24enne galiziana ha anche raccontato che l’allenatore del Deportivo le si è avvicinato alla fine del primo tempo per chiederle i motivi del gesto: “Gliel’ho spiegato e mi ha detto che neanche lui era d’accordo… Si è congratulato con me”. Quanto alla sua protesta, la Dapena ha sottolineato di “non aver mancato di rispetto a nessuno, mi sono seduta per terra e sono rimasta zitta. Avrei potuto gridare e rompere il minuto, ma ho rispettato tutti quelli che volevano farlo”.
Giulia Zonca per “la Stampa” l'1 dicembre 2020. Voltare le spalle al mito perché ha dato il cattivo esempio ci sta, ma Maradona ha visto il mondo che gli si girava contro mentre era ancora vivo. La legittima protesta della calciatrice che si rifiuta di dedicargli un minuto di silenzio non può buttarlo giù da un piedistallo che non ha mai retto. Lui si è tuffato da solo in un abisso ributtante da cui emerge limpido il suo calcio. La 24enne Paula, orgogliosa numero 6 del Viajes Interrìas, terza categoria spagnola, contesta il tributo: «Va contro la mia coscienza femminista». Un po' il concetto espresso da Laura Pausini: «Fa più notizia l'addio a un uomo poco apprezzabile, piuttosto che l'addio a tante donne maltrattate». Maradona è figlio di un convinto patriarcato, macho integralista, di quelli che amano la mamma e la moglie, da tradire in ogni modo con la convinzione di non toglierle nulla. Dopo i Mondiali vinti ha presentato fiero la sua stanza: foto di Claudia, futura sposa, e poster di una modella nuda a gambe larghe: «L'ho guardata per un mese». Era tutto lì, il lunatico che divide il genere femminile tra madonne e prostitute e pensa che basti pagare per avere ragione. Il dio del calcio che usa la protezione della camorra per andare a mignotte senza lasciare tracce. Impronte ovunque. Il tossicomane che a Cuba pensa di disintossicarsi dalla droga mentre posa con ragazzine minorenni senza vestiti addosso. La sua morale è penosa e tutto lo schifo che ha fatto lo ha raccontato lui, per spiegare una vita di pressioni che solo il pallone azzerava. Le confessioni non lo assolvono, le sue donne sì, tutte. Nonostante le cause e i figli riconosciuti in ritardo. Claudia, incontrata a 16 anni, sposata in un luna park e sempre considerata un punto fermo: «Ero innamorato, ma non ero un santo». Frase che vale per tutte le relazioni. Per Cristiana Sinagra, madre di Diego jr, abbracciato solo dopo i 18 anni. Lei conserva «ricordi meravigliosi» e rifiuta i giudizi. Verónica Ojeda, insegnante di educazione fisica, 20 anni meno di lui, nata nello stesso quartiere, abbandonata quando era incinta e protetta a distanza, con toni da padrino, nel messaggio al nuovo compagno: «Prenditi cura di lei». Rocho Oliva, calciatrice che lui ha fatto quasi impazzire, trent'anni più giovane e in coda, in lacrime, davanti alla Casa Rosada per salutarlo. Considerarle vittime non sarebbe giusto, hanno fatto le loro scelte, come la ragazza che gli ha dato le spalle in campo. Non c'è nulla nella vita urticante di Maradona che pretenda il disprezzo per il suo talento, per il modo unico in cui l'ha usato. Non è Tyson che ha perso il diritto a essere ricordato campione. La maggioranza non avrebbe mai voluto conoscerlo e l’avrebbe guardato giocare in eterno. Il calcio impara a prendere le distanze dal suo machismo: sceglie Stephanie Frappart per arbitrare Juventus-Dinamo Kiev, prima donna a dirigere una partita di Champions. Sceglie Sara Gama come vice presidente dell'assocalciatori e fino a lei in quel ruolo c'erano stati solo uomini. Volta di continuo le spalle a Maradona senza bisogno di cancellarlo.
Dal Corriere della Sera il 29 novembre 2020. «Hasta la victoria, Diego! Non lo discuto, abbraccio solo i suoi affetti più cari». Alla scrittrice e giornalista Mariana Carbajal, famosa in Argentina per le battaglie contro il sessismo nell' informazione e a favore dell' aborto legale, una che nei suoi libri indaga sul business della chirurgia estetica e denuncia le violenze domestiche, a Mariana non è parso vero. Quelle tre paroline in un semplice post di condoglianze, «non lo discuto», l' hanno trascinata in una polemica con storiche femministe che le hanno rimproverato di chiudere gli occhi e la bocca su una verità per molte assoluta: Maradona sarà stato anche un grande campione, ma ha rappresentato l' emblema del peggiore machismo sudamericano. E con tutto quell' harem di mogli e d' ex mogli e di suocere e di cognate, di fidanzate ufficiali e nascoste, di figli più o meno (o per nulla) riconosciuti - ieri ne è spuntato un altro, a La Plata, che ha chiesto la riesumazione della salma e l' esame del Dna -, con quel popò di femmine a servizio, Diego è stato «un' espressione del patriarcato» che si cerca di combattere. «Io autocensurata?», s' è difesa Mariana: questo è «femministometro inquisitore», ha risposto. Accusando chi arriva a equiparare i comportamenti machisti di Maradona a quelli gravissimi e criminali d' un Carlos Monzon, l' ex campione di boxe condannato per femminicidio, ed è in realtà «incapace d' accettare si dica addio a un idolo popolare che rivendicò le sue basse origini, che si schierò contro i potenti e dalla parte dei deboli, che portò in campo l' allegria e giocò il calcio migliore». Care amiche, «questo femministometro no, proprio non mi rappresenta». Vai col dibattito. Che un po' somiglia a quello nostrano su Montanelli e la sposa-ragazzina: post mortem, le (s)corrette condotte private sono l' unico metro per misurare un personaggio? È Natu Maderna, editorialista sportiva, a richiamare le compagne di lotta: «La coerenza non è odiare Maradona per sentirsi femministe. La coerenza, da femministe, è sforzarci di parlarne in modo autentico». Perché la Maradona-mania divide le anime dell' impegno: una regista, Cynthia Castorano, s' appella al suo diritto «d' emozionarsi senza sensi di colpa». E lo fa dopo aver saputo che altri attacchi erano stati riservati a un' altra nota femminista, Thelma Fardìn, che aveva mandato via Instagram innocenti auguri di compleanno all' amico Diego. «Una femminista non può essere maradoniana!», le avevano rimproverato. Anche Thelma non aveva avuto problemi a riconoscere le contraddizioni del Pibe, «su questo come su tanti altri temi». Senza che ciò impedisse a lei di provare una cosa tuttavia inspiegabile: amore.
Cabrini e le parole shock su Maradona: “Amore di Napoli malato, se Diego avesse giocato nella Juve sarebbe ancora vivo”. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2020. “Se Maradona avesse giocato nella Juventus, non solo avrebbe potuto vincere molto di più, ma forse oggi sarebbe ancora qui”. Parola di Antonio Cabrini, ex terzino della Juventus di cui fu una bandiera negli anni ’70-80, poi campione del Mondo con la Nazionale nel 1982. Cabrini infatti non ha dubbi sul ruolo che avrebbe avuto l’ambiente nel ‘salvare’ il più famoso numero dieci al mondo da una vita fatta di colpi di genio e di follia. “Maradona è stato il meglio e il peggio allo stesso tempo, come tanti fuoriclasse”, spiega Cabrini in una intervista rilasciata all’emittente Irpinia Tv, sottolineando come se Diego avesse scelto la ‘Vecchia Signora’ il suo destino sarebbe potuto essere diverso. “Sì, sarebbe ancora qui perché l’ambiente lo avrebbe salvato. Non la società, ma proprio l’ambiente. L’amore di Napoli è stato tanto forte e autentico quanto malato”, spiega nell’intervista concessa all’emittente irpina. Cabrini poi riconosce la grandezza infinita del campione Maradona, capace di trascinare il Napoli alla vittoria di due Scudetti, una Coppa Uefa, due Coppa Italia e una Supercoppa. Ricordando in particolare il Mondiale del 1982, Cabrini sottolinea come Diego “era una leggenda vivente, era imprendibile, immarcabile e Bearzot decise di affidarlo a Gentile. Ma fu comunque un lavoro di squadra, dovemmo tutti dedicarci a lui perché se soltanto gli lasciavi toccare la palla, non lo riprendevi più. Bearzot arrivava a dirci scherzosamente: inseguitelo anche in bagno!”. Spazio poi all’eterno dibattito su Maradona e Pelè: “Non si possono fare paragoni – spiega – perché fanno parte di due periodi diversi, ma la cosa che li accomuna è il fatto che entrambi avevano una visione del calcio che andava oltre ogni tecnica e ogni logica calcistica. Avevano un talento, una genialità innata che andavano oltre il lavorare sodo o l’allenarsi. Questo li ha resi dei veri e propri eroi”.
IL DIETROFRONT – All’Ansa l’ex giocatore della Juventus ha corretto il tiro: “Il mio non era un giudizio morale, ma sull’energia di una città che non poteva contenere tutta questa passione, le mie parole sono state travisate. Ho pensato che l’ambiente ovattato nel quale ho vissuto alla Juve l’avrebbe protetto. Chiedo scusa a chi si è sentito offeso” conclude Cabrini.
Da gazzetta.it il 28 novembre 2020. "Il mio non era un giudizio morale, ma sull'energia di una città che non poteva contenere tutta questa passione, le mie parole sono state travisate". Antonio Cabrini ha precisato all'Ansa il senso di quanto detto all'emittente Irpinia tv su Diego Armando Maradona. Frasi che non sono piaciute ai napoletani. Maradona "è stato una leggenda vivente e un avversario gentiluomo - ha detto Cabrini a Irpinia Tv di Avellino - che come tanti altri fuoriclasse ha saputo dare nello stesso tempo il meglio e il peggio. Sarebbe ancora qui con noi se fosse venuto alla Juve perché l'ambiente lo avrebbe salvato, non la società ma proprio l'ambiente. L'amore di Napoli è stato tanto forte e autentico quanto, ribadisco, malato". "Ho pensato che l'ambiente ovattato nel quale ho vissuto alla Juve l'avrebbe protetto. Chiedo scusa a chi si è sentito offeso", ha concluso l'ex giocatore bianconero.
Gianmichele Laino per giornalettismo.com il 26 novembre 2020. C’era una cosa che bisognava evitare oggi. Innanzitutto la solita retorica sul grande campione, ma sull’uomo che nella vita di tutti i giorni non ha avuto sempre un comportamento esemplare. E qui gli esempi, anche in Italia, non sono mancati. Ma c’era anche un’altra cosa che doveva essere allontanata come uno starnuto in questo periodo di pandemia globale: mettere in discussione le gesta in campo dello stesso Maradona, esaltando i suoi errori (pochi) rispetto alle prodezze (tante). Ci è riuscito il Daily Star su Maradona, con una prima pagina che può essere a buon diritto definita la più brutta del mondo.
Daily Star su Maradona, la più brutta copertina. La foto scelta è quella della partita di Mexico ’86 tra Argentina e Inghilterra. Il quarto di finale di quel mondiale viene ricordato da tutti per tre cose principalmente: la rivalità tra le due nazionali che rifletteva il clima politico teso causato dalla guerra delle Malvinas, il gol più bello del mondo (sempre di Maradona, che partì dalla propria metà campo e – dribblando tutti – entrò in porta col pallone) e la mano de Dios, la prima rete – di mano – con cui Maradona sbloccò il risultato.
Daily Star su Maradona: «Dov’era il Var?» Ovviamente, il Daily Star indugia su questa fotografia e sceglie il titolo: «Dov’era il Var quando serviva di più?». Nel Regno Unito non hanno mai particolarmente amato Maradona, proprio per gli strascichi che quel periodo aveva portato con sé: l’Inghilterra della politica e dello sport lo hanno sempre visto come un nemico e un avversario. Lo stesso vale per il popolo britannico. Per questo, oggi, la maggior parte dei titoli inglesi indugia sul gioco di parole con la mano de Dios, appunto. Il Daily Star, però, fa di più e invoca un Var postumo, che avrebbe annullato il gol di Maradona, sottraendo però alla storia una delle sue pagine più intense che la Coppa del Mondo ci abbia mai regalato. Maradona era tutto. Forse, in quella mano de Dios – anzi – c’era la sua essenza più completa. Che un tabloid britannico ne invochi la cancellazione, meno di 24 ore dopo rispetto alla morte del fuoriclasse sembra davvero un’eresia.
Da ilnapolista.it il 28 novembre 2020. Nelle varie interviste arrivate dopo la morte di Maradona, Shilton, il portiere dell’Inghilterra nei Mondiali dell’86, compartecipe del famoso gol di Maradona ribattezzato la “Mano di Dio” aveva parlato dell’episodio dicendo che Diego non si era mai scusato con lui per avergli segnato irregolarmente con la mano. Il Corriere dello Sport riporta un divertente siparietto avvenuto su ITV con un battibecco tra Paul Gascoigne e Shilton. Il centrocampista inglese infatti ha ripreso il portiere per le sue uscite sul famoso gol «Diego è stata un’icona del calcio, è stato un privilegio giocare contro di lui in amichevole. Molta gente continua a tirare fuori la Mano di Dioi.. ma la realtà caro Shilton, è che senza Maradona quel giorno non ti conoscerebbe nessuno». Piccata la risposta dell’ex numero uno dell’Inghilterra che si difende così «Beh, ho fatto altri vent’anni da professionista dopo l’Azteca..». Shilton, sottolinea il Corriere dello Sport è l’unica voce fuori coro che ancora ricorda con astio quell’episodio «Nessuno di noi in campo immaginava che Maradona avese il coraggio di macchiarsi di un gesto del genere. Eravamo tutti impreparato, non potevamo arrivare al pallone e così ha deciso di barare. Dopo è scappato, ma l’ho visto voltarsi e guardarmi due volte. Forse aspettava la reazione dell’arbitro. Senza quel gesto, avremmo vinto la partita e forse il mondiale».
Da corrieredellosport.it il 5 dicembre 2020. Lothar Matthäus in un'intervista rilascita al giornale tedesco Sport Bild ha raccontato un curioso aneddoto accaduto dopo i Mondiali del 1986. Maradona voleva a tutti i costi che Lothar diventasse suo compagno di squadra nel Napoli. Per provare a convicerlo gli fece recapitare una valigia piena di soldi; ecco le parole dell'ex campione tedesco: “Ci conoscevamo da poco, ma Diego inviò una delegazione da Napoli a Monaco”, ha detto l'ex giocatore di Bayern e Inter. “Eravamo in un ristorante italiano a Solln (in Baviera ndr), che in realtà era chiuso il sabato, ed era stato aperto appositamente per quella riunione segreta. Quando sono rientrato da Colonia, alle 21, quattro italiani e una valigetta aspettavano me e il mio agente”.
Maradona fece arrivare a Lothar Matthäus un milione di marchi. Lothar Matthäus nell'intervista scende anche nei particolari e svela che nella valigetta che i dirigenti del Napoli gli avevano portato ci stava una cifra tre volte superiore al suo stipendio nel Bayern: "“I dirigenti del Napoli mi hanno mandato i saluti di Diego. Mi chiesero di firmare con quel dono di un milione di marchi: quei soldi erano tre volte superiori allo stipendio che guadagnavo al Bayern. Rifiutai: ma quel gesto di Diego per me è stato davvero molto importante”. Due anni dopo, però, Matthäus decise di trasferirsi in serie A, ma si legò, come noto, all’Inter, che lo acquisto dal Bayern Monaco.
Da liberoquotidiano.it il 27 novembre 2020. E a La Zanzara, il programma di Radio 24, si scatenò l'inferno. Tutta "colpa" della morte di Diego Armando Maradona. Nella puntata che ha seguito l'addio al Pibe de Oro, Giuseppe Cruciani ha attribuito a David Parenzo la seguente frase: "Non si può piangere un cocainomane". Parenzo ha negato di averlo detto, e c'è da crederci: è uno sketch collaudato, quello dei due conduttori, ossia attribuirsi false dichiarazioni sulle quali poi si scornano a lungo. Ma Cruciani ha insistito: "Tu mi hai detto prima, molto chiaramente, fuori della trasmissione, perché emozionarsi così tanto con la morte di una singola persona, muoiono seicento, settecento, ottocento persone al giorno, le persone si stracciano le vesti perché muoiono settecento, ottocento persone e adesso c'è il lutto nazionale. Sai che in Argentina hanno fatto tre giorni di lutto nazionale - me lo hai detto tu - era un cocainomane - me lo hai detto tu - non si può piangere un cocainomane". E Parenzo ha replicato: "Non l'ho mai detto". Ma Cruciani: "Mi hai hai detto che era anche uno che ha distrutto la sua vita, non era un esempio, lo hai detto tu". E il giallo resta: stavano scherzando, anche in questo caso?
Giampiero Mughini per Dagospia l'8 dicembre 2020. Caro Dago, vedo che tu hai riportato nella sua esattezza polemica il diverbio (chiamiamolo così) da giornalista a giornalista che ho avuto con il tifosissimo napoletano Raffale Auriemma durante l’ultima puntata del “Tiki Taka” condotto da Piero Chiambretti. Purtroppo in quella stessa puntata ho duettato con un celebre tifoso napoletano Gennaro Montuori di cui mi spiaceva molto che credesse che io non portassi rispetto e ammirazione all’eccezionale destino di Diego Armando Maradona, e tanto più che Montuori ragionava in modo civile e leale. Ora, figuriamoci se io voglio dar battaglia contro i tifosi napoletani in quanto tali. Ma nemmeno per idea. E difatti ho chiamato al telefono Gennaro, con cui ci siamo intesi a meraviglia. Da capo ultrà lui mi ha detto di essere assolutamente contrario alla violenza negli stadi e di essere stato lui quello che a Verona sventolava il magistrale cartello con su incisto “Giulietta è una zoccola” con cui intendeva replicare all’augurio dei tifosi veronesi che il Vesuvio ci sbarazzasse dei tifosi napoletani, un cartello cui io assegno il Nobel da destinare allo sfottò ironico e intelligente. Ovviamente gli ho ribadito quanto le giocate di Maradona mi lasciassero senza parole, a cominciare da alcuni meravigliosi gol fatti alla Juve. Ti abbraccio, Gennaro.
Giampiero Mughini per Dagospia il 27 novembre 2020. Caro Dago, so che non dovrei farlo ma disturbo te e i tuoi lettori per una questione personale. C’è che mi hanno chiamato da una radio napoletana a chiedermi conto e ragione del fatto che, a quanto titola oggi “La Gazzetta dello sport” (quotidiano che non fa parte dei cinque che compro ogni mattina), durante una conversazione con Peppino Cruciani a Radio24 avrei detto che “è ridicolo” intitolare lo stadio di Napoli a Diego Armando Maradona. Ora si dà il caso che il mio pensiero sia esattamente all’opposto di quel che grida il quotidiano sportivo da me citato. Il mio pensiero è che non ci sia nulla più ovvio (e doveroso) che intitolare lo stadio di Napoli all’interprete che più e meglio di ogni altro ha interpretato l’arte del football sull’erba verde di quello stadio. Niente di più doveroso, esattamente come lo stadio di Milano è dedicato a Giuseppe Meazza, un calciatore italiano che guidò la nazionale azzurra campione del mondo nel 1934. Dipendesse da me lo direi fin da stasera che lo stadio di Napoli si chiama stadio Diego Armando Maradona. Mentre lo dicevo agli amici della radio napoletana, temo che arrivassero centinaia di telefonate di tifosi napoletani che mi insultavano. Succede. Come tu sai io non frequento Fcebook o Instagram o altri aggeggi del genere. Temo che da quelle parti sia un putiferio di espressioni poco gentili nei miei confronti. Tutto comincia dal fatto che in una trasmissione televisiva dov’erano in molti a beatificare Maradona oltre ogni decenza, io ho messo alcuni puntini sugli i a distinguere e a soppesare meglio. Che quello sia stato, calcisticamente parlando, il piede sinistro di Dio non v’ha dubbio. Che sia stato un calciatore che per molti anni ha rappresentato al cento per cento l’orgoglio della città di Napoli è un fatto. Che con quei suoi due gol (uno una porcata, l’altro un capolavoro assoluto) abbia regalato all’Argentina la Coppa del mondo 1986 è anch’esso un fatto. Che i suoi compagni di squadra a Napoli lo amassero al modo di un fratello maggiore è fuori di dubbio, mille volte ho sentito pronunciare il suo elogio come persona dal mio amico Ciro Ferrara. Detto questo io non sono un adepto della religione maradoniana, o forse dovrei dire della subcultura che eleva Maradona a Dio in terra, così come di nessun’altra religione. Grandissimo protagonista, l’uomo era un ingorgo di elementi contraddittori, di alto e basso della condizione umana, a cominciare dal fatto che se è stato grande nel mettere la palla in rete lo è stato altrettanto nel distruggere se stesso al punto da diventare una larva ancor prima di morire, e lo dico con profonda commozione per la sua sorte. Fare il bilancio della sua vita è cosa ben diversa che fare il bilancio della vita di Pietro Mennea, e per dire di un campione anch’esso amatissimo. Il lato “oscuro” vi ha una dominanza come forse nel destino di pochi altri, il che ovviamente lo rende “umano” e fin troppo “umano”. Gli si possono dedicare pagine e pagine e pagine, e non per niente lo stanno facendo i giornali e le televisioni di tutto il mondo. Purché non si travalichino i limiti imposti dalla verità dei fatti, dalle cose come sono andate davvero in una vita dove un ragazzo che con la palla poteva fare tutto quello che voleva è assurto al vertice del possibile e al gradino più basso dell’autodistruzione. E per una volta non sono d’accordo con il mio amico Claudio Cerasa, direttore del “Foglio”. Non è vero che al talento si possa perdonare tutto e che se sei talmente geniale in quello che fai tutto il resto non conta. Non è vero affatto. Caravaggio, uno che dipingeva come un Dio e che ammazzava? E’ un paragone che non sta né in cielo né in terra. Addio, indimenticabile Maradona.
"Era un cocainomane", "Muore lui e offusca giornata violenza donne". Maradona muore e redime Salvini, la vergogna di Cruciani, Mughini e Laura Pausini. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Novembre 2020. Dalla oramai consueta incoerenza del leader della Lega Matteo Salvini agli insulti e le offese, che servono solo per farsi pubblicità e andare controcorrente, da parte di Giuseppe Cruciani nel corso de “La Zanzara”. In mezzo la polemica, del tutto gratuita, della cantante Laura Pausini che colpevolizza Maradona, accusandolo di essere morto nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne (facendola così passare in secondo piano) e le parole “sfatte” di Giampiero Mughini.
SALVINI - La morte del più grande giocatore di tutti i tempi viene così anche sfruttata e cavalcata per esigenze personali. C’è chi come Matteo Salvini e la sua “Bestia” sono dipendenti dai trend del giorno. Così la scomparsa di una personalità come Maradona non può non essere presa in considerazione per alimentare le interazioni dei profili social. Poco importa se, nel 2013, il campione argentino veniva insultato da Salvini per i problemi col Fisco e per il compenso ottenuto per la partecipazione alla trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio. “Maradona che prende in giro gli italiano, Fazio lo abbraccia. Sulla televisione pubblica. Pagati da noi. Italia paese di m…a. Basta Rai, Indipendenza”. Sette anni dopo, nel giorno della morte del Pibe de Oro, il messaggio acchiappa-like: “Un genio unico, assoluto e irripetibile del calcio mondiale. Una preghiera”.
MUGHINI – Da Salvini a Mughini. Lo scrittore e opinionista, storico tifoso della Juve, non riserva parole di encomio per il campione argentino, rimarcando i numerosi problemi fisici e le difficoltà palesate nelle ultime apparizioni pubbliche: “Le sue ultime immagini – ha detto Mughini a Stasera Italia – sono raccapriccianti dal punto di vista umano, e lo dico con commozione. Era un essere sfatto dalle sue abitudini. E d’improvviso lo facciamo santo? Ma no, ma no. Era un grandissimo atleta, un figlio del secolo, drammatico e contraddittorio”. Le parole di Mughini hanno ovviamente fatto esplodere la polemica sul web: qualcuno lo difende e gli dà ragione, sostenendo che Maradona non fosse un esempio da seguire per la sua vita sregolata.
IL TRANELLO DI CRUCIANI – Prima getta la ‘bomba’, poi nega tutto passando quasi per docile agnellino. “Non si può piangere un cocainomane”. Questa la frase attribuita da Giuseppe Cruciani al collega David Parenzo nel corso dell’ultima puntata del programma radiofonico ‘La zanzara’ (Radio 24). Parole sconcertanti che Parenzo ha negato di aver detto. Non contento però Cruciani, probabilmente ben consapevole del suo reale obiettivo (far polemica e suscitare indignazione), rilancia e incalza: “Tu mi hai detto prima, molto chiaramente, fuori della trasmissione, ‘perché emozionarsi così tanto con la morte di una singola persona, muoiono seicento, settecento, ottocento persone al giorno, le persone si stracciano le vesti perché muoiono settecento, ottocento persone e adesso c’è il lutto nazionale. Sai che in Argentina hanno fatto tre giorni di lutto nazionale – me lo hai detto tu – era un cocainomane – me lo hai detto tu – non si può piangere un cocainomane”. Parenzo ha risposto “non l’ho mai detto”, Cruciani ha insistito: “mi hai detto che era anche uno che ha distrutto la sua vita, non era un esempio, lo hai detto tu”. Il giorno dopo il conduttore de “La zanzara” prova a metterci una pezza ma è troppo tardi. Parole assai inquietanti le sue considerato che nel corso della trasmissione batteva principalmente sulla vita privata di Maradona.
LAURA PAUSINI – Inquietante anche l’exploit di Laura Pausini. La cantante romagnola ha sottolineato come la scomparsa dell’ex fuoriclasse argentino abbia completamente oscurato una giornata dalla forte valenza simbolica come quella di ieri, 25 novembre. “In Italia fa più notizia l’addio ad un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l’addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate. Oggi non sono la notizia più importante di questo pase… nonostante stamattina ne abbia perse altre due. Non so davvero che pensare”.
IL CHIARIMENTO – In un secondo momento Laura Pausini chiarisce la situazione. Il post, spiega la cantante rispondendo ai fan su Instagram, non è stato cancellato ma esiste ancora in quanto è una risposta ad un post di sua sorella. “Io – ha voluto precisare la Pausini – parlavo di spazio dato alla notizia del campione che ha oscurato quello della giornata dedicata alle vittime di violenza. Che tra ieri e oggi sono state 3. Le notizie importanti possono essere entrambe di rilievo e la considerazione che ieri non sia stato così nel giorno a loro dedicato, è un semplice dato di fatto. E’ un peccato perché entrambe erano importanti”.
Da leggo.it il 26 novembre 2020. Laura Pausini controcorrente sulla morte di Diego Armando Maradona. La cantante romagnola, infatti, ha sottolineato come la scomparsa dell'ex fuoriclasse argentino abbia completamente oscurato una giornata dalla forte valenza simbolica come quella di ieri, 25 novembre. Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, l'Italia ha vissuto altri femminicidi. Se ne è parlato per poco, solo prima che la notizia della morte di uno dei calciatori più forti di sempre sconvolgesse l'Italia e il mondo. Laura Pausini critica duramente la celebrazione mediatica di Diego Armando Maradona e commentando su Instagram la notizia della sua morte, spiega: «In Italia fa più notizia l'addio ad un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l'addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate. Oggi non sono la notizia più importante di questo pase... nonostante stamattina ne abbia perse altre due. Non so davvero che pensare». Il commento di Laura Pausini sulla morte di Diego Armando Maradona ha finito per dividere il web. Da un lato ci sono tante donne che sottolineano come la cantante abbia perfettamente centrato il punto, dall'altro non mancano le critiche. C'è chi attacca Laura Pausini anche per la sua musica e chi addirittura scade in insulti sessisti. «Laura Pausini ha solo detto la verità che tanto infastidisce i maschilisti», scrivono alcune utenti. Ma non mancano commenti che, nel merito, criticano il commento della cantante: «È morto un uomo debole, per il quale persino i Capi di Stato Mondiali hanno espresso solidarietà e dolore. Lei, che è amatissima in Sudamerica, penso abbia fatto un commento populista». Del caso ha parlato anche una collega di Laura Pausini. Si tratta di Fiorella Mannoia, che aveva commentato su Twitter senza neanche sapere delle parole di Laura Pausini. «Se Michael Jackson fosse morto ieri sarebbe successa la stessa cosa. Quando se ne vanno uomini così amati nel mondo intero è logico che succeda questo. Non ha scelto lui di morire nella giornata mondiale contro il femminicidio. Anche basta con questa polemica becera» - la posizione della cantante - «Non sapevo che Laura avesse scritto quel commento, rispondevo solo ai tanti che scrivevano questa cosa».
Diego Maradona, Sallusti lo ricorda così: "Drogato, violento con le donne e comunista". Quello che nessuno osa dire sul Pibe. Libero Quotidiano il 26 novembre 2020. Chi era Diego Armando Maradona? Risposta di Alessandro Sallusti: "Un imbroglione, drogato, alcolista, sessista violento con le donne, evasore fiscale e pure comunista, cioè il peggio del peggio del peggio". Basterebbero queste parole per provocare una mezza insurrezione di popolo a Napoli. Ma il direttore del Giornale mette subito in chiaro "l'unico pregio, non irrilevante" del Pibe de oro, morto mercoledì a 60 anni nella sua Argentina: "Saper giocare a pallone da Dio. Perché tanti giocatori sono stati dei grandi, ma lui era qualche cosa di più". "Uno come lui ha vissuto fin troppo per quanto a lungo e intensamente aveva sfidato la morte con i suoi vizi e suoi eccessi, in ogni campo", nota il direttore, "ma senza quella vita dissennata sempre al massimo non sarebbe diventato ciò che è diventato". Cioè "il migliore, perché il peggiore".
Da liberoquotidiano.it il 26 novembre 2020. Chi era Diego Armando Maradona? Risposta di Alessandro Sallusti: "Un imbroglione, drogato, alcolista, sessista violento con le donne, evasore fiscale e pure comunista, cioè il peggio del peggio del peggio". Basterebbero queste parole per provocare una mezza insurrezione di popolo a Napoli. Ma il direttore del Giornale mette subito in chiaro "l'unico pregio, non irrilevante" del Pibe de oro, morto mercoledì a 60 anni nella sua Argentina: "Saper giocare a pallone da Dio. Perché tanti giocatori sono stati dei grandi, ma lui era qualche cosa di più". "Uno come lui ha vissuto fin troppo per quanto a lungo e intensamente aveva sfidato la morte con i suoi vizi e suoi eccessi, in ogni campo", nota il direttore, "ma senza quella vita dissennata sempre al massimo non sarebbe diventato ciò che è diventato". Cioè "il migliore, perché il peggiore".
Da Paolo Manzo per ilgiornale.it il 26 novembre 2020. (…) Oltre alla marea di elogi che arrivano da tutto il mondo, non mancano però le critiche, anche dall'Argentina, come quella del famoso reporter investigativo Jorge Lanata, che in un tweet acido così ha ricordato Diego: «In campo un eccellente calciatore. Fuori dal campo una persona schifosa. Che la morte non trasformi una brutta persona in buona. Non siate ipocriti».
Gianmichele Laino per giornalettismo.com il 26 novembre 2020. Diego Armando Maradona non è mai stato ben voluto, questa è la verità. Anche se oggi, in ogni parte del mondo, c’è esaltazione e ricordo commosso. Se quest’ultimo atteggiamento è comunque dettato dal rispetto davanti alla morte, c’è chi – in ogni caso – non riesce a contenere al suo interno parole biliose. Si pensi, ad esempio, all’editorialista di Libero Filippo Facci su Maradona che – nella tardissima serata di ieri – si è lasciato andare a un commento su Facebook davvero poco adatto al contesto. «Uno dei due o tre più grandi calciatori di ogni tempo, per il resto un cervello strappato a una favela» – ha scritto quando erano già passate alcune ore dalla morte del Pibe de Oro. Deve esserci stata sicuramente una lunga riflessione per partorire una frase del genere. Tutte le cose sbagliate del post di Facci su Maradona. Non solo c’è il modo, velato, di normalizzare la sua attività sportiva («uno dei due o tre più grandi di sempre» è un’espressione molto diversa dalla narrazione di Maradona come IL più grande di sempre), ma c’è il modo più velenoso per sottolineare anche la sua esperienza umana, in 60 anni di vita. Nessuno nega gli eccessi di Maradona, ma ci sono cose che – in sede di epitaffio – bisognerebbe risparmiarsi. Soprattutto se il suo ruolo, nel calcio, è stato certamente non ordinario. Tra l’altro, oltre al tentativo di ricordare gli aspetti più oscuri dell’uomo, c’è anche la sfumatura razzista nell’accenno alla favela. Come se dai quartieri più poveri delle città del Sud America potessero uscire soltanto cattive persone, per una sorta di imprinting sociologico. Un post sbagliato e non è il primo. Ma noi non smetteremo mai, quantomeno, di meravigliarci: possibile che nel 2020 si continui a usare i social network in questo modo? Nel giorno della morte di Diego Armando Maradona, televisioni, organi di stampa, giornali e social network non hanno fatto altro che parlare del calciatore argentino, considerato da molti il miglior giocatore di tutti i tempi alla pari con il brasiliano Pelè. La tragica scomparsa del ‘pibe de oro’ non poteva che suscitare enorme commozione in tutto il mondo. Le lodi e i ricordi positivi nei confronti di Maradona sono stati quasi unanimi. Da questo coro si distingue, invece, Giampiero Mughini. Ospite del talk show di Rete 4, Stasera Italia, il giornalista di storica fede juventina non gli risparmia critiche, considerando addirittura “raccapriccianti” le immagini dell’ultimo periodo di vita dell’ex numero 10 del Napoli.
Da it.blastingnews.com il 26 novembre 2020. Nella serata di mercoledì 25 novembre, a poche ore dalla notizia di Cronaca Nera della morte di Diego Armando Maradona nella sua casa in Argentina a causa di un arresto cardiaco, la trasmissione Stasera Italia decide, come quasi tutti, di parlare di lui. Collegati con lo studio del talk show Mediaset condotto da Barbara Palombelli, ci sono tra gli altri il giornalista Giampiero Mughini e il parlamentare Vittorio Sgarbi. “Lui è morto a 60 anni. Ma era sfatto, frantumato, disperato da anni, anni e anni”, così lo juventino Mughini decide di ricordare Maradona.
"Maradona figlio del secolo, drammatico e contraddittorio". “Le ultime immagini sue sono immagini raccapriccianti dal punto di vista umano”, prosegue il giornalista nella sua analisi degli ultimi anni di vita di Maradona, condizionati da decenni di vizi ed esagerazioni, anche legati al massiccio abuso di cocaina. “E lo dico beninteso con commozione, figurati se non lo dico con commozione - precisa Mughini - ma un essere sfatto da se stesso e dalle sue abitudini. E d’improvviso lo mettiamo un santo qui con tre (fa il segno dell’aureola in testa ndr). Ma no, ma no - ripete due volte - un grandissimo atleta, un figlio del secolo, molto drammatico e contraddittorio”.
Giancarlo Dotto per il Corriere della Sport il 26 novembre 2020. Alla fine ce l’ha fatta. Lui moriva a ripetizione, tre, quattro, cinque volte, e i medici ogni volta lo tenevano in vita. Curvi sul suo strematissimo cuore, a lavorarlo di bisturi, o sulla sua enorme pancia dove ha stipato tutta la sua enorme vita, schifezze e cose sublimi. Cercava la morte in modo anche fantasioso, un genio anche qui, una volta facendosi mordere in faccia dal suo cane. Operato, ricoverato e salvato. Il suo ascensore ha toccato paradisi reali e artificiali ma, da diversi anni in qua, puntava spedito all’inferno. “Il peggior nemico di se stesso”, secondo Emir Kusturica, l’amico che ne ha filmato la grandezza, la miseria e la follia. I suoi eccessi hanno riempito per quarant’anni le nostre vite e, ora che non c’è più, sappiamo che ha vissuto anche per noi. Eccessi da raccontare, non da giudicare. A farne l’indico analitico non basterebbe una pagina. Quando calciava era dio, quando si ammazzava era il demone, quando cantava era un usignolo, a tavola era un orco, quando mangiava e quando straparlava, da allenatore era uno sciamano e un pazzo disforico, da tifoso un matto col botto. Un invasato. Ha rischiato di morire anche in tribuna, a tifare la sua Argentina, l’amico grassone che si aggrappava alla grande pancia di Diego per impedirgli di prendere il volo e la sera la notizia che fosse morto. Ma Diego non moriva, tutt’al più mancava, sveniva, collassava. E nessuno, anche adesso, ci crede davvero alla storia che sia morto. Gli piaceva avere le folle ai suoi piedi e, qualora fosse davvero morto, continuerà ad averle. Lui che di piede ne aveva solo uno, ma che enormità, enorme anche il cabezon sul tronco da nano. Questo maniaco della palla. Uno che somigliava agli antropofagi mozzati di Shakespeare, la testa sotto le spalle. Era già estremo a nove anni, Diego. Lui in un campo sterrato, il frangettone, magro come un chiodo, che recitava a memoria le sue ambizioni, già realizzate prima di sognarle: giocare un mondiale e vincerlo. Fatto. Strafatto. Eccessivo sempre, Diego è stato un uomo felice finché ha avuto una palla tra i piedi. Un talento barbaro e poi barbaro e basta. Uno che si tatua Che Guevara sul braccio e Fidel Castro sul polpaccio, per morire poi il suo stesso giorno, lo stesso di George Best. Anche la maglia un eccesso. Lui come Pelè. Non ha avuto altra maglia che la numero 10. Quella rossa, taglia small, dell’Argentino Juniors e la scritta “Usar agua fria e jabonar suavemente”, quelle del Boca, del Barcellona, del Napoli, del Siviglia, della Nazionale argentina. Abbiamo passato tutta la vita a chiederci se Maradona fosse meglio di Pelè e di Messi, quando bastava solo sapere che era unico. Mondiale 1986, Inghilterra. L’uomo che ha inventato il gol del secolo e la truffa del secolo nella stessa partita, da quel giorno amato anche da irlandesi e scozzesi. L’uomo che gli hanno fatto il museo itinerante da vivo. Eccessivo anche questo, in mezzo a tutte le reliquie di Napoli, il cravattino di seta rossa di Freddie Mercury, le t-shirt di Bono e Juantorena, il casco di Schumacher, il pugnale d’oro degli sceicchi che, per un’amichevole, lo pagarono 250 mila dollari, 2777 dollari per ogni minuto giocato. Era il dio del calcio, Maradona, ed era quel sublime avanzo umano, stordito da droghe e alcol, a caccia ovunque di euro e di dollari, che sparava la faccia allucinata alle telecamere e un giorno sparò davvero ai giornalisti con un fucile a pallini come fossero piccioni. Che devastava alberghi quando già si parlava di necrosi al cervello e si scagliava contro i potenti, da Bush ad Havelange e Blatter. I guai col fisco, le notti in guardina, le corse disperate in ambulanza, ricoverato più volte in terapia intensiva. La decadenza di Diego non è mai stata un lussuoso boulevard al tramonto, la cosmetica ridondante delle vite da star, ma scene domestiche o di suburra, spesso pornografiche per l’insieme di squallore e apatia. Proteggerlo da se stesso? Impossibile. La strada era segnata. E anche il verso. Un suicidio distillato negli anni. Maradonesco. Più sfarzoso di una palla brutale in testa alla Cesare Pavese. Una sfilza di prodezze nel teatro dell’autodistruzione. L’ultimo Diego. La disfatta. Quel balletto debosciato, rubato a casa sua da uno dei tanti che si spacciavano amici, Diego in ciabatte e canotta, perso, ubriaco, allacciato come un vecchio orango alla sua poco affabile bionda. Lui che mostra il suo sedere molle al mondo, non avendo più nulla da mostrare e nessuno da dribblare. Nemmeno se stesso. Lui disperso, memorie sparse. Napoli, la sua città. La città degli eccessi. Unica come lui. Dove truccano i cadaveri come fossero bambole. La sera del suo arrivo con Ferlaino, la cena a Capri, lui che seminato il panico ordinando al maitre del “Quisisana” la pasta con il tartufo. E tutti a inventarsi un tartufo che non c’era. Quanto diverso e quanto uguale quel Diego, gonfio come una rana, che salì un giorno caracollando le scalette dell’aereo per raggiungere il suo amico Fidel Castro a Cuba, non sapendo ancora se a salvarsi o a dannarsi. Napoli che sa amare e dannare. Le amicizie pericolose. La cocaina, l’altro inferno truccato da estasi. Moggi che lo va a recuperare da una notte molto viziosa per trasferirlo a Mosca con un aereo privato e lasciarlo in panchina ottanta minuti per punizione a patire il freddo. Diego che fa sapere, quattordici anni dopo i mondiali del ‘90, Argentina-Brasile, d’aver messo non so quanti roipnol, un potente narcotico, nella borraccia generosamente offerta al boccheggiante Branco, che da lì in poi si trascina come una larva per il campo e il suo tenuto sinistro diventa una cicca spenta, un fucile a tappo. Lo dice il Vangelo, dare da bere agli assetati è uno dei sette tipi di elemosina corporale, ma Diego non aveva letto il Vangelo. Diego, lo scandalo permanente. Il suo matrimonio con Claudia in una Buenos Aires torturata dalla crisi economica, l’ostentazione sfrenata di macchine, vestiti e anelli grandi come meloni. Insieme ai fiori e ai confetti, volarono sputi e pomodori marci verso gli sposi. Maradona che dice di sé: “Sono più famoso del Papa”. Maradona che finisce come Buffalo Bill ad allenare squadre improbabili, dopo aver allenato la sua Argentina. Quel giorno che si presentò in panchina, mondiali in Sudafrica, con l’abito delle nozze, perché disse che gli portava fortuna. Non gli portò fortuna. Diego come una rockstar. Che muore come Elvis ingozzandosi di tutto, con tutta quella carne addosso. Diego e le tante donne, i tanti figli, non si sa quanti, riconosciuti e mai conosciuti. Diego a cinquantasei anni, il cuore già grosso come quello di un bufalo e il cervello bruciato dalla cosa che si rifà il viso e le labbra per somigliare da vivo a una bambola, prima che ci pensassero da morto i suoi amici napoletani. Diego che sibila “Hijios de Puta” agli italiani che lo fischiano e non ha mai smesso di amare i napoletani che lo amano. E tanto altro. Troppo altro. Ora può unirsi a Carlos Gardel ed a Evita Peron, la trinità laica della sua terra. Finalmente, è riuscito a fregare i medici e tutti quelli, inclusi noi, che si ostinavano a volevo vivo.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 25 novembre 2020. L’avrò visto cento volte e non mi stanco di guardarlo. Emir Kusturica si taglierà le vene all’idea di non averlo potuto inserire nel suo “Maradona”. Quel balletto ipnotico di un uomo in ciabatte, strafatto, perso, con tutta quella carne addosso e chissà quanto alcool in pancia, che si allaccia come un vecchio orango alla sua poco affabile bionda. Prima ancora di appiccicarci sopra ogni possibile commento e mentre la ripugnante gang dei social si è già infilata l’infradito della deplorazione: la bellezza inarrivabile di quel video. Non collocabile con precisione nel tempo, ma collocabile certo nella parabola di un uomo che non la smette di dare scandalo di sé. Dal giorno in cui ha saputo che “essere Maradona” è una gigantesca menzogna e che vero è tutto il resto, quella carne addosso, la vita che passa e la bionda che ti abbraccia, ma non c’è amore. Due minuti scarsi che raccontano la grandezza al suo apice, il giorno in cui è perduta per sempre. Sulle note maliarde di “Bombon Asesino” dei Los Palmeras (Ennio Morricone non avrebbe saputo fare di meglio), i Casadei della cumbia argentina, Diego Armando Maradona, l’uomo che è stato in cima al mondo, ora mostra il suo culo nudo e flaccido a chi lo sta per tradire. Come dire: “Prendetelo, fotografatelo e mostratelo, non sarà per questo che io sarò meno Maradona e voi meno miserabili”. Nemmeno Almodovar al suo meglio. Impossibile scansare lo sguardo. E dobbiamo dire grazie all’infame che, dopo averlo girato, lo ha messo in rete, a quel Giuda nascosto tra i presunti amici di Diego, che gli amici quasi mai ha saputo scegliergli. Ammesso che un genio di questa dimensione abbia mai scelto qualcosa. A cominciare da questo suicidio distillato negli anni. Più sfarzoso e dunque maradoniano di una palla brutale in testa alla Cesare Pavese. Una sfilza di prodezze nel teatro dell’autodistruzione. Quando sei stato Maradona e non sarai mai un saputo trombone tappezzato di medaglie che porta in giro la sua vecchia gloria. Disponibile a frequentare solo gli inferi e le divinità, oppure nessuno. Non era molto diverso quel giorno Diego, gonfio come una rana, che salì caracollando le scalette dell’aereo per raggiungere il suo amico Fidel Castro a Cuba, non sapendo ancora se a salvarsi o a dannarsi. Video pirata che, guarda caso, circola in rete lo stesso giorno in cui Diego, 34 anni prima, segnava in Messico all’Inghilterra il “gol più bello della storia”. Di sicuro, il più delirante. La decadenza di Diego non è un boulevard al suo tramonto, non c’è la cosmetica lussuosa e ridondante delle vite da star, ma una scena domestica pornografica per l’insieme di squallore e apatia, dove l’autodistruzione di Diego trova la sua via maestra. Un balletto debosciato, in cui spicca una forma di lucidità spirituale: se disfatta deve essere, che sia almeno radicale. Dopo aver deliziato le folle, sparato la faccia allucinata alle telecamere, ora Diego mostra il suo sedere molle al mondo, non avendo più nulla e nessuno da dribblare. Proteggerlo da se stesso? Impossibile. La strada è segnata. E anche il verso.
Dagospia il 25 novembre 2020. Da sport.sky.it. Il 19 aprile del 1989 il Napoli conquistava la sua prima finale europea, eliminando il Bayern Monaco. Dopo il 2-0 dell'andata al San Paolo, il 2-2 in Germania. Una cavalcata che si concluse con la vittoria finale della coppa battendo un'altra squadra tedesca, lo Stoccarda. Ma il ritorno a Monaco di Baviera è ricordato anche per un'altra immagine simbolica: quella del riscaldamento di Diego Armando Maradona. Il numero 10 del Napoli cominciò a scaldarsi, rigorosamente con gli scarpini slacciati, danzando al ritmo della canzone che era trasmessa in quel momento allo stadio: "Life is life" del gruppo austriaco Opus. Il video del riscaldamento a ritmo di musica di Maradona è poi diventato una vera e propria icona, un simbolo del 10 argentino.
Dagospia il 27 novembre 2020. Da La Zanzara - Radio 24. “Ho solo detto una cosa: le immagini di Maradona, le ultime, sono strazianti, quelle di un uomo rotto, sfatto, c’è un video in cui balla coi pantaloni che scendono dalle natiche, lui che non riesce più a muoversi, un uomo sfatto e tramortito, la droga, le altre cose, l’allontanamento dalla competizione, è una cosa straziante. Ne parlo come di un fratello che soffre, fratello di tutti noi per la bellezza che ci ha dato. Ma se uno non capisce, non posso cancellare i cretini dalla faccia della Terra”. Lo dice a La Zanzara su Radio 24 Giampiero Mughini. “Io ragiono da essere umano, cosa c’entra che sono tifoso della Juventus – aggiunge Mughini - Maradona è stato mio fratello nel regno della bellezza, ne parlo da fratello. E’ sbagliato però santificarlo, alcuni napoletani ne parlano come di un santo, ed è una cosa miserevole. Una città che è stata la città di Eduardo, Raffaele la Capria, hanno celebrato Maradona in uno dei più importanti teatri della città e tutto questo è ridicolo, ridicolo, Maradona appartiene a un campo meraviglioso ma non può essere lui l’identità di una città, tanto più che è argentino. Ma ognuno faccia quello che vuole. Il riscatto non avviene perché fai un gol ma perché le condizioni civili di una città migliorano…E’ scappato di notte inseguito dalla polizia, è stato messo sotto processo perché non avrebbe pagato decine di milioni, un uomo molto tormentato. Pietro Mennea, per esempio, aveva quattro lauree e ha lascito un’orma diversa. Ci sono dei meravigliosi atleti che sono anche meravigliose figure in altri campi, purtroppo Diego non è stato così”. Poi risponde a Cristiana Sinagra che lo ha attaccato in tv: “Non sa palesamente di cosa sta parlando. Se lei vuole mi chiama e le spiegherò quanto rispetto nutro non per suo marito, perché non mi risulta l’abbia sposata, ma per il padre di un figlio che ha riconosciuto dopo vent’anni”. “Qui se non sei qui a gridare Diego, Diego, Diego – dice ancora – passi per un malvivente. Non c’è solo Maradona calciatore”. Poi risponde ancora all’attore Ciro Ceruti che gli ha dato dello psicolabile (Ceruti: “Cruciani e Mughini? Due scemi, due malati con seri problemi, sicuramente. A differenza di come hanno fatto loro che hanno responsabilizzato Diego per i suoi errori io non faccio la stessa cosa. So di chi è la colpa. In questo caso la colpa è dei loro genitori: illo tempore, quando erano bambini se i genitori si fossero accorti che stavano crescendo dei malati mentali, due psicolabili, due con predisposizione alla malvagità… se fossero corsi ai ripari con degli specialisti oggi non saremmo costretti a subire le loro cattiverie”, ndr): “Mettetemelo davanti e vediamo se mi ripete le stesse cose, questo demente, povera nullità che non è nemmeno capace di parlare italiano, balbetta, farfuglia. Qualsiasi imbecille le può dire, e questo è un imbecille”
I PRO
Da corrieredellosport.it il 2 dicembre 2020. La morte di Diego Armando Maradona, oltre al dolore e alla commozione, ha portato con sé numerose polemiche. Una delle ultime è andata in scena a Tiki Taka e ha coinvolto Raffaele Auriemma e Giampiero Mughini. Il motivo della lite tra i due da ricondurre alle parole che il tifoso juventino aveva pronunciato sul Pibe de Oro dopo la notizia della scomparsa: “Era sfatto, frantumato, disperato da anni. Le ultime immagini sono raccapriccianti dal punto di vista umano e lo dico con commozione. Ma era un essere sfatto per le sue abitudini e ora lo facciamo diventare un santo, ma no”.
Da corrieredellosport.it l'8 dicembre 2020. Nello studio di Tiki Taka continua a tenere banco la morte di Diego Armando Maradona. Anche nell’ultima puntata è andato in scena un duro confronto tra Raffaele Auriemma e Giampiero Mughini, ma stavolta con un protagonista in più. Il giornalista e scrittore siciliano, noto tifoso della Juve, è stato punzecchiato dallo storico capo ultras del Napoli, Gennaro Montuori, nell’ambiente conosciuto come "Palummella": “Mughini, fai sempre il filosofo, intanto chiedi scusa a Maradona! Si dimostri un uomo del sud, e chieda scusa a Maradona che mentre era ancora caldo in una bara si è permesso anche di offenderlo. Noi per Agnelli abbiamo fatto uno striscione, uomo di valore, prenda esempio. Idris o Sivori sono veri juventini! A noi interessava Maradona. Diego era un uomo straordinario, voi non lo conoscete. Era più bravo come persona che come calciatore, era costretto ad uscire di notte perché anche per prendere un caffè si facevano 10mila persone. Ha fatto foto, dato soldi, come si fa a condannare una persona cosi?”.
Le parole di Mughini e l’attacco ad Auriemma. "Non ho una virgola da cambiare ad un discorso che ho spiegato cento volte. Non toccava le qualità artistiche del calciatore, il mio discorso era mirato a stemperare un'aura retorica, celebrativa e bugiarda sulla tragedia di questo personaggio”. E infine, quando Auriemma ha commentato le sue mancate scuse, Mughini è esploso così: "Gradirei di non dover sopportare più Auriemma, di non dover sentire le sue puttanate! Pelé? Firmerei le sue parole, come quelle di Sivori. Non devo imparare da te! Buffone, finiscila! Pagliaccio napoletanista! Ma perché non lo spegnete, che dice queste stronzate!".
Le parole di Auriemma. “Sono frasi che provocano il disgusto in chi le ascolta. Sono offese rivolte senza pudore quando la salma di Maradona era ancora calda - ha attaccato Auriemma - Mughini, io non ti chiedo le scuse perché so che non ne saresti capace, ma almeno potresti tacere. Non sei stato in grado di rispettare il più grande calciatore della storia nemmeno dopo la morte. Anche in guerra si rende onore al nemico caduto, tu hai gettato veleno su un evento luttuoso, hai dato la sensazione che non vedevi l’ora di accanirti come un avvoltoio sul suo cadavere sfatto. Non ti sei limitato a esprimere un giudizio sul valore della persona, anzi ti sei accanito ulteriormente nei confronti di Napoli e dei napoletani che sui social o quando ti incontrano per strada ti apostrofano per come meriti. Non porti rispetto per la storia di questa città”.
Le parole di Mughini. “Mi spiace che qualcuno pensi che io possa mancare di rispetto alla città di Totò, De Filippo e Pino Daniele - ha replicato Mughini - Quelle parole non beatificanti le ho pronunciate in un contesto in cui tutti assieme dicevano che Maradona poteva permettersi tutto, che ogni cosa sua era un provocazione. Come il gol fatto con la mano. No, il gol fatto con la mano è una porcata e il gol successivo è una meraviglia. In questo contesto io mi sono limitato a dire che la vita di quest’uomo non è stata un capolavoro”.
Da mediagol.it il 16 dicembre 2020. Raffaele Auriemma contro Filippo Facci. È guerra aperta tra i due giornalisti, l’argomento è sempre Diego Armando Maradona, scomparso lo scorso 25 novembre nella sua casa di Tigre, a Buenos Aires, a causa di un’insufficienza cardiaca acuta provocata da un edema polmonare acuto, con cardiomiopatia dilatativa. Facci si è lasciato andare ad alcune clamorose esternazioni sul Pibe de Oro: “Se i napoletani si offendono, io me ne frego! Diego Armando Maradona extra calcio può essere piaciuto ai napoletani che l’hanno deificato, non solo per dei pregi ma anche dei difetti. Nella vita era un mediocre, drogato, ciccione, ladro come contro l’Inghilterra!”. Immediata la replica di Auriemma, che non le manda a dire: “Ha un’ossessione nei confronti del Napoli e dei napoletani. Non guardare ai difetti di Maradona, guardati allo specchio. Necessiti urgentemente un TSO dopo quello che ho sentito stasera. L’ossessione di Facci va curata immediatamente”.
Francesco Balzani per leggo.it il 10 dicembre 2020. “Il Brasile ha già pianto per colpa sua, oggi il Brasile piange per lui”. E’ commosso Paulo Roberto Falcao che nel 1982 diede vita con Paolo Rossi a uno dei duelli più belli della storia del calcio. Era il 5 luglio e la Seleçao che annoverava anche Cerezo, Socrates e Zico sembrava la predestinata alla vittoria del Mondiale. Vinse Pablito che ne segnò 3 di gol mentre il Divino romanista realizzò una rete di rara bellezza che tutti i tifosi giallorossi ricordano ancora. Oggi Falcao - che è venuto a conoscenza della morte di Rossi quando in Italia erano le 11 di mattina - piange l’avversario storico pure di tante sfide in Roma-Juve e lo fa in un video per Leggo con il solito stile, con la solita classe: “Il Brasile ha già pianto per colpa sua, oggi il Brasile piange per lui. Paolo Rossi ci ha tolto una coppa del mondo ma ci ha conquistato con la sua voglia di vivere, di giocare al calcio. E per la sua grande simpatia. E’ un giorno triste in un anno che sta vedendo andare via dei miti, degli uomini straordinari”. Il riferimento è anche a Diego Maradona che Falcao qualche giorno fa definì un “Semidio”. Campioni, assoluti. Fuori e dentro il campo.
Lo sfogo del suo avvocato e la battaglia con il fisco Italiano. “Maradona trattato peggio di Totò Riina, perseguitato dallo Stato perchè era del Sud”. Rossella Grasso su il Riformista il 26 Novembre 2020. “Non trattarono così male nemmeno Totò Riina, invece Maradona quando arrivava a Napoli veniva assediato e gli toglievano orecchini e orologi di dosso”. Così Angelo Pisani racconta la vera e propria gogna cui fu sottoposto Diego Armando Maradona che per lunghissimi anni non ha potuto mettere piede a Napoli: sul suo capo pendeva la pesante accusa di evasione fiscale. Processo in cui l’avvocato Pisani, esperto di diritto tributario, è stato al suo fianco per molti anni e che si sarebbe definitivamente concluso il prossimo marzo 2021, momento in cui la Cassazione avrebbe espresso il verdetto definitivo. “Ma il campione è sempre stato innocente e lo avevamo provato”. L’accusa era quella di non aver pagato una presunta cartella esattoriale consegnatagli negli anni ’80. Pare che la consegna fosse addirittura avvenuta al Campo Paradiso e che non fosse mai arrivata nelle mani del calciatore se non dopo numerosi anni. “Non poteva tornare a Napoli perché il fisco lo perseguitava – ha raccontato Pisani – Feci una ricerca attraverso documenti vecchi di 20 anni e capì che non c’era mai stata nessuna evasione fiscale. C’era stata una grande strumentalizzazione, si usava il nome di Maradona per fare la battaglia del fisco contro la povera gente”. “Si dichiarava Maradona come evasore fiscale anche e soprattutto perché era napoletano – continua Pisani – Lui pagava per aver dato lustro alla città e aver fatto vincere Napoli nel mondo. Lui era l’emblema di Napoli. La riscossione, così violenta e brutale, in quegli anni nasceva a Napoli”. Pisani andò a casa sua a Dubai e gli spiegò perché non era un evasore fiscale. “Quella cartella esattoriale riguardava un tributo che era di competenza del calcio Napoli, datore di lavoro di Maradona – spiega Pisani – ma era anche stato già pagato dalla Calcio Napoli dal fallimento della società. Quindi non solo non esisteva l’evasione ma quel tributo era dovuto da un altro soggetto che era l’obbligato in solido mentre Maradona era solo il dipendente”. Il problema affliggeva Maradona che per molti anni pur rientrando in Italia non aveva mai rimesso piede a Napoli. Risolto, il campione tornò a camminare per le strade di Napoli da uomo libero. Ebbe anche la cittadinanza onoraria dalla città che più di ogni altra lo ha amato. La causa è durata dal 2010 ad oggi, si sarebbe conclusa a Marzo 2021, momento in cui la cassazione si sarebbe espressa sulla sostanza della questione. “Così avremmo dimostrato al mondo che questa evasione non c’è mai stata – continua l’avvocato – Purtroppo finisce oggi ma Diego Maradona ancora una volta ha fatto vincere la verità, il bene sul male, e tutte le cattiverie, le strumentalizzazioni, le persecuzioni, hanno trovato un muro davanti ma certamente non hanno abbattuto Maradona”. Pisani gli è stato vicino anche in un altro momento delicato della vita: la decisione di riconoscere il figlio Diego Jr. Una scelta arrivata tardi ma di cui il campione fu molto felice. “Diego ha sempre fatto del bene a tutti ma era circondato da molte persone ignoranti, gelose, possessive che gli hanno fatto commettere degli errori – continua il racconto – Molti hanno cercato di tenerlo lontano dal figlio per motivi economici e psicologici. Ma io sono riuscito a convincerlo a fare pace con quel figlio e a riconoscerlo. Ne parlò anche con il Papa”. Sebbene il Pibe de Oro fosse stato al centro di svariate polemiche per Pisani ha rappresentato comunque l’onestà del calcio. “Maradona ha sempre denunciato quel sistema calcio che speculava e faceva compromessi – dice Pisani – tutto il marcio che c’è intorno al pallone. Ma Maradona non è morto, lui è il pallone”. “Ammetteva di aver fatto tanti errori ma lui non ha mai fatto male a nessuno – continua Pisani – gli errori che ha fato erano tutti contro sè stesso. Diceva: ‘ho pagato per i miei errori ma oggi posso camminare a testa alta cosa che on possono fare tanti politici, posso camminare anche nudo e nessuno mi dirà che sono falso”. Nonostante tutto Maradona non ha mai dimenticato la sua Napoli che definiva “mi casa”. C’era una cosa che amava particolarmente a Napoli: i cuscini che aveva provato in un albergo dell’avvocato Alfredo Romeo. Vista la sua passione, ogni anno Romeo gliene mandava a casa sua. “Maradona dormiva poco – racconta Pisani – ma quando dormiva lo faceva per giorni interi – I cuscini di Romeo per lui erano come un amuleto porta fortuna. Forse i cuscini lo facevano sognare meglio, il mio augurio è che lui possa continuare a riposare in pace e a sognare sui cuscini del bene e dei valori positivi”.
Il Nord Italia invidioso e livoroso che non ha mai avuto il genio di Maradona. I Nuovi Vespri il 27 novembre 2020. Da quando il calcio esiste in Italia il Nord l’ha fatto sempre da padrone. Gli scudetti e le Coppe europee e mondiali – a parte il campionato vinto dal Cagliari di Gigi Riva – sono state una prerogativa del Nord. Chi ha rotto il colonialismo nel calcio italiano è stato il Napoli di Maradona: e questo ai ‘polentoni’ del pallone non è mai andato giù! Troppo clamore mediatico per la dipartita di Diego Armando Maradona? Non ce la sentiamo di esprimere un giudizio. Quello che sappiamo è che è stato il più grande calciatore del mondo di tutti i tempi. Unico e solo. E, piaccia o no, pur con tutti i suoi difetti (ma chi non ne ha?), è stato anche il simbolo del riscatto di tutti i Sud del mondo. E in testa a questi Sud del mondo c’è Napoli, la capitale del Regno delle Due Sicilie che le tante Italie – l’Italia post presunta unificazione, l’Italia di Giolitti, l’Italia in camicia nera, l’Italia della Prima e della Seconda Repubblica e la sbrindellata Italia di questi giorni – hanno trasformato in una città sofferente. C’è troppa Napoli nel ricordo di Maradona? Assolutamente no! Il grande campione, pur avendo ricevuto offerte mirabolanti dal altri club calcistici – a cominciare dalla solita Juventus degli Agnelli – non ha mai accettato di lasciare la città partenopea, della quale si sentiva un figlio. Il Nord Italia – che monopolizza il calcio da sempre – non lo ha mai amato. Ricordiamoci che il Napoli di Maradona ha vinto due scudetti, che avrebbero dovuto essere tre senza le solite storie italiane. Per questo non siamo stupiti nel leggere il commento su Maradona del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, riportato da NAPOLI TODAY: “Un imbroglione, drogato, alcolista, sessista violento con le donne, evasore fiscale e comunista: il peggio del peggio del peggio”. Poi, però, bontà sua, mette da parte la vita privata e riconosce: “Unico pregio, non irrilevante, è stato saper giocare a pallone da Dio. Tanti giocatori sono stati grandi, lui era qualcosa in più”. Commenta Michele Eugenio Di Carlo, che noi apprezziamo molto per le splendide ricostruzioni di tante storie del Sud Italia: “Il problema di Sallusti e di tutti quelli come lui, perennemente in TV a confezionare un’informazione totalmente manipolata, non è il Maradona uomo con i suoi difetti. Il suo problema è il Maradona che abbracciando la causa di Napoli e del Sud ha dato ai napoletani l’unica possibilità di riscatto sociale in uno Stato che ha trasformato Napoli da grande capitale a città di provincia declassata e periferica”. Non abbiamo altro da aggiungere.
Michela Tamburrino per “la Stampa” il 26 novembre 2020. La notizia che Giampiero Galeazzi non avrebbe voluto avere, mette in moto tutta una serie di ricordi.
Da inviato Rai ha conosciuto molto bene Maradona. Che rapporto aveva con lui?
«Di amicizia. Quando ha giocato a Napoli ci si vedeva spesso. Dopo la partita si andava a mangiare la pizza sul lungomare di Mergellina. Poi in una saletta privata alla di sera ci guardavamo le altre partite, la moviola».
Si ricorda un momento particolare della sua vita da inviato legato a Maradona?
«I Mondiali del Messico, una situazione irripetibile da tanti punti di vista. Lo scontro era epico e nascondeva una rivalità ben più profonda. Parliamo della guerra delle Malvine, Fu lui a firmare il famoso goal con la mano, "la mano de Dios". Grazie al suo massaggiatore, Carmando, che era un suo grande amico, riuscii a guadagnare gli spogliatoi.
E lei che fece?
«Gridai più forte che potevo per farmi sentire da Diego. Gli dissi: "Diego, cosi si gioca in Paradiso". Lui riuscì a sentirmi e mi rispose: " Sì, in Paradiso. Tutto questo l' ho fatto per l' Argentina. Ma non mi bastava perché l'emozione era fortissima. Gli gridai ancora: "Di che colore è il tuo goal?". E lui senza pensarci un attimo: "Azzurro come il cielo di Napoli"».
Chi era Maradona?
«Il più grande di calciatore del mondo. Al Napoli regalò due scudetti. Il primo nel 1987. Mentre tutti intervistavano la squadra io ebbi l' intuito di affidare a Diego il microfono. Lui che era un grande uomo di spettacolo fece l' intervistatore dei compagni in modo superbo. Amava le donne alla Botero ed é stato un angelo e un demonio. Angelo per come giocava, demonio perché aveva perso la battaglia con la droga».
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 9 dicembre 2020. Da oltre dieci giorni è morto Maradona e ancora si continua a parlarne in varie forme: chi lo loda incondizionatamente per le sue enormi capacità sportive e chi invece ne sottolinea gli aspetti caratteriali e comportamentali, come se nella vita di un atleta straordinario come lui fossero dettagli importanti. A me Diego, osservandolo nella sua specialità, è piaciuto più di qualsiasi altro calciatore, e di gente sul campo ne ho vista correre parecchia, posto che assisto a partite da quasi settanta anni. Il fatto che egli giocasse nel Napoli anziché nella mia Atalanta non mi ha impedito di amarlo smisuratamente. Nel 1986 ero inviato del Corriere della Sera che mi mandò in Messico a seguire i mondiali della pelota. Durante il famoso, e direi storico, match Argentina-Inghilterra ero in tribuna. A un certo punto el Pibe de oro portò in vantaggio la sua nazionale dopo una azione travolgente. Non mi accorsi che egli avesse fatto gol con la mano e quando me ne resi conto non ebbi nulla da obiettare. Pensai che solo un padreterno quale Diego potesse segnare una rete tanto bella usando l'arto superiore. Una magia. Avevo ammirato all'opera a San Siro anche Pelé negli anni Sessanta, era marcato da Trapattoni che non gli fece toccare palla. Ma si trattava di una amichevole. Poi ebbi modo di apprezzare il campione dalla pelle scura per molti anni: era un fenomeno. Però devo aggiungere che, dopo aver guardato con meraviglia Maradona, specialmente nel Napoli, mi sono persuaso subito che questi avesse qualcosa di più, la fantasia, la capacità di inventare fraseggi stupefacenti con i compagni, l'abilità esagerata nel dribbling nonché di imprimere al pallone traiettorie inimmaginabili e sempre precise. L'infanzia e la adolescenza di Diego furono degne di avere sullo sfondo il Vesuvio, paragonabili a quelle di uno scugnizzo del Rione Sanità, eppure questo non gli impedì di essere già un fuoriclasse fin da piccolo. La sua prematura capacità di trattare l'attrezzo sferico da consumato giocoliere lasciava a bocca aperta. Poi il nostro crebbe e divenne irresistibile. Giunto nella città partenopea tutti sapevano che egli fosse una specie di dono di Dio, ma pochi prevedevano che avrebbe trascinato la squadra locale alla conquista di due scudetti. E il metodo con cui compì il miracolo è ancora ben fisso nella memoria non soltanto dei napoletani, bensì di qualsiasi appassionato di football. Non ho mai sentito alcuno denigrare neppure per scherzo il tracagnotto prodigioso, neppure i suoi più accesi avversari. Tra l'altro egli era un uomo generoso, aiutava chiunque, anzitutto i compagni che in confronto a lui erano modesti pedatori. In occasione del suo decesso (evitabile) ho letto sul mirabile giocatore critiche aspre relative alla sua condotta di individuo scapestrato. Non le condivido, anzi non le prendo sul serio. Perché per me Maradona va giudicato per quello che è stato in grado di fare sull'erba degli stadi, qualcosa di fantastico, o di poetico, e non me ne frega niente se la sera sbandava sotto l'effetto della droga, se scopava di qua e di là, se conduceva una esistenza sregolata. Ciascuno di noi fa quello che gli garba, pure io ne ho combinate di tutti i colori e non ho il diritto di fare le prediche a un portento che ha emozionato le folle con le proprie gesta. Grazie, Maradona, per l'incanto che hai regalato ai napoletani, e anche a me
Da ilnapolista.it il 27 novembre 2020. Il Foglio torna su una delle grandi menzogne che affligge Maradona. La storia dell’evasione fiscale. Lo fa ricordando il libro “L’oro del Pibe” di Giuseppe Pedersoli e Luca Maurelli che ricostruirono tutta la vicenda. Scrive Luciano Capone: Ma sebbene diverse sentenze tributarie arrivate in Cassazione abbiano stabilito che avesse un debito con l’erario di circa 40 milioni di euro (molti di più di quanti ne abbia guadagnati nei sette anni in Italia), la realtà è che Maradona era innocente. O meglio, era colpevole di non essere stato in grado di difendersi. Come invece hanno fatto i compagni di squadra vittime di identiche contestazioni: Alemao, Careca e la Società sportiva calcio Napoli, che hanno ottenuto l’annullamento delle pretese dell’Erario. Tutto parte da due sindacalisti della Cgil che nel 1989 presentano in procura un esposto demagogico contro lo stipendio miliardario di Maradona che “è un insulto alle condizioni di vita dei lavoratori”, chiedendo una verifica fiscale. La denuncia porta a un’indagine penale sui compensi, ulteriori allo stipendio, pagati dal Napoli ai tre calciatori sudamericani per lo sfruttamento dei diritti d’immagine attraverso società con sede all’estero (in Liechtenstein per Maradona): l’ipotesi era che queste operazioni fossero un’“interposizione fittizia di persona” per non pagare le tasse (i contributi la società e l’Irpef il calciatore). I giudici penali hanno escluso per tutti i calciatori – Maradona incluso – che quei corrispettivi fossero retribuzioni mascherate, ma in parallelo era partito un procedimento tributario che ha seguìto la sua strada. Che però non ha mai incrociato quella di Maradona. I l campione infatti fuggì da Napoli il 1 aprile 1991, giorno di Pasquetta, dopo essere risultato positivo all’antidoping. L’accertamento tributario arrivò alla sua casa in via Scipione Capece mesi dopo, il 29 ottobre, ma Maradona – si legge nella notifica – risultava “sloggiato e sconosciuto”. Non essendone a conoscenza non ha potuto impugnare l’accertamento. Né, dopo le “assoluzioni” di Careca, Alemao e del Napoli di Corrado Ferlaino, per lui è stato possibile fare ricorso perché i termini erano scaduti. Così il giudizio è diventato definitivo, insieme al marchio infame di “evasore”, che lo ha perseguitato per anni tenendolo lontano dall’Italia. L’evasione fiscale di Maradona è una storia che non parla dell’eticità e della sregolatezza del Pibe de oro, ma di quella del Fisco italiano.
Antonio Barillà per “la Stampa” il 26 novembre 2020. Immagini simbolo del Mondiale 82: le braccia alzate di Pablito Rossi, l' urlo di Tardelli, la partita a carte in cielo con il presidente Pertini e i tackle feroci di Claudio Gentile: fermò Maradona a Barcellona nella prima gara in un girone di ferro che comprendeva anche il Brasile e fu il decollo verso il trionfo azzurro.
Gentile, fu una marcatura epica. Come la ricorda?
«Dura, non scorretta, commisi dei falli ma certo non picchiai: non mi apparteneva, in carriera non sono mai stato espulso. Lui però la prese malissimo, non accettò la sconfitta dell' Argentina».
C' è un segreto dietro il duello vinto?
«Per un paio di giorni avevo divorato videocassette, dopo aver saputo da Bearzot che avrei dovuto occuparmi di Diego anziché di Kempes. Persi il sonno e mi dedicai a studiarne caratteristiche e movimenti: l' unica era impedirgli di girarsi, l' avesse fatto non l' avrei più preso».
Non volle stringerle la mano.
«Era nervoso, già durante la partita mi aveva detto qualche parola di troppo. Ma tanto non sentivo, ero concentrato nella marcatura. E alla fine mi negò la maglia, una delusione: tornai a casa con quelle di Lato, Zico e Littbarski, non con la sua».
Non vi siete più incrociati?
«No, ma per i 60 anni gli avevo mandato gli auguri. Sono addolorato e voglio ricordare un campione: il più grande, per me, oltre Pelè e Messi».
L'uomo?
«Non mi addentro, non mi permetto. Penso però che un grande campione debba anche essere un esempio per i giovani. Preferisco soffermarmi sul calciatore: ha regalato emozioni uniche».
Claudio Gentile per “il Giornale” il 26 novembre 2020. Non ho dormito per tre notti. Quelle che precedevano la partita di Barcellona contro l' Argentina. Enzo Bearzot mi aveva comunicato che sarei stato io a dovermi occupare della marcatura di Maradona. E allora mi misi davanti al televisore per studiare le tre partite che avevano portato l' Argentina alla sfida contro di noi. «Ma come cacchio faccio a fermare questo qui?», fu la mia prima reazione, perché Diego dribblava non uno, non due, ma tre avversari e soprattutto con una velocità incredibile e in uno spazio limitatissimo. Dunque decisi quella che sarebbe stata la mia contromossa: non avrei dovuto farlo girare su se stesso, non dovevo permettere che mi venisse di fronte e questo tipo di controllo lo faceva soffrire, lo capivo, lo intuivo e mi misi proprio alle sue spalle di continuo, come un' ombra, cercando di isolarlo dai compagni che lo cercavano. Così fu e la vinsi io, perché Diego non perdeva tempo per molestarmi, insultandomi, su mia madre, sulla mia famiglia, pensando di innervosirmi, io non feci una piega, non sentivo le sue parole. Scrissero che lo picchiai per novanta minuti ma non era vero e lo dimostrano le immagini, fu lui piuttosto a essere espulso contro il Brasile per un calcio rifilato a un avversario. Questo non significa che Diego non sia stato il più grande, per me in assoluto, anzi posso dire che se avesse potuto confrontarsi con Pelé lo avrebbe molestato, gli avrebbe anche tolto lo scettro di sovrano del calcio mondiale, perché Diego Armando Maradona ha saputo essere unico nel suo stile, nella sua capacità di vincere da solo un mondiale per la sua nazionale, come accadde nel 1986 in Messico. Al termine di quella partita al Sarria gli chiesi la maglia come ricordo ma Diego si rifiutò e ci rimasi malissimo perché in un mondiale certi riti, certe abitudini fra calciatori, vanno rispettate, anche in caso di sconfitta. È strano ma dopo quella partita non ho avuto mai più occasione di marcarlo, quando passai alla Fiorentina toccò ad altri ma ho conservato comunque il massimo rispetto per lui. Il giorno del suo compleanno, il 30 ottobre scorso, gli ho inviato un video di auguri e resto con la speranza che Diego lo abbia potuto vedere, perché, al di là di quella sfida di Barcellona, il mio ricordo è rimasto unico nei confronti di quello che ritengo il più grande e il più forte calciatore di tutti i tempi.
Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 26 novembre 2020. C' è stata una differenza tra Maradona e Pelè molto significativa: Pelè ha riconosciuto Maradona come avversario, gli ha concesso il diritto di essere sulla sua stessa strada per quel titolo alto e leggero di miglior giocatore al mondo. Maradona no, non voleva nemmeno parlarne, rifiutava l' ipotesi non solo per arroganza ma per diversità evidente. Che c' entrava lui con Pelè, ragazzo educato, morigerato, mai uscito dal Brasile, poi ambasciatore del calcio nel mondo borghese delle sue istituzioni? Nemmeno Pelè lo amava, ma capiva che bisognava condividere, non si può vivere in paradiso e rifiutarsi. Credo che anche lui oggi non sia felice. La morte dell' avversario è una prodezza che porta l' altro in un posto in classifica dove non può essere raggiunto. È la morte che realizza la Storia. Quella di Maradona è compiuta, ora tutto di lui ha diritto a un ricordo e a un aggettivo in più. Credo sia giusto così. Anche se è un po' infantile dirlo adesso, Maradona è davvero stato il miglior giocatore del mondo. Mi sono sempre rifiutato di considerarla una gara, troppo diversi i concorrenti, ma la morte degli altri è una spinta, tira fuori la realtà anche dentro di noi. Maradona ha costruito squadre, l' Argentina, il Napoli; Pelè le ha concluse. Il suo Brasile era pieno di fuoriclasse, Djalma e Nilton Santos nel '58, con Didi, Vava, Garrincha. Poi nel '70 la squadra dei cinque fantasisti, Jairzinho, Gerson, Tostao, Rivelino e lui. Maradona ha dovuto scartare sei inglesi per segnare il gol più bello della storia, non gli bastava dirigere, doveva essere dovunque. Ricordo la partita dell' 82 nel vecchio stadio Sarrià a Barcellona. L' Argentina era campione del mondo, noi cominciavamo a nascere. Bearzot mise Gentile su Maradona, l' Italia vinse, Gentile seguì ogni passo del ragazzino di 21 anni e non lo fece segnare. Diventò l' eroe di tutti, ma Maradona giocò una partita splendida dentro una squadra finita. Cambiò continuamente ruolo, da ala a centravanti, dentro e fuori dall' area. Era come in gabbia, la palla gli arrivava in ritardo, Gentile lo soffocava, ma lui non era mai banale, mai battuto. Gentile lo teneva con ogni mezzo, Maradona cambiò tre maglie in quella partita, due gliele aveva strappate Gentile. Pochi giorni dopo partì per Barcellona, cominciavano la sua vita e i suoi peccati. Aveva un piede sinistro morbido come il pane che arrivava dovunque. La palla gli cadeva sul piede come l' avesse convinta parlandole. Aveva un senso del tempo nel dribbling che era davvero musicale. Ha sempre sostenuto, anche da vecchio, che il suo gol più bello lo abbia segnato con l' Argentinos Junior in campionato. Sono andato a cercarlo su YouTube. Rincorre un pallone datogli da centrocampo e arriva in porta senza toccarlo più. Salta tre avversari solo muovendo il corpo, solo togliendo l' attimo agli avversari. Un gol irreale, da calcio che trascende. Questo era spesso il calcio di Maradona, un' entità metafisica. Mi faceva venire in mente le luci mosse dei ceri che da soli accendono la chiesa nelle messe deserte e fredde della prima mattina. Quando tutto è silenzio e odore di bruciato buono. E una perfezione lenta ti scende dentro e tiene lontano il resto. Anche Maradona era perfetto e silenzioso. Oggi il calcio fa rumore, il passaggio è sempre un colpo. Il suo era velluto, arrivava in porta o al compagno, inaspettato e servo, a disposizione degli altri, come tutta la vita di Diego. Non aveva una misura del tempo. Uno bravissimo, tra controllo e tiro impiega un secondo. Il Messi giovane faceva tutto in sei decimi, per questo diventava imprendibile, tradiva il tempo degli altri. Maradona non aveva questo problema perché inventava traiettorie, si faceva l' obbligo di non fare mai due volte la stessa giocata. Non ha imparato niente, sapeva tutto. Una volta a Napoli segnò una punizione da sette metri, con la barriera schierata. Non c' era traiettoria, non c' era lo spazio per permettere alla palla di abbassarsi.
Giuseppe Smorto per repubblica.it il 26 novembre 2020. Quando microfoni e telecamere erano un muro, quando attaccava i traffici della Fifa, isolato perfino dalla sua federazione. Quando il Papa voleva conoscerlo e Ferlaino minacciava di venderlo, quando faceva impazzire Ottavio Bianchi, quando Napoli applaudì e l’Olimpico fischiò l’inno (da allora e per sempre hijos de puta). Quando si sentiva solo contro tutti nella vittoria e nella sconfitta, nelle conferenze stampa di parolacce, gomitate e sudore, Diego si sporgeva e cercava Giani fra le cento facce dei giornalisti, finti amici e sponsor. Però spesso Giani non c’era, perché era (ed è) un tipo indipendente che si muoveva fuori dagli appuntamenti fissi e dai calendari, e magari stava dall’altra parte del mondo. Però se Giani c’era, El pibe regalava interviste clamorose, per la Rai e per Repubblica.
Trent’anni dopo, Gianni Minà: come spieghi questo amore per Maradona, un amore che va dall’Argentina a Napoli?
“La gente si innamora di chi fa delle cose che sembrano impossibili. Di Diego, tutti ricordano i suoi leggendari gol, come l’annunciata “punizione” a Tacconi negli ultimi minuti di Napoli-Juventus del novembre ’85”.
Tacconi disse: con quella punizione sono entrato nella storia, pochi portieri possono vantarsi di aver preso un gol del genere.
“O anche quello che Diego ha fatto alle semifinali di Messico ’86: dalla famosa “Mano de Diós” al gol con cui liquidò l’Inghilterra dribblando sette avversari. In “Splendori e miserie del gioco del calcio” Eduardo Galeano ha scritto: con quel gol, Maradona fece girare gli inglesi come trottole per anni”.
E il rapporto fra voi?
“Per me, Maradona è un calciatore che rispetta la parola data, per questo il nostro rapporto è sempre stato fondato sul rispetto reciproco. E mi ha sempre colpito la sua sincerità, sempre al limite dell’autolesionismo”.
La vita di Maradona, soprattutto fuori dal campo, è stata piena di cadute e di eccessi.
“Mi pare giusto ricordare, che se i suoi eccessi hanno fatto del male a qualcuno, lo hanno fatto solo a lui stesso. E poi, chi sono io per poter giudicare un campione come Diego?”.
Dentro il campo: meglio lui o Pelé?
“Maradona; penso sia il più grande campione di calcio mai nato”.
Fuori dal campo: tu lo vedi meglio su una panchina o impegnato nel sociale o in politica?
“Io lo immaginerei impegnato nel sociale”.
Nel tuo libro “Storia di un boxeur latino”, definisci Maradona una “stella ribelle” come Ali e Mennea. Che cosa accomuna questi tre grandi personaggi?
“Sicuramente la lealtà”.
Qual è il tuo personale augurio a Diego Armando Maradona?
“Gli voglio augurare di essere sempre all’altezza della situazione, soprattutto quando per lui si fa critica”.
Francesco Persili per Dagospia il 27 novembre 2020. “Lasciamo in pace Diego. Chi è di noi che non ha mai peccato?”. Lele Adani in diretta Instagram con Bobo Vieri entra in tackle sui perbenisti che attaccano Maradona e non lo ritengono un modello di vita. “Tutti siamo stati a volte dei brutti esempi per le nostre fidanzate, i nostri genitori. Molti di quelli che puntano il dito vorrei vedere cosa fanno dopo le 10 di sera. Lui ha sbagliato ma chi è che non commette errori?” In “Maradona by Kusturica”, Diego ammette. “Sapevo tutto. L’unica cosa che non avrei mai potuto immaginare è che avrei preso la cocaina”. Se volete, insiste il commentatore di Sky, "questo è il manifesto dell’uomo terreno, con i suoi peccati, le sue debolezze”. Siamo dalle parti di Galeano e di Maradona come “il più umano degli dei” e “Dio sporco che ci assomiglia”. “Diego è partito, come tanti di noi, dal nulla per realizzare un sogno – continua Adani - ha dimostrato di poter salire ai piani più alti senza perdere di vista le proprie radici anzi mantenendo lo stesso spirito di Villa Fiorito, “dove erano in 15 a dormire in una stanza. Davanti a lui si sono inchinati ricchi e potenti a cui perdere non piace. “El Pibe” non è mai sceso a patti con loro. Ha sempre lottato per i più deboli. Ha rappresentato il popolo”. Il riscatto degli ultimi, delle periferie, di tutti i sud del mondo, come recita la mitografia devota. Maradona totus politicus. “L’unico politico ad aver mantenuto ciò che aveva promesso. Aveva detto che avrebbe regalato gioia alle persone ed è rimasto fedele alla parola data”. Non un supereroe ma umanamente uomo con le sue difficoltà, le fragilità ma anche la capacità di farsi carico della colpa: “Io ho sbagliato e pagato ma il pallone non si sporca”. “Tutti sono stati beneficiati da lui ed è morto da solo”, scandisce Adani. S-o-l-o. Maradona. L’uomo che in una partita disvelò al mondo cosa c’è dentro una partita di calcio. Messico ’86, Argentina-Inghilterra. Il gol più bello della storia dribblando mezza nazionale britannica e la beffa più grande ai danni del povero Shilton. La mano de Dios. Quella che fa dire oggi allo scrittore argentino Eduardo Sacheri: “Il gol con la mano è l’inganno da far vedere a chi ha sempre ingannato”. Il calcio come opera d’arte totale. La forza di un’immagine, il potere della parola. Prima della partita con l’Italia, Maradona dice: “Adesso vado fuori e divido un Paese”. Arringa i napoletani: “L’Italia si ricorda di voi solo adesso”. “La voce di Maradona fa eco in tutto il mondo”, riprende Adani, che confessa: “Ho fatto fatica a commentare Inter-Real Madrid dopo aver saputo della morte di Diego. Non avevo niente da dare. Mi sentivo inadeguato”. Accompagnare il racconto in lacrime è stato un modo per onorare “chi più di tutti mi ha insegnato l’amore per il calcio”. E a quelli che ora dicono che, in fondo, Maradona se l’è cercata, a quelli che non lo ritengono un esempio, vanno sempre ricordate le parole dette da Diego (così come riportate da Emanuela Audisio, nel libro “Bambini Infiniti”) al poliziotto che al momento dell’arresto lo rimproverò: “Perché l’hai fatto? Eri il mito di mio figlio”. Maradona rispose: “Stronzo, tuo figlio doveva avere te come mito…”
Da corrieredellosport.it l'1 dicembre 2020. Diego Armando Maradona se ne è andato all'età di 60 anni; in tutto il mondo si continua a parlare della sua morte, delle cause, dei retroscena e di ogni particolare che riguarda la sua scomparsa. In Argentina, il programma messo in onda da Luis Ventura "Secretos Verdaderos", della televisione argentina America Tv, ha reso pubblico quello che la trasmissione considera l'ultimo messaggio audio di Maradona, mandato poche ore prima di morire. L'ex Pibe de Oro si rivolge al nuovo fidanzato di Veronica Ojeda (sua ex compagna e madre del suo ultimogenito Dieguito Fernando). Ecco il contenuto dell' audio messaggio divulgato dal programma televisivo argentino: "Ciao Mario, sono Diego, so che ti sembrerà incredibile ma vedo bene Vero, mi ha detto che è ora sta con te, abbi cura di lei, e prenditi cura del mio angelo che non ha paragoni con niente". L'ex calciatore argentino chiude dicendo: "Guarda, ho molti figli ma questo mi toglierà l’ultimo capello grigio. Un abbraccio".
La testimonianza di affetto di Ciro Ferrara, campione, amico, compagno di Maradona: parole intense dopo una immaginaria telefonata da lassù…di Diego. Dagospia. Ciro Ferrara per il “Corriere della Sera” l'1 dicembre 2020. «Pronto? Ma sei proprio tu? Davvero? Speravo in questa tua chiamata. Subito ho tenuto il telefono spento, avevo bisogno di raccogliermi in silenzio e di elaborare intimamente l' accaduto. In quest' ultima settimana ho trascorso diverse ore ad osservare il display illuminarsi, leggevo i numeri che comparivano, i nomi che lampeggiavano. Ero in attesa, come se me lo sentissi. Ma...nulla. Invece, stamattina mi hai preso in contropiede eh chi meglio di te lo sa fare? Sono successe tante cose in pochi giorni. Si, immaginavo che ti avrebbe commosso sapere che le strade di Napoli si sono riempite di gente dallo sguardo triste, di tutte le età, uomini, donne, ragazzini... La luce di un' intera città si è velata, tutto è diventato doloroso e scuro. Ci è mancato improvvisamente il sangue caldo nelle vene. Non eravamo pronti. No, non lo eravamo. Sei sempre stato furbo e veloce ad eseguire le giocate più imprevedibili e ci hai sorpreso di nuovo, mannaggia a te! Anche a Buenos Aires la gente ha riempito le strade per salutarti un' ultima volta. Una folla impressionante, credimi...Nessun lockdown avrebbe fermato le centinaia di migliaia di persone che desideravano portarti un fiore o una dedica. Chi ti vuole bene ha pianto tutte le sue lacrime, e quel mercoledì di novembre resterà per molti uno dei giorni più tristi della vita. Come dici? Vuoi sapere come abbiano reagito nelle altre parti del mondo? Eh, ma come faccio a raccontarti tutto? Ovunque ti hanno commemorato. Perfino Papa Francesco ti ha dedicato un tweet. Lo avresti detto? Il tuo adorato mondo, quello del calcio, ti ha pianto su tutti i campi del pianeta: i nostri colleghi si sono fermati a renderti omaggio, immobili e con gli occhi gonfi; minuti di silenzio pesante si sono sommati da ogni parte. Anche gli atleti di altri sport hanno espresso il sentimento di altissima ammirazione per il tuo incredibile talento: gli All Blacks si sono scatenati in una danza Haka di addio, muscolare e potentissima, commovente come solo un grido istintivo di dolore può essere. È stato pazzesco, una roba mai vista. Ma a me non pare affatto inspiegabile: perché chi ha potuto ammirarti e conoscere la tua meravigliosa arte di toccare il pallone ti ha amato con intensità. Ma chi ti ha conosciuto bene sa che tu sei anche molto altro. Nonostante oggi il mio cuore sia spezzato, rendermi conto della misura dell' amore che la gente di tutto il mondo nutre per te mi ha gratificato infinitamente, ha accarezzato le ferite di un dolore grande e bruciante, che fatico a gestire. Come tuo grande amico, la consolazione più dolce è la fortuna di aver fatto parte delle pagine del tuo romanzo. Adesso che sento la tua voce, sono attraversato da una bella vibrazione di conforto, nutriente. Mi mancava la tua voce, sai? Riconosco questa energia che mi pervade e mica se ne va: la avverto sempre e comunque, specie quando affiorano i ricordi più belli. È una scossa magica, inebriante. La stessa sensazione che provavo ogni volta che ti vedevo entrare in campo. Pensi stia esagerando? Dai, Diego, sei sempre stato troppo umile e modesto con noi, parlavi di te come di un «giocatore normale». Ma se tu eri normale, noi altri cosa eravamo? Non ti sei mai reso conto di quale differenza ci fosse tra te e i tuoi compagni di squadra? Ok, non rispondere... tiene semp a stessa capa , tanto non lo ammetterai mai. Tu si' 'na cosa grande , Diego. Che diavolo hai scatenato? Che hai combinato su questa Terra? Ti hanno paragonato ad un dio umano, ma qualcuno ha storto il naso di fronte ad una celebrazione tanto osannante. E come glielo spieghiamo a questi? Gli innamorati vedono sempre l' amato simile ad un dio, c' è fior di letteratura a dimostrarlo. In amore si amplifica ogni spunto di bellezza, ma c' è chi non accetta un mondo intero adorante, spezzato e addolorato per la tua perdita. Vuoi sapere i nomi? Lascia perdere, tanto alcuni nemmeno li conosci. Hai commesso troppi errori - dicono i padri del moralismo - e non ti perdonano. Eppure tu lo hai sempre detto, no? Non ti è mai interessato piacere a tutti, figuriamoci diventare modello di perfezione a cui tendere. Però c' è chi davvero si danna perché non venga riconosciuto il tuo valore più grande: essere così come sei, un antieroe dai sentimenti nobili e puri, che tutti conquista. Sei stato condannato dalla tua stessa grandiosità ad una sovraesposizione micidiale, con un faro indagatore puntato sulla tua umanità fragile e fallace. Lo so, questo non è giusto. Ma non badarci, i sentimenti a caldo sono spesso scomposti e turbolenti. Ti basti sapere che c' è sempre chi rema controcorrente per il solo gusto di farlo, è una miserabile scorciatoia, per ottenere la visibilità che difficilmente avrebbe. La tua vita terrena ti ha già presentato un conto salato e non hai più debiti con nessuno, staje senza penzier' . Certo che ci hai fatto un bello scherzo eh?! Te ne sei andato troppo presto... che peccato, avremmo potuto fare ancora tante cose insieme. E dillo agli inglesi, che aspettano ancora le tue scuse dal 1986. Avevi espresso il desiderio di scusarti, ma non lo hai mai fatto. E adesso? Come la mettiamo? Sorridi, eh? Lo conosco quel sorriso... Hijo de puta... Chi può dirti qualcosa ormai? Quel gol resterà nella storia come un gioco di prestigio strabiliante, di cui nessuno conoscerà mai il trucco. A questo punto, credo che si siano messi il cuore in pace pure nel Regno Unito, dove ti hanno celebrato come si deve, riproponendo tra i tuoi gol più belli proprio quello della discordia. Un perdono simbolico e definitivo. A proposito di simboli definitivi, ma lo sai che la città di Napoli ha avviato la pratica per intitolare a tuo nome lo Stadio San Paolo? Ti assicuro, è così. Stadio Diego Armando Maradona. Suona bene eh?! Non ti ci mettere anche tu, che ci siamo emozionati già abbastanza noi. Ma scusa...mo' racconta...dove ti trovi? Ti sento vicino. Dicono che tu sia partito per una trasferta, però questa volta te la potevi pure evitare. Saresti stato assente giustificato e avresti fatto felici tutti quanti noi rimasti qui, ad aspettarti. Ricordi quante volte ti abbiamo aspettato al campo? Vi erano giorni in cui sapevamo che saresti arrivato e altri in cui capivamo subito che non ti avremmo visto fino all' indomani. Certe volte, invece, ci mandavi al manicomio con le tue comparsate a sorpresa! Proprio quando non ci contavamo più, ti materializzavi davanti a noi, come un bimbo impaziente di iniziare, e ci guardavi come a dire: «Che fate lì impalati? Giochiamo, no?» Che bello sarebbe ridere ancora insieme di gusto, come facevamo da ragazzi...Vorrei che tornasse uno di quei giorni in cui resto al campo ad aspettarti, per vederti arrivare proprio quando il destino sembra avere ormai pronunciato l' ultima parola. Lo vorrei tanto... ma so che è un desiderio irrealizzabile. Ora dobbiamo salutarci, immagino. Facciamolo in fretta, perché sento gli occhi bagnarsi di lacrime. Ma... prima dimmi...Come stai? ... Che sollievo, sono davvero felice di saperlo. Avevo un peso sullo stomaco e molti pensieri. Grazie per la telefonata. Non dimenticarti che te voglio bene assaje . Ciao Diego, ciao Capitano».
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 26 novembre 2020. C'era un rumore che saliva a volte dalle profondità di una bellissima casa sulla collina di Posillipo, al numero 3 di via Scipione Capece, dove Diego Maradona abitava sopra Ciro Ferrara. A volte anche un rumore racconta un uomo e la sua storia. Forse è giusto cominciare da qui.
Ferrara, cos' era quel rumore?
«Un tapis roulant. Diego si era sistemato una specie di palestra in cantina, sapete, i nostri erano tempi artigianali. Ci correva sopra. E lo faceva anche quando non veniva ad allenarsi con noi, quando era rimasto a dormire un po' troppo, quando tutti lo davano per perso: e invece Diego galoppava da solo, là sotto».
Immaginiamo il suo dolore, adesso. Prova a raccontarcelo?
«La parola giusta è amore. Ho cominciato ad amare Maradona quando avevo diciassette anni, giocavo nel Napoli e gli davo del lei. E ho continuato per trent' anni. Bellissimi. Perché non c' erano distanze, non c' erano oceani tra noi. L' ho stimato, l' ho conosciuto credo come pochi ma amato come tantissimi: era impossibile non farlo».
Perché, Ciro?
«Per la sua profonda, straripante umanità. Per la vicinanza con tutti. Era un dio, ma nessuno è stato più umano di lui. Mai una volta l' ho visto salire sul piedistallo, essere superbo. Quando doveva dirti che avevi sbagliato un pallone, un passaggio, una giocata, aspettava che lo spogliatoio si svuotasse, ti prendeva da parte e ti spiegava. Nella mia vita, Diego è stato una presenza immensa».
Più intensa la luce o più profonda l'ombra?
«Non si possono separare e non sarebbe giusto. Lui non si è fatto mancare niente, ha vissuto ogni cosa al massimo, smodatamente. A volte, la notte sentivo alzarsi dal garage il rombo della sua Ferrari. E così il giorno dopo, al campo d' allenamento, quando Diego tardava e i compagni mi guardavano interrogativi, "e allora, Ciro, lui che fa?", io rispondevo "ragazzi, mi sa che oggi non viene". Ma poi lo trovavo ad allenarsi da solo, come un forsennato».
Si è fatto mai bastare quel talento immenso?
«Mai. Ha lavorato sodo, è stato uno di noi, uno per tutti. Mi ha fatto vincere e mi ha fatto diventare un uomo».
Lei ha appena scritto un libro per raccontare la vostra amicizia: perché?
«Volevo aggiungere al coro un atto d' amore. Quando smisi di giocare, organizzai una partita d' addio: Diego prese l' aereo e tornò al San Paolo dove non metteva piede da quattordici anni. Lo fece per me».
È possibile immaginare Maradona nel calcio di oggi?
«Sarebbe sempre il più grande, senza confronti. Sarebbe ancora il Sole al centro dell'universo. Avrebbe per sé più scienza, forse più protezione ma alla fin fine sarebbe sempre il più forte calciatore di tutti i tempi».
Allora si vinceva la classifica dei cannonieri con 16 o 17 gol: come andrebbe a finire, adesso?
«Nelle difese schierate a zona, Diego farebbe una strage di gol. La sua tecnica non era di questo mondo. Lui amava il pallone come un bambino in strada: la palla di stracci di quand' era bambino, la palla degli scudetti e della Coppa del mondo. Perché non erano cambiati né la palla, né il bambino».
C' è una frase di Maradona che più di altre le è rimasta dentro?
«A lui piaceva tanto quella che dice: chi ama non dimentica, e il tempo non conta niente».
Ma alla fine, chi era Diego?
«Un generoso nato. Una persona che si dava senza risparmio, ogni giorno e a tutti. Se lo avessero circondato in duecento, e se avesse sentito in quel trambusto la mia voce, lui si sarebbe fatto largo per venirmi ad abbracciare. Ecco chi era. Tutta vita, e basta».
Dagospia il 30 novembre 2020. “Maradona non si è mai drogato per migliorare le sue prestazioni sportive, anzi questo lo ha pure limitato”. Ciro Ferrara in diretta su Twitch con Vieri, Adani, Cassano, Ventola e Zanetti ricorda la sua amicizia con Diego: “A lui mi legano ricordi indelebili. Sono stato l’unico rimasto sempre al suo fianco”. A chi dice che El Diez non ha rappresentato un buon esempio per i ragazzi l’ex terzino di Napoli e Juve replica: “Le agenzie formative dei ragazzi sono la famiglia, la scuola e lo sport. Diego ha sempre detto di non voler rappresentare un modello. Ha commesso degli errori, che tra l’altro ha pagato sulla sua pelle. Non è stato un eroe ma un antieroe perché nelle sue debolezze è riuscito ad essere il più grande di tutti”. Ferrara, che si commuove pensando agli ultimi momenti di vita di Maradona vissuti in solitudine, confessa il suo rammarico: “All’epoca avevo 17 anni. Mai mi sarei sognato di andare a fermarlo. Non avevo la personalità per affrontare Diego. L’unica cosa che potevamo fare era dirgli di venire al campo perché solo lì lui riusciva a distaccarsi dal suo lato oscuro. Le sue zone di luce e di ombra lo rendono un personaggio affascinate e umano”. Cassano ammette: “Ogni volta che parlano di lui mi metto a piangere. Nessuno sportivo, tranne forse Federer, è riuscito a farsi amare da tutti. Non mi avvicinerei minimamente a lui. Io quando giocavo con quelli meno bravi diventavo matto per farli capire come muoversi. Lui non ha mai mancato di rispetto a nessun compagno, aveva una pazienza infinita…”. Poi rivela cosa accadde quando si conobbero nel 2003: “Io, di solito, non ho paura di parlare con nessuno. Ma quando mi ha abbracciato, mi sono cagato sotto. Tremavo. Non sono riuscito a dire una parola…”
Carlo Tarallo per "la Verità" il 27 novembre 2020. L'umanità si divide tra chi ha visto Maradona e chi no, e io l' ho visto. L' ho visto giocare, vincere, perdere (pochissime volte), gioire, saltellare come un bambino, cadere, rialzarsi. L' ho visto prendere per mano un Paese come l' Argentina, la più napoletana delle nazioni, e una città, Napoli, la più sudamericana delle città d' Europa. L' ho visto irridere i potenti del calcio, e ho visto i potenti del calcio fargliela pagare. L' ho visto precipitare nel tunnel della droga, soffrirne e goderne, tentare di uscirne ma senza troppa convinzione, poi farcela per grazia di Dio, ma con il fisico messo a dura prova. L'ho visto piangere, Diego, a pochi metri da me, nella gioia e nel dolore. Ho visto Maradona, io, e quindi sono assolutamente in grado di spiegare ogni cosa lo riguardi. Di maradonologi del giorno dopo ce ne sono anche troppi. Mentre voi perdete tempo a raccontare come è morto, io proverò a raccontarvi come è vissuto, nella mia Napoli, per sette anni. Ho visto Maradona per la prima volta il 5 luglio del 1984. Napoli era ancora scossa dalla scossa del 23 novembre 1980, la ricostruzione era appena iniziata. Napoli contava, esprimeva politici importanti, mica come quelli di oggi. Qualche nome? Tre: Vincenzo Scotti, all' epoca sindaco, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino. Il Banco di Napoli diede l' ok all' operazione, nessuno ha mai capito come e perché, e a nessuno da queste parti è mai fregato nulla. All' ultimo istante dell' ultimo giorno di calciomercato, il tiranno Juan Gaspart, vicepresidente del Barcellona ostile alla trattativa, alzò bandiera bianca. Il presidente Corrado Ferlaino depositò in Lega la famosa busta vuota, in attesa che arrivasse il contratto. E Diego fu. Diego fu e Napoli pure, l' abbraccio del 5 luglio 1984 è roba che solo chi c' era (io, undicenne) può tentare di raccontare. Uno stadio gremito all' inverosimile, biglietti a 3.000 lire, per salutare Maradona. Spuntò dagli spogliatoi e sfavillava, Diego: fece il giro del campo, tra le proteste di tutti quelli che non riuscivano neanche a vederlo, circondato da fotografi, telecamere, intrusi autorizzati, vigili urbani, chiunque. Venne steso un telone al centro del terreno di gioco, lui fece qualche palleggio, un tiro, e disse qualche parola. Undici, per la precisione. «Buonasera napolitani, sono molto felice di essere con voi. Forza Napoli». Il boato che seguì, non è descrivibile. Napoli affranta, Napoli post terremotata, si scambiava pizzicotti, per capire se tutto quello fosse vero. Era verissimo, tanto vero che quando iniziò il campionato la dura realtà si manifestò ai nostri occhi. Il Napoli, con Maradona, galleggiava a metà classifica. Diego iniziò a farsi sentire da Ferlaino: devi comprare i campioni, io ti prometto che ti faccio vincere lo scudetto. I campioni arrivarono, e quel Napoli diventò campione d' Italia una, due volte. Vinse la Coppa Uefa. Ovunque andavo, tutto era cambiato. «Sei di Napoli? Coraggio», mi ero sentito dire fino a quel momento. «Napoli? Maradona! Maradona!» mi sentii dire da quel momento, che mi trovassi in Sardegna, in Inghilterra o appena atterrato in Giappone. Non ero più un cittadino di Napoli, ero un cittadino di Maradona. Ho visto Maradona, io, in campo e fuori. Andai in panchina, come giovanissimo secondo portiere della squadra dei giornalisti che sfidava gli attori e gli artisti per beneficenza. Maradona era ospite d' onore nonché incaricato del calcio d' inizio. Arrivò negli spogliatoi allegro, contento, disponibile con tutti, rideva e scherzava. L'abbraccio con Massimo Troisi fu un arrivederci a troppo presto: all' altro ieri, per la precisione. Ho visto Diego fare letteralmente faville nei locali napoletani di via Martucci. Una sera del 1990, dopo una vittoria con la Juve, 5-1, in Supercoppa italiana, arrivò con un completo giallo e un sottogiacca nero che solo uno come lui poteva indossare con tanta scioltezza. L'ho visto sfrecciare in Ferrari, affacciarsi al balcone della sua casa per salutare i tifosi in presidio permanente effettivo. Ah: il 7 novembre 1989 Diego sposò a Buenos Aires Claudia Villafane, il sottoscritto indossa ancora oggi la bomboniera, una cintura di eccellente cuoio argentino. Tra gli ospiti d'onore alle nozze c'era il fratello di mia madre, Ciccio Marolda, uno dei suoi più cari amici qui a Napoli. Diego amava ballare, divertirsi, bere. Tirava tardi tutte le notti, la mattina spesso non si presentava agli allenamenti ma nessun compagno di squadra ha mai avuto nulla da lamentarsi: era il trascinatore in campo e il migliore amico di tutti fuori. Un leader in tutti i sensi. Una volta si mise a cantare a squarciagola, alle 4 del mattino, all' uscita da un locale. Una donna lo rimproverò dal balcone: «Uè, facci dormire!». «Signora sono Diego Maradona!». «Diego comm si bell, e come canti bene!». Avevo (come ho avuto sempre, fino a quando la pandemia ci ha tolto anche questo) l'abbonamento in curva, al San Paolo. Lo stadio, che adesso dovrebbero intitolare a lui, aveva una capienza di 81.000 spettatori, spesso e volentieri si sfioravano le 90.000 presenze effettive. Pronti, via, e la magia aveva inizio. Ho visto Maradona in campo, a Napoli e in molte trasferte, per tutti i sette anni in cui è stato qui. Raccontare le sue giocate è perfettamente inutile, le conoscete a memoria. Ma lui non è ricordato solo per le gesta dentro al campo. Lo hanno accostato alla camorra, ma anche qui si è creato un cortocircuito. Diego era idolatrato, e oggi compianto, tanto dai camorristi quanto da di chi dava loro la caccia e persino dai «camorrologi» come Roberto Saviano. E ci sarà un perché. In quegli anni la Nuova famiglia, una coalizione di clan nata per opporsi al dominio incontrastato del «Professore», Raffaele Cutolo, leader della Nuova camorra organizzata, aveva nel clan Giuliano di Forcella una delle organizzazioni più potenti. La foto con Diego era un motivo di orgoglio e una dimostrazione di potere. E lo scatto arrivò, nella famosa vasca da bagno. Diego era Diego, non gli passava neanche per l'anticamera del cervello di non godersi la vita, ogni sera andava in giro e incontrava chiunque, e quando sei una specie di dio in terra chiunque, spesso, cerca di sfruttarti, guadagnare soldi e fama a tue spese. Così fu anche per Diego, che a Napoli era circondato dall' amore del popolo, della gente per bene, ma pure dalla spregiudicatezza di personaggi oscuri. Anche perché la dama bianca, la coca, si era impossessata di lui, ne aveva avvelenato il sangue, in maniera irrimediabile, buttandolo in quei brutti giri. Lui aveva ben chiaro cosa voleva essere e come voleva vivere: «Non sono un esempio per nessuno, sono un calciatore», diceva spesso. Diego per sette anni illuminò ogni santo giorno che Dio mandò in terra, a Napoli. Fece diventare questa città la capitale del calcio mondiale. Riuscì nell' impresa di riscattare tutti i Sud del mondo, partendo da uno dei più complicati. E il popolo napoletano, ogni benedetta domenica, si recava al tempio per onorarlo come si deve. Il cielo Diego, però, non lo toccò a Napoli ma in Messico. Con la mano di Dio. Era il 1986. Avevo 13 anni, ero in vacanza a Ischia, provincia di Maradona. Nella villetta accanto alla mia c'era una famigliola tedesca. La finale della Coppa del Mondo non poteva che essere Argentina-Germania. «Carlo, non fare casino stasera se vince l'Argentina», mi disse mia madre. «Tranquilla» risposi io. Il capofamiglia tedesco mi stava sonoramente sulle scatole: aveva preteso e ottenuto che spegnessi il motore dello scooter prima dell'ultima salita, quella che portava alle villette. Una salita veramente ripida, che io avevo dovuto affrontare non a bordo del mio Cayman da cross, in scioltezza, ma spingendola, con il motore spento, una fatica immane in piena estate, perché il tedesco è tedesco e si incazzava. «Io non respirare tua benzina!» mi aveva urlato un paio di volte con tono da kapò. Quella sera, Diego mise k.o. la Germania, e io feci qualche giretto in moto, ma giusto qualcuno, intorno alla villetta del vicino teutonico, prima di scendere in piazza, a Casamicciola, a festeggiare. Ero campione del mondo, io. Poi arrivò il 1990. Notti magiche, il mondiale italiano. Semifinale Italia-Argentina. Dove se non a Napoli? Non mi estorcerete una piena confessione, ma vi dico solo che quella sera, Napoli era, diciamo neutrale. «Si ricordano che siete italiani solo adesso», ci disse Diego prima della partita. Napoli rispose a modo suo: quella sera al San Paolo non si tifava per nessuna delle due squadre in campo, ma solo per Diego. Vinse. E gliela fecero pagare.
Alberto Polverosi per calciomercato.com il 26 novembre 2020. Eraldo Pecci e Diego Maradona sono stati compagni di squadra nel Napoli 85-86. Nella magica punizione del 10 contro la Juve c’è un tocco proprio di Pecci e in questo ricordo bellissimo che Eraldo ha scritto per noi, un ricordo che si legge come una struggente preghiera al Dio del calcio, l’episodio viene descritto nel modo più adeguato a Diego: con una pennellata. "Riposa in pace Pibe de Oro. So che ti disturberanno spesso perché morendo sei diventato immortale. Riposa in pace amico di una stagione e per sempre. Grazie per la tua purezza ideale, per la tua generosità, per il tempo che hai speso per noi. Nessuno che ti ha frequentato non ti ha apprezzato, ma chi non ha avuto la fortuna di conoscerti personalmente, pur riconoscendo la tua arte e la tua magìa, trova qualcosa da contestarti. Riposa in pace Diego, il tempo ti renderà giustizia. I geni hanno bisogno di tempo per essere capiti da normali umani come noi, di esempi ne è piena la storia, ma alla fine rimane l’opera, fermo restando che tu agli altri hai fatto solo del bene. Un giorno Dio ti ha messo la mano sulla testa e ti ha detto: “Vai sulla terra e porta gioia giocando a calcio” e tu lo hai fatto come meglio non si poteva fare. Ti sei donato a tutti, specialmente agli ultimi, così appuntandoti sul petto una ulteriore medaglia. Essendo uno scugnizzo nato a Buenos Aires hai usato quella mano che Dio ti aveva appoggiato in capo per fregare gli inglesi colpevoli di aver rubato le Malvinas al tuo amato Paese. Il giorno del tuo sessantesimo compleanno eri ancora scugnizzo quando hai dichiarato che come regalo avresti voluto segnare un gol all’Inghilterra con l’altra mano. Ora sei tornato dal “barba”, è finito questo gioco di mani e anche di piedi, purtroppo. Riposa in pace amico. Mentre dipingevi la Cappella Sistina, ovvero la punizione alla Juve, io ti ho portato un tubetto di colore e tutti si ricordano di me in quel momento più che per tanti anni di carriera, perché tutto quello che tu facevi era magico e irripetibile e coinvolgeva un mondo, il nostro mondo, il calcio. Tu sei il Calcio. Hola Diego, la terra ti sia lieve".
Maradona, il mito ribelle che donò la felicità alla mia infanzia. Roberto Saviano su la Repubblica il 25 novembre 2020. Sono cresciuto nel culto della sua divinità, invece solo oggi mi accorgo che era mortale. Con le sue virtù e i suoi vizi è stato l’insieme di tutto il meglio e il peggio che la mia terra ha generato. Non pensavo fosse mortale, invece mi accorgo solo oggi che era un uomo e non il Dio nel cui culto, da ragazzino vivevo (sono del '79, avevo 7 anni quando arrivò il primo scudetto e 10 quando arrivò il secondo). Ora, come faccio a spiegare ai non-napoletani che cosa è stato Diego Armando Maradona? L'insieme di tutto il meglio e il peggio che la mia terra ha generato. Come faccio a spiegare che, esattamente come un dio, i vizi, gli errori, i crimini commessi erano solo l'ombra che rendeva il Dio più luminoso ancora? Esattamente come gli dei, i cui vizi li rendevano così simili a noi eppure nella narrazione, nella loro crudeltà, nel loro errore, stagliavano ancora più grande il loro pregio, la loro qualità. Diego Armando Maradona è tutto in quel bambino che sta giocando nel fango e quando gli chiedono cosa vorrebbe fare, risponde: giocare un mondiale e vincerlo. Come posso spiegare che Maradona è stato il riscatto? Il riscatto, sì. Il riscatto perché una squadra del Sud non aveva mai vinto uno scudetto, una squadra del Sud non aveva mai vinto una Coppa Uefa, una squadra del Sud non era mai stata al centro dell'attenzione mondiale. Con Maradona ci temevano in nome di una abilità non di una minaccia o un pregiudizio, con Maradona c'era qualcuno che non ingannava, era li a mantenere unico una promessa di felicità che tutti invece avevano tradito. Diego era lì, non tradiva. Aveva deciso lui, il più grande calciatore della terra, di non giocare nella Juventus. E già questo era per noi motivo di indissolubile legame. Anzi, a Torino, Maradona compirà la vendetta che i napoletani aspettavano da una vita. È il 3 a 1 della vittoria fuori casa a Torino contro la Juve (1986), è la punizione dell'1 a 0 al San Paolo (1985), è vedere tutti gli operai campani che lavoravano al Nord e gli emigranti napoletani, sentire che la squadra in quel momento interpretava la loro voglia di vittoria. Diego era perfetto per Napoli, era un argentino-napoletano, sembrava costruito per far innamorare questo popolo. Correva a giocare in un campo di patate ad Acerra in uno dei suoi continui gesti di generosità. Nell'85 il padre di un ragazzino che ha bisogno di un'operazione per salvarsi la vita chiede a Maradona di poter giocare per raccogliere soldi ad Acerra. Ferlaino, il presidente, non acconsente alla richiesta e Maradona paga una clausola di 12 milioni di lire e gioca in questo campo di patate, fangoso, dicendo: "Si fottessero i Lloyd di Londra, io gioco lo stesso". Diego era un immortale e come chi è immortale è costretto a vivere sistematicamente di espedienti. Goikoetxea in Spagna gli fa un'entrata assurda sulle gambe e gliele spezza. Lo considerano un giocatore finito. Il Barcellona lo dà via al Napoli, le altre squadre sono diffidenti, il Napoli paga una cifra immensa per i tempi e Maradona rinasce. Il doping, il vizio in cui lui cade, non gli servì a migliorare le prestazioni, anzi la coca fu un tormento e una dannazione. Diventa immediatamente un dio, un dio perché vince contro le squadre che impedivano sempre la vittoria, un dio perché non diventa lo sponsor delle aziende che in quel momento hanno tutti i più grandi marchi. Lui rappresenterà la Puma mentre tutti gli altri erano Adidas e Nike. E poi è impossibile raccontare cosa è stato Maradona. Maradona era il calcio e Maradona trascendeva il calcio, come tutto ciò che diventa simbolo; schiacciato completamente da una vita in cui era assediato, dove tutti chiedevano cose, cose, cose... A quel punto lui entra nel vortice. La Camorra ne comprende le debolezze, gli fornisce il veleno, la coca, le escort, lo tiene sotto estorsione. Il gossip vuole qualsiasi informazione su di lui e però c'è qualcosa che lo salva sempre: la voglia di giocare a calcio, un corpo incomprensibilmente unico, che nonostante i vizi, il poco allenamento, quando entra in campo non cade mai, non si ferma. Maradona non ha nulla a che fare con i calciatori del presente, fragili, che come vengono toccati vanno giù, che cercano la punizione; diverso anche dalla fisicità da body builder che ormai costruisce i calciatori. Maradona non era un calciatore moderno, aveva la fisicità dei grandi calciatori del passato, del connazionale Sivori. Maradona giovane poteva assomigliare più a Garrincha che a Van Basten o Gullit. Maradona fu imperdonabile nel suo cedere alla frequentazione di boss e trafficanti, con agenti come Guillermo Coppola, ma era anche un uomo solo, il più solo del mondo, solo con quel talento che sempre lo salvava e sempre lo faceva riconciliare con la sua gente. Cosa è stato per me Maradona? Beh, la prima risposta è: quello che starà provando mio padre. Non l'ho neanche chiamato. Il dolore che mio padre starà provando è infinito, come se fosse morto suo padre, come se fosse morto suo figlio, come se fosse morto l'amico più vicino. Maradona l'ha fatto stare bene. Maradona era finalmente qualcosa che non lo faceva sentire sconfitto, inefficiente, come ci si sentiva (e spesso ci si sente ancora) quando si nasce in una delle province più difficili del sud Italia. Ecco cos'è Maradona per me. È stato formazione. Provate a chiedere a tutti quei ragazzi che marinavano la scuola per andare a vedere i suoi allenamenti il mercoledì. Cos'è stato Maradona? E chi lo dimentica. Stadio San Paolo, Italia-Argentina. I tifosi napoletani tifano ovviamente per l'Italia, applaudono quando c'è il gol di Schillaci sull'1 a 0. Ma dopo il pareggio di Caniggia, la parte non napoletana del tifo inizia a insultare Maradona, null'altro che fischiare e insultarlo. Ma la curva non poteva permettere che si offendesse Maradona e così le aste smisero di sventolare il tricolore. Si intonò solo una parola: "Diego. Diego". È il mondiale che gli fu portato via, Italia '90, regalando un rigore inesistente alla Germania. Era un mondiale che stava vincendo da solo. Come vinse da solo quello in Messico e come quello degli Stati Uniti quando stava portando l'Argentina a grandi risultati. Si tifava Maradona, si difendeva Maradona perché in quel momento la nazione era Maradona, la propria patria era Maradona. Non c'entravano più i confini geografici, non la maglietta, la lingua. Contava il fatto che ti identificavi nell'uomo che ti aveva fatto gioire, che ti aveva fatto vincere, e che l'aveva fatto anche con correttezza. Sì, la mano di Dio: la mano di Dio vista come una grande scorrettezza sportiva... La grande provocazione di Diego alla guerra inglese delle Falkland, ma soprattutto il dileggio. Non potevo certo perdermi quel gol per qualche centimetro che Dio non mi ha dato. Nella stessa partita, la furberia del gol fatto con la mano e il genio assoluto del secondo gol magnifico, unico. Maradona non poteva che essere grande a Napoli, non nonostante Napoli, ma proprio a Napoli e proprio perché aveva quello spirito di riscatto e di slancio, di melodramma, che lo faceva riconoscere figlio di quella terra. Maradona, che era indisciplinato ovunque, in campo era disciplinatissimo. Maradona rispettò sempre il gioco del calcio, e quindi gli avversari. Giocava sempre, non cercava l'infortunio, non cercava di fuggire dalla partita, non cercava lo scontro. Il gol più bello che sia stato realizzato? Quello a Città del Messico, con la maglia dell'Argentina. Cosa significa rispettare l'arte che si sta praticando? Poteva farsi toccare da qualsiasi difensore, prendere una punizione, o al contrario i difensori potevano buttarlo giù e invece Maradona, uno a uno li salta, impedendo persino al cronista di pronunciare i nomi dei difensori che sta scartando, perché va troppo veloce. Veloce ed estroso, senza mai guardare la palla. La forza di Maradona era questa, riuscire a tenere la palla incollata tenendo lo sguardo alto, cosa che lo rendeva elegantissimo. Ma come posso spiegare ai non napoletani che Maradona aveva sposato completamente lo spirito della città e dei suoi abitanti... Era un'alleanza naturale, un ritrovarsi. Quando arrivò allo stadio per la prima volta, il San Paolo era pieno, come se ci fosse stata una finale. Non accadrà mai più a nessun giocatore, in nessun'altra parte d'Europa una cosa del genere. Un intero stadio pieno. E ora che non c'è più, sento di essere davvero invecchiato di colpo. Maradona è stato la mia infanzia. È stato la fortuna di poter avere un cugino juventino esattamente quando nel Napoli c'era Diego. Immaginate la soddisfazione, il godimento. Maradona è stato il sogno che dissipava tutto il peso che vedevo su mio padre, su mio nonno Stefano, sui miei zii; tutta la loro fatica, tutto l'impegno, la difficoltà svaniva nel vedere quest'uomo giocare. E giocare sempre con un piglio ribelle. Anche la sua infatuazione per i dittatori marxisti faceva parte del suo, come definirlo?, "delirio ribellistico". Diego Armando Maradona è stato un uomo che non ha messo mai il suo talento al servizio di qualcosa. L'uomo si è venduto, il suo talento mai. Ed è il suo talento che aveva donato a Napoli. Poteva andare ovunque e invece è stato nella città che lo ha reso Dio e lo ha difeso. Maradona, in qualche modo, voleva che non vincesse la negoziazione dello sport, ma lo sport stesso, non la strategia dello sport ma l'abilità, la capacità, voleva che il calcio rimanesse calcio. Maradona come tutti voleva guadagnare e star bene, ma in vita ha dovuto subire un'infinita quantità di ingiustizie perché non voleva partecipare alla strategia degli scambi, alla furbizia di uno sport determinato dagli accordi. E non perché fosse un giusto, ma perché voleva giocare a pallone, voleva che solo il pallone contasse. E come potrò spiegare a chi non è di Napoli cosa è stato Maradona? Non posso spiegarlo. Stavolta il dolore ce lo teniamo noi e solo noi, così grande... perché solo noi l'abbiamo avuto così vicino, così unico, così ferito, così spavaldo, così folle, così in grado di interpretare la gioia di tanti facendolo in un gioco, in un gioco semplice che tutti possono capire e che tutti possono giocare. Una palla in mezzo al campo, due porte, l'intelligenza, il talento, la lealtà, la bravura. Tutto quello che è fuori dal campo lo potevi ottenere grazie a mediazione, con compromessi, ma in campo no. In campo le regole di fuori non valevano, altrove avevi bisogno d'aiuto, ma in campo no: in campo con le tue forze potevi farcela. La magia di Maradona è stata questa, far sognare tutti e far pensare a tutti che il sogno si può realizzare. Che essere veramente un Dio si può perché quando lo guardavi, quando tifavi, ti faceva sentire immortale. E ora che lui è morto noi ci accorgiamo che Dio, che Diego era mortale. Ci accorgiamo che noi siamo mortali. Con la sua morte, mortali lo siamo diventati tutti. Addio Diego ora potrò dire come una leggenda "ho visto Maradona". Gran parte dei momenti felici della mia infanzia passati con mio padre li devo a te.
Andrea Malaguti per “la Stampa” il 26 novembre 2020. Il bambino si chiama Roberto Saviano e quando il marziano Diego Maradona plana a Napoli dall' aristocratica Barcellona, il bambino vede brillare una felicità sconosciuta negli occhi di suo padre. Nei suoi ricordi, quel giorno coincide con l'inizio dell'infanzia. Ieri con l'addio del Diez, Roberto Saviano ha preso a malincuore la sua giovinezza, l'ha ripiegata con cura e l'ha infilata in una scatola con su scritto: memorie di riguardo. E in questa intervista a La Stampa racconta che cosa ha significato per lui, e per la sua città, incontrare il Giocatore più Grande del Mondo.
Roberto Saviano, la mano di Dio è tornata a casa.
«Credevo fosse immortale. E invece Diego è morto».
Lo stesso giorno di Fidel Castro.
«Una coincidenza che gli avrebbe fatto piacere, anche se come tutte le divinità non credo avesse mai fatto i conti con la morte, gli sarà arrivata assolutamente sconosciuta. Sono certo che Diego alla morte non ci pensasse proprio».
Chi era Maradona per lei?
«Maradona coincide con la mia infanzia. E la sua morte ne è la chiusura definitiva. Tutti i ricordi più felici - quasi tutti - sono legati a lui. Se devo rispondere d' istinto direi che ora sto soffrendo per mio padre, che lo citava due o tre volte in ogni frase su qualunque argomento. L'ho visto essere felice e commuoversi solo con Maradona. Diego per me è stato riscatto, felicità e desiderio, l'incarnazione del talento che ce la fa. Mio padre in questo momento starà soffrendo come se gli fosse morto un fratello. Non ho avuto neanche il coraggio di chiamarlo».
E per Napoli, chi era Diego?
«Come si fa a spiegarlo a chi non è napoletano? Io poi l'ho vissuto ragazzino. Sono del '79 e il primo scudetto del Napoli è dell' 87, il secondo del '90. L'ho visto nella famosa partita dei mondiali tra Argentina e Italia dove tifammo tutti per Diego mentre i non napoletani lo fischiavano. La curva avversaria cominciò a insultarlo e noi iniziammo a scandire il suo nome: Diego, Diego, Diego. Sempre di più, sempre più forte. Indimenticabile».
Come cresce un legame così radicale?
«Cresce perché Diego non tradisce mai, non cambia mai maglia, soprattutto non indossa mai quella della Juventus. Diego per Napoli diventa la compensazione per tutto quello che Napoli non ha mai avuto. Perché Diego, per quanto fosse un uomo vicinissimo a personaggi corrotti e ad ambienti terribili, in campo manteneva la regola del piacere e della lealtà del gioco. Napoli si riconosceva in quella regola e nella sua voglia di felicità. Nella sua generosità. Nella sua furbizia. Solo a Napoli poteva succedere tutto questo».
La camorra cercò di mangiarselo. E in parte ci riuscì.
«Diego era solo. Un ragazzo che arriva da Barcellona con un' aura di giocatore finito, Goikoetxea gli ha spezzato una gamba, è considerato non stabile con la testa. Eppure trova uno stadio zeppo come se fosse la finale di coppa del mondo. Non c'è mai stata una cosa così nella storia. Né prima né dopo. Si trova catapultato in un luogo dove l'umore di milioni di persone dipende da lui. La camorra comprende le sue debolezze e le usa per tenerlo in scacco. Con la droga, con le prostitute e poi - anche se non c' è mai stata una sentenza - forse con uno scudetto consegnato al Milan perché diversamente ci sarebbero state troppe scommesse da pagare. Eppure Diego riesce sempre a conservare una parte di sé irraggiungibile. E come per tutte le divinità i suoi vizi finiscono per amplificarne la luce».
Le istituzioni sportive lo detestavano. La sua foto nella vasca a conchiglia con i Giuliano fece felice un sacco di gente.
«Diego non negoziava con nessuno, non è mai stato un trafficone schiavo delle autorità o degli sponsor. Ha sempre odiato il potere, da Blatter a Matarrese. Ma la solitudine, la debolezza e l'ignoranza lo hanno portato alla frequentazione di personaggi come i Giuliano».
Platini l' aristocrazia, Diego la rivincita del popolo. Troppo facile metterla così?
«In realtà Diego è stato un miliardario e un evasore, ma in qualche misura ha sempre considerato sé stesso al servizio della comunità. Platini era un grande professionista, ma rispetto a lui, a Van Basten o a Messi, Diego era di un' altra categoria. Grazie alla magìa dei suoi piedi l' infelice poteva tornare felice. E così il vessato e il povero. Giocava col mal di schiena o con la febbre per il solo gusto di farlo. Era nato in miseria e stava con il popolo».
Mondiali 86. Maradona alza la Coppa. È forse l'unica volta che un giocatore vale più dell' oro che tiene tra le mani.
«Quel mondiale è la sintesi esatta di quanto stiamo dicendo: il talento vince. Il ragazzino della periferia batte il sistema inglese dei campi rasati e dei centri sportivi milionari. Maradona non è solo un calciatore».
Galeano ha scritto: con quel suo gol di mano, El Diez ha fatto girare gli inglesi come trottole per anni.
«Partita unica, col gol più bello del mondo, che segue il tocco con la mano. Lì si vede il furbo, lo scaltro, il genio. Che a fine gara provoca gli inglesi dicendo: io non l' avrei mai fatto, è stata la mano di Dio».
Cito Valdano: povero Diego, gli abbiamo sempre detto che era un Dio, scordandoci di dirgli che era un uomo. «Nessuno avrebbe resistito a quella pressione. Le richieste di soldi, di amicizia, di raccomandazioni. Un ragazzo nato in una favela argentina con pochi strumenti culturali non poteva che restare schiacciato. E sessant'anni, per la vita che ha avuto, sono un traguardo fin troppo maturo. Maradona ha vissuto la solitudine degli esseri umani di talento».
La coca, le squalifiche, il fisico trattato come se non fosse più suo. Quale demone lo divorava?
«Il demone dell' inquietudine. E la coca non lo migliorava, non la prendeva certo per quello, anzi, lo peggiorava. Diego nasce poverissimo e vuole tutto. Bere, mangiare, scopare, vivere il più possibile. Ma vuole farlo attraverso il calcio. Anche l'amore per Chavez e per Castro sono la testimonianza del suo bisogno di ribellione».
E il corpo?
«Il corpo di Maradona sarebbe da studiare. Gonfiato dalla coca. Poi scavato. Pompato di nuovo. Eppure invincibile. Un capolavoro della genetica. Maradona era più Sivori che Gullit, ma in campo non finiva mai per terra. Il suo corpo, per quanto ne abbia abusato, è stato miracoloso».
Perché Maradona è stato meglio di Pelè e di Messi?
«Con Messi non c' è paragone. Messi senza squadra intorno non esiste. Maradona da solo vince i mondiali. Pelè giocava in campionati senza difese. Nessuno è come Maradona. Sono certo di non poter essere smentito».
Tre novembre 1985. Punizione di seconda, a un passo dall' area piccola. Tocco, sinistro che scavalca i quattro in barriera, compreso Platini. Palla nel sette, Tacconi quasi sviene, Juve in ginocchio. Si può fare un gol più bello di così?
«Segnare alla Juve è un grande piacere. Lì l'ha umiliata come nessuno. Ricordo perfettamente quel gol. E ricordo l' emozione di mio padre che torna da Torino vincente. Bellissimo».
Più grande Maradona o Alì?
«Alì. Per scelte di vita, per battaglie e per visione. Ma Maradona mi appartiene, è parte della mia storia».
La sensazione è che con Maradona il Novecento se ne sia andato per sempre.
«Forse il Novecento, di sicuro, come dicevo all' inizio, finisce la mia infanzia. Se ne va un uomo che riempiva le domeniche, che rendeva felice mio padre e mio nonno, che dopo la vittoria dello scudetto disse: mo' posso pure morire. Col pallone Diego ci faceva dimenticare tutta la schifezza di vita che si faceva al Sud».
FRANCESCA BELLINO per il Messaggero il 27 novembre 2020. Oltre tredici milioni di spettatori hanno assistito alla puntata di «Carràmba! Che sorpresa» su Rai1 nel novembre 1998 in cui Raffaella Carrà organizzò una carrambata per l'amico Diego Armando Maradona per fargli rincontrare i compagni di squadra del Napoli con i quali aveva vinto lo scudetto 86/87. Una sequenza di abbracci e lacrime di emozione condivise in diretta, con i napoletani riuniti a Piazza Plebiscito per salutare il loro campione. Ma questo episodio memorabile per la televisione italiana è solo uno dei tanti che legano il Pibe de Oro alla conduttrice che oggi lo ricorda come «un essere fantasioso, un artista in ogni aspetto della vita, un amico con il quale succedevano solo cose strane. Gli voglio tanto bene. Se ne è andato troppo presto».
Raffaella, ricorda quando ha conosciuto Diego?
«La storia è lunga. L'ho conosciuto in Italia quando lo invitavo ai miei programmi, ma la prima volta è venuto lui da me ed è pure finito in prigione. Io cantavo in una grande arena a Buenos Aires. Era il 1979. Lui avrà avuto 18 anni. L'arena era piena, non c'era più posto, ma lui tentò comunque di entrare per ascoltarmi. Disse ai poliziotti: Non sapete chi sono io!. Lessi questa storia il giorno dopo sul Clarin. Per colpa mia Diego aveva passato una notte in guardina».
Vi siete incontrati molti anni dopo?
«Dopo questo episodio l'ho praticamente inseguito. Una volta ero a Madrid per un'asta e avrei voluto proporre anche una sua maglietta. In quel periodo giocava nel Siviglia. Era il 1992. Ma Diego non volle mandarmela. Quando ormai stavo per partire però me lo ritrovai nella hall dell'hotel. Non potevo crederci: davanti ai miei occhi c'era Maradona con la moglie Claudia e le figlie Dalma e Giannina. Arrivò e mi disse: Non ti ho voluto mandare la maglietta, te l'ho portata io. Facemmo pace, cenammo insieme e lo invitai al programma Hola, Raffaella. Lui venne con piacere e portò la famiglia».
Anche lei è stata ospite del suo programma trasmesso in Argentina?
«Sì, mi invitò a Buenos Aires, a La Notte del 10. Non potevo dirgli di no. Era dopo Carràmba. Cantai Fiesta e ballammo insieme. Era forse il 2004, ma c'eravamo siamo visti anche prima a Sanremo».
Durante la preparazione del Festival?
«Sì, era quel periodo, quando dovevo condurre nel 2001. Un giorno mi telefonò Gianni Minà e mi disse che Diego era a Sanremo. Lo invitai a casa, mangiammo insieme e lui mi confessò che voleva presentare il Festival con me e cantare una canzone. Io, lucidamente, gli dissi che non era il caso. Era il periodo in cui aveva problemi con l'Agenzia delle entrate italiane. Ti portano via tutto, ti fai del male gli dissi per il suo bene e penso di averlo salvato da una pessima figura sulla stampa italiana».
Che canzone voleva cantare?
«Penso una canzone inedita. Se potessi parlargli oggi glielo chiederei».
Quando ha parlato l'ultima volta con Diego?
«Da molto non ci sentivamo. Non sapevo più dove vivesse, ma a fine ottobre un amico dalla Spagna mi ha chiesto se volevo inviargli un video per il suo compleanno. Di solito non mi piace fare queste cose, ma per lui l'ho fatto. Ho indossato la maglietta dell'Argentina che lui mi aveva regalato e gli ho mandato gli auguri. È stato come averlo salutato! Mi hanno detto che si è molto commosso».
Ora cosa prova?
«Sono commossa dalla reazione di Napoli. È straordinario vedere l'amore della città verso di lui. Per i napoletani Diego non è morto, resta nel loro Dna, sarà per sempre vivo, per i figli dei figli. Lui ha amato Napoli tantissimo e si è fatto amare. Mi raccontava che quando abitava in città con Claudia e le bambine, anche se viveva a un piano alto, c'era sempre qualcuno che cercava di arrampicarsi per salutarlo. Aveva sempre fan intorno, ma lui non si arrabbiava. Era sorpreso di questo amore pazzesco. Ammiro Napoli per l'amore che sa dare: un amore che non svanirà mai».
IL CLAN
Il post sui social. Maradona, la lettera di Diego Jr al padre: “Quanto mi mancherai, con te mi sentivo invincibile”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Novembre 2020. Diego Maradona Jr. scrive a suo padre Diego Armando Maradona. Una lettera a due giorni dalla morte del campione argentino. Aveva 60 anni, si è spento a Tigres, nella provincia di Buenos Aires, a causa di una arresto cardiorespiratorio. Diego Jr. era ricoverato all’Ospedale Cotugno di Napoli, primo avamposto contro il coronavirus in Campania. Era risultato positivo al covid-19, poco dopo è stato dimesso. Diego Maradona Jr. è nato nel 1986 a Napoli. È figlio di una relazione tra l’ex calciatore e allenatore, in quegli anni a Napoli, e l’allora 21enne Cristiana Sinagra, che si è detta distrutta dal dolore per la morte di Maradona. Il Pibe de Oro ha avuto altri quattro figli, ufficialmente riconosciuti, Dalma, Giannina, Jana, Dieguito Fernando. Altri quattro hanno chiesto la paternità, tre a Cuba e uno in Argentina. Diego Jr. è stato riconosciuto nel 2007. Ha due figli, Diego Matias e India Nicole. Ha affidato la sua lettera in ricordo del padre a Instagram: “Quanto sono stato felice non te … non lo potevi immaginare, soltanto vederti affianco mi faceva sentire invincibile!!! Quanto mi mancherà questo abbraccio, padre della mia vita, non puoi nemmeno immaginarlo, quanto mi mancherà sedermi con te a vedere una partita del nostro amato Napoli!!! E i miei figli? Come faranno senza un nonno così amoroso? Ti prometto che saranno sempre al tuo lato, che sempre ti difenderanno e gonfieranno sempre il petto parlando del nonno!!! Papà, capitano del mio cuore, non morirai mai perché ti amerò fino all’ultimo respiro che avrò!!! Aspettami e vienimi a cercare quando sarà la mia ora. Perché ti ho sempre voluto al lato, perché un figlio vicino al padre non ha paura di nulla!!! Buon viaggio, 10 del mio cuore!!! Ti amo”
Francesco Rasulo per “la Repubblica” il 6 dicembre 2020. Il giorno del destino, 28 giugno '83. Un ragazzo di 33 anni, biondo, alto, occhi azzurri, appoggiato a una colonna del Camp Nou, che a Barcellona chiamavano ancora l'Estadi. «Arriva una macchina, un Golf rosso, rombando, quasi saltando, che si ferma bruscamente davanti al cancello chiuso. Gli faccio: "Hai visto Diego? Non è vero che il mattino ha l'oro in bocca"». «E così tu sei il professore, l'amico del Flaco Menotti». Fernando Signorini non sapeva ancora che da quel giorno la sua vita e quella di Maradona avrebbero camminato insieme, da quell'estate e fino al 1994, passando per tre campionati del mondo e l'esaltante avventura napoletana. «Quando Maradona, poco tempo dopo, mi propose di fargli da preparatore personale, gli chiesi due o tre giorni per pensarci. Penseranno che è un'altra delle tue stravaganze, gli dissi. Ma poi, uscito da casa sua, mi volevo suicidare. Ma come? Il più grande giocatore del mondo ti chiede di lavorare con lui e tu fai il prezioso. Tornai dentro e gli dissi: ok, accetto. Allora, rispose Diego, vai da Jorge e fatti fare un contratto. Jorge era Cyterszpiler, l'amico d'infanzia che lo scortava da quando, a dieci anni, Maradona era già un piccolo genio di periferia. Non poteva giocare, era poliomielitico, diventò il suo manager. Niente contratto, dissi a Diego. Va bene una stretta di mano, così quando non sarai più contento ci lasceremo come due amici». Finì con Signorini al suo fianco, dall'intervento del killer basco Goikoetxea che gli spezzò la caviglia in tre punti, («il 24 settembre del 1983, chi può dimenticarlo») ai Mondiali del Sudafrica, nel 2010, con Maradona Ct della Selección. «Una delle più grandi bugie che hanno detto su Diego è che non si allenava. Ma che sciocchezza. Secondo lei, uno così poteva permettersi il lusso di non allenarsi? Maradona era un animale, aveva un fisico eccezionale: altrimenti non avrebbe preso tutti i calci che ha preso, rialzandosi sempre prima del fischio di un arbitro. Si allenava quando gli altri finivano e perfino di notte, nel garage di casa a Posillipo. Se si metteva in testa di fare una cosa, la faceva». Vincere un Mondiale per passare alla storia del calcio, per esempio. «I Mondiali dell'86. Gli dissi: questo sarà il Mondiale di Maradona o di Platini, sei tu a decidere. A Città del Messico si gioca in altura, ai difensori mancherà il fiato per starti dietro. Se scegli di vincere, per il francese non ci sarà niente da fare ». Il francese, Platini. Il grande rivale (ma anche amico) in Italia, dove Diego si era già levato lo sfizio di battere la Juve, con quel gol impossibile. «Una volta - continua Signorini - un giornalista francese mi chiese cosa sarebbe stato Maradona se avesse avuto la testa di Platini. Semplice, sarebbe stato Platini. Diego era Diego, ma solo a Napoli. Guardate cosa sta succedendo oggi: la città lo ricopre d'amore, gli intitolano lo stadio, lo piangono in migliaia e sono passati trent' anni da quando ha smesso di giocare. Dove altro sarebbe possibile tanto amore? Certo, alla Juve avrebbe vinto qualche scudetto in più. Ma Diego è stato felice a Napoli più che a Buenos Aires ». E la sua Argentina?. «Qui, nel nostro Paese, qualcuno alla fine si dovrà vergognare, stanno parlando dell'uomo più che del calciatore. Questa storia dell'eredità, dei figli non suoi: è penosa. Adesso che Diego non si può più difendere, è troppo facile. C'è una mancanza di rispetto che Maradona non meritava. Certo, lui non si è mai candidato al Nobel per la pace, né voleva essere preso come esempio da nessuno. Ma non dimentichiamo da dov' è venuto, che cos' era Villa Fiorito, e contro che cosa ha dovuto combattere». La povertà, i pregiudizi, poi, da giocatore ricco e famoso, i demoni della dipendenza. «Tutti sapevano a Napoli della droga: presidente, allenatore. Nessuno ha fatto niente, contava solo che andasse in campo. E in campo Maradona era un uomo felice. Lì in mezzo era Ulisse circondato dai nemici, correva in campo e inventava le giocate, attaccava con l'astuzia dell'eroe greco, sorprendeva l'avversario nel suo punto debole. E fuori dal suo mondo, rimaneva un uomo forse fragile, ma mai comune. Antipatico al potere, questo sì: perché combatteva le ingiustizie, non riusciva a tenersele dentro. E non sopportava di veder soffrire la gente. Le racconto un episodio: a Fuorigrotta, una vecchietta lo salutava sempre da un balconcino malandato. Diego un giorno si fermò per abbracciarla, a quella povera donna stava per venire un infarto. Da allora, ogni volta che passavamo di là per andare a Soccavo, ci fermavamo sotto quel balconcino, lui lasciava una maglietta, o un po' di soldi». E ora che perfino Pelé si è "riavvicinato" a Maradona, neanche l'antico dilemma viene sciolto dall'amico fedele dell'argentino. «Chi è stato più forte? Non lo so. Una volta Menotti ha detto che Di Stefano, Pelé, Maradona, Cruyff e Messi sono stati i cinque più grandi, che è stupido fare delle graduatorie. Sono d'accordo. Cristiano Ronaldo? Un formidabile cannoniere, ma non in grado di emozionare. Zidane e Rivelino, per dire, sono stati più grandi».
Da corrieredellosport.it il 26 novembre 2020. Matías Morla è stato l'avvocato di Diego Armando Maradona negli ultimi anni della sua vita. Una figura fondamentale nell'entourage del Dieci, che questo giovedì, attraverso un comunicato caricato sui social, ha mosso una forte critica al personale sanitario per le mancate cure mediche ricevute da Diego nelle sue ultime ore di vita. L'avvocato ha puntato il dito sia sul ritardo dell'ambulanza ma anche sulla mancanza di controllo da parte dei medici che dovevano prendersi cura del Pibe de Oro. Infatti secondo gli inquirenti, che stanno svolgendo un'indagine sulla morte di Maradona, l'ultima persona che lo ha visto vivo è stato suo nipote 12 ore prima. "Sei il mio soldato, agisci senza pietà". Queste le dichiarazione di Matías Morla che dimostrano il legame sentimentale con la leggenda del calcio mondiale: "Oggi è un giorno di profondo dolore, tristezza e riflessione. Sento nel cuore la partenza del mio amico, che ho onorato con la mia lealtà e il mio sostegno fino all'ultimo dei suoi giorni. Gli ho dato l'addio di persona e la veglia dovrebbe essere un momento intimo e familiare". Poi però rincara la dose accusando il personale sanitario di negligenza: "Quanto al verbale della Procura di San Isidro, è inspiegabile che per 12 ore il mio amico non abbia avuto attenzioni o controlli da parte del personale sanitario dedito a questi fini. L'ambulanza ha impiegato più di mezz'ora per arrivare, è stata un'idiozia criminale. Questo fatto non deve essere trascurato e chiederò che le conseguenze siano indagate fino alla fine. Come mi ha detto Diego: sei il mio soldato, agisci senza pietà". Poi infine conclude: "Riposa in pace, fratello."
Francesco De Luca per ilmattino.it l'1 dicembre 2020. El entorno de Maradona. In Argentina chiamano così il clan che ha accompagnato in questi anni Diego, morto però in solitudine tre settimane dopo l'operazione al cervello. Era destino, forse, che finisse così l'uomo più popolare al mondo. El entorno de Maradona, dai familiari ai procuratori, dai segretari personali ai medici che si sono presi cura - la magistratura di Buenos Aires sta accertando quanto efficacemente - dell'ex capitano del Napoli, da anni dipendente non più dalla cocaina ma da alcol e psicofarmaci. Il primo a occuparsi del business Maradona fu Jorge Cyterszpiler, origini polacche, più grande di due anni di Diego. Si erano conosciuti nel 73 durante il torneo dedicato a Evita Peron. Il futuro manager del Pibe, e creatore dell'agenzia Maradona Production, aveva una grande passione per il calcio ma non riuscì a giocarvi a causa della poliomelite. Curò tutti gli importanti contratti di Diego, fino a quello dell'84 con Ferlaino. Aprì la sede napoletana della Maradona Production - da Barcellona erano arrivati l'addetto stampa Guillermo Blanco, il cameraman Juan Carlos Laburu e la segretaria Cecilia Pagni - in via Petrarca. Il feeling con Diego si interruppe dopo il primo anno a Napoli per una questione di affari sbagliati e ammanchi dai conti correnti. Jorge, che ha continuato l'attività di procuratore, è morto nel 2017 in tragiche circostanze. A metà degli anni 80 manager di duecento calciatori sudamericani e della tennista Gabriela Sabatini, Guillermo Coppola sostituì Cyterszpiler a Napoli, vivendo al fianco di Maradona nell'ufficio di via Scipione Capece, dove lavoravano la segretaria Pagni e l'autista Gianni Aiello. Personaggio enigmatico, Coppola accompagnava Diego non solo agli appuntamenti con gli sponsor o alle trattative con i presidenti dei club che volevano acquistarlo (Milan e Marsiglia) ma anche alle feste dove c'erano tante donne, divertimento sfrenato e parecchia polvere bianca. A un certo punto, Coppola apparve come il diavolo che stava rovinando Diego. Il suo gravissimo errore fu quello di assecondarne le scelte sbagliate. Prima di interrompere questo esplosivo sodalizio nell'autunno 90, Guillermo detto Guillote era riuscito a obbligare Ferlaino, alla scadenza del contratto, a riacquistare Maradona pagando al campione un bonus per il rinnovo di 6,5 milioni di dollari. Alla fine degli anni 90, dopo le due squalifiche e l'addio al calcio, Coppola è tornato al fianco di Maradona come consulente perché era impellente il bisogno di fare cassa. È stato l'unico dei suoi vecchi manager presente alla veglia funebre di giovedì scorso nella Casa Rosada, portando peraltro la bara. Negli anni napoletani c'era un vasto e variegato entorno. L'uomo saggio del clan, Fernando Signorini, era il preparatore atletico di Diego: ottimo professionista, sarebbe stato al suo fianco anche quando fu il ct della Seleccion argentina al Mondiale sudafricano. A un certo punto, comparve un presunto regista, Carlos Onofrio detto il Pato, che curò un programma televisivo del Diez con Mariano Piscopo, uno dei giornalisti più legati a Maradona. Salvatore Sorrentino, imprenditore di Ercolano, abituale frequentatore della famiglia del Pibe: una sera irruppe in uno studio televisivo per attaccare il giornalista che aveva messo un voto basso al campione. C'era un viavai di argentini - come i calciatori Osvaldo Dalla Buona e Ricardo Prostamo, amici d'infanzia di Diego accasatisi a Nola e Pozzuoli - nella casa di via Scipione Capece. Tanti i parenti e non era sempre un bene: Gabriel Esposito entrò in contatto con ambienti della malavita e vi furono momenti di tensione per i Maradona. Il figlio di Gabriel, Johnny è stato vicino a Diego negli ultimi giorni di vita. Marcos Franchi, commercialista e già socio di Coppola, ha seguito l'ex campione negli anni più duri: quelli delle squalifiche, dell'arresto a Buenos Aires, delle crisi e dei ricoveri, dei tanti affari sbagliati, dello scontro legale con il Napoli, in cui fu assistito dal professore Giovanni Verde, poi vicepresidente del Csm. Le redini dell'azienda Maradona sono state riprese da Claudia Villafane, la compagna sposata da Diego nell'89, finché non c'è stato uno scontro giudiziario, con accuse durissime su investimenti non autorizzati a Miami e in altri paesi sudamericani. Ad affiancare il Pibe in questi processi un avvocato noto a Buenos Aires, Matias Morla, che ha curato anche i suoi affari, grazie a un mandato che è stato contestato dalle figlie di Diego, Dalma e Gianinna. Morla, di fatto l'ultimo manager di Maradona, è adesso accusato dalla famiglia di aver creato il vuoto intorno a quell'uomo malato. Nelle ultime settimane era impossibile anche per Dalma e Gianinna contattare il padre, non solo per gli ex compagni: nessuno degli ex giocatori del Napoli riuscì a fargli gli auguri per i 60 anni. Accanto a Maradona c'era un segretario, Maxi Pomargo, cognato di Morla, una sorta di guardaspalle. Tra Dubai e l'Italia, invece, agiva il napoletano Stefano Ceci procurando contratti di sponsorizzazione e cachet per ospitate televisive.
Francesco Battistini per il "Corriere della Sera" il 4 dicembre 2020. «Sattva»: luce, bontà, purezza. A Matías Edgardo Morla non è mai mancata una giusta dose di fantasia. Né d' involontaria ironia. E cinque anni fa, quando decise di blindare in un ufficio di Puerto Madero tutti i diritti di sfruttamento del brand Diego Armando Maradona, dopo essersi attribuito la carica di presidente unico e aver nominato amministratrice delegata la sorella, Morla si pose il problema di come chiamare questa società depositaria del copyright. In fondo, si trattava d' amministrare l' immagine del più grande calciatore della storia. E bisognava pensare in grande: «Sattvica S.A.», fu l' idea. El D10s lo guardò perplesso: che cavolo di nome è, Matías? L' avvocato amico aveva già la risposta pronta: veniva da una parola sanscrita, «sattva». E lisciandolo quell' attimo, gli spiegò come fosse un principio alla base della filosofia indù e indicasse meravigliose qualità che certo non mancavano a Dieguito: salute, fiducia, equilibrio, virtù, positività, serenità e blablablà E sattva fu. Malato, sfiduciato, vizioso, depresso, negativo e per nulla sereno, Maradona s' affidò come sempre a Morla. Cedendogli diritti e rovesci della sua esistenza, con lo sfruttamento esclusivo dei marchi «El 10», «Diegol», «La Mano de Dios», «El Diego» e d' altre 54 coniugazioni maradoniane dello stesso concetto: far soldi. Che cosa pensassero di tutto questo i familiari del Pibe, s' è capito bene il giorno dei funerali. Con quello strano addio di Morla, a distanza e solo su Twitter: «Ci vedremo presto, amico. Hasta siempre Comandante». E con qualcuno che aveva suggerito all' avvocato di stare alla larga dalla camera ardente, perché l' onda non era proprio di simpatia. «Assassino!», gli ha gridato una donna per strada. «Se il vaccino del Covid sopravvive a meno 80 gradi - è circolata una battuta sui social -, potremmo conservarlo nel cuore di Morla!». «Non vogliamo vederlo neanche dipinto», hanno sibilato Dalma e Giannina, le orfane. E il diktat dell' ex moglie Claudia: «Con questo avvocato faremo i conti!». Il primo conto lo stanno presentando i magistrati. Che non hanno mai indagato per omicidio colposo l' onnipresente Matías, ma secondo i più l' aggiungerebbero volentieri ai due medici sott' inchiesta. 41 anni, un passato di legale tra il Messico e Dubai, entrato nella vita di Diego solo nel 2008, l' avvocato Morla è stato rapido a diventare l' alfa e l' omega dell' universo maradonico. E a creare una rete impenetrabile in cui era intestatario dei diritti riservati e forse di parte delle proprietà all' estero, aveva le spalle coperte dal cognato Maxi Pomargo, subito nominato direttore supplente nelle società, aveva garanzia che il D10s fosse tenuto d' occhio passo passo dal fido Johnny Esposito. Chiunque doveva passare da Morla, per avvicinare Maradona. Ed era stato lui a scegliere Leopoldo Luque e Agustina Cosachov, il neurochirurgo e la psichiatra sospettati di malpratiche e abbandono: «L' avvocato di papà rispondeva che ci pensava lui - hanno sparato a zero Dalma e Giannina, interrogate sei ore dai pm -. Anche stavolta, ci aveva promesso che avrebbe provveduto a un ricovero domiciliare. Invece non è stato così. Il ricovero era quella casa inadeguata». Affittare il lotto 45 di San Andrès, la sala giochi dov' è poi morto il campione, è stato l' errore fatale. Appena l' ha capito, Morla ha cercato di sviare l' attenzione inguaiando l' infermiera di turno, anche per coprire Luque e le sue assenze: se neanche il podologo poteva visitare Maradona senza il permesso del neuropsichiatra Luque, come giustificare quella morte così in solitudine? L' avvocato ora non si considera fuorigioco e si scalda in panchina. Per il momento, s' è alleato con le quattro sorelle del Pibe - Cali, Ana, Kity e Mary, spesso osteggiate dal clan Maradona - e per loro conto chiederà i danni a vedove e orfani: «Sono state infangate dalle calunnie». Sa che in questa rissa ci vuole «sattva»: lui ne ha da vendere.
Da corrieredelllosport.it il 30 novembre 2020. In collegamento dall'Argentina Hugo Maradona, il fratello di Diego, ha parlato dell'ex calciatore e dei sospetti sulla sua morte a Live-Non è la d'Urso. Sulla scomparsa dello sportivo è stata aperta un'indagine per omicidio colposo. "L'unico che stava accanto a lui era mio nipote, il figlio di mia sorella, che era come un figlio per Diego. C'era l'infermiera, i dottori. Lui non voleva che nessuno entrasse in camera, per questo l'infermiera era fuori dalla porta. Non so cosa è successo. Mi auguro che non sia stata trascurata la vita di mio fratello e che non ci siano stati errori dei medici. Ora c'è un'indagine, vedranno gli avvocati e la polizia in Argentina", ha fatto sapere Hugo. "A me dispiace, perché se è vero quello che stanno dicendo i giornali, mi fa male il doppio perché non meritava di essere lasciato solo. Ma solo non era perché c'era mio nipote, che da molto tempo vive con lui. Quanto ai dottori, ai medici e alle infermiere, le indagini chiariranno cosa è successo", ha aggiunto.
Le indagini sulla morte di Maradona. Barbara d'Urso ha poi fatto sentire a Hugo l'audio della chiamata ai soccorsi da parte del medico personale di Diego Armando Maradona. La conduttrice si è detta stupita dal tono pacato con cui il dottore sollecita l'intervento di un'ambulanza. Anche Hugo ha manifestato qualche perplessità: "Mi sembra strano che non dica il nome di mio fratello. La prima cosa che ti chiedono è come si chiama l'uomo che ha un problema. Non gliel'ha chiesto chi ha risposto al telefono e non l'ha detto il medico".
Hugo Maradona contro Mughini. A Live-Non è la d'Urso Hugo Maradona ha inoltre voluto replicare a Giampiero Mughini e a tutti coloro che hanno duramente criticato la vita del fratello. “Volevo dire al signor Mughini che mio fratello si è fatto male da solo, non ha chiesto niente a nessuno. Parlare così di un uomo che non si può difendere non è bello”, ha sentenziato.
Monica Scozzafava per corriere.it il 9 dicembre 2020. «Ciao Hugo, stai dormendo?». «Tu che dici, Diego? A quest’ora sto ballando?». Sono le 3 del mattino di domenica 22 novembre quando Diego Armando Maradona chiama al telefono suo fratello. Tre giorni dopo il Pibe non c’è più, lascia sgomento il mondo intero. La conversazione prosegue su toni scherzosi, tra Napoli e l’Argentina c’è un filo diretto almeno settimanale e gli orari sono spesso notturni. Stavolta Hugo però sobbalza quando vede il numero sul display del cellulare, sa che Diego non sta bene, è in convalescenza dopo l’intervento. Ed è sempre in ansia per lui.
Poi però il tono della voce è tranquillizzante.
«Ma sì, la sua solita voce divertita. Ha chiesto come stavo, se avevo bisogno di qualcosa. Mi ha tenuto sveglio per quasi mezz’ora a raccontargli le partite di calcio che non aveva potuto vedere. “Mi manca il calcio”, ha detto. Tempo qualche giorno, mi rimetto in forma e torno alla mia vita. Gli ho chiesto quando sarebbe tornato in Italia, e lui: vediamo, magari per Natale».
Non ha percepito tristezza o sofferenza nella sua voce?
«Assolutamente, era sereno. Se Diego quella notte fosse stato sofferente avrebbe fatto di tutto per non farmene accorgere. Lui era così, non voleva dare fastidio. Siamo in sette tra fratelli e sorelle, ci chiamava tutti ma non parlava dei suoi problemi. Non lo ha mai fatto. Ecco perché dico, con grande dolore, che la verità sulle ultime settimane della sua vita, la conosce soltanto lui».
C’è un’inchiesta, ci sono indagati. Spuntano ipotesi di colpevolezza sulla sua morte. Lei che idea si è fatto?
«Non ho un’idea, forse inconsciamente tendo a non farmela. Ma se non si fosse trattato di morte naturale sarebbe un dolore ancor più forte. Ho fiducia nella giustizia, se c’è un colpevole dovrà pagare. Mio fratello non lo meritava. Ha aiutato tutti, non ha mai chiesto nulla in cambio e in tanti hanno approfittato. Ha commesso errori sicuramente, senza però mai nascondersi. Ha pagato per questo un prezzo altissimo, mettendoci tutte le volte la faccia. Da solo».
Ed è stato lasciato da solo anche prima di morire, secondo lei?
«Dalla famiglia no. Siamo molto uniti, nel nome dei valori che ci hanno trasmesso i nostri genitori. Diego era fatto così: decideva lui tempi e modi per stare con i suoi cari. Ci chiamava sempre però, e se stava male fingeva di stare bene. Sugli amici, i medici, i vari avvocati non esprimo giudizi. Diego ha portato con sé nell’altro mondo tanti segreti».
L’ultima volta insieme?
«Due anni fa a Natale in Argentina. Con Dalma, Giannina, Diego jr. È stato bellissimo ritrovarci tutti insieme. Volevamo tornarci quest’anno, ma la pandemia non mi ha permesso neanche di andare a salutare mio fratello per l’ultima volta».
Cinque figli riconosciuti. Dopo la sua morte ne sono spuntati altri, si è già scatenata una guerra legale per l’eredità?
«I figli di Diego devono stare sereni. Li ha amati molto, ha guadagnato anche per loro, ed è giusto che soltanto a loro vada la sua eredità. Questa caccia al tesoro degli ultimi giorni è molto triste».
Lei si aspetta qualcosa?
«Non mi interessa».
Il più bel regalo che ha ricevuto da suo fratello?
«Mi ha portato a Napoli, lo ringrazierò sempre. Vivo qui e in questo momento l’amore dei tifosi per Diego attenua il mio dolore. Poi, c’è anche una sveglia».
Una sveglia da tavolino?
«Esatto, a forma di Topolino, il personaggio Disney. Mi rimproverava che dormivo troppo, gli dissi che non avevo una sveglia e lui me la fece avere. Grande e con un trillo forte. Ora l’ho passata a mio figlio Tiago che ha 23 anni. Diego è stato il suo padrino».
Com’era suo fratello? La prima cosa che le viene in mente.
«Generoso, buono. Fratello, appunto. Nel senso più profondo. Il suo privato era questo, lo amerò sempre».
Diego pubblico?
«È stato il più grande calciatore di tutti i tempi. Un extraterrestre. Tutti devono ricordarlo in campo: il suo mondo, la sua vita. Per il resto lasciamolo stare in pace almeno adesso. È già stato giudicato abbastanza, mi pare. Per tanti è stato un business vivente, ma con noi era una persona normale. Siamo figli degli stessi genitori, lui ad un certo punto è andato a mille. Ma quando ci ritrovavamo eravamo uguali, i ragazzi di Lanus».
A pensarci oggi, avrebbe potuto fare di più per lui?
«Facile adesso dire di sì, ma lui aveva la sua vita. Ed era difficile entrarci».
Da vocedinapoli.it l'11 dicembre 2020. La madre naturale di Magalì Gil parla per la prima volta. La giovane sostiene di essere figlia di Diego Armando Maradona e, dopo la sua morte, ha pubblicato un video in cui spiegava perché per lei è così importante il riconoscimento di paternità.
Chi è la madre di Magalì Gil, presunta figlia di Maradona. La ragazza aveva raccontato di essere stata adottata e di aver saputo soltanto dopo tempo di essere la figlia di Maradona. La sua madre biologica ha deciso di intervenire, dopo che Magalì ha ricevuto una serie di critiche, difendendola. “Sono Claudia Mariana, la madre di Magalì. Vorrei raccontarvi la mia storia. Ho avuto Magalì con Diego e ho dovuto darla in adozione per problemi che avevo all’epoca. Però adesso ho la forza. Confido ciecamente in voi e vorrei raccontare quello che mi è accaduto. L’unica cosa che chiedo è rispetto per la situazione, che è molto difficile. Vorrei rispetto per mia figlia e appoggio. Magalì è davvero, al 100%, la figlia di Diego. Per questo ho bisogno di rispetto per lei e la sua famiglia. Grazie per avermi ascoltato. Ho molto rispetto per i genitori che l’hanno cresciuta e sarò sempre loro grata con tutto il cuore”.
Diego Armando Maradona: presunta figlia ottiene il test. Notizie.it il 17/12/2020. Vittoria per la presunta figlia del Pibe de Oro Diego Armando Maradona. La ragazza, una giovane di 25 anni, ha ottenuto il test per stabilire l’effettivo legame di parentela tra i due. Per il momento il corpo del campione argentino non sarà cremato. Tale disposizione è stata presa da un tribunale del paese natio di Maradona, secondo quanto si legge da Clarin. L’icona del Napoli (e del calcio in generale) è morta a soli 60 anni a causa di un arresto cardiaco. Maradona ha avuto due figlie dall’unione con Claudia Villafane, ma nel corso degli anni l’ex calciatore ha riconosciuto altri tre figli. La presunta figlia di Diego Armando Maradona si chiama Magalì Gil. La ragazza ha chiesto il test del DNA. La giovane donna ha reso nota un’informazione che le avrebbe dato sua madre riguardo a colui che potrebbe essere suo padre, ovvero, il compianto Pibe de Oro. Secondo quanto dichiarato, tuttavia, dal legale del defunto ex calciatore, sarebbero già disponibili alcuni campioni di DNA e non sarebbe necessaria la riesumazione della salma, sepolta in un cimitero privato di Buenos Aires.
Fermata la cremazione. Dall’Argentina arriva la notizia dello stop alla cremazione del corpo di Diego Armando Maradona da parte di un altro tribunale. Tale disposizione risale allo scorso 30 novembre. Il blocco era motivato dal fatto che c’era la necessità di acquisire tutte le prove necessarie che spiegassero, senza alcuna ombra di dubbio, le cause reali della morte del campione argentino.
LE DONNE
L'audio messaggio per il nuovo compagno di Veronica. L’ultimo messaggio di Maradona per l’ex compagna e il figlio: “Abbi cura del mio angelo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 30 Novembre 2020. A cinque giorni dalla morte di Diego Armando Maradona, sbuca l’ultimo audio che il Pibe de Oro avrebbe inviato a Mario, il nuovo compagno di Veronica Ojeda, ultima compagna ufficiale del calciatore con la quale ha avuto l’ultimo figlio Diego Fernando. “Ciao Mario, sono Diego. So che ti sembrerà incredibile questo messaggio, però la trovo bene Vero, mi ha detto che sta con te. Prenditi cura di lei e del mio angelo che non ha paragoni con nessuno”. Queste le parole di Maradona rivelate dal giornalista Luis Ventura nel programma “Secretos Verdaderos” della Tv sudamericana America Tv. Maradona si è separato con Veronica nel 2019. Nell’audio chiede a Mario di prendersi cura di lei e del “mio angelo”, il figlio che dice “ho tanti figli però questo è quello che mi ha dato più filo da torcere”. Il suo è un appello accorato all’uomo a cui affida ex compagna e figlio.
Da gazzetta.it il 28 novembre 2020. "Ho sempre avuto molta paura della mia morte, ma non adesso... Perché so che quello sarà il momento in cui ti rivedrò e ti abbraccerò di nuovo!": è una parte del lungo messaggio che Dalma - 33 anni, attrice, prima delle figlie che Maradona ha avuto con Claudia Villafane - ha dedicato al padre su Instagram. "Mi manchi già pa! - ha scritto ancora Dalma -. Resisterò qui, senza quella parte del mio cuore che ieri hai portato con te! (...) Ti amerò e ti difenderò per tutta la vita perché ti ringrazio per la vita condivisa! Sono distrutta ma andrò avanti! Aspettami lì. Ci vedremo, mentre mi esercito in "Y como es el" così che quando ti vedrò la canteremo di nuovo insieme (...) Ti amo papà! Ti amerò e ti difenderò per tutta la vita! E se tua nipote vorrà chiamarti in videochiamata, morirò dentro, ma stai certo che le dirò esattamente chi eri, chi sei e chi sarai per sempre! Forse ti ama già. (...) Non ci voleva molto per amarti... Ho messo insieme i miei pezzi e non riesco a immaginare come sarà la mia vita senza di te... Non posso... Ma eccomi qui con il miglior marito del mondo e una figlia che mi costringerà ad andare avanti! La vita è un po' così, a presto! Ti porto le margherite per decorare i tuoi calzini da giocatore e per favore guardami di nuovo con quell'amore che vedi nella foto! Ti amerò per sempre!".
“HO DUE FIGLIE LADRE”. Pino Taormina per ilmattino.it il 9 dicembre 2020. Prendersi gioco di quasi tutta la nazionale inglese, saltare uno dopo l'altro Peter Beardsley, Peter Reid, con il solo Terry Butcher che andò realmente a un passo dall'agguantarlo, un attimo prima che il terzo Peter (Shilton) finisse a gambe all'aria? Uno scherzo per Diego Armando Maradona rispetto a provare a liberarsi di familiari scrocconi, fidanzate finto innamorate, medici apprendisti, avvocati improvvisati e tutto il mondo che sembra essere uscito fuori dalla penna di Collodi. Un dribbling impossibile pure per il Diez, per la Mano di Dios, per il più grande calciatore di tutti. Intanto, ieri Dalma e Giannina, le figlie avute con Claudia, avrebbero nuovamente citato in giudizio l'avvocato Morla per calunnia e minacce. Ma è una baraonda. Forse la ripicca dopo che nel programma argentino Intruders hanno fatto ascoltare un audio che dimostrerebbe l'astio tra Diego e le due ragazze. Tutto nasce dal mancato invito al matrimonio di Dalma delle zie, sorelle di Diego. «Io non vado a nessun matrimonio Mati (dice Diego parlando al telefono con l'avvocato Morla che lo registrava, ndr) e non lascerò alcuna eredità alle mie figlie, sono ladre. Darò tutto in beneficenza. Si devono vergognare: le mie sorelle le hanno fatto da mangiare 25 miliardi di volte quando erano piccole, facevano torte fritte alle due del mattino, non se lo meritano». D'altronde, era dal 2016, quando era a Dubai, che aveva cambiato il testamento del 2012, dove le principali beneficiarie erano proprio le figlie nate dal matrimonio con la Villafane. All'interno di un magazzino nella città argentina di Beccar sono custoditi alcuni dei tesori di Diego Maradona. Oggetti e beni appartenuti al Pelusa e dal valore incalcolabile. Di più ora, una volta che è morto. Regali di diverse personalità di cui il suo avvocato, Matias Morla, ha ora fatto un inventario. Includono: una lettera scritta e firmata da Fidel Castro, una chitarra di Andres Calamaro, un pallone di platino, le magliette che Maradona ha usato nei momenti emblematici della sua vita: i completi con cui ha partecipato a diverse cerimonie di premiazione, il pigiama animalier' con cui ha festeggiato il suo compleanno nel 2016, un blazer con la sua silhouette sulla schiena e il numero 10 e persino una maglietta con la foto di lui e del nipote Benjamin (il figlio di Aguero). Molti altri sono nella casa che Diego aveva a Campos de Roca. Inoltre ha lasciato alcune vetture come una Rolls Royce Ghost del valore di 300.000 euro e una BMW i8 di circa 145.000 euro. Il procuratore generale di San Isidro, John Broyad, che coordina un pool di magistrati, sta valutando i risultati delle perizie inviate dai consulenti nei giorni scorsi. Al momento unico indagato è il medico personale, Luque. Ma in ogni momento è atteso il colpo di scena. Intanto il gruppo di maggioranza al Senato dell'Argentina ha proposto che vengano stampate banconote di corso legale da 1000 pesos (circa 110 euro al cambio ufficiale) con l'effige di Diego Armando Maradona. Angelo Pisani, l'avvocato napoletano di Maradona torna all'assalto. «Attendo di capire come procedere, ma solo ora capisco perché quelli vicino a Diego tentavano di tenermi lontano da lui in questi ultimi anni perché mi ritenevano colpevole della pace con Diego junior - dice Angelo Pisani - È chiaro che questo riavvicinamento ha complicato le strategie del clan dei consiglieri. Ma padre e figlio hanno solo seguito la voce del cuore. Io sono uno dei pochi al mondo ad avere una delega firmata per rappresentarlo e continuerò a difenderlo non solo contro le pretese assurde del fisco italiano ma anche contro chiunque pensa di speculare e sfruttare illegittimamente il suo brand non solamente in Italia».
Da corrieredellosport.it l'8 dicembre 2020. Diego Armando Maradona Junior ha parlato della morte del padre a Live-Non è la d'Urso. Il figlio di Cristiana Sinagra non è riuscito a salutare l'ex calciatore per l'ultima volta. Mentre Maradona esalava il suo ultimo respiro, il primogenito era ricoverato a Napoli per Covid. Nel salotto di Barbara d'Urso Maradona Junior ha raccontato di aver sentito il padre pochi giorni dopo l'intervento alla testa. "Sapevo che si stava riprendendo in maniera impeccabile. L’ho visto con i miei occhi. Ho fatto una videochiamata con mio padre in clinica e stava benissimo. Dopo sono stato contagiato dal virus e abbiamo avuto sempre meno contatti perché sono stato davvero male, a volte non riuscivo nemmeno a rispondere ai messaggi di quel famoso gruppo composto da me, Dalma, Giannina, Jana, Leopoldo Luque e la psichiatra", ha dichiarato il ragazzo. "Io voglio sapere quello che è successo e se ci sono dei colpevoli, è giusto che paghino. Io mi farò valere nelle sedi competenti perché voglio sapere la verità. Avevamo chiesto un medico che potesse monitorare quello che stava succedendo. Purtroppo qualche passaggio l’ho perso perché stavo male, con la maschera per l’ossigeno, combattevo per tenere gli occhi aperti. Il dubbio era che non sapevamo quanti giorni dovevano passare per dimettere papà dopo l’intervento", ha aggiunto.
Maradona Junior ha saputo della morte del padre dalla tv. Quando Maradona è morto il figlio era ancora ricoverato in ospedale. Diego Armando Junior ha così appreso la notizia in maniera assurda: dalla televisione. Anche la madre Cristiana Sinagra ha appreso tutto dai media: "Io l’ho saputo ascoltando la televisione. Ricordo che ero sul letto e cercavo di riposare. Il primo pensiero è stato chiamare Diego perché temevo si sentisse male. Abbiamo chiamato per fargli avere soccorso perché sapevo che l’avrebbe presa male. Poi ho chiamato Nunzia che mi ha confermato la notizia, perché all’inizio non ci credevo”. A Live-Non è la d'Urso Diego ha ammesso di aver trascorso poco tempo con il padre che, di fatto, lo ha riconosciuto solo nel 2007. Ma Junior è felice lo stesso anche se non manca qualche rimpianto: "È stato ingiusto quello che è successo. Avremmo dovuto avere più tempo per poter condividere la nostra vita. Lui meritava di godersi di più i suoi nipoti. Meritava di vivere la vita vicino alla persone che gli volevano bene. Io sono molto religioso e penso che arrivi la fine del cammino per ognuno di noi. Voglio rimanere con i bei momenti che ho vissuto con lui. Sono stato felice, ho provato a essere un buon figlio. Sono stato felice con mio padre, posso solo dire che ne è valsa la pena, anche se per poco tempo”.
Maradona ha conosciuto il nipote Diego Matias. "La parte più bella del mio viaggio con mio padre fu quando durante le feste di Natale vidi che aveva in braccio mio figlio. Sono riuscito a chiudere un cerchio. Porterò con me un grande rimpianto: quello che per colpa del Covid non ha potuto tenere l’altra mia figlia in braccio”, ha spiegato Diego Armando Maradona Junior che, dalla moglie Nunzia Pennino, ha avuto i figli Diego Matias e India. Quest'ultima è nata nell'autunno 2019 e a causa della pandemia non è mai riuscita a incontrare il famoso nonno. Maradona Junior ha speso qualche parola pure sul testamento di Maradona, che tanto sta facendo discutere in questi giorni: "Avrei preferito morire di fame tutta la vita piuttosto che vivere questo momento”.
Candida Morvillo per “il Corriere della Sera” il 27 novembre 2020. Un matrimonio con la fidanzatina di gioventù Claudia Villafane, che gli ha dato due figlie e che è finito nel 2004 senza che finissero epiche liti e cause legali; tre relazioni rinnegate da cui sono nati due maschi e una femmina, riconosciuti a colpi di prove del Dna; una passione travolgente con Heather Parisi, altra icona di quei formidabili Anni 80 in cui Diego Armando Maradona vinceva tutto...Nella vita del Pibe de Oro sono tante le donne note e tantissime quelle di cui si favoleggia. L' autista che aveva a Napoli ha raccontato che, in sei anni, ne accompagnò nella sua villa diecimila. Sarà un' iperbole, ma rende l' idea. In principio, dunque, fu Claudia, sposata quando avevano già due figlie. Partecipazioni spedite dalle piccole Dalma e Giannina che annunciano: mamma e papà si sposano a Buenos Aires il 7 novembre 1989. Era il tributo di Diego alla donna che portava pazienza da un decennio, ingoiando pubblici tradimenti. Con Heather Parisi, per esempio. È il 22 dicembre 1984, i due si vedono in collegamento negli studi tv di Fantastico 5 . Lei è la showgirl di cui tutti sono pazzi per via di Cicale Cicale e di Disco Bambina . Diego le dice «ci vediamo presto». Così sarà. Il lunedì lui comincia a tempestarla di telefonate. Presto, vengono paparazzati a Napoli. Sono due cavalli pazzi e saranno liti e scenate. Si lasciano nell' 86 e la storia sentenzierà che Diego aspettava già un figlio da un' altra. Era Cristina Sinagra, ragioniera di 22 anni: Diego Armando jr. nasce a settembre 1986 e il padre lo riconoscerà vent' anni dopo. Fra gli ultimi amori, Veronica Ojeda, insegnante di ginnastica, vent' anni più giovane, che lo vanta come il miglior amante mai avuto. Diego la lascia quando è incinta giurandole che non riconoscerà mai il bimbo e chiedendo indietro beni per 18 milioni di euro. Arriva poi la calciatrice Rocio Oliva. Dura finché lei non divulga un video in cui lui le tira dietro il telefono e lei dice che il loro amore era «tossico». Intanto, infuriano le cause con l' ex moglie, che accusa Diego di aver fatto sparire sette milioni di dollari, mentre lui accusa lei di averne presi otto. Alla fine, Maradona ha molto amato, ha molto odiato e, purtroppo, è stato ricambiato.
Maurizio De Santis per fanpage.it il 7 dicembre 2020. Rocio Oliva oggi ha 30 anni. Ne aveva 22 quando nel 2012 iniziò la sua relazione con Maradona. La differenza di età con l'ex Pibe (30 anni) fece discutere. Lei giovane, bionda e sexy cosa ci faceva con quell'uomo che era più basso, grasso, aveva modi da taverna ed era la brutta copia del campione? Facile, facile dare la risposta… per interesse e per soldi, per aumentare la propria popolarità, guadagnare comparsate in tv e contratti pubblicitari, aumentare il numero dei followers sui social network e monetizzare. Non certo per amore. È stata sempre questa la spiegazione che le malelingue, il gossip più chiacchierato alimentato dalle indiscrezioni su una relazione burrascosa, l'entourage così come la famiglia dell'ex Pibe hanno posto a fondamento di quel rapporto finito malissimo nel 2018. "Diego era ancora innamorato di me. E non è vero che si era lasciato andare. Non è vero che pensava alla morte". Sono i concetti che Rocio ripete a menadito nelle interviste, sui giornali oppure in tv, rilasciate da quando D10s è morto. Lei, l'ultima fidanzata dell'ex campione, è un fiume in piena e nella soap opera scandita da quanto accaduto dopo il decesso del Diez ha un ruolo tutt'altro che di secondo piano. Lei è la persona che Claudia Villafañe e le figlie, Dalma e Giannina, hanno cacciato dalla camera ardente nel giorno delle esequie pubbliche. È lei la donna tenuta a distanza dalla Casa Rosada, dove era stato deposto il feretro, per volere delle ragazze e della ex consorte che la ritenevano solo un'intrusa. Ed è sempre lei che, nel tentativo di uscire dal cono d'ombra nel quale era stata spinta, s'è ritagliata un posto sotto i riflettori aggiungendo dettagli privati alla narrazione su Maradona. "Me la pagheranno", ha urlato nel giorno del rito funebre nei confronti della famiglia del Diez. Fu allontana e trattata come un'appestata. Non le fu concesso nemmeno di fare un saluto a distanza alla salma dell'ex compagno. Ecco perché adesso è la rabbia, la voglia di vendetta nei confronti del "clan Maradona" che la estromise da tutto al termine del rapporto avvenuto due anni fa, a prendere il sopravvento e a guidarla in prima fila. Hanno provato a confinarla nel dimenticatoio, ha reagito facendo molto rumore con la complicità dei media. Spetta anche a lei una quota dell'eredità? No, nessuna porzione legittime è prevista per legge perché mai stata sposata con l'ex Pibe. Ma la popolarità è una ricchezza che la signorina Rocio sa come capitalizzare. Per amore o per vendetta.
Francesco Battistini per corriere.it il 30 novembre 2020. «Questo non è uno spettacolo. È un pezzo della nostra vita che se ne va. E guai se esce una sola immagine...». Doña Claudia dixit. Abituati alle molli strette di mani, i felpati cerimonieri della Casa Rosada avevano capito subito chi fosse a decidere i funerali di Maradona. E già mercoledì sera, premurosi, avevano obbedito: vietati i cellulari, perquisizioni accurate prima della camera ardente, niente baracconate...Poi è arrivato il guaio. Quando il corteo stava già nel buio del Jardin de Bella Vista, i generatori illuminavano gli alberi e Diego veniva calato nella terra: un telefonino è passato di mano in mano mostrando quel selfie col morto. Un orrore, postato su Facebook da tre impiegati delle pompe funebri. Dicono che Claudia abbia fatto una smorfia. Si sia voltata gelida verso il braccio destro del D10s, Massimiliano, e abbia detto soltanto: «Gliel’avevo detto. Qualcuno adesso deve pagare». Se amare vuol dire pareggiare una partita fra due ineguali (Alan Bennett), nel match fra Diego Armando Maradona-Claudia Villafane è toccato spesso a lei parare i colpi al sette. E farsi giustizia dei cacciatori d’immagini, dei conoscenti pettegoli, dei cortigiani infedeli. O delle fidanzate sgradite: l’ultima, Rocio Oliva, sei anni di convivenza fino al 2018, fra lacrime di rabbia è stata allontanata dalla camera ardente. «Non le perdona — spiegano — d’avere lasciato che Diego si buttasse di nuovo nella droga e nell’alcol». A 58 anni, dopo essersi dedicata a soap opera e teatro, Claudia fa la produttrice tv, la concorrente a MasterChef e la moglie dell’attore Jorge Taiana, ma non s’è mai distratto l’occhio sui guai dell’ex marito, sulle altre pretendenti, sugli undici figli. Tosta Villafane: andò fino in Cassazione, quando la diffamarono dicendo che se la faceva col manager di Diego. E a Buenos Aires si precipitò direttamente in negozio, affrontando un’incauta commessa dell’elegante Avenida Alvear che aveva spiegato alla solita stampa come la signora non avesse mai avuto un gran gusto, «ma stando in Italia s’è un po’ raffinata». Ogni tanto, era lei a far da camomilla: dal terrazzo di via Scipione Scapele, dove ancora insieme ammiravano Golfo e Vesuvio, una sera dovette trattenere Diego e il suo fucile ad aria compressa, ben puntato su quattro paparazzi. «L’ho conosciuto a 17 anni a Villa Fiorito e ce ne ho messi più o meno altrettanti, per capire che non potevo credere a tutto». Claudia è l’unica donna che Maradona confessò d’avere mai amato, lui che teneva una catenina con la scritta «sono single, chi mi ha sposato è mia moglie», e solo a Napoli si vantava d’avere avuto «almeno ottomila femmine». L’unica che Diego, l’anno dopo il divorzio, provò a riconquistare in diretta tv: «Lei mi è stata madre e padre». L’unica che lo faceva ragionare e litigare a fasi alterne: non si parlavano quasi, negli ultimi tempi, e Maradona l’aveva perfino trascinata in tribunale con Giannina per un prestito mai restituito (uno, quattro, nove milioni di euro? Non s’è mai capito) e per 458 oggetti di valore «sottratti assieme ai soldi, trasportati di nascosto in Uruguay a nome di nostra figlia». Quante volte hanno litigato? «Non lo sapevano più nemmeno loro», dice una vecchia amica del quartiere Palermo: «Ma non si stupisce nessuno che alla fine sia stata ancora lei, a gestire tutto». Gli anni han portato saggezza e Claudia ha preteso che il funerale non precipitasse nel kitsch del matrimonio. Si sposò che avevano già Dalma e Giannina, nel novembre 1989 e nelle nozze più burine del secolo. Un inviato del Corriere, Giangiacomo Foà, riuscì a farsi assumere come cameriere al pala-boxe Luna Park riadattato per l’occasione, cessi e spogliatoi compresi, e raccontò lo sfarzo: le gradinate moquettate di velluto, 260 guardie private, 10mila garofani bianchi, quattromila piante, 89 anelli d’oro e di diamanti appesi a duecento torte più alte dello sposo, quintali d’aragoste, Franco Califano e Fausto Leali a cantare fino all’alba, naturalmente le solite botte coi fotografi e tre container di piatti, vassoi, tappeti persiani, vasi Ming donati dagli amici di Napoli... Durò poco: dopo tre anni l’infedele Diego dormiva nelle camere d’hotel, e cominciò un’altra rissa sulla custodia delle figliole. Il caos ora è calmo. Le liti si sono spostate sulla «roba». E come sempre, sui ladri d’immagine: l’hanno ripresa coi droni, l’altro giorno, e partirà un’altra denuncia.
Il dolore di Cristiana Sinagra, madre di Diego Jr: “Fui io a lasciare andare Maradona, ma non smisi mai di pensarlo”. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2020. “Cuore grande, animo fragile”, queste le quattro parole che Cristiana Sinagra ha utilizzato per descrivere Diego Armando Maradona. I due ebbero una relazione, a Napoli, e nel 1986 nacque Diego Armando Maradona jr. Anche lui con una carriera da calciatore, da allenatore, oltre che da commentatore sportivo. Maradona riconobbe questo figlio soltanto nel 2007. Sinagra ha parlato in un’intervista al Corriere della Sera. “Non c’è stato un solo giorno negli ultimi sette anni che non abbia chiesto perdono al nostro Diego”. Sinagra torna agli anni ’80, quando lei aveva 21 anni e il campione 25. “Il nostro legame nacque in maniera lenta – dice – si può dire? Sì, la sensazione fu quella di sentirmi cullata verso l’infinito. Ci ritrovammo insieme quasi senza accorgercene. È stata una grande passione, un legame forte nato piano piano. Chiacchierando, guardandoci negli occhi. Prendendoci anche tanto in giro”. Si conobbero a casa di amici comuni. Dopo la notizia della morte di Maradona, a 60 anni, a Tigres, provincia di Buenos Aires, Sinagra ha potato un selfie con il campione e il figlio su Facebook: “Tu per me non andrai mai via … ti ameremo per sempre e tu lo sai, ci mancherai da morire”, ha scritto. Diego Maradona avrebbe sposato nel 1989 in una cerimonia hollywoodiana Claudia Villafane, che aveva conosciuto giovanissimo. “A Napoli non c’era. E non è mai stata tra di noi – dice Sinagra – Conoscevo la sua famiglia, le sorelle, la madre. Dopo anni mi hanno detto che Diego piangeva spesso per quel figlio che non poteva vedere”. Una relazione, quella con Sinagra, durata sei mesi molto intensi ma anche molto tormentati. Come gli anni successivi, provati da tanta sofferenza, “ma tante cose dette e scritte su di noi non sono vere. Fui io ad allontanarmi, quando capii che aveva attorno troppe persone che ci ostacolavano. Intuii che il mondo che lo circondava era troppo grande per non travolgerlo, e non lasciare spazio al nostro amore. Lui andò via per il Mondiale, dopo ci siamo anche sentiti qualche volta. Sapeva che ero incinta, Diego lo avevamo voluto insieme”. Diego jr. ha appreso della notizia della morte del padre in ospedale, al Cotugno di Napoli, dov’era stato ricoverato dopo esser risultato positivo al coronavirus. Finora non ha rilasciato dichiarazioni: soltanto una stories su Instagram: “Il capitano del mio cuore non morirà mai”, ha scritto su un’immagine dello stadio San Paolo che presto sarà intitolato al padre. La donna non ha ricordi del campione, dell’eroe del campo, non vedeva le partite, dice, ma ricorda l’uomo. “Il suo cognome ancora oggi mi dice molto poco, per me era e resta Diego. La dolcezza, la spontaneità, la generosità. Negli anni si è poi fatto tanto male, credo non sia più stato veramente felice. Ha voluto autodistruggersi, sempre a combattere con i sensi di colpa. Ma se qualcuno gli chiedeva aiuto, non si è mai tirato indietro”. Quando l’ha rivisto dopo 22 anni, confida Sinagra, “è stato come se non l’avessi mai lasciato. Non ho smesso di pensare a lui un solo giorno. Ora mi sento sola, non riesco ad accettare che non ci sia più. Un dolore enorme”.
Monica Scozzafava per il "Corriere della Sera" il 27 novembre 2020.
«Non c'è stato un solo giorno negli ultimi sette anni che non abbia chiesto perdono al nostro Diego».
Un modo per chiedere perdono anche a lei?
«L' ha chiesto anche a me, più e più volte. Ma gli dicevo: tu mi hai dato un figlio, mi hai regalato gioie. Mi hai dato tutto e non mi hai tolto nulla».
Cristiana Sinagra, l' amore napoletano del Pibe, una donna magra, dall' aspetto fragile eppure straordinariamente forte. Aveva 21 anni quando ha incontrato la prima volta Maradona, lui 25. Accadde una sera di dicembre, una di quelle molto fredde. «Eravamo a casa di amici comuni, i suoi occhi mi riscaldarono il cuore».
Fu un colpo di fulmine?
«Il nostro legame nacque in maniera lenta, si può dire? Sì, la sensazione fu quella di sentirmi cullata verso l'infinito. Ci ritrovammo insieme quasi senza accorgercene. È stata una grande passione, un legame forte nato piano piano. Chiacchierando, guardandoci negli occhi. Prendendoci anche tanto in giro».
Parla di lui come se ne fosse ancora innamorata. È così?
«L'amore non muore mai, si trasforma. Oggi più che mai voglio rivivere i ricordi più belli che ho di lui. Con rispetto verso quel ragazzino che mi ha fatto vedere la luna e le stelle. E che mi ha dato Diego, la mia vita».
Ha anche sofferto, però.
«Sicuramente, ma tante cose dette e scritte su di noi non sono vere. Fui io ad allontanarmi, quando capii che aveva attorno troppe persone che ci ostacolavano. Intuii che il mondo che lo circondava era troppo grande per non travolgerlo, e non lasciare spazio al nostro amore. Lui andò via per il Mondiale, dopo ci siamo anche sentiti qualche volta. Sapeva che ero incinta, Diego lo avevamo voluto insieme».
Ma lei finì sulla bocca di tutti.
«Troppo felice per la nascita di mio figlio per accorgermene».
Nella vita di Diego c'era già Claudia.
«A Napoli non c' era. E non è mai stata tra di noi. Conoscevo la sua famiglia, le sorelle, la madre. Dopo anni mi hanno detto che Diego piangeva spesso per quel figlio che non poteva vedere».
Ma che non ha riconosciuto fino a febbraio 2007.
«Fa sempre parte del mondo dei suoi cattivi consiglieri. Non mi va di parlarne ora.
Diego nonostante le grandi distanze ci ha riempito la vita. Non ricordo di aver mai detto su di lui una parola fuori posto. Provo rabbia a sentire anche oggi giudizi su di lui. Dicono che è morto per la cocaina, ma questa gente lo sa che non ne assumeva più da anni?
Conosce realmente il suo vissuto, i suoi problemi, la sua depressione? No, e allora abbiano la compiacenza di stare zitti. Rispettino il nostro immenso dolore».
Cosa l'ha fatta innamorare di Maradona?
«Il suo cognome ancora oggi mi dice molto poco, per me era e resta Diego. La dolcezza, la spontaneità, la generosità. Negli anni si è poi fatto tanto male, credo non sia più stato veramente felice. Ha voluto autodistruggersi, sempre a combattere con i sensi di colpa. Ma se qualcuno gli chiedeva aiuto, non si è mai tirato indietro».
Del calciatore, invece, che ricordo ha?
«Strano a dirsi, ma non ho ricordi di lui in campo. Semplicemente perché non mi interessava il suo lavoro, non vedevo le partite. Anzi, mi infastidiva quel mondo dove lui doveva essere sempre al centro dell' attenzione. Anche quando non gli andava».
Quanto tempo è durata la vostra relazione?
«Sono stati sei mesi, ma molto intensi. La nascita di Diego in qualche modo ha fatto sì che continuasse. Adesso lo sentivo abbastanza spesso, quando era in videochiamata con Diego chiedeva di me, ci salutavamo con affetto. Adorava i nostri nipoti, che poi gli somigliano tanto».
Gli ha mai detto di no?
«Quando mi faceva i regali, non li ho mai accettati. A Natale rifiutai un anello prezioso, ma tanto prezioso. La sua ricchezza non mi interessava».
I riflettori su di lui erano sempre accesi, nel bene e nel male. La vita sregolata del suo fidanzato non le metteva ansia?
«Non mi sono mai accorta di tutto quello che poi ho sentito su di lui. Forse perché in quel periodo non c' erano trasgressioni».
Lo ha rivisto poi dopo 22 anni.
«Ed è stato come se non l' avessi mai lasciato. Non ho smesso di pensare a lui un solo giorno. Ora mi sento sola, non riesco ad accettare che non ci sia più. Un dolore enorme».
Lo descriva in due parole.
«Quattro almeno: cuore grande, animo fragile».
L'amore oltre il pallone. Tutte le donne di Diego Armando Maradona: dall’amore per Claudia Villafane alla passione per Heater Parisi. Rossella Grasso su Il Riformista il 27 Novembre 2020. La vita di Diego Armando Maradona è sempre stata tra la leggenda e il mito. Anche la sua vita sentimentale. A Napoli si diceva che il suo autista in 7 anni che ha vissuto in città gli avesse portato a casa 10mila donne. E che al Pibe de Oro piacesse divertirsi non era un mistero per nessuno. E che proliferassero figli che sbucavano all’improvviso a colpi di DNA anche questo è stato un classico della vita del giocatore. La prima fu Claudia Villafane, la sua fidanzata di gioventù da cui ha avuto due figlie, Dalma e Gianina: si sposarono il 7 novembre 1989, in pompa magna dopo dieci anni insieme e tanti tradimenti, anche e non solo nel suo periodo italiano. Il matrimonio avvenne nella Chiesa del Santissimo Sacramento di Buenos Aires e fu leggendario: torta a otto piani, tra i 1.200 invitati Fidel Castro e sul capo della sposa una tiara di perle e diamanti. La favola bella si concluse nel 2004 con il divorzio dei due. Durante quel matrimonio Diego non mancò di frequentare altre donne. E i suoi amori stagionali uscivano su tutti i giornali. Negli anni ’80 un nome su tutti, quello di Heather Parisi, all’epoca un’assoluta star della tv. Si conobbero nel 1984, quando Heather partecipava a Fantastico 5: per Diego fu un colpo di fulmine, tra paparazzate in giro a Napoli e litigi più o meno sulla bocca di tutti. Una lunga relazione che finì nel 1986, lo stesso anno di nascita di Diego Jr, avuto da Cristina Sinagra e riconosciuto solo nel 2007. Stessa sorte di Diego Jr ha avuto Jana Maradona, nata da una relazione con Valeria Sabalain: nata nel 1995, dovette aspettare anche lei il 2007 per essere riconosciuta, e diversi anni ancora prima di incontrarlo per la prima volta. Ci sarebbe pure un’altra presunta figlia, Magali, classe 1995, un’orfana che ha rintracciato la sua madre biologica e ha da lei scoperto l’identità del padre in Diego, che all’epoca della nascita allenava il Racing Club in Argentina. Più recentemente, due amori contrastati: il primo con Veronica Ojeda, vent’anni meno di lui, che Maradona lasciò quando aspettava un figlio (Diego Fernando, nato nel 2013). L’ultimo con una calciatrice, Rocio Oliva, dal 2013 al 2018. Pare che i due stessero progettando le nozze. Tanto che avevano fatto visita a Papa Francesco in Vaticano con la segreta speranza che potesse essere proprio il Santo Padre a unirli in matrimonio. Ma il numero dei figli era destinato a salire: nel 2019, il campione ne ha riconosciuti altri tre avuti da due donne diverse nel suo periodo cubano, quei cinque anni (2000-2005) in cui ha frequentato a intermittenza il Centro International de Salud La Pradera a L’Havana su consiglio dell’amico Fidel Castro. All’inizio degli anni Ottanta, quando già era fidanzato con Claudia Villafane, il calciatore era ossessionato dalla principessa Carolina di Monaco, che all’epoca viveva una relazione con il tennista argentino Guillermo Vilas. Come ha raccontato il giornalista Emilio Pérez de Rozas, Maradona «era innamoratissimo di Carolina. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per conoscerla». Ma non ci riuscì. E così la favola della principessa più bella del reame e del «re del pallone» non fu scritta mai. Nella sua autobiografia, Diego ammetterà di aver amato soltanto Claudia.
La showgirl risponde: "Non imbrattare la carta con perfidia quando scrivi a un bambino". “Sarà triste tua mamma per la morte del suo amante”, figlio di Heather Parisi insultato per la storia con Maradona. Rossella Grasso su Il Riformista l'1 Dicembre 2020. Della passione tra Diego Armando Maradona e Heather Parisi che negli anni ’80 si consumò in qualche scatto di paparazzi, si è ampiamente chiacchierato. Lui era il campione del calcio e della sregolatezza, lei la showgirl più amata dagli italiani all’auge della sua carriera. Lui era sposato e lei no e da qui il chiacchiericcio. Ma Heather Parisi dopo la notizia della morte del calciatore non aveva proferito parola. Fino ad ora, dopo che il figlio Dylan Maria, 10 anni, è stato insultato sui suoi social proprio per il calciatore. “Sarà triste la tua mamma, è morto il suo amante di gioventù Diego Armando Maradona…dille che è inutile bloccare le persone quando dicono la verità, se cerchi su internet trovi le foto del loro flirt, peccato che lui fosse sposato però”. Questo messaggio di insulti inviato direttamente al bambino su Instagram e che la showgirl ha deciso di rendere noto. Parisi si sfoga sui suoi social e racconta che subito dopo aver letto il messaggio il figlio le ha chiesto: “Mommy, how can you understand when people are telling the truth? (Mamma, come puoi riconoscere quando la gente dice la verità?)”. La showgirl allora gli ha risposto “diffido da chi si vanta di dire la verità perché è la scusa che gli ignoranti usano per mancanza di immaginazione. La verità, quando esiste una verità, non va mai enunciata, ma va sempre dimostrata. Ma della verità non possiamo mai avere certezza, nemmeno quando la raccontiamo avendola vissuta. La verità è come una coperta che ti lascia scoperti i piedi! Tu la spingi, la tiri per coprirli e lei ti scopre il viso. Non basta mai e alla fine ti tocca decidere cosa sia!”. E poi l’attacco alla persona che ha scritto il messaggio al bambino: “Ciascuno di noi dovrebbe ricordare che quando interagisce con un bambino è come se scrivesse su un pezzo di carta. C’è chi arricchisce quel “pezzo di carta” con sentimenti positivi e di amore e chi lo imbratta con la peggior perfidia”.
Maradona attacca il “traditore” Icardi: «Non doveva giocare la partita della pace». Da ilmattino.it (2 settembre 2014). L'emozione dell'abbraccio con Papa Francesco, ma poi la rabbia per aver visto in campo Mauro Icardi. Diego Armando Maradona, stella della Partita della pace allo stadio Olimpico, ha attaccato il centravanti dell'Inter: «Non avrebbe dovuto giocare, è un discorso che affronteremo seriamente con gli organizzatori. La prossima volta facciano giocare lui e non Maradona». Nello scorso dicembre, quando era diventata pubblicata la relazione tra Icardi e Wanda Nara, ex moglie di Maxi Lopez, Maradona era stato durissimo con Maurito: «Ai tempi nostri uno così lo avremmo picchiato negli spogliatoi». Due mesi fa Icardi e Wanda Nara si sono sposati e l'ex showgirl argentina è in attesa di un figlio.
Da corrieredellosport.it il 6 dicembre 2020. Con la scomparsa dell'ex Pibe de Oro torna a far discutere sui social l'indiscrezione di qualche tempo fa secondo la quale ci sarebbe stato un flirt tra Maradona e Wanda Nara, attuale moglie del bomber ex Inter Mauro Icardi. Una notte di fuoco tra Diego e la soubrette argentina. La voce, sempre smentita dall'attuale moglie dell'interista Mauro Icardi, circola da tempo in Argentina. A scatenare i gossip fu Mirtha Legrand: «Fui testimone uditiva del loro incontro», rivelò due anni fa in un'intervista a 'La Nación' l'attrice e presentatrice molto celebre in Patria. «Mi ricordo che a volte si era parlato di qualche loro uscita. Io stavo pranzando a Mar del Plata, sulla Costa Galaba, e quando stavo per uscire mi si avvicinò lei che mi disse "Perché non mi inviti nel tuo programma?". Io le risposi: Sei quella che è stata con Maradona? Ieri notte non mi avete fatto dormire».
Maradona e Wanda, ecco cosa successe quella notte. A quanto sembra - scrisse "La Nacion" - la bionda e l'ex calciatore avrebbero vissuto una notte di passione nella stanza vicina a quella della Legrand, impedendole di prendere sonno: «Io ero nella suite presidenziale, vicina a loro, e non si poteva dormire per il rumore. Si muovevano i mobili, non so cosa facevano. Questo racconto è vero e accadde tanti anni fa. Fui testimone uditiva dell'incontro». Dichiarazioni che fecero ovviamente fatto rumore in Argentina e alle quali è probabilmente rivolto un post Instagram di Wanda Nara: «Non vivere dando spiegazioni, i tuoi amici e la tua famiglia non ne hanno bisogno e il resto della gente non è importante...». Ha avuto un'ampia eco mediatica l'omaggio del PSG a Diego Armando Maradona, ma non per la nobiltà del gesto, una foto con tutta la rosa transalpina stretta attorno alla maglia numero 10 della Seleccion argentina, "di proprietà" del Pibe de Oro ad imperitura memoria, bensì per l'espressione assunta da Mauro Icardi al momento dello scatto. Il popolo del web ha notato un sorriso nel volto dell'ex attaccante dell'Inter.
Da leggilo.org il 6 dicembre 2020. L’attaccante del Psg e la moglie hanno completamente ignorato la morte di Diego Armando Maradona. Il loro silenzio è apparso davvero assordante, in quanto si tratta di due argentini, forse gli unici, a non aver celebrato la scomparsa del campione. Ma come mai questo silenzio dei due? Le ragioni vanno indietro negli anni, e portano alla luce un rapporto non idilliaco tra il calciatore e la moglie di Icardi. Il motivo dello screzio risale proprio nella loro relazione, mai accettata dal Pibe de Oro. In queste ore in tutto il mondo tantissime sono state le parole di stima ed affetto nei confronti del campione che ha fatto versare lacrime non solo ai suoi tifosi in argentina ma anche ai napoletani. La città partenopea infatti non ha mai dimenticato il campione che da solo è riuscito a riscattare un popolo grazie alle vittorie nel calcio. Wanda Nara ed Icardi sono rimasti ‘sordi’ a questo richiamo, nonostante si sia forse all’argentino più famoso di tutti i tempi. Nemmeno di fronte alla morte di un campione i due hanno voluto fare un passo indietro, tanto che nemmeno una parola è stata pronunciata sull’argomento. Il motivo come detto risiede nel difficile rapporto tra Maradona e la famiglia Icardi. Il calciatore infatti ha ‘soffiato’ la moglie di un ex campione di squadra. L’argentino Maxi Lopez infatti era sposato con la bellezza argentina, che poi è passata con l’attuale attaccante del Psg. Un ‘tradimento’ mai digerito dall’argentino, che ha avuto spesso dichiarazioni pesanti contro Icardi. “Ai miei tempi non si guardava nemmeno la moglie di un compagno di squadra. Se fosse accaduta una cosa del genere avremmo passato ore a prendere a pugni il responsabile”. Tante le accuse tra la coppia ed il campione argentino. Il loro silenzio è così spiegato. E voi, cosa ne pensate di questo loro atteggiamento?
Da corrieredellosport.it il 6 dicembre 2020. Nuove rivelazioni sulla storia d'amore tra Carmen Di Pietro e Diego Armando Maradona. La soubrette ha ammesso a Grand Hotel che la passione con l'ex calciatore è sbocciata nel 1991, quando lui era ancora sposato con Claudia Villafane, dalla quale ha avuto le figlie Dalma e Giannina. All'epoca Maradona giocava ancora con il Napoli e ha incontrato Carmen ad una festa. "Diego non era bellissimo, ma aveva tutti quei riccioli scuri, un sorriso ammaliante e un corpo muscoloso che lo rendevano molto sexy. Lui fece il primo passo. Quella sera, prima di andarsene, mi si avvicinò e mi domandò se volevo rivederlo in un posto meno affollato. Io, che ero già cottissima, risposi di sì e così ci siamo dati appuntamento per l'indomani in un albergo vicino alla stazione", ha ricordato la Di Pietro. È così iniziata una liaison segreta durata circa un anno e mezzo.
Le notti di Carmen Di Pietro e Maradona. "Io e Diego ci vedevamo in media 4-5 volte al mese, di solito al pomeriggio. Ma il massimo era quando riuscivamo a passare la notte insieme: stavamo abbracciati a guardare il cielo dalla terrazza dell'albergo come due adolescenti. Diego era così felice quando succedeva...Si sarebbe inventato di tutto pur di vedermi. Una volta è persino scappato dal ritiro dicendo che doveva correre da un parente malato. "Rischierei tutto per te", mi disse", ha confidato Carmen Di Pietro. La 55enne riusciva a darsi appuntamento con El Pibe de Oro grazie alla complicità di un'amica, l'unica a sapere dell'intera faccenda. "Diego chiamava lei, le diceva l'ora e il posto, poi io chiamavo la mia amica e lei mi riferiva tutto. E ha funzionato perché nessuno si è mai accorto di nulla", ha spiegato la Di Pietro.
Non ci sono foto di questa storia segreta. Della love story tra Diego Armando Maradona e Carmen Di Pietro non esistono foto. "Gli unici a sapere erano i dipendenti degli alberghi in cui andavamo e sono sicura che Diego sapeva come garantirsi il loro silenzio. Io, da parte mia, non avevo alcun interesse a chiamare i fotografi. Ero così imbambolata da Maradona che mi bastava averlo tra le braccia. Perché in privato lui era quasi meglio che in campo", ha assicurato la Di Pietro, all'epoca agli inizi della sua carriera nel mondo dello spettacolo. "Diego era molto passionale. Ricordo una votla arrivò in hotel in anticipo: io stavo facendo il bagno, quando sentii suonare alla porta. Andai ad aprire tutta insaponata pensando fosse il cameriere invece mi trovai davanti lui. "Posso continuare a insaponarti?", mi disse. E tornammo nella vasca", ha aggiunto l'ex concorrente del Gf Vip.
Carmen Di Pietro ha lasciato Maradona. Carmen Di Pietro ha inoltre chiarito di non aver mai saputo nulla della dipendenza di Maradona dalla cocaina: "Non ha mai sniffato o fatto qualcos'altro di equivoco davanti a me, al massimo ha bevuto qualche cocktail". In più è stata la Di Pietro a chiudere la relazione clandestina: "A un certo punto volevo di più. Ero stanca di dovermi nascondere, volevo vivere il nostro amore alla luce del sole".
I FILM
Gloria Satta per ilmessaggero.it il 27 novembre 2020. «Maradona non è morto, è solo andato a giocare in trasferta», ha esclamato Paolo Sorrentino alla notizia della morte del campione a cui è dedicato il suo ultimo film E' stata la mano di Dio ancora in lavorazione a Napoli. Ma il regista premio Oscar non è l'unico artista ad aver celebrato il genio del calcio, icona pop dei nostri tempi capace di ispirare non solo il cinema ma anche la cultura musicale contemporanea entrando nei brani di Manu Chao, di The Giornalisti, perfino dei trapper della Dark Polo Gang. A Diego Armando Maradona sono stati dedicati numerosi film diretti da registi diversi tra loro ma egualmente stregati dal mito del genio del calcio come Emir Kusturica, Marco Risi, Neri Parenti, Asif Kapadia. E ovviamente Sorrentino che ha scelto il titolo E' stata la mano di Dio per evocare la celebre frase che il Pibe de oro utilizzò per descrivere il suo goal irregolare, segnato con la mano, contro l'Inghilterra nella Coppa del Mondo del 1986. Ma il film non è una biografia del genio del calcio, bensì un racconto «di formazione allegro e doloroso» legato ai ricordi personali del regista napoletano che ringraziò Maradona in mondovisione nel 2014, all'atto di ricevere l'Oscar, citandolo tra le sue fonti di ispirazione con Fellini, Scorsese e i Talking Heads. Paolo doveva a Diego non solo la passione calcistica ma anche la vita: da ragazzo, per seguire una partita del Napoli in trasferta a Empoli, rinunciò ad andare a Roccaraso con i genitori che sarebbero poi morti per le esalazioni di una stufa. L'idolo Maradona compare in altri due film del regista: grasso e silenzioso alle terme in Youth (è interpretato da una controfigura) e nel delizioso corto della raccolta Homemade sotto forma di statuina. Ma all'inizio della lavorazione di E' stata la mano di Dio, il campione aveva minacciato azioni legali contro Sorrentino, convinto (a torto) che la propria immagine fosse un marchio registrato e addirittura non si potesse evocarla senza il suo consenso. Diego fu meno bellicoso nei confronti di Marco Risi che nel 2007 gli dedicò il bio-pic Maradona - La mano de Diòs affidando il ruolo del protagonista al somigliantissimo Marco Leonardi. «Avevo sottoposto la sceneggiatura alla moglie Claudia che l'aveva bocciata perché parlava anche dei lati oscuri del marito, come la droga e l'infedeltà», racconta il regista. «Così, accompagnato da Gianni Minà che lo conosceva bene, nell'estate del 2005 andai ad incontrare Maradona a Cesenatico dove, ospite di Salvatore Bagni, dirigeva un corso di calcio per bambini. Si era appena disintossicato e dimagrito, ma ebbi l'impressione di un uomo tutt'altro che allegro, inquieto, non risolto». Un altro regista italiano, Neri Parenti, ha avuto l'onore di dirigere il Pibe de oro in un cinepanettone: Tifosi (1999), in cui il campione interpreta se stesso e si fa rapinare da Nino D'Angelo. In L'allenatore nel pallone (1984) Oronzò Canà-Lino Banfi si limita invece ad evocarlo, illudendosi che il presidente della sua squadra glielo abbia comprato. Non si contano i documentari. Nel 2005 esce Amando a Maradona dell'argentino Javier Vazquez. Tre anni più tardi in Maradona di Kusturica Diego rilascia al regista un'esplosiva dichiarazione: «La droga? Pensa che giocatore sarei stato senza la cocaina». Seguono Maradonapoli di Alessio Maria Federici (2017) e Diego Maradona di Asif Kapadia, sugli anni napoletani, gran successo l'anno scorso a Cannes dove il Pibe de oro è stato atteso inutilmente. «Alla fine lo rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia indelebile nel gioco del calcio e della vita - è stato il ricordo del giornalista Gianni Minà, che era prima di tutto un suo amico -. E ora silenzio. Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo».
Dagospia il 28 novembre 2020. Dal bombastico libro di Neri Parenti appena uscito, Due palle di Natale, Gremese editore, che svela "aneddoti e retroscena dei cinepanettoni che non troverete su Wikipedia", abbiamo estrapolato il delirante capitolo su Diego Maradona in "Tifosi" capolavoro di Neri, prodotto manco a dirlo da Aurelio De Laurentiis appena diventato presidente del Napoli, e interpretato da Massimo Boldi, Christian De Sica, Diego Abatantuono e Nino D'Angelo. In Tifosi la questione che teneva banco, quello di cui tutti parlavano era Diego Armando Maradona. Aurelio De Laurentiis era da poco diventato presidente del Napoli Calcio, si iniziava ad appassionare sempre più per quello sport che prima conosceva meno. Ed ebbe l’idea di coinvolgere Maradona per il film Tifosi. Naturalmente doveva interpretare se stesso. Un bel colpo mediatico e un bel regalo ai tifosi del Napoli. Noi, che lavoravamo alla sceneggiatura, eravamo dubbiosi. Maradona stava passando bei guai per questioni fiscali in Italia, senza parlare del resto. I rischi di un’operazione del genere ci sembravano superiori ai vantaggi. Ma Aurelio credeva nella sua idea e soprattutto ci pagava. Quindi iniziammo a scrivere un soggetto per Maradona. Il soggetto dell’episodio era questo… Un ladruncolo napoletano Gennaro Scognamiglio, interpretato da Nino D’Angelo e l’amico e complice Ferdinando, interpretato da Peppe Quintale, si introducono in un lussuoso attico con l’intenzione di svuotarlo. Con i proventi del furto Gennaro vuole saldare un pesante debito, salvando dalla rovina e dalla strada la sua famiglia composta da moglie e quattro figli, due maschi, Diego e Armando, e due femmine, Mara e Dona. Nell’attico dove si introducono trovano un decoder satellitare. E Gennaro e Ferdinando, invece di rubare, finiscono per seguire alla TV la partita del loro adorato Napoli. La voce si sparge, e per seguire la partita nel salotto dell’attico si riunisce mezzo quartiere, tra cui due agenti di polizia, ignari di trovarsi nel luogo di uno scasso. A fine della partita, Gennaro e Ferdinando si rimettono all’opera e svuotano l’attico, salvo poi scoprire che appartiene al loro idolo Diego Armando Maradona. Con una scusa, i due riescono a rimettere ogni cosa al suo posto. Solo alla fine Diego scopre le loro iniziali intenzioni, ma è colpito dalla loro devozione nei suoi confronti e si adopera per risolvere il problema economico di Gennaro, permettendo al suo usuraio, anch’egli ammiratore di Diego, di fare autografi e foto insieme a lui e rivenderseli. Ecco in sintesi l’episodio di Maradona. Aurelio, però, per precauzione ci chiese di scrivere due sceneggiature: una che prevedeva la presenza fisica di Maradona, l’altra dove il giocatore non si vedeva mai, ma si sentiva solo la sua voce, e si intravedeva la sua controfigura. A quel punto ci sembrò proprio di aver fatto un lavoro inutile, convinti che Maradona non ci sarebbe stato, quindi immaginando un episodio con una controfigura riccioluta. Misi da parte l’episodio di Maradona, e iniziai a girare a Milano un’altra storia del film, quello di Massimo Boldi che era ispirata al film Fratelli d’Italia scritto da Enrico e Carlo Vanzina. Tra le nuove trovate, c’era il nome scelto per il personaggio di Massimo: Silvio Galliani, un omaggio all’allora presidente del Milan e all’amministratore delegato. Una sera, mentre già pensavo al modo migliore di mascherare l’assenza di Maradona nel film, ricevo la telefonata di De Laurentiis che mi dice di rientrare a Roma: Maradona aveva accettato di girare il suo episodio. Quel genio di Aurelio lo aveva convinto. Diego ci concedeva solo tre giorni di riprese. Questa era una limitazione accettabile, il tempo era più che sufficiente per girare tutte le sue brevi scene. Ma i tre giorni erano nella settimana corrente. Quindi mi precipitai a prendere un aereo notturno e arrivato a Roma mi incontro con Maradona in un hotel del centro. E subito si profilavano due palle. A cominciare dal casino che in quel momento stava succedendo a Milano, dove Boldi andò sul set e non trovò il regista. Diego Maradona intanto mi pone le sue condizioni. Nell’ordine: non voleva avere orari di lavoro prestabiliti, ma girare, sempre a Roma, quando se la sentiva, e non voleva fare scene in cui gioca a pallone, tranne che nel teaser di lancio. Tutto venne naturalmente accettato. Tagliammo ogni scena con il pallone, ci ingegnammo per realizzare gli esterni di Napoli a Roma, Trastevere divenne Forcella. Poi mettemmo in piedi due troupe, una pronta a girare dalle otto alle diciannove, l’altra dalle ventuno alle sei di mattina. Così, in qualsiasi momento Diego avesse deciso di girare, con due troupe coprivamo le 24 ore. Il set era qualcosa si simile a un pronto intervento riprese. L’unica cosa non duplicabile era il regista. E quindi mi avevano allestito una stanza all’interno dell’attico dove si svolgevano le riprese, ero sempre lì, h24 pronto a girare. Una follia. Un incubo. Appena Diego arrivava tutta la troupe si animava e cominciava a lavorare alla scena. Poi senza alcuna spiegazione e senza motivo, Diego se ne andava e tutto si fermava, e nessuno sapeva quando sarebbe ritornato. Non si poteva, però, non perdonarlo. Era evidente che Diego stava passando un brutto momento, e quando si ripresentava perdeva più tempo a scusarsi con tutta la troupe che a girare. Tutti gli volevano bene. Quindi passai tre giorni così... Venivo svegliato nel cuore della notte dal direttore di produzione che mi diceva che Maradona era tornato. E io, senza capire se era sogno o realtà, mi ritrovavo dietro la macchina da presa con tutta la troupe che allestiva la scena il più in fretta possibile. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. L’episodio fu girato, ed era venuto anche bene. Mancava solo il teaser. E come da accordi, solo per il teaser, Maradona aveva concesso l’uso del pallone. La scena di promozione consisteva in una partita a calcetto di Maradona contro tutto il resto del cast. Come al solito si aspettava Diego senza sapere quando sarebbe arrivato. Quell’ultima ripresa sembrava una cosa semplice, ma sentivo montare nei ragazzi della troupe una strana agitazione. Scoprii che tutti sognavano di fare un passaggio a Maradona. Temendo la reazione di Diego, riunii tutti i ragazzi e minacciai la troupe: avevamo poco tempo a disposizione, quindi il primo che avesse solo tentato di inseguire il sogno di palleggiare con Maradona sarebbe stato licenziato in tronco. - Semo professionisti, - mi rassicurò il capo macchinista detto il tazzina perché gli mancava un orecchio. Diego arrivò sul set. Prese la palla, iniziò a palleggiare e, caso rarissimo, perse la palla che ruzzolò fuori campo dove era schierata la troupe. Io fulminai con lo sguardo tutti, nessuno osava toccare il pallone, ma quando Diego Maradona urlò: - Pasame la pelota, - nessuno riuscì a trattenere i ragazzi della troupe che accettarono il rischio di perdere il posto pur di raccontare di aver palleggiato con El Pibe de Oro. Alla fine tutto andò meglio di come avevamo immaginato, tutta la fatica per portare a casa quell’episodio fu ricompensata: conservo ancora come un cimelio la maglia biancoceleste dell’Argentina con il numero 10 e la dedica di Diego Armando al suo regista preferito, Nery.
IL PATRIMONIO
Paolo Manzo per "il Giornale" il 4 dicembre 2020. Scoppia la guerra per l' eredità di Maradona, mentre la giustizia continua la sua inchiesta per «omicidio colposo», con due indagati, il neurochirurgo Luque e la psichiatra Cosachov, anche se ieri si è saputo che «i sospettati sarebbero sette, ma nessun parente per ora». Da un lato i membri della famiglia «storica» del Diez, ovvero l' ex moglie, Claudia Villafañe e le due figlie, Dalma e Giannina, dall' altro le quattro sorelle di Diego. Una guerra di trincea, dove ieri sono già state lanciate un paio di granate, non risolutive ma utili per capire «chi sta con chi». La prima bomba a mano l' ha lanciata la moglie dell' ex calciatore Diego Latorre, Yanina, accusando in tv in modo greve le quattro sorelle. «La scorsa vigilia di Natale si sono riunite con Diego e hanno ricevuto ognuna una busta con 50.000 pesos (500 euro), altrimenti non andavano - ha detto -. Gli succhiavano sempre denaro, sono addirittura arrivate a chiedergli 100.000 pesos (1000 euro) per badare a lui un fine settimana». La sorella maggiore di Diego, Ana Maradona, stava assistendo proprio a quel programma tv, non ci ha più visto e ha telefonato alla tv in diretta: «Voglio chiarire che questa signora (Yanina Latorre, ndr) non sa nulla ed è comandata dalle figlie di mio fratello (Dalma e Giannina, ndr)». Per poi aggiungere: «Mai preso un soldo per stare con Diego, altrimenti non avremmo debiti né conti da pagare» e chiarire «mio fratello era molto generoso e a volte ci regalava qualcosa, ma nessuno di noi compresi i miei figli e quelli dei miei fratelli vivevamo succhiandogli i soldi, ma del nostro lavoro». Poi l' accusa più pesante, contro Villafañe, Dalma e Giannina: «Loro tre, a differenza nostra, invece hanno sempre vissuto succhiandogli i soldi, senza Diego non sarebbero state nulla e farebbero bene a tacere». Le sorelle di Diego non le conosceva nessuno fino a due anni fa quando tre di loro - Ana, insieme a Kity e Lili - si erano sfogate con il giornalista Jorge Rial, nel programma Intrusos. All' epoca si era al culmine della lotta legale tra Diego e la sua ex moglie e fu lo stesso Maradona a chiedere loro di uscire dall' anonimato «per difenderlo e far vedere che aveva una famiglia, perché era abbandonato dalle figlie che non lo andavano mai a trovare», denuncia Ana. «Claudia è una ladra», aveva detto due anni fa a Rial, aggiungendo che «Claudia e l' ex manager Guillermo Coppola si erano tenuti i soldi che dovevano versare al fisco italiano». «A noi il testamento non interessa» ha concluso l' altro ieri Ana. Vedremo se è vero ma di certo ieri hanno già depositato la richiesta per iniziare la successione (a meno di 10 giorni dalla morte di Maradona) alcuni dei suoi figli ufficiali. Tutti e 5 secondo alcune fonti, solo Jana per altre. Di certo c' è che l' ultimo avvocato con i pieni poteri sul patrimonio di Diego è Matías Morla, che ha già congelato tutti i conti di Maradona nel mondo. Sarà lui domani l' uomo copertina del settimanale Noticias, anche perché difende gli interessi delle 4 sorelle Maradona, a suo dire su espressa richiesta di Diego prima di morire. Maradona nel 2012 aveva fatto un testamento in cui lasciava tutto a Dalma e Giannina. Ieri si è però scoperto che nel 2016, quando era a Dubai con la sua ultima fidanzata Rocío Oliva, aveva annullato quel testamento, depositandone un altro e lo scorso anno aveva scritto una nota a mano in cui diseredava Giannina. La domanda che ora tutti si fanno in Argentina: quello del 2016 è l' ultimo testamento o ne salteranno fuori altri? Dulcis in fundo, sempre ieri, sono saliti a 10 i figli potenziali ma nessuno dei quali sinora riconosciuti di Maradona.
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 5 dicembre 2020. Diego Maradona ha cambiato il testamento nel 2016, cancellando l’ex moglie Claudia e le figlie Dalma e Gianinna dall’asse ereditario: dovranno “accontentarsi” della legittima. lI documento è passato sugli schermi delle televisioni per tutta la giornata, ed è solo l’introduzione a una guerra di successione che potrebbe durare anni e che riguarda un patrimonio che varierebbe dai 50 a 130 milioni di dollari. Si combatte in tribunale, e per il momento il dottor Luque non andrà in carcere. I giudici hanno accolto la richiesta preventiva dei suoi avvocati proprio nel giorno in cui è emersa un’altra verità: Maradona non ha avuto il tempo di chiamare aiuto ed è quasi certamente morto nel sonno. È la seconda risposta dell’autopsia. La prima ha riguardato la cause del decesso: arresto cardiocircolatorio per fibrillazione atriale e infarto. L’infermiera Gisela Madrid ha testimoniato di aver sentito muoversi Maradona in camera verso le 6.30 del 25 novembre, dunque è presumibile che il campione sia poi tornato a letto e lì sia morto. Nessuno è entrato nella sua camera fino alle 11. «Non si sveglia il leone quando dorme», disse la cuoca e governante, Monona. Purtroppo, però, il leone non stava dormendo. «Non ho abbandonato Diego e non ero il suo unico medico!», si è difeso il dottor Leopoldo Luque, neurochirurgo e capo dello staff sanitario che ha malamente gestito il decorso post-operatorio e l’assistenza domiciliare. Luque è indagato per omicidio colposo e abbandono di persona insieme alla psichiatra Agustina Cosachov. In una chat tra lei e l’infermiera, le due donne valutavano di dare a Maradona un placebo, una caramella, per rasserenarlo e farlo dormire. Tra una decina di giorni si avranno i primi responsi dei test tossicologici. La Commissione medica della Procura dovrà rispondere a un altro quesito: perché il cuore di Diego appariva quasi normale all’ecografia prima dell’operazione al cervello, ma all’autopsia è risultato ipertrofico, del peso di 503 grammi (il doppio di un cuore normale) e affetto da miocardite dilatativa? E perché nessun farmaco è stato somministrato a una persona che aveva il muscolo cardiaco funzionante solo al 38 per cento? A Diego hanno spezzato il cuore, e non solo quelli che non l’hanno curato.
Adriano Seu per gazzetta.it il 27 novembre 2020. "Maradona non aveva quasi più nulla sul conto in banca, se n'è andato in povertà". La rivelazione che sta generando clamore in Argentina è di Luis Ventura, giornalista argentino da anni vicino al Diez e al suo circolo intimo. Ventura ha lanciato la bomba poche ore dopo la morte del Pibe de Oro, spiegando che l'enorme patrimonio accumulato prima da calciatore e poi da tecnico e uomo immagine sarebbe stato "parzialmente sperperato a causa delle sue mani bucate e, in gran parte, sottratto da chi lo circondava con il fine di aggirarlo e svuotargli le tasche". "Maradona è morto povero", ha ribadito Ventura nello studio del programma televisivo "Fantino a la tarde". A chi ha chiesto incredulo come avesse fatto a dilapidare una fortuna stimata in decine di milioni di dollari, frutto del ricco stipendio percepito all'epoca in cui allenava a Dubai, Ventura ha risposto tirando in ballo presunti raggiri subiti dai famigliari e da chi da anni era entrato a far parte del cosiddetto circolo intimo. "La fortuna guadagnata a Dubai? Non ve n'era più traccia, quasi tutto sparito", ha garantito Ventura, sottolineando come negli ultimi tempi Maradona abbia vissuto "esclusivamente dello stipendio che percepiva dal Gimnasia La Plata" (si stima intorno al milione di euro a stagione, ma le cifre reali non sono mai state rese note). Le affermazioni di Ventura stupiscono non solo alla luce della fortuna guadagnata a Dubai, ma anche in virtù del milionario contratto con la Dinamo Brest di cui era presidente onorario (incarico che gli fruttava 20 milioni di dollari all'anno per tre anni) e dei 150 mila dollari di stipendio mensile che gli garantivano i Dorados di Sinaloa, squadra allenata prima di tornare in patria per sedere sulla anchina del Gimnasia. "Gli hanno rubato quasi tutto, il resto lo ha elargito perché non era in grado di dire di no a nessuno. Bastava chiedere e lui dava", ha aggiunto Ventura. Una versione, questa, che coincide con quanto raccontato dall'attaccante paraguaiano Pablo Velzquez, agli ordini del Pibe de Oro fino alla scorsa stagione. "Maradona era di una generosità smisurata. Molte volte, i premi ai giocatori li pagava di tasca sua. Entrava nello spogliatoio con un borsone pieno di contanti e ripartiva il denaro", ha raccontato Velazquez al programma Futgol di Radio AM 970. "Era solito indossare due orologi, vari anelli, bracciali e collanine. Bastava dirgli quanto fossero belli che lui se li sfilava e li donava". Sullo sfondo delle rivelazioni fatte da Ventura, c'è chi si chiede adesso a quanto ammonti il patrimonio di Maradona e cosa accadrà con la sua eredità, insinuando un'imminente battaglia legale tra i tanti famigliari del Diez (dall'ex moglie Claudia fino alle due ex fidanzate Veronica Ojeda e Rocio Oliva, passando per la numerosa schiera di figli). Anche perché, stando ai media argentini, quantificare e catalogare il patrimonio di Maradona è un esercizio piuttosto complicato. L'unica certezza è lo scarno conto in banca, a cui però andrebbero aggiunti numerosi beni immobili (tra cui un edificio intero e due appartamenti a Buenos Aires oltre alla villa di Tigre in cui stava svolgendo la riabilitazione post operatoria). A questi si dovrebbero sommare anche sei auto di lusso (tra Bmw, Audi e Rolls Royce), senza contare i proventi dai numerosi contratti di sponsorizzazione su cui il Diez poteva contare e alcuni importanti investimenti all'estero, da Cuba all'Italia. Se mentre era ancora in vita, chi lo circondava attingeva alle sue tasche con disinvoltura, a quanto pare molte volte anche in modo fraudolento, c'è da scommettere che presto si scatenerà anche una battaglia legale per spolpare le ultime risorse rimaste. Chi lo conosceva bene come Ventura ne è certo.
Nino Femiani per quotidiano.net il 26 novembre 2020. Non c’entra nulla la preoccupazione etica sbandierata da Sting, Bill Gates, Warren Buffet e finanche dal cuoco stellato Gordon Ramsay, i quali pensano che ai propri figli non si debba lasciare alcuna eredità in termini monetari. No, stavolta la rottura sulla successione si scatena, e non per "ethical reasons", nella casa del "Diez" più famoso al mondo: Diego Armando Maradona. Il Pibe – che vanta un patrimonio che ‘People With Money’ stima in 275 milioni di dollari – ha deciso di chiudere i rubinetti alla figlia Giannina, nata insieme a Dalma (con lei più nessun contatto) dal matrimonio con Claudia Villafañe, sposata nel 1984 e dalla quale ha divorziato nel 2004. La ragazza, oggi trentenne, un tempo coniugata con il campione del Manchester City, Sergio "Kun" Agüero, ha aperto le ostilità pubblicando sul suo profilo Instagram un post velenoso sullo stato di salute (soprattutto mentale) del padre. «Lo stanno uccidendo da dentro, senza che se ne accorga. Vi ricordate che mio padre aveva uno zoo, in cui potersi fare le foto con il leone? Lo teneva sedato, altrimenti è impossibile domarlo. E ogni paragone con la realtà è pura coincidenza…». Insomma Dieguito ridotto dalle compagnie femminili da re della foresta a coniglio malandato. E lui risponde con un video diretto proprio a Giannina. In cui viene smentita ogni illazione sul suo stato di salute. «Non sto morendo per niente, dormo tranquillo perché sto lavorando. Mi è dispiaciuto moltissimo perdere contro l’Estudiantes (il suo Gimnasia sconfitto 0-1 in casa, ndr) . Non so quello che abbia voluto dire Giannina e come verrà interpretato. Ma so che ora, quando uno si fa più vecchio, gli altri si preoccupano più di quello che lascerà piuttosto di quello che sta facendo». Da qui la minaccia di prosciugare il patrimonio o di devolverlo a enti no profit: «E io dico a tutti che non le lascerò nulla. Che darò tutto in beneficienza. Tutto quello che ho guadagnato in vita mia lo donerò. E lo diranno a qualcun altro quando morirò. Ma per adesso no, perché sono sanissimo». La saga dei Maradona si arricchisce, quindi, di un altro capitolo, proprio nei giorni in cui spunta in Argentina un altro erede, il sesto. Si tratta di Magalì 23 anni: all’epoca del concepimento Diego viveva in Argentina come tecnico del Racing. Si va ad aggiungere a Giannina e Dalma, nate dal matrimonio con Claudia, a Diego jr Sinagra, nato dalla relazione con Cristiana Sinagra e non riconosciuto da Maradona fino al 2007, a Jana frutto della relazione con Valeria Sabalaín e Diego Fernando nato dal legame con Veronica Ojeda. Una nidiata numerosa che spinge le madri a difendere la ‘legittima’ dei figli. Lo fa Claudia Villafañe che ha già chiamato Diego in tribunale. «Se hai le palle di fare un video parlando di nostra figlia, spero tu ce le abbia anche per presentarti domani davanti al giudice, visto che finora non lo hai mai fatto». Oltre ai problemi in panchina con il suo club, Diego deve ora fare i conti anche con la carta bollata.
Marco Ciotola per mowmag.com il 26 novembre 2020. A quanto ammonta il patrimonio di Diego Armando Maradona? Ma soprattutto, chi potrà goderne adesso che il Pibe de oro è passato a miglior vita? Una domanda ricorrente a poche ore dalla dipartita del numero 10 per eccellenza, spentosi nel pomeriggio di ieri, mercoledì 25 novembre, per insufficienza cardiaca all’interno di una villa affittata a Tigre, appena fuori Buenos Aires, dove avrebbe dovuto passare tutta la fase post-operatoria seguente al recente ematoma al cervello. Fase che è stata come al solito foriera di dichiarazioni da copertina pronunciate da Diego; appena una settimana fa, in piena ripresa, aveva inviato un messaggio sconcertante rivolto a una generica categoria parentale, a tratti per esorcizzare l’eventualità di una sua dipartita ma chiudendo con una chiosa piuttosto decisa sul fronte eredità: “Non sto morendo, dormo tranquillo e continuo a lavorare. Non so cosa ha voluto dire Giannina e come verrà interpretato, ma so che quando uno invecchia tutti quelli attorno si preoccupano più di cosa e quanto lascerà piuttosto che di quello che sta facendo. E allora dico a tutti che non lascerò nulla: voglio dirvi che non sto morendo affatto e non vi lascerò niente. Non darò a nessuno tutto quello che ho guadagnato nella mia vita. Lo donerò”. La dichiarazione ha subito riacceso rabbie e rivendicazioni da parte di Claudia Villafañe, ex moglie di Maradona, che ha sottolineato di attendere ancora che “tutto ciò che mi spetta mi venga restituito”. Per il momento il contenuto del testamento – che Diego ha modificato proprio durante l’ultima convalescenza – non è noto; ma non è inverosimile che molti tra gli eredi diretti del Pibe possano restare a mani vuote. Ci sono però diverse condizioni che potrebbero portare i parenti a rivolgersi alla giustizia per recuperare parte di quel patrimonio, come stanno facendo notare nelle ultime ore diverse testate argentine tra cui Carlin e Solodinero. Il nuovo Codice Civile e Commerciale dell’Argentina, in vigore dal 2015, ha infatti introdotto modifiche in materia di successioni, in particolare attorno alla definizione e ai diritti di quelli che in Italia chiamiamo eredi legittimari, e alla figura del cosiddetto “oltraggio” e delle “diseredazioni”. In poche parole, esattamente come nell'ordinamento italiano, anche in quello argentino viene prevista la figura della cosiddetta "legittima", corrispondente a una quota di cui l'autore del testamento non può in ogni caso disporre. Dimenticate, quindi, le boutade in stile americano: niente patrimoni al gatto o figli esclusi da qualsiasi beneficio. Una parte del patrimonio del "de cuius" (come viene definito il defunto nel gergo legale), deve per forza essere destinato a una serie di soggetti che sono specificamente previsti dalla legge. Proprio come per la normativa vigente in italia, inoltre, anche secondo il diritto argentino, l'ammontare della quota spettante agli eredi legittimari varia in base alla loro composizione. In particolare, la quota di legittima dei discendenti (figli) è pari a due terzi, quella degli ascendenti (eventuali genitori) della metà e quella del coniuge della metà. Nel caso in cui concorrano sia i figli che il coniuge, la quota di legittima viene calcolata sulla base dell'indicazione più favorevole. Molte testate argentine hanno, così, osservato come Maradona non abbia potuto, di fatto, escludere dalla sua eredità le figlie riconosciute, Dalma e Gianina, il figlio più giovane Diego Fernando ma neanche l’italiano Diego Sinagra e Jana, tardivamente riconosciuti dal Pibe de oro. E a nulla può valere la volontà di Maradona di diseredare alcuni o tutti i propri figli. Come spiegato alla testata Infobae, da Cristian Fox, partner dello studio legale Allende y Brea, infatti, "La riforma del Codice Civile e Commerciale del 2015, ha abrogato la figura della diseredazione, ricomprendendola tra le cosiddette cause di indegnità". L'articolo 2281 stabilisce le cause, tra cui, ad esempio, i tentativi di frode da parte degli eredi designati nei confronti del defunto, ma un eventuale generico astio non è sufficiente ad escluderli dall'asse ereditario. E quindi? Quanti sono i milioni di euro sui quali, inevitabilmente, gli eredi di Maradona sono destinati a farsi la guerra nei mesi prossimi? Sebbene sia certo che i guadagni maggiori siano arrivati dai contratti come calciatore e allenatore, dalle significative entrate pubblicitarie, dai programmi televisivi e dal ruolo di commentatore tecnico, risulta attualmente impossibile stabilirne l'ammontare. Quello che è certo è che, In Italia, una sentenza del 2005 lo ha condannato a pagare 37,2 milioni di euro nei confronti dell'erario. Una somma che il fisco italiano potrebbe pretendere - quantomeno per la parte di essa corrispondente alle imposte non versate - anche dai suoi eredi. Ammesso e non concesso, dunque, che almeno una parte del patrimonio di Diego non sia stata definitivamente sperperata, per l'italiano Diego Sinagra la possibilità di arricchirsi dopo la morte del padre potrebbe essere molto meno concreta di quanto si creda.
Il tesoro del D10S. L’eredità di Maradona, inizia la guerra per un “pezzo” di Diego: la battaglia tra figli, manager e “sciacalli”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 27 Novembre 2020. Tutti vogliono un "pezzo" di Diego Armando Maradona. La sepoltura del D10S, il fenomeno argentino scomparso nella tarda mattinata di mercoledì 25 novembre (le 15.30 in Italia) nella casa del quartiere San Andres, nella località di Benavidez, nel dipartimento di Tigre in provincia di Buenos Aires, ha aperto una immediata battaglia per la sua eredità. La torta da spartire è infatti invitante per tanti, dai familiari agli “sciacalli” che nel tempo sono stati vicini all’ex campione del Napoli e dell’Argentina. Quel che è certo è che il tesoro di Maradona non consiste in denaro contate: Luis Ventura giornalista argentino e amico storico di Diego, lo ha confermato pubblicamente al programma televisivo "Fantino a la tarde". Maradona “non aveva quasi più nulla sul conto in banca, è morto povero”, ha detto Ventura, mentre sui media di parla di non più di 100mila dollari sul conto bancario del numero dieci più famoso del mondo. Il resto? Sperperato in mille modi, secondo Ventura, sia per le “mani bucate” del Pibe de oro che per le persone del suo "clan", dagli amici ai manager a consulenti, che approfittavano di Diego e della sua generosità per farsi donare soldi e regali. In questa ottica va letto anche il rapporto di vero e proprio odio tra le figlie di Diego, in particolare Giannina e Dalma, e l’avvocato del D10S, Matis Morla. Lo scorso anno la prima disse, con un chiaro riferimento all’entourage del padre e in particolare a Morla, suo legale e fedelissimo dal 2016, che lo stavano “ammazzando”. Lo stesso padre replicò alle accuse dicendo che la figlia lo faceva solo “per l’eredità” e minacciando di donare tutto, non lasciando un dollaro ai figli. Già, l’eredità. Se Diego è morto con un conto in banca "misero", per cosa si stanno preparando alla guerra amici, consulenti e familiari? Maradona pur avendo sperperato milioni di dollari ha ancora diverse proprietà di valore: si parla di diversi appartamenti e persino un intero edificio nel cuore di Buenos Aires, più terreni, investimenti a Cuba, diverse auto di lusso e le royalties derivanti da alcuni contratti d’immagine che resteranno in vigore anche dopo la morte del numero dieci. Quanto vale tutto ciò? Impossibile dare una cifra corretta. In Argentina i media locali parlano di 70-100 milioni di dollari, ma c’è chi si azzarda a dire anche il doppio.
Carlos Passerini per il "Corriere della Sera" il 27 novembre 2020. L' hanno marcato stretto prima, quand' era tra noi, non lo molleranno neanche ora che non c' è più. Perché Diego questo è stato, questo è, questo sarà: non solo il più grande di tutti sul campo, ma anche un formidabile business, uno imperdibile affare, una torta da spartire. Per tanti, per troppi. Parte la caccia all' eredità, ora. Sull' entità della quale regna il mistero. Quel che si sa è che il tesoro di Maradona non è fatto di denaro contante, di cash. Si parla di non più di 100mila dollari sul conto, ma ci sarebbero anche diversi milioni di debiti. La conferma l' ha data Luis Ventura, giornalista argentino da sempre vicinissimo al Dieci: «Non aveva quasi più nulla sul conto in banca, è morto povero» ha raccontato al programma televisivo Fantino a la tarde , spiegando che l' enorme patrimonio accumulato con gli stipendi e con i cachet degli sponsor storici come la Puma sarebbero stati «sperperati a causa delle sue mani bucate e in gran parte sottratto da chi lo circondava con il fine di raggirarlo e svuotargli le tasche, bastava chiedere e lui dava». Che fine hanno fatto quindi i milioni di dollari guadagnati negli anni da allenatore a Dubai? O da presidente onorario del Dinamo Brest, che gli passava 20 milioni di dollari all' anno? Secondo Ventura, si sarebbero volatilizzati sia per la sua eccessiva generosità sia per certi raggiri subiti da chi faceva parte del suo quadrato magico. Amici, amici degli amici, medici, manager, consulenti e sedicenti tali che negli ultimi anni lo avevano circondato. E, come hanno denunciato in molti, isolato dal resto del mondo. Le figlie, ma anche ex colleghi e compagni come l' ex difensore Oscar Ruggeri e il suo storico preparatore Fernando Signorini hanno detto chiaro e tondo che tempo fa non riuscivano più nemmeno a parlare con Maradona, perché le telefonate venivano filtrate e spesso addirittura bloccate da chi gli stava vicino. E Maradona, evidentemente, si fidava, a causa soprattutto delle condizioni di evidente fragilità emotiva. L' ombra di Diego è dal 2016 il suo avvocato, Matias Morla. Per alcuni, tra cui le figlie Dalma e Giannina, una specie di carceriere del padre. «Lo stanno ammazzando», fu la denuncia choc della secondogenita Giannina nel novembre di un anno fa. Durissima la replica di Maradona: «Lo fai solo per l' eredità». Ma visto che i soldi rimasti sul conto corrente sono pochi, come confermano in realtà diverse persone vicine all' ex campione, a cosa puntano gli aspiranti eredi? Gioielli, terreni, immobili di pregio tra cui un edificio intero e svariati appartamenti nel centro di Buenos Aires, sei auto di lusso tra cui Bmw, Audi e Rolls Royce, alcuni investimenti a Cuba e in Italia, scuole calcio in Cina oltre a contratti d' immagine che resteranno in vigore anche dopo la morte. Insomma, l' eredità non è un forziere di monete d' oro, ma esiste. Eccome: alcuni media argentini la stimano sui 70-100 milioni dollari, altri il doppio. Ecco perché è scontato che, non appena si esaurirà la commozione, partirà spietata la battaglia legale. «Non lascerò niente ai figli in eredità, donerò tutto» aveva minacciato un anno fa Diego. Dall' ex moglie Claudia fino alle due ex fidanzate Veronica Ojeda e Rocio Oliva, passando per la numerosa schiera di fratelli, sorelle, figli legittimi e non e nipoti, oltre a quel quadrato poco magico di amici e presunti tali, saranno però in molti, moltissimi, troppi, a reclamare un pezzo del tesoro. Povero Diego. La leggendaria marcatura di Gentile, per lo meno, finì al 90'.
Eredi a caccia del tesoro di Maradona, cento milioni di dollari sparsi su più conti segreti. Maurizio Crosetti su la Repubblica il 5 dicembre 2020. Tra i beni lasciati da Diego anche un container pieno di memorabilia e una misteriosa casa a Buenos Aires. Se li contendono le ex mogli e i figli, che potrebbero essere addirittura undici. E dall'indagine spunta un nuovo particolare inquietante: l'ultima sera lo "curarono" con una caramella. Conti segreti in varie parti del mondo, l’ex moglie e le figlie cancellate dal testamento quattro anni fa, una casa misteriosa a Buenos Aires e un container pieno di pezzi da museo. La battaglia per la successione di Diego Maradona è già un nodo complicatissimo e potrebbero servire anni per sbrogliarlo, anche perché sono numerosissimi i risvolti legali, giudiziari e fiscali. Il tesoro di Maradona è una scatola cinese, anzi uno scatolone, e potrebbe contenere oltre 100 milioni di dollari. Nel corso della sua movimentata esistenza, Diego avrebbe aperto conti a Macao, Dubai, Sinaloa, Minsk e Avana, un labirinto nel quale i giudici dovranno ora insinuarsi per capire, valutare e infine distribuire (anche al fisco, si presume, Italia compresa). È pure una questione di giurisdizione e competenza territoriale: e qui salta fuori una casa di cui non vi era traccia, e che sarebbe stata l’ultimo domicilio di Maradona prima della morte. Lo ha dichiarato l’avvocato di Veronica Ojeda. In attesa delle prove e dei contratti, una televisione argentina ha mostrato il documento che Diego avrebbe scritto di suo pugno nel 2016 a Dubai, quando di fatto avrebbe diseredato l’ex moglie Claudia e le figlie Dalma e Gianinna in seguito a lunghi e profondi dissapori. L’intenzione di non lasciare nulla a nessuno e di devolvere i propri averi in beneficenza era stata espressa da Maradona anche in un famoso video, ma nessuno ha mai saputo se fosse solo una minaccia. L’apertura del testamento potrebbe riservare numerose sorprese. Anche per questo gli eredi, compresi quelli potenziali, si stanno muovendo. Jana Maradona è stata la prima a farsi avanti, e Diego junior starebbe arrivando a Baires dall’Italia. Non mancano nuove istanze di riconoscimento della paternità grazie ai campioni di Dna prelevati nel corso dell’autopsia del 26 novembre. Quanti saranno, alla fine, i figli di Maradona? E quanto toccherà a ciascuno di loro? E alle sorelle? L’ex moglie e le due figlie di primo letto dovranno davvero accontentarsi della legittima? Del tesoro segreto fa parte anche il container pieno di pezzi da museo, alcuni dei quali assai preziosi, saltato fuori da un magazzino della città di Beccar, nel comune di San Isidro: contiene tutto quello che Maradona portò indietro con sé da Dubai, compreso il Pallone di platino della Fifa, la celebre lettera di Fidel Castro, la camicia rossa di Chavez e poi magliette, palloni, abiti, memorabilia e persino una chitarra del musicista Calamaro. Davvero si potrebbe aprire un museo con tutto questo, ma è assai probabile che dopo l’arrivo degli eredi (quali? Quanti?) resterà ben poco. Tra tesori nascosti e figli teorici (nove in tutto? Undici?) continua l’inchiesta della Procura di San Isidro, che ieri ha accolto la richiesta preventiva per evitare il carcere da parte dei legali del dottor Leopoldo Luque: un punto a suo favore. E sono emerse nuove chat tra la psichiatra Agustina Cosachov e l’infermiera Gisela Madrid. Quest’ultima, qualche giorno prima della morte di Maradona informa la specialista che il campione è agitato e non riesce a dormire: "Perché non gli diamo un placebo, una caramella?" propone. E la psichiatra risponde: "Giusto, ben pensato. Non si può esagerare con gli psicofarmaci, quelli non sono mica Tic Tac". Con le caramelle. Lo curavano con le caramelle. Era dunque un evasore fiscale, ma basta mostrare affetto verso i compagni Fidel e Hugo che è tutto perdonato!
PMan. per "il Giornale" il 27 novembre 2020. È guerra tra clan per l' eredità di Maradona. Con la bara dell'astro ancora alla Casa Rosada ed un milione di pellegrini in fila per salutare il loro Dio, ieri sono esplose già le prime polemiche. Ad accendere le polveri il suo ultimo avvocato, Matias Morla, che ci ha tenuto a far sapere, poche ore dopo il decesso, che «è inspiegabile che per 12 ore il mio amico non abbia ricevuto attenzione o controllo da parte del personale sanitario. L' ambulanza (in realtà ne sono arrivate 12, ndr) ha impiegato più di mezz' ora per arrivare, è stata un' idiozia criminale». L' accusa, pesantissima nei confronti dell' ex moglie Claudia Villafane e delle due figlie, Giannina e Dalma che hanno deciso i destini sanitari di Diego nell' ultimo mese, è che Diego non avesse in casa con lui nessun medico, 24 ore su 24. Maradona in vita sua ha avuto più «amici avvocati» che amici veri e, dunque, il comunicato stampa di Morla che sa tanto di pizzino mafioso contro Claudia, Giannina e Dalma, è un preludio alla battaglia legale prossima ventura per accaparrarsi l' eredità del Pibe de Oro. Non tanto l' eredità monetaria la Mano di Dio si era mangiato quasi tutto - ma la gestione dei suoi diritti di immagine, questo sì un «tesoro inestimabile» destinato fors'anche a superare quelli lucrosissimi di Elvis Presley e del Che Guevara. Sicuramente interessata all' eredità è Rocío Oliva, l' ultima compagna ufficiale di Diego, che ieri era furente perché non è stata fatta entrare nella cappella del feretro di Maradona: «Entrano tutti, tranne me. Fanno un torto a Diego. È una vergogna. Non so perché mi fanno questo, sono stata la sua ultima partner» si è sfogata. Il motivo dell' ostracismo? La mancata autorizzazione dell' ex moglie Villafane. E sempre ieri, a stretto giro di posta dall'«amico avvocato» Morla, è arrivata anche la dichiarazione di Alfredo Cahe, per 33 anni medico personale di Maradona, che alla tv ha lanciato accuse circostanziate contro la famiglia: «Diego non è stato curato come si doveva. Non doveva andare al Tigre (la casa presa in affitto dov' è stato trovato senza vita, ndr) ma in una struttura diversa, come quando noi lo abbiamo portato a Cuba, dove le cose sono state fatte molto bene». Era gennaio 2000 quando Maradona rischiò di morire ad appena 39 anni per un infarto simile a quello fatale dell' altroieri, dopo interminabili feste a base di coca ed alcol a Punta del Este. Cahe era il medico di Diego e già all' epoca, dopo avergli salvato la pelle, allertò il suo manager di allora Guillermo Coppola e la moglie Claudia con una frase, secca ma premonitrice: «O la droga o la vita». L' eredità di Diego sarà una battaglia epica tra la già citata ex moglie Claudia, le due ex fidanzate Veronica Ojeda e Rocio Oliva, e i cinque figli sinora riconosciuti, Diego Jr, Dalma, Giannina, Jana e Diego Fernando. Claudia era la ragazza dell' adolescenza, da cui ha avuto due figlie, Gianina e Dalma. Poi un centinaio di battaglie legali, lotte familiari turbolente e un elenco ancora provvisorio di altri figli riconosciuti (con il test del DNA molte sono le richieste post mortem in Sudamerica). Il matrimonio con Claudia era saltato quando la giustizia aveva dimostrato che Diego era anche padre di altri due figli e di un' altra figlia, tutti con donne diverse. Inoltre ci sono attualmente uno stuolo altri bambini le cui madri hanno chiesto nei tribunali di mezzo mondo la paternità di Maradona. Anche gestire i conti miliardari e gli affari in giro per il globo di Diego era una mission impossible. Decine gli avvocati suoi amici fino a quando il rapporto non si interrompeva seguendo il solito refrain da soap, ovvero con discussioni e litigi infiniti in tv. Alla fine della travagliata storia di vita Diego ci è arrivato senza finire in povertà, come accaduto ad altri grandi del calcio, ma la sua eredità (quella nota, sia chiaro) è ben lungi dalla sua celestiale traiettoria pallonara. Maradona si lamentava da tempo di due suoi rappresentanti legali passati, Jorge Cyterszpiller e Cóppola. Quest' ultimo ai bei tempi lo accompagnava ovunque, erano inseparabili e il 10 lo appoggiò anche quando finì in prigione per droga. Dio solo sa quanto hanno lucrato gli amici del Pibe de Oro, molti clan su cui varrebbe la pena fare una serie di Netflix assicurano a Buenos Aires.
Da leggo.it il 14 dicembre 2020. Con la scomparsa di Maradona si è scatenata una piccola guerra per la sua eredità. I figli riconosciuti sono cinque, altri due chiedono la prova del dna e uno di questi, Santiago, è intervenuto a “Live Non è la D’Urso” sostenendo di voler ottenere la riesumazione della sua salma. La lotta all’eredità di Maradona, che pare si aggiri sui 75 milioni di euro, ha fatto nascere tensioni e uno dei figli non riconosciuti, Santiago, si sente ormai costretto dalla situazione a richieste la riesumazione della salma per far eseguire la prova del Dna: “Sono suo figlio – ha spiegato in un servizio ai microfoni della trasmissione di Barbara D’Urso – e lo sento da quando ho tre anni. Mia madre mi ha anche portato a casa sua per presentarmelo, poi nel 2004 è partito il processo per il riconoscimento”. Ora la sua battaglia continua: “Quello che voglio fare è lottare per la mia identità, per mia madre. Non vorrei far riesumare la sua salma, ma se la legge dice che questo è un passaggio da fare, lo farò”.
LA POLITICA
Lettera ad Aldo Cazzullo – Corriere della Sera il 27 novembre 2020. Caro Aldo, Maradona è tra i più grandi calciatori d’ogni tempo che ci ha regalato spettacolo ed emozioni irripetibili. Insieme all’uomo fragile, al personaggio discusso, ricorderemo sempre le sue giocate inimitabili, il campione inarrivabile. Domenico Mattia Testa
Premesso che indubbiamente egli è stato un gigante del calcio, ma il fatto di saper dare magistralmente quattro calci a un pallone circoscrive tutto il suo essere. Umanamente era un inqualificabile individuo. Lei che cosa ne pensa? Eugenio Muzio
LA RISPOSTA DI ALDO CAZZULLO. Cari lettori, Maradona è stato molto amato e molto odiato, in vita come in morte. Credo che il modo migliore per onorare la sua memoria sia raccontarlo come era davvero. È stato definito un ribelle contro ogni potere; ma no, dal potere Maradona era attratto. È stato descritto come un’icona della sinistra: ma prima dell’infatuazione per Castro ebbe un ottimo rapporto con Menem, peronista di destra; rivendicava le Malvinas per cui la dittatura sanguinaria di Buenos Aires dichiarò e perse una guerra; a Napoli costeggiò quello che era allora (e in parte è anche adesso) il potere egemone in città, la camorra; e nell’ultima intervista dichiara di sperare in Putin. Ma a uno come Diego non si chiedeva coerenza; si chiedeva stupore. Il suo prodigio era la concentrazione nello stesso uomo di un enorme talento calcistico e di un’enorme personalità. Pure Messi ha un talento quasi soprannaturale, e rispetto a Maradona ha vinto molto di più (ma non il Mondiale); ha pure una bella storia alle spalle, il bambino che non cresceva mai; però non ha un’unghia della personalità di Diego. Messi è fondamentalmente un calciatore. Maradona era un mito. Di Messi non si conosce una donna che non sia la fidanzata della giovinezza; Maradona fu sorpreso da Biscardi alla toilette con l’ospite femminile del Processo del lunedì. Per questo e altri mille motivi la sua morte è diventata la notizia del giorno in tutto il mondo, in piena pandemia. Di solito i campioni muoiono quando si ritirano. La sua è stata un’agonia lunga, a tratti dolorosa, a tratti grottesca, a tratti geniale; come era lui. La sua vita gli assomigliava; e non a tutti è concesso.
Vittorio Feltri, chi era davvero Diego Armando Maradona: "Di sinistra? Non mi interessa, lo considero un padreterno". Libero Quotidiano il 25 novembre 2020. “A me che Maradona fosse di sinistra non interessa nulla”. Vittorio Feltri è intervenuto in maniera magistrale su Diego Armando Maradona, venuto a mancare a soli 60 anni nella giornata di mercoledì 25 novembre a causa di un arresto cardiaco. Il Pibe de Oro è morto a casa sua in Argentina, vani sono stati i soccorsi delle numerose ambulanze che subito si sono precipitati. Il direttore di Libero ha reso omaggio al più grande calciatore di tutti i tempi, ritenendolo quasi d’obbligo indipendentemente da quelle che erano le sue preferenze politiche. “Era un padreterno e come tale lo considero anche ora che non c’è più”, ha scritto Feltri su Twitter, chiosando nel seguente modo: “La politica non conta nulla”. Poco dopo ha aggiunto un altro messaggio per rivelare di essere d’accordo con le parole di Fabio Capello a Sky Sport: “Ha detto cose meravigliose su Maradona che accarezzava la palla, sono d’accordo con lui”.
Cosimo Cito per "la Repubblica" il 27 novembre 2020. Come l'amico Fidel Castro, Maradona è morto il 25 novembre. Come Fidel, Diego era come disse lui, «sinistro in tutto». Di piede, di fede, di cervello. E anche nella sua morte, secondo Massimo Cacciari, Maradona è stato «metafora e mondo».
Una coincidenza, Cacciari, che diventa un segno che li unisce per sempre.
«Oltre al 25 novembre e alla loro amicizia, Fidel e Maradona sono uniti dall'elemento mitologico che ha caratterizzato le loro vite. Si può dire che, consapevolmente o meno, sono state vite intessute sulla costruzione di una dimensione mitologica. Forse anacronistica, fuori tempo rispetto al nostro tempo».
Perché?
«Viviamo l'era della secolarizzazione, della desacralizzazione, e proprio per questo il mito, quando esiste e resiste, emerge con forza straordinaria. Fidel, ma anche Che Guevara e Maradona, hanno agito in campi diversissimi. Ma hanno avuto un forte punto di contatto, ossia l' appartenenza alla cultura latino-americana».
Solo lì, cioè, Fidel, il Che e Diego avrebbero potuto essere "miti"?
«Quella cultura, e la loro mitologia si trovavano, si toccavano e si appartenevano. L' esperienza politica del castrismo si è rivelata non esportabile, ma a Cuba si è caricata di un' enorme funzione, anche tragica. L' appartenenza è una radice, contiene tutto, l' origine e lo sviluppo di un' idea».
La sua umanità, i suoi errori, non ne hanno sminuito il fascino.
«L' essere mito ha bisogno di umanità, di troppa umanità, di errori, del doppio tragico dell' eroe. Apollo è un dio diverso, perfetto, istruito, altero. Maradona era un Ermete, un Ulisse, era callidus , veloce di gambe e di pensiero».
Più che un pubblico, Maradona ha avuto un popolo con sé.
«Nessuno sportivo ha avuto un potere così grande e una grandezza così ingovernabile. Forse solo Muhammad Ali, e come lui Maradona ha vissuto un decadimento fisico che è parso determinato dal destino. Pelé no, lui è un eroe borghese, un calciatore grande e basta. Maradona è stato un capopopolo. Ed è morto in modo tragico, come Che Guevara. Questo lo rende immortale. Non importa se la morte sia stata decisa in qualche modo dai suoi eccessi. Da eroe è stato vinto da un fulmine divino».
Contro l'Inghilterra nell' 86 l' esibizione più alta del mito Diego?
«Certamente: i due gol, quello di mano e il mitico slalom fino alla porta avversaria, sono stati la rivelazione della doppiezza necessaria a farne un mito: la furbizia e l'irraggiungibilità».
Ha avuto un potere politico?
«Non c' è mai vera, grande politica senza il mito. E Diego ha radunato folle, costruito consenso».
Maradona sarebbe stato possibile senza Napoli?
«Ha segnato Napoli, e ha dato il via, allora, a un periodo di grandi speranze. C' erano fermenti culturali in città che crescevano di pari passo. Diego senza Napoli non sarebbe stato Maradona, nel bene e nel male. Altrove non sarebbe diventato ciò che è stato».
Lei, da tifoso del Milan, ha anche molto sofferto a fine anni Ottanta contro il Napoli di Diego.
«Sono stati anni indimenticabili. C'era tanta suggestione nel dualismo tra Maradona e Van Basten, tra la follia sudamericana e il calcio cartesiano di Sacchi. Maradona era il bello, era impossibile tifargli contro. Era stupendo. Ed era stupendo quel calcio».
Da corrieredellosport.it il 15 dicembre 2020. Diego Armando Maradona in campo rasentava la perfezione, un po' meno fuori dal rettangolo verde. Tante le disavventure che hanno visto il Pibe de Oro protagonista e che ne hanno macchiato l'immagine. Dopo aver mostrato il meglio di sè con la maglia del Napoli, dove è diventato un vero e proprio Dio, Diego è approdato al Siviglia. In Spagna conoscevano il grande talento del Diez, ma anche il suo essere poco avvezzo alle regole, tanto che decisero di assumere un investigatore privato, che divenne la sua ombra. A ricevere l'incarico fu un certo Charlie, che in un'intervista a Vox Populi rivela: "Abitava in uno chalet dove c'era solo una via d'uscita. Quindi abbiamo messo una macchina lì e ci siamo alternati. Quella casa era come El Corte Inglés. C'erano 18 o 20 tra italiani e argentini che andavano e venivano. Sono in strada da 30 anni e so che persone erano. È stato un disastro. Conduceva una vita non usuale per un atleta".
Cattive amicizie. Poi un accenno alle cattive amicizie: “Era un caro amico di uno di una steakhouse argentina. Aveva circa 15 italiani, il suo manager e dieci o dodici stronzi dietro di lui. Maradona era stupido perché era un uomo buono, ma aveva un sacco di parassiti dietro di lui che gli volevano succhiare tutto". Charlie racconta poi gli escamotage della sua squadra per entrare completamente nella sfera personale di Maradona. "Sono riuscito a infiltrare alcuni amici nel clan. Così abbiamo teso loro la trappola. Diego tornava alle cinque del mattino e alle dieci doveva essere al centro sportivo per allenarsi”. Poi El Pibe de Oro decise di lasciare il Siviglia, e fu in quel momento che tutto il materiale ricavato servì al club che rese Maradona al corrente di ciò che era successo mostrandogli una fitta documentazione e dicendogli: "'Guarda, abbiamo questo, questo e questo. Non sei andato ad allenarti per questo, questo e questo. Hanno risparmiato 150 milioni di pesetas grazie a quel materiale”, conclude Charlie.
IL MITO
Maradona voleva un statua con scritto “anche io sono napoletano”. Notizie.it il 12/12/2020. "Ho manifestato una volontà di Diego: quella di avere una statua a Napoli", ha confessato Stefano Ceci. Stefano Ceci, ex manager di Diego Armando Maradona, è intervenuto ai microfoni di Radio Kiss Kiss Napoli svelando l’ultimo desiderio del suo assistito: una statua. Ma non una statua qualunque, ma una con la scritta: “Anche io sono napoletano”. “Lo stadio di Napoli intitolato a Maradona mi ha emozionato. Intitolargli l’impianto di Fuorigrotta era quasi un atto dovuto. Ho manifestato una volontà di Diego: quella di avere una statua a Napoli – continua Stefano Ceci -. Però “una statua a Diego è un atto dovuto”. “Sono molto riservato e per questo sono riuscito a stare 20 anni al fianco di Diego e ci tengo molto che questa iniziativa vada in porto – ha proseguito l’ex manager, che poi confessa un suo sogno: “Messi al Napoli? Sarebbe un omaggio a Diego. Però da tifoso azzurro mi tengo stretto il ricordo indelebile ed irripetibile di Diego. Sotto la statua ci sarà una frase che Diego mi ha consegnato e che sarà sul piedistallo: "Ricordatevi che anche io sono napoletano"”. Maradona è scomparso il 25 novembre 2020, e la notizia della morte aveva provocato reazioni da tutto il mondo dello sport, non solo del calcio. Il suo rivale di sempre, Pelè, ha voluto rendergli omaggio: “È triste perdere amici in questo modo. Sicuramente un giorno giocheremo a calcio insieme in cielo”. Mentre Alberto Fernandez, presidente Argentina aveva dichiarato: “Grande tristezza per tutti gli argentini, che si moltiplica per mille pensando a cosa rappresentava per il popolo. Mi hanno scritto il presidente messicano, quello spagnolo, per farvi capire cosa era Diego nel mondo. Ha regalato allegria a tutti“. El pibe de oro è deceduto a causa di un arresto cardiocircolatorio, all’età di 60 anni compiuti lo scorso 30 ottobre.
Stadio Maradona a Napoli e non solo: gli impianti intitolati a grandi campioni. Da sport.sky.it il 05 dicembre 2020. La Giunta comunale ha dato il via libera per intitolare lo stadio di Napoli a Diego Armando Maradona, leggenda che ha segnato la storia del club e della città. Non sarà il primo impianto dedicato nel mondo al Pibe de Oro, così come ci sono altri stadi che omaggiano grandi campioni del passato (anche quello più recente) o allenatori che hanno lasciato un'impronta significativa. Ecco 20 dei più rappresentativi.
STADIO MARADONA, Napoli - Il prossimo, come anticipato, sarà l'impianto partenopeo che da San Paolo diventerà "Stadio Maradona". El Pibe "ha incarnato il simbolo di riscatto di una squadra alla quale, negli anni più bui, ha dimostrato che è possibile rialzarsi, vincere e trionfare, offrendo al tempo stesso un messaggio di speranza e di bellezza all'intera città perché, attraverso le vittorie calcistiche del fuoriclasse argentino a vincere non è stata soltanto la squadra del Napoli, ma l'intera città che si identifica pienamente in lui" come si legge nella delibera
STADIO MEAZZA, Milano - L'impianto che ospita le partite di Inter e Milan è dedicato al grande calciatore, protagonista tra la fine degli anni '20 e la fine degli anni '40. Considerato tra i migliori della sua epoca, è stata una bandiera nerazzurra con la quale ha vinto Scudetti e titoli di capocannoniere. Campione del mondo due volte con la Nazionale, ha giocato anche per un paio d'anni anche la formazione rossonera. Lo stadio di San Siro fu intitolato a lui dopo la sua morte, avvenuta il 2 marzo 1980
STADIO LUIGI FERRARIS, Genova - L'impianto di Marassi è intitolato allo storico ex capitano del Genoa, protagonista assoluto dei primi campionati di calcio svolti in Italia. Lo stadio, che risale agli anni '10 dello scorso secolo, subì un processo di ristrutturazione nel 1932 e il 1° gennaio 1933 fu inaugurato con il nuovo nome, in omaggio al calciatore deceduto durante la prima guerra mondiale
STADIO GRANDE TORINO, Torino - A essere omaggiati non sono solamente singoli calciatori, ma anche un'intera squadra. È il caso dei granata che, dal 2016, hanno intitolato il vecchio Comunale del capoluogo piemontese alla formazione scomparsa nel 1949, nella tragedia di Superga. Una squadra in grado di dominare in Italia e non solo, fermata da un beffardo destino. Sia il Toro che la Juve hanno utilizzato quest'impianto nel corso degli anni, ma dal 2011 ci giocano solamente i granata
STADIO ROMEO MENTI, Vicenza - Anche ai singoli calciatori venuti a mancare nella tragedia di Superga sono intitolati alcuni stadi in Italia. È un esempio il Romeo Menti del Vicenza, formazione nella quale l'ex attaccante ha esordito nella sua carriera. Allo stesso giocatore è dedicato lo stadio della Juve Stabia (altro club in cui ha militato), così come l'impianto di Brescia è in omaggio a Mario Rigamonti, altro protagonista del Grande Torino dopo una carriera cominciata con i lombardi
PUSKAS ARENA, Budapest - Calciatore leggendario del Real Madrid e dell'Ungheria, ha segnato la storia tra gli anni '40 e gli anni '60, vincendo tutto, a suon di gol, a livello di club e raccogliendo trofei anche con la Nazionale. Questo stadio, riservato solo alle partite della selezione dell'attuale Ct Marco Rossi, è stato inaugurato nel novembre 2019 e ha sostituito il vecchio impianto, costruito all'inizio degli anni '50 e che, nel 2002, era stato sempre intitolato a Puskas
JOHAN CRUYFF ARENA, Amsterdam - Altro impianto meraviglioso dedicato a uno dei più grandi di sempre. L'inaugurazione dell'Amsterdam Arena risale al 1996, ma l'intitolazione al tre volte Pallone d'Oro è arrivata nel 2018 (con un anno di ritardo a causa di questioni burocratiche). Il giusto omaggio al giocatore che ha segnato un'epoca con l'Ajax, il Barcellona e l'Olanda, rivoluzionando per sempre il calcio
STADE RAYMOND KOPA, Angers - Inaugurato oltre un secolo fa, questo stadio rende omaggio al terzo Pallone d'Oro della storia. Esterno francese venuto a mancare nel 2017, è stato uno degli interpreti principali del Real Madrid che ha dominato in Europa alla fine degli anni '50. La sua carriera ha avuto inizio proprio ad Angers, dove gli è stato intitolato l'impianto dopo la sua morte
ESTADIO ALFREDO DI STEFANO, Madrid - In teoria questo sarebbe un impianto riservato alla formazione giovanile dei Blancos, ma a causa dei lavori di ristrutturazione in atto al Santiago Berbabeu (omaggio nei confronti del presidente del club nell'epoca d'oro) il Real Madrid sta giocando quest'anno nello stadio di Valdebebas, intitolato a uno dei più grandi cannonieri della storia. Primo Pallone d'Oro di sempre (poi vinto anche una seconda volta) ha conquistato 22 trofei di squadra
ERNST HAPPEL STADION, Vienna - Omaggi a grandi calciatori, ma non solo: c'è chi ha scritto la storia dalla panchina, nelle vesti di allenatore. È il caso di Ernst Happel, austriaco capace di vincere in quattro campionati diversi e trionfare in Coppa dei Campioni con due club differenti. A lui è intitolato il principale impianto di Vienna che ospita le gare della Nazionale e qualche finale di Coppa
ESTADIO DIEGO ARMANDO MARADONA, Buenos Aires - Quello di Napoli non sarà il primo impianto intitolato a Maradona. Nella capitale argentina, infatti, c'è già lo stadio dell'Argentinos Jrs (la squadra nella quale ha esordito da professionista) che rende omaggio a Diego. Costruito nel 1940 e poi ristrutturato all'inizio degli anni 2000, ha assunto la denominazione attuale nel 2004
ESTADIO MARIO ALBERTO KEMPES, Cordoba - Altro eroe argentino in grado di vincere un Mondiale è stato lui, capocannoniere e miglior giocatore dell'edizione 1978, dove si rivelò decisivo segnando anche in finale contro l'Olanda. Fu costruito proprio in occasione di quella manifestazione e dal 2010 è stato intitolato all'ex attaccante. Oggi ospita - oltre ad alcune gare della Nazionale - le partite più importanti di Belgrano, Instituto, Racing e Talleres
ESTADIO REI PELÈ, Maceió - Anche il grande "rivale" di Maradona come calciatore del secolo ha uno stadio a lui intitolato. La leggenda del calcio brasiliano, unico in grado di vincere 3 Mondiali nella storia, è stato omaggiato con un impianto di piccole dimensioni (meno di 20 mila posti) a Maceió, Alagoas e ospita le partite locali del Clube de Regatas e dell'Alagoano
ESTADIO NACIONAL MANÉ GARRINCHA, Brasilia - Decisamente più imponente l'impianto con cui è stato omaggiato a un altro storico calciatore verdeoro, protagonista tra gli anni '50 e '60 e considerato uno dei migliori dribblatori di sempre. Al due volte campione del mondo è stato intitolato nel 2010 lo stadio della capitale, ricostruito in occasione del Mondiale 2014
ESTADIO NILTON SANTOS, Rio de Janeiro - Questo impianto è stato inaugurato, invece, nel 2007 e ospita le partite del Botafogo, uno dei club più prestigiosi del Brasile. La stessa squadra con cui ha vissuto tutta la sua carriera Nilton Santos, uno dei terzini più forti al mondo negli anni '50. Compagno di Pelé nella Seleçao, ha vinto anche lui due volte il Mondiale
DWIGHT YORKE STADIUM, Bacolet - A pochi chilometri da Scarborough, capitale del Tobago, c'è uno stadio dedicato all’attaccante che ha regalato la prima storica qualificazione a un Mondiale alla Nazionale del Trinidad e Tobago. Centravanti straordinario degli anni '90, ha costruito le maggiori fortune della sua carriera con la maglia del Manchester United, diventando uno dei protagonisti nell'anno del Treble
ESTADIO MARCELO BIELSA, Rosario - Gli omaggi non sono riservati solo agli allenatori che non ci sono più, ma anche a protagonisti attuali che continuano a scrivere la storia. Un esempio è Marcelo Bielsa che, al Newell's Old Boys, ha debuttato sia da calciatore che nelle vesti di mister. Un'identità forte che il club e la città di Rosario hanno voluto esprimere intitolandogli lo stadio, il vecchio El Coloso del Parque, nel 2010
STADE DIDIER DESCHAMPS, Bayonne - Con la Nazionale francese è riuscito a vincere un Mondiale sia da calciatore che da allenatore. Un'impresa straordinaria per l'ex centrocampista, tuttora Ct dei Bleus, e che gli è valso uno splendido omaggio nell'impianto di Bayonne. A lui è intitolato da un paio d'anni il piccolo stadio dove gioca l'Aviron Bayonnais, club francese che milita nel campionato National 3
THE GUUS HIDDINK STADIUM, Gwangju - Impianto in Corea del Sud da quasi 50 mila posti, costruito in occasione del Mondiale 2002, e intitolato a Guus Hiddink. Il motivo? Fu proprio l'allenatore olandese a guidare la Nazionale sudcoreana al 4° posto in quell'edizione giocata da Paese ospitante (insieme al Giappone). E così fu mantenuta la promessa stipulata in caso di vittoria contro la Spagna nei quarti di finale
STADE DIDIER DROGBA, Levallois - Anche calciatori che hanno smesso da poco hanno visto intitolarsi degli stadi. Nel caso dell'ex centravanti ivoriano, l'omaggio è arrivato mentre era ancora in attività. È accaduto, infatti, nel 2010 e a dedicargli l'impianto è stato il Levallois Sporting Club, formazione nella quale ha mosso i primi passi
ESTADIO FERNANDO TORRES, Fuenlabrada - La stessa cosa è successa al Nino, a cui nel 2011 è stato intitolato lo stadio di Fuenlabrada, città nativa dell'ormai ex attaccante (uno dei pochi nella storia in grado di vincere tutti i trofei di squadra), e che oggi ospita le partite della squadra locale impegnata in Segunda Division spagnola
Grazie Maradona, con te eravamo tutti Napoleone. Paolo Sorrentino per La Repubblica il 14 dicembre 2020. Tutto quello che so è quello che mi ricordo. E io mi ricordo che c'è stata una stagione irripetibile, un momento in cui la disinvoltura ha avuto una precisa corrispondenza con la libertà. Valeva per la giovinezza della mia generazione e di quelle limitrofe. Valeva per Maradona. Lui era disinvolto e, dunque, libero. E anche noi. Adolescenti, ragazzi, giovani, adulti e anziani che ritrovarono una nuova, inattesa fanciullezza, almeno di domenica. Mio padre, amareggiato e deluso da quando avevano licenziato l'allenatore Vinicio, suo idolo, non aveva più messo piede al San Paolo. Tornò allo stadio dopo anni, per vedere la prima partita di Maradona. Io andai con lui. Pioveva a dirotto. Arrivò dalle nuvole un pallone a campanile, intriso d'acqua, pesante come un tavolino da salotto. Maradona lo incollò sul piede come se fosse una cosa di routine. Gli avversari non si mossero, rimasero tutti a guardare. Era meglio imparare che provare a contrastare. Avevano appreso in un istante la lezione di Amiel che tutti dimenticano: "Ogni resistenza diretta sfocia in un disastro". Con altrettanta disinvoltura, Maradona passò il pallone in un corridoio impossibile. Non si mosse nessun compagno, perché nessun giocatore di calcio, all'epoca, credeva che si potesse fare una cosa del genere. Il genio era solo, come sempre. Mio padre si irritò. Disse: "Non lo capiscono" e, di nuovo, non mise più piede allo stadio. Era l'inizio, ma sarebbe andata quasi sempre così. Non lo capivamo. Perché veniva da un altrove. O troppo lontano o troppo vicino. Poi, le altre domeniche, appuntamento all'angolo alle tredici con un compassato, autorevole ingegnere di nome Giampaolo Galluzzi. Durante la settimana professionista irreprensibile. La domenica un pazzo incontenibile. Ci infilavamo in sei nella sua 850, che a me è sempre parsa la macchina più bella del mondo, con quello strano contachilometri ad arco e spie colorate grandi come piccoli televisori. Giunti a Fuorigrotta, si passava a prendere l'amante del nonno di Giampaolo Galluzzi. Doveva venire alla partita con noi. Portava fortuna. L'ingegnere le metteva in mano due pacchi di sale che, al momento dell'entrata in campo delle squadre, lei doveva lanciare sulla folla. La gente, inondata di sale nella schiena, tra i capelli, protestava e ci insultava. Galluzzi, rischiando il linciaggio, urlava senza pietà: "Seccie, iettatori", ci credeva veramente e continuava a scagliare, con una violenza da invasato prossimo all'infarto, manciate di sale grosso. Noi ridevamo e ci nascondevamo, terrorizzati dalla rissa che si sfiorava ogni domenica. Questa, si è chiamata spensieratezza o, se preferite, felicità. Napoli, anni ottanta. Rivedo commosso, sgranate dall'usura del vhs, i pirotecnici rotolamenti di gioia di quegli anni. Eravamo proprio così, disinvolti, liberi, a nostro agio, infiltrati in un'estatica sospensione, ingenui ed aggrappati a scomodi sellini di motorini Piaggio con e senza variatore. Vespe truccate e rumorose. Qualcuno aveva il Caballero, un'orgia chiassosa, lo possedevano solo spostati importanti. Smog dappertutto. Furti, urla, risse e vacanze a basso costo. Messe in scena volgari e sublimi. Il sopruso dietro l'angolo, incauto, sempre impunito. Eppure non si poteva fare a meno di essere immersi nella vita. E unici. La gente di Napoli, parliamoci chiaro, si è sempre sentita unica ed esclusiva. Snob o popolare, furba o menomata, veloce o indolente, ma sempre attraversata da una ferrea, stravagante, consapevolezza di essere un mondo a parte. I napoletani lo dicono in continuazione: "Noi napoletani...", il resto della frase sottende sempre lo stesso concetto: voi altri non siete napoletani, dunque siete solo gente comune, appiattita, prevedibile, onesta, convenzionale. Solo che questa presunta consapevolezza non aveva da anni una cassa di risonanza adeguata, non travalicava il casello autostradale di Caserta. E, dunque, diventava una sterile ostentazione da matti, come quelli che ripetevano in manicomio: "Io sono Napoleone". Quando arrivò Maradona, trovammo la nostra cassa di risonanza. Lui, a ogni passo, a ogni strattone di qualche ragazzo esaltato, confuso e assordato, per strada o su un campo di calcio, con un sorriso timido e antico, sembrava dirci: "Farò sapere a tutto il mondo che voi napoletani siete unici, esclusivi e bellissimi. Siete tutti Napoleone". Noi ci abbiamo creduto e ci crediamo ancora. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Ci ha fatti uscire dal manicomio e ci ha resi, allo stesso tempo, fantasmagorici e possibili. O forse ci ha illusi. Ma non ha nessuna importanza. Questa è una distinzione inutile, oziosa, che i moralisti ammalati di realismo non possono comprendere neanche con la buona volontà e i master nelle università importanti. Perché Maradona ci ha instillato un'arte complessa, disumana e inafferrabile: l'eterea, fragorosa, irrinunciabile sapienza del gioco. Spiegandoci dal primo momento che arte, vita e illusione sono la stessa cosa. E che difetto e fragilità, velocità di pensiero e adduttori grandi come condutture, ignoranza e intelligenza, sono tutti parte dello stesso, meraviglioso, immensamente perdonabile e inestimabile groviglio chiamato avventura umana. Maradona, come tutti i talenti superdotati, era spudorato, fragile e commovente. Volevamo abbracciarlo tutti e lui si portava addosso il peso mostruoso, insaziabile, di tutti i nostri abbracci. Un'altra forma di solitudine. Un'altra forma di dolore, appesantita da un amore scomposto che, in un baleno, si fece idolatria. È andata come è andata, ma Maradona ci ha liberati, a noi napoletani, con un sorriso triste, dalla camicia di forza e ci ha resi leggeri almeno per un po'. Lui sfiorava il pallone con nonchalance, indulgenza ed eleganza e ci consegnava, agli occhi dell'eternità e dell'universo, la stessa illusione: la disinvoltura. Questo potentissimo sinonimo di libertà. Lui era noi perché noi eravamo da sempre come lui, solo che gli altri, lassù, in quello sterminato nord del mondo, operoso, laborioso ed efficiente, non lo sapevano. Ora, grazie a Maradona, erano tenuti a saperlo. Non potevano sottrarsi alla conoscenza di una novità sinistra, inquietante: a Napoli eravamo felici. Perché un maestro geniale, debole, umano, troppo umano, ci raccontava ogni settimana, con grazia, quello che sapevamo ma che, prima di lui, non eravamo in grado di vedere: la forza prorompente dello spettacolo, la grazia del ballo col pallone, l'eroismo delle cadute nel fango, la tentazione della strafottenza, la liberazione dal vittimismo, la possibilità di vincere non per poter dire di essere arrivati primi ma per poter avere la legittima giustificazione di gioire, senza colpe, per un tempo indeterminato, autorizzati ad abbandonarci sugli scogli come in una lunghissima estate senza biglietto di ritorno, addirittura ci legittimava a bazzicare a piccole dosi la retorica, facendoci sentire un popolo. Uniti. Alto e basso. Ricchi e poveri. Afflitti e spensierati. L'arte non ammette distinzioni tra i suoi ammiratori. Eravamo tutti uguali. Eravamo tutti Napoleone. Piccoli e imprevedibili come l'imperatore Maradona, liberi e irresponsabili, disinvolti e sorridenti. La conosco l'obiezione: eravate felici perché eravate giovani. No, non è così. Eravamo pienamente ragazzi, perché tra noi c'era un altro ragazzo che si chiamava Maradona. Ora, la nostra giovinezza è svanita tanto tempo fa, solo ratificata, ufficializzata dalla sua morte. Straziata dalla sua fatica di vivere. Ma non fa niente. Perché noi rimarremo per sempre commossi dal suo grande, timido sorriso, che non se ne andrà mai più.
Diego: l’uomo che non ha vissuto neppure un attimo di vita normale. Gennaro Malgieri su Il Dubbio il 5 dicembre 2020. In sette giorni, il cordoglio s’è consumato ed finito in una farsa domestica, piuttosto volgare dai risvolti polizieschi e giudiziari. Una settimana fa il mondo piangeva la scomparsa di Diego Armando Maradona. In sette giorni, il cordoglio s’è consumato ed finito in una farsa domestica, piuttosto volgare dai risvolti polizieschi e giudiziari. Dovunque il Pibe de oro si trovi, non potrà che restare disgustato dalla danza macabra che si è accesa intorno alle presunte responsabilità della sua morte e dalla irriverente disputa attorno alla sua eredità. Medici e infermiere, mogli, compagne, figli e figlie, amici interessati ed ingenui membri della corte faraonica del Fenomeno, avvocati e periti, autisti di ambulanze e personale domestico assortito, una tribù insomma, si rinfacciano accuse allucinanti e su di ognuno ricadono massicce dosi di fango che seppelliscono perfino la memoria dell’estinto. Non doveva finire così, ma era probabile che in questo modo andasse a finire. Tutta la tumultuosa vita di Maradona, del resto, è stata segnata da contrapposizioni feroci tra clan che si disputavano i suoi favori, da manager o presunti tali che a sua insaputa vendevano la sua immagine, ne gestivano frequentazioni e ne attizzavano le inimicizie, ci si meraviglia ora, dopo una morte che presenta indiscutibili lati oscuri, se Maradona deve subire l’onta della espropriazione della sua stessa fine per ragioni che nulla hanno a che fare con la sua volontà? Saremmo a nostra volta ingenui se ci meravigliassimo di un epilogo tanto sconcertante: sopra i fiori e le casacche esibite del campione si affastellano ora le carte bollate, le accuse infamanti, le ipotesi più o meno credibili sulla sua fine solitaria e sull’ imperizia di chi avrebbe dovuto vigilare su di lui invece di lasciarlo solo, come si dice. Non ci sorprende nulla della vicenda extra- calcistica di Maradona. Segnato da un destino bizzarro e perfino crudele, si sarà rassegnato anche lui a vedersi nuovamente, e chissà per quanto, al centro di una tragica pièce affollata di attori che si lanciano accuse veementi dopo aver pianto un solo giorno il fragile uomo, già “mano de Dios”, la cui avventura terrena si è conclusa – se è vero quel che si mormora – nello squallore più assoluto di una dimora per ricchi, lontana dalla povera e malmessa Villa Fiorito, provincia di Lanus, dove nacque e, come sessant’anni fa, ancora non arriva l’acqua e le fogne sono indegne delle peggiori favelas sudamericane, un posto dimenticato dal quale l’uomo leggendario se ne andò via, il più lontano possibile, a celebrare i suoi trionfi. Là, in un barrio esclusivo, denominato Tigre, l’ombra del corpo di Maradona si aggira per le stanze vuote, il giardino fiorito, le case abitate da anziani signori che vi trascorrono la primavera argentina. E la sua ombra chiama il medico curante e l’avvocato amico, coloro che avrebbero dovuto vegliare sulla sua incolumità e misurargli i battiti cardiaci, gli affetti svaniti, probabilmente nascosti lontano, a centinaia di chilometri da quel posto per vecchi milionari, nella rutilante Buenos Aires spaventata dal Covid eppure effervescente. Ma non risponde nessuno. Forse sono rimaste una bottiglia di whiskey e tante scatole di psicofarmaci nei pressi del letto di Maradona che da giorni non si alzava, da quando dopo una caduta in casa, a pochi giorni dalle frettolose dimissioni dall’ospedale dove era stato operato al cervello, era precipitato in una sorta di deliquio, e nella sua solitudine moriva un poco alla volta senza che nessuno se ne accorgesse. Lui, il più grande, il più amato, il più osannato, il più brillante interprete della poesia del fútbol, un eroe del “realismo magico”, figura borgesiana per eccellenza, poteva finire solo, disperato e stanco come un povero cane di Villa Fiorito? Non era scritto, neppure lo si ipotizzava quando i dèmoni della cocaina lo possedevano, che la sua morte sarebbe stata quella di un protagonista di un romanzo russo dell’Ottocento: Dostoevskij avrebbe potuto rappresentarlo, ma gli scrittori di cose calcistiche sudamericane, come Osvaldo Soriano o Eduardo Galeano, mai avrebbero immaginato un finale così triste, così “argentino”, per l’uomo che aveva esaltato le platee di tutto il mondo. E noi che abbiamo pianto vedendo scorrere le immagini di Dieguito centinaia di volte dopo l’annuncio del decesso, affrontiamo sconcertati questa commedia tragica animata da personaggi che hanno esibito il dolore e la felicità dell’uomo che ha vissuto molte vite, prevedendole, probabilmente, esclusa una: quella segnata dal disamore e dall’indifferenza. L’infermiera che stazionava davanti alla stanza di Maradona da lui licenziata, ma “costretta” a restare dai familiari per controllare l’assunzione dei farmaci del paziente, ha dichiarato in merito alla caduta in casa, come riporta il Corriere della sera: “Ha battuto la testa sulla destra, il lato opposto a dov’era stato operato. Non un colpo forte. Però è rimasto tre giorni così, da solo. Rintanato. Non guardava nemmeno la tv. Nessuno che lo visitasse, l’aiutasse, gli facesse una risonanza magnetica. Nessuno che avvertisse la clinica Olivos. Lui non era in grado di decidere, ma sarebbe potuto andare nell’ospedale più lussuoso del mondo. Non fosse rimasto in quel luogo, inadatto, probabilmente non sarebbe morto”. Un’accusa terribile, agghiacciante. Dopo le folle oceaniche che lo hanno pianto, Maradona “celebra” l’estremo suo funerale non in un tempio consacrato, lontano dalle bandiere delle sue squadre, nell’indifferenza di chi una settimana fa lo osannato in tutte le piazze dove la sua storia si è dispiegata, negli stadi vuoti d’Europa e d’America, ma tra le illazioni, le bugie, le mezze verità che senza pietà lo seppelliscono una seconda volta, in attesa che un esame tossicologico ( anche questo ci mancava) racconti qualche brandello di verità. Mi ricorda la sua vicenda altri calciatori, sudamericani perlopiù, che hanno avuto un destino analogo, dopo i trionfi dei giorni splendenti. Due in particolare: l’uruguaiano José Luis Andrade ed il brasiliano Mané Garrincha. Il primo, alcolizzato e povero, lo trovarono morto in un fetido vicolo di Montevideo aggrappato ad una scatola di scarpe contenente le sue medaglie: aveva amato ed era stato amato da Josephine Baker. Il secondo, se ne andò a quarantanove anni, campione del mondo, dopo aver dissipato se stesso, con la complicità di donne che lo divorarono e dell’alcool che lo consumò, in condizioni di indigenza e degrado, malato di cirrosi epatica e afflitto da un edema polmonare che fu il colpo di grazia infertogli da un destino crudele. Distruttive passioni, diranno i moralisti. Ma ai geni e agli artisti non si applicano le categorie “borghesi”. Come a Maradona. Neppure la sua morte poteva essere silenziosa in un piccolo spazio. Sarebbe stato un controsenso; o meglio un non- senso per l’uomo che non ha vissuto neppure un attimo di vita normale.
Maurizio de Giovanni per corriere.it il 26 novembre 2020. Non è vero. Non ci credete, vi prego. È una notizia falsa, una di quelle maledette fake che inquinano la percezione della realtà, e conducono in un territorio che è pura follia. Non credete a questa cosa. Anche in un anno maledetto che si è portato via centinaia di migliaia di persone, che ci ha privati del sorriso di Gigi Proietti, della simpatia di Franca Valeri, dei sogni di Luis Sepulveda e del fascino di Sean Connery, è assolutamente impossibile che sia accaduto anche questo. Accettare tale notizia significherebbe credere che il grande ribelle, l’uomo che seppe inventare daccapo un gioco che si credeva completo, il vincitore nella terra dove non si è vinto mai possa cadere, sia mortale, abbia un corpo martoriato da una vita così intensa da valerne dieci o cento tanto da chiudere gli occhi e da smettere di respirare. Impossibile. Perché stiamo parlando di una persona che da sola, in maglietta e calzoncini, seppe ispirare una rivoluzione che abbatté i consolidati palazzi del potere, uno sberleffo in faccia a chi credeva che mai e poi mai sarebbe successo che in uno sport di squadra uno da solo, senza nemmeno un fisico bestiale o le sembianze di un supereroe, fosse capace di portare alla vittoria sgangherate armate altrimenti senza speranza. Come credete possa morire, uno così? Uno che sotto gli occhi del mondo intero ripagò un nemico di una guerra di terra e di mare, per combattere il quale erano morti tanti ragazzi argentini, alzando una mano compensativa della differenza di altezza del portiere e avendo poi la furba intelligenza di riferire alla «mano de Dios» quell’invenzione. Uno che D10s venne chiamato da allora, giocando sul numero di maglia e sulla divinità del suo gioco, come pensate che possa cedere a un misero grumo di sangue in testa? Uno che legittimò quel gesto pochi minuti dopo, facendo ingoiare le recriminazioni ai soloni brontolanti coi dodici tocchi del gol più bello della storia del calcio, come pensate possa chiudere gli occhi? Non è possibile lasciarlo andare. Perché un cuore così grande da contenere tutti i bambini del mondo, da rotolarsi nel fango in un’amichevole al culmine della propria gloria, sfidando la sorte e gli infortuni, per trovare i soldi per operarne uno gravemente malato, non si fermerà mai e continuerà a battere nei sogni di ogni innamorato del pallone, perché del pallone è l’essenza stessa. È una notizia falsa. Perché l’uomo che è il cittadino più illustre di una città nella quale solo per caso non è nato non può non tornarci, per essere ancora abbracciato e per ricevere l’amore e i sorrisi anche di quelli che sono nati dopo e che non lo hanno visto disegnare poesia sull’erba, e poi non tacere le proprie scomode opinioni per tutto il resto della vita, pane al pane, essendo sempre generoso oltre il limite dell’autolesionismo. Non può non tornare nella città che gli giustifica qualsiasi eccesso in nome di un amore immenso, che è un decimo della gratitudine che essa deve a un uomo che ha insegnato che si può vincere essendo se stessi, difetti e ferite inclusi, perché mai è esistita e mai esisterà un’imperfezione così meravigliosa e gigantesca. Perciò per favore, non credete a questa assurda notizia. Noi aspettiamo di vederlo tornare, più ribaldo e onesto che mai. L’amore, sapete, non muore. Mai.
Giulio Di Feo per gazzetta.it il 6 dicembre 2020. Nemmeno Maradona forse si aspettava di diventare Maradona. E nel vortice che sono stati i suoi sessant’anni c’è una frase che lo riassume: “Io volevo solo giocare, e invece guarda cos’è successo…”. Cos’è successo si desume anche da altre frasi, che nel recente profluvio di celebrazioni del dio pallone non avete letto. Ne abbiamo recuperate per voi.
1 - “Voi sapete cosa fanno tutti i calciatori quando una palla arriva dall’alto ma non abbastanza alta per stopparla di petto: ne arrestano la caduta col piede, la lasciano cadere e subito dopo la calciano o la appoggiano a un compagno. Ma quel pibe, e dico pibe perché non sapevo ancora il suo nome né glielo avevo chiesto, fece un’altra cosa: domò la palla in aria col sinistro e, senza lasciarla cadere, con lo stesso piede già in aria la ritoccò per fare un pallonetto a un difensore, che rimase lì come una statua. E poi il pibe corse, come una freccia, verso la porta avversaria. Rimasi a bocca aperta. Era incredibile, mai avevo visto fare una cosa del genere. Neanche ai calciatori più dotati. La prima cosa che mi venne in mente fu che quel bimbo mi aveva mentito sull’età. Ma quali 8 anni, non è un bimbo, è un nano... Però mi resi conto di aver pensato una stupidaggine. La sua età non aveva niente a che vedere con quell’azione, era una giocata senza età, una giocata impossibile. Un calciatore, anche molto abile, potrebbe passare la vita riprovandola senza che gli riesca una sola volta. E quello l’aveva fatta come se fosse stata la cosa più facile al mondo. Fu allora che capii che quel pibe era diverso dagli altri, molto diverso da tutti gli altri. Così, con quella giocata, scoprii Diego Armando Maradona” (Francisco Correjo, primo allenatore di Diego, 2004)
2— “Mazzarri era un trequartista anarchico, sedutosi in panchina ha risolto le distonie col passato: ‘L’organizzazione conta 100 e col talento dei singoli si arriva a 101’. Precetto reversibile: se hai Maradona, il genio vale 100 e l’organizzazione 1” (Gazzetta dello Sport, 2004)
3— “Enzo Bearzot mi chiamò la sera della vigilia: “Maradona lo marchi tu”. Diego era stato preso da Tardelli in un’amichevole del ’79 all’Olimpico, ma c’erano stati problemi. Mi chiusi in camera a pensare, ero sicuro di andare su Kempes e invece… mamma mia…” (Claudio Gentile, 2004)
4— “A fine partita Maradona si complimentò: ‘Claudio, sei stato corretto. Se tutti i difensori fossero come te, non mi sarei spaccato una gamba come al Barcellona’” (Claudio Gentile, 2004)
5— “Ci fossi stato io mi sarei divertito, e a Gentile non avrei fatto veder palla: Maradona giocava in attacco, io correvo per tutto il campo” (Michel Platini, 2008)
6— “Le partite di calcio le ho sempre trovate di una noia mortale, soltanto Maradona riusciva a entusiasmarmi” (Paolo Villaggio. 2008)
7— “Berlusconi è come Maradona: gioca poco, ma quando lo si lascia giocare segna” (Pier Ferdinando Casini, 1996)
8— “La popolarità di Ibrahimovic in Svezia è paragonabile a quella di Maradona al rione Sanità: un idolo su due gambe che non può fare due passi da solo, sedersi a bere una birra” (Gazzetta dello Sport, 2004)
9— “Maradona quelle cose le farebbe anche oggi. Era marcato a vista, subiva attenzioni speciali. Non è che aveva più spazi, se li procurava” (Dino Zoff, 2004)
10— “Io Maradona l’ho conosciuto. Eravamo a una festa, tutti calciatori, tranquillissima. Cinque a un tavolo. Maradona si è avvicinato e ci ha parlato per un po’ . E noi a bocca aperta, davanti al nostro idolo. In Argentina di idolo ce n’è uno solo, uguale per tutti. Non come qui, che si parla di Rivera, di Mazzola, di Riva, di Baggio…” (Diego Milito, 2004)
11— “Chiedo che Antonio Di Pietro non sia trattato come Maradona, prima eroe vezzeggiato da tutti, poi lasciato solo e definito drogato” (Tiziana Maiolo, 1996)
12— “Non c’è nessuno al mondo che possa fare tutto da solo, non c’è nessuno come Maradona. Lui è stato il più grande, l’unico in grado di vincere con una giocata. Ora ci sono tanti ottimi calciatori che hanno la possibilità di esaltare le loro qualità se inseriti in un gruppo forte. Ecco la differenza, e non è una differenza da poco” (Ronaldinho, 2004)
13— “Maradona dice sempre cose gentilissime sul mio conto, ma nessuno riuscirà mai a ripetere le sue prodezze. Tanti dicono che dovrei chiamarlo per ringraziarlo ma non è semplice. Sono timido, mi vergogno, mica è semplice prendere il telefono e chiamare il tuo idolo” (Lionel Messi, 2007)
14— “Perugia, vinci a tutti i costi. Fai come me che ai ternani feci due gol alla Maradona, di mano: uno di pugno e l’altro in mischia” (Angelo Montenovo, attaccante del Perugia negli anni 50-60, 2004)
15— “L’unica cosa che chiedo a Claudio è che non faccia figuracce, come darsi piquitos (baci sulla bocca, ndr) con Maradona, mi sembra immorale. I figli meritano rispetto, e gesti come questo rappresentano un cattivo esempio” (Mariana Nannis, moglie di Caniggia, 1997)
16— “Diego si batteva accanto ai compagni con l’umiltà di un gregario, aiutava senza far pesare la sua grandezza, prendeva il destino della squadra nelle sue mani, generoso come un vero capitano. Non avrebbe mai dovuto uscire dal campo dove non si sarebbe mai smarrito”. (Giorgio Tosatti, 2004)
17— “Un giocatore dalle grandi potenzialità, il suo arrivo mi rende felice. Se poi dovesse riuscire a ottenere anche solo il 10% dei risultati di suo padre, sarebbe già abbastanza” (Enrico Preziosi, dopo l’acquisto del figlio di Diego per la Primavera del Genoa, 2004)
18— “Buffon è un Maradona della porta, uno come lui nasce ogni cent’anni. E per questo ha rovinato una generazione di portieri, perché di Maradona ce n’è uno e tutti gli altri al suo confronto sembrano normali” (Antonio Mirante, 2016)
19— “In acqua non ci sono Maradona, nessuno può partire da dietro e andare fino in porta” (Pierluigi Formiconi, c.t. del Setterosa, 2004)
20— “Mi emoziono se vado a rileggermi i nomi dei capitani del Napoli. Lasciamo stare Maradona, non potrà mai esistere niente e nessuno con cui poterlo paragonare. Già sapere che il ruolo è stato svolto da Ferrara e Taglialatela mi carica di responsabilità” (Gennaro Scarlato, nuovo capitano del Napoli, 2004)
21— “Tutti i giocatori del mondo sono andati in panchina, anche i più grandi. Solo Maradona aveva il posto assicurato anche quando non stava bene” (Roberto Mancini, 2005)
22— “Maradona è stato un Mary per sempre che ce l’ha fatta, anche se poi essendo molto fragile è stato vittima di se stesso. L’ho conosciuto nell’ estate del 2005 a casa del suo ex compagno di squadra Salvatore Bagni. Ricordo che, prima di presentarsi, mi osservava di nascosto. Poi abbiamo passato sei ore a parlare di tutto, tranne che del film, al quale abbiamo dedicato solo gli ultimi minuti. Lui mi disse ‘basta che sia d’accordo Claudia’, la ex moglie che gli fa da manager” (Marco Risi, 2007)
23— “Paragono Maradona ai grandi geni dannati dell’arte, come Mozart e Van Gogh: passato il grande estro si è ritrovato più debole di qualsiasi altro essere umano. Paradossalmente, mi augurerei che lo lasciassero ancora giocare a calcio. Lui ha bisogno del tifo e dei compagni: sono la sua droga in positivo” (Massimo Mauro, 1997)
24— “Con Diego eravamo vicini di casa. Bella fregatura: in cortile non trovavo mai da parcheggiare, ci entravano solo le sue macchine. Magari tornavo alle 9 di sera e trovavo lui che si allenava nella palestra che si era fatto in garage. ‘Perché non sei venuto al campo?’, gli dicevo. Non rispondeva e continuava a correre sul tapis roulant. Quando lo pregavamo di venire a Soccavo ad allenarsi era come portargli una medicina. Sapevamo però che col pallone tra i piedi diventava un’altra persona” (Ciro Ferrara, 2005)
25— “Al mondiale del 1990 il Brasile fu eliminato dall’ Argentina. Poi Diego venne a casa mia, a Campinas, e il giorno in cui si presentò al portone di casa mi ritrovai duemila persone che lo aspettavano. Due argentini e duemila brasiliani. Gli dissi: ‘Diego, non ti basta averci eliminati? Devo anche sopportare tutta questa folla per te?’” (Careca, 2007)
26— “Dell’Europa i bambini di Baghdad ignorano tutto, a parte il nome di Diana, la principessa. Dell’Italia sanno ben poco, eccettuati i nomi della Juventus e di Maradona, che poi è argentino” (Corriere della Sera, 1998)
27— “Un giorno un dio chiamato Genio discese dall’ Olimpo e si unì con una diavolessa arrivata dall’inferno. Da quell’amplesso nacque Diego Maradona. Gli misero tra i piedi una palla e lui divenne un dio del calcio, portandosi dietro, lungo gli itinerari del mondo, i tesori del paradiso e i germi della distruzione” (Candido Cannavò, 2005)
28— “Dopo il cambio al Mondiale negli Usa, Baggio mi ha chiesto se avrei mai sostituito Maradona. Gli ho risposto che Maradona non l’avevo mai allenato, ma che avevo sostituito Gullit, Van Basten…” (Arrigo Sacchi, 2007)
29— “Nel calcio, per un attaccante, sono determinanti due cose. La prima: stregare il pallone per guidarlo e mandarlo dove si vuole. La seconda: difendersi da chi te marca facendogli comprendere, con colpetti intelligenti e che possono sfuggire all’ arbitro, che se lui te fa male io gliene faccio de più. Diego, che conosco da quando giocava nei boys, ha alcuni problemi, che non so se riuscirà a risolvere perché dipendono de sua indole, che è difficile cambiare. Primo: sul campo non sa fare ai difensori, perché è troppo buono, quello che io facevo ai difensori. Secondo: me pare che il ragasso è destinato più a essere governato che a governarse. Non vorrei che un giorno, proprio per questo, andasse, come se dice in Italia, in pasto ai lupi, che se lo pappano e poi... paga lui” (Omar Sivori, anni 90)
30— “Lo zio Gianni avrebbe voluto Maradona e Boniperti lo sconsigliò: ‘Perché vuoi prendere uno con il nome che sembra una bestemmia?’. Non l’ho mai capito, Boniperti…” (Delfina Rattazzi, nipote di Gianni Agnelli, 2016)
31— “Potevamo prendere Del Piero quindicenne, però 4 miliardi ci sembrarono troppi... D’altronde pure Boniperti bocciò Maradona, salvo poi azzeccare la seconda decisione, entrando in Forza Italia”. (Silvio Berlusconi, 1994)
32— “Il ricordo che conservo di Maradona è una delle cose per le quali vale la pena vivere. Diego, con il quale ho sempre avuto un rapporto splendido, sapeva scaldare lo stadio come nessuno: cominciava con le dichiarazioni in settimana, proseguiva andando a baciare tutti i raccattapalle, invocava il sostegno della gente, era una magia della quale ero felicissimo di fare parte anche se da avversario. A Napoli si trovava esattamente nel suo ambiente, alla Juve o al Milan non sarebbe stato lo stesso”. (Gianluca Vialli, 2007)
33— “Per andare agli allenamenti del suo Napoli saltavo la scuola. Per me come allenatore dell’Argentina può far bene, ma noi napoletani sul tema Maradona non siamo obiettivi: per noi qualunque cosa faccia Diego, sarà sempre positiva” (Roberto Saviano, 2009)
34— “Mastella come Perón? ‘Macché Perón! Ero dirigente del Napoli ai tempi di Maradona. Con l’Argentina c‘è feeling’. Clemente Mastella lo spiega così quel risultato fragoroso: 72,7% a La Plata, uno dei 170 seggi aperti all’ estero per le primarie”. (Corriere della Sera, 2005)
35— “Nessuno si ricorda quanto faticai per imporre Diego in nazionale. Prima che vincessimo il Mondiale 1986, Maradona non era considerato più forte di Platini, Zico o Rummenigge. Anzi, in Sudamerica divideva la popolarità con Hugo Sanchez…” (Carlos Bilardo, 2006)
36— “Davanti agli occhi di Maradona le pupille brillavano come carboni accesi sono sfilate 40 fanciulle splendenti di gioventù. Paride, a suo tempo, volle giudicare le dee nude. Maradona, magnanimo, non lo ha fatto. Le fanciulle hanno sfilato con vestiti eleganti, i volti fioriti del sorriso. Maradona le ha esplorate con occhi sgranati. Che cosa guarda per primo in una donna? ‘Gli occhi’, aveva risposto. ‘Gli occhi. Poi più giù…’. E, con una pausa maliziosa, aveva aggiunto: ‘Se è di fronte, gli occhi. Se è di spalle... i capelli’” (Gazzetta dello Sport, 2005)
37— “Diego non ha perso le antiche abitudini, e l’altra sera è andato a fare un giro nei locali notturni di Alicante. Erano da poco passate le tre ed è tornato in albergo alterato, e “del tutto ubriaco” secondo i componenti di una tv di Valencia che lo aspettavano nella hall dell’hotel. Maradona li ha evitati, ma poi è rimasto intrappolato nell’ascensore e ha cominciato ad urlare. A liberarlo sono intervenuti i pompieri, e a quel punto Dieguito è corso al piano terra dove ha cominciato a inveire verso il personale di servizio. Poi ha cominciato a spaccare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. In tutto Maradona ha distrutto 5 sedie, un tavolino, un posacenere di marmo, una porta, e ha danneggiato le porte dell’ascensore dov’era rimasto chiuso. In più ha trovato il modo anche di fare un buco nel soffitto, scagliandovi pezzi delle cose che aveva rotto poco prima. Andato nella sua stanza Maradona, ancora fuori di sé, ha continuato a urlare. A quel punto sono intervenuti il direttore e il vicedirettore dell’albergo, che hanno chiesto a Diego di fare silenzio perché gli altri clienti, vista l’ora, stavano dormendo. Risposta dell’argentino: “Qui comando io”. Allora è stata chiamata la polizia” (Corriere della Sera, 1996)
38— “Maradona è il miglior amico degli argentini, il miglior amico di noi russi è il kalashnikov” (Shamil Tarpishev, capitano della Russia di Coppa Davis alla vigilia della finale 2006)
39— “Diego era sempre l’ultimo a farsi la doccia, e al San Paolo finiva regolarmente l’acqua calda. Così mettevamo un pentolone sul fuoco e lo lavavamo come un bimbo” (Tommaso Starace, magazziniere del Napoli, 2006)
40— “Il Milan giocava al San Paolo contro il Napoli: loro campioni d’Italia in carica, noi in rimonta. Berlusconi mi dice: ‘Giovanni, quando Maradona batte le punizioni, ricordati di mettere un uomo sul palo”. Punizione per il Napoli. Non metto l’uomo sul palo. E Diego segna. Quella volta ho capito che, anche quando parla di calcio, Berlusconi di fesserie ne dice poche” (Giovanni Galli, 2009)
41— “Quel gol era incredibile perché se ci fate caso non facciamo errori né siamo messi male in campo. È solo il genio di uno che ha preso la palla, ha superato tutta la nostra squadra e ha segnato” (Bobby Robson, 2007)
42— “Cannavaro dice sempre che era il raccattapalle di Maradona ma non è vero, era il mio raccattapalle. Diego la palla non la buttava mai fuori” (Ciro Ferrara, 2008)
43— “Quando mia figlia è stata male la prima persona che ho sentito è stata Maradona. Mi ha chiamato per dirmi parole di speranza. Lui è così e in Argentina lo sanno tutti: se c’è qualcuno che ha bisogno, Diego c’è” (Nicolas Burdisso, 2005)
44— “Per favore, smettetela di paragonarmi a Maradona. Io corro dietro alla palla, lui era la massima espressione del calcio” (Ezequiel Lavezzi, 2008)
45— “Napoli non è più la mia città ma ogni tanto devo tornarci per sentire i suoi rumori, i suoi odori, per farmi emozionare da lei. Un po’ come Maradona, forse. Diego ha sbagliato, ma ha fatto una cosa che non tutti sanno fare: ha chiesto scusa”. (Marco Borriello, 2017)
46— “Il campione vero deve mettersi al servizio dei compagni. E molti dimenticano l’umiltà di Maradona quando regalava gol fatti agli altri o tornava indietro fino alla sua area di rigore a dare una mano ai difensori” (Ezio Capuano, 2004)
47— “Non mi intendo di calcio, ma ho riconosciuto in Maradona un virtuoso. Soprattutto, c’ è stata un’identificazione di una fascia sociale che lo ha riconosciuto come mito, per cui si è attivato un comportamento collettivo che va al di là del tifo e rinnova un rituale dionisiaco. Ecco, mi interessava il profilo antropologico del fenomeno: le trombe, le maschere, i caroselli dello scudetto somigliano a una Piedigrotta decaduta, che oggi per richiamare l’attenzione deve riempire di soldi un cantante inglese. Il tessuto sociale dal quale nasce il mito di Diego è lo stesso che ha dato origine a quello della Madonna dell’Arco. Conservo ancora le bandiere che ritraggono il suo viso accanto a quello del santo patrono. Entrambi facevano miracoli: in fondo, non c’era tanta differenza. Tanti qui a Napoli vivono ai margini della vita civile, non sono padroni del proprio destino, devono lavorare in nero. Gente che si è identificata in quel personaggio nato povero, emarginato, e assurto a entità divina. Maradona, per loro, incarnava una speranza” (Roberto De Simone, 2010)
48— “Al termine di Bologna-Napoli 2-4 nel 1990 entrai nello spogliatoio del Napoli, che con quella vittoria aveva praticamente vinto lo scudetto, e regalai a Maradona un portafortuna, un mio amuleto: era un rosario che conservavo dai tempi di quando facevo il boy scout. Lui mi abbracciò. E so per certo, che ancora oggi lo conserva con grande amore” (Lucio Dalla, 2007)
49— “Berlusconi convoca il manager Guillermo Coppola per trattare l’ingaggio di Diego. È il 1987, col Napoli c’è qualche tensione contrattuale, Coppola resta a bocca aperta di fronte alla proposta di Berlusconi. ‘Le piace piazza San Babila? Le prendo un appartamento da un milione e 200 mila dollari. Quale auto ama? Rolls Royce? E sia, aggiungo 200 mila dollari. Per il contratto pensavo a 300 mila dollari annui per 4 anni. Tutto questo solo per lei. Lei porta qui Diego, gli resta amico, continua a vivere con lui ma la sua amministrazione passa a noi’. Coppola torna a Napoli e racconta tutto a Maradona, i due prendono tempo ma la notizia del contatto filtra, e a Soccavo scoppia un inferno. Il procuratore parla anche di una bomba carta esplosa davanti alla sede napoletana di Canale 5 come pietra tombale della trattativa, che serve ad alzare il prezzo del rinnovo per Ferlaino”. (Gazzetta dello Sport, 2008)
50— “Sono sempre stato leale con Diego. Non ho mai tradito la sua fiducia. Lo incontrai la prima volta poco dopo il suo arrivo a Napoli. Dovevo intervistarlo per Repubblica. Il suo addetto stampa, Guillermo Blanco, un uomo colto, mi disse: ‘Ti prego, non fare un’intervista banale’. Maradona parlò di cose diverse dal calcio: non era mai successo. Credo di essere stato il giornalista che gli ha rivolto le domande più schiette, più scomode, ma Diego ha sempre accettato il confronto perché, mi spiegò un giorno, non lo ferivo mai” (Gianni Minà, 2008)
51— “Ero più grande io perché ero più completo. Quanti gol ha fatto lui di testa? Nessuno. Io cento. E quanti ne ha fatti di destro? Io in tutto ho segnato 1281 gol, vi dice niente questo numero? Il problema è che gli argentini non si rassegnano: prima mi hanno messo contro Di Stefano, poi Sivori, poi Maradona. Decidano loro chi è più forte, poi prendano atto che io valgo più di tutti e tre” (Pelé, 2005)
52— “Bearzot mi disse di marcare quel ragazzo, aveva 18 anni. Macché marcarlo, l’ho soltanto visto” (Gabriele Oriali, 2012)
53— “Messi ha e avrà momenti da Maradona, ma non potrà mai essere Maradona” (Mauricio Macrì, ex presidente dell’Argentina, 2007)
54— “Maradona ha detto che sono il miglior giocatore che ha visto. Adesso sì, posso anche smettere” (Francesco Totti, 2017)
55— “Questa maglia? Lasciamo perdere. La 10 dell’Argentina dovrebbe essere ritirata” (Juan Roman Riquelme, 10 dell’Argentina nel 2007)
56— “È stato campione del mondo, poteva stare tranquillo, a casa, a guardarsi un film o una partita. E invece no, s’è preso la nazionale nel momento peggiore, in crisi e con quelle maledette eliminatorie. Con mamma e nonna abbiamo pensato: ‘Perché voler soffrire ancora così?’. Aveva già vinto tutto... Ma è la storia della sua vita, stare sempre al limite” (Dalma Maradona, figlia di Diego, 2010)
57— “Rispetto a Messi, Maradona ha una dote innata: la personalità. Il carisma di Diego lo avverti a dieci metri di distanza” (Mauricio Pochettino, 2013)
58— “Per Maradona il calcio è allegria, trasmette questo a chi gli sta intorno. Parliamo di un grandissimo: scudetto a Napoli, campione del Mondo e tanto altro. Ma se gli dai un pallone torna bambino. Ecco, questa magia rende il calcio lo sport più popolare al mondo. Si pensa troppo al business, ma i tifosi vogliono accendersi per le prodezze di un campione” (Marco Van Basten, 2017)
59— “La Milano di Maradona non è certo quella di Beckham. Finiti i tempi in cui segnava e realizzava notti magiche, nei negozi del centro non si è visto, le uniche firme sono quelle di Louis Vuitton sui trolley, per il resto il look è dark. È rimasto chiuso dentro la suite dell’hotel chiedendo rispetto e riservatezza. Lunedì sera si è fatto portare prosciutto, pomodoro e mozzarella in camera. Neppure un tartufo e neanche una rana, uno dei piatti preferiti durante le performance a casa Bagni in Romagna”. (Gazzetta dello Sport, 2008)
60— “Diego è un personaggio cult, radicato nel vivere quotidiano dei napoletani. Il calcio, come la musica, è una sana passione. E le passioni sono fondamentali per la crescita umana, l’importante è saperle canalizzare nella giusta direzione”. (Pino Daniele, 2012)
61— “Se vivi nell’ orrore, non c’è nulla da fare, finisce che fai il callo a tutto. Il mariunciello di Eduardo non esiste più: questi guagliuncielli di oggi sono simili a quelli del Bronx, per una fesseria possono pure ucciderti. Succede quando spariscono i miti, gli esempi da imitare. Lo so, è un paradosso, ma credo che Maradona abbia salvato molti bambini. Lui almeno riusciva a farli sognare. E, con i sogni, li trascinava via da quest’inferno” (Peppe Lanzetta, 1995)
62— “Ho saputo della convocazione alla fine di un allenamento col club. Rientrato nello spogliatoio ho trovato sul telefonino un messaggio registrato: era Maradona che diceva "riceverai la lettera ufficiale, ma intanto sappi che hai la mia fiducia e che ti voglio con noi". Sul momento ho pensato a uno scherzo, poi ho capito che era vero, e l’ho detto ai compagni che uscivano dalla doccia. Tutti, e dico tutti, hanno voluto ascoltare il messaggio, se lo sono fatti girare sul loro cellulare e l’hanno impostato come suoneria. Quando qualcuno li chiama, sentono la voce di Maradona che mi convoca” (Daniel Montenegro, ex centrocampista dell’Independiente, 2008)
63— “Non scherziamo, Platini a Maradona gli poteva portare le valigie” (Mauro Camoranesi, 2008)
64— “Io la rabona l’ho sempre fatta, fin da ragazzino, solo che nessuno ne parlava. Poi quando la fece Maradona… Pure Pelé disse che Diego non era il primo, l’aveva già fatta un italiano… ecco, ero io” (Giovanni Roccotelli, 2006)
65— “Dopo Messico ‘86 Maradona fu sul punto di interpretare un film con Kim Basinger, ma dovette rinunciare per l’opposizione della moglie Claudia, gelosa delle scene d’ amore previste dalla sceneggiatura” (Corriere della Sera, 1993)
66— “Maradona sfonderebbe anche nel calcio del 3000. Lui non va inserito in una classifica: fa storia a sé. E’ una splendida, inimitabile, astrale mostruosità applicata al pallone”. (Candido Cannavò, 2007)
67— “Senza Maradona, il calcio è un gioco di squadra” (Belen Rodriguez, 2012)
68— “Morfologicamente, Maradona sembra uno sgorbio irrecuperabile: ma non appena in lui si accende l’uranio, quel goffo anatroccolo assurge a cigno solenne. Allora devi escluderlo dal genere umano e trovargli d’urgenza una specie differente” (Gianni Brera, 1987)
69— “Dopo l’amichevole Germania-Argentina, Maradona fa uno show in conferenza stampa. Se ne va perché accanto a lui c’è un altro. Poi rientra, gli spiegano che si tratta di Thomas Müller, debuttante, e Diego dice: ‘Non sapevo fosse un calciatore’”. (Gazzetta dello Sport, 2010)
70— “Maradona è il Paganini del calcio. Quel tipo di giocatore non c’è più. Se tornasse, al giorno d’oggi gli piomberebbero addosso quattro avversari” (Salvatore Accardo, 1996)
71— “Se si vuole usare una immagine simbolica, la mano de Dios è tutto quello che ci può essere di bene sul piano dell’estro, del risolvere in un attimo una situazione. Ma anche tutto quello che ci può essere di male nella beffa, nella fregatura. I napoletani si sono rispecchiati in Maradona nel senso di una genialità transitoria, legata al momento, istantanea che sbriga la questione con cui abbiamo a che fare ogni mattina quando ci alziamo, che risolve la faccenda del vivere. Perché vivere è una fatica, vivere è doloroso” (Tony Servillo, 2009)
72— “Una volta, in occasione di un Parma-Juve, Maradona mi ha chiesto le maglie di Thuram e Cannavaro. Lilian non ci credeva. Poi mi passano un telefono ed era Diego. ‘Fabio, per te’, gli ho detto. Non lo dimenticherò mai: lui era in piedi, si è seduto su una panca e si è messo a piangere, per l’emozione. Piangeva come un bambino” (Juan Sebastian Veron, 2012)
73— “Diego ha vissuto anni difficili, ma è un buono. Gli uomini col potere assemblano la massa e si fanno seguire, ma Maradona è diverso: l’impatto che ha sugli altri è quasi di santità” (Emir Kusturica, 2010)
74— “Diego era come una donna con tre tette, straordinario dalla nascita. Giocava divinamente, gli era permesso tutto, e la sua vita era più triste del suo calcio: non poteva uscire di casa. Aveva una rapidità mentale unica: pensavi a una giocata e l’aveva già fatta. E giocava con gente normale, Messi invece con altri campioni…” (Claudio Borghi, 2015)
75— “Quanto costerebbe oggi Maradona? Non esisterebbero i soldi per pagarlo” (Roberto Sosa, 2009)
76— “Di Maradona conosco tutto da quando ero bambino, sedevo a terra accanto alla pila di VHS con i suoi gol, convinto di poterlo guardare solo così. Poi un giorno papà mi disse: ‘Domenica ti porto al San Paolo’. Rischiai di non andare perché iniziai a massacrarlo – ‘Quanto manca?’ - e lui perse la pazienza: ‘Chiedimelo un’altra volta e ce ne stiamo a casa’. Come giocò Maradona? E chi si ricorda: per noi anche se stava fermo 90’ aveva fatto una grande partita” (Fabio Quagliarella, 2017)
77— “Tutti credevano che sarei diventato il nuovo Maradona. Tutti tranne me. E avevo ragione io” (Claudio Borghi, 2011)
78— “Avvisatemi se c’è davvero Maradona in tribuna, voglio il suo autografo per mio figlio” (José Mourinho , 2008)
79— “Glielo dicevo sempre a Ferlaino: quando deciderai di venderlo, ascolta tutti e poi vieni da me. Ti darò sempre una lira più degli altri” (Paolo Mantovani, 1993)
80— “Una volta c’era un ritratto di Maradona che in uno di quei vicoli copriva l’intera parete di un palazzo, poi all’altezza del naso hanno sfondato per farci una finestra, e pure il Mito è stato sacrificato sull’altare dell’abusivismo spicciolo” (Corriere della Sera, 2000)
81— “In Italia Diego Maradona ha lasciato un figlio e un numero di cellulare che, per rispetto, la Sip non ha più dato a nessuno” (Corriere della Sera, 1993)
82— “Sono contrario al ritiro delle maglie: non si possono togliere i sogni ai bambini e alla gente, il bambino che comincia a giocare e tifa Juve deve sognare di essere il nuovo Del Piero, quello della Roma il nuovo Totti. Per Maradona però l’eccezione si può fare: Diego non è stato soltanto un calciatore per Napoli” (Maurizio Sarri, 2017)
83— “In quattro anni e mezzo non ho mai sentito Maradona rimproverare un compagno in campo. Sa quanti mediocri lo fanno in ogni squadra?” (Ottavio Bianchi, 2003)
84— “Mi sento molto vicino a Maradona. Del calcio mi appassiona soprattutto il talento individuale e lui ne aveva in quantità. A Napoli, dopo un concerto, dei ragazzi mi strapparono un capello: mi dissero che lo avrebbero incorniciato, come avevano fatto con un capello di Diego. Ne fui onorato” (Giovanni Allevi, 2008)
85— “Ho 17 anni e Olarticoechea mi dice che dobbiamo raggiungere un amico. E mi fa: portati dietro una tua maglia dell’Huracan, lui la vuole. Ok. Andiamo e suoniamo al campanello. Si apre la porta: Maradona. ‘Hola Daniel! Sabato ho visto la tua partita, sei bravo’. Comincio a piangere, emozione. Mentre ce l’avevo di fronte e gli davo la maglia, tremavo” (Pablo Osvaldo, 2014)
86— “La Fifa ha scelto Ronaldo come il dio minore erede di Maradona, in grado di officiare nella religione del calcio senza sniffare cocaina. Sul poderoso e agile corpo di un centravanti che sembra elaborato dalla genetica grava il peso di una delle poche possibilità di Assoluto che ci siano rimaste, e se non gli spappolano le gambe o il cervello, abbiamo un dio per un decennio” (Manuel Vazquez Montalban, 1999)
87— “Aveva nobilitato col suo genio uno sport in decadenza artistica: sempre più muscoli, lotta, robot radiocomandati. Aveva comunicato bellezza pur essendo fisicamente così lontano da essa: basso, tarchiato, grassoccio, volgare. Ma dentro possedeva una musica divina e la sprigionava con generosa e istintiva facilità, inventando nuove armonie, azzardando variazioni mai tentate: il Mozart del calcio, il magico pifferaio degli stadi”. (Giorgio Tosatti, 1994)
88— “L’ho sempre invidiato. Era la perfezione. Il figlio della memoria collettiva argentina. Incarnava i pilastri della nostra scuola: estetica e coraggio” (Jorge Valdano, 2004)
89— “’Dopo Inter-Genoa di Coppa Italia, a San Siro, Maradona è venuto a farmi i complimenti. Meno male che non mi ha riconosciuto. Forse per i capelli bianchi...’. Che cosa temeva Gian Piero Gasperini? 5-3-89: Pescara-Napoli. Maradona becca un colpo al labbro, stramazza: 4 punti di sutura. I napoletani accusano Gasperini, centrocampista del Pescara. ‘Non avevo fatto apposta. Cioè un po’ ci avevo dato... Ma è stato sfortunato, l’ho colpito con l’anello e si è aperto. Da Napoli mi arrivarono un sacco di minacce. Figurarsi, toccare Diego…” (Gian Piero Gasperini, 2009)
90— “Vorrei partecipare di nascosto a una riunione tecnica di Diego. Lui odiava le lezioni a tavolino. Quando si parlava di tattica scuoteva la testa, si addormentava. Facile, era Maradona: in un attimo vinceva una partita cancellando tutto quello che era stato scritto alla lavagna” (Careca, 2010)
91— “A Maradona, ridicolizzato tatticamente dal collega Löw, il popolo ha urlato: ‘Resta!’, ‘Non te ne andare’, mentre Lippi, campione del mondo 4 anni fa, ha problemi a sbarcare nei porti e Dunga, cacciato, si è preso dell’asino a Brasile unificato. Perché? Perché loro sono uomini, Diego è molto di più” (Gazzetta dello Sport, 2010)
92— “È colpa degli allenatori, pensano soltanto alla difesa e al pressing anziché insegnare tecnica e dribbling. Il gioco atletico esisteva già ai miei tempi, però c’era spazio per la fantasia. Da anni sogno di ammirare un attaccante che parte dalla propria area e, pallone al piede, arriva a segnare. Lo facevano Pelé e Rivera, Cruijff e Charlton, io e Mazzola. L’ultimo è stato Maradona, adesso non mi diverto più” (Eusebio, 2002)
93— “Detesto che l’Argentina sia identificata con Maradona anziché con Borges. È come pensare che Siviglia sia solo una grande plaza de toros” (Hugo De Ana, 1999)
94— “Ma i franchi tiratori sono stati più del previsto. Lo scontento dentro il Polo e la maggioranza è visibile nelle 55 schede bianche e nelle 18 annullate e negli oltre 100 voti dispersi tra gli altri candidati. Tra gli altri sono stati votati Maradona che non è cittadino italiano, ‘l’asino Di Pietro’, voto ovviamente nullo, il difensore della Roma Zago, anche lui cittadino non italiano, ma non così famoso come Maradona e dunque nessuno osa annullare il voto. Un ultimo monarchico scrive “viva il re” (Ciampi e’ contro il rientro dei Savoia), altri parlamentari attratti dallo sport votano per Moratti e per Antonioli (si intende il portiere del Bologna?)” (Corriere della Sera, 1999)
95— “Gascoigne è il post Maradona, come lui epigono della perfetta inconciliabilità di talento e misura, anch’egli col suo clan circense attorno; con la sua vita di ore piccole e porzioni grandi, e la tendenza ad ingrassare fin quasi allo sfacelo atletico; però anch’egli stupefacente con la palla al piede, capace di recuperare quella leggerezza del calcio che ai bipedi mortali non è consentito”. (Corriere della Sera, 1993)
96— “Diego era un angelo sporco, un santo canaglia, lo specchio del mondo che rappresentava: siamo tutti di fango umano, guai a dimenticarlo” (Eduardo Galeano, 2005)
97— “Maradona è un rivoluzionario, quindi è amico mio” (Hugo Chavez, 2005)
98— “A Maradona non darei un passaggio in macchina neanche in un giorno di pioggia” (Pelé, 2011)
99— “Sei il Che Guevara dello sport. Il tuo successo, oltre che al talento, è dovuto al fatto che vieni dal popolo e ti senti ancora uno di loro” (Fidel Castro, 2005)
100— “Che Guevara era Maradona con la mitragliatrice” (un clochard alla stazione di Baires alla Gazzetta, 2007)
Michele Serra per “la Repubblica” il 27 novembre 2020. Incredibile quanta gente piange, in televisione, sul web, al telefono, in giro per il mondo intero. Piangono i conduttori e i giornalisti, piange chi per lavoro spesso specula sul pianto degli altri, e ora alla telecamera offre, finalmente, il suo. Perfino il vizio retorico tipico dell' informazione annega e scompare, nel mare di lacrime che accompagna Maradona nell' oltretomba. Le lacrime non hanno la grevità o la banalità delle parole, le lacrime sono il corpo umano che parla per conto suo, senza bisogno di articolare parole. Per un giocatore di pallone? Beh certo, per un giocatore di pallone, lo sport è stato inventato apposta per dare vita materiale ai nostri sogni, al bisogno di eroi, di dei (nel senso greco), di gesti perfetti, di imprese ammirevoli, di vittoria che ci redime dalla mediocrità, dall' affanno, dalle miserie, e costruisce la nostra epica di massa. Diego come Ettore, Achille, Enea? Beh certo, Diego come Ettore, Achille, Enea. Tanto più perché era nato disgraziato, "in un posto dove non c' è nulla, ci sono stato e non c' è nulla", dice un giornalista (bravo) con gli occhi rossi. Un povero che diventa un dio, non è abbastanza per farne un' icona planetaria, non è abbastanza per dire, come dice un bravo telecronista, piangendo, "lui ci sarà per sempre"? Non fatevi troppe domande, voi che non amate il calcio o non lo capite, ed è vostro diritto. Perdonate a cinque o sei miliardi di persone questo dolore così semplice, così unanime, così grande. Se fossi argentino avrei pianto tutta la notte, se fossi napoletano piangerei ancora adesso.
Estratto dell'articolo di Maurizio Crosetti per la Repubblica il 3 dicembre 2020. César Luis Menotti è una smilza e alta leggenda di 82 anni, indossa jeans, camicia bianca, giubbotto blu e mascherina nera. Alla pareti, una sua fotografia con la Coppa del mondo vinta nel '78 (quando lasciò a casa il 17enne Diego), un'altra con Maradona e un ritratto di Borges.
Maestro, da dove cominciamo?
«Sono sommerso dal dolore, come se fossi coperto di merda. Cominciamo da qui».
Chi era per lei Maradona?
«Era immortale ma non era dio, non era un modello morale e non voleva esserlo, non era neanche Pelé. Era un ragazzo che aveva sofferto e un uomo che voleva vivere a modo suo. Quando giocava, sì, è stato il più grande del mondo».
(...)
Non bastarono al Mundial dell'82.
«Senza le marcature criminali di Gentile e Tardelli, e senza quell'arbitro Rainea, forse ce l'avremmo fatta».
Maradona è stato un artista maledetto.
«Dopo la squalifica per doping del '90, mi disse: "Io devo essere infelice". Era contento solo in campo».
Se n'è andato da solo, abbandonato, in una casa senza neppure il bagno.
«Una follia, per me il dolore più grande. Gli hanno succhiato il sangue. Però mi feriva anche vedere come si era ridotto negli ultimi mesi. Andò ad allenare il Gimnasia e non si reggeva neppure in piedi (...) Credo fosse maledettamente difficile essere Maradona, me ne sono accorto negli anni che abbiamo trascorso insieme. Doveva accettare continui compromessi, era circondato da tanti, però credo che in pochissimi gli volessero bene. (...) La sua ansia era ingovernabile. Qualcuno ha detto che era come se ogni giorno pensasse di dover segnare un gol agli inglesi. Una condanna».
Dal “Venerdì di Repubblica” il 15 dicembre 2020. Lettera di Franca Volante: Caro Serra, sono disposta a perdonare a lei e a tutti gli amanti del calcio (compresi quelli che mi tocca sopportare giornalmente) il dolore per la morte di Maradona. Ma chiedo a lei e a tutti coloro che ne hanno scritto e parlato se siete disposti a ricordare il dolore e i danni che questa persona ha procurato nel corso della sua esistenza. Siete pronti a dichiarare che Maradona è stato anche un evasore fiscale e un cocainomane frequentatore di criminali? Per ironia della sorte è morto proprio nel giorno dedicato alla violenza contro le donne, lui che non rispettava né le donne che frequentava né i numerosi figli che non riconosceva se non dopo lunghe battaglie legali. Siete disposti a dichiarare che Maradona, come giocatore, valeva certamente il massimo dei voti con lode ma, come uomo, meno di zero?
Risposta di Michele Serra. Sono passati diversi giorni dalla morte di Maradona e dal lutto planetario che l'ha accolta. Quando questa rubrica sarà in edicola si saranno attenuati, e per fortuna, i pigia-pigia urlanti e l'orgia di retorica che sono l'inevitabile corollario di questi momenti. Tra i più tristi spettacoli che ho in memoria, due funerali incomparabili (quello di Mario Merola a Napoli, quello di Khomeini a Teheran) mi sono rimasti impressi per il fanatismo morboso della folla. Detto questo, non mi sembra che i media, nel loro complesso, abbiano omesso di ricordare che, se il campione fu immenso, la persona fu assai discutibile. Ma è stato detto da molti, e condivido, che la fragilità dell'uomo, e la sua condotta tutt' altro che esemplare, non riescono a offuscare la fantastica dimensione del campione quasi iper-umano. Capisco che questa contraddizione, che vale anche per un lungo elenco di artisti formidabili, eppure persone discutibili o addirittura detestabili, possa non essere accettata da molti. Infatti anche altri lettori mi hanno scritto per confutare il mio lamento in morte di Maradona (tu quoque, Serra!).
Armando Rabaglia scrive: «La sua eccezionalità sembra includere anche il disonesto gol con la mano contro l'Inghilterra, col risultato che un evidente fallo è stato addirittura trasformato in un evento miracoloso: Dio stesso avrebbe guidato mano e pallone. Cosa sarebbe successo se un fatto del genere fosse stato compiuto da un qualsiasi altro giocatore?».
Maria Rosaria Luongo scrive: «Per me le icone sono Gino Strada, Luciana Segre, Roberto Saviano , Mimmo Lucano. Ma "il popolo è una bestia varia e grossa" (Tommaso Campanella). Considerate le sue frequentazioni (droga e camorra), l'evasione fiscale, il mancato riconoscimento, per decenni, del figlio napoletano, per me Maradona è n'omme 'e niente e non capirò mai che ci sia di così strabiliante in uno che sa dare calci a un pallone».
Gianfranco Palumbo scrive: «Capisco che il calcio è un abissale contenitore catartico di frustrazioni e delusioni di masse che vanno allo stadio per vedere la loro squadra vincere ma tutto questo non ha niente a che vedere con un tossicodipendente smisurato, alcolizzato, frequentatore di orge sessuali e di criminali camorristi, evasore fiscale e seminatore di figli illegittimi. Per farne un Santo, ce ne vuole».
Mariarita Di Lorenzo scrive: «Era la giornata contro la violenza sulle donne e due di loro erano appena state uccise. Maradona che muore stravolge un po' tutto e il Post del Tg2 è interamente dedicato a lui. La giornalista, un po' a disagio, ha rammentato che di quel giorno, in quei venti minuti, rimaneva solo il colore rosso da lei indossato».
Riconosco a questi lettori delle buone ragioni. Ma devo aggiungere che a volte il torto si prende le sue rivincite. Io so perfettamente, quando strabilio per i gol di Maradona, che non è stato un uomo sobrio, né ragionevole, né giustificabile. Ma strabilio lo stesso, forse perché vedo la perfezione scaturire dalla imperfezione, e specialmente dalla più grave delle imperfezioni, che è nascere povero, crescere arricchito e cafone (capita a parecchi poveri), machista come molti sudamericani e in specie i sudamericani del popolo. Dal letame nascono i fiori, disse il poeta. Ecco. È un poco questa, la storia di Maradona. È stata raccontata per filo e per segno, senza nascondere la miseria, senza dimenticare la gloria.
Alessandro Pasini per corriere.it il 26 novembre 2020. Questa è la storia del dio Diego nel fango. Una storia vera anche se sembra fantascienza. Una storia che si tramanda di generazione in generazione per dire a tutti chi era — anche — Maradona, e che cosa ha significato per Napoli e la sua comunità. È la famosa storia dell’amichevole di beneficenza ad Acerra, da lui organizzata e poi giocata come non ci fosse un domani, perché è vero che forse non c’è sempre un domani. Nel tempo, come sempre accade con Diego, la cronaca è diventata racconto e poi epica. Ma la sua sostanza, come quella dei sogni, in fondo è semplice.
Contro il presidente. L’antefatto. Durante la stagione 1984-85, Pietro Puzone, ragazzo di Acerra, riserva del Napoli e buon amico di Maradona — oggi, a 57 anni, drammaticamente caduto in disgrazia e senzatetto — conosce un concittadino tifoso del Napoli che ha un figlio gravemente malato. «Aveva un brutto problema alla bocca — avrebbe ricordato in seguito Puzone — e l’unico modo per guarire era operarsi in Francia. Ma non aveva soldi abbastanza». Puzone pensa immediatamente a una partita di beneficenza del Napoli al San Paolo. Chi non ci pensa nemmeno è il presidente Corrado Ferlaino, che si oppone per paura che qualche giocatore possa farsi male. Chi invece non ha dubbi è Diego, il quale ha una sua personalissima visione dei fatti. Arrivato in Italia, a luglio 1984, aveva detto: «Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires». Così accoglie senza un dubbio la richiesta dell’amico, e la leggenda vuole che lo faccia alla sua maniera: «Che si fottano i Lloyd di Londra. Questa partita si deve giocare per quel bambino». E per chiudere lì la faccenda, si dice, paga lui i 12 milioni di assicurazione.
Il riscaldamento nel parcheggio. È lunedì 25 gennaio 1985. Il giorno prima in campionato il Napoli ha battuto 4-0 la Lazio al San Paolo. Ventiquattro ore dopo si presenta al piccolo stadio comunale di Acerra, 20 chilometri a nord di Napoli. C’è pioggia. Il freddo è tagliente. Il campo, già sterrato di suo, è solo fango e pozzanghere. «Intorno c’erano 10mila persone — ricorda Puzone — la tribuna però ne conteneva solo 5mila. Gli altri erano dappertutto, intorno al campo sotto gli ombrelli, sui balconi, sui tetti». In un celeberrimo video stracliccato su Youtube è tutto documentato. Ed è documentato, soprattutto, il famosissimo riscaldamento di Maradona e della squadra nel parcheggio fra le macchine e i curiosi, come una squadra dilettanti qualsiasi. Divisa ufficiale — in lanetta pesante, tipica dell’epoca — sponsor Cirio, espressioni serie come fosse la finale di Coppa dei campioni, e Diego che guida le operazioni. A un tratto, saltella come un pugile fingendo di tirare ganci all’aria. Poi si avvicinano dei bambini per una foto. Sono così piccoli e timidi e congelati dal freddo che quando Diego se ne va restano lì immobili nei loro cappottini stretti. Ipnotizzati. Increduli. Come se quell’attimo potesse durare in eterno. Poi comincia la partita.
La prova generale del gol del secolo. E lì, ricorda Puzone, «Maradona non si risparmiò: correva, si sporcava, dribblava, cercava il gol come fosse una partita di campionato». A chi gli dice di stare calmo e non rischiare le gambe per un’amichevole pare risponda: «Amico, tu non hai capito chi è Maradona, io gioco solo per vincere qualsiasi sia l’avversario». E chi sa di sport sa che questa è la forma massima di rispetto. A fine primo tempo prova una girata al volo sotto porta, la manca, cade in una pozza e si rialza sporco come uno spazzacamino. Sacramenta come avesse mancato un gol alla Juve. Poi, nel secondo tempo, ecco quella che nella tradizione napoletana viene consideratala prova generale del famoso gol del secolo segnato all’Inghilterra al Mondiale 1986: ruba palla a una avversario, scarta l’intera difesa, poi il portiere, e deposita palla in rete. Un gol col copyright. Mentre lo stadiolo esplode, un tizio in delirio che stava dietro la porta entra in campo e va a consolare il portiere affranto. Sembra che gli dica: «Stai su con la vita, uagliò, ora potrai dire al mondo che hai visto Maradona».
Obiettivo raggiunto. Puzone ricorda che ovviamente «fu uno spettacolo». Ma soprattutto che «la partita diede a quel bambino la possibilità di operarsi perché fra sponsor e botteghino consegnammo alla sua famiglia 20 milioni di lire. Il ragazzo adesso è cresciuto e si è sposato, e quella storia, lui come noi, la ricorderemo per sempre». Così è andata quel giorno. E la storia dice che di gesti simili Maradona ne fece decine. Voleva essere l’idolo degli poveri e degli ultimi, e ci è riuscito: lui era uno di loro.
Il Dio del calcio, se c'è, oggi piange. Storia di Diego Armando Maradona, il più grande fuoriclasse di sempre. Guido Barlozzetti su Il Riformista il 26 Novembre 2020. È morto Diego Armando Maradona e il Dio del pallone, se mai esista e sorvegli dalla sua altitudine il gioco più popolare del mondo, piange. È morto a sessant’anni, un arresto cardiocircolatorio nella casa di Tigre, in Argentina, dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l’operazione alla testa di qualche settimana fa. Non se n’è andato (solo) un calciatore, è morto un simbolo odiato e amato, un prodigio capace di tenere insieme le qualità che possono fare di un palleggio o di un dribbling un gesto estatico, e i lati personalità che chiamiamo oscuri quando li guardiamo con gli occhiali delle convenienze e dei galatei perbenisti. Non si possono scindere i due aspetti, le vittorie dai comportamenti, le virtù dai vizi, non possono valere per lui i discorsi del moralismo e della correttezza. Maradona era prendere o lasciare, non c’erano mezze misure, un prodotto indigesto e stupefacente che ricordava al mondo con la sua contraddizione quella dei poteri che lo dominano, delle classi in cui si divide, delle plebi che continuano a chiedere un riscatto. E lui anche questo ha rappresentato, basti pensare a quando, nel 1984, il presidente Corrado Ferlaino lo portò miracolosamente a Napoli, soffiandolo alle squadre del Nord, forse proprio perché troppo spostato rispetto ai cliché delle squadre nordiste. Vi restò sette anni vincendo due scudetti incarnando l’entusiasmo e l’anima profonda della città, in una sintonia immediata con il sentimento popolare che in quell’argentino sentiva battere il suo stesso cuore, il disordine, lo sberleffo, la sregolatezza, il rifiuto del compromesso e soprattutto la dignità che non viene mai meno, anche quando sembra concedersi a quelli che la buona società chiama riprovevoli eccessi, dalla droga al sesso senza limiti alle frequentazioni di ambienti fuorilegge. Maradona non aveva remore, non si nascondeva dietro al paravento dell’ipocrisia, si mostrava per quello che era, e già questo lo portava a infrangere il tabù di una cultura sociale in cui l’apparenza non coincide affatto con la sostanza e l’esercizio più comune è la rimozione e il doppiopetto rassicurante. Il che non vuol dire che sia stato un modello, vuol dire semplicemente che sono i Maradona che ci ricordano i limiti e i mascheramenti dei modelli e dunque assolvono a una funzione decisiva per metterli in discussione e rigenerali. A questa funzione può assolvere solo chi è un unicum, e lui lo era, un corpo da tracagnotto, a prima vista incompatibile con qualunque gesto atletico che emanava e incarnava la grazia, il dono straordinario dell’armonia, in una sorta di alchimia calcistica in cui tutto quello che faceva diventava oro. E così lo chiamarono quando incominciarono a vederne le doti portentose, el pibe de oro. Unico anche nei modi in cui le sue gesta sul prato verde sono diventate leggendarie, basterebbe ricordare i gol che segnò all’Inghilterra nei quarti di finale dei mondiali messicani del 1986, quattro anni dopo la guerra delle Falkland, le isole che gli argentini chiamano Malvinas. Fu la partita della rivincita, che avrebbe spalancato le porte alla conquista del titolo mondiale, e fu lui a schiantare gli albioni con due reti che nessuno può dimenticare. La prima con un volo rapinoso che con la mano che inevitabilmente diventò de Dios deviò un corsa nella rete, beffando l’arbitro e gli inglesi; l’altra un minuetto a scatti, in cui Diego Armando s’involò dalla linea di centrocampo saltò come birilli quattro o cinque avversari e depositò la palla in rete eludendo l’intervento del portiere. Una mano galeotta e un gesto affascinante di tecnica e di reattività esplosiva, un’invenzione che proprio perché fraudolenta andava a colpire quell’avversario odiato e detestato. Un uno-due che solo lui poteva permettersi, un ossimoro che infrangeva la lealtà sportiva e al tempo stesso incantava lo stadio globale. È un gioco ricorrente quello di fare un classifica dei più grandi calciatore di tutti i tempi. È un gioco difficile perché le epoche sono diverse e il calcio è cambiato tantissimo nel suo rotolare su un campo ormai più che secolare. Quasi sempre si finisce su una coppia, lui e Pelé e sarebbe facile ricondurli all’apollineo (il brasiliano) e al dionisiaco (l’argentino). Edson Arantes do Nascimiento ha segnato più di mille gol e ha vinto tre mondiali, Maradona, di contro a lui, all’irresistibile bellezza dei suoi giochi di prestigio, potrebbe evocare il brutto anatroccolo di Andersen toccato dal Signore, con tante ombre, i tradimenti familiari, i processi per evasione, una squalifica per doping ai mondiali Usa… e, però, dipende ancora una volta dal punto di vista. Pelé, con le sue strabilianti gesta, non esce dal campo di calcio e se un altro posto gli dovessimo trovare non potrebbe essere che l’Olimpo sereno e luminoso, Diego Armando quella palla l’ha miracolata grazie alla fame e alla rabbia che si portava dentro, alla ferocia di chi esce dai bassifondi e sbatte il suo talento in faccia a chi comanda e vive ai piani alti della società. Ha giocato nell’Argentinos, nel Boca Juniors, nel Barcellona, nel Napoli, nel Siviglia e con i Newell’s Old Boys, ha vinto un campionato con il Boca e due con il Napoli, una Coppa Uefa ancora con il Napoli, un mondiale. A pensarci bene, non solo Pelé ma tanti altri campioni hanno vinto più di lui, ma non sta lì il motivo per cui oggi non piange soltanto il Dio del pallone. Maradona ha esorbitato nel rettangolo di gioco e fuori, ha continuato ad essere se stesso anche quando la sua carriera di giocatore è finita, quando ha provato a fare l’allenatore, quando si è candidato alla presidenza della Fifa sfidando l’immarcescibile Josef Blatter, quando ha continuato a ingrassare oltre ogni limite, a entrare e uscire dalle cliniche per disintossicarsi, a polemizzare e a dire quello che gli veniva di dire con la forza dell’istinto che continuava a ruggire dentro di lui. Uno che non nascondeva le sue simpatie per leader che per certi versi gli assomigliavano, scorretti, ruvidi, Carlos Menem, Fidel Castro, Hugo Chavez… Altro che dionisiaco, un gran figlio di m…, che una concrezione impareggiabile di geni ha reso un artista inimitabile e uno scandalo per la falsa coscienza del mondo opulento e soddisfatto di sé.
“Non sapete che vi siete persi”. Noi che non abbiamo visto Maradona. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Che si erano persi, i napoletani dell’avanti Diego Armando Maradona, mica potevano saperlo. La scritta “non sapete che vi siete persi” pare apparve sul muro del cimitero di Poggioreale dopo la conquista del primo Scudetto, il 10 maggio del 1987. Quei tifosi avevano visto Sivori, Jeppson, forse Sallustro. Maradona no. Che si sono persi i napoletani, gli argentini, i tifosi e appassionati di ogni latitudine e religione arrivati dopo il Boca Juniors della fine degli anni ’70, il mondiale messicano del’’86 e i due scudetti del Napoli invece lo sanno benissimo. Niente “io mi ricordo”, “io ero in curva B quel giorno”, “guarda là, nei distinti, io e mio padre stavamo là”. E comunque a piangere, a postare sui social, a pregare e dispiacersi per Maradona – scomparso mercoledì 25 novembre, all’improvviso, a 60 anni – c’erano pure 30enni e 20enni, ragazzi perfino più giovani, anche bambini. Una specie di nostalgia al buio, per quello che non si è vissuto; ma è mai possibile? El Pibe de Oro non è stato soltanto un calciatore: un’icona pop, un luogo condiviso nell’immaginario collettivo. E quindi transgenerazionale. Hanno scritto: è stato come Achille, Ettore, Ulisse; l’atleta come eroe omerico, non una novità. Ma gli aedo, tra corsivi ed editoriali, a questo giro hanno cantato più delle loro giovinezze perdute che della morte di Maradona. L’intimo, l’amico, l’icona, il mito. “La giovinezza finisce quando il tuo calciatore preferito ha meno anni di te”, ha sentenziato lo scrittore spagnolo David Trueba. Lo scrittore napoletano Massimiliano Virgilio ha rivisto tutto, e dopo la notizia: “Non è affatto così, una nuova età inizia quando il tuo supereroe da bambino diventa eterno”. A chi è nato dopo, il campione, è arrivato principalmente dalle cassette, poi Youtube, dai racconti del padre o del fratello maggiore. La favola con tutta la morale già svolta e strapazzata. Si sono affannati anche in questi giorni: a separare l’uomo dal fenomeno. Il primo inchiodato a ogni sua colpa confessata, supposta o perfino smentita. Quasi mai ricordando che a Villa Fiorito, dove Maradona è nato, era più facile incrociare un criminale che un allenatore. E che aveva 26 anni quando ha vinto il Mondiale, 27 al primo scudetto a Napoli, 30 al secondo. Lui stesso ha raccontato che quando nel 1991 lo arrestarono per possesso e cessione di cocaina, e le televisioni furono convocate per mettere il mostro in prima, il poliziotto che lo accompagnò fuori gli consigliò di coprirsi il viso con il giubbotto. “’Perché dovrei farlo?’ gli ho chiesto ‘non ho ammazzato nessuno’; poi gli ho suggerito: “Mettiti a posto la cravatta, c’è la televisione’. Ha seguito il mio consiglio senza pensarci su”. Era nato povero ed è diventato cebollita, pelusa, El Pibe de Oro, El Diez, Isso, Dieco, Tiechito, Dios. Non uno che sia bastato, e infatti è diventato lui stesso soprannome: Maradona. Troppa vita per un solo essere umano, per qualsiasi sceneggiatura o romanzo. Una vida tombola, conteneva moltitudini. È stato pure l’eroe, il messia, e hai voglia a slavare via dal pallone la politica e l’antropologia forzate, ma a ricordare il riscatto di Partenope, del Sud, dei napoletani “colerosi e terremotati” grazie al “Dio del calcio” sono stati gli stessi napoletani che negli ultimi giorni lo hanno pianto. Alfonso Fasano ha scritto su Rivista 11 che Napoli non riesce a sfuggire all’assenza e all’attesa di Maradona. Un eroe qui per sempre giovane e bello. La sera del 25 novembre, poco dopo la notizia della morte, a piangere appoggiato al murales enorme ai Quartieri Spagnoli e a parlare come della scomparsa di un parente c’era un ragazzo di vent’anni. Ne sarebbero arrivati a migliaia e pure più giovani, anche al San Paolo. Chi è nato a partire dalla seconda metà degli anni ’80 in poi si è nutrito dei ricordi degli altri, dei miracoli testimoniati dalle teche Rai, si è andato a cercare dove diavolo sono le isole Malvinas, o Falklands o come si chiamano. E poi ha visto Maradona. Quello imputato a prescindere, in fin di vita nei primi 2000, ballerino a Ballando con le Stelle e showman ne La noche del Diez, che riconosce il figlio Diego Jr dopo 19 anni, allenatore per l’Argentina, stravolto ai Mondiali di Russia, di nuovo in panchina a Dubai, Messico e infine al Gimnasia La Plata, dipendente dall’alcol, sorridente dopo l’operazione al cervello di inizio novembre scorso. Un corpo sempre assediato dai media, più o meno agile o sorridente, più spesso malfermo sulle gambe, gordo, gonfio come nella sua ultima immagine. Chi ha amato Maradona pur essendo arrivato dopo, è sempre stato cosciente che non avrebbe mai assistito a niente di paragonabile; si è nutrito di testimonianze e di storytelling come con Muhammad Alì, John Lennon e Che Guevara – forse nella società iperconnessa anche i miti sono diventati una questione più intima, personale, individuale. Chi non ha visto ma ha sentito comunque battere il corazón per Maradona, lo ha amato con disinteresse; senza aver mai esultato a un gol, senza aver gridato allo scandalo, senza poter separare l’uomo dal campione, e quindi senza condannarlo e inchiodarlo a ogni sua colpa o fallibilità. Le immagini di Diego sono negli occhi di ogni gioventù, ha detto a La Repubblica Michel Platini in un improvviso lampo di poesia. E queste gioventù, quelle che non hanno visto o vissuto Diego Armando Maradona, resteranno sempre con il dubbio soffiato dagli editorialisti: “Il suo è stato il calcio più bello”.
Francesco Battistini per il Corriere della Sera il 29 novembre 2020. Nun me piace 'o presepe. «Non ci sarà Natale. Io l' ho già celebrato il 30 ottobre: il Natale di Diego». Giovedì c' era anche il profeta del maradonesimo, in coda alla Casa Rosada. Non è riuscito a vedere il volto del suo dio, inizio e fine di tutto il suo mondo: come tanti, è sfilato a bara ormai chiusa e adesso aspetta d' andare pellegrino almeno sul sepolcro, appena lo permetteranno. Alejandro Verón si dispera a darsi un perché: «Che anno di merda, mi s' è pure incendiata la falegnameria! Però sono sereno. Maradona l' ho sempre onorato in vita e per farlo non ho certo aspettato che morisse». Se pensate sia da iconoclasti cacciare San Paolo dallo stadio di Napoli, per rimpiazzarlo con San Diego; blasfemo, concordare che fu Dio a far segnare quel gol di mano con l' Inghilterra; un' eresia, dire che c' è stato il verbo calcistico d' un solo D10S e tutto è compiuto: beh, se tutta la retorica cristica&calcistica vi ha indignato e un po' stufato, quel che crede il profeta Alejandro vi sembrerà roba d' anticristi biancocelesti. Ventidue anni fa, nella fatal Rosario, il 30 ottobre in cui si celebravano i 38 anni del campione, il giornalista sportivo Alejandro e un amico decisero di fondare la santissima Iglesia de Maradona. Doveva essere una parodia, diventò una liturgia. Sembrava un passatempo, e fu subito passione. Credeva fosse amore, e invece era religione: oggi sostiene di contare duecentomila adepti in sessanta Paesi e in seicento città, i più naturalmente in Argentina e a Napoli, e vanta 93mila follower su Facebook, cinquemila fedeli che si sono pure collegati all' omelia in morte di Diego. Coi riti e i miti, i fasti e le feste. Tutti i paramenti di un' incredibile confessione: «La nostra religione è sempre stata il calcio. E come ogni altra religione, dovevamo avere un nostro dio». Chissà Papa Francesco. Nella cintura di Buenos Aires, la chiesa della Medalla Milagrosa così cara a Bergoglio non è molto lontana dalla casa natale del Pibe dei miracoli, ma in questi giorni passano più pellegrini qua che là. E il rosario papale appoggiato sul feretro, la lettera pontificia spedita alla famiglia non dicono molto ai seguaci dell' Iglesia fubbaliera. Il loro Vaticano è nel barrio della Tablada di Rosario e non si sentono scismatici: «Noi veneriamo un dio razionale e uno passionale, ed è sempre Maradona». C' è chi ci vede del sincretismo e chi del semplice cretinismo. Del resto in quest' epoca terrapiattista - è il 60 d.D. (dopo Diego), per usare il calendario adottato dai maradoniani - siamo circondati di pastafariani che credono in un Creatore a forma di spaghetti e d' adoratori del bacon o della Grande Teiera universale, di cultori del divino Bob Marley come del jazzista Coltrane, di chi identifica dio nel principe Filippo o in Putin, dei chiamati da Google e di chi prega lo Jedi di «Star Wars»: perché stupirsi d' un cenacolo che officia matrimoni col piede sul pallone, esige che all' anagrafe i figlioli siano tutti Dieguiti e li battezza con la mano sulle pagine sacre di «Yo so el Diego», festeggia la Pasqua il 22 giugno per ricordare la vittoria mundial dell' Argentina sull' Inghilterra? In questi giorni di lutto nazionale, la chiesa maradoniana è l' ospite fissa delle arene tv argentine. Scende da Rosario con la grottesca tavola dei suoi dieci comandamenti, annunciati per davvero al popolo eletto degli stadi: ama il calcio su tutte le cose, non proclamare il nome di Diego invano, onora il pallone e alla fine, tanto per non essere troppo barbosi, «cerca di mantenerti in forma con la tartaruga». Anche le preghiere sono da barzelletta. Si crede in un solo Diego calciatore onnipotente e lo s' invoca a mani levate: «Diego nostro che sei nei campi rimetti a noi ciò che rimettiamo agl' inglesi e non c' indurre in fuorigioco, ma liberaci da Pelé». Un po' dappertutto il pallone è una fede, in certi posti la fede è nel pallone. Se n' era accorto Manuel Vázquez Montalbán, nello stesso 1998 in cui nacque l' Iglesia de Maradona e lui scrisse il suo serissimo saggio «Calcio, una religione alla ricerca del suo dio»: via via, diceva, la divinità s' è incarnata in Di Stefano, in Pelé o in Cruyff, perché si tratta di monoteismo sportivo e ogni epoca richiede una devozione gelosa. Ma quando il gioco finisce, e gli dei cadono nella polvere, si passa ad altri culti. La Mano de Dios, no: «L' hanno crocifisso e maltrattato - s' esalta Veròn -, gli hanno spezzato le gambe, eppure è sempre resuscitato. Si dice che gli argentini sono ingrati: lo furono con Gardel e con Che Guevara, ma per Diego s' è visto che cos' è stato». In calle Alvarado, a pochi metri dalla Bomboniera, i pulcini dello Sportivo Pereira s' allenano in una palestra unica al mondo: la volta è stata affrescata come la Cappella Sistina. Un Giudizio Universale di 500 metri quadri dove Adamo lo fa Messi, gli angeli hanno le facce di Batistuta o di Caniggia e Dio, va da sé, è un Maradona fotomontato che tende l' indice. «Volevamo farne un tempio sacro», ne è fiero Ricardo Elsegooa che ha avuto l' ispirazione e ha trovato il suo Michelangelo in un writer meno costoso, Santuke, che per 20mila dollari ha rifatto creato e creatore: «In quel gesto divino, è come se Diego lasciasse l' eredità a Messi», la sua spiegazione. Messia Messi? Questa sì, è la bestemmia peggiore.
Gigi Garanzini per “la Stampa” il 30 novembre 2020. Ancora Maradona? Ancora e sempre, perché lo vuole la ghente. Così la chiamava lui, aspirando la g e bucando con gli occhi la telecamera quando aveva un messaggio forte da lanciare. La ghente. Quella che lo ha amato, lo ha capito, quella che a dispetto di tutto lo ha comunque tenuto nel cuore per tutti questi anni. Quella che sta dando vita a un funerale ininterrotto e planetario, proprio come fosse stato lui a chiamarla a raccolta per l' ultimo saluto. Ed è un fenomeno ai confini del paranormale, perché la stragrande maggioranza di chi lo piange ai quattro angoli del mondo lo aveva perso di vista la bellezza di 25 anni fa: al tempo degli ultimi calci in Argentina, con una coda breve quanto ingloriosa da Ct più di dieci anni fa. Appese le scarpe al chiodo, tracce assai più profonde delle sue da allenatori o da dirigenti avevano lasciato, per esempio, fuoriclasse come Di Stefano e Cruyff commemorati e celebrati come meritavano: e come toccherà a Pelè quando arriverà il suo turno, il più tardi possibile. Sono i tre nomi del calcio del passato che sino a ieri si contendevano con Maradona i tre gradini del podio di tutti i tempi. Ma dal pomeriggio di mercoledì - starà sghignazzando a quest' ora Diego da lassù - anziché voi soloni veri o presunti ha cominciato a votare la ghente. La giuria popolare. E non ce n' è stato più per nessuno. È evidente, ed era francamente impensabile, che un fiume carsico di ricordi, di magìe, di debordante umanità ha continuato a scorrere per un quarto di secolo. Nelle vene aperte non solo dell' America Latina, avrebbe detto il suo amico Galeano, o dei quartieri spagnoli: ma del mondo intero. Dando vita al più stupefacente cordoglio collettivo nella storia dello sport di tutti tempi. Con la sua brava dose di melassa, si capisce, perché questa era inevitabile prima della comunicazione globale e dei social, figurarsi ora. Ma con una serie di omaggi fuori ordinanza, a cominciare da quello dell' Eliseo. Il lungo ricordo firmato Macron è tra i più belli che si siano letti in questi giorni: un onore che la République aveva riservato sino a qui solo a capi di stato e grandi personaggi francesi, e ha esteso per la prima volta a un calciatore che in Francia non ha mai giocato. E poi in ordine sparso la maglia degli All Blacks con il numero 10 deposta sul campo, quella del Newell' s di Rosario mostrata da Messi dopo il suo gol che fu per Leo la prima e per Diego la penultima. Anche la ghente di Napoli e la sua squadra hanno fatto di tutto per onorarlo: la splendida parata serale del Napoli in divisa argentina nello stadio che presto si chiamerà Maradona e le tante manifestazioni d' affetto della città, dove a volte ci si è dimenticato del lockdown e anche di mettere la mascherina. Ma le regole vanno sempre rispettate. Parola di Rino Gattuso, tecnico del Napoli, che ieri sera al termine della sfida vinta contro la Roma ha voluto chiarire: «Maradona è una leggenda, però in questo momento bisogna fare i bravi altrimenti se ne pagano le conseguenze».
Massimo Gramellini per il Corriere della Sera il 28 novembre 2020. La prima volta che incontrai Maradona fu negli spogliatoi del San Paolo. Stava a piedi nudi sopra una panca, avvolto in un accappatoio azzurro, e gridava: «Voi giornalisti siete dei cretini». Loro, noi - i giornalisti, insomma - prendevamo appunti in silenzio. Soltanto uno, particolarmente scrupoloso, arrestò la biro a mezz' aria per chiedergli: «Scusa, Diego: hai detto stupidi?». «No, ho detto proprio cretini». E tutti, rinfrancati, ci rituffammo sui taccuini. Guardavo la scena a bocca aperta: avevo ventisei anni, come lui, ma lui era Diego Armando Maradona e io un cronistello sportivo agli esordi. Nonostante l' emozione, compresi subito che non ero soltanto in presenza di un fuoriclasse e di un balordo. Ero in presenza di un leader. Da lì in poi gli sono stato addosso per anni. Gli ho visto fare cose inenarrabili, nel bene e nel male. Ho passato notti in strada, acquattato dietro un cespuglio, per spiare i movimenti sospetti dentro la sua sempre affollatissima abitazione. L' ho atteso per ore fuori dagli aeroporti e dagli allenamenti a cui non andava quasi mai, ma quando ci andava non erano allenamenti, erano spettacoli. L' ho visto realizzare il Gol Impossibile (parole sue), sistemando il pallone sulla linea di fondo, là dove si interseca con l' area piccola del portiere: per fare gol da quella posizione devi violare una mezza dozzina di leggi della fisica, dando alla palla un effetto secco di novanta gradi, per di più in un tragitto brevissimo. Lui naturalmente ci riusciva perché era Maradona, ma era Maradona anche perché poi tornava sulla linea di fondo, si accucciava ai piedi di Zola o dei ragazzini delle giovanili, afferrava le loro caviglie e le muoveva dolcemente verso il pallone, nel tentativo vano e commovente di trasmettere un talento sovrannaturale, che, in quanto tale, non era insegnabile agli altri. L'ho visto palleggiare da mezzogiorno all' una con un mandarino per allietare la scolaresca di un quartiere disagiato, e provateci voi a palleggiare così a lungo senza far crollare al suolo il mandarino e soprattutto la gamba. Aveva muscoli da personaggio mitologico. Compreso quello del cuore. In un mondo dove il talento suscita invidia, i compagni di squadra lo adoravano quasi più dei tifosi. Eraldo Pecci mi ha raccontato che un giorno, appena arrivato a Napoli, si era lamentato negli spogliatoi per il cattivo funzionamento della tv del suo residence. La sera, tornando in camera, Pecci aveva trovato la porta spalancata e, dentro, due gambette che spuntavano da sotto il televisore in mezzo a un groviglio di fili: era Maradona che gli stava cambiando l' antenna. Un' altra volta si impuntò con il presidente Ferlaino perché non aveva pagato il premio-partita a un paio di ragazzini della Primavera convocati in prima squadra. Andò a trovarlo nei suoi uffici. «Il presidente non c' è», gli disse la segretaria. «Non ho fretta, lo aspetto qui». E si piazzò con un libro e un paio di riviste nell' anticamera per tutto il pomeriggio. Ritornò il giorno dopo, e quello dopo ancora, finché Ferlaino aprì la porta, e il portafogli. Che cosa abbia rappresentato per Napoli e per il Napoli lo può dire solamente un napoletano, e di solito nel dirlo gli vengono le lacrime agli occhi. Di sicuro lui era Maradona soltanto lì, anche se esserlo gli costava una fatica del diavolo. «Hai mai pensato che cosa si prova a essere me?», mi disse dopo l' ennesima mattana (aveva rischiato di mettere sotto un bambino con la macchina). «Intendo: essere Maradona ventiquattr' ore al giorno, mentre vai al bar a berti una birra da solo perché magari sei triste, o dal tabaccaio a comprare le sigarette». Gli piaceva fare la vittima. Immaginare che il mondo intero ce l'avesse con lui era il suo modo di caricarsi. Giocava a fare l' incompreso e il povero ricco, ma non era mai né finto né servile. Era riuscito a litigare persino con papa Wojtyla durante un' udienza, dicendogli che avrebbe dovuto vendere qualche tetto d' oro del Vaticano per aiutare i bisognosi. «Ma gli hai detto davvero così, Dieguito?». «Te lo giuro!» e rideva come un monello che sa di averla fatta grossa. Poi però era capace di slanci di generosità sorprendenti e di carinerie assolutamente gratuite. L' ho visto fendere contromano una folla soffocante, a rischio della sua incolumità, per tornare a stringere la mano di un ignoto cronista che alla fine di un' intervista si era dimenticato di salutare. Posso dirlo con certezza perché quell' ignoto cronista ero io. E perché lui era così: prima ti dava del cretino e poi ti dava la mano. È opinione comune che i miti, visti da vicino, rivelino le debolezze della loro natura umana. Maradona, al contrario, è sempre stato più stimato da chi lo ha conosciuto che da chi ne ha desunto il carattere per sentito dire. Non intendo negare le sue ombre gigantesche: le paternità multiple, la droga, le tasse non pagate, persino le fucilate dalla finestra di casa addosso a un manipolo di curiosi. Maradona non si è fatto mancare nulla. Ma la sua storia non è solo un impasto di talento e trasgressione. Per trasformarla in leggenda ci è voluto un carattere. Purtroppo, il suo era bipolare: lo spingeva in cima e lo trascinava negli abissi, come quegli artisti che in un raptus creano le opere e in un altro le distruggono. Le sue, per fortuna, non è riuscito a rovinarle nemmeno lui. In un lontanissimo Napoli-Fiorentina l' ho visto dribblare un giovane Baggio ed essere contro-dribblato da lui: non credo che il calcio avrà mai più niente di meglio da offrirmi. L' ho detestato quando sobillò i napoletani contro la nazionale italiana, alla vigilia della semifinale mondiale, ergendosi a improbabile caudillo di una secessione. Ma quando, durante la finale persa contro la Germania, l' intero stadio di Roma lo fischiò, non mi vergogno a dire che dal mio angoletto in tribuna stampa feci un tifo disperato e ingiustificato per lui. Non sarà mai ricordato come un modello di vita e resterà sempre un eroe tragico, almeno per me. Di quelli che non riescono a cambiare sé stessi e ci lasciano all' improvviso con addosso un senso di spreco e di incompiuto. Poi però basta mettere un video dei suoi gol per trovare un senso. Se dovessi scrivere la sua epigrafe, prenderei in prestito le parole di Eric Cantona: «Tra cento anni quando si parlerà di calcio si parlerà di Maradona, come adesso per parlare di musica si parla di Mozart».
Dagospia il 28 novembre 2020. Alessandro Fiesoli, ex inviato ''QN - La Nazione'' su Facebook. CIAO DIEGO. In pochissimi avrete la pazienza e la voglia di arrivare in fondo, con tutta la mia comprensione, questo comunque e’ un ricordo di Maradona, un “coccodrillo” mai pubblicato che mi era stato ordinato dal mio ex giornale più o meno una decina di anni fa, in occasione di una delle precedenti crisi gravissime di Diego. L’ho incrociato tante volte, a Firenze per la prima volta per l’amichevole fra l’Argentina e la prima Fiorentina dei Pontello, lo marcava Casagrande e fece un gran gol, a seguire a Barcellona, quando rientro ‘ dopo il tentato omicidio di Goicoechea, a Napoli soprattutto per la domenica del primo scudetto contro la Fiorentina, quel pareggio amichevole con il primo gol di Baggio in A, a Buenos Aires per il suo matrimonio, e poi mondiali vari, da Italia ‘90 a Sudafrica 2010, quando da ct dell’Argentina andava in panchina con l’abito da sposo, ma non gli porto’ fortuna neanche in campo.. ecc..ecc. A Marsiglia, per il quarto di finale Argentina-Olanda mondiali ‘98 (0-1, gran gol di Bergkamp) arrivo ‘ all’improvviso all’hotel delle palme, sul mare, per commentare la partita per la Tvl argentina. Era un periodo difficile, confuso per lui, andai ad intercettarlo insieme a un collega napoletano, si presentò’ molto grasso con un micro slip bianco e nero e zoccoli. Si diresse verso la piscina, vide una bella signora molto elegante a bordo vasca e per cercare di far colpo comincio ‘ a palleggiare, mentre non restava che guardare incantati quel piede sinistro, come fa in “Youth” una sua controfigura, Sorrentino senza volerlo ha rappresentato una scena vera. La signora se ne andò’ via annoiata e indispettita, senza neanche averlo riconosciuto. In quell’occasione racconto ‘ a me e al mio collega, fra le altre cose, una storia a suo modo strepitosa. Questa: “In Argentina sono stato anche ricoverato in un ospedale psichiatrico, nei corridoi incontravo chi pensava di essere Giulio Cesare, Napoleone, e quando rispondevo ‘piacere, Maradona’ quei picchiatelli mi ridevano dietro, ‘’ma guarda questo chi pensa di essere”, commentavano”. Anche questo era Maradona. E questo è quel mio vecchio “coccodrillo”, ringraziando chi ha avuto l’attenzione e la grande cortesia di recuperarlo, mi tolgo lo sfizio di pubblicarlo qui, solo per amici di buona volonta’’.........di Alessandro Fiesoli.
Dagospia il 28 novembre 2020. Non ce l’ha fatta a sopravvivere a se stesso. Dopo essere stato Maradona, tutto il resto, semplicemente la vita, era diventato intollerabile. «Senza calcio non sapevo più che cosa fare, non sarò mai un uomo comune», aveva detto[als1] . Nessuna «mano de Dios» poteva salvarlo. Il suo lungo addio si e concluso. Niente lieto fine. Adios, Maradona. [als2] Eccessivo in tutto, anche nel vuoto che lascia. Come Evita Peron e Carlos Gardel, il re del tango, in quella che gli argentini considerano la loro Trinità. Lo immortaleranno nel bronzo, come fecero per Gardel: «Grazie Dio, per il calcio. Grazie Dio, per Maradona». Era nato in una baracca senza pavimento, quinto di sette figli, e una volta in cima al mondo ha goduto senza misura della sua vita, ha consumato tutto senza ritegno, fino a distruggersi. Ci vuole talento, anche per sprecare tanta fortuna. Non e riuscito a fermare il suo lento suicidio, fatto di vent’anni di tossicodipendenza senza scampo, di inaccessibili luoghi oscuri, di una tomba anticipata. Ha scelto di che cosa vivere, di calcio, e come morire, di cocaina . Non ha mai voluto diventare una figura rispettabile, come Pelè, per non sentirsi una figurina . Nella sua ultima partita di saluto al calcio, il 10 novembre del 2001, alla «Bomboniera», lo stadio del Boca, già sfatto e stanco, quel cuore scassato e dilatato, da bufalo, funzionante solo a meta, prese il microfono e urlo, in lacrime: «Il calcio e la cosa più bella del mondo, ma io sono sbagliato, e ho pagato». Il prezzo lo ha fissato da solo. Il più alto. Il massimo, come al solito. «Gracias de todo, Diego», migliaia di striscioni come questo che ora valgono come estremo saluto per chi e stato il mago del calcio, il giocatore premiato a Oxford come «maestro ispiratore di sogni». Di tutti i possibili o impossibili modi di definirlo, forse e il più bello. I sogni suoi, degli argentini, di Napoli. A modo suo, molto suo, simbolo del Sud del mondo, come gli piaceva pensarsi, quando si scagliava contro i potenti del calcio e della terra, senza fare distinzioni fra la Fifa e l’Onu, Havelange e Bush, in un misto di populismo e contraddizione , sentendosi figlio del popolo nonostante i miliardi e le Ferrari in garage, ribelle con tutti a cominciare da se stesso. Mancino assoluto, l’imperfezione impareggiabile. In campo, il numero uno. Imprese e crolli. Trionfi e scandali. Il doping e gli arresti. Amori e odi, in quantita industriale i primi come i secondi. Il figlio non riconosciuto, Diego junior. Vent’anni da campione. Re del mondo nell’86 in Messico, tre scudetti, e due di questi a Napoli, una coppa Uefa. Giocatore del secolo secondo la Fifa. Suo il gol riconosciuto come il più bello della storia del calcio, il secondo all’Inghilterra in quei mondiali vinti, dopo il primo, la famosa «mano de Dios». Un solo piede, il sinistro: 353 gol, appena sei di destro. Il tatuaggio del Che e i capelli arancioni. L’amicizia con Fidel e le ultime comparsate per tirar su qualche soldo, come quando ha inaugurato in bermuda una funivia. Le apparizioni in tv, il suo fantasma grasso e sudato, la voce poco più di un rantolo, lo sguardo stanco ma testimone di una storia unica, di un romanzo dal finale disperato ma dai capitoli straordinari. Il fisico devastato, e lui che continuava a infierire, senza pieta per se stesso. Maradona ha continuato a morire quando e diventato un ex calciatore, nel ’97. Aveva cominciato nell’82, con la sua prima striscia di coca. La rinuncia al pallone come una piccola morte, una delle tante, fra droga e crisi cardiache, che lo hanno stroncato . Alla base, l’incapacità di accettarsi solo come Diego, non più il venerato Maradona. «E’ stato circondato da ipocrisia e cinismo», l’accusa di Menotti, il ct dell’Argentina campione del mondo nel ’78. «L’errore e stato quello di farlo parlare di tutto, come se a rispondere fosse il suo piede sinistro», disse una volta Valdano, suo ex compagno di squadra e amico leale, fino a quando ha potuto. Ma ora e tardi. Qualunque sia stata la ragione della sua vita troppo presto perduta, e morta con lui. Quello che resterà, per sempre, e la leggenda di Maradona, genio del pallone. Non solo talento, anche un grande cuore. Sempre amato e rispettato dai colleghi, compagni e avversari, che forse lo hanno conosciuto meglio di tutti. «Se il calcio e una religione, lui ne e stato il primo dio globale», ha scritto Montalban. Veniva dagli sterrati della «Buenos Aires amata» cantata dal tango, Maradona. Lanus, il barrio di Villa Fiorito. «Questo e maschio, pure muscolo», disse suo padre, Diego senior, appena lo vide. Un «cebollitas», un ragazzino tarchiato, forte. Un «tappo eccezionale», come lo avrebbe definito Zagallo, ct del Brasile. Una forza magica, spiegata con un difetto fisico, come nel caso di Garrincha: una cifosi della spina dorsale, per Maradona, che influenzava la muscolatura, con un quadrato dei lombi più corto e spesso, più tozzo. «Per noi il pallone era qualcosa da domare, per lui un prolungamento del corpo. Quando lo vedevo palleggiare, mi rendevo conto che il mio e il suo erano mestieri diversi», ha raccontato ancora Valdano, che pure e stato campione del mondo con quell'Argentina nell’86, un gran campione. Ma non come Maradona, nessuno come lui, in quanto a talento puro. «Non te ne andare, resta», gli urlarono i 40.000 spettatori dello stadio di Buenos Aires quando lui, ancora raccattapalle, fece il giro del campo palleggiando, prima di una partita. E quando venne il suo turno, nell’esordio in serie A quindici anni, non passo il primo pallone che toccava a un compagno più esperto, ma lo utilizzo per un tunnel, un paio di dribbling e per puntare verso la porta. Subito leader. «Un fenomeno, ma già un buon compagno di squadra», la testimonianza di un suo amico d’infanzia, Osvaldo Dalla Buona. Ancora troppo giovane, fu scartato da Menotti per i mondiali argentini del ’78, e dovette aspettare otto anni per rifarsi in Messico. In mezzo, due anni nel Barcellona, resi difficili da un’epatite virale, dalla caviglia spezzata da Goicoechea e dalle liti con il presidente Nunez, ma anche la citta dove comincio a trasformarsi in un’industria con la «Maradona Producciones», sede nell’Avenida Diagonal, e soprattutto Napoli. La storia pazzesca di una citta per sette anni ai suoi piedi, dove tutto gli era concesso, dalla clamorosa festa al suo arrivo il 4 luglio ’84 fino alla rottura con Ferlaino, un altro dei potenti da sfidare, come i presidenti dell’Uefa e della stessa federazione argentina, e a seguire Menem e Bush, e alla fuga di notte, volo AZ576 destinazione Buenos Aires, dopo essere stato trovato positivo al controllo antidoping in Napoli-Bari del 17 marzo 1991. Pochi mesi dopo, guarda caso, aver eliminato l’Italia in semifinale nei mondiali ’90, persi in finale con la Germania, per mano dell’arbitro messicano Codesal, in quella notte in cui l’Olimpico sprofondo nella vergogna per aver fischiato l’inno argentino, con il «hijos de puta» di un Maradona in lacrime. Napoli: dalla prima spigola mangiata con le mani, testa compresa, al Borgo dei Marinai, al coinvolgimento nell’inchiesta per traffico internazionale di stupefacenti ribattezzata «operazione Cina», per la presenza di un camorrista, «’o cinese» di Secondigliano. I due scudetti con Bianchi (un nemico) nell’87 e con Bigon (un amico) nel ’90, lui il secondo santo della citta con San Gennaro. Le sue foto come un’immagine votiva. Di più, non si può dire. Di più, c’era la cocaina. In molti sapevano, e chi sapeva copriva. Maradona era tutto, in tutti i sensi. Era le vittorie e i soldi. Era la felicita. Fino a quando e stato lasciato solo, a pagare, un peccato diventato all’improvviso soltanto suo. Abbandonato, ma non del tutto. I mondiali Usa del ’94 avevano bisogno del suo aiuto, gli sponsor reclamavano, premevano sulla Fifa, il battage promozionale con i Clinton, Faye Dunaway, Rod Stewart e Steve Wonder non era bastato a scaldare il novanta per cento dei distratti americani. Serviva Maradona. Dimagri, torno in forma. Anche troppo in forma, pero. Spaventava chi non osava correre il rischio di doverlo di nuovo premiare come campione del mondo. E dopo l’urlo in diretta mondiale per il gol alla Grecia, fu inchiodato da un altro esame antidoping. Positivo, efedrina, nuovo scandalo mondiale. Da li, quando aveva già 34 anni, tanti per un calciatore, non si e più ripreso. L’ultima partita il 25 ottobre del ’97, 2-1 con il Boca in casa del River Plate. Il ritiro cinque giorni dopo, il giorno del suo trentasettesimo compleanno. Ma la sua vita senza calcio e durata la miseria di sette anni scarsi. Di più, non ha resistito. Ha scritto un bambino di Napoli: «Maradona, anche se io non l’ho conosciuto, non e un personaggio inventato, come Re Artù o l’Uomo Ragno. Maradona e veramente esistito, ed esiste ancora».
· E’ morto Valéry Giscard d’Estaing.
Ha rivoluzionato la comunicazione dell'Eliseo. Francia in lutto, morto l’ex presidente Giscard d’Estaing: era positivo al covid. Redazione su Il Riformista il 3 Dicembre 2020. È morto a 94 anni l’ex presidente della Repubblica Valéry Giscard d’Estaing. Era risultato positivo al coronavirus, hanno fatto sapere i familiari. Giscard d’Estaing è stato presidente dal 1974 al 1981. È stato anche grande sostenitore del progetto europeo. L’ex presidente è morto “circondato dalla sua famiglia”, nella sua proprietà di Authon nel Loir-et-Cher. Negli ultimi mesi era stato ricoverato più volte per problemi cardiaci. Alla sua elezione alla Presidenza della Repubblica, nel 1974, aveva 48 anni. La sua immagine ha rivoluzionato quella della presidenza della Repubblica: più dinamica rispetto al passato. Fu tra i primi, appena entrato nell’esecutivo da sottosegretario nel 1959, ha capire il potenziale comunicativo della televisione. Fu eletto al Parlamento la prima volta nel 1956. Una volta eletto all’Eliseo, aveva 48 anni, perseguì il cosiddetto “changement dans la continuité”, cambiamento nella continuità. Fu sempre propenso al dialogo con gli avversari politici e l’opposizione. È stato il primo Presidente gollista e successore dell’erede del generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche oltre un anno fa, durante i funerali a Parigi di un altro ex presidente, Jacques Chirac, che era stato il suo primo ministro. “Le indicazioni che aveva dato alla Francia guidano ancora i nostri passi. Servo dello Stato, politico del progresso e della libertà, la sua morte è un lutto per la nazione francese”, ha detto il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, che ha specificato come nel suo “mandato di sette anni ha trasformato la Francia”.
Leonardo Martinelli per la Stampa il 3 dicembre 2020. Fu l'Emmanuel Macron degli anni 70: Valéry Giscard d'Estaing, che si è spento ieri a Tours all'età di 94 anni, ne aveva 48 quando fu eletto nel 1974 presidente di Francia, il più giovane fino a quel momento (un primato battuto proprio da Macron nel 2017). E Vge (la sua sigla era il suo soprannome) si presentò subito come l'incarnazione di una modernità trionfante e un liberale convinto (espressione di un centro-destra moderato e democristiano, non gollista in senso proprio). Rivoluzionò la comunicazione politica dopo gli anni paludati del generale de Gaulle e di Georges Pompidou. E fu allora e per tutta la sua lunga vita un europeista convinto. In tutte queste caratteristiche esiste un fil rouge fra lui e Macron. Nato il 2 febbraio 1926, a 18 anni raggiunse la Resistenza e partecipò alla liberazione di Parigi, per poi combattere in Germania e in Austria. Jean Monnet, padre dell'Europa, e il generale de Gaulle furono i suoi modelli, anche se già dagli anni Sessanta, sulla scia dei suoi molteplici incarichi come ministro (soprattutto dell'Economia e della Finanza, settori dove aveva una reale preparazione), fondò un partito alternativo a quello gollista, che diventerà più tardi l'Udf. Venne eletto presidente sulla base delle sue promesse di modernizzazione dell'economia e della società (siamo in pieno nel post '68). Tra le altre cose, Giscard d'Estaing fece abbassare a 18 anni l'età per votare e promosse la legalizzazione dell'aborto. Si faceva ritrarre nei manifesti elettorali mentre sciava o quando giocava a pallone. Faceva il moderno, il politico diverso da quelli più tradizionali, anche se veniva da una famiglia dell'alta borghesia ed era un prodotto dell'élite francese, compresa la laurea alla prestigiosa Ena. Sul piano internazionale, anche grazie al legame di amicizia che lo legava a Helmut Schmidt, rafforzò l'asse franco-tedesco e attraverso questo fece avanzare l'Europa comunitaria, con la creazione del Sistema monetario europeo nel 1979. I suoi problemi iniziarono con la dimissione del suo primo ministro, un certo Jacques Chirac, nel 1976. Poi ci fu il deteriorarsi della situazione economica, a causa dei due choc petroliferi. Fu anche coinvolto in uno scandalo, quello dei diamanti che gli sarebbero arrivati in regalo dall'imperatore centrafricano Bokassa. E così il 10 maggio 1981 perse le presidenziali contro François Mitterrand. Come confessò molti anni dopo, entrò in una fase di depressione personale: quella disfatta non l'aveva vista arrivare. Europarlamentare dal 1989, ha poi messo tutte le sue energie nell'ideale europeista. Guidò la Convenzione sull'avvenire dell'Europa, fra il 2001 e il 2003, che portò alla nuova Costituzione europea. È rimasto lucido fino alla fine, intervenendo regolarmente sui media per dare il proprio giudizio sul destino e l'evoluzione della sua amata Francia.
L'addio al presidente francese. Adieu a Giscard d’Estaing, nobile statista che portò la pace e la chiamò Europa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Dicembre 2020. «Voi non avete il monopolio del cuore», disse Giscard in televisione durante il primo duello elettorale all’americana all’avversario socialista Mitterrand, che lo aveva in quel momento superato al primo turno. Era il 10 maggio del 1974 e la Francia usciva dagli anni del gollismo nazionalista e lui, il sottile competente e charmant aristocratico si presentava come garante della modernità europea. Valéry Giscard d’Estaing fu l’ultimo vero statista europeo, un aristocratico ironico ed elegante, giustiziato dal Covid perché, a 94 anni e con parecchi difetti cardiaci (sempre la questione del cuore) era un candidato perfetto per l’Rna del virus assassino. Naturalmente, i giovani non lo ricordano. Ed è naturale ma è anche un peccato, perché Giscard, come tutti lo chiamavano fu un personaggio senza il quale il mondo, specialmente l’Europa, sarebbero stati diversi e non migliori. Nella politica interna francese dimostrò che è possibile andare oltre lo sfiatato scontro fra destra e sinistra, inventando la terza posizione della gente intelligente. E la prova è che Giscard face passare, benché conservatore, la legge sull’aborto, abbassò l’età del voto a diciotto anni, venne incontro al femminismo e alle lotte per i diritti civili prendendo in contropiede le sinistre alle quali poteva appunto dire «Non crediate di avere il monopolio del cuore, perché ne abbiamo non meno di voi». Inoltre, Giscard era un grande tecnico della finanza, un uomo esperto di banche, di borsa, di economia, e per queste doti il generale Charles de Gaulle lo aveva voluto come suo ministro delle Finanze. Dopo De Gaulle, fu eletto all’Eliseo un super gollista come Pompidou nella tradizione della grandeur statale francese che si esprime nell’architettura e nell’urbanistica del Premier Arrondissement di Parigi, dove edifici e boulevard mostrano lo Stato centrale e centralizzatore. Giscard rese quello Stato agile e moderno sapendo bene che quella forma di potere era stata creata da Luigi XIV ed era riemersa con la Quinta Repubblica, passando per due Napoleoni con l’ultimo dei quali crollò sotto i prussiani, quando i parigini che avevano cercato la guerra gridando “A Berlin! A Berlin!” si ritrovarono i prussiani sotto le mura di Parigi, che ardeva nella rivolta. Non si tratta di spigolature storiche: la guerra del 1870 fece da madre alle due guerre mondiali del bagno di sangue mondiale fra il 1914 e il 1945 e Giscard sapeva bene che l’egemonia in Europa aveva cambiato gestore ed era passata dalla Francia alla Germania o per meglio dire alla Prussia. E sapeva che le due guerre mondiali, che anche lui considerava un’unica guerra, erano state la prosecuzione del duello fra Parigi e Berlino che per due volte si concluse con l’umiliazione del vinto, costretto a firmare la resa su un vagone ferroviario sui binari morti in una foresta. L’idea di Giscard era che l’Unione Europea dovesse chiudere quel latente conflitto trasformandolo in un patto chiamato Unione Europea, che sancisse un legame più feroce del matrimonio fra le due potenze per regnare insieme scongiurando altre sciagure. Questa non era stata affatto l’idea di De Gaulle, il quale pensava invece a un’Europa dominata dalla Francia fin dai tempi della sua altera resistenza antitedesca durante il suo esilio a Londra. Giscard comprese che quella fase doveva essere chiusa ed era favorevole alla partecipazione del Regno Unito all’Ue, con diffidenza. E quando la Brexit traumatizzò l’Unione, Giscard disse che gli inglesi si sarebbero pentiti e che comunque il loro esempio non sarebbe stato seguito da altri. Creò così il suo mito adattandolo a quello dell’ultimo astro occidentale, John Fitzgerald Kennedy, il Presidente che trasformò la Casa Bianca nella Camelot di Re Artù, l’uomo per cui aveva perso la testa l’attrice sex symbol Marylin Monroe e che aveva costretto a capitolare sulla crisi cubana il successore di Stalin, Nikita Krusciov. Giscard non pensava di far capitolare nessuno ma di arrivare alla moneta unica europea. La storia della moneta unica si concluderà più tardi con l’unificazione tedesca, quando il cancelliere Khol andò in Francia per chiedere il permesso di inglobare anche l’ex Repubblica democratica tedesca, offrendo come dote all’Europa il prestigioso Deutsche Mark, che avrebbe preso il nome di Euro. Ma il lavoro che portò a quel risultato fu tessuto proprio da lui, Valéry Giscard d’Estaing che chiamò al suo fianco il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Fu così che Francia e Germania trovarono la formula aurea grazie alla quale l’Europa sarebbe fiorita (almeno questa era l’intenzione, la visione) grazie alla industria tedesca e francese che, insieme, avrebbero garantito solidità. Da allora ad oggi fatti enormi sono accaduti: il crollo dell’impero sovietico e il ritorno all’isolazionismo (lo “splendido isolazionismo”) dei popoli di lingua inglese definitivamente fuori dallo scacchiere europeo sul quale avevano speso milioni di dollari, di sterline e centinaia di migliaia di morti. Se si capisce, al di là delle rievocazioni d’obbligo, il valore che Giscard portò all’Europa di oggi, si può cogliere meglio il senso della fuga dall’Europa dell’America di Trump con l’America First e del Regno Unito di Boris Johnson. Non è un caso che proprio mentre muore Giscard, il Regno Unito è – prima dell’Europa – già pronto al vaccino non dovendo dipendere da Bruxelles, proprio adesso fra inglesi, canadesi e americani fiorisca un travolgente dibattito fra storici e politici sul tema: chi diavolo ce l’ha fatto fare –a noi inglesi, americani, canadesi, australiani e neozelandesi, di andare a farci ammazzare in Europa per impedire che diventasse una provincia economica tedesca, se alla fine il risultato è proprio questo: la terza guerra mondiale l’ha vinta la Germania con le sue esportazioni dominanti e gli europei sono la sua provincia. È un dibattito traumatizzante di cui varrà la pena parlare, ma è certo che la presenza di Giscard, più ancora di quella successiva di Mitterrand e degli altri fino a Macron, ha reso praticabile quell’accomodamento per cui la Germania è e resta effettivamente l’uber alles produttore di ricchezza, ma la Francia è il suo partner necessariamente sorridente e partecipe perché non potrebbe mai confessare il suo ruolo subalterno a Berlino, patteggiato e garantito per almeno un secolo dall’ultimo vero statista europeo, quello che portava con leggerezza il nome altero e scostante di Valéry Giscard d’Estaing.
· E’ morto Alfredo Pigna.
SE NE VA A 94 ANNI ALFREDO PIGNA, CONDUSSE "LA DOMENICA SPORTIVA". Da sport.virgilio.it il 20 novembre 2020. La scomparsa di Alfredo Pigna, morto a 94 anni, ha addolorato tutto il mondo della Rai, dei quotidiani e degli appassionati di sport che non hanno mai dimenticato la sobria eleganza di questo Signore della tv. Tutti ricordano le sue telecronache di sci, la conduzione della Domenica sportiva e la tante tappe di una carriera eccezionale ma la figura di Pigna merita ulteriori approfondimenti.
Pigna fu scaricatore di porto e marinaio. Nato a Napoli il 6 giugno 1926, dall’ingegner Corrado, primogenito di tre sorelle (Dora, Zora e Marò) rimase orfano di guerra a 14 anni (il padre morì a Tobruk (Libia). Per mantenersi agli studi di legge, dove si laureò, faceva lo scaricatore di porto, il marinaio e l’autista di camion nella Napoli occupata dalle truppe alleate. Nel ’50 emigrò a Milano dove iniziò a lavorare staccando biglietti alla Fiera Campionaria prima di iniziare a collaborare come cronista a Milano-Sera.
Come nacque l’amicizia con Buzzati. Pigna fu anche sceneggiatore e amico personale di Dino Buzzati, con il quale scrisse la sceneggiatura del film Il fischio al naso di Ugo Tognazzi tratto da un racconto dello scrittore bellunese, ma come si conobbero i due? La “colpa” fu di un articolo brillante scritto dal giornalista. Il retroscena è raccontato da Massimo Emanuelli sul suo sito: ” Lei scrive in maniera garbata – gli disse laconico Buzzati – Le piacerebbe collaborare con noi?” Con quel “noi” Buzzati intendeva la Domenica del Corriere. Quando un fattorino gli comunicò che Buzzati voleva parlargli, Pigna cascò dalle nuvole. Era convinto che Buzzati ignorasse la sua esistenza.
Le liti con Tito Stagno ed Enzo Ferrari. Pigna era sempre gentile e garbato ma guai a pungerlo nel vivo. Alla Domenica Sportiva aveva spesso contrasti con Tito Stagno, il curatore della trasmissione perchè lui, come ha rivelato il suo collega Zuccalà a Tmw “Alfredo, partenopeo, conduceva il programma col suo spirito napoletano, quel suo atteggiarsi sulla scena che Stagno gli rinfacciava. “Parli ad un’altra platea”, gli diceva ma Pigna era così e non poteva cambiare”. Poi c’è la storia della lite con Enzo Ferrari che in un libro sembrò attribuire al giornalista napoletano la consuetudine di chiedere ai campioni dello sci “se erano felici di aver vinto”, ritendendo evidentemente superflua e malposta la domanda. Pigna non la prese affatto bene e inviò al Corriere della Sera, che aveva pubblicato il brano del libro che lo riguardava, una piccata lettera accusando Ferrari di aver affermato sul suo conto cose non vere e gravemente lesive del prestigio di giornalista: “L’Ing. Ferrari sostiene che una delle sue aspirazioni era (e resta) quella di fare il giornalista. A giudicare dai risultati, direi che scegliendo il mestiere di costruttore ha raggiunto vertici che gli sarebbero stati negati in una professione nella quale dote maggiore resta la scrupolosa fatica che bisogna mettere nel catturare e nel vagliare le notizie. Soprattutto quelle che possono danneggiare e gravemente diffamare chi ne è protagonista (o vittima)”. Ferrari replicò a modo suo, la cosa finì lì apparentemente.
Il cordoglio dei colleghi. Il mondo dei social è stato pervaso dai ricordi di colleghi e appassionati. Scrive Riccardo Cucchi “Mi auguro che in molti lo ricordino ancora. È stato telecronista di sci, conduttore sobrio e sorridente della Domenica Sportiva, giornalista colto e intelligente. Un altro di quella grande generazione di uomini del servizio pubblico eleganti e preparati”.
Il ricordo di Pistocchi e Paola Ferrari. Anche Maurizio Pistocchi gli ha dedicato un tweet: “È arrivato il momento dell’ultima discesa ma Alfredo Pigna rimarrà nel cuore di chi ha amato il suo stile, elegante e garbato. Ciao Alfredo, e grazie per averci raccontato gli anni più belli: la nostra giovinezza”.
Infine Paola Ferrari: “Questo anno orribile si è portato via anche Alfredo Pigna . Grazie Alfredo di avermi insegnato tanto con la tua sapienza e la tua Bontà . Mi ricordo quanto eri orgoglioso di me quando mi chiamarono a condurre la Tua Domenica Sportiva . Grazie Maestro”.
· E’ morto Vincent «Vince» Reffet. Paracadutista jetman.
Leonard Berberi per il “Corriere della Sera” il 19 novembre 2020. E pensare che all' inizio, mentre vedeva il padre paracadutarsi, non è che trovasse quella attività così interessante. Poi - un po' la curiosità, un po' per mettere a tacere chi lo spronava almeno a provarci - si è lanciato anche lui, a 15 anni. E niente è stato più lo stesso per Vincent «Vince» Reffet. Tanto che, cercando di spingere i limiti dell' uomo sempre più in là, nel novembre 2015, si è buttato da un elicottero per affiancare con l' aiuto di un'ala in carbonio agganciata alla schiena un Airbus A380 - il più grande aereo passeggeri del mondo - in volo a 1.220 metri sopra Dubai. Cinque anni dopo quell' avventura che l' ha reso uno dei jetman (uomini-razzo) più famosi del mondo Vincent Reffet, 36enne originario di Annecy, Francia, ha perso la vita mentre si addestrava nel deserto degli Emirati Arabi Uniti. Le informazioni trapelate finora sono scarse. A confermare il decesso, avvenuto martedì scorso forse di fianco alla strada E66 a 51 chilometri dalla città emiratina, è la società «Jetman Dubai» che l' aveva ingaggiato. «Vince era un atleta di talento e un membro molto amato e rispettato del team», spiega in una nota. «Ci mancherai», ha scritto su Instagram lo sceicco Hamdan bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum, 37enne erede al trono di Dubai e presidente del Consiglio esecutivo. Fin da piccolo «Vince» cresce in una famiglia che prova un certo interesse per le attività estreme. «Sogno di volare da quando avevo 15 anni - ha ricordato alla stampa internazionale qualche tempo fa -. Mio padre era un paracadutista e non ho mai avuto passione per questo sport fino a quando non ho provato. Mi sono subito innamorato e l' ho fatto per metà della mia vita». «Far volare il mio corpo è ciò che amo», continuava a ripetere. E infatti dopo aver fatto il paracadutista e dopo aver gareggiato come atleta estremo, si è cimentato nello skydive combinato sul Monte Bianco e poi si è lanciato dal Burj Khalifa di Dubai, il grattacielo più alto del mondo (828 metri) con le insegne di XDubai, associato proprio al principe ereditario. La fama mondiale arriva nel 2015 quando con «Jetman Dubai» si lancia nel volo acrobatico attorno all' Airbus A380 di Emirates. Dietro di lui un' ala agganciata alla schiena, dotata di quattro propulsori, in grado di volare per 50 chilometri, fino a 6.100 metri di quota e a 400 chilometri orari. Strumento utile anche a evitare a lui e al compagno Yves Rossy di venire risucchiati dai quattro motori del velivolo. Il jetman non è un pilota, ha precisato diverse volte Reffet. «Nel mio caso si vola con un' ala - ha spiegato sul sito della Red Bull, suo vecchio sponsor -, non si afferra un joystick nella cabina di pilotaggio dove si danno gli input alla macchina e la macchina diventa il tuo corpo. Con l' ala sposti il corpo e quella si sposta con te. Questo è volare con un jetpack». E quando l' Associated Press gli ha chiesto cinque anni fa perché ha voluto volare di fianco a un Airbus A380 lui ha risposto che «è per la sensazione di libertà che mi dà. Quando faccio paracadutismo mi piace praticamente andare dove voglio, ma andando sempre giù. Con quest' ala adesso posso volare come un uccello».
· E’ morta Daria Nicolodi, attrice e sceneggiatrice.
(ANSA il 26 novembre 2020) - Stamattina è morta Daria Nicolodi, attrice e sceneggiatrice nata a Firenze il 19 giugno del 1950. A dare la notizia della scomparsa il maestro Dario Argento, che con lei aveva un sodalizio che li aveva legati sulla scena e nella vita. Si erano conosciuti nel 1974 , quando lei era già affermata per aver lavorato con Elio Petri, durante il casting per il film Profondo rosso e dalla loro relazione nacque, nel 1975, la figlia secondogenita Asia, che l'ha resa nonna di due nipoti nati rispettivamente nel 2001 e nel 2008. Con Argento poi collaborò a vario titolo a tutti i suoi film, da Profondo Rosso a Suspiria (1977), Inferno (1980), Tenebre (1982), Phenomena (1984), Opera (1987).
Da cinquantamila.it. Firenze 19 giugno 1950. Attrice e sceneggiatrice. A lungo compagna di Dario Argento (mamma di Asia), ha recitato nei suoi Profondo rosso (1975), Inferno (1980), Tenebre (1983), Phenomena (1985), Opera (1987), La terza madre (2007, dove interpreta proprio la madre di Asia). Molto attiva anche in teatro (con Patroni Griffi, Lavia ecc.).
Argento ha detto di lei «Me ne innamorai e a quel punto volevo solo lei. L’altra era diventata l’intrusa, quella di cui volermi sbarazzare. Glielo dissi usando le sue parole di un tempo: ti prego, non telefonarmi più» (Giuseppina Manin) [CdS 3/8/2012].
Lei e Argento furono arrestati e processati per 47 grammi di hashish “codetenuti” (La Repubblica).
Appassionata di esoterismo e scienze occulte (La Stampa).
Francesco Foschini per ilmanifesto.it del 4 luglio 2020. «La rassicuro subito, non le chiederò nulla su Dario Argento», «Grazie, anche perché come ben sa non ho fatto solo i suoi film. In questo momento mi viene in mente un’immagine, quella di Tre ore dopo le nozze, commedia di Ugo Gregoretti, esperienza che ho amato molto. C’erano Remo Remotti, Paolo Bonacelli, Carlo Monni… Un clima di maggiore intelligenza, a dir la verità». A parlare è Daria Nicolodi, musa dell’universo argentiano, attrice e autrice delle opere più visionarie del maestro del brivido, come Suspiria e Inferno. Fiorentina di Bellosguardo, 70 anni compiuti il 19 giugno scorso, figlia di un avvocato (ancora minorenne fu volontario nella Guerra di liberazione) e di una studiosa di lingue antiche, Nicolodi non si concede facilmente alla stampa: «Ho difficoltà a svelarmi in pubblico», dice; le rare volte in cui lo fa, però, si rivela interlocutrice sensibile dotata di innata squisitezza.
Daria, partiamo dalle origini. Debutta al cinema con Francesco Rosi e poco dopo arriva «Salomè» di Carmelo Bene.
«Però in quel film non compaio! Purtroppo ero occupata col teatro e non ho potuto girarlo, ma mi disse: «Ti amo così tanto che metterò comunque il tuo nome nel cast». Fu un suo regalo. Carmelo Bene è stato un grandissimo amico, mai amante! Eravamo nottambuli, forse gli unici due di Roma, assieme a Paolo Villaggio. Qualche volta incontravo la moglie, Lydia Mancinelli, e mi diceva: «Mannaggia, Daria. Mi ha sposata solo perché somiglio a te». Veramente un grande amico, mai come adesso ricordo quello che mi disse una volta: «Chi sceglie la libertà, sceglie il deserto». Eravamo molto simili il bel pugliese e io».
Il teatro non l’ha mai abbandonato, nemmeno durante il sodalizio con Dario Argento. Tra l’altro, la scoprì Luca Ronconi.
«Esatto. Debutto con Il candelaio, alla Fenice di Venezia; poi ci fu l’Orlando furioso a Spoleto, nel ’69. Era un teatro deflagrante, lo portammo anche nelle piazze… Ronconi è stato il più grande regista che abbiamo avuto. Poi, nel ’71, ho fatto Alleluja brava gente con Gigi Proietti e Renato Rascel, dove cantavo, ballavo e in cui ho imparato tante lezioni».
Poi è la volta di Elio Petri con «La proprietà non è più un furto» e viene subito alla mente una foto di scena: lei, seduta alla cassa della macelleria di Ugo Tognazzi, con alle spalle la frase «l’uomo è un animale carnivoro».
«Ah, Petri, che maestro! Un uomo di immensa cultura e fantasia. La scritta fu fatta dallo scenografo in una macelleria di Edmondo Amati, che all’epoca era anche proprietario di tante sale cinematografiche. Pensi che ce n’è un’altra, di foto, dove siamo io, Snoopy il cane di Elio, Tognazzi e Ricky giovanissimo.
Quest’anno ricorre il quarantennale della scomparsa di Mario Bava. Con lui ha fatto «Shock» e «La Venere d’Ille».
«Appena dopo la sua morte, scrissi di getto una lettera per L’Europeo, quando Oreste Del Buono era ancora redattore della sezione cinema, le leggo qualche passaggio: «Per me, non vi può essere alcuna cultura cinematografica completa e veramente vasta in chi non conosca l’opera di Bava. Mi riferisco tra l’altro a quei critici che come al solito l’hanno liquidato in questi giorni sui giornali con tre battute, «modesto», «artigiano» e «pioniere», quando questi signori i film di Bava non si sono mai degnati di vederli. Per me e molti altri più importanti di me, è stato un indicibile insegnamento vedere questo signore sessantenne, vivace come un ragazzo, gentile come un padrino da racconti di fate che riusciva a mantenere il perfetto ordine nella troupe, con il solo fascino di questa sua gentilezza. Di rado, durante le pause di Shock o della Venere d’Ille, l’ho sentito inoltrarsi, e mai per lungo tempo, nella descrizione di incredibili trucchi luminosi, fasci fosfati dai colori d’arcobaleno, lastre turchine di vetri-acqua, diorama, incendi, del tempo in cui era giovane, evocando dallo sfondo scuro e dall’abisso del tempo l’immagine di segreti inauditi, meravigliosi della fotografia. Il momento per misurarlo meglio, per gustare la gentilezza della sua natura, era quando si metteva alla mdp. Allora faceva mostra di una geniale semplicità, cercando di divertirci tutti, maestranze, tecnici, attori, come bambini coi giocattoli pieni di simpatia e ammirazione per il coscienzioso, attentissimo ragazzo più grande che tanto si dava da fare per coinvolgerci».
Che ricordo ha, invece, di Sergio Citti?
«Sono stata stimata tanto da lui, non so perché… Girammo un episodio di Sogni e bisogni, in cui c’è pure Asia bambina. Citti venne a casa e osservò le piccole Fiore, Anna e Asia. Gli occorreva una bambina che suonasse il violino e Asia aveva cominciato da poco a esercitarsi, la guardò e disse: «Lei!». Aveva occhio lungo, era un uomo di grande intelligenza e bontà. Di una cultura immensa. Nel Minestrone, invece, mi ha sempre chiamata «la signora», mi vedeva così…»
In «Maccheroni» di Ettore Scola dà pure dello «stronzo» a Jack Lemmon, ovviamente per esigenze di copione.
(ride, nda). «Eravamo all’Hotel Excelsior di Napoli, mentre giravamo. Lemmon fece portare un grande pianoforte a coda perché gli piaceva suonare. Essendo la nipote di Alfredo Casella, capivo cosa stesse suonando. Nacque una forte amicizia tra noi, basata anche sulla musica. Ogni tanto passavamo il tempo a chiacchierare. Mi raccontava aneddoti meravigliosi sulla Hollywood di un tempo, ad esempio quando Norma Shearer attentò alla sua virtù durante un ballo. Ascoltavo come una scolaretta e mi diceva: «Sei una totale delizia». Tra l’altro, in questo film ho recitato in inglese in presa diretta, come avevo già fatto in tutti i film precedenti di Argento, dove però in alcuni venni doppiata – e anche male – per le edizioni estere. Grazie al potere culturale di Scola, da questo film la mia voce non venne più sostituita nelle versioni americane. Quindi, grande Scola, grande Jack! Riconoscimento alla mia professione».
Mi corregga se sbaglio. Fu Fellini a dirle: «Ti prenderei per un mio film, ma non hai le tette»?
«Vero. Mi chiamava «stellina d’oro». Ogni tanto ci incontravamo al bar del Grand Hotel di Roma, e parlavamo sempre di esoterismo e magia. Ero molto amica anche di Giulietta Masina. Nella loro casa di Fregene ho incontrato addirittura il mago Rol. Chissà cos’era… Un impostore non credo».
Senza entrare nell’ambito dello scandalo Weinstein, ma quando Asia andò ospite da Bianca Berlinguer a Cartabianca, disse: «Mia madre mi ha sempre insegnato a dare un calcio nelle palle». Ha dato molti calci nelle palle nella sua vita?
«Sono stata campionessa di nuoto e ho fatto anche judo, quindi so difendermi. Ovviamente è tutto relativo, perché un’aggressione è un’acrobazia nel nero della vita che non sei abituato ad affrontare. Però, conoscendomi, combatto».
Se le dicessi Paganini Horror?
«Lo scrissi io, poi Cozzi lo ha «rubato», ma non ce l’ho con lui, può capitare nella vita, soprattutto nell’ambito cinema. Il film doveva avere un certo budget e invece non è costato nulla, con maggiori disponibilità sarebbe venuto più bellino. Ma intanto c’era Donald Pleasence, un vero piacere lavorare con lui. La scena in cui lancia le banconote dal campanile di San Marco l’ho scritta io. Inoltre, cercavo sempre di affiancare un musicista ai film in cui lavoravo, come in Le foto di Gioia – che non amo per niente – con Simon Boswell; o in Shock con i Libra, costola separata dei Goblin. Nei film che ho fatto la mia presenza non è stata solo come attrice, non lo dico per vantarmi ma perché è la verità».
Da circa 10 anni si è ritirata dalle scene, per «curarsi» dalla malattia della recitazione. Però resta spettatrice attenta.
«Adoro il grande schermo e il palcoscenico. Così come adoro vedere i miei migliori amici, Angelica Ippolito, Tommaso Ragno, Maurizio Donadoni. Mi piace andare ad ammirarli. Questo è il mio mondo».
Dice spesso che «garbeggia», ovvero di possedere la stessa natura di Greta Garbo. Ma anche un po’ quella di Jean Peters, ex moglie di Howard Hughes, che non rivelò mai nulla sul loro amore.
«Come fai a raccontare il miglior aspetto dell’esperienza della vita? Il primo amore come puoi raccontarlo? Anche se fossi Francis Scott Fitzgerald di Tenera è la notte, come fai a raccontare le cose ti hanno toccato nel profondo? Dario è stato un vero amore e le esperienze le vivi nel momento in cui accadono. Poi retrospettivamente sì, ne puoi parlare, ma non è tanto importante raccontarsi».
· E’ morto Andrea Merloni.
Fabio Savelli per corriere.it il 10 novembre 2020. Grande appassionato di moto e yacht. Tentò di trasformare la passione per le due moto in un business, tanto da provare a rivitalizzare lo storico marchio Benelli, senza riuscirvi fino in fondo. Raccontano che Andrea Merloni fosse l’erede designato di papà Vittorio. L’imprenditore, 53 anni, è stato trovato morto nella sua casa di Milano, in corso Magenta, probabilmente per un arresto cardiaco che gli ha stroncato la vita. Il cadavere è stato rinvenuto dalla domestica lunedì 9 novembre, nelle prime ore del mattino. Del padre Vittorio, Andrea conservava lo stesso piglio da imprenditore. Gli successe nel 2010 quando il patriarca cominciò ad avere problemi di salute costringendo la famiglia a nominare come tutore suo fratello Aristide. Gli amici a Fabriano lo hanno sempre definito un eterno sognatore. Un Peter Pan dell’industria. Uno, l’unico della famiglia, che non avrebbe voluto vendere l’azienda Indesit all’americana Whirlpool. Indesit era il vanto di suo nonno e di suo papà. E Andrea Merloni la guidò negli ultimi anni, in coabitazione con Marco Milani, top manager esterno alla famiglia di Fabriano dopo l’esperienza di Andrea Guerra e Francesco Caio ancor prima.
Indesit, la regina degli elettrodomestici e la concorrenza cinese. Nelle riunioni della cassaforte Fineldo, la holding di famiglia, era il più ascoltato anche se per un periodo la presidenza toccò alla sorella Antonella. Fu messo in minoranza proprio alla fine quando nessuno dei fratelli si sentiva di sfidare i colossi dell’elettrodomestico in un mondo uscito stravolto in pochi anni con l’arrivo dei gruppi cinesi, capaci di invadere i mercati con prodotti a basso costo. Si disse, raccontano le cronache, che lui fine all’ultimo provò a dissuadere i familiari dal vendere il gruppo marchigiano del «bianco». Sarebbe bastata un’alleanza commerciale con un altro gruppo. Propose di non vendere tutto, di restare come azionisti di minoranza ma gli altri lo vedevano come un affronto alla storia della famiglia. Meglio monetizzare tutto e subito ed investire altrove non sui margini ridotti dell’industria del bianco.
Indesit e la vendita al colosso Usa Whirlpool. L’assegno degli americani di Whirlpool che comprarono tutta Indesit per 758 milioni di euro lo rese ricchissimo come tutti gli altri rami della famiglia. Però lui aveva ambizioni imprenditoriali e negli ultimi anni prese ad investire sul mondo degli yacht coltivando l’idea di entrarvi come imprenditore. Era dipinto come un grande viveur dopo essersi separato dalla moglie, Viola Melpignano, circa due anni fa. Non aveva figli. Investì nella fabrianese Brema, che ha messo sul mercato giubbotti e capi particolarmente apprezzati. Nella sua città di origine era conosciuto e anche un po’ invidiato. Fabriano è sempre stata la patria dell’elettrodomestico. La Indesit è stato, ed è tutt’ora con i suoi due impianti rilevati da Whirlpool, il cuore pulsante della manifattura marchigiana. La famiglia Merloni d’altronde ebbe anche ambizioni politiche. Il fratello di papà Vittorio, Francesco, fu ministro dei lavori pubblici nei primi anni ‘90. Con suo figlio è a capo dell’Ariston Thermo con stabilimenti anche nel sud-est asiatico.
Lo yacht Audace, Ibiza e l’avventura nei cocktail bar. Andrea Merloni negli ultimi anni amava passare il suo tempo a bordo dello yacht «Audace» che nella scelta del nome dice molto sul suo carattere. Dalle prime ricostruzioni, nei suoi ultimi giorni di vita Andrea avrebbe fatto un breve sosta a Milano per ripartire, proprio a bordo del suo yacht, per l’amata Ibiza. L’Audace era stato spesso il palcoscenico di diversi eventi galleggianti, da Ibiza a Dubai. Andrea Merloni, nelle sue molteplici vite da imprenditore, aveva anche tentato la strada della commercializzazione delle imbarcazioni prima di dedicarsi al mondo dei vini. Grande simpatia, sorriso contagioso. Sempre pronto a raccontare aneddoti e barzellette. Altra sua passione i locali e i cocktail bar: da ragazzo a Fabriano aveva aperto un locale di tendenza, il «Vm 18», in pieno centro storico, ingaggiando spettacolari barman per preparare cocktail di tendenza. Aveva avuto un grave incidente in moto mentre correva in pista. Curioso, innovatore, sempre a caccia di novità tecnologiche, ma anche ben disposto ad aiutare il prossimo: aveva sposato il “progetto Jonathan” avviato dal padre (un programma per il recupero dei minori dell’area campana). Era stato molto toccato dalla visita al carcere minorile di Nisida in occasione di un suo intervento per parlare del progetto.
(ANSA il 10 novembre 2020) - "Andrea era una persona buona, un super buono", così Francesco Casoli, presidente di Elica, sulla scomparsa di Andrea Merloni. "Conoscendolo capivi che era molto meglio di quello che sembrasse. La sua parabola di vita è tragicamente la dimostrazione che il detto che i soldi non fanno la felicità, è vero. Purtroppo non è riuscito a godersi appieno le opportunità che aveva", ha concluso Casoli.
· E’ morta Joan Moncada di Paternò, nata Whelan, vedova del fotografo di moda Johnny Moncada.
ANDREA CIANFERONI per affaritaliani.it il 10 novembre 2020. E’ scomparsa a Roma sabato 7 novembre all’età di 90 anni Joan Moncada di Paternò, nata Whelan, vedova del fotografo di moda Johnny Moncada (all’anagrafe Giovanni Luigi, 1928-2011) e modella negli anni 50 e 60. La figlia Valentina Moncada di Paternò, art dealer e storica della fotografia, conosciuta nel mondo dell’arte contemporanea per aver aperto nel 1990 a Roma la Galleria Valentina Moncada in via Margutta 54, aveva raccontato la carriera della madre Joan Whelan, arrivata da New York nel 1952, in un volume pubblicato nel 2015 dal titolo “Joan, Paris Haute Couture. Italia Alta Moda 1952 – 1967”. Una pubblicazione ricca di immagini e testimonianze dei protagonisti della magia di un’epoca. Una Roma glamour degli anni della Dolce Vita, quando dalla capitale transitavano, e si fermavano, i più importanti protagonisti della moda, del cinema, dell’arte e del bel mondo internazionale. Joan Whelan, splendida modella americana sbarcata a Parigi e poi a Roma, faceva parte di quel gruppo di mannequin, termine oggi desueto ma all’epoca molto in voga, di cui facevano parte Shirley Howell Caracciolo, Betty Stoke di Robilant e Consuelo Crespi, che per matrimonio con l’aristocrazia italiana entrano a far parte di quel mondo dorato, ancora fiabesco, fatto di palazzi, castelli e feste principesche che contribuirono al rilancio dell’Italia e del Made in Italy. Come non ricordare, ad esempio, il "Ballo dei Re" tenutosi il 3 settembre 1960 a palazzo Serra di Cassano a Napoli in occasione delle regate veliche dei XVII Giochi Olimpici al quale parteciparono re e regine, principi, esponenti del jet set arrivati da tutto il mondo. La festa fu organizzata dal duca Serra di Cassano nel momento in cui l'Italia ricominciava a sognare riscoprendo la voglia di vivere dopo gli anni tragici della Seconda Guerra Mondiale. Proprio in quegli anni la giovane americana Joan si imbattè nell’altrettanto giovane fotografo, ma già affermato Johnny Moncada di Paternò, discendente di una nobile famiglia italiana, molto determinato nel raccontare con la fotografia l’evoluzione dei costumi e della moda. Insieme allestiranno il primo studio fotografico della capitale, in via Margutta, e si sposeranno nel 1956. Attraverso le fotografie di moda di Johnny Moncada è possibile ricostruire uno stile di vita tutto italiano, percepito così ancora oggi nell'immaginario collettivo internazionale: il Made in Italy. Ancora oggi si ricordano le collaborazioni di Johnny Moncada con i pittori Gastone Novelli e Achille Perilli, che preparavano gli sfondi da utilizzare per i cataloghi di moda delle collezioni di Luisa Spagnoli, con Luisa (nipote e omonima della fondatrice) che in quegli anni a Roma era considerata la grande signora del collezionismo. Anche Cy Twombly era di casa a via Margutta, come del resto Federico Fellini. Nel 1959 Twombly avrebbe esposto le sue opere proprio con Novelli e Perilli alla galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis. E attraverso la ricostruzione del guardaroba da modella di Joan Whelan Moncada, abiti indossati e pubblicati nelle più importanti riviste nazionali e internazionali, è possibile ricostruire l’evoluzione della moda italiana. Dal fortunato incontro con lo stilista francese Hubert de Givenchy, che disegna su Joan i vestiti poi indossati da Audrey Hepburn nel film "Sabrina", o la serie di abiti di una divertente, singolare ed elegante linea dedicata alla frutta e alla verdura come "citron" e "tomate", la modella americana indossa abiti degli stilisti più in voga del tempo come Coco Chanel, Christian Dior, Balenciaga, Lanvin-Castillo, Maggy Rouff, Jean Patou, Nina Ricci, Jacques Fath, Jaques Heim, posa per i fotografi di moda Philippe Pottier, Guy Arsac, Henry Clarke, Robert Randall, Regina Relang, finisce sulle pagine di riviste quali Vogue, L'Officiel, Elle insieme alle sue amiche e colleghe dell’epoca che si chiamano Suzy Parker, Capucine e Denise Sarrault, Theo Graham. In Italia lavora per Emilio Pucci, Simonetta, Fabiani, Sarli, Antonelli, Sorelle Fontana, Galitzine, Carosa, Schiapparelli, sugli sfondi più suggestivi di città come Roma, Firenze, Capri. Diventa amica delle modelle Iris Bianchi, Christa Päffgen alias Nico, Anna Filippini, Ivy Nicholson, Isabella Albonico, Luisa Gilardenghi. Ad un certo momento della vita sembrava quasi che Joan Moncada volesse dimenticare gli esordi nel mondo della moda. In una scatola, ritrovata dalla figlia Valentina, Joan teneva ritagli di giornali e magazine di moda, appunti a matita difficilmente decifrabili, centinaia di foto scattate dai maggiori fotografi dell’epoca, oltre che dal marito Johnny, dal quale aveva avuto quattro figli: Alberto, Valentina, Benedetta e Francesco. Quest'ultimo ha sposato Marina Caprotti, 42 anni, figlia di Bernando Caprotti fondatore della catena di supermercati Esselunga, protagonista della rinascita economica dell'Italia del Dopoguerra avendo importato dagli Stati Uniti il sistema di grande distribuzione alimentare. Marina Caprotti ha recentemente ricomprato dai fratelli Giuseppe e Valentina Caprotti, figli della prima moglie di Bernardo Caprotti, il 30% delle quote aziendali, cosi da assicurarsi il pieno controllo del colosso della distribuzione che in Italia conta 159 punti vendita in otto regioni italiane, 25 mila dipendenti per un giro d’affari di 8 miliardi all’anno. È stata proprio Marina insieme al marito Francesco Moncada di Paternò a dettare le linee guida per la conduzione del gruppo Esselunga, dalla morte del padre Bernardo, avvenuta il 30 settembre 2016.
· E’ morto Dino Da Costa.
Gianluca Piacentini per roma.corriere.it l'11 novembre 2020. «L’As Roma piange la scomparsa di Dino Da Costa e si stringe al dolore dei suoi familiari». È morta martedì a Verona, all’età di 89 anni, una leggenda della società giallorossa: Dino Da Costa. Brasiliano nato a Rio De Janeiro ma con lontane origini italiane che permisero alla Roma di tesserarlo come oriundo, in maglia giallorossa ha segnato 79 reti in 163 presenze. Un bottino che lo fa stare al decimo posto della classifica dei marcatori all time della Roma, alle spalle di Marco Delvecchio con cui condivideva un vizio che piaceva moltissimo ai tifosi giallorossi, quello di fare gol alla Lazio. Sono stati 12 i gol di Dino Da Costa nelle stracittadine: 9 in campionato, 2 in Coppa Italia e 1 nel corso del Trofeo Remo Zenobi. Un tredicesimo gol, segnato in un Lazio-Roma 0-1 del 6 marzo 1960, gli venne contestato e fu considerato autorete del laziale Janich. Lui, negli anni, ne aveva rivendicato addirittura un quattordicesimo, segnato in una partita di vecchie glorie giallorosse e biancocelesti. Cresciuto calcisticamente nel Botafogo, Da Costa si trasferì alla Roma nell’estate del 1955 quando era in Italia con il suo club per una tournée: nonostante la chiusura del calciomercato per gli stranieri la Roma riuscì ad ingaggiarlo come oriundo, sfruttando le sue lontane origini italiane che poi negli anni successivi gli permisero di giocare una partita con la Nazionale italiana: il 15 gennaio del 1958 gli azzurri persero 2-1 contro l’Irlanda del Nord e furono estromessi dalla fase finale dei mondiali in Svezia. Il gol italiano fu siglato proprio da Da Costa. La sua stagione migliore con la maglia della Roma fu quella del 1956-57 quando realizzò 22 reti, conquistando il titolo di capocannoniere della Serie A. In Italia giocò anche con le maglie di Fiorentina, Atalanta, Juventus, Verona e Ascoli: in ognuna di queste squadre ha lasciato uno splendido ricordo, e infatti ieri, quando si è saputo della sua scomparsa, sono state tantissime le dimostrazioni di affetto nei suoi confronti.
· E’ morto Ro Marcenaro.
Marco Giusti per Dagospia il 10 novembre 2020. Non mi ricordavo che Ro Marcenaro, maestro di satira politica, fumetto, televisione e, soprattutto, animazione, avesse dato vita al cartoon tormentone “Cossiga Disco Dance” o al “Manifesto Comunista a fumetti” a metà degli anni ’70 o alla Costituzione Italiana a fumetti o a un divertente “Dov’è finito Bettino?”. O che fosse stato direttore di TVS, la tv del “Secolo XIX” e di Teleciocco e di Tele Elefante all’inizio della grande stagione delle tv private. Tutte imprese memorabili per un artista che era arrivato prestissimo al successo nella pubblicità animata e era poi passato alle vignette per i maggiori settimanali italiani, da “Panorama” a “L’Espresso” al “Venerdì”. Rodolfo Marcenaro detto per tutti Ro, era nato a Genova nel 1937. Aveva studiato con i padri barnabiti del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e poi coi padri gesuiti del liceo Arecco di Genova. Il liceo-cineclub tanto preso in giro da Paolo Villaggio con le proiezioni micidiali della Corazzata Potiomkin. Bravo, anzi bravissimo a disegnare, era andato a Firenze a studiare Architettura, perché a Genova a quel tempo c’era solo il bienno. Non finisce Architettura, ma entra subito a lavorare, siamo tra il 1960 e il 1961, con il nascente Studio K fondato da Francesco Misseri, Pierfranco Tamburini e Ruggero Pasega, occupandosi di animazioni. E’ da poco nato Carosello, grande contenitore-rubrica pubblicitaria e lo Studio K cerca giovani di talento per i suoi primi film animati. Lavora come animatore per “I discorsi di Albertina” della Sidol, prima serie in assoluto dello Studio K e, nello stesso anno, darà anche un contributo alla nascita di Calimero alla Pagot Film di Milano nella serie “La costanza dà sempre buoni frutti”. Ma è con lo Studio K, con personaggi e serie come “Olivella e Mariarosa” per l’Olio Bertolli (62-71), “Dolce cara mammina” per le caramelle al miele Ambrosoli (65-76), “Le nuove avventure di Pinocchio” per i biscotti Maggiorini, “Susanna tutta panna” per Invernizzi che cresce fino a diventare direttore della sezione animata. Assieme a lui troviamo ottimi animatori come Italo Marazzi, Carlo Panerai, Stefano Buti e un musicista attivissimo e di grande talento come Franco Godi che si inventerà jingle su jingle legati ai prodotti che tutti da bambini conoscevamo. “La-la-la-la tutto bene ti andrà se userai Bertolli che vuol dire qualità”- “Geo e Gea due gattini…”. Marcenaro anima decine e decine di Caroselli, anche per Sis cavallino rosso col Clown Bis, Tisana Kelemata con Chicchi e Cocchi, “Far da sé con Zia Nené” per l’Orzo fiorentino La Vecchina. Tormentoni della nostra infanzia, diciamo. Ma arriva al grande successo nei primi anni ’70 dirigendo prima per lo Studio K, poi per la nascente Tipo Film, la meravigliosa serie delle animazioni in plastilina opera di Fusako Yusaki dei caroselli del Fernet Branca. Animazioni che hanno una genesi complessa, ma un successo immediato, tanto che fruttano a Marcenaro premi su premi, come il Carosello d’oro 1970. Dopo essere attraversato altri studi, come lo Slogan Film la Master Film di Milano, nel 1974 Marcenaro se ne va via dalla pubblicità e lo troviamo disegnatore satirico per “Panorama”, poi per “Epoca”, “Repubblica”, “Il Venerdì”, ecc. Nel 1976 fonda la tv locale genovese TVS e poi Tele Ciocco. Nel corso della sua lunga carriera scriverà libri a fumetti importanti e di successo, il “Manifesto Comunista a fumetti” fu considerato un boom editoriale, fece video per il suo amico Gino Paoli, “Matto come un gatto” e “Quattro amici al bar”. Già a metà degli anni ’70 era andato a vivere vicino a Reggio Emilia, dove rimarrà per tuta la vita, a Stiolo di San Martino in Rio, fondando una specie di factory di animazione e video. “Mi pare quasi inammissibile”, diceva, “che un professionista, oggi, possa esprimersi attraverso un solo mezzo. La varietà dei modi offerta dal divenire e dal crescere delle moderne tecnologie è tale che solo chi non ha la capacità culturale di guardare avanti può accettare di avvalersi di un solo mezzo”. Partito dal trattamento fumettistico di temi sociali e culturali importanti, riguardo la sua attività televisiva ricordava un po’ amaramente già una trentina d’anni fa di “non essere stato capace di incidere sulle grandi scelte dell’emittenza privata. Non essere riuscito ad impedire che anche editori puri, come i Brivio/Perrone, cedessero alle lusinghe berlusconiane dei film e dei telefilm, addebitando all’informazione e al servizio le cause dei maggiori costi e dei minori profitti”. Negli ultimi anni fu anche molto attivo politicamente legandosi ai 5 stelle. Ma chi lo ricorda il “Cossiga Disco Dance”?
· E’ morto Sergio Matteucci, storico telecronista dei match di Holly & Benji e Mila & Shiro.
Da corrieredellosport.it il 6 novembre 2020. Si è spento all'età di 89 anni Sergio Matteucci, storico telecronista dei match di Holly & Benji e Mila & Shiro, oltre che doppiatore in numerosi altri cartoni animati giapponesi quali Sampei, Candy Candy e Lady Oscar. La sua voce ha accompagnato intere generazioni di ragazzi, ma non solo: essa compare infatti anche in molti film di successo, da Rocky 2 a Cinderella Man, fino a Scarface e Toro Scatenato.
Matteucci nel calcio. L'amore per il calcio non si lega soltanto ad Holly & Benji. Molti ricorderanno la sua voce anche a Domenica Sprint, trasmissione per la quale svolgeva il ruolo di inviato allo stadio Olimpico, e a Tutto il calcio minuto per minuto. Nato a Granda 89 anni fa, Matteucci si è spento oggi a Roma.
Da gianlucadimarzio.com il 6 novembre 2020. La sua voce – filtrata da un effetto radio che ricordava cronache antiche ed affascinanti – ha accompagnato interminabili azioni che si sviluppavano su campi da calcio infiniti, interrotte da flashback e flussi di coscienza. Lui era lì, ad attendere come tutti noi, che finalmente qualcuno tirasse in porta. E intanto raccontava gesta non replicabili (o quasi…) nella realtà, scolpendo nomi rimasti nella mente e nel cuore di chi il calcio lo ha amato fin da piccolo: Hutton, Lenders, Price, Ross, Derrick. Leggendoli, lo facciamo con la voce di Sergio Matteucci. Si è spento all’età di 89 anni: è stato radiocronista di “Tutto il calcio minuto per minuto” nella stagione 1982/83, voce fuori campo di Domenica Sprint e soprattutto, mitico telecronista delle partite del cartone animato “Holly e Benji” (ma anche di “Mila e Shiro”). Matteucci ha doppiato anche altri cult per ragazzi, come Sampei, Ben e Sebastien, Lady Oscar; ma se, distrattamente, dopo essere cresciuti, avete avvertito per un attimo il riverbero dei pomeriggi passati davanti alla tv, mentre guardavate pellicole storiche come Rocky, Toro Scatenato e Scarface, la risposta è sì: stavate ascoltando la voce di Matteucci. “Jason Derrick si butta a terra sulla schiena, scivolando sul terreno di gioco: non comprendiamo che cosa voglia fare!”, annunciava così, Matteucci, l’inizio di quella che tutti ricordano come la “catapulta infernale” dei gemelli Derrick. “Come un proiettile lanciato sulla catapulta, James arriva di testa sul pallone! Il tiro è fortissimo: ed è gol!”. Questa e altre frasi, aveva rivelato in un’intervista non così datata, nascevano così, d’istinto. Matteucci amava e sapeva andare a braccio, anche quando doveva descrivere l’invenzione infernale (questa sì) di qualche autore giapponese. “Avanza ancora Hutton! Il tempo scorre veloce e la New Team è di nuovo in attacco. La Muppet si è schierata tutta in difesa […] Stupendo pallonetto di Hutton, che coglie di sorpresa gli avversari: nessuno è riuscito a fermarlo […] Ora Hutton è davanti alla porta della Muppet, Warner lo attende tra i pali. Non tira e preferisce saltare e porta con sé il pallone: supera Warner che si sbilancia e va a terra. Ora la porta è vuota: tiro di Hutton! Ed è goool!”. L’avete riconosciuta? È la telecronaca dell’ultima azione della mitica finale tra Muppet e New Team: o meglio, è una sorta di live blog ante litteram e vocale. Se c’era la voce di Matteucci, vuol dire che nell’episodio si stava facendo sul serio: vuol dire che si stava giocando a calcio. Che Mark Lenders aveva fatto la svolta alle maniche, che Benji aveva sistemato il cappellino e Roberto Sedinho, a bordo campo, aveva lucidato gli occhiali. E che soprattutto Holly avrebbe fatto gol, dopo aver scartato tutti e percorso quel campo in salita. Una corsa ritmata e intervallata dalla voce di Matteucci. Dai primi gol con la maglia della New Team, all’esclamazione che ogni telecronista vorrebbe fare. “È finita, il Giappone è campione del mondo!”, al termine della finale contro il Brasile di Santana. E non importa che fosse solo un cartone animato: il ricordo è lì, sedimentato, anche grazie Sergio Matteucci.
· E’ Morto Stefano D’Orazio dei Pooh.
Stefano D'Orazio batterista dei Pooh morto a 72 anni: coronavirus e patologie pregresse, drammatico aggravamento in una sola settimana. Libero Quotidiano il 07 novembre 2020. Era malato da tempo, Stefano D'Orazio, ma la sua morte è stata improvvisa. Il batterista dei Pooh scomparso a 72 anni era ricoverato da una settimana e le sue condizioni sono peggiorate nelle ultime ore nonostante, come scrivono i suoi compagni di band sui social, qualche miglioramento lasciasse sperare per il meglio. "Il Covid ha colpito ancora", ha annunciato in diretta a Tale e quale show Loretta Goggi. Un fulmine a ciel sereno che inquieta il mondo della musica e l'Italia intera: D'Orazio sarebbe dunque morto per un mix di coronavirus e patologie pregresse, in una drammatica accelerazione clinica nel giro di pochi giorni. La causa del decesso è stata confermata anche dall'agenzia Asca, mentre massimo riserbo da Red Canzian, Dodi Battaglia, Roby Facchinetti e dallo staff dell'artista, che nel 2017 si era sposato per la prima volta con la giovane compagna Tiziana Grandoni dopo una vita dedicata alla musica. D'Orazio era il "ministro delle finanze" dei Pooh, di cui oltre che i testi, "i tamburi" e la voce curava anche gli aspetti legati al marketing. Ma in fondo, era semplicemente una delle anime del più popolare e longevo gruppo della musica leggera italiana.
Tale e quale show, Loretta Goggi in lacrime in diretta: "Morto Stefano D'Orazio, non sapevo della sua patologia". Libero Quotidiano il 07 novembre 2020. Una Loretta Goggi commossa e in lacrime annuncia sul finire di Tale e Quale Show la morte di Stefano D'Orazio, storico batterista dei Pooh scomparso venerdì sera a 72 anni. Era ricoverato da una settimana in ospedale e le sue condizioni sono peggiorate drammaticamente nelle ultime ore. Dai colleghi dei Pooh e da Bobo Craxi, amico personale di D'Orazio che su Twitter ha dato per primo la notizia, massimo riserbo sulle cause del decesso, anche se si è saputo che il batterista era malato da tempo. Ma è stata la Goggi a rivelare un dettaglio sinistro: "Il Covid ha colpito ancora", ha spiegato dal palco dello show di Raiuno, non condotto ieri sera da Carlo Conti, ricoverato in ospedale anche lui per coronavirus. "Non sapevo avesse una patologia pregressa", è stato il commento della Goggi, che ha chiuso la puntata con gli occhi lucidi.
Morte Stefano D’Orazio: Loretta Goggi lo annuncia in lacrime in diretta. Notizie.it il 07/11/2020. Commossa e triste, Loretta Goggi ha dato il diretta a Tale Quale Show la notizia della morte dell'amico Stefano D'Orazio. É stata una Loretta Goggi visibilmente commossa e con la voce rotta dalle lacrime quella che nella puntata di Tale e Quale Show ha dato in diretta la notizia della morte di Stefano D’Orazio, storico batterista dei Pooh deceduto all’età di 72 anni. La conduttrice, che stava sostituendo nella conduzione Carlo Conti, risultato positivo al coronavirus e ricoverato in ospedale a Firenze per accertamenti, non ha nascosto il suo shock nell’apprendere la scomparsa dell’amico. Rientrata in studio dopo la pubblicità, la cantante ha raccontato di essere molto legata a Stefano e di aver passato tante avventure insieme a lui. Ha poi reso noto che nei giorni precedenti aveva anch’egli contratto il virus ma soffriva di patologie pregresse. “Non sapevo che stava male. Il Covid ha portato via anche lui“, ha aggiunto tra le lacrime per poi lasciare spazio ad un lungo applauso dei presenti negli studi della Dear. A spiegare la situazione in cui versava il batterista è stato Roby Facchinetti. A nome di tutta la band ha spiegato che il collega si trovava ricoverato in ospedale da una settimane in gravi condizioni. Per rispetto, privacy ma anche nella speranza di un suo miglioramento la notizia era rimasta segreta. Poche ore prima infatti, “dopo giorni di paura sembrava che la situazione stesse migliorando“. Poi la sera la terribile notizia. Parlando di D’Orazio come di un fratello, un compagno di vita e un testimone di tanti momenti importanti lo ha ricordato come “una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa e nostro amico per sempre“.
Addio a Stefano D’Orazio batterista dei Pooh. La Repubblica il 7 novembre 2020. “Stefano D’Orazio ci ha lasciato!” I Pooh annunciano la terribile notizia sui social. “Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita”. Stefano D’Orazio è morto ieri sera all’età di 72 anni dopo una settimana di ricovero in ospedale. A dare l’annuncio i Pooh sulla pagina social di Facebook: "STEFANO CI HA LASCIATO! Due ore fa… era ricoverato da una settimana e per rispetto non ne avevamo mai parlato… oggi pomeriggio, dopo giorni di paura, sembrava che la situazione stesse migliorando… poi, stasera, la terribile notizia. Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, abbiamo perso una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa. Preghiamo per lui. Ciao Stefano, nostro amico per sempre…Roby, Red, Dodi, Riccardo". Stefano D’Orazio batteria, voce e flauto traverso dei Pooh dal 1971 al 2009, poi nel 2015 e 2016, in occasione della réunion per il cinquantennale, è stato un autore di una parte dei testi delle canzoni del gruppo, del quale in seguito è divenuto anche responsabile amministrativo. Inizia a suonare la batteria con Elvira Valdevit, acquistata di seconda mano, sin dagli anni del liceo, con il proprio primo gruppo chiamato The Kings, dal nome del complesso dal quale acquistò la batteria, di ispirazione beat. La band cambia poco dopo il nome in The Sunshines e inizia a esibirsi in un locale della periferia romana, suonando unicamente pezzi strumentali degli Shadows, in quanto non avevano i mezzi per procurarsi un impianto voci; con questo gruppo, inoltre, Stefano esordì come paroliere, scrivendo il testo di Ballano male. Dopo vari arrangiamenti incontra i Pooh. Il 12 settembre 2017, giorno del suo sessantanovesimo compleanno, sposò con rito civile la compagna Tiziana Giardoni, con la quale conviveva dal 2007. Alla cerimonia hanno partecipato oltre 400 invitati. Non aveva figli, ma ha cresciuto e si considerava a tutti gli effetti padre di Silvia Di Stefano, figlia di Lena Biolcati.
Morto Stefano D’Orazio, storico batterista dei Pooh. Bobo Craxi ha dato in tarda serata la notizia della scomparsa di uno dei più amati batteristi e musicisti italiani: Stefano D'Orazio, lo storico batterista dei Pooh. Roberta Damiata, Sabato 07/11/2020 su Il Giornale. E’ stato Bobo Craxi con un twitter a dare la notizia della tragica scomparsa di uno di musicisti italiani più amati, Stefano D’Orazio lo storico batterista dei Pooh. “Stefano amico mio. Suona e scrivi anche lassù. Ciao!” ha scritto nel messaggio che ha dato via ad un tam tam sulla rete che ha creato sconcerti tra i fan della band e tutto il pubblico che da sempre ha amato questa storica band e D’Orazio. Il batterista 72enne da indiscrezioni pare fosse ricoverato da una settimana per Covid nel Columbus Covid2 Hospital di Roma, un distaccamento del Policlinico Gemelli, la struttura convertita da marzo che si occupa solo di pazienti che hanno contratto il virus. La notizia era stata mantenuta dalla famiglia nel più stretto riserbo tanto che nessuno era al corrente del suo ricovero. Nessuna fonte della struttura ha rilasciato dichiarazioni, ma sono stati gli altri componenti della band a rilasciare un comunicato e un ricordo: "Stefano ci ha lasciato! Due ore fa... era ricoverato da una settimana e per rispetto non ne avevamo mai parlato... oggi pomeriggio, dopo giorni di paura, sembrava che la situazione stesse migliorando... poi, stasera, la terribile notizia". I Pooh, Roby, Red, Dodi, Riccardo ricordano su Facebook l'amico e compagno di viaggio Stefano D'Orazio, scomparso dopo aver combattuto a lungo una malattia. "Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, abbiamo perso una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa. Preghiamo per lui. Ciao Stefano, nostro amico per sempre..." Batteria, voce e flauto traverso dei Pooh dal 1971 al 2009, e poi nel 2015 e 2016 in occasione della Rèunion per il cinquantennale, D'Orazio è stato anche autore di una parte dei testi delle canzoni del gruppo del quale in seguito è divenuto anche responsabile amministrativo. Inizia a suonare la batteria, acquistata di seconda mano, sin dagli anni del liceo, con il proprio primo gruppo chiamato The Kings, dal nome del complesso dal quale acquistò la batteria, di ispirazione beat. La band cambia poco dopo il nome in The Sunshines e inizia a esibirsi in un locale della periferia romana, suonando unicamente pezzi strumentali degli Shadows, in quanto non avevano i mezzi per procurarsi un impianto voci; con questo gruppo, inoltre, Stefano esordì come paroliere, scrivendo il testo di Ballano male. Terminata questa iniziale esperienza, D'Orazio si arrangiò facendo, per un breve periodo, da colonna sonora allo spettacolo underground per percussioni e voci "Osram" di Carmelo Bene e Cosimo Cinieri, organizzato nel locale "Beat '72". Successivamente entra nel gruppo Italo e il suo complesso, poi rinominato I Naufraghi. Anche quell'esperienza fu di breve durata e aprì così a Roma due "Cantine Club", locali all'interno dei quali si esibivano i gruppi inglesi reduci dal "Piper". A tale attività associò quella di turnista presso la RCA, potendo così pagare parte delle cambiali e l'acquisto della batteria Ludwig. D’Orazio lascia la moglie Tiziana Giardoni sposata nel 2017 ma insieme a lui da oltre dieci anni, La coppia non aveva figli.
Gennaro Marco Duello per fanpage.it il 7 novembre 2020. È morto Stefano D'Orazio, storico batterista dei Pooh. Aveva 72 anni. Il musicista non aveva figli, ma aveva sposato il 12 settembre 2017, nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno, la compagna Tiziana Giardoni. Ha avuto lunghe storie d'amore con Lena Biolcati e con l'annunciatrice Emanuela Folliero. Il mondo della musica è sotto shock. Una notizia che arriva improvvisa e che conferma il momento funesto per l'arte italiana, soltanto pochi giorni dopo la morte di Gigi Proietti. Dopo il primo tweet di Bobo Craxi, è arrivato anche Red Ronnie a confermare la notizia: "È volato nell'altra dimensione". Anche Giorgio Panariello, Loretta Goggi e Vincenzo Salemme in diretta a Tale e Quale Show hanno dato la notizia: "Sapere della sua scomparsa così è stato un trauma. Non sapevo che avesse una malattia pregressa. Il Covid ha colpito ancora". Su Facebook Roby Facchinetti ha commentato così la notizia: Due ore fa… era ricoverato da una settimana e per rispetto non ne avevamo mai parlato… oggi pomeriggio, dopo giorni di paura, sembrava che la situazione stesse migliorando… poi, stasera, la terribile notizia. Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, abbiamo perso una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa. Preghiamo per lui. Ciao Stefano, nostro amico per sempre…Roby, Red, Dodi, Riccardo. L'8 settembre 1971 entra a far parte dei Pooh, sostituendo Valerio Negrini. Da quel momento comincia una grandissima avventura al fianco dei suoi compagni: Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian e Riccardo Fogli. Per i Pooh è stato batterista, voce e paroliere. Ha interpretato e scritto Tropico del Nord, La mia donna, il giorno prima, Se c'è un posto nel mio cuore. Quest'ultima canzone sarà anche la sigla del Processo del lunedì. Stefano D'Orazio lascia i Pooh nel settembre del 2009 dopo un tour di 38 date. L'addio (momentaneo) è dato ai fan con una lunga lettera: "Sono al capolinea". Rientra in formazione con la reunion del 2015 scrivendo altri tre testi: Tante storie fa, Le cose che vorrei e Ancora una canzone. D'Orazio ha lavorato anche ai musical: ha scritto i testi di Aladin (per cui Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian hanno composto le musiche), di Pinocchio, Cercasi Cenerentola e W Zorro e la versione italiana dei brani degli ABBA in Mamma Mia su richiesta della stessa band svedese. Nel 2010 è stato giudice nella terza edizione del programma Ti lascio una canzone. Ha pubblicato due libri autobiografici: "Confesso che ho stonato – Una vita da Pooh" e "Non mi sposerò mai – Come organizzare il matrimonio perfetto senza avere alcuna voglia di sposarsi" (sulle nozze con Tiziana Giardoni). L'ultimo successo prima della sua scomparsa, per una crudele coincidenza, è stato proprio un brano sul Covid e sulle tante vittime della pandemia a Bergamo. D'Orazio ha scritto il testo di "Rinascerò, Rinascerai", chiamato da Roby Facchinetti. In un'intervista a Fanpage.it, quest'ultimo aveva raccontato i dettagli del sodalizio che è stata purtroppo la loro ultima collaborazione: "Appena finita la composizione ho chiamato Stefano D'Orazio e, travolto dalla commozione, gli ho chiesto se avesse visto quell'immagine e gli ho chiesto di scrivere un testo".
Stefano D’Orazio morto: dalle feste a Ostia antica all’addio ai Pooh. Il batterista morto il 7 novembre per anni aveva dedicato tutte le energie alla band. Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2020. I Pooh erano un perfetto equilibrio fra musica e business. Funzionavano con una rigida divisione dei compiti. Red Canzian ministro dei rapporti con la stampa e front man, Dodi Battaglia strumentazioni, Robi Facchinetti supervisione generale e autore e Stefano D’Orazio ministro delle Finanze. D’Orazio suonava la batteria, ma soprattutto teneva i conti. Memorabili le sue feste nella sua villa di Ostia Antica. Ogni anno organizzava delle megafeste di capodanno traboccanti di Vip e belle ragazze. Nel corso della serata il gioco principale era costituito da un quiz chiamato «Telesorcio», una parodia del Telegatto fra fiumi di champagne e squisitezze gastronomiche. Stefano D’Orazio era quello che dedicava tutte le sue energie al gruppo. La ragione è che lui era l’unico membro della band a non avere famiglia. In quegli anni gli altri tre erano tutti sposati una o più volte con numerosa prole. Lui si unì in matrimonio con Tiziana Giardoni solo nel 2017. Nel tempo questo ruolo che all’inizio lo entusiasmava cominciò ad andargli stretto. Per colpa dei Pooh, secondo l’artista, non era riuscito a crearsi una famiglia. La band mieteva successi, vendeva centinaia di migliaia di dischi ma l’insofferenza di Stefano D’Orazio cresceva. Così qualche anno fa aveva deciso di lasciare il gruppo e proseguire come solista. Una decisione sofferta e poi diluita in una serie di trionfali concerti live durata oltre un anno. D’Orazio amava molto gli allestimenti faraonici e interpretava il suo ruolo di batterista in maniera decisamente originale. Nel tour degli anni Settanta all’indomani dell’album «Parsifal» aveva un enorme dispiegamento di percussioni, grancasse, rullanti e tanti gong che lui raggiungeva di corsa in una enfatica maratona. Un anno dopo l’abbandono della band D’Orazio così scriveva: «La mattina dopo il mio ultimo concerto a Milano, quello dell’addio, mi sono svegliato con un incredibile senso di vuoto, dopo 38 anni di Pooh ero all’improvviso un, …un ex suonatore di tamburo, … un …non so cosa e non sapevo dove fare rotta, se a Bergamo o a Roma o …boh».
Stefano D'Orazio morto di coronavirus, la rivelazione di Roby Facchinetti dei Pooh: "Nel pomeriggio era migliorato, poi la terribile notizia". Libero Quotidiano il 07 novembre 2020. Era entrato nella famiglia dei Pooh nel 1971, Stefano D'Orazio. E da allora non ne è mai più uscito, nonostante l'addio nel 2009 (e il rientro per il trionfale tour 2015-16, quello dei 50 anni di carriera della band). La sua morte a 72 anni ha sconvolto per primi i suoi compagni di musica, Roby Facchinetti, Red Canzian, Dodi Battaglia e Riccardo Fogli. Sapevano della sua malattia, sapevano del coronavirus che lo aveva contagiato e del successivo ricovero. Hanno tenuto tutto nel massimo riserbo, come da tradizione di musicisti sempre molto discreti nel loro essere superstar della musica italiana. "Due ore fa… era ricoverato da una settimana e per rispetto non ne avevamo mai parlato… - ha scritto Roby Facchinetti sui social -. Oggi pomeriggio, dopo giorni di paura, sembrava che la situazione stesse migliorando… poi, stasera, la terribile notizia". In poche righe, tutto il dramma umano di D'Orazio e quello di un Paese vittima di un virus letale. "Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, abbiamo perso una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa. Preghiamo per lui. Ciao Stefano, nostro amico per sempre…". Firmato: Roby, Red, Dodi, Riccardo.
DAGONOTA il 7 novembre 2020. Stefano D'Orazio aveva una malattia del Sistema Immunitario che non gli ha dato scampo. Una malattia autoimmune contro la quale combatteva da anni. Il problema è sempre quello: se sistema immunitario è compromesso, il rischio di morire una volta contratto il Covid-19 aumenta molto, spesso in modo inesorabile.
Stefano D'Orazio morto di coronavirus, Dagospia: "Il problema è sempre lo stesso", la malattia prima del Covid. Libero Quotidiano il 07 novembre 2020. Era il "bersaglio perfetto" del Covid, Stefano D'Orazio. Lo storico batterista dei Pooh scomparso venerdì a 72 anni, spiega Dagospia, "aveva una malattia del Sistema Immunitario che non gli ha dato scampo. Una malattia autoimmune contro la quale combatteva da anni". Per questo il coronavirus, innestato su una situazione critica complessa (anche se non compromessa, come confermato dalla moglie del musicista Tiziana Giardoni), è risultato drammaticamente decisivo. "Il problema è sempre quello - prosegue Dago -: se il sistema immunitario è compromesso, il rischio di morire una volta contratto il Covid-19 aumenta molto, spesso in modo inesorabile". Come confermato dai compagni di band di D'Orazio, Red Canzian e Roby Facchinetti, la situazione è precipitata in poche ore: ricoverato da una settimana, soltanto venerdì pomeriggio Stefano era sembrato migliorare. Poi il tragico epilogo, comune anche a molte vittime di questa epidemia meno famose di lui.
Stefano D'Orazio morto di coronavirus: "Solo pochi mesi fa". La sua ultima canzone, una tragica beffa del destino. Libero Quotidiano l'08 novembre 2020. Una beffa atroce, nel dramma di Stefano D'Orazio. L'ha voluta sottolineare il governatore della Lombardia Attilio Fontana, ricordando il batterista dei Pooh morto venerdì a Roma a 72 anni, per il combinato tra il Covid a cui era risultato positivo da una settimana e una malattia autoimmune pregressa con cui combatteva da tempo. "Insieme a Roby Facchinetti - ha spiegato il governatore leghista - aveva scritto pochi mesi fa Rinascerò, rinascerai’, canzone simbolo della pandemia a Bergamo". Facchinetti, bergamasco Doc, aveva coinvolto l'amico e collega di una vita nel commovente "inno" alla resistenza della città e della Lombardia all'epidemia. Una "resistenza" che oggi è purtroppo anche del resto d'Italia, e D'Orazio è stato uno dei tanti inconsapevoli caduti.
Addio a Stefano D'Orazio. Il ricordo dei Pooh: «Abbiamo perso un fratello». Panorama il 7 novembre 2020. "Abbiamo perso un fratello, un compagno di vita, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, abbiamo perso una persona per bene, onesta prima di tutto con se stessa. Preghiamo per lui. Ciao Stefano, nostro amico per sempre...", hanno scritto in un post gli altri componenti del gruppo, Roby Facchinetti, Red Canzian, Dodi Battaglia, Riccardo Fogli. Stefano D'Orazio, storico batterista dei Pooh, aveva 72 anni e da una settimana era ricoverato in ospedale a Roma per Covid. LO scorso marzo aveva scritto il testo della canzone Rinascerò Rinascerai composta da Roby Facchinetti, un inno al coraggio e alla forza degli italiani ed in particolare degli abitanti di Bergamo durante il primo lockdown da Coronavirus. D'Orazio si unì ai Pooh nel settembre del 1971 successivamente all'uscita dal gruppo di Valerio Negrini (che continuerà a scrivere testi per la band). Nonostante le riserve del produttore del gruppo, i Pooh lo ingaggiano come batterista dopo dopo una settimana di prove. Nel 2009, dopo l'annuncio dell'uscita dalla band, mette il suo talento sl servizio dei musical, come Aladin, interamente scritto da lui e musicato dai suoi tre ex colleghi (Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian). Nel 2010 compone i testi italiani del musical Mamma Mia ispirato alle canzoni degli Abba. Lo spettacolo debutta al Teatro Nazionale di Milano e rimane in scena per due anni.
Il ricordo di Stefano D'Orazio di Carla Vistarini, pubblicato da Dagospia il 7 novembre 2020. "Ciao Stefano. Anche tu. Ce ne stiamo andando uno per uno, noi ragazzi per sempre. Noi di una generazione unica e inimitabile, gente di canzoni, musica e teatro, gente di viaggi in autostop, di montagne scavalcate per portare due riflettori scalcagnati in qualche piazza di paese allo sprofondo, noi che ascoltavamo i Beatles ma avevamo nelle orecchie di bambini quelle musiche più antiche, quelle dei nostri genitori, della radio la sera, echi di boogie woogie e fumosi night club in bianco e nero sbirciati su paginone di riviste d'altri tempi; noi che portavamo i pantaloni a zampa e i pelliccioni finti lunghi fino ai piedi, trovati a Porta Portese o a via Sannio, tra le giaccone militari coi bottoni d'ottone e le mostrine, noi che ci bruciavano le redini della banalità sulle spalle e scalpitavamo ma che poi cercavamo vestiti tutti uguali, come fossimo tutti una band, come un'uniforme della stessa giovinezza e adolescenza, noi coi capelli negli occhi, frange lunghe, maschi e femmine è lo stesso; noi sui Ciao scoppiettanti e manomessi perché facessero più rumore più sgassate più caciara, noi, quelli che a suonare uno strumento uno qualsiasi, la chitarra, il piano, la batteria, il flauto, l'armonica perfino il kazoo che non ci vuole niente basta un po' di fiato; ci abbiamo provato tutti e qualcuno ci è riuscito meglio e qualcun altro no ma almeno lo ha raccontato, lo ha scritto, in qualche canzone, in qualche libro, in qualche cosa, una cosa qualsiasi, per quelli che restano; quelli delle assemblee, del sei politico, delle serate a sviscerare il Manifesto (quello vero) e a non capirci niente ma seriamente però, perché l'importante è crederci, in qualcosa; noi a cercare nei cinéma d'essai quei film vecchi e bellissimi in bianco e nero, pieni di freaks e 400 colpi, e corridoi della paura e settimi sigilli, perché il cinema è tutto, noi che niente guerra, solo pace; noi che viva la libertà, noi dei viaggi incoscienti in autostop, e treni di terza classe Londra-Roma; noi che dicevamo grazie e per piacere; noi che ci stupivamo uno con l'altro, coi sorrisi, cogli occhi spalancati, a mano mano che ci riuscivamo, noi che siamo rimasti sempre quelli, quei ragazzi di un tempo, noi diversi, noi piccoli, e fra noi quelli che emergevano e diventavano qualcuno, qualcuno che nemmeno loro lo sapevano chi erano all'inizio, e c'è voluto tempo per capirlo e quelli che restavano indietro, persi nel buio di un sogno e di un ricordo, a guardare sorpresi quegli altri che scattavano avanti; noi, quelli che oggi stanno sull'orlo di un saluto, di uno sguardo all'indietro, di un sorriso sperduto a sentire i compagni di quest'unico viaggio camminarci alle spalle mentre il tempo va via, mezzo secolo e passa, e una musica suona un'antica canzone che parlava di noi, talkin' 'bout my generation. Noi quelli che la nostra generazione forse non l'abbiamo nemmeno capita, ma l'abbiamo vissuta, e l'abbiamo raccontata agli altri, o almeno ci abbiamo provato. Ciao Stefano, so long." Carla Vistarini
Stefano D’Orazio, la reazione di Barbara D’Urso: “Sono disperata”. Notizie.it il 07/11/2020. Le parole strazianti della conduttrice per il suo grande amico. La notizia improvvisa della morte di Stefano D’Orazio, storico batterista dei Pooh, ha sconvolto tutti, sia i fan della band che tutti quei personaggi che lo avevano conosciuto di persona. Una notizia data subito dall’amico Bobo Craxi su Twitter, che ha lasciato tutti senza parole. I suoi più cari amici non avevano rivelato che era ricoverato all’ospedale da un po’ di tempo, nella speranza che si riprendesse. La reazione di Barbara D’Urso a questa notizia ha toccato il cuore di tutti. Barbara D’Urso è davvero disperata. La notizia della morte di Stefano D’Orazio l’ha toccata profondamente, lasciandola sotto shock. Lo storico volto dei Pooh è mancato ieri, 6 novembre, in tarda serata e in poco tempo è arrivato l’annuncio anche sui social network. Durante la puntata di Tale e Quale Show, appena è arrivata la notizia, è stato ricordato e salutato, tra la commozione di tutti. La conduttrice ha voluto esprimere tutta la sua tristezza e il suo dolore con un post su Twitter. Una foto di qualche anno fa in cui lei e Stefano erano abbracciati ad una festa.
“Sono disperata… un pezzo del mio cuore #stefanodorazio” ha scritto come didascalia Barbara D’Urso. Poche e semplici parole, che riescono ad esprimere alla perfezione tutto il dolore che sta provando la conduttrice, e tutti gli amici del batterista, che era considerato da tutti come una delle persone in assoluto più simpatiche. “Io per te ero ‘Ursus’ e tu per me ‘Orazio’…Hai visto crescere i miei figli..Natali e Natali passati insieme…e non solo…sei stato il primo a correre a Napoli un attimo dopo che il mio papà mi aveva lasciato…mi hai voluto come tua testimone quando hai sposato Titti…che ti ama tanto…ed ora come faremo? Come? Disperata. Punto” ha scritto, ancora, la D’Urso su Instagram.
Bobo Craxi: “Stefano D’Orazio ha sofferto negli ultimi anni”. Notizie.it il 07/11/2020. Craxi ha svelato che lo storico batterista dei Pooh aveva dei problemi di salute che ha dovuto affrontare negli ultimi anni. La notizia della morte di Stefano D’Orazio ha colpito tutti. Una notizia tragica ed improvvisa, che ha sconvolto completamente i suoi fan, i fan dei Pooh e tutti i suoi amici. A dare l’annuncio è stato Bobo Craxi, tramite i social, che ha poi voluto ricordare l’amico ai microfoni di Rai Radio2 durante il format “I Lunatici”, svelando che il batterista non stava bene da diversi anni. “Ho dato la notizia accidentalmente, ho scritto di getto. Stefano aveva sofferto molto negli ultimi anni, è stato poco bene, negli ultimi due o tre anni” ha svelato Bobo Craxi, parlando della morte del suo caro amico Stefano D’Orazio. “Io lo conoscevo da trent’anni, ma negli ultimi venti ci siamo anche molto frequentati, nel periodo in cui lui ha un po’ abbandonato la carriera artistica piena. Non rinnegava affatto la cosa di essere uno dei Pooh, ma aveva tentato anche una via diversa, sapendo che nell’arte è importante essere poliedrici. Amava molto scrivere, si ritirava a Pantelleria e scriveva. I Pooh sono stati e sono il gruppo musicale più conclamato e più amato per la loro verve. Stefano ha sofferto molto il distacco da quell’esperienza, ma ha maturato anche l’idea di essere un uomo capace di fare altro. Era il motore del gruppo, quando hanno ripreso a fare alcune cose un paio d’anni fa, ha accettato di farlo di buon grado. Doveva molto ai Pooh” ha raccontato Craxi, spiegando di aver scritto di getto sui social nella convinzione che la notizia fosse già di dominio pubblico. “Sono scosso perché quando è stato ricoverato si pensava che potesse reagire alle cure che gli avevano somministrato, ho sempre pensato che comunque alla fine era un uomo forte e giovanile. Aveva una grande capacità di aggredire i problemi, era un uomo capace di risolvere i problemi, da questo punto di vista non era un artista, che spesso sono abbastanza stravaganti, era un uomo molto concreto. Aveva una romanità diversa, passatemi questo, non era fatalista. Aveva vissuto lungamente al nord, viveva a Bergamo, aveva applicato tutta una cultura manageriale alla sua professione, era una specie di perno nella compagnia. Stefano era ricoverato da qualche giorno, aveva problemi di salute” ha spiegato Craxi in radio. “L’ultima cosa che ha fatto Stefano è scrivere un testo molto bello quando accadde a Bergamo la tragedia che conosciamo legata al coronavirus. Aveva scritto un testo toccante, di speranza, che voleva rendere universale. Era molto contento di poter dare una mano, non gli sembrava di aver fatto una cosa retorica, si teneva sempre abbastanza lontano dalla retorica. In lui e nei Pooh c’è sempre stato un elemento di generosità. Amava i Pooh, amava questo gruppo, amava un rapporto durato quarant’anni. Era certamente un volto familiare per milioni d’italiani” ha concluso, riferendosi al percorso che Stefano ha fatto insieme ai Pooh.
Stefano D'Orazio, morto il batterista dei Pooh. Aveva 72 anni, il grande amore con Emanuela Folliero. Libero Quotidiano il 06 novembre 2020. Lutto nel mondo della musica italiana: è morto Stefano D'Orazio, storico batterista dei Pooh. A darne notizia prima di tutti su Twitter è stato Bobo Craxi, figlio di Bettino. "Stefano amico mio. Suona e scrivi anche lassù. Ciao!". D'Orazio, 72 anni, era stato anche una voce riconoscibilissima nel gruppo pop più longevo della storia della musica leggera italiana, di cui ha fatto parte dal 1971 al 2009, prima del gran ritorno nel biennio 2015-16. Soltanto il 12 settembre 2017 aveva sposato la compagna Tiziana Giardoni, dopo le storie d'amore con Lena Biolcati ed Emanuela Folliero, storica annunciatrice di Rete 4. Non ha avuto figli, ma di fatto è il padre, avendola cresciuta, di Silvia Di Stefano, figlia della Biolcati.
Stefano D'Orazio, Bobo Craxi: "Ho dato l'annuncio della morte accidentalmente. L'ultima cosa che ha fatto". Libero Quotidiano l'08 novembre 2020. "Ho dato la notizia, pensando che fosse già pubblica". Bobo Craxi ha annunciato su Twitter la morte di Stefano D'Orazio, 72enne batterista dei Pooh. "Non mi sono neanche posto il problema in se, è come se avessi scritto un messaggio in una bottiglia", spiega il figlio di Bettino a I lunatici su Rai Radiodue. Quella notizia ha scatenato la commozione dei fan e dei colleghi sui social, dimostrando quanto D'Orazio fosse amato e stimato come uomo, prima ancora che come musicista. "Ho dato la notizia accidentalmente, ho scritto di getto - spiega Craxi -. Stefano aveva sofferto molto negli ultimi anni, è stato poco bene, negli ultimi due o tre anni. Io lo conoscevo da trent'anni, ma negli ultimi venti ci siamo anche molto frequentati, nel periodo in cui lui ha un po' abbandonato la carriera artistica piena. Non rinnegava affatto la cosa di essere uno dei Pooh, ma aveva tentato anche una via diversa, sapendo che nell'arte è importante essere poliedrici". Considerato l'uomo-motore dei Pooh, il loro "ministro delle finanze", un imprenditore prestato alla musica, D'Orazio aveva una grande passione per la scrittura. "Sono scosso perché quando è stato ricoverato si pensava che potesse reagire alle cure che gli avevano somministrato, ho sempre pensato che comunque alla fine era un uomo forte e giovanile - ricorda Craxi -. L'ultima cosa che ha fatto Stefano è scrivere un testo molto bello quando accadde a Bergamo la tragedia che conosciamo legata al coronavirus. Aveva scritto un testo toccante, di speranza, che voleva rendere universale. Era molto contento di poter dare una mano, non gli sembrava di aver fatto una cosa retorica, si teneva sempre abbastanza lontano dalla retorica. In lui e nei Pooh c'è sempre stato un elemento di generosità".
Dagospia il 7 novembre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Bobo Craxi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte da mezzanotte alle sei. Craxi, amico di Stefano D'Orazio, ha dato l'annuncio della morte dello storico batterista dei Pooh scrivendo per primo su Twitter. Sulla scomparsa di Stefano D'Orazio, Bobo Craxi ha dichiarato: "Ho dato la notizia accidentalmente, ho scritto di getto. Stefano aveva sofferto molto negli ultimi anni, è stato poco bene, negli ultimi due o tre anni. Io lo conoscevo da trent'anni, ma negli ultimi venti ci siamo anche molto frequentati, nel periodo in cui lui ha un po' abbandonato la carriera artistica piena. Non rinnegava affatto la cosa di essere uno dei Pooh, ma aveva tentato anche una via diversa, sapendo che nell'arte è importante essere poliedrici. Amava molto scrivere, si ritirava a Pantelleria e scriveva. I Pooh sono stati e sono il gruppo musicale più conclamato e più amato per la loro verve. Stefano ha sofferto molto il distacco da quell'esperienza, ma ha maturato anche l'idea di essere un uomo capace di fare altro. Era il motore del gruppo, quando hanno ripreso a fare alcune cose un paio d'anni fa, ha accettato di farlo di buon grado. Doveva molto ai Pooh. Io ho dato la notizia, pensando che fosse già pubblica, non mi sono neanche posto il problema in se. E' come se avessi scritto un messaggio in una bottiglia. Sono scosso perché quando è stato ricoverato si pensava che potesse reagire alle cure che gli avevano somministrato, ho sempre pensato che comunque alla fine era un uomo forte e giovanile. Aveva una grande capacità di aggredire i problemi, era un uomo capace di risolvere i problemi, da questo punto di vista non era un artista, che spesso sono abbastanza stravaganti, era un uomo molto concreto. Aveva una romanità diversa, passatemi questo, non era fatalista. Aveva vissuto lungamente al nord, viveva a Bergamo, aveva applicato tutta una cultura manageriale alla sua professione, era una specie di perno nella compagnia. Stefano era ricoverato da qualche giorno, aveva problemi di salute". Un aneddoto e un ricordo: "L'ultima cosa che ha fatto Stefano è scrivere un testo molto bello quando accadde a Bergamo la tragedia che conosciamo legata al coronavirus. Aveva scritto un testo toccante, di speranza, che voleva rendere universale. Era molto contento di poter dare una mano, non gli sembrava di aver fatto una cosa retorica, si teneva sempre abbastanza lontano dalla retorica. In lui e nei Pooh c'è sempre stato un elemento di generosità. Amava i Pooh, amava questo gruppo, amava un rapporto durato quarant'anni. Era certamente un volto familiare per milioni d'italiani".
Red Canzian: «Chi era Stefano D’Orazio, dai Pooh al matrimonio». Mario Luzzatto Fegiz su Il Corriere della Sera l'8/11/2020. Il musicista racconta il dolore dopo la perdita del batterista dei Pooh: «Non ho potuto stargli vicino quando è morto. Non faccio altro che stare male per lui». «C’è solo una cosa più crudele della morte: morire in terapia intensiva. Sei nudo con un solo lenzuolo e un freddo terribile. Hai sete e non ti danno da bere. Poi il tempo non passa mai. Credi di aver dormito delle ore e invece sono passati solo 5 minuti. L’ho provata quando qualche anno fa mi hanno operato al cuore. Al risveglio, oltre a mia moglie e ai miei figli, ho visto al mio fianco Stefano che mi sorrideva dietro la mascherina. La sua sola presenza mi ha rassicurato. Io non ho potuto ricambiare la cortesia». Così Red Canzian all’indomani della scomparsa dell’amico e socio d’affari Stefano D’Orazio. «Non si è mai preparati alla morte di un amico. Stefano aveva la capacità di ridere anche nelle situazioni più difficili. Soffriva di piccole infiammazioni e lo curavano col cortisone. E il Covid-19 ha trovato terreno fertile... infatti è sopraggiunta una polmonite, febbre alta, dialisi per insufficienza renale. Alle 22 di venerdì la notizia: Stefano era morto dopo una settimana di alti e bassi. Da 36 ore non facciamo altro che piangere».
Chi era Stefano D’Orazio?
«Lui è stato un riferimento costante per i Pooh. Aveva un pensiero forte, che volava alto, proiettato verso il futuro, una capacità di analisi e sintesi invidiabile. Per lui il lavoro era un gioco. Lui sapeva sempre cogliere il lato comico delle situazioni. L’ironia era una sua caratteristica. Una bella persona, un grande professionista. Non aveva la mentalità dell’orchestrale, non ha mai operato nell’ottica “prendiamo quello che c’e’ da prendere”, ma ha pensato agli investimenti, a volte anche più alti dei guadagni, e questo ci ha fatto arrivare al 50ennale. Era un imprenditore».
Qual era il segreto della longevità dei Pooh?
«Aver preso direttamente possesso di tutti gli aspetti del business, dalle sale di registrazione (io comperai dalla CGD quelle di Via Quintiliano a Milano e quelle del Castello di Carimate) alle edizioni musicali, alla gestione dei tour».
Com’era D’Orazio nel quotidiano?
«Era una persona precisa, trasparente sensibile. Il contrario dello stereotipo sui romani, era preciso, puntuale. La macchina organizzativa dei Pooh era opera sua. Non c’era limite alla sua creatività: i palchi enormi, i fumi, i laser, i Tir carichi di apparecchiature. Era un piacere lavorare con lui. Il suo motto era “divertirsi” costi quel che costi. A volte gli allestimenti costavano più di quel che i concerti incassavano. Ma in questo luna park i Pooh si scatenavano e generavano entusiasmo». «Non si è mai pronti alla morte di un amico. Ma a questo tipo di morte meno ancora. Io Roby e Dodi stiamo piangendo come ragazzini. Per noi è un pezzo di vita che se ne va. E poi non poterlo vedere, non sapere cosa fare. Un male terribile e bastardo che ti nega anche l’ultimo saluto».
Un episodio rivelatore della sua personalità?
«Lui era una specie di Robin Hood. A Trieste fu arrestato prima del concerto. Una automobilista insultava una signora con un bambino che attraversava molto lentamente sulle strisce. Lui prese a male parole l’automobilista che poi si rivelò essere un carabiniere. Così finì a passar la notte nelle carceri del Coroneo e noi suonammo in tre. Ricordo ancora i cori degli altri detenuti quando si scoprì che il nuovo arrivato era Stefano D’Orazio. L’episodio è un esempio della sua vocazione alla bontà, a difendere il deboli, gli svantaggiati».
Le sue intuizioni più importanti?
«L’ultima nel 2009, quando decise di uscire dal gruppo. Aveva capito che era finita un’epoca. Che aveva detto tutto quello che doveva dire. Stefano si guardava allo specchio e non si raccontava le bugie... Voleva scendere dal palco. Aveva bisogno di vivere la vita misurandosi su altri progetti, da solo».
«Quando decise di sposarsi con Tiziana nel 2017 giocava a fare il perplesso. In realtà era profondamente innamorato di lei che in questi anni è stata sempre al suo fianco».
Affranti sono pure gli altri due Pooh Roby Facchinetti e Dodi Battaglia. «Scusa, ma riesco solo a piangere» messaggia Facchinetti. Mentre il chitarrista della Band Dodi Battaglia piange «l’amico per sempre». «Anche mio figlio Daniele che lavora a RTL ha contratto il virus come molti altri nel mondo dello spettacolo. Ma non sapevo che Stefano avesse altre patologie. Stefano aveva portato nel gruppo una umanità speciale. Qualcuno obiettava che non era un grande batterista. Ma neanche Ringo Starr lo era. Eravamo compenetrati e complementari: Roby caparbio, io musicista emiliano, Red persuasivo e lui... simpatico cazzaro. Provo un dolore che non sparirà mai: tutte le volte che lo vedrò in tv o vedrò parcheggiata una jaguar bianca come la sua, la ferita continuerà a bruciare».
Stefano D'Orazio morto di coronavirus, la sua ex Emanuela Folliero devastata: "E adesso come faremo?" Libero Quotidiano il 07 novembre 2020. "E adesso come faremo?". Anche Emanuela Folliero è sconvolta per Stefano D'Orazio. Il batterista dei Pooh è morto di coronavirus a 72 anni gettando nello sconforto tutta la musica italiana. Artista poliedrico, "ministro delle finanze" della storica band dalle radici bergamasche amatissima in tutta Italia, da più di generazioni, paroliere, voce, dal 2009 anche autore di musical. Soprattutto, un grande uomo stimato dai colleghi e dai fan. Sposatosi per la prima volta nel 2017 con Tiziana Gisardoni, D'Orazio aveva dedicato la propria vita ai Pooh, rinunciando per molto tempo a crearsi una famiglia "tradizionale". Ma nella sua vita, tante storie d'amore trasformatesi poi in grandi amicizie. Come quella con la Folliero, ad esempio, "Ciao Stefano caro e prezioso amico mio - lo ricorda l'ex annunciatrice di Rete 4-. La tua allegria, la tua ironia, la tua profonda sensibilità, la tua Titti la tua Paola! E adesso come faremo! AMICI PER SEMPRE! è una promessa! Ma ci mancherai tantissimo."
Emanuela Folliero su D'Orazio: "L'ho trovato il giorno prima della sua morte, un brivido". La conduttrice televisiva, ex compagna del batterista scomparso dei Pooh, ha rivelato un toccante aneddoto legato a un regalo che D'Orazio le fece anni fa. Novella Toloni, Giovedì 12/11/2020 su Il Giornale. Il destino a volte è strano. Lo ha capito Emanuela Folliero che, il giorno prima della morte del suo ex compagno Stefano D'Orazio, ha fatto un sorprendente ritrovamento. Uno di quegli episodi che lei difficilmente riuscirà a dimenticare e che, ha raccontato lei stessa, custodirà per sempre nel cuore come l'ultimo messaggio del suo ex. Intervistata dal quotidiano Il Corriere della Sera, Emanuela Folliero ha ripercorso le fasi più importanti della sua storia d'amore con Stefano D'Orazio. Lo storico volto di Rete 4 non ha nascosto il dolore per la perdita e la tristezza nel non poter presenziare al funerale dell'ex fidanzato. Nonostante la loro storia sia durata solo due anni, alla fine degli anni '90, Emanuela Folliero ha svelato che tra loro era rimasta una profonda amicizia. Un legame sottile che aveva coinvolto anche i rispettivi compagni di vita: "Mio marito era amicissimo di Stefano e io sono legatissima a Titti. Era assolutamente chiaro che tra noi era rimasto un grande affetto". Nel ritornare indietro nel tempo con la memoria, però, la Folliero ha raccontato anche di un fatto accaduto alla vigilia della morte del batterista. Un'incredibile coincidenza avvenuta proprio il giorno prima della scomparsa dell'ex Pooh. "Stavo sistemando un armadio - ha raccontato al Corriere Emanuela Folliero - e ho trovato una scatoletta con dentro regalini del battesimo di mio figlio, tra cui una catenina con un ciondolo con i segni zodiacali e scritto "Ad Andrea, tuo Stefano". Una catenina che non vedevo da 12 anni". Il ritrovamento del gioiello, un regalo che Stefano D'Orazio aveva fatto al figlio della Folliero durante la loro storia, ha scatenato una reazione profonda nella conduttrice, soprattutto dopo la notizia della morte dell'artista: "Ho avuto un brivido. A Stefano piaceva tanto mio figlio Andrea. Pure mio marito che è un super razionale è rimasto colpito dalla coincidenza della catenina e l'abbiamo appesa in cucina. Certo è tutto così strano, che ancora non ci credo".
Stefano D'Orazio, le ultime parole alla moglie dal letto di ospedale: “Non riesco a capire…”, dramma Covid. Libero Quotidiano 08 novembre 2020. “Non possiamo credere che Stefano se ne sia andato, lo avevo sentito qualche ora prima del ricovero”. Così Roby Facchinetti a Domenica In si è commosso per Stefano D’Orazio, lo storico batterista dei Pooh che è venuto a mancare venerdì scorso. Una perdita immensa per il mondo dello spettacolo e per l’Italia intera, con Mara Venier che gli ha ovviamente voluto rendere omaggio. Facchinetti ha inoltre rivelato che le ultime parole di D’Orazio erano state per la moglie Tiziana: “Le ha detto "non riesco a capire dove trovi tutta l’energia per fare tutto questo per me". Io ora sono in viaggio verso Roma per il tuo funerale”. Per Facchinetti e tutti quelli che lo hanno conosciuto da vicino per tanti anni la morte di Stefano procura un dolore forte, profondo: “Era un uomo speciale, lo amavano tutti. Io ieri non ho voluto parlare con nessuno, sono rimasto solo a piangere, volevo fare solo quello”. Dalla Venier è intervenuto anche Red Canzian, che è apparso visibilmente scosso per la perdita: “È impossibile credere a ciò che è successo a Stefano, non abbiamo potuto far nulla per stargli vicino. Questo virus è bastardo, perché non ti permette di stare accanto ad una persona. L’ho visto l’ultima volta a giugno, in studio. Io stavo preparando uno spettacolo, avrei cantato con lui in maniera virtuale”. Purtroppo non c’è stato il tempo perché il Covid se lo è portato via prima.
Chi è Tiziana Giardoni, moglie di Stefano D’Orazio. Notizie.it il 07/11/2020. Lo storico batterista dei Pooh Stefano D'Orazio era convolato a nozze il 12 settembre 2017 con la compagna Tiziana Giardoni. Storico batterista dei Pooh, Stefano D’Orazio si è spento all’età di 72 anni il 6 novembre 2020. Convolato a nozze nel 2017 con Tiziana Giardoni, chi è la moglie di uno dei componenti storici della band pop rock più amata e longeva d’Italia. Assieme per oltre dieci anni, Stefano D’Orazio e Tiziana Giardoni sono convolati a nozze il 12 settembre 2017. Una proposta di matrimonio molto romantica, con lo storico batterista dei Pooh che ha chiesto la mano durante un concerto a Verona per i Wind Music Awards. Ospite di Caterina Balivo a Vieni da me, qualche tempo dopo Tiziana Giardoni aveva rivelato: “Quando mi ha fatto la dichiarazione d’amore in diretta io ero a casa.
Non sapevo nulla. Insistevo per sposarmi, ma da lui non me lo sarei mai aspettato”. “Lì è successo tutto per caso – aveva raccontato Stefano D’Orazio – Quella sera eravamo in ritardo con la scaletta a causa del maltempo. Quando sono arrivati gli autori che ci hanno detto che ci avrebbero chiesto i progetti per il futuro, sapevo che i miei colleghi avrebbero annunciato la pubblicazione di dischi, la partenza di un tour e quindi ho pensato che, per differenziarmi, avrei fatto questo annuncio. Quando siamo scesi dal palco, Roby Facchinetti mi ha detto Ma che ti sei fumato?”. La cerimonia si è svolta alla presenza di 300 invitati, tra cui molti amici e colleghi di D’Orazio. Molto riservata e lontana dai riflettori, Tiziana Giardoni è una manager e organizza eventi.
Stefano D’Orazio: «Io all’Isola? Mia moglie Tiziana me l’avrebbe proibito». L’ex Pooh parla del matrimonio con Titti e dell’amico Fogli: «Riccardo è un uomo sicuro di sé e dei suoi affetti, ha reagito bene. A me non sarebbe mai successo perché...». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 2 maggio 2019. «Il vero vantaggio di sposarsi alla mia età è che poi davanti hai meno tempo per pentirti di averlo fatto». Per raccontare il suo matrimonio con Tiziana, di 22 anni più giovane, Stefano D’Orazio, storico ex batterista dei Pooh e oggi autore di musical di successo, ha scelto l’ironia. Mentre le popstar, passata la boa dei 70 anni, sono al secondo divorzio, SDO (così lo chiamano gli amici) ha rovesciato la prospettiva e si è messo a scegliere menu, posate e abito da sposo, come un trentenne. Un matrimonio ripercorso nei minimi dettagli nel libro Non mi sposerò mai! Come organizzare il matrimonio perfetto senza avere alcuna voglia di sposarsi (Baldini & Castoldi), diventato un best seller alla quarta ristampa. «Tutto mi sembrava così divertente e surreale che appuntavo ogni cosa mi succedeva», racconta D’Orazio, seduto nella sua casa di Roma. Con lui c’è Tiziana Giardoni, 48 anni, responsabile degli eventi di un’azienda di telefonia, sua compagna da 12 anni e moglie da due. Ha scoperto che si sarebbe sposata con SDO in diretta televisiva, quando dopo un concerto dei Pooh all’Arena di Verona, alla classica domanda del conduttore, «Che progetti hai per il futuro», lui ha risposto: «Mi sposo».
«Gli autori mi avevano avvisato della domanda e non avevo voglia di rispondere che nel futuro c’era un nuovo musical. Ho pensato: la gente si immaginerà che siamo fissati con i soldi e il lavoro. Cinque minuti prima di salire sul palco ho deciso: “Mi faccio un regalo e dico che per il mio compleanno mi sposo”».
Nel frattempo si era assicurato che Tiziana fosse davanti alla tv...
«Una fatica: quella sera in contemporanea c’era il suo film preferito e non voleva saperne dei Pooh. L’ho supplicata: “amore, ti prego, devi dirmi come mi sta la giacca nuova”».
D’Orazio come Fedez: avete entrambi chiesto la mano di vostra moglie all’Arena di Verona, davanti a migliaia di persone.
«Sì e quando me l’hanno detto ci sono rimasto male. Pensavo di essere stato originale e invece Tiziana mi ha aperto gli occhi: “Guarda che l’ha fatto anche il marito della Ferragni”. Mi sono un po’ vergognato, per la prima volta mi sono sentito un plagiatore. Ma rispetto ai Ferragnez abbiamo organizzato il matrimonio in un mese e senza wedding planner».
Lei è stato uno scapolo di ferro. Come l’hanno presa le sue ex?
«Erano quasi tutte al matrimonio. A dire il vero sono stati gli amici a rimanerci peggio: già dai tempi del liceo facevo dei sermoni sulla inutilità del contratto matrimoniale. Avevo messo su un gruppo di proseliti che giustamente si sono risentiti: “A Ste’ ma come sarebbe a dire: c’abbiamo 92 anni e non ci hai fatto sposare!”».
Non credeva al matrimonio, ma ha avuto una sfilza di compagne.
«Credo nella coppia, ma il vincolo matrimoniale può diventare una trappola: se sono in auto e ho sonno mi fermo in autostrada e dormo, se ho una moglie a casa tiro dritto e magari muoio. L’assenza di coppia è assenza di attenzioni e a volte può essere una forma di libertà».
Teorie pericolose. Tiziana ne è al corrente?
«È informata di tutto... e ovviamente protesta! Al liceo scrissi un libriccino, Il giro del mondo intorno a un elefante, in cui stilavo una hit parade particolare. Teorizzavo: se stasera dico alla fidanzata che non ci vediamo perché sono distrutto ho ancora 8 punti, se dico che voglio vedere la partita scendo a 5... precipito a zero se le dico che voglio uscire con un’altra. Siamo condizionati dalla cultura: toccarsi un gomito non è come toccarsi una tetta».
Quante donne le hanno chiesto di sposarsi, prima di Tiziana?
«Sposarsi è il desiderio di ogni donna. Bisognerebbe riesumare i fratelli Grimm e arrestarli: per colpa loro tutte hanno la sindrome di Biancaneve».
Come è sfuggito, fino a due anni fa?
«Mettevo le carte in tavola da subito. Poi invece ho capito che alla mia età non sposarsi poteva essere peggio che farlo: se mi fosse successo qualcosa, Titti non sarebbe potuta entrare in rianimazione, mentre la mia zia baffuta sì... La verità è che con il tempo ti rendi meglio conto di quanti difetti hai e quindi sei più indulgente con gli altri».
Pensieri negativi che hanno generato un circuito positivo.
«Comico, direi. A partire dalla scelta del giorno, il 12 settembre, che era martedì: ho scoperto che certe cose, in certi giorni, non si fanno».
Altre scoperte?
«Che prima del menu vanno scelte le stoviglie. Mi toccava far suonare le porcellane con il coltello, per provare la leggerezza del suono... Mentre lo facevo pensavo che non si sono mai visti 80 invitati fare il sound-check dei piatti. Ma ho eseguito».
Invece dei tradizionali segnaposto avete scelto delle date significative per la coppia...
«Esatto, come 1971. Sui tavoli c’era scritto Tiziana compie un anno, grande festa per i suoi parenti! Nello stesso anno Stefano entra a far parte dei Pooh, grande sfiga per i suoi colleghi!».
La scelta dell’abito.
«Tiziana si è voluta sposare in bianco per la sindrome dei Fratelli Grimm di cui parlavo sopra: era bellissima. Io mi sono rivolto a Carlo Pignatelli: supplicavo di inserire un gilet, perché non si vedesse la pancia. Sposarsi “incinto” non va bene...».
Come le è venuto in mente di tradurre tutto in un libro?
«È stato naturale: da quando ho 16 anni appunto quello che mi succede nell’agenda, anche l’arrivo del tecnico della lavatrice. Immaginatevi le cose del mio matrimonio. Mi sono divertito parecchio, perché ho inserito solo quello che mi faceva ridere».
Quante volte vi siete lasciati prima di sposarvi?
«Mai: sono troppo pigro per sopportare la fatica della lite e della riconciliazione».
È vero che quando vi siete conosciuti Tiziana non sapeva che era un Pooh?
«Sì. Così mi ha illuso cha a cuccare è stato Stefano e non D’Orazio».
È geloso?
«Se le fanno un complimento e lei apprezza a me non dispiace».
Quando ha capito che era una cosa seria?
«Quando le ho permesso di cambiarmi il verso della carta igienica in bagno: io la voglio con lo strappo fronte-mondo, Titti no».
Lei scherza sempre?
«Anche durante la cerimonia: ho modificato la formula e ho detto “prometto di amarti e onorarti nella buona e nella ottima sorte” e “vediamo quello che si può fare per esserti fedele sempre”. I genitori di Tiziana mi guardavano allibiti: ma in realtà mi adorano».
Qualcuno le ha detto «sei troppo vecchio per sposarti»?
«Qualcuno mi ha detto: “Hai resistito fino adesso e ti sputtani nel finale”».
Gli auguri che le vengono in mente al volo?
«Piccy, la mia figlioccia, mi ha scritto: “Meglio tardi che mai!”; Emanuela Folliero, la mia ex: “Finalmente, Stefano!”; Riccardo Fogli: “Tiziana, sei sicura? Noi Stefano lo conosciamo bene quindi... occhio!”».
A proposito di Fogli, si è arrabbiato per quello che è successo all’Isola dei Famosi?
«Quando Riccardo ha deciso di partecipare all’Isola avrà messo in conto di potersi trovare di fronte a qualche situazione di gossip, sono le famose regole del gioco di trasmissioni concepite su questi temi. Lui è un uomo sicuro di sé stesso e dei suoi affetti. Si è mosso molto bene di fronte a situazioni poco piacevoli. Bravo!».
Se fosse successo a lei?
«Non sarebbe mai successo, per il semplice fatto che all’Isola non ci sarei mai andato. E Tiziana non mi avrebbe mai fatto partecipare».
I tamburi del Paradiso suonano per D’Orazio. Stefano, il batterista dei Pooh, portato via dal Covid. Carloo Stragapede su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Novembre 2020. Era molto più del batterista dei Pooh Stefano D’Orazio. Paroliere (il suo capolavoro è forse «La donna del mio amico» del 1996), comunicatore avvincente ed essenziale nelle interviste e dal palco, ma soprattutto manager «interno» della band più leggendaria della musica leggera italiana. Quando nel 2009 aveva lasciato il gruppo (salvo poi ritornare a impugnare le fatidiche bacchette per la reunion del cinquantennale nel 2016), di colpo quelle pagine dell’agenda che aveva scandito decenni di successi «erano diventate improvvisamente bianche. Presi il primo aereo che mi capitò e mi trovai a Pantelleria», racconta nella autobiografia «Confesso che ho stonato», edita da Kowalski nel 2012. Nell’isola sicula comprò casa e trascorreva il tempo buttando giù miriadi di idee e testi. Ammalato da un anno, quando la sua tempra sembrava avere la meglio ha dovuto fare i conti con il Covid che venerdì sera se l’è portato via a 72 anni, nella struttura Columbus del Policlinico Gemelli, nella sua Roma. Fortissimo il legame di D’Orazio e dei Pooh con la Puglia e con Bari in particolare, suggellato dalla consegna di un riconoscimento della Città metropolitana, per mano del sindaco Antonio Decaro e del vice Michele Abbaticchio, quest’ultimo fan sfegatato del complesso musicale: una cerimonia memorabile, nel Palazzo delle Poste, a fine ottobre 2016, in occasione del triplo concerto del mezzo secolo al Palaflorio. In quel celebration tour, ai quattro (D’Orazio, Roby Facchinetti, Red Canzian e Dodi Battaglia) si era unito il compagno di un tempo, Riccardo Fogli. D’Orazio la scorsa primavera aveva scritto il testo di «Rinascerò rinascerai» su melodia di Facchinetti. Una canzone nata dalla immagine del tragico corteo che trasportava le bare delle vittime di Covid lungo le strade di Bergamo. La instant song è servita a raccogliere fondi per l’Ospedale Papa Giovanni XXIII del capoluogo orobico, una delle zone più colpite dalla prima ondata della pandemia. Nato a Roma, nel quartiere di Monteverde, il 12 ottobre 1948, D’Orazio proveniva da famiglia della media borghesia: i genitori erano dipendenti del Distretto militare e per lui furono sempre un modello irraggiungibile di amore e di affiatamento. A loro aveva dedicato il commovente brano «50 primavere» del 1992. Considerato lo scapolone impenitente della band, solo tre anni fa, nel 2017, aveva sposato dopo una lunga convivenza Tiziana Giardoni, che gli è stata vicino fino alla fine. Non aveva figli, anche se considerava tale Silvia, la figlia di Lena Biolcati, la cantante e vocal coach con la quale aveva avuto una lunga relazione tra gli anni ‘80 e ‘90 mantenendo poi ottimi rapporti. La ragazza, apprezzata interprete di musical, gli è sempre rimasta legata, tanto da adottare il nome d’arte Silvia Di Stefano. I dettagli dei funerali non sono stati ancora annunciati, ma si sta studiando la possibilità di tenere una cerimonia all’aperto domani, lunedì, nella capitale, nel rispetto delle norme anti Covid, per consentire a tutti di dargli l’ultimo saluto. «Per me questo è il momento del silenzio, voglio solo essere vicino con il mio pensiero alla moglie Tiziana, alla sorella Paola e a Silvia», sono le parole di Roby Facchinetti. Aggiunge: «Abbiamo perso un fratello, il testimone di tanti momenti importanti, ma soprattutto, tutti noi, Red, Dodi, Riccardo e io, abbiamo perso una persona perbene, onesta prima di tutto con se stessa». «Amici per sempre, è una promessa - il rimpianto di Emanuela Folliero, per molti anni compagna di vita, che cita un celebre brano dei Pooh -. Ma ci mancherai tantissimo».
Da anteprima.news, sito a cura di Giorgio Dell'Arti. L'intervista dei Pooh a Gian Antonio Stella, da ''Sette - Corriere della Sera'', gennaio 2016. «La serata peggiore, tanti anni fa, fu in un paesone dell’Emilia», racconta Roby Facchinetti, «non ricordo neanche quale. Vivevamo un momento di “bassa”. Caso volle che fossero lì, la stessa sera, anche quelli della Formula3 che vivevano il loro momento d’oro. Fatto sta che da loro era pieno zeppo. Da noi c’erano dodici persone». «E otto erano fidanzatine nostre…», ammicca Riccardo Fogli. «Un’umiliazione. Loro migliaia di spettatori, noi dodici! Tornammo a casa bastonati. Muti. Col groppo in gola. Ci sentivamo finiti. Finiti». Mezzo secolo e trenta milioni di dischi dopo, i Pooh non solo sono ancora qua. Ma preparano un Gran Final col botto. Tutti e cinque, prima volta, insieme. I quattro “storici” (Dodi Battaglia, Stefano D’Orazio, Red Canzian e “il Facchinetti”) più il figliol prodigo che oltre quattro decenni fa se ne andò, Riccardo Fogli. Prima un cd celebrativo. Poi uno show conclusivo. Doveva essere un concerto solo. Sono già quattro ma forse saranno cinque o sei perché, sei mesi prima di giugno hanno già venduto un diluvio di biglietti. Grandi e piccini? Stefano: «Tu scherzi ma il miracolo è proprio questo: vengono le nonne, le figlie e le figlie delle figlie. Se non venissero ancora anche i ragazzini, ciao…». Ma suonare è ancora un divertimento? Dodi: «Mi farei tre ore di palco al giorno, anche gratis». Come mai questo “tutti insieme appassionatamente”? Stefano: «Ne parlavamo da un po’. Siccome i nostri programmi vanno di tre anni in tre anni, come ogni “ditta” seria…». Dodi: «Alla fine lo chiamai io: “Mi devi dire sì prima ancora che ti faccio una domanda: ci stai?”». «E come potevo dire no? Dissi: ci sarà da piangere, per noi e in platea». Occhi lucidi? «Beh, certo… Anche con un po’ di ansia. Io sono un artigiano, loro quattro artigiani che insieme hanno costruito una Ferrari. Io sono una Panda». «Abarth, però! Una Panda lusso!», lo interrompe Red. «Non voglio fare l’umile a tutti i costi, faccio da anni concerti in tutto il mondo e non mi tirano le scarpe. Però… Insomma, questi li conosco: passano giornate intere su un dettaglio. Il primo giorno, di nuovo con loro, ero emozionatissimo». Roby: «Sì, ma appena cominciato a cantare…». Red: «È come quando rivedi un fratello dopo anni: siamo tutti impegnati a farlo star bene». Tornando a quella sera sventurata… «Avevamo quasi deciso di scioglierci…». Risata: «E ci abbiamo messo cinquant’anni a deciderci!». Cinquant’anni di concerti, tournée, bidoni («Non hai idea di quante volte non ci pagavano») viaggi notturni per risparmiare i soldi dell’hotel, trionfi, birichinate, che aiutano a ricostruire un pezzo della storia d’Italia. A partire dal costume. E dalle “groupie girl”… «Quella fama lì fu molto romanzata. Dicevano che facevamo pubblico perché venivano folle di ragazzine», sorride Riccardo Fogli. Falso? «Mettiamola così: prima ma molto prima di conoscere le nostre compagne di oggi (scrivi: moooooolto prima!) tante ragazzine erano pazze di noi. Non erano le sole a venire ai concerti. Ma sì, erano tante». Roby: «Mettiamola così: ci fu una stagione in cui correvano dietro ai vari gruppi e siccome questi gruppi erano di ragazzi diciannovenni o ventenni, carini e simpatici… Insomma, erano anni di libertà. Improvvisa e totale libertà. Una rivoluzione». Di cui i Pooh furono i primi “utilizzatori finali”. Dodi: «Abbiamo vissuto il nostro successo giusto giusto sul crinale tra il prima e il dopo. Prima non te la davano neanche se andavi in giacca e cravatta a presentarti al padre con l’impegno a sposare la figlia in chiesa. Sei mesi dopo non dico che te la tiravan dietro perché sarei volgare ma… Insomma, le parole “fate l’amore, non fate la guerra” erano messe in pratica davvero. Ma era una cosa romantica. Innocente. Era un ribaltamento della società». Roby: «Hai presente Woodstock? Uguale. C’era proprio la voglia di far l’amore. Voglia di musica e di libertà». Sfidando mamma e papà. Un mondo di “piccole Katy”. Su quel testo che dava i brividi ai padri di ogni figlia quindicenne («Piccola Katy, stanotte hai bruciato / tutti i ricordi del tuo passato / tutte le bambole con cui dormivi…») i Pooh preferirono stare sul vago. Tanto che Sorrisi e Canzoni Tv si spinse a spiegare, rassicurante, che Roby e gli altri si erano ispirati «a una ragazzina conosciuta durante una tournée a Buenos Aires». Più lontana di così! In realtà, spiega Roby, «Piccola Katy era una poesia di Valerio Negrini, il nostro primo batterista ma più ancora il nostro poeta, che restò per settimane sul cruscotto del nostro pulmino. Una notte, dopo una festa di addio al celibato, provai a musicarla. La registrai con un Geloso. Il giorno dopo l’incidemmo. Di getto». Quindi l’Argentina non c’entra? «Ma va! Leggende. Ci siamo andati solo anni dopo. Hai idea di quante donne sulla sessantina arrivano e dicono “Ciao, sono piccola Katy?” Tantissime». Anche oggi? «Certo, anche oggi! Devo anche dire che a quei tempi (beata gioventù!) ce la siamo giocata con diverse: “Sai, Piccola Katy l’ho scritta per te”». E tutti a ridere: «Chissà a quante l’abbiamo detto…». «Tu lo dicevi a tutte, potevano pure chiamarsi Ugo…». «E non sai quante l’hanno raccontato poi alle sorelle, al marito, ai figli... “Sai, mia mamma era piccola Katy”». Un piccolo miracolo. Anche di longevità: «Mezzo secolo dopo, ce la chiedono ancora. Sempre». Anche se, a dispetto di chi la ricorda come un enorme successo, non fu neppure tale nelle vendite: «A memoria non salì mai sopra il settimo posto in hit parade. Mai. Va detto che allora i discografici non è che dichiarassero quante copie avevano stampato. Magari ne vendemmo mezzo milione ma non lo sapremo mai». Stefano: «Ci giocavano tutti, su ‘ste cose. Potevi esser sicuro solo della Rca, perché quelli rispondevano agli americani. Tutte le altre etichette vai a sapere quanto vendevano davvero…». Dodi: «Tante o poche fossero le copie, la canzone è rimasta nella testa di tutti i ragazzi e le ragazze di allora. Per passare poi alle figlie e alle nipoti. Anche se il senso di quelle parole non è più lo stesso…». Altra stagione. «Suonavamo al Piper e a metà degli Anni 60 era pieno di ragazzine scappate di casa per sfidare i genitori e venir lì, al Piper. Noi eravamo come loro, con uno o due anni di più». «Era la rivolta per il gusto della rivolta: magari andavi a dormire sotto la galleria del Pincio solo per non stare a casa, comodo comodo, nel letto», ricorda Stefano. «La mia era una famiglia borghese, mio papà era caposezione al distretto militare. Pochi mesi e cambiò tutto. Tutto. Prima il nonno insegnava al papà e il papà al figlio poi si è rovesciato il mondo: avete pure perso la guerra e volete insegnare a vivere a me?». Eppure quella serata emiliana fu fondamentale per “capire” tante cose. E non restò l’unica senza bagni di folla. «A un certo punto», racconta Stefano, «arrivò Maurizio Salvadori e ci disse che dovevamo fare i teatri. Capirai, dopo le balere! Dopo serate, come al Picchio rosso, con migliaia di spettatori! Sarà stato il ‘74… Dice: in Inghilterra fanno così. Noi, uguale. Pomeriggio e sera. Tutti i giorni. Certe volte la sera c’erano 315 persone, al pomeriggio magari undici, sedici… Ci avevano spiegato che al pomeriggio sarebbero venuti i giovani. Un giorno ne contammo sei. Giuro: sei. Ma suonavamo lo stesso. Chi paga va rispettato. Sempre. Anche fosse uno solo». «Ricordo un pomeriggio a Terni», ride Red Canzian, «Facevamo Parsifal. Avevo addosso un gran mantello. Se fai Parsifal il mantello ci vuole! Mi affaccio e s’alza l’unico presente in galleria: “‘A Dracula! ‘A vampiro! E vattene…” Da sprofondare. Eppure andammo avanti: the show must go on». Dodi: «La domanda che sorge spontanea è: eravate scemi? Il fatto è che con tutto l’armamentario di luci, strumenti, amplificatori, laser, fumi, non ci stavamo più sui palchi delle discoteche. Nei locali, dove dovevano togliere i tavolini magari già venduti per fare spazio alle nostre cose, faticavano a sopportarci». Undici anni in hit parade. Eppure, alla lunga, funzionò: «Arrivammo a fare 180 date l’anno. Centottanta! Proprio perché seminavamo bene». Sempre seminato, i Pooh. Coi primi soldi veri, quelli che altri avrebbero speso in Ferrari e Maserati, comprarono un autotreno: «All’inizio ne riempivamo un quarto e ci chiedevamo: come famo a riempirlo tutto? Adesso ne riempiamo otto o nove…», spiega Stefano. Dodi: «L’armamentario è diventato via via così costoso e ingombrante da portare in giro da costringerci a trascurare un po’ il resto del mondo per concentrarci sull’Italia». «Fatto sta che, semina oggi semina domani siamo arrivati nel 1982 a riempire lo stadio San Paolo di Napoli», rivendica Red. «Abbiamo fatto il conto che, sommando quei due concerti al giorno», aggiunge Stefano, «siamo stati più tempo sul palco che a letto con le nostre compagne». Che pure non sono state rare. Certo è che, sommando le settimane, c’è chi ha calcolato che in mezzo secolo i Pooh siano rimasti nella hit parade più o meno undici anni. Possibile? «Corretto», risponde Red, «e sette anni primi». «Forse Mina, in classifica, qualche settimana in più», riflette Roby. «Ma negli anni buoni lei ha fatto meno album. Comunque ce la giochiamo». Dischi arrivati in vetta alle hit parade? «Tutti». Proprio tutti? «Dopo il primo, tutti. Magari una settimana, ma tutti. Sia i 45 giri sia i 33 e i cd. In totale, con le compilation, una cinquantina». Voglia di stupire e imitare i Beatles. La prima volta, celebrata da Novella col titolo “Quelli che hanno sconfitto Battisti” e un articolo che lodava Tanta voglia di lei perché priva della «solita cascata di urletti isterici», fu a settembre del ‘71. Roby: «Eravamo con Riccardo a casa mia, a Bergamo. Era l’ora fatidica: l’una del venerdì. Sette giorni prima eravamo ottavi. Ecco Lelio Luttazzi. Attacca con la decima: niente. La nona, niente. L’ottava, niente. E su su la settima, la sesta, la quinta, la quarta… “Porca vacca, siamo usciti!” Poi dice: “sull’Olimpo c’è…” Alla prima nota siamo schizzati: noi!!! Essere lì, in cima alla hit parade, allora, significava il successo. La fama». Dodi: «Restammo lì in cima per mesi. E quando Tanta voglia di lei cominciò a calare, iniziò a salire fino al primo posto Pensiero. Un milione e duecentomila copie con la prima, un milione con la seconda. Numeri oggi impensabili. Con tutto ciò che ne seguiva». Red: «Mi ricordo che tornavo a casa dai concerti, allora, con una valigetta ventiquattr’ore piena di banconote. Piena. Così pagavano le discoteche. In contanti. Comprai la casa ai miei con quelle valigette». Vendite totali in mezzo secolo? Roby: «Trenta milioni di dischi. Di royalty pagate, diciamo. Ma in realtà, per anni, non si è mai saputo. Wikipedia dice cento…». Red: «Il falso era la metà. A Napoli trovavano interi capannoni pieni di dischi falsi nostri. Capannoni». Stefano: «E stampavano prima di noi! A un certo punto, per la disperazione, cominciammo a stampare in Germania. Ma servì a tener botta su un paio di dischi. Poi, non so come, riuscirono a procurarsi le matrici prima ancora che le spedissimo ai tedeschi…». Salta fuori una vecchia foto. Dodi e Riccardo hanno addosso pantaloni a pois a zampa d’elefante. Horror. «È che avevamo la necessità di essere guardati», spiega Facchinetti la cui figlia Alessandra ha lavorato per Miu Miu, Gucci e Valentino. Riccardo: «A parte che a Piombino io non sapevo neanche cosa fosse la moda, i nostri riferimenti erano l’Inghilterra dei Beatles e la voglia di stupire. Stupire sempre. In tutto. Adesso dici “peace & love” e ridono. Allora ci sentivamo sul serio portatori di un mondo nuovo. Anche nei vestiti». «Essere “beat”, allora, a Treviso, era faticosissimo: dove li trovavi gli stivaletti alla Beatles col tacco?», ricorda Red Canzian. «Io andai in piazza del Grano e comprai un paio di “polacchetti” che non c’entravano niente ma erano senza lacci. Brutti! Ma brutti! Poi vado dal calzolaio e gli dico: fammeli neri. “Perché?” “Perché sì”. Poi, non contento, dico: “Adesso mettici i tacchi alti”. “I tacchi? Se i xe novi!” “Ma io voglio i tacchi di cinque centimetri”. Il buon padre di famiglia arretra sconvolto: “Ti xe deventà cu’o?” “‘desso va de moda cussì!” “Ma ti caschi in avanti col tacco alto”. “Caminarò un po’ più indrio!”». «A Roma non era molto più facile. C’era il Piper market ma ogni cosa costava ‘n botto», sospira Stefano, «a via Sannio comprammo una pelliccia di visone con diecimila lire a testa». «Sarà stata una pelliccia di topo…», ride Roby. «No, no: era visone, ma tutto spelacchiato. Era una pelliccia da nonna ma col capello lungo mi sentivo molto figo». Il giorno dei ragazzi, un supplemento dell’epoca, scrisse che Mauro, uno dei fondatori, per farsi ricevere dal maestro Armando Sciascia, la prima volta, si fece anticipare da un biglietto da visita: «Conte Mauro Eduardo Zini Bertoli». Roby: «Infatti lo era. E noi così lo chiamavamo: conte». Gli altri no, sangue blu zero. «Tutti figli dell’Italia povera del dopoguerra». Roby: «Mio papà era operaio alla Dalmine ma con cinque figli (io sono il primo) arrotondava facendo il falegname». Red: «Il mio, dopo aver fatto di tutto compreso il minatore a Marcinelle (venne via in giugno, la tragedia successe in agosto), faceva il camionista. Era sempre via. Quando andava in bassa Italia, con le strade di allora, stava via due settimane. Una vita che gli ha spento tutti i sogni. Diceva sempre: “Varda che ghe xé più giorni che luganeghe”. Guarda che ci sono più giorni che salsicce. Insomma: risparmia! Vivevamo in una villa del ‘700, in pessime condizioni, che era stata data alle famiglie più povere del paese. Due stanze, duemila lire al mese. Ricordo ancora il giorno che papà tornò da un viaggio, affittò una Fiat 1400 per portarci al mare a Jesolo. Anche noi in vacanza!». Dodi: «Il mio era un rappresentante di olio. Ma tutti in famiglia, siamo di Bologna, eravamo musicisti. Papà suonava il violino, mio zio la chitarra, il bisnonno il violòn, una specie di violoncello coi tasti. A quattordici anni ero già coi complessi di ragazzi più vecchi». «Mio padre, dopo essere tornato dalla guerra e aver fatto il raccogli-macerie, l’imbianchino e l’attacchino, trovò lavoro alla Piaggio, a Pontedera. Come manovale», ricorda Riccardo, «Era così felice di questo suo status che certe sere in cui sognava ad alta voce diceva: “Dio, fa che anche ‘l mi’ figliolo diventi un metalmeccanico!” Difatti firmò la richiesta di assumermi quando avevo 10 anni. Mi prenotò il posto! A 14 e un mese ero alla Piaggio. Solo che proprio allora uscì la legge che per lavorare ce ne volevano quindici. Fu una fortuna perché imparai a fare l’elettricista. Mi piaceva tantissimo. A 15 anni e un mese tornai in Piaggio. Ci ho lavorato due anni. Difatti i miei primi contributi li ho pagati allora. A novembre del ’62. E nel 2007 mi è scattata la pensione. Ora è di 670 euro». Quarantacinque anni di contributi. «Senza le marchette Enpals non potevi lavorare. E il nostro commercialista, grazie a Dio, ci stava attento. Sennò oggi…». Cultura popolare. Insomma, tutti figli del dopoguerra. Che si trovarono di colpo benedetti dal successo. «La svolta vera fu nel ‘71, con Tanta voglia di lei. Era difficile allora parlare di tradimento. Valerio Negrini, quello che oggi più ci manca, ci riuscì. Come era riuscito prima a parlare del terrorismo in Alto Adige in Brennero ‘66». Censurata dalla Rai perché dava da pensare… «Esatto. Il filo conduttore tra questi argomenti diversi, le bombe altoatesine, le ragazzine in fuga, il tradimento, era Valerio». Stefano: «Non erano itinerari da hit parade. La fortuna è che abbiam cominciato prestissimo ad autoprodurci e a rompere lo schemino delle case discografiche. Quello che diceva che dopo un successo dovevi fare una canzone che somigliasse il più possibile alla precedente. Per fare il contrario dovremo metterci in proprio. Parlando di temi. Problemi. Cronaca. Gitani, pellirosse, periferie, Incas… Mica tutti sapevano chi erano gli Incas. Ecco: noi crediamo di aver fatto una vera cultura popolare parlando di cose importanti a chi non le conosceva piuttosto che a chi le conosceva già e magari meglio di come si possa dire in una canzone». C’è un vecchio ritaglio di Settimana tv del 1972: «Siamo noi gli eredi di Verdi e Puccini». «Quella è una sciocchezza che mai avremmo osato dire e ci fa fare la figura dei pirla, ma è vero che abbiamo provato a fare musica popolare creando uno stile nostro», salta su Roby. «Può piacere o non piacere, ma è nostro. Uno ascolta e dice: questi sono i Pooh. Ti piace? Non ti piace? Siamo noi». Non piacevano ad esempio, ricorda Riccardo, a un contadino che aveva la stalla vicino a un rustico dove il gruppo provava sotto Bergamo alta: «Arrivava con il forcone smoccolando in bergamasco. Roby faceva da interprete. Diceva che con la musica gli facevamo anda’ a male ‘l latte alle mucche…». C’è chi ha scritto: «I Pooh sono la via di mezzo tra la Premiata Forneria Marconi e i Cugini di campagna». «Mica male!», ride Red. «Meravigliosa», ammicca Stefano. Roccaforti? Roby: «Mah… Abbiamo venduto un po’ dappertutto. Un amico dice di aver sentito una ragazza di colore canticchiare per strada a New York Chi fermerà la musica. Non è fantastico?». Red: «C’è un gruppo di ragazzi neri guidato da Lesley Dubois che ci segue ogni volta che andiamo in America. Son capaci di partire da New York per venirci a vedere in Canada. Lesley ha imparato l’italiano con le nostre canzoni». Dodi: «Diciamo che ci conoscono un po’ dappertutto. Europa, America, Giappone, Australia… E il sud America, ovvio». Stefano: «Quando ci siamo andati, la prima volta, non sapevamo neanche che con Tantos deseos de ti, la versione spagnola di Tanta voglia di te eravamo primi nelle classifiche. Giuro. Arrivammo a Caracas convinti di fare un giro per promuovere il disco. Un paio di interviste televisive e via. Manco gli strumenti avevamo dietro. E trovammo una folla in delirio. Si aspettavano concerti. Noi non sapevamo manco il testo in spagnolo perché avevamo registrato con l’interprete attaccato che suggeriva: “Cuanto siento defraudarte / y me puedes despreciar”…» Roby: «Eravamo basiti. Un giorno in taxi casualmente sentiamo il giornale radio. Si parla di Manila, di Nixon, di Beirut… Poi dice: “Los Pooh declaran que nunca irán a Sanremo”, “i Pooh dichiarano che non andranno mai a Sanremo”. Dico: tra Nixon e Beirut!». Stefano: «Aoh, nun se so’ ppiù ripresi da ‘sta notizia!». In realtà poi a Sanremo sarebbero andati. Con Uomini soli, nel 1990. Stefano: «Mettemmo come condizione che suonassero e cantassero tutti dal vivo. Niente playback! Troppo comodo! Vincemmo». Riappariranno, come super ospiti, al prossimo. «Non aveva senso farlo in gara…». Dodi: «Per tornare al tema dei “nostri” serbatoi di fans, c’è infine l’est europeo dove siamo stati tra i primi ad andare, perfino prima dell’amico Fogli». Riccardo: «Voi però non siete arrivati anche nella Kamchatka…». Red: «Ma va là! Solo nel Risiko esiste la Kamchatka!». «Esiste, esiste… Io ci ho cantato». L’intervento di “Santa Nicoletta”. Magari laggiù, in fondo in fondo dopo la Siberia e sotto lo stretto di Bering, non ci sono gruppi di sosia che rifanno i Pooh uguali identici, ma in giro ce ne sono un mucchio. Si pettinano allo stesso modo, mettono gli stessi vestiti, cantano imitando gli stessi tic… Dodi: «E lo fanno di mestiere, eh? Ci vivono. Fanno più concerti di noi. Bravissimi. Una sera uno mi spiegò nei dettagli come io disponessi sul palco il set di chitarre uguali alle mie. Dico: “Grazie, lo so”. “No, adesso te lo spiego”». Stefano: «Dieci anni fa ne radunammo a Ponte di Legno 52. Non so se mi spiego: cinquantadue gruppi di cover! Con nomi tratti dai nostri dischi. Ognuno di noi aveva i suoi doppioni…». Vinsero i “Palasport” di Taranto, che ricordano sul loro sito di essere «gli unici a portare in concerto gli stessi strumenti dei Pooh, l’unica “copia conforme all’originale” del pianoforte a coda bianco portato dai Pooh dall ‘86 ad oggi, gli storici “Tom a fusto rovesciato” utilizzati da sempre da Stefano D’Orazio, il basso Laurus rosso appartenuto a Red Canzian…». Siano benedetti, dice Stefano: «Negli anni in cui ci siamo fermati hanno lavorato tantissimo». E Red: «Ho prodotto perfino un album di venticinque di questi gruppi! Sono loro a tener viva la nostra storia». Roby: «Ancor più dopo che ci saremo sciolti». Proprio sicuri che quelli di giugno saranno gli ultimi concerti? Red: «È quello che ha detto Riccardo: “E mi avete chiamato dopo 43 anni per chiudere?”». Pentito, quella volta, d’esser venuto via? «Sempre. Roby, anche se siamo quasi coetanei, era praticamente mio fratello maggiore. Lasciare amici così è stata una follia pura. E una follia pura che mi abbiano lasciato andare. Hanno avuto la fortuna, dopo mille provini, di trovare Red. Sennò…». Colpa della sbandata di Fogli per Patty Pravo. Red: «Porto tutti i giorni un cero a Santa Nicoletta Strambelli… Anche i miei familiari lo fanno». Stefano: «Era così stravolto da questo amore per Nicoletta, in quei mesi, che finivamo all’una a Sottomarina e lui partiva per andare da lei a Roma con un concerto la sera dopo a Firenze…». Roby: «Che storia, però! Red benedice Nicoletta, Riccardo la maledice». Riccardo: «Non esageriamo… Lui ha acceso i ceri, ma io non li ho mai spenti. Con Nicoletta era una storia che meritava d’essere vissuta. È la vita… Sennò col cavolo che vedevo il Kamchatka!»
Andrea Pedrinelli, Avvenire 08/01/2011. «Il tentativo di dedicarmi solo a me l’ho fatto: dopo l’addio ai Pooh sono stato un mese in Sri Lanka. Là ho visitato la scuola costruita grazie ad una delle iniziative della band, con una cifra piccola per noi occidentali. Allora mi è venuta nostalgia di un potere che la popolarità consente: dare qualcosa a chi soffre, sensibilizzare. Sa, non ho mai avuto la necessità del palco: anche cantare i miei testi con i Pooh era sempre su spinta degli altri. Così ho rifiutato oneman show e reality e sono ripartito dietro le quinte. Provando, nel mio piccolo, a dare qualcosa agli altri». Stefano D’Orazio racconta così la sua "svolta" dopo 38 anni di Pooh: una "svolta" che ora lo vede, certo, artefice di musical ( Aladin) o autore di loro versioni italiane ( Mamma mia! ) ma soprattutto lo fotografa impegnato in una scuola, nell’incontrare i giovani, nell’aiutare iniziative di solidarietà. «Mi sentivo inadeguato a sessant’anni su un palco: queste cose, invece, sono una necessità interiore».
D’Orazio, c’è però un fatto da cui partire. Dopo i Pooh lei è stato giurato di «Ti lascio una canzone»: e non sembrava l’abbrivio di una sua "svolta" lontana dai meccanismi peggiori dello spettacolo: anzi…
«Ho accettato vedendo nei provini bambini che si divertivano. Però poi ho visto che strada facendo ci credono, le mamme diventano agenti… E infatti ho smesso. La popolarità la conosco: fa staccare i piedi da terra. Se sei fragile è pericolosissima».
Per questo ha varato il progetto «Fabbrica della musica»?
«Assolutamente sì. Io appena posso giro le scuole, ma questo è il mio sogno: una scuola di musica ad Ostia, ristrutturando a mie spese un teatro, con anche corsi appositi per portatori di handicap. Lì, da direttore artistico, incontro periodicamente gli allievi. Per dirgli che l’essere famoso cui spingono i media non è nulla senza basi. Devono imparare un’arte, certo, ma anche i loro diritti, le leggi del settore…»
I giovani li aiuta anche sul piano pratico? Voglio dire, con ’Aladin’ ha dato loro opportunità?
«Per farlo ho lottato contro i distributori degli spettacoli, che volevano solo "nomi". E Jasmine è una ragazza: loro mi volevano imporre gente dei reality, attrici di cinema, 40enni appariscenti… Anche il corpo di ballo è tutto di giovani. Ho accettato solo due imposizioni: le maschere disneyane e il titolo. Il mio era Aladino, in italiano, semplicemente».
Ai musical vanno le famiglie: responsabilità?
«Tantissime. Purtroppo siamo abituati alla "realtà" becera della tv. Perciò dai testi via ogni volgarità, anche la più innocente. Pure in Mamma mia! . Sa cosa volevo mettere in Aladin? I sogni dei miei nonni: salute, purezza, non credersi immortali. Dei valori».
Il D’Orazio artista sarà sempre su questi binari?
«Vorrei. Ho in mente altre favole e un testo su tre donne di generazione diversa ma itinerari simili. Poi c’è la Traviata ibrida con Marconi. Se il musical chiama 240mila persone, cito La bella e la bestia , perché non usarne gli schemi anche per dimostrare, con un testo di oggi, quanto è bello Verdi?»
Il D’Orazio della ’svolta’ invece che progetti ha?
«C’è un libro cui tengo: Sassi tra le nuvole del dottor Marco Zappa, mio amico d’infanzia, testimonial dell’Associazione Lombarda contro l’Idrocefalo e la Spina Bifida. Voglio aiutarlo a raccogliere col libro fondi per curare queste malattie. Poi vorrei mettere all’asta i miei… elefanti. Pachidermi di ogni materiale e tipo da vendere per aiutare associazioni o iniziative benefiche. Devo solo trovare chi me li cataloghi…»
· E' morto l'ex presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino.
(ANSA il 2 novembre 2020) - E' morto questa notte a Roma, all'età di 82 anni l'ex presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino. Giampaolino, nato a Pomigliano d'Arco, era entrato a far parte della magistratura della Corte nel 1968, proveniente dalla magistratura ordinaria dove aveva svolto, dal 1964 al 1968, le funzioni di pretore e di giudice di tribunale di Paola. Presidente di Sezione della Corte dei conti dal 1999 e Presidente della Corte dei conti il 3 luglio 2010, Giampaolino era Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica e aveva ricoperto numerosi incarichi istituzionali fra i quali Presidente dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture, Capo di Gabinetto del Ministero delle attività produttive, Capo dell'Ufficio legislativo del Ministero dell'industria del commercio e dell'artigianato, Capo Ufficio legislativo del Ministro dei lavori pubblici, e Capo servizio coordinamento giuridico e legislativo del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie. Giampaolino è stato anche autore di numerose pubblicazioni in tema di controllo e giurisdizione della Corte dei conti, nonché di varie pubblicazioni su lavori pubblici, pubblico impiego, diritto penale e contabilità di Stato.
· E' morto Gigi Proietti.
E' morto Gigi Proietti, grande attore, grande personaggio. Oggi avrebbe compiuto 80 anni. La Voce di Manduria lunedì 02 novembre 2020. Gigi Proietti è morto. Oggi avrebbe compiuto 80 anni. Il noto attore romano, a quanto apprende l'Adnkronos, è deceduto in una clinica romana intorno alle 5.30. Le sue condizioni si erano aggravate ieri sera. Proietti era ricoverato da giorni in clinica per problemi cardiaci. Ieri il quadro è peggiorato e nella tarda serata il paziente è stato sedato. Fino a tardi sono rimasti accanto all'attore la moglie e le due figlie, che intorno alla mezzanotte hanno lasciato la clinica. "Nelle prime ore del mattino è venuto a mancare all’affetto della sua famiglia Gigi Proietti. Ne danno l’annuncio Sagitta, Susanna e Carlotta. Nelle prossime ore daremo comunicazione delle esequie", si legge in una nota della famiglia. Già in passato il cuore gli aveva dato problemi: nel 2010 era stato ricoverato all'ospedale San Pietro di Roma per una forte tachicardia, poi fortunatamente superata. Comico, cabarettista, doppiatore, conduttore televisivo, regista, cantante, direttore artistico: la carriera di Gigi Proietti è stata poliedrica e ha toccato vari fronti del mondo dello spettacolo.
Gigi Proietti, addio a un mito: morto per problemi cardiaci nel giorno dei suoi 80 anni. Da Febbre da cavallo a Shakespeare, più di un attore. Libero Quotidiano il 2 novembre 2020. Addio a Gigi Proietti: il grande attore romano è morto nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Ricoverato da giorni in una clinica della Capitale per gravi problemi cardiaci, domenica sera era stata diffusa la notizia delle sue condizioni gravissime, in terapia intensiva. Una carriera enorme e variegata, dal cinema alla tv e soprattutto il teatro, dalla "romanità per eccellenza" e Petrolini a Shakespeare e Brecht. E poi doppiatore di Robert De Niro, Dustin Hoffman e Sylvester Stallone (suo l'indimenticabile urlo "Adriana!" nel primo capitolo della saga di Rocky). In 60 anni di "servizio permanente" per la recitazione ha regalato prove straordinarie e forse quella più famosa e amata non è la più prestigiosa: ma Febbre da cavallo è un cult e le mandrakate di Bruno Fioretti hanno regalato a Proietti, attore popolare e colto allo stesso tempo, come i più grandi, un posto nella storia del grande schermo italiano. A me gli occhi please è stato invece un successo con pochi precedenti per il teatro, così come Il Commissario Rocca, 20 anni dopo, ha decretato il trionfo dell'attore nel campo delle fiction tv. Ha amato Roma come pochi, tanto da regalare alla sua città addirittura un teatro, il Globe Theatre, di cui è stato fondatore e direttore artistico fino all'ultimo.
È morto a Roma Gigi Proietti: oggi avrebbe compiuto 80 anni. L’attore si è aggravato ieri sera: già da qualche giorno era in ospedale per problemi cardiaci. La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 Novembre 2020. È morto Gigi Proietti. Il celebre attore se ne va il giorno del suo compleanno, avrebbe compiuto infatti oggi 80 anni. Si è spento a Roma: già da qualche giorno era in ospedale per via di alcuni problemi cardiaci, se n'è andato all'alba.
IL RICORDO (di Elisabetta Stefanelli - Ansa): Un uomo, non un intellettuale, che racconta ''l'allegria di allora, impastandola a quella di oggi. Ma senza nostalgia, per l'amor d'Iddio. No, semmai con la gioia per un passato che la mente riscrive come vuole, come un sogno ricorrente che, negli anni, abbiamo imparato a controllare''. Gigi Proietti - morto nelle prime ore del mattino in una clinica romana in seguito ad un attacco cardiaco - presentava così la sua vita, lo aveva fatto parlando della sua autobiografia, intitolata "Tutto sommato - Qualcosa mi ricordo", (Rizzoli). E se lui ricordava qualcosa l'Italia ricorda moltissimo dell'eterno Mandrake di Febbre da cavallo (o se preferite, Il maresciallo Rocca della tv e il Gastone teatrale) che dall'Accademia al teatro d'avanguardia, dal teatro Tenda al varieta' e alla tv ha attraversato oltre mezzo secolo di spettacolo italiano. E' arrivato ad ottant'anni - li ha compiuti oggi il 2 novembre - con una storia ricca, di vero attore, di maestro di tecnica, di personaggio di grande ironia e carisma, amatissimo dal pubblico piu' evoluto come dalla grande platea degli spettatori televisivi. Un personaggio pubblico, quindi, ma che ha sempre difeso la sua vita privata fino all'ultimo, nei momenti positivi e in quelli negativi come il ricovero in terapia intensiva della notte prima dei suoi ottanta, in piena era covid, ma per un attacco di cuore che non era il primo. Nato a Roma il 2 novembre 1940, appassionato musicista e cantante fin dalla giovinezza, durante l'universita' si avvicina al teatro sperimentale. Nel 1970 trionfa nel musical "Alleluja brava gente". Da allora, la sua carriera è una serie di successi a teatro, al cinema e in televisione.. E' anche doppiatore , tra gli altri di Marlon Brando, Robert De Niro, Dustin Hoffman ma anche del primo Rocky e del funambolico genio di Aladdin ("molto divertente ma faticoso") fino a Enzo, il saggio golden retriever protagonista di Attraverso i miei occhi. Poi regista e poeta teatrale. In circa 50 anni di attività ha così collezionato 33 fiction, 42 film, 51 spettacoli teatrali di cui 37 da regista, oltre ad aver registrato 10 album come solista e diretto 8 opere liriche. Una carriera teatrale, da A me gli occhi please, passando per Shakespeare, che aveva riassunto in uno spettacolo Cavalli di battaglia scelto per festeggiare nel 2016 i suoi 50 anni in scena coronati dalla direzione quindicennale dell'elisabettiano Globe Theater di Roma. Anche se molto prima la sua scuola, e la sua vocazione di maestro, si era espressa al Brancaccio, di cui fu direttore dal1978, insieme a Sandro Merli, per dare vita ad una fucina di talenti tra cui figurano Flavio Insinna, Chiara Noschese, Giorgio Tirabassi, Enrico Brignano, Massimo Wertmüller, Paola Tiziana Cruciani, Rodolfo Laganà, Francesca Reggiani, Gabriele Cirilli e Sveva Altieri. Attori che come lui sanno attraversare i generi e che hanno conquistato il cuore del pubblico televisivo come ha fatto Proietti, prima come conduttore (suo un Fantastico 4 nel 1983) poi come protagonista di fiction fortunatissime come Il Maresciallo Rocca, arrivata a conquistare anche 16 milioni di telespettatori, poi L'avvocato Porta sempre uscito dalla penna di Marotta e Toscan, Una pallottola nel cuore e molto altro. ''Raccontare la propria vita non e' cosa da tutti - scrisse sempre nella sua autobiografia - Certo, chiunque può ricordare gli episodi, cercare di storicizzare, fare riflessioni su come passa il tempo e come cambiano le cose. Ma l'odore della povertà misto a quello del sugo della domenica, i richiami delle mamme ai figli discoli che non tornano per cena, l'allegria irrecuperabile del mercato, le chiacchiere sui marciapiedi come li spieghi a chi non c'era? I "faccio un goccio d'acqua" sui muri ancora freschi di calce, la partita a tressette, la vita in strada, le donne ai davanzali, le chiacchiere dei disoccupati...Tutto questo, come puoi farlo rivivere in chi legge?'', per arrivare a concluder che ''forse non è stato neppure come lo ricordi tu, perchè nel ricordo hai enfatizzato qualcosa, e qualcos'altro hai rimosso''. Ora nel bellissimo cameo del Mangiafuoco nel Pinocchio di Garrone, tornerà ancora una volta al cinema, si proprio lui che si lamentava sempre di aver fatto in fondo pochi film, con Marco Giallini e la regia di Edoardo Falcone in "Io sono Babbo Natale" annunciato, sempre che i cinema riescano a riaprire, per il 3 dicembre. E saluterà come piaceva a lui, in commedia.
IL CORDOGLIO DI EMILIANO - «Ricordo Gigi Proietti in una infinità di ruoli e battute. Ma oggi voglio riviverlo col pezzo che forse mi ha fatto ridere di più in assoluto. Un video che conosco a memoria per quante volte l’ho rivisto. Il professore che tanto ammirava, e che però lo turbava per la sua dizione dialettale, era infatti pugliese. E Gigi Proietti ha sempre conservato di noi pugliesi l’idea popolare e colta di gente senza fronzoli capace di emozionarsi leggendo una poesia, che rubava la cultura dalla scuola partendo spesso da povertà e analfabetismo": lo scrive il governatore pugliese, Michele Emiliano, ricordando Gigi Proietti con la pubblicazione di uno spezzone dell’artista romano ospite in televisione. «Ciascuno di noi - prosegue Emiliano - vive di questi ricordi, delle risate di fronte alla presa in giro di un professore che probabilmente a quel tempo sembrava blasfema, ma che adesso ci pare densa di amore per il suo docente. La scuola vive la nostra stessa vita. Con tutte le difficoltà e i limiti, e non riesce mai a liberarsi di noi. Perché esiste solo per noi. Durante le guerre, le pandemie, i doppi turni, i terremoti, le alluvioni, le gravi malattie di insegnanti e alunni, si adatta a tutto e vince. Perché anche attraverso le nuove tecnologie ci addestra alla vita». «Non vediamo l’ora - prosegue Emiliano - di tornare a scuola, a teatro, al cinema, nei laboratori artigianali, nelle sartorie, sui campi sportivi, nei musei, in tanti luoghi che hanno odori, atmosfere e fisicità che non possono essere tradotte da una videoconferenza». «La resistenza di ciascuno di noi, di fronte all’imprevisto e all’indesiderato - conclude - spesso crea la comicità e il teatro che Proietti ha saputo ben rappresentare regalandoci anche il senso della storia».
Si è spento Gigi Proietti mattatore del teatro e cinema italiano. Il Corriere del Giorno il 2 Novembre 2020. Il noto attore romano era ricoverato in gravi condizioni nel reparto di terapia intensiva di una clinica romana. La causa dovuta a problemi cardiaci, in passato aveva già sofferto di cuore, quindi non si tratta di Covid. Se ne va uno dei grandissimi del teatro italiano, icona dell’umorismo, cuore di Roma, figlio di una nazione che oggi più che mai avrebbe bisogno d’ironia. "Nelle prime ore del mattino è venuto a mancare all’affetto della sua famiglia Gigi Proietti. Ne danno l’annuncio Sagitta, Susanna e Carlotta. Nelle prossime ore daremo comunicazione delle esequie", fanno sapere i parenti. Il noto attore romano Gigi Proietti era ricoverato in gravi condizioni nel reparto di terapia intensiva di una clinica romana. La causa dovuta a problemi cardiaci, in passato aveva già sofferto di cuore, quindi non si tratta di Covid. Se ne va uno dei grandissimi del teatro italiano, icona dell’umorismo, cuore di Roma, figlio di una nazione che oggi più che mai avrebbe bisogno d’ironia. Lo stesso sorriso beffardo che il destino ha gettato come i dadi sul calendario, l’entrata e l’uscita dalla vita: Gigi Proietti si è spento il 2 novembre, il giorno del suo ottantesimo compleanno. Proietti era stato ricoverato già da diversi giorni, ma le sue condizioni si erano aggravate solo ieri. Accanto a lui, in ospedale, si sono stretti i suoi famigliari: le figlie Carlotta e Susanna e la sua compagna di sempre, Sagitta Alter. Nel 2010 Proietti era stato ricoverato all’Ospedale San Pietro di Roma, dopo aver accusato una forte tachicardia, ma in quell’occasione nel giro di pochi giorni si era poi ripreso ed era tornato a casa e a recitare. Proietti insieme a Alberto Sordi ed a una piccola galleria di altre figure storiche del cinema e del teatro – ha rappresentato il carattere italiano, il suo splendore, la sua miseria. Nato in via Giulia nel 1940, dove splende l’anima della Capitale, Proietti con la famiglia fa lo zingaro in città, vive in diversi quartieri, al Colosseo, al Tufello, all’Alberone. Dove c’è il popolo, cresce Proietti, nasce il suo talento. All’oratorio rivela il suo primo istinto da istrione, Proietti scoprirà il teatro all’Università. Dopo il liceo classico si iscrive a Giurisprudenza, sostiene un po’ di esami, ma con quella faccia e quel sorriso era un pre-destinato e dunque, racconta “non vi preoccupate, non mi sono laureato”. La carriera artistica di Proietti comincia negli anni Sessanta, la sua figura è legata al titoli che fanno parte della storia del teatro e del cinema e poi della televisione. Negli anni Settanta calca la scena accanto a Renato Rascel in un musical firmato dai maestri Garinei e Giovannini. Da allora è l’uomo macchina di successi come “Caro Petrolini”, “Cyrano”, “I sette re di Roma”. Indimenticabile la sua interpretazione di Nerone. Al cinema, nell’ippodromo di “Febbre da cavallo” e de “La Mandrakata” accende, con un altro interprete della comicita’ romana, Enrico Montesano, un altro faro sul carattere del paese, i suoi azzardi, i suoi vizi, frizzi e lazzi. Tutto sull’impronta di Steno e dei Vanzina, veri studiosi dell’antropologia di un paese mai cresciuto fino in fondo. Proietti è stato un mattatore totale, fu attore, cantante, ballerino, regista, barzellettiere, cuoco e cameriere di se stesso, one man show al servizio di un solo padrone, il suo pubblico.
La carriera. Artista geniale, istrionico, poliedrico. Gigi Poietti oggi, 2 novembre, avrebbe compiuto 80 anni, dei quali ne ha passati più di 55 passati sui palcoscenici di tutta Italia. Una vita da ‘Mandrake‘. Non solo il suo indimenticabile personaggio nel film “Febbre da cavallo“, ma prima ancora (e forse soprattutto) il mattatore in frac, panciotto rosso e cilindro del classico teatrale “A me gli occhi please“. Attore sopraffino, regista e cantante, Proietti inizia a muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo già quattordici anni quando viene scritturato come comparsa nel film "Il nostro campione", diretto nel 1955 da Vittorio Duse, per poi interpretare un altro piccolo cameo in ‘Se permettete parliamo di donne’ di Ettore Scola nel 1964. Tuttavia è nel 1966 che debutta contemporaneamente sul grande e piccolo schermo. In ogni caso il suo primo ruolo, per una curiosa coincidenza, è quello di un maresciallo dei carabinieri, lo stesso che trent’anni dopo lo porta alla grande notorietà con "Il Maresciallo Rocca". Icona del teatro e dello spettacolo italiano, Proietti in un’intervista rivela di non essere stato inizialmente interessato al mondo del teatro: “Assolutamente no! A teatro non c’ero mai stato e poi non ero figlio di attori”. Iscrittosi per caso al Centro Teatro Ateneo, studia con personaggi di spicco come Arnoldo Foà, Giulietta Masina e Giancarlo Sbragia. Da lì la scalata verso il successo teatrale che arriva per la prima volta nel 1970 quando viene chiamato a sostituire Domenico Modugno, nella parte di Ademar nella commedia musicale di Garinei e Giovannini "Alleluja brava gente". Negli anni ’70 arrivano anche i ruoli da protagonista nei film "Gli ordini sono ordini" (1970), "Meo Patacca" (1972), "Conviene far bene l’amore" (1975), "Languidi baci, perfide carezze" (1976). L’artista romano passa con incredibile disinvoltura dalla commedia, al ruolo impegnato, dal dramma erotico al film grottesco, quindi partecipa a film di Bolognini, Monicelli, Petri e Magni. Sbarca anche oltreoceano e recita in alcune pellicole dirette da registi di prestigio come Sydney Lumet, Robert Altman e Ted Kotcheff, ma la grande consacrazione cinematografica arriva nel 1976 con il cult "Febbre da cavallo" di Stefano Vanzina in arte Steno, nel quale Proietti veste i panni dello sfortunato scommettitore Bruno Fioretti, detto Mandrake. Alla radio riscontrò un notevole successo nella celeberrima trasmissione "Gran varietà", dove partecipa durante le stagioni 1973-1974 interpretando il personaggio di Avogadro il ladro (insieme con il suo complice Cicerone progetta furti che non vanno mai in porto) e in quella del 1975-1976, dove e’ un irresistibile conquistatore femminile che a parole (e con tre ipotesi) è infallibile, e alla prova dei fatti accumula continui disastri, ma non si abbatte mai, come canta inesorabile accompagnandosi alla chitarra alla fine dei suoi sketch. Personaggio tra i più azzeccati della sua carriera, lancia un tormentone di successo ("Invidiosi!") destinato a rimanere nel ricordo. Due anni dopo, nel 1978, assume insieme a Sandro Merli la direzione artistica del Teatro Brancaccio di Roma, creando un suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per i giovani attori che segnera’ l’esordio di tanti futuri volti del mondo dello spettacolo, tra cui Flavio Insinna, Giorgio Tirabassi, Enrico Brignano e Gabriele Cirilli. In quegli anni inizia anche a cimentarsi con successo nel campo del doppiaggio e nel 1976 prestò la voce in "Rocky" all’esordiente Sylvester Stallone. Il successo riscosso negli anni al cinema, in teatro e in tv raggiunge l’apoteosi nel 1996 con la serie televisiva "Il maresciallo Rocca". La serie conquista subito i favori del pubblico fino a superare agevolmente i dieci milioni di telespettatori a sera; l’ultima puntata del 12 marzo 1996 registra il record di quasi 16 milioni di spettatori permettendogli di vincere il Premio tv come personaggio maschile dell’anno. Nel 2002 il ritorno al cinema con il sequel "Febbre da cavallo – La mandrakata", diretto da Carlo Vanzina figlio di Steno.
Il ricordo di Proietti. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con una dichiarazione ha voluto rendere omaggio a Gigi Proietti . “E’ con grande dolore che ho appreso la notizia della scomparsa, nel giorno dell’ottantesimo compleanno, di Gigi Proietti. Attore poliedrico e versatile, regista, organizzatore, doppiatore, maestro di generazioni di attori, erede naturale di Ettore Petrolini, era l’espressione genuina dello spirito romanesco”. “Alla grande cultura, alla capacità espressiva eccezionale, frutto di un intenso lavoro su sè stesso, univa una simpatia travolgente e una bonomìa naturale, che ne avevano fatto il beniamino del pubblico di ogni età. Desidero ricordarlo – prosegue il Presidente – anche come intellettuale lucido e appassionato, sempre attento e sensibile alle istanze delle fasce più deboli e al rinnovamento della società”. “Alla signora Sagitta, alle figlie Susanna e Carlotta, ai suoi collaboratori e ai tanti suoi allievi desidero far giungere il mio più profondo cordoglio, a nome della Repubblica, e sentimenti di vicinanza personale” ha concluso il Capo dello Stato. I Carabinieri hanno reso omaggio sui social Gigi Proietti: “Hai saputo farci sorridere con tanti personaggi e mille sguardi, espressioni, battute, barzellette. Noi vogliamo continuare a ricordarti così, col volto del Maresciallo Rocca, che hai interpretato con umanità, passione e la giusta dose di ironia“. La Polizia di Stato ha così voluto ricordare Gigi Proietti: “A lei che ha insegnato a milioni di persone l’arte del cinema, della televisione e del teatro, dell’allegria e della vita, il nostro profondo grazie. La #PoliziadiStato non dimenticherà mai la sua straordinaria umanità di uomo che quando il Paese ha chiamato, ha risposto con la sua indimenticabile voce, con il suo orgoglio di anziano responsabile e coraggioso. Ha lanciato un appello che ha dato sollievo a tanti suoi coetanei che come lei sono e saranno bene prezioso dell’Italia, da custodire con tutte le forze, come il ricordo che lei ci lascia. Alla sua famiglia l’abbraccio di tutte le donne e gli uomini della Polizia di Stato“. “Un pezzo di Roma che se ne va. Grazie di tutto, Maestro”. Così in un post sull’account ufficiale la As Roma ha voluto ricordare l’attore romano Gigi Proietti, tifoso giallorosso, scomparso oggi nel giorno del suo 80esimo compleanno.
La sindaca di Roma Virginia Raggi è in contatto con la famiglia di Gigi Proietti per condividere insieme l’omaggio di Roma: tra le ipotesi, un corteo funebre in auto che partirà dal Campidoglio e toccherà diversi luoghi simbolo della vita di Proietti, come via Giulia – dove è nato l’attore -, il Globe Theatre – il teatro shakesperiano a Villa Borghese di cui era il direttore artistico. E proprio lì potrebbe esserci l’orazione funebre e il ricordo di alcuni suoi amici – per poi arrivare nella chiesa dove si svolgeranno le esequie. Il tutto è stato pensato per evitare assembramenti e avverrà nel rispetto della normativa anticovid. Intanto la famiglia fa sapere che i funerali saranno probabilmente in forma privata per evitare assembramenti e saranno celebrati giovedì 5 novembre a Roma, nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. Per quel giorno la Sindaca di Roma Capitale, Virginia Raggi proclamerà il lutto cittadino .
È morto Gigi Proietti. Gigi Proietti era stato ricoverato in terapia intensiva a causa di alcuni problemi cardiaci. Poi il decesso improvviso in una clinica romana. Andrea Riva, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. È morto a Roma Gigi Proietti. Nella sua vita fu tutto: attore di teatro, cinema e tv, cantante, doppiatore, conduttore e infine direttore artistico con l'ultima esperienza alla guida del Globe Theatre Silvano Toti di Roma. La sua vita fu interamente dedicata ai palcoscenici ed era considerato l'erede di Ettore Petrolini, grande drammaturgo romano.
La vita di Gigi Proietti. Proietti nacque a Roma il 2 novembre del 1940. Frequenta il liceo classico e poi si iscrive a Giurisprudenza, senza portare a compimento gli studi. Forse, la sua vena artistica venne fuori proprio durante gli anni universitari, come raccontò in un'intervista a ilGiornale Off: "Io con la chitarra cominciai ad esibirmi, per ridere, davanti a un gruppo di coetanei, appena iscritti come me alla facoltà di Legge. Ma dopo un po’ mi stancai di avere un uditorio così limitato e un po’ per scherzo un po’ per piacere personale cominciai a raccontare delle barzellette inframmezzate da piccoli intermezzi comici. Poi mi misi a canticchiare brani di celebri canzoni del passato nelle trattorie dove andavamo dopo aver faticato sui libri a gustarci una pausa ristoratrice". Enfant prodige, aveva debuttato a soli 14 anni come comparsa ne Il nostro campione, film di Vittorio Duse del 1955. Pochi anni dopo, nel 1964, interpreta un piccolo cameo in "Se permettete parliamo di donne" di Ettore Scola. Il 1965 è l'anno della tv, dove l'attore interpreta un maresciallo dei carabinieri. Tre anni dopo verrà chiamato da Tinto Brass, per la prima volta in qualità di attore protagonista, ne L'urlo. Il 1970 fu un anno formidabile per Proietti. Prima il matrimonio con Sagitta Alter (dalla quale avrà due figlie: Susanna e Carlotta, entrambe attrici) e poi il successo, quando viene chiamato a sostituire Domenico Modugno - impossibilitato a lavorare in seguito a un incidente - nella commedia musicale di Garinei e Giovannini "Alleluja brava gente". La sua ascesa è ormai inarrestabile. Inizia a far teatro e ha l'intuizione: per brillare davvero deve imparare a fare il solista e prendersi tutto il palcoscenico. Nel 1976 l'incontro con Roberto Lerici, lo scrittore con cui scriverà e dirigerà i suoi spettacoli più famosi, a partire da "A me gli occhi, please" fino a "Leggero leggero". Ma non c'è solo il teatro. Proietti continua a lavorare nel cinema, come protagonista in "Gli ordini sono ordini" , "Meo Patacca", "Conviene far bene l'amore", "Languidi baci, perfide carezze" e "Casotto", film del 1977 dove recita accanto a Ugo Tognazzi e una giovane Jodie Foster. Nei panni di Bruno Fioretti, detto Mandrake, in "Febbre da cavallo" di Steno, diventa un vero e proprio idolo. Uno dei tratti distintivi di Proietti fu la voce. Dai personaggi più leggeri come Gatto Silvestro fino ai grandi del cinema come Robert De Niro, Charlton Heston, Richard Burton, Marlon Brando, Sylvester Stallone e Dustin Hoffman. Nel 1996, Proietti interpreta Giovanni Rocca, vedovo con tre figli, maresciallo comandante della stazione dei Carabinieri di Viterbo, che si innamora di una farmacista, interpretata da Stefania Sandrelli. Il 9 gennaio 2019 quando conduce in diretta su Rai1 l'evento inaugurale di Matera capitale europea della cultura 2019 alla presenza del presidente del consiglio Giuseppe Conte e del Capo dello Stato Sergio Mattarella.
Il ricovero di Gigi Proietti. Da alcune settimane l'attore era ricoverato in terapia intensiva nella clinica Villa Margherita di Roma in seguito a problemi cardiaci. In un'intervista a Repubblica di qualche giorno fa, Proietti aveva confidato di aver avuto qualche problemino di salute e di stare "buonissimo" chiuso in casa. Nello stesso colloquio, quasi fosse un presentimento, Proietti aveva detto: "Il problema della fede è che se stai troppo a pensarci vuol dire che non ce l’hai. Diciamo che ho fiducia. Nel senso che se c’è qualcuno lassù, sono abbastanza sereno, non ho gravi colpe. Se quel qualcuno è giusto, dovrei cavarmela". Si è spento il giorno del suo ottantesimo compleanno.
Franco Cordelli per il "Corriere della Sera" il 29 novembre 2020. Da quando Luigi Proietti non c'è più è passato quasi un mese. Lo ammiravo. Mi piaceva. Oggi, avverto la sua assenza, non ho smesso di pensarlo: Roma, la mia città, senza più lui. Cos' è successo perché l'immagine di Proietti crescesse non solo dentro di me? Due opposte forze, a contrastare: quanto per ricordarlo scrisse Renato Palazzi. Scrisse (siamo nel 1976, Proietti aveva trentasei anni) che non andò oltre A me gli occhi please , ossia non divenne un grande attore. Si sarebbe fermato di fronte al successo. Allora mi chiedo: che cos' è un grande attore? Quando si diventa tale? Correggo e preciso la domanda, secondo ciò che desumo dall'articolo di Palazzi: si diventa tali quando si interpretano i grandi personaggi della drammaturgia di tutti i tempi? Rispondo che no, non è così. In realtà basta interpretarne uno, non necessariamente sé stesso - ma, anche fosse, sé stesso potrebbe essere più che sufficiente. Quanti grandi personaggi interpretò Salvo Randone? Non lo ricordiamo quasi solo per l'Enrico IV ? Aggiungo: prima di A me gli occhi please , Proietti non era stato interprete, diretto da Antonio Calenda, del Dio Kurt di Moravia, del Coriolano di Shakespeare e di Operetta di Gombrowicz? Non aveva accompagnato Carmelo Bene nell'avventura de La cena delle beffe , quando Carmelo tornò al teatro dopo la parentesi cinematografica? Concludo: quasi quattro spettacoli non sono più che bastevoli per stabilirne da sé soli impegno e grandezza d'un tipo non solo popolare, votato al successo? Di una quantità di scrittori ammiriamo le opere prime o seconde, e ci bastano per considerarli grandi. Poi, o si ripetono o cambiano strada e, appunto, gli succede di scrivere testi più accessibili al grande pubblico e tuttavia noi continuiamo a considerarli per ciò che erano stati al principio della loro avventura. Vorrei tuttavia osservare, senza ricorrere al suo cinema (Altman, Lumet) o agli altri titoli di svariata natura, che a Proietti non accadde una simile sorte. La sera dopo la sua morte, il 2 novembre scorso, ho visto in televisione Preferisco il Paradiso , una fiction per celebrare i suoi settant' anni (Proietti era nato il 2 novembre 1940). Vi interpretava Filippo Neri, come Filippo Neri diventò santo. Certo, non era un prodotto artistico, era un prodotto concepito e realizzato per il grande pubblico. Pure, più d'una volta mi sono commosso, non m' imbarazza dirlo, e sempre per la qualità suprema dell'interpretazione di Gigi. Per essere ciò che Proietti era non è necessario diventare Riccardo III o Cyrano de Bergerac , che pure interpretò. Ho parlato di due opposte forze. C'è quella positiva. Sui muri di Roma sono fiorite immagini del Cavaliere nero. Sorridente, sempre: dal Tufello (sopra) al Trullo, alla porta del Brancaccio, il teatro che a lungo diresse. Quando morirono Gassman o Sordi, una cosa simile sarebbe potuta accadere e non è accaduta. Ma i tempi sono cambiati. In quei murales si avverte ciò che ho chiamato una forza. Se la parola scritta lo è, oggi di più lo è l'immagine. Le immagini, spontanee, vengono alla luce. A crearle non sono artisti, è vero. È semplicemente la forza «creaturale» del popolo, di chi lo ha amato, di chi lo vuole ricordare, di chi sente la mancanza di un uomo che né a Riccardo III né a Enrico IV ha dato voce, ma a tutti. Proietti non era un attore «da palcoscenico». Come meglio ricordarlo, allora, se non con quelle meravigliose, toccanti immagini?
Articolo di Vittorio Feltri per “Arbiter” pubblicato da “Libero quotidiano” il 23 dicembre 2020. Gigi Proietti una volta mi disse: «Se parlo con uno di destra, mi sento di sinistra, se parlo con uno di sinistra divento subito di destra». La prevalenza del cretino, in ogni schieramento politico, produce, nelle persone brillanti, effetti simili a quelli descritti magnificamente dall' attore romano. Ecco, preciso subito: voglio parlarvi di Proietti, non di partiti. Proietti è morto con uno sberleffo, lo scorso due novembre. È morto nel giorno dei morti, che per inciso era anche il suo compleanno, a 80 anni spaccati. Una uscita di scena così perfetta da sembrare sceneggiata da Proietti in persona. A Roma, e Gigi era un simbolo della romanità, la tragedia è teatrale, a volte sconfina nella commedia. Lo scetticismo sarcastico dell' Urbe non risparmia nemmeno la nera mietitrice. Anzi, la invoca spesso e volentieri: li mortacci...Sul palco, Proietti era un mago. Non aveva bisogno di testi, era sufficiente un canovaccio. Fu il primo in Italia ad affrontare la platea in completa solitudine. Una volta giù dal palco, quel vulcanico istrione diventava umile e disponibile. A me gli occhi, please, clamoroso successo del 1976, era uno spettacolo complicatamente semplice: un uomo, Proietti, e un baule dal quale estrarre qualche oggetto di scena. Stop. Nessun testo. Andava a braccio. Da una parte il pubblico oceanico, confermato da una serata senza precedenti allo stadio Olimpico di Roma nel 2000; dall' altra il disincanto con cui la madre lo invitava «a non montarsi la testa» per gli applausi, che arrivavano pubblicamente anche da registi (Federico Fellini), colleghi (Edoardo De Filippo) e presidenti della Repubblica (Sandro Pertini). Una volta Proietti, ormai una star, chiese alla mamma: «Ti sono piaciuto?». E lei, laconica: «Abbastanza». Del resto, quando andò a trovare il suo vecchio parroco, certo di fare il pieno di complimenti e abbracci, fu accolto con uno scapaccione da don Parisio, che aggiunse «Ah brutto puzzone, solo adesso te rifai vivo?!». Altro che salamelecchi. Nei coccodrilli giornalistici, all' indomani della morte di Gigi, ho letto una cosa che mi ha colpito: a uno così, negli Stati Uniti avrebbero regalato le chiavi della Radio City Music Hall, che è un po' come dire le chiavi dell' Academy di Hollywood. Verissimo. Invece in Italia, perse la direzione del teatro Brancaccio, lo stesso che oggi gli vogliono intitolare. Non fece polemiche, si buttò a capofitto in una impresa unica, la fondazione a Villa Borghese del Globe Theatre, su modello di quello londinese che, secoli fa, vide andare in scena William Shakespeare in persona. Fu un altro, sorprendente punto a suo favore. E un altro regalo alla sua città, che lo amava alla follia, come forse il solo Alberto Sordi prima di lui. Non a caso, l' orazione funebre di Sordi fu affidata a Proietti. Che sfoderò un sonetto alla Belli, in romanesco, facendo commuovere mezza Italia, e anche un più di mezza. IN TELEVISIONE Le sue prestazioni televisive non le discuto. Mi limito a osservare un dettaglio (grandissimo, però). Proietti aveva cominciato come interprete "alternativo", doverosamente "con la puzza sotto il naso". Lo raccontava lui stesso, divertito: «Recitavo Sofocle, Brecht, Beckett, Moravia. Quando Garinei e Giovannini mi chiesero di sostituire Domenico Modugno in Alleluja brava gente temevo di vendermi». Pensa troppa cultura che danni può fare...Per fortuna Proietti non ascoltò la voce dell' intellettualoide, e prese la parte. Però cadde in depressione: «Anziché montarmi la testa, quel successo me la smontò. Non riuscivo a reggerne il peso. Mi chiusi in casa e mi ficcai a letto». Si abituerà. E ora vengo al punto. La carriera di Proietti, l' abbiamo visto, va da Sofocle al Maresciallo Rocca, dal Globe a Raiuno. L' attore "alternativo", un po' alla volta, verrà considerato uno di casa dall' intera nazione, il tutto senza perdere un grammo di credibilità artistica. Puoi essere pop o colto. Ma quello che conta è il talento, e Proietti ne aveva da vendere, qualunque cosa facesse. Vale la pena di ricordare che il Maresciallo Rocca è stata l' unica fiction, insieme al Commissario Montalbano, capace di rivaleggiare, in termini di ascolti, con alcune serate del Festival di Sanremo. Più popolare di così, è impossibile. Che differenza con le sedicenti stelle da filmetto impegnato, da pellicola col timbro ministeriale, da teatro "ribelle" rigorosamente finanziato dallo Stato, da comicità intruppata, da sceneggiatura a tesi. Il cinema italiano non l' ha mai valorizzato, al di là di qualche ruolo di culto. Eppure, l' anno scorso, l' ho visto giganteggiare nei panni di Mangiafuoco nel Pinocchio di Matteo Garrone. Una parte di pochi minuti in cui Proietti, perfetto, cancellava il resto del cast, pur eccellente. Cosa aveva, Gigi, che non andava bene per il cinema italiano? Il suo perfezionismo, inviso ai registi e soprattutto ai produttori, dicono in molti. La sua libertà, invisa a un mondo, quello cinematografico, che spesso si muove in gregge, e questo lo dico io.
Eccelleva in ogni ambito artistico eppure non si montò mai la testa. E tutto il Paese lo adorava. Paolo Scotti, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale. Ai suoi allievi si divertiva a spiegare come si fa una «carrettella». Come cioè, in gergo teatrale, si fa scattare l'applauso per l'attore che esce di scena. Che «carrettella» inattesa e dolorosa, ha fatto stavolta Gigi Proietti: l'applauso che proprio ieri avrebbe festeggiato i suoi ottant'anni ha accompagnato, invece, l'ultima uscita di scena dell'ultimo dei mattatori. Chissà: forse anche questo beffardo coup de theatre s'intona allo stile straripante ma anche pudico - che è stata la sua vera grandezza di artista. E di uomo. Una volta giù dal palco, infatti, quell'egocentrico vulcanico diventava umile, generoso, disponibile. Che paradosso: da una parte il travolgente successo del suo spettacolo-bandiera, quell'A me gli occhi, please esploso nel 1976 e giunto alle oceaniche ovazioni dello stadio Olimpico di Roma nel 2000; dall'altra il disincanto tutto romanesco con cui la madre l'ammoniva «a non montarsi la testa» per quel trionfo: in mezzo ai giubilanti entusiasmi di Fellini, Pertini o De Filippo, all'orgogliosa domanda del figlio «Ti sono piaciuto, ma'?» - lei replicava, laconica e salutare, «Abbastanza». Eppure, di motivi per montarsi la testa, l'inarrestabile Gigi, ne avrebbe avuti. Uno che sapeva far tutto; e tutto ai massimi livelli. Prima cantante nei night club, «dove si serviva champagne fatto col vino e l'idrolitina». Poi doppiatore oscuro, ma già incredibilmente poliedrico. Quindi giovane attore underground «doverosamente con la puzza sotto al naso. Recitavo Sofocle, Brecht, Beckett, Moravia; e quando Garinei e Giovannini mi chiesero di sostituire Modugno in Alleluja brava gente temevo di vendermi». Eppure lui, che suscitava entusiasmi fuori misura, il senso delle proporzioni non lo perse mai. «Anziché montarmi la testa, quel successo me la smontò. Non riuscivo a reggerne il peso: mi chiusi in casa, mi ficcai a letto». Un pudore della popolarità raro, che l'ha sempre protetto dal narcisismo autoreferenziale della maggior parte dei colleghi. Se lo definivano l'erede di Petrolini, lui scantonava. Ma una volta esploso, nulla l'ha più fermato. E poi, su tutto, c'è il teatro. Perché Proietti è stato soprattutto questo: l'inventore in Italia dell'one man show. Mai nessuno prima di lui - neppure l'amico Vittorio Gassman - si era esibito in totale solitudine, senza scene né costumi, né copione. Insomma: ad uno così in America avrebbero dato le chiavi del Radio City Music Hall. In Italia, sciaguratamente, gli hanno fatto chiudere il Laboratorio (dove formò Elio Germano, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Chiara Noschese) e poi tolto la direzione del teatro Brancaccio (che ora chiedono gli sia intitolato). Anche qui, però, ecco l'eleganza della reazione: invece di polemizzare lanciò il Globe Theatre. Perché del romano vero Proietti aveva il cinismo, ma di pasta più morbida; la dissacrazione beffarda, ma senza l'aggressività. E di certo non fu mai volgare: il suo «Nun me rompe er ca'» non scandalizza nessuno. Anche per questo i romani (e non solo) lo adoravano. «Quando tornai dov'ero nato, per godermi la mia fama, invece dei complimenti il parroco don Parisio mi appioppò uno scapaccione: Ah brutto puzzone esclamò - solo adesso te rifai vivo?!».
Gigi Proietti, il radiologo che lo aveva in cura: "Quelle battute, poco prima di morire". Libero Quotidiano il 02 novembre 2020. Addio a un mito, Gigi Proietti è morto nel giorno dei suoi 80 anni. Un artista eclettico, amato, fuori da qualsiasi schema. Col sorriso. Fino all'ultimo giorno. Come ha spiegato anche Fabrizio Lucherini, il radiologo che lo ha seguito nella clinica di Roma in cui ha perso la vita. Intervistato dalla AdnKronos, ha spiegato che Proietti ha fatto ironia sulle sue condizioni di salute fino all'ultimo: "Come vado? Je la faccio?, chiedeva. Non l’ho mai percepito ansioso e preoccupato. Era lui, è sempre stato lui", ha spiegato Lucherini, che ha confermato che l'artista era "cardiopatico grave" ormai da anni. L'ultimo ricovero era iniziato il 17 ottobre, quando arrivò in ospedale in condizioni preoccupanti. Lucherini spiega che non si è trattato del primo ricovero: "Anche diversi anni fa per motivi analoghi aveva avuto un ricovero, ma questa volta era diverso". Avendo problemi di cuore, ha aggiunto il medico, Proietti era soggetto a "uno scompenso su tutto il resto". La sua salute, alla fine, è precipitata: "Gli ho fatto la tac che era ancora lucido, ma c’erano davvero troppe complicanze", ha rivelato. Poi un ricordo personale, toccante: "Di lui conservo ancora un ricordo di qualche anno fa quando con la squadra di calcetto avevamo vinto una coppa e andammo a festeggiare nel suo ristorante preferito. Lui era lì con delle persone, lo abbiamo chiamato al tavolo per un brindisi ed è rimasto con noi al tavolo - ricorda il medico -. Uno di noi, divertente, umile. Abbiamo perso forse il più grande attore di tutti i tempi, io una folla come quella di questa mattina qui in clinica non l’ho mai vista per nessuno", ha concluso Lucherini.
Gigi Proietti, l'indiscrezione di Dagospia: "Un anno fa l'operazione all'aorta di routine non riuscita, ecco perché non ce l'ha fatta". Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. Una nuova ipotesi sulla morte di Gigi Proietti. L'attore, spiega Dagospia, era stato operato un anno e mezzo fa all'aorta. Intervento un tempo molto complicato, ma che ormai è diventato quasi di routine. Resta però un fattore di rischio, e non tutte le operazioni riescono. "La sua purtroppo non è riuscita", scrive il sito, "è stato operato per la seconda volta. E non ce l'ha fatta". Fabrizio Lucherini, medico radiologo della clinica dove è stato ricoverato Proietti, spiega: "Quando gli ho fatto la tac, pochi giorni fa, ironizzava sulle sue condizioni: 'Come vado? Je la faccio?', chiedeva. Non l'ho mai percepito ansioso e preoccupato. Era lui, è sempre stato lui. Da anni era un cardiopatico grave ed è venuto qui il 17 ottobre scorso già in condizioni preoccupanti. Anche diversi anni fa per motivi analoghi, aveva avuto un ricovero, ma questa volta era diverso", scrive invece il Messaggero. "Il problema di un cuore che non funziona bene crea uno scompenso su tutto il resto, dando il via a patologie multiorgano. Negli ultimi giorni si è aggravato moltissimo. Gli ho fatto la tac che era ancora lucido, ma c'erano davvero troppe complicanze", ha continuato il professore, che poi si abbandona ad un omaggio: "Abbiamo perso forse il più grande attore di tutti i tempi, io una folla come quella di questa mattina qui in clinica non l'ho mai vista per nessuno", conclude. E, forse, dietro la tragica scomparsa di Proietti, c'è quell'intervento di un anno fa, in cui non tutto andò come previsto.
DAGONOTA il 3 novembre 2020. Gigi Proietti un anno e mezzo fa è stato operato all'aorta. Un'operazione un tempo molto complicata ma che ormai è diventata quasi di routine. Resta però un fattore di rischio, e non tutte le operazioni riescono. La sua purtroppo non è riuscita. È stato operato per la seconda volta. E non ce l'ha fatta.
Da ilmessaggero.it il 3 novembre 2020. Gigi Proietti è morto a 80 anni lasciando un vuoto immenso accanto a sé. Nonostante fosse ricoverato da giorni, nella clinica romana di Villa Margherita non aveva perso lo humour che lo ha sempre contraddistinto. Fabrizio Lucherini è medico radiologo della clinica: «Quando gli ho fatto la tac, pochi giorni fa, ironizzava sulle sue condizioni: "Come vado? Je la faccio?", chiedeva. Non l'ho mai percepito ansioso e preoccupato. Era lui, è sempre stato lui». È il racconto fatto all'Adnkronos. «Da anni era un cardiopatico grave ed è venuto qui il 17 ottobre scorso già in condizioni preoccupanti. Anche diversi anni fa - continua - per motivi analoghi, aveva avuto un ricovero, ma questa volta era diverso». «Il problema di un cuore che non funziona bene crea uno scompenso su tutto il resto, dando il via a patologie multiorgano. Negli ultimi giorni - prosegue - si è aggravato moltissimo. Gli ho fatto la tac che era ancora lucido, ma c'erano davvero troppe complicanze». «Di lui conservo ancora un ricordo di qualche anno fa - aggiunge il medico - quando con la squadra di calcetto avevamo vinto una coppa e andammo a festeggiare nel suo ristorante preferito. Lui era lì con delle persone, lo abbiamo chiamato al tavolo per un brindisi ed è rimasto con noi al tavolo. Uno di noi, divertente, umile. Abbiamo perso forse il più grande attore di tutti i tempi, io una folla come quella di questa mattina qui in clinica non l'ho mai vista per nessuno».
Masolino D’Amico per “la Stampa” il 3 novembre 2020. Gigi Proietti chiude la terna dei più grandi attori romani tra il 1920 e il 2020: tutti e tre così grandi da uscire dagli schemi consueti per recitare soprattutto se stessi, ovvero i personaggi che si erano inventati. Agirono in contesti diversi, Ettore Petrolini, Alberto Sordi e Gigi, ma ebbero in comune parecchi tratti, a partire dall’ironia tipicamente capitolina, un po’ cinica e a volte addirittura feroce. Per esempio, nessuno dei tre fu figlio d’arte, ma sbocciò irresistibilmente, provvisto di enormi doti istrioniche e della tenacia necessaria per migliorarle continuamente. Nessuno dei tre fu fisicamente notevole, né bello né brutto né buffo (be’, Proietti era alto. Ma per lungo tempo, anche dopo i trionfi teatrali, non fu preso in considerazione dal cinema che per qualche caratterizzazione). Tutti e tre, infine, sabotarono le tendenze ufficiali del loro tempo. Il surrealismo di Petrolini sbeffeggiava la retorica dannunziano-fascista. Gli eroi blandamente abbietti di Sordi mostravano i compromessi ai quali erano pronti gli italiani medi dell’età del benessere. Per Proietti il discorso è più sfumato. Cominciò in un teatro di nicchia, dove si fece rapidamente una reputazione tra iniziati. Io lo scoprii nel ‘65, quando Vittorio Gassman insistette perché Mario Monicelli andasse a vedere questo giovane fenomeno. Ci recammo in cinque, Mario, mia madre, Age e Scarpelli, in una saletta precaria del quartiere Prati, dove davano la commedia di uno sconosciuto Corrado Augias, intitolata Direzione memorie. In platea c’erano solo cinque spettatori - noialtri, appunto. In quegli anni la formazione chiamata Gruppo Sperimentale 101 e diretta dal suo (e mio) coetaneo Antonio Calenda, che a un certo punto si stabilì all’Aquila, propose una nutrita e coraggiosa serie di lavori inconsueti di Picasso, Apollinaire, Rojas, Brecht, Frassineti, Moravia, Gombrowicz. Non dunque proprio i classici tradizionali con cui si era fatto le ossa il leader della generazione precedente, ovvero il surricordato Gassman; ma quanto bastava perché i competenti si accorgessero del nuovo prorompente talento. Gigi possedeva tutto, voce, orecchio (cantava mirabilmente, e come cantante di night aveva iniziato), presenza, energia, magnetismo, velocità, capacità di stabilire un contatto con lo spettatore; e tempi comici innati. Lo adocchiarono Garinei e Giovannini, e lo fecero debuttare al Sistina in un musical, Alleluia brava gente, al posto di Domenico Modugno, che aveva litigato con l’autore e interprete Renato Rascel. Era il 1970, fu il successo sui grandi palcoscenici. Di lì Gigi non tornò più indietro. Seguì, altro spettacolone, La cena delle beffe con Carmelo Bene. Negli Anni Settanta Gigi Proietti diventò una star del teatro, addirittura troppo grande per i testi del repertorio, ma sufficiente a riempire la scena da solo. Un primo one man show, A me gli occhi please (1976), messo insieme con Roberto Lerici, cominciò riempiendo le sale e continuò con centinaia di esauriti nei tendoni da circo che allora andavano di moda. Lì dominava la versatilità del performer in una capricciosa sequenza di pezzi brevi, con continui cambi di registro: esibizione di virtuosismo travolgente, anche per la vitalità, l’allegria dell’interprete. Da allora in teatro Proietti fu sostanzialmente condannato a ripetere questo show, che cambiò aggiornandolo parecchie volte ma del quale il pubblico non fu mai sazio; l’ultima versione è del 2015. Sì, nel frattempo apparve anche in qualche pièce più convenzionale, e rivisitò il suo antecedente Petrolini. Ma benché avesse il merito (è la sua funzione controcorrente cui si accennava sopra) di tenere alta la fiaccola dello spettacolo dal vivo, ebbe qualche rimorso per aver essere uscito dal canone. Ed espiò con caratteristica generosità, rimettendo in piedi e gestendo un’enorme sala pubblica defunta, il Brancaccio di Roma, fondando e animando scuole di recitazione, e gettandosi nella folle ma alla lunga largamente positiva avventura del teatro Globe, struttura elisabettiana a cielo aperto in piena Villa Borghese diventata ormai appuntamento fisso di giovani e luogo privilegiato per le opere del Bardo. Sempre per omaggiare Shakespeare, che amava e che sentiva di avere trascurato, ne diede una affascinante lettura tramite campioni in Edmund Kean (1989), lavoro dedicato al celebre mattatore inglese. Al cinema frattanto era approdato in parti di contorno, anche di rilievo (L’eredità Ferramonti di Bolognini), ma sfondò solo con Febbre di cavallo di Steno (1976), destinato a diventare mitico. Gassman, che l’aveva avuto accanto in Brancaleone alle crociate, se lo portò dietro a Hollywood per Un matrimonio di Robert Altman (1978), e Matteo Garrone lo mise in Pinocchio ancora l’anno scorso. Comunque, in Italia la vera indiscussa fama e popolarità arriva solo con la televisione. Questa finalmente - dopo vari assaggi - si accorse di Gigi Proietti a partire dalla serie del Maresciallo Rocca (1996-2006); un’altra, intitolata Una pallottola nel cuore, iniziata nel 2004, è ancora in corso. Ma non è ora il caso di fare l’inventario di una carriera vastissima, di cui fanno parte regie teatrali e liriche, doppiaggi, partecipazioni a tante imprese. Questo è il momento del rimpianto. Chi volesse rendergli un tributo in carattere, però, recuperi l’episodio Elogio funebre diretto anonimamente da Ettore Scola, nel film I nuovi mostri (1977). Sono sicuro che a Gigi essere commemorato così non dispiacerebbe.
Affabulatore e trasformista: addio a Gigi Proietti. Il Dubbio il 2 novembre 2020. Voce di Roma e attore dai mille volti, Proietti è morto nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Mattatore, trasformista, affabulatore. Tutto questo e molto di più era Gigi Proietti che nella sua sterminata carriera è stato attore di teatro, cinema e tv, cantante, doppiatore, conduttore e infine direttore artistico con l’ultima esperienza alla guida del Globe Theatre Silvano Toti di Roma. Ben 55 anni dei suoi 80 appena compiuti passati tra palcoscenici, set cinematografici e studi televisivi, Gigi Proietti , al secolo Luigi Proietti , era considerato da molti critici l’erede di Ettore Petrolini. Nato a Roma il 2 novembre del 1940, dopo la maturità classica si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università "La Sapienza" per interrompere gli studi a soli sei esami dalla laurea. Proietti aveva già esordito, a soli 14 anni, come comparsa nel film di Vittorio Duse del ’55 "Il nostro campione". Poi interpreta un altro piccolo cameo diretto da Ettore Scola nel ’64 in "Se permettete parliamo di donne". Nel ’66 debutta sul grande e sul piccolo schermo nel ruolo di un maresciallo dei carabinieri, per ironia della sorte trent’anni dopo interpreterà lo stesso personaggio con straordinario successo nella serie tv "Il maresciallo Rocca". Il primo ruolo da protagonista al cinema glielo darà Tinto Brass nel ’68 nel suo film "L’urlo". Il primo vero successo per Proietti arriva però nel 1970 quando viene improvvisamente chiamato a sostituire Domenico Modugno, che aveva avuto un incidente, nella parte di Ademar nella commedia musicale di Garinei e Giovannini "Alleluja brava gente". Nel 1967 sposa un’ex guida turistica svedese, Sagitta Alter, dalla quale ha due figlie: Susanna e Carlotta, anche loro attrici. Gli anni ’70 sono fondamentali per la carriera di Proietti che, pur non avendo mai pensato al teatro e dopo essersi iscritto per caso al Centro Teatro Ateneo e avere studiato con personaggi del calibro di Arnoldo Foà, Giulietta Masina e Giancarlo Sbragia, inizia i suoi famosi "One man show". Proietti intuisce che deve affrontare il palcoscenico da solista per non restare ingabbiato nei ruoli da comprimario. Nel ’76 incontra lo scrittore Roberto Lerici con il quale scrive e dirige i suoi spettacoli più celebri, da "A me gli occhi, please" a "Come mi piace" e "Leggero leggero". Gli anni ’70 sono fondamentali anche per la carriera di Proietti sul grande schermo: recita da protagonista in pellicole come "Gli ordini sono ordini", "Meo Patacca", "Conviene far bene l’amore", "Languidi baci, perfide carezze" e "Casotto", film del 1977 dove recita accanto a Ugo Tognazzi e una giovane Jodie Foster. In quegli anni è diretto anche da registi internazionali come Sidney Lumet, Robert Altman, Ted Kotcheff e Bertrand Tavernier. Il ruolo che però lo rende davvero "pop" è quello di Bruno Fioretti detto Mandrake in "Febbre da cavallo" di Steno, pellicola diventata ormai un vero "cult". Cinema, teatro ma anche radio dove Proietti ottiene un grande successo partecipando per due stagioni (1973-74 e 1975-76) alla trasmissione ‘Gran Varietà’ dove interpreta prima Avogadro il ladro e poi un irresistibile tombeur de femme a parole. Nel 1978 dà vita al suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per giovani attori dopo avere assunto la direzione artistica del Teatro Brancaccio di Roma. Tra i suoi allievi ci sono nomi ormai diventati celebri nel mondo dello spettacolo, tra i quali Flavio Insinna, Massimo Wertmüller, Rodolfo Laganà, Chiara Noschese, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Francesca Reggiani e Gabriele Cirilli. Oltre al teatro, al cinema e alla tv Proietti si cimenta con successo anche nel doppiaggio dando voce a Gatto Silvestro già nel 1964 e a diversi divi del grande schermo, da Robert De Niro a Charlton Heston, Richard Burton, Marlon Brando, Sylvester Stallone e Dustin Hoffman. Doppia anche i due draghi siamesi Devon e Cornelius nel film d’animazione "La spada magica – Alla ricerca di Camelot", dove usa due toni di voce diversi. In tv è anche conduttore televisivo in Fantastico 4 del 1983 diretto da Enzo Trapani, ma anche regista televisivo nel 1990 della celebre sitcom "Villa Arzilla", dove appare anche in brevi cameo nei panni del giardiniere. Dopo vari telefilm il successo arriva nel 1996 con la serie "Il maresciallo Rocca" diretto da Giorgio Capitani, nella quale Proietti interpreta il ruolo di Giovanni Rocca, vedovo con tre figli, maresciallo comandante della stazione dei Carabinieri di Viterbo, che si innamora di una farmacista, interpretata da Stefania Sandrelli. Nel 2002 torna al cinema nel ruolo di Mandrake in un sequel di "Febbre da cavallo" dal titolo "Febbre da cavallo – La mandrakata", diretto dal figlio di Steno, Carlo Vanzina. Un “ritorno sul luogo del delitto”, come lo ha definito lo stesso Proietti , che però gli frutta un Nastro d’argento come miglior attore protagonista. Infinite sono le partecipazioni televisive dell’attore romano che nel frattempo, nel 2003, diventa direttore artistico del teatro scespiriano Silvano Toti Globe Theatre, nato a Villa Borghese a Roma da una sua idea. Tra le ultime apparizioni televisive e cinematografiche ci sono quelle del 19 gennaio 2019 quando conduce in diretta su Rai1 l’evento inaugurale di Matera capitale europea della cultura 2019 alla presenza del presidente del consiglio Giuseppe Conte e del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Il 12 marzo dello stesso anno compare nella prima puntata di "Meraviglie – La penisola dei tesori" condotto da Alberto Angela e a dicembre è al cinema con "Pinocchio", il film di Matteo Garrone in cui interpreta Mangiafuoco. Da vero artista poliedrico, Proietti si cimenta anche nella scrittura e nel 2013 esordisce con un’autobiografia intitolata "Tutto sommato qualcosa mi ricordo. Tra ricordi e aneddoti", pubblicata da Rizzoli. Alla fine del 2015 pubblica, ancora con Rizzoli, un nuovo libro dal titolo "Decamerino. Novelle dietro le quinte": una raccolta di racconti, aneddoti e componimenti in versi de-camerino, ossia nati nel camerino, nel dietro le quinte del teatro.
Morte Gigi Proietti, la vita privata: la moglie Sagitta Alter, le figlie Susanna e Carlotta. Fanpage il 2/11/2020. Gigi Proietti è morto nella notte del 2 novembre, nel giorno del suo ottantesimo compleanno. A darne l'annuncio, la sua famiglia. Sua moglie Sagitta Alter e le sue due figlie, Susanna e Carlotta. Da quindici giorni, l'attore era ricoverato in condizioni gravissime in seguito a problemi cardiaci. La sua vita privata è sempre stata molto riservata.
Il matrimonio con Sagitta Alter. È stato sposato per tutta la vita con Sagitta Alter, una ex guida turistica svedese conosciuta negli anni '60. Gigi Proietti e Sagitta Alter si sono sposati nel 1967. Dal loro matrimonio, sono nate due figlie: Susanna e Carlotta Proietti, anche loro impegnate nel mondo dello spettacolo. Sagitta Alter è stata al fianco di Gigi Proietti per oltre cinquant'anni: "Lei è la mia roccia", disse l'attore in una intervista. Era il 1962 quando si conobbero, nei giorni in cui Gigi Proietti era un giovane attore che si esibiva nei night e nei locali della Capitale romana.
Le figlie Susanna e Carlotta Proietti. Le figlie di Gigi Proietti sono Susanna e Carlotta, rispettivamente 42 e 37 anni. Entrambe lavorano nel mondo dello spettacolo. Susanna Carlotta, dietro le quinte mentre Carlotta è cantante e cantautrice. Descritta come la più timida, Susanna in una intervista al Corriere della Sera ha ammesso: "Non è sempre stato facile accettare il ruolo pubblico di mio padre. Ricordo una vacanza a Parigi, dove credevamo che nessuno avrebbe fatto caso a noi. E invece un gruppo di turisti lo riconobbe e ci raggiunse, senza la delicatezza di pensare che per noi era un momento privato”. E ancora: "I miei primi ricordi sono tutti uguali. Io, mia madre e mia sorella sedute in prima fila, e a fine spettacolo una coda di persone adoranti che volevano stringergli la mano. Mi dava fastidio, a più di uno avrei dato un morso". Susanna Proietti è una scenografa e una costumista. Carlotta sta sul palcoscenico: attrice cresciuta sul palco insieme a suo padre, ha studiato al DAMS e ha successivamente frequentato l'accademia di suo padre. Ha condiviso "Una pallottola nel cuore 2" con suo padre.
Renato Franco per "corriere.it" il 3 novembre 2020. Migliaia di serate passate fuori casa. In teatri belli e meno belli, importanti o di provincia, barocchi o essenziali, comunque sia sempre pieni. Ma poi Gigi Proietti, scomparso nel giorno del suo compleanno, tornava sempre da lei, l’ex guida turistica svedese Sagitta Alter. Si erano conosciuti nel 1962, lui aveva 22 anni e iniziava a fare i primi passi nel teatro, lei quell’estate decise di non far tornare i propri passi in Svezia. Da allora sono rimasti sempre insieme, mai un crisi che in un mondo di incontri, tentazioni, seduzioni come quello dello spettacolo è un piccolo record. Sempre insieme, ma Sagitta Alter fu una «moglie» speciale: mai sposata. La domanda per lui era ricorrente: «È una domanda che mi fanno proprio tutti. La verità è che io e Sagitta non ci pensiamo più — aveva raccontato qualche tempo fa —. Non ci tenevamo particolarmente al matrimonio quando eravamo giovani, ma non lo escludiamo. Chissà, magari un giorno ci guarderemo e ci verrà voglia di compiere anche questo passo, anche se il traguardo più bello, quello di costruire una famiglia unita, siamo già riusciti a realizzarlo».
La pigrizia di Gigi. La famiglia, ovvero le due figlie, Susanna e Carlotta (42 e 37 anni) che lavorano entrambe nel mondo dello spettacolo: la prima come costumista e scenografa, la seconda come cantautrice e attrice. «I miei primi ricordi sono tutti uguali — aveva raccontato Susanna: io, mia madre e mia sorella sedute in prima fila, e a fine spettacolo una coda di persone adoranti che volevano stringergli la mano. Mi dava fastidio, a più di uno avrei dato un morso. Faceva strano perché dentro casa eravamo una famiglia davvero normale, ma quando uscivamo eravamo circondati da scocciatori, dal mio punto di vista, che volevano l’autografo». Carlotta aveva invece fatto intendere quale era il clima in casa, Sagitta doveva lottare contro l’artistica pigrizia del padre: «Un giorno mamma era davanti alla porta, scura in volto. “Ha telefonato la scuola, so che ti hanno scoperta mentre fumavi. E adesso a papà glielo dici tu”. Andai da mio padre. Bussai alla porta del suo studio. “Devo confessarti una cosa, papà”. Lui stava sfogliando il giornale. Alzò lo sguardo. ‘Dimmi, amore di papà, che c’è?”. “Ecco, vedi… Stamattina a scuola mi hanno scoperta a fumare una sigaretta”. Sorpreso mi domandò: "E perché, non si può fumare a scuola?"».
Gigi Proietti, il ricordo della figlia Carlotta: "Ho pensato tanto a questo momento, ne sono stata terrorizzata". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 03 novembre 2020. Adesso parla Carlotta, figlia del grande Gigi Proietti (morto ieri all’improvviso, tutta l’Italia lo piange). Professione cantautrice e attrice, la 37enne rompe il silenzio ringraziando tutti. Uno per uno con un mega abbraccio virtuale. “Ho pensato tanto a questo momento, l’ho sognato, ne sono stata terrorizzata”, scrive Carlotta su Instagram. “Un papà famoso vuol dire tante cose, tra queste non avere un’intimità perché quando esce la “notizia” si scatena lo “scoop”… tutte parole che col momento che vivi non c’entrano niente”. Poi la figlia del grande Gigi, amatissimo dal pubblico, continua dicendo: “Malgrado questo però, le vostre parole e tutti i messaggi che ci stanno arrivando corrispondono all’amore che tutti provavate per papà. Voglio dire grazie con tutto il cuore ad ognuno di voi e lo farò, piano piano. Il dolore è forte, ma sappiamo che non è solo nostro, questo lutto è di tutti. Papà ha vissuto per il suo pubblico e il vostro affetto lo dimostra. Grazie e ancora grazie per tutto questo amore”.
La carriera di Gigi Proietti, dal Tufello al successo. Dalle prime comparse ai ruoli importanti, dalle serate nei night al cinema e alla tv. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera lunedì 2 novembre 2020.
Tinto Brass e il primo ruolo da protagonista. Dopo qualche ruolo da comparsa e alcune parti in vari film con ruoli minori, nel 1968 arriva al primo ruolo da protagonista con “L’Urlo” di Tinto Brass, presentato anche al Festival di Cannes. Nel frattempo aveva già esordito in tv nello sceneggiato “I grandi camaleonti” diretto da Edmo Fenoglio.
Il successo con Garinei e Giovannini. Nel 1970 arriva anche il successo al Teatro. Proietti viene chiamato a sostituire Domenico Modugno per il ruolo di Ademar nella commedia musica “Alleluja brava gente” di Garinei e Giovannini. «Una botta di fortuna. Prendevo il posto di Domenico Modugno che aveva litigato con Renato Rascel. Lì capii che si poteva coniugare il teatro ludico con la qualità artistica» raccontò molti anni dopo in un’intervista al Corriere della Sera rilasciata alla giornalista Emilia Costantini. Ormai Proietti e lanciatissimo: per lui è un susseguirsi di ruoli al cinema, in tv e al teatro.
Gli anni Settanta e la scoperta dei One-Man Show. In teatro per Proietti sono gli anni della sperimentazione continua e della scoperta della consacrazione come solista del palcoscenico. Nel 1976 porta in scena uno spettacolo che segna una tappa miliare della sua carriera: “A me gli occhi , please”, che sarà riproposto nel 1993, nel 1996 e poi nel 2000 allo stadio Olimpico. Lo straordinario artista ha così occasione di esibirsi come attore, come cantante, come imitatore e ballerino, tenendo la scena con carisma e incantando il pubblico. Sulla stessa linea seguiranno “ Come mi piace” (1983), “Leggero leggero” (1991) e, per la televisione, “Attore amore mio” (1982) e “Io, a modo mio” (1985).
Con Jodie Foster (giovanissima) ne “Il casotto”. Anche nel cinema si susseguono ruoli da protagonista con partecipazioni a pellicole al fianco di grandi nomi. Fra i film cult da ricordare in particolare “Il casotto” (1977) di Sergio Citti, accanto a Ugo Tognazzi e a una giovanissima Jodie Foster. In questi anni emerge tutta la versatilità che gli permette di spaziare dalla commedia italiana a interpretazioni drammatiche e lavora, fra gli altri, con Monicelli, Bolognini, Lattuada, Lumet, Altman e Tavernier.
Le scommesse di Mandrake in Febbre da cavallo. Fra i film di maggior successo di quegli anni c’è “Febbre da cavallo” (1976), commedia di Steno che vede Proietti nei panni di Mandrake, uno sfortunato scommettitore disposto (quasi) a tutto per poter giocare con i suoi amici. Fra gli altri attori, Enrico Montesano. Il sequel “Febbre da cavallo-La mandrakata”, nel 2002 gli varrà un Nastro d’argento come miglior attore protagonista.
Attore, regista ma anche “prof” di teatro. Nel 1978 prende insieme a Sandro Merli la direzione artistica del Teatro Brancaccio di Roma (fino al 1997), creando un Laboratorio di Esercitazioni Sceniche. Inizia così un’altra importante fase della sua carriera, in cui si cimenta come insegnante e come regista, portando in scena molti dei propri allievi e sviluppando numerosi adattamenti di film famosi. Una lunghissima attività che contribuirà al conferimento nel 2019 del titolo di “Professore emerito honoris causa” all’università di Tor Vergata, a Roma. Ha diretto anche il Gran Teatro di Roma e il Globe Theatre.
Da De Niro a Marlon Brando, i ruoli come doppiatore. Nella carriera di Proietti spiccano anche importanti ruoli come doppiatore, attività cominciata nel 1964 nel cartoon “Gatto Silvestro” della Warner Bros e cresciuta negli anni fino a doppiare attori del calibro di Robert De Niro, Richard Burton, Sylvester Stallone, Charlton Heston e Marlon Brando.
In tv come conduttore con Heather Parisi. Nella carriera di Gigi Proietti non è mancata la conduzione di successo, attività in cui debutta nel 1983 con il varietà “Fantastico 4” accanto a Heather Parisi, diretto da Enzo Trapani Rer rai 1, che però perde la sfida degli ascolti con “Premiatissima” in onda sulle reti Fininvest.
Il maresciallo vedovo dal cuore grande. Protagonista di numerose serie tv, ottiene uno straordinario successo con “Il maresciallo Rocca” (1996-2005), ambientata a Viterbo e nella quale interpreta il ruolo di un sottufficiale dei carabinieri vedovo con tre figli che si innamora di una farmacista (Stefania Sandrelli).
Una famiglia di donne. Sposato dql 1967 con Sagitta Alter, ex guida turistica, ha due figlie: Susanna (nella foto) e Carlotta, entrambe attrici.
Gigi Proietti, maestro dello sketch, il simbolo della romanità migliore. Emilia Costantini e Paolo Foschi su Il Corriere della Sera lunedì 2 novembre 2020. È morto Gigi Proietti, mattatore del teatro italiano. Una carriera unica, tra cinema, palco e tv. L’attore romano era ricoverato in una clinica romana da alcuni giorni, domenica le sue condizioni erano peggiorate. Gigi Proietti — morto lunedì mattina, nel giorno del suo 80esimo compleanno — non era solo uno straordinario raccontatore di barzellette, forse il più raffinato interprete di questa arte, ma della barzelletta aveva il culto, ne cercava la genealogia, la propagazione, le varianti regionali e dialettali. Ammirava la barzelletta come racconto concentrato, come breve narrazione, un congegno perfetto da recitare con gusto, passione e maestria. E la stessa barzelletta, anche se raccontata migliaia di volte, suscitava in lui un divertimento ogni volta nuovo e trascinante, come se avesse la freschezza sorgiva della prima volta. Gigi Proietti non smetteva mai di offrirsi negli sketch che amava di più, e tutte le volte, prima della battuta finale del «Cavaliere nero», o della telefonata in cui fa lo strozzino della madre, il grande attore doveva concedersi un attimo di esitazione per vincere la risata che, puntualmente, rischiava di sopraffarlo. In un duetto straordinario con Renzo Arbore in cui interpretavano, insieme, il testo di una delle canzoni più celebri, “Come pioveva”, Proietti stupiva ogni volta l’uditorio per la scelta precisa dei tempi, per la sequenza di battute, di espressioni del volto, di modulazioni vocali il cui effetto comico finale riusciva a contagiare un pubblico grato. Proietti era un grande interprete del “nazional-popolare”, dando a questa definizione un po’ corriva lo spessore che si merita, un acrobata della contaminazione tra “alto” e basso”, capace di passare dalla comicità di “Febbre da cavallo” al registro della tradizione teatrale consacrata grazie alla conduzione dello scespiriano “Globe Theatre” nel cuore di Villa Borghese, una perla di cultura di cui Roma dovrebbe andare fiera, riproduzione filologicamente esatta del più famoso teatro di epoca elisabettiana. Gigi Proietti era molto orgoglioso dei suoi “cavalli di battaglia”, un repertorio vasto e ricco da cui lui attingeva per inserire gag, barzellette, imitazioni, recitazioni, poesie, parodie (come quella, tra le insuperabili, dello pseudo chansonnier francese di “Ne me quitte pas” rielaborato in perfetta salsa romanesca) per rendere plasticamente piena una carriera e una presenza che ha costruito nel tempo un vasto seguito di fedelissimi. Una voce unica, un volto unico che hanno fatto della storia di Gigi Proietti un capitolo imprescindibile nella storia della nostra sensibilità teatrale, il grande attore che è stato un grande raccontatore, un simbolo della romanità migliore. Lui avrebbe sorriso, autoironico, con questa definizione. Anche per questo era un grande.
È morto Gigi Proietti, il grande mattatore dei teatri italiani. Emilia Costantini e Paolo Foschi su Il Corriere della Sera lunedì 2 novembre 2020. «Riportare in scena “A me gli occhi please”?. Piuttosto, dovrei interpretare “A me gli occhiali please”», scherzava Gigi Proietti sulla sua età avanzata, nonostante la tempra fisica e la forza scenica da assoluto mattatore che lo ha sempre accompagnato in oltre mezzo secolo di vita artistica. Purtroppo, però, il grande attore, colui che viene considerato l’erede di Ettore Petrolini, stavolta non ce l’ha fatta. È morto la notte scorsa, all’età di 80 anni appena compiuti, nella clinica romana Villa Margherita, dove era stato ricoverato nei giorni scorsi in terapia intensiva, colpito da un attacco cardiaco. Gli erano vicine la moglie Sagitta e le figlie Susanna e Carlotta.
Le origini. Era nato a Roma il 2 novembre 1940 da una famiglia semplice: «Mio padre era un impiegatuccio, mamma era casalinga: erano persone di un altro secolo - raccontava Gigi al Corriere qualche tempo fa - Non sono figlio d’arte, insomma, però, ora che ci penso forse la vena artistica l’ho ereditata proprio da mia madre: mio nonno materno faceva il pecoraro, ma era un poeta. Quando è morto abbiamo ritrovato una serie di libretti con bellissime poesie, erano sonetti dov non c’era una virgola sbagliata. E chissà, forse ho ripreso da lui il gusto di scriverne anch’io in romanesco». Non solo attore di teatro, cinema e televisione, ma anche showman, cantante e direttore artistico di palcoscenici importanti a Roma, come il Brancaccio e, negli ultimi 17 anni, del Globe Theatre a Villa Borghese. Ed è sconfinata la lista delle sue interpretazioni: dal film «Febbre da cavallo» al «Maresciallo Rocca» sul piccolo schermo; da «Cavalli di battaglia» al recentissimo «Edmund Kean» in palcoscenico. Una sfilza di successi destinati a un pubblico vastissimo, da vera rockstar: recentemente, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, in una quindicina di serate aveva raccolto circa 60 mila spettatori.
La carriera e la famiglia. Eppure il Gigi nazionale aveva debuttato nel teatro impegnato d’avanguardia degli anni Sessanta: «Era il tempo delle cantine - ricordava - e con Antonio Calenda, Piera Degli Esposti e altri compagni avevamo creato il gruppo dei 101: recitavamo davvero in un vecchio magazzino, ex deposito di scope. E dopo lo spettacolo, spesso c’era il “dibbbbbattito” , quello co’ trecento b». Ma in realtà il futuro attore aveva iniziato studiando Legge all’università: «Frequentavo Giurisprudenza non per scelta ideologica, ma perché a quel tempo il futuro agognato da un giovane come me, che veniva dalla periferia romana e che non aveva alle spalle una famiglia di professionisti, era l’impiego fisso. Mio padre, infatti, ripeteva: “piove o tira vento, prendi lo stipendiuccio e la tredicesima...”». Per mantenersi agli studi faceva il cantante nei night con un gruppo di amici: «Sul mio passaporto c’era scritto “orchestrale”! Avevo un repertorio sconfinato: cominciavo alle 10 di sera e finivo alle 4 di mattina... uscivo col collo gonfio: non c’era misura di camicia che tenesse, semmai ce voleva un copertone». E cantava anche nelle piscine del Foro Italico, dove conobbe proprio la futura moglie Sagitta: «Lei era la classica svedese innamorata dell’Italia. Faceva la hostess che accompagnava i turisti in giro per monumenti, e la sera li portava lì a prendere il fresco e a sentire musica. Tra me e lei scattò la scintilla ballando l’alligalli».
Il successo. Ma il clic della passione scenica scattò con il «Dio Kurt» di Alberto Moravia, con cui ebbe un successo inaspettato di pubblico, «e mi resi conto che, forse, potevo campare di questo mestiere, anche se fare l’attore - diceva - è un mestiere che non dà mai sicurezza economica, altroché posto fisso!». La svolta vera e propria arrivò con Garinei e Giovannini, che lo scelsero per «Alleluja brava gente» accanto a Renato Rascel e Mariangela Melato: «Una botta di fortuna - ammise Gigi - prendevo il posto di Domenico Modugno, che aveva litigato con Rascel e quindi aveva abbandonato il progetto. Lì mi resi conto che si poteva coniugare il teatro ludico, divertente, con la qualità artistica: il cosiddetto teatro popolare». Tuttavia, il mattatore che ha regalato divertimento a intere generazioni di spettatori, stavolta ha abbassato definitivamente il sipario. Ma oggi esiste un erede di Gigi Proietti? «Un erede mio? - aveva risposto al Corriere - Speramo de no!».
Silvia Fumarola per repubblica.it il 2 novembre 2020. Aveva sempre ironizzato sulla sua data di nascita: "Che dobbiamo fa'? La data è quella che è, il 2 novembre". Gigi Proietti è morto per gravi problemi cardiaci, dopo essere stato ricoverato in terapia intensiva in una clinica romana. La famiglia ha mantenuto il massimo riserbo. Una carriera ricca, lunghissima, più di mezzo secolo in scena e sul set. Talento unico, autoironia, cinismo romano stemperato nella battuta, scopre il teatro all'università. "I miei ci tenevano alla laurea" racconta, "io studiavo, si fa per dire, Giurisprudenza ma la sera mi esibivo. Poi il mio amico Lello, che suonava nella nostra band, una sera viene a vedermi e mi dice: "Devi fare questo". Ho capito che recitare mi piaceva tantissimo, è diventata la mia vita. Ma per papà non era la scelta giusta, era preoccupato e mi ripeteva: "Prendi un pezzo di carta, se piove o tira vento è una sicurezza"". Un vero mattatore, che passa dalla musica (fa il verso a Louis Armstrong, diverte con Nun me rompe er ca' ) alle celebri macchiette di Petrolini, per arrivare a Shakespeare. I primi successi dell'attore romano arrivano in una cantina in Prati in cui recita Brecht e poi con lo Stabile dell'Aquila diretto da Antonio Calenda, che lo guida in testi di Gombrowicz e di Moravia. Artista geniale, istrionico, poliedrico, Gigi Proietti ha trascorso gran parte della sua vita sui palcoscenici di tutta Italia. Attore sopraffino, regista e cantante, ha attraversato decenni di teatro, cinema e tv, e ha prestato la voce a star come De Niro, Hoffman e Stallone. Ha iniziato a calcare le scene dagli anni 60, poi ha lavorato in diversi film, da "Febbre da cavallo" a "Tosca". Il successo in teatro e al cinema era stato confermato in tv con la serie "Il maresciallo Rocca". Nel 2002 il ritorno sul grande schermo con il sequel "Febbre da cavallo - La mandrakata", diretto da Carlo Vanzina e di recente era stato Mangiafuoco nel "Pinocchio" di Matteo Garrone. La grande occasione arriva nel 1970 quando sostituisce Domenico Modugno, accanto a Renato Rascel nel musical Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini. Da allora è interprete e autore di grandi successi teatrali, tra i quali Caro Petrolini, Cyrano, I sette re di Roma. Dopo aver recitato nel 1974 nel dramma di Sem Benelli La cena delle beffe, accanto a Carmelo Bene, nel 1976 stringe un sodalizio con lo scrittore Roberto Lerici, insieme al quale scrive e dirige i suoi spettacoli rimasti nella storia, A me gli occhi, please è un trionfo. Lo riporta in scena nel 1993, nel 1996 e nel 2000, "Ringraziamo Iddio, noi attori abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d'infanzia fino alla morte, che nel teatro si replicano tutte le sere", confessa Proietti. "Non ho rimpianti, rifarei tutto, anche quello che non è andato bene". Continua a girare film, serie tv. Nel 1996 è protagonista della serie dei record d'ascolto Il maresciallo Rocca nel ruolo di un carabiniere padre di quattro figli che tutti gli italiani vorrebbero incontrare, ma prima c'erano stati Un figlio a metà, Italian restaurant. In tv fa il varietà da Fatti e fattacci a Fantastico ma il teatro è la sua vita e la sua passione, fa rivivere Shakespeare al Globe Theatre, incoraggia i giovani attori come faceva nella sua celebre scuola (dove ha avuto allievi Flavio Insinna, Giorgio Tirabassi e tanti altri). Un talento vero, da Febbre di cavallo al doppiaggio: presta la voce a Gatto Silvestro, in coppia con Loretta Goggi (che fa il canarino Titti), e alle star: Richard Burton, Richard Harris, Marlon Brando, Robert de Niro e Dustin Hoffman. Doppia Sylvester Stallone che grida "Adrianaaaaa!", nel primo Rocky. Di recente aveva partecipato alla nuova stagione di Ulisse con Alberto Angela. Non aspettava i compleanni per fare i bilanci. "Sono abituato a farli tutti i giorni, quando arrivano gli appuntamenti importanti li ho esauriti. Sa cosa rispondeva Anna Proclemer a chi le chiedeva: 'Cosa serve per fare l'attore?'. 'La salute'. È fondamentale, e deve funzionare la testa". Tre settimane fa, in una lunga intervista, ci aveva spiegato che era di sinistra. "Chi è di sinistra resta di sinistra, anche se non sono mai d'accordo con quello che dicono". Era innamorato di Roma, la sua città, e Roma era innamorata di lui.
Gigi Proietti è il cane Enzo in "Attraverso i miei occhi": "Non mi sento saggio". La Repubblica lunedì 2 novembre 2020. In attesa di vederlo in versione Mangiafuoco per il Pinocchio natalizio di Matteo Garrone, Gigi Proietti arriva al cinema come doppiatore del cane Enzo in un film in cui la vita di un pilota e della sua famiglia è raccontata dalla prospettiva del suo fedele amico a quattro zampe. 'Attraverso i miei occhi' è tratto dal romanzo di Garth Stein 'L'arte di correre sotto la pioggia' e sarà in sala il 7 novembre con 20th Century Fox. Nella voce (che nella versione originale è di Kevin Costner) c’è tutta la saggezza di un animale che incontriamo da anziano. “Io invece non mi sento tanto saggio né maestro di vita. Anche se qualche volta alle mie figlie e ai miei ex allievi della scuola di recitazione ho detto qualcosa e, anni dopo, mi hanno richiamato per dirmi 'avevi ragione'. Fino a 20 anni fa era meno difficile dare indicazioni, l’attore è un mestiere che lavora sul sociale, ed è importante. Così tanto che lo stanno chiudendo, mi piacerebbe vedere il Valle aperto". Ribadisce che la sua vita è il teatro, in particolare il Globe Theatre “che è una cosa importante che lascio alla mia città”. Negli anni ha lavorato molto da doppiatore “feci il primo 'Rocky' ma poi ero sempre in giro e non potevo, ho doppiato Marlon Brando che aveva una voce un po’ stridula. La mia prova migliore è stato il Lenny di Dustin Hoffman. Il genio di Aladdin è stato divertente ma faticoso”. È una amante degli animali, l’attore “ho una casa con giardino, ho avuto gatti, cani e anche un’oca e un piccione che chiamavamo con mia moglie Poro Toto”. Il cinema non gli ha dato, malgrado titoli come 'Il casotto' e 'Febbre da cavallo', troppe soddisfazioni. Ma ora sarà Mangiafuoco per Matteo Garrone “solo tre giorni di riprese, ma un’esperienza bellissima, il film sarà visivamente spettacolare, Matteo è un regista straordinario”. Sul fronte televisivo “la serialità è stancante, se fai il protagonista devi esserci in ogni inquadratura. Ma Netflix mi incuriosisce mentre al cinema spesso vedo idee che potrebbero essere sviluppate in 45 minuti e che sono tirate avanti per due ore”.
Intervista di Arianna Finos. È morto Gigi Proietti, i saluti e i ricordi sui social. La Repubblica lunedì 2 novembre 2020. Il grande attore è stato portato via da un attacco di cuore nel giorno del suo ottantesimo compleanno. "Ciao Mandrake" e le sue battute si mescolano con la tristezza degli spettatori che lo hanno amato. Per tutta la notte l'incitamento e gli auguri di amici, colleghi e giornalisti, poi dalle prime ore del mattino, alla tragica notizia della morte il giorno del suo ottantesimo compleanno, Gigi Proietti è stato inondato di ricordi e saluti. Sono in tanti a scegliere sui social di salutarlo con una sua battuta, con uno dei suoi cavalli di battaglia come quella del "cavaliere nero", c'è chi gli chiede "facce n'artra mandrakata" e chi cita il brano "Qui nun se move foja, ch'er popolo nun voja" dalla Tosca di Magni. Tra i saluti sui social "Ciao Mandrake" e "Ciao maestro". C'è chi saluta il "Maresciallo" con riferimento al Maresciallo Rocca, la serie tv che Proietti ha portato avanti per dodici anni sulla Rai e chi lo saluta con foto di teatro, accanto a De Filippo. Chi già lo immagina in paradiso a raccontare barzellette e chi ricorda il suo Globe Theater nel cuore di Villa Borghese, di cui era direttore artistico. E chi ancora lo saluta nel suo ruolo di doppiatore, come Genio di Aladino. Matteo Renzi è il primo politico a ricordare l'attore: "Andarsene nel giorno dei suoi 80 anni è l’ultimo colpo di teatro di un artista straordinario". Rita Pavone: "Non poteva esserci risveglio peggiore. Oggi, nel giorno stesso del suo 80mo compleanno, ci ha lasciato per sempre Gigi Proietti. Ho amato tantissimo il talento ma anche l'umanita' di quest'uomo con cui ho avuto la grande gioia di lavorare. Addio Gigi. Ci mancherai tantissimo". "Senza parole... Questa volta l’inchino a #gigiproietti lo facciamo tutti noi" scrive Fabio Fazio. Il saluto di Alessandro Gassmann che lo aveva diretto nel film Il premio in cui interpretava il figlio ed era un omaggio a suo padre Vittorio, che di Proietti era amico. Il conduttore e giornalista Gabriele Corsi: "Com’è che salutavi sempre? “Ciao Core”. Buon viaggio Gigi. Quanto ci mancherai". "Come Shakespeare, anche tu caro Gigi sei morto il giorno del tuo compleanno. E' una pratica che viene lasciata agli uomini saggi. Il mio modesto ricordo è quello di una cena a casa di Arbore dove dicesti che ti stava simpatico l'orco delle fiabe. Addio e grazie di tutto" scrive su Twitter il regista Giovanni Veronesi. Cesare Cremonini: "Ogni donna e uomo dello spettacolo ti deve molto. Oltre il teatro, il tuo regno. Faro per i tantissimi giovani che ti amavano. Alzarsi in piedi e applaudire forte". "Una gioia e un onore aver fatto un pezzo di strada con te #Proietti #Gigiproietti" scrive Veronica Pivetti che ha lavorato con lui nella serie del Maresciallo Rocca.
Gigi Proietti, i carabinieri gli rendono onore: "Vogliamo ricordarti così", una foto che ha fatto la storia. Libero Quotidiano il 02 novembre 2020. Tra i tanti ruoli interpretati da Gigi Proietti tra teatro, cinema e televisione non può certamente essere dimenticato quello del Maresciallo Rocca, la fiction di successo andata in onda sulla Rai tra la fine degli anni ’90 e l’inizio di quelli 2000. Nel giorno della morte, avvenuta proprio in concomitanza con l’ottantesimo compleanno, il grande attore romano è stato omaggiato anche dall’Arma dei Carabinieri che, avendo vestito i panni del Maresciallo Rocca per diversi anni, lo considerano quasi alla stregua di un collega: “Hai saputo farci sorridere con tanti personaggi e mille sguardi, espressioni, barzellette. Noi vogliamo continuare a ricordarti così, col volto del Maresciallo Rocca, che hai interpretato con umanità, passione e la giusta dose di ironia”. Tra l’altro qualche anno fa Proietti aveva concesso un’intervista proprio al sito istituzionale dell’Arma, dove ha parlato dei Carabinieri come l’incarnazione dell’italianità: “Lo sono in tutto, dalla divisa all’atteggiamento, al modo di fare. Tutto è italiano in loro, è difficile non scorgervi qualcosa che si discosta dall’italianità più accentuata. Sono un simbolo della nostra Italia”.
Barbara Palombelli sulla morte di Gigi Proietti: "Ora tutti in fila a celebrarlo, ipocriti". Libero Quotidiano il 02 novembre 2020. Nel giorno in cui il mondo dello spettacolo, con l'Italia intera, piange il grande Gigi Proietti, la conduttrice Mediaset, Barbara Palombelli fa notare quello che nessuno ha il coraggio di dire: "Avrebbe potuto avere molto di più, dal cinema e dal teatro italiano... e lo sapeva, e ci soffriva. Adesso sono tutti in fila... a celebrare. Ipocriti". La giornalista crede che Proietti, che oggi 2 novembre avrebbe compiuto 80 anni, avrebbe meritato di più, soprattutto negli ultimi anni. Celebrazioni, tv, cinema, teatro. E il suo post decisamente polemico su Facebook fa il pieno di like e commenti. Forse per una sorta di risarcimento, nel giorno della sua morte alcuni vip, capitanati da Tullio Solenghi, chiedono che almeno venga intitolato a Gigi il Teatro Brancaccio di Roma. "Mi farebbe piacere che a Roma venisse intitolato un grande teatro a Gigi Proietti", dice Solenghi, "magari proprio il Brancaccio che lui ha diretto dal 1978 al 2007, dando vita al leggendario Laboratorio di Esercitazioni Sceniche, da cui sono usciti tanti talenti, come Flavio Insinna, Francesca Reggiani, Chiara Noschese, Giorgio Tirabassi, Enrico Brignano, Massimo Wertmüller, Paola Tiziana Cruciani, Rodolfo Laganà e Gabriele Cirilli". "Ho la sensazione - aggiunge Solenghi - che lassù stia facendo ridere tutto il creato, che stia facendo divertire con la sua classe, il suo meraviglioso talento e la sua umanità. Ciao Gigi sei tutti noi, il più grande di tutti noi".
(ANSA il 2 novembre 202) - "Te possino a Mandra' proprio oggi? Ma che è una mandrakata?", firmato er Pomata. Enrico Montesano è addolorato ma ci scherza su. "Gigi aveva un'ironia formidabile, l'avrebbe presa così, raccontando anzi inventando una barzelletta", dice all'ANSA l'attore che in Febbre da cavallo di Steno, film cult, era protagonista insieme a Proietti. "O forse - prosegue scegliendo di sdrammatizzare - avrebbe intonato Ettore Petrolini "so' contento di morire ma mi dispiace..."
Stefania Sandrelli ricorda Gigi Proietti: «Gli predissi: “Il Maresciallo Rocca avrà un gran successo”». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2020. «Io agnedi / tu annasti / egli agnede / noi annassimo / voi annasivo / essi agnedoro (o andorno). Baci Gigi». C’è tutto il senso di un’amicizia durata cinquant’anni nell’ultimo messaggio di Gigi Proietti a Stefania Sandrelli. L’amore per Roma e i suoi cantori (Belli, Trilussa), il desiderio di condividere le passioni, la voglia di ridere e far ridere, la tenerezza. «Ci eravamo sentiti al telefono. Stava lavorando sui sonetti romaneschi, me li declamava. Ero dal parrucchiere, uscita per strada con le cartine in testa. Avevo riso moltissimo sentendo alcuni verbi, ma non avevo capito il passato remoto del verbo andare. Mi ha mandato la declinazione via whatsapp. Un regalo preziosissimo».
L’attrice: «Grande artista, colto e popolare, attento e generoso».
Il maresciallo Rocca e Margherita Rizzo, una delle coppie più iconiche della nostra tv.
«Due personaggi speciali. Già ci conoscevamo non bene benissimo, eravamo anche vicini di casa. Era andato a abitare, coincidenza, in quella che era stata la scuola elementare di mio figlio Vito. Mi fece leggere questo bellissimo progetto. Lo faccio volentieri, gli dissi, sarà un grande successo, gli avevo predetto, ma mi devi assicurare che il Maresciallo Rocca lo fai tu. Altrimenti non accetto».
«Brancaleone alle crociate», «Mi faccia causa», «Mai storie di amore in cucina». A cosa è più legata?
«Tutto. Mi ricordo anche una piccola cosa in teatro, in costume. Misi il turbo, la preparai in due giorni. Il palcoscenico, a differenza sua, non era proprio la cifra. Brancaleone fu una folgorazione. Era il 1970. Io facevo la streghetta, Tiburzia da Pellocce e lui tre ruoli, Pattume in cui interagivamo, la Morte e lo stilita Colombino. C’era un tacito accordo con Monicelli, un altro che adorava ridere e far ridere. Quando non avevamo le scene insieme, mi mettevo accanto a Mario e ridevo come una matta, un cinema».
Cosa vi legava?
«Per me era un amico, un collega, ci siamo sempre trattati con grande affetto e grande stima.Avrò visto venti volte, A me gli occhi, please. E lui era sempre pronto a ricordare tutte le mie cose al cinema. La vita senza di lui è vuota, come succede sempre con i grandi artisti. Il lutto non è certo solo mio, ma di tutti gli italiani. Adorava far ridere, una missione, come accadeva a Sordi. Ecco, ci vorrebbe un addio come quello di Albertone, purtroppo per ora con questa situazione non si può».
Ha unito mondi diversi, Petrolini e Shakespeare, Elio Petri e Vanzina, il varietà del sabato sera e Carmelo Bene, gli stornelli romani e i doppiaggi Disney.
«Era la sua forza, popolare e coltissimo, curioso di tutto. Un grande artista e una grande persona: attenta agli altri, sensibile, generoso. Pronto a lasciare spazio ai giovani. Ognuno poteva sentirselo vicino, suo».
Il ricordo più bello?
«Quando andavamo dopo il lavoro a cena, facevamo le ore piccole. E ci faceva ridere a crepapelle, fino alle lacrime».
Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. «Io agnedi / tu annasti / egli agnede / noi annassimo / voi annasivo / essi agnedoro (o andorno). Baci Gigi». C' è tutto il senso di un' amicizia durata cinquant' anni nell' ultimo messaggio di Gigi Proietti a Stefania Sandrelli. L' amore per Roma e i suoi cantori (Belli, Trilussa), il desiderio di condividere le passioni, la voglia di ridere e far ridere, la tenerezza. «Ci eravamo sentiti al telefono. Stava lavorando sui sonetti romaneschi, me li declamava. Ero dal parrucchiere, uscita per strada con le cartine in testa. Avevo riso moltissimo sentendo alcuni verbi, ma non avevo capito il passato remoto del verbo andare. Mi ha mandato la declinazione via whatsapp. Un regalo preziosissimo».
Il maresciallo Rocca e Margherita Rizzo, una delle coppie più iconiche della nostra tv.
«Due personaggi speciali. Già ci conoscevamo non bene benissimo, eravamo anche vicini di casa. Era andato ad abitare, coincidenza, in quella che era stata la scuola elementare di mio figlio Vito. Mi fece leggere questo bellissimo progetto. Lo faccio volentieri, gli dissi, sarà un grande successo, gli avevo predetto, ma mi devi assicurare che il Maresciallo Rocca lo fai tu. Altrimenti non accetto».
«Brancaleone alle crociate», «Mi faccia causa», «Mai storie di amore in cucina». A cosa è più legata?
«Tutto. Mi ricordo anche una piccola cosa in teatro, in costume. Misi il turbo, la preparai in due giorni. Il palcoscenico, a differenza sua, non era proprio la cifra. Brancaleone fu una folgorazione. Era il 1970. Io facevo la streghetta, Tiburzia da Pellocce e lui tre ruoli, Pattume in cui interagivamo, la Morte e lo stilita Colombino. C' era un tacito accordo con Monicelli, un altro che adorava ridere e far ridere. Quando non avevamo le scene insieme, mi mettevo accanto a Mario e ridevo come una matta, un cinema».
Cosa vi legava?
«Per me era un amico, un collega, ci siamo sempre trattati con grande affetto e grande stima. Avrò visto venti volte, A me gli occhi, please . E lui era sempre pronto a ricordare tutte le mie cose al cinema. La vita senza di lui è vuota, come succede sempre con i grandi artisti. Il lutto non è certo solo mio, ma di tutti gli italiani. Adorava far ridere, una missione, come accadeva a Sordi. (…)
Fulvia Caprara per “la Stampa” il 3 novembre 2020. (…)
Poi, tanti anni dopo, avete lavorato fianco a fianco nel «Maresciallo Rocca».
«Gigi mi fece leggere quel progetto bellissimo e, siccome il mio personaggio, Margherita, aveva tinte fosche, gli risposi che l' avrei accettato solo se lui mi avesse giurato che non avrebbe mai abbandonato il ruolo del protagonista. Gli dissi anche che sarebbe stato un gran successo, e infatti...».
Come fu, poi, la lavorazione sul set?
«Chiedevo sempre molti consigli a Gigi, aveva in mano la storia, il personaggio di Margherita, il rapporto che un uomo di legge si trovava ad avere con lei. Anche allora facevo fatica a restare seria per le battute di Gigi, quella volta il regista che subiva era Giorgio Capitani. Lo stesso con cui poi abbiamo girato Mai storie d' amore in cucina, anche quella fu un' esperienza molto divertente».
L' impressione è che, dal cinema, Gigi Proietti avrebbe potuto avere maggiori soddisfazioni. Lei che ne pensa?
«Gigi ha dato talmente tanto al teatro che, per fare lo stesso con il cinema, avrebbe dovuto avere a disposizione un' altra esistenza. Con il grande schermo, comunque, ha fatto cose bellissime. Non voglio certo paragonarmi a lui, ma io, per esempio, ho recitato in cinque pièce teatrali e sono stata in giro con tre tournée, ma la mia vita l' ho consegnata al cinema. Penso sia stata un po' la stessa cosa per lui, con il teatro».
Riuscire a far ridere vuol dire anche sedurre. E' d' accordo?
«La risata è preziosissima, diventa la cosa che più ti manca, perché quando l' hai avuta, non ne puoi più fare a meno».
Siete sempre rimasti in contatto. Che cosa vi legava?
«Ogni volta che Gigi faceva uno spettacolo andavo, avrò visto venti volte A me gli occhi, please. Era bello incontrarsi, dopo si andava al ristorante, facevamo le ore piccole, e giù a ridere. Se c' era qualcosa che trovavo irresistibile, me la rifaceva apposta. Con me aveva un rapporto paterno, protettivo, affettuoso».
S.Fum. per “la Repubblica” il 3 novembre 2020. Da "Brancaleone" a "Il maresciallo Rocca", l' attrice ricorda la loro lunga amicizia «Gli sono grata per le risate». Stefania Sandrelli fa una pausa. «Sa cosa significa ridere di cuore, sapere di poterti fidare, avere accanto un collega e un amico? So che manca a tante persone, ma a me manca tantissimo. E so di essere privilegiata perché siamo diventati amici, ci siamo frequentati anche fuori dal set, andavamo a cena insieme, abbiamo condiviso un pezzo di vita». Da Brancaleone alle Crociate - era il 1970 - alla serie dei record, Il maresciallo Rocca - 1996 - in cui interpretava Margherita, moglie farmacista del carabiniere più amato d' Italia, Sandrelli ha conosciuto bene il mattatore.
Allora, com' è stato l' incontro?
«Il primo film che abbiamo fatto insieme è stato Brancaleone in cui lui aveva due ruoli, Pattume - e già il nome mi faceva ridere - e in quel caso ero in scena anch' io, Streghetta. Poi Colombino. Era veramente molto difficile restare seri, alla fine rideva anche Mario Monicelli. Su quel set Gigi ha capito quanto mi piacesse ridere e lui adorava far ridere tutti, era un po' la missione. Finito di girare le mie scene non volevo perdermi lo spettacolo».
Che faceva?
«Promettevo a Monicelli di stare buona, era molto difficile, e insieme alla troupe mi faceva assistere alle riprese con mia figlia. Mai conosciuto un attore così generoso». (…)
La caratteristica di Proietti?
«Era un grande artista nel senso che sapeva fare tutto: aveva la metrica della parola, del ritmo, cantava e suonava. Adorava la musica. Non era solo un attore: accoglieva qualsiasi spunto e lo traduceva nel migliore dei modi. Lavorando con lui non smettevo di fargli domande, gli chiedevo qualsiasi cosa. Mi sono sentita protetta perché c' era lui.
Rendeva tutto facile. Era sensibile, amava la vita. Gli sono davvero riconoscente, mi ha dato sicurezza».
In che senso?
«Era lui a ricordarmi che avevo fatto tante cose belle al cinema, sa, a volte non ci si rende conto. Posso solo ringraziarlo per essere la persona che è stata. Lascia un vuoto immenso».
L' aveva sentito ultimamente?
«Qualche mese fa avevo visto in tv dei pezzi sul Belli, una cosa sui poeti romaneschi. Gli lasciai un messaggio in segreteria: "Mi devi tradurre che significa questa frase, non l' ho ben capita". E lui mi richiamò subito, sempre così gentile. Ero dal parrucchiere, anche quella volta mi fece ridere».
Cosa rappresenta per Roma e per l' Italia?
«Per me è un po' come Alberto Sordi. Ricorda come fu salutato Alberto? Ecco, meriterebbe una cosa simile. Adesso purtroppo per questo maledetto Covid è impossibile, però è quello che si aspetta la gente. Tutti vorrebbero applaudirlo e ringraziarlo. Quindi mi auguro che nel rispetto delle regole si possa fare».
Gl. S. per “il Messaggero” il 3 novembre 2020. «È un giorno tristissimo. Dopo Alberto Sordi, la scomparsa di Gigi è un nuovo, enorme dolore per me», esclama Stefania Sandrelli nascondendo a stento la commozione per la morte improvvisa di Gigi Proietti. Erano colleghi ma anche amici, i due attori. Abitavano entrambi sulla Cassia, si frequentavano con i rispettivi coniugi. «Il nostro è stato un rapporto di amicizia e grandi risate», racconta l' attrice. (..) Il set venne allestito a Viterbo e le riprese si svolsero in grande armonia, racconta ancora Stefania. «Gigi ha sempre avuto un atteggiamento accogliente, paterno, protettivo nei miei confronti e non perdeva occasione per dimostrarmi quanto tenesse a me. Io, da parte mia, non facevo che chiedergli lumi su come impostare questa o quella scena e lui non si tirava certo indietro. Non mi sono mai sentita tanto coccolata». La sera, finite le riprese, il sodalizio continua: «Andavamo a cena in quattro: lui con la moglie Sagitta, io con il mio Giovanni e spesso si aggiungeva la troupe. Poi abbiamo visto tutti gli episodi insieme, esultando il giorno dopo per lo share che superò addirittura quello del Festival di Sanremo». (…) Sandrelli s' intenerisce: «Gigi mi ricordava sempre il grande percorso che avevo fatto nel cinema mentre io tendo a dimenticarlo. Non posso che dirgli grazie ora che il dolore per la sua scomparsa accomuna tutti gli italiani. A cominciare dagli attori che in lui hanno trovato un collega generoso, attento, sensibile, profondo. Senza di lui rideremo di meno. E la vita di tutti sarà più vuota».
Enrico Vanzina per “il Messaggero” il 3 novembre 2020. Ricordo Gigi che parlava nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, ricordando mio fratello Carlo scomparso. Parlava del suo amico Carlo con semplicità, ma parlava con la forza, e la grazia, e la sapienza, e l' intensità di quando recitava Shakespeare. E adesso mi viene da piangere. Ricordo spesso il pomeriggio in cui scrissi la scena del monologo del giocatore di cavalli, per la sceneggiatura di Febbre da cavallo. Mio padre Steno la lesse e mi disse: «Tu farai davvero lo sceneggiatore». Poi la lesse Gigi Proietti. E la interpretò. Dio come la interpretò. E grazie a lui resterà per sempre. E mi viene di nuovo da piangere. Ma ricordo anche Gigi che rideva e la sua risata contagiosa mi penetrava nell' anima. Riusciva a rischiarare le giornate uggiose, le tristezze interiori, la noia e la rabbia. La sua risata era una medicina. Gigi era un medico dello spirito. Inteso in tutti i sensi. Quando recitava le sue amate barzellette, ci abbiamo anche fatto un film, lo fissavo ammirato: in bocca a lui, quelle storielle popolari diventavano poesie, pezzi teatrali. Lo faceva d' istinto, senza pensarci troppo, il suo era un talento innato. Parlava e recitava come Chet Baker suonava la tromba o come Pelé infilava un goal all' incrocio dei pali. Ricordo Gigi a Largo Augusto Imperatore mentre girava con Papà la scena del whisky maschio, col fischio, col caschio, vestito da vigile. E mi resi conto che quella scena sarebbe diventata memorabile. Ricordo la telefonata di mio fratello Carlo da Porto Rotondo, in piena notte, che mi disse: «Abbiamo appena finito di girare la scena del conte Duval, l' attore smemorato». E aggiunse «Non ho mai riso così tanto girando un nostro film». Ricordo Gigi a Antigua, mentre giravamo Un' estate ai Caraibi, passeggiavamo sulla spiaggia con la radiolina incollata all' orecchio. A Napoli, a seimila chilometri di distanza, la Roma giocava contro il Napoli. E vinse. E io e lui cominciammo a correre, saltando, abbracciandoci e andammo a bere rhum in un baretto fatto di paglia. Ricordo il pomeriggio in un appartamento a Passeggiata di Ripetta quando decidemmo all' improvviso di girare una scena non prevista. Era quella dell' avvocato con il cliente contadino che legge i fogli di una causa e gli fa: «Qui ce li incu qui ce li incu (pausa accigliata ) qui mi sa che ti si incu...» Girammo la scena in dieci minuti, con lui nel doppio ruolo. Un capolavoro di umorismo basso, ma altissimo. Perché lui era sempre altissimo. Mai volgare. Mai banale. Era il più bravo di tutti. Era un' altra categoria. Era veramente lo Steinway a coda dello spettacolo italiano. (...) Una sera, insieme a lui, Monicelli e altre persone della troupe andammo a vedere Ray Charles che si esibiva all' Apollo Theatre, ad Harlem. Entrammo nel teatro e ci accorgemmo, preoccupati, di essere gli unici bianchi in platea. Erano gli anni di grande tensione tra americani bianchi e neri. Restammo immobili, trattenendo il fiato, poi passato il primo momento di stupore tra il pubblico, tutti iniziarono a stringerci le mani, entusiasti nel vedere all'Apollo, tempio della musica nera, quel gruppo di italiani. Gigi mi diede un colpetto ai fianchi e mi bisbigliò: «Dimme grazie. Hanno capito che il mio idolo è sempre stato Louis Armstrong». Poi aggiunse: «Anche se per un attimo mi so' cacato sotto».
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 3 novembre 2020. L’ultima volta gli avevo chiesto, dopo essermi sfinito solo a leggerla la sua vita enciclopedica su wikipedia: “Non ti prende mai una stanchezza mortale solo a ripensare a tutto quello che hai fatto?”. E lui, l’antiretorica fatta uomo: “Si sente, vero, che j’ho dato giù? Mi sono sfogato. Anzi, quando ci ripenso, me sa che ho proprio esagerato…”. Il suo cuore ha ceduto. Stanco da tempo e, alla fine, stremato. Lui che era nel cuore di tutti. E peccato che questo sia un modo di dire, un canone dell’elogio funebre quando l’estinto di turno è un nome popolare. Perché, nel caso di Gigi, era tutto meno che un modo di dire, anche se non c’è un altro modo per dirlo. Gigi Proietti dopo Alberto Sordi, un lutto nazionale e cittadino, una vendemmia di dolore, quello vero che sa di smarrimento. Anche lui Gigi, come Albertone, romano, romanista e attore nel senso più totale e scandaloso, del talento innato, quello che non si spiega. Lui che aveva il vezzo d’insegnare ai giovani attori e non si contano quanti usciti dalla sua scuola, avendo imparato tutto, ma non l’unica cosa che non si può insegnare: i tempi. Gigi era un genio dei tempi teatrali. Quelli della battuta e quelli della pausa. Lui, come Ettore Petrolini. Secondo solo, forse, a Eduardo. Nato e morto il 2 novembre, nemmeno fosse una sua freddura macabra, tra otto decadi vissute a perdifiato. Per tutta la giornata di ieri è stato un malinconico e affettuoso tam-tam, nei cellulari calienti, che puntualmente sfocava in un’allegra risata (non tutte le risate sono allegre), a raccontare un aneddoto, una battuta, il frammento di un film, di uno spettacolo o una barzelletta, quella dell’amico, quella del marito o della moglie. Tutti, ma proprio tutti, con il loro piccolo brandello di memoria custodito con devozione. Devi morire per scoprire quanto sei amato e, dunque, condannato Gigi, come tutti, a non saperlo mai. Questa è la vera tragedia della vita, che non gli avrebbe comunque impedito di scucire il suo leggendario ghigno sardonico. Il mio Gigi Proietti privato? Due almeno. Lui che canta “Nun je da retta Roma” , brano di Armando Trovajoli, nella parte di Cavaradossi carcerato a Castel Sant’Angelo, in attesa d’essere giustiziato. Avete pelle abbastanza da farvi scorticare? Ascoltatelo. Ma ascoltate anche la sua versione del “Barcarolo romano” e mettetela nella stessa bacheca di Gabriella Ferri. L’altra, insieme a Otranto, quindici anni fa, per una commemorazione di Carmelo Bene voluta da Maurizio Costanzo. Lui, Gigi, il cinico, il disincantato, non lo dimenticherò mai, tradito da quell’attimo di commozione mentre raccontava dei suoi giorni a teatro con Carmelo ne “La cena delle beffe”, a duellare sul palco del Sistina per finta e per vero. I due, poco più che trentenni e straripanti di talento. “Con Carmelo era un happening quotidiano”. Gigi Proietti, l’ultimo dei mohicani. L’ultimo grande attore di una tradizione che discende dai lombi dei grandi guitti dell’avanspettacolo, dai mattatori ottocenteschi e, prima ancora, dall’attore shakespeariano (chi non ha visto il suo “Edmund Kean” si è perso qualcosa). Lui che ti scrutava dallo sprofondo di quelle che non erano rughe ma solchi di una pianta secolare che si è pigramente ma inesorabilmente diffusa in tutto lo scibile dell’umano intrattenimento. Cantante nei night da studente universitario, i primi teatrini sperimentali negli anni ’60 a elucubrare Beckett o Genet, attore e clown a teatro, i grandi teatri, il varietà, il cinema e la televisione. Tra esagerate libagioni di caffè, sigarette e alcol. Come tutti i pigri, un forsennato. Le sue pause liriche erano incursioni fuori dal tempo in qualche osteria, con gli amici, la sua Sagitta con cui è stato sposato da sempre, o anche da solo. Condannato per quasi tutta la sua vita di attore di rubare gli occhi della gente. “A me gli occhi”, il suo spettacolo padre, tutti gli altri a seguire figli e nipotini. Là dove capisce, replicandolo all’infinito, che non c’erano limiti alla sua arte. Quando scopri che non hai bisogno di scenografie, costumi, che puoi saltare da un genere all’altro, dai versi di Laforgue al jazz e al fattaccio greve romanesco. Curioso come pochi al mondo, il suo è stato un lungo viaggio tutto dentro il mestiere, senza mai un’oncia di vanità o di protagonismo. In questo radicalmente diverso dai Bene, dai Gassman e dagli Albertazzi, schiaccianti e consapevoli artefici della propria icona. “Mai avuto il tempo per dirmi quanto sono bravo”, mi disse una volta. Non aveva il tempo e nemmeno l’indole. Paradossale la sua storia nel cinema. Un rapporto mancato o solo sfiorato, anche se poi una discreta parte della sua popolarità la deve a Mandrake, il sublime cialtrone, indossatore e aspirante attore di “Febbre da cavallo”. Mai entrato, come fu per Gassman, nei circuiti della commedia commerciale. Lo stesso “Febbre da cavallo” all’inizio fu un mezzo fiasco, salvo poi diventare un cult con il passaparola. Stranissima vicenda. Fosse stato un successo commerciale da subito, sarebbe probabilmente cambiata la sua storia con il cinema. Mai stato Gigi uno nostalgico. Non si guardava mai indietro. A sospirare o a lamentarsi dei tempi grami. Sapeva bene che ogni epoca ha le sue ragioni e se c’era da sporcarsi le mani in qualche fiction televisiva travestendosi da maresciallo dei carabiniere o in qualche sgangherato cinepanettone si faceva pagare ma non si faceva pregare, ben sapendo e però infischiandosene che i suoi siparietti avrebbero trasformato quelle cose irrilevanti in qualcosa d’imperdibile. Dimenticavo, pochi sanno che Gigi Proietti era, è, anche un discreto musicista. Suonava decentemente la chitarra, il basso e il flauto. Padre affettuoso di Carlotta e Susanna, che lui ha contagiato nel modo più bello, con la passione per la musica, il teatro e la vita.
Da music.fanpage.it il 2 novembre 2020. A Fanpage Peppino di Capri ricorda la sua amicizia con Gigi Proietti e quando portarono sul palco dell'Ariston "Ma che ne sai… nel 1995. Peppino di Capri era molto legato all'attore romano, scomparso nella mattina del 2 novembre, giorno in cui avrebbe compiuto 80 anni: per anni, infatti, era salito appositamente a Roma per festeggiare con Proietti il suo compleanno. “Sì, avevo fatto un augurio di buona guarigione assieme agli auguri di buon compleanno e invece stamattina ho acceso la televisione e mi sono ghiacciato a pensare a tutte le volte che abbiamo lavorato assieme.” “Nacque grazie all'autore della canzone, Claudio Mattone, che ci disse che sicuramente sarebbe stata una cosa divertente, ironica e infatti facemmo un po' di prove nel suo studio di registrazione a Roma e lui mi correggeva le parole perché essendo un attore mi ricordo che la parola "coppietta" io la cantavo aperta e lui mi correggeva e io gli dicevo che come la pronunciava lui lo si diceva a Roma, a Napoli era come dicevo io (ride, ndr)”
Da music.fanpage.it il 2 novembre 2020. Nel 1995 sul palco del Festival di Sanremo salì un trio molto particolare, formato da Gigi Proietti, Peppino di Capri e Stefano Palatresi. Si diedero come nome Trio Melody e portarono sul palco dell'Ariston "Ma che ne sai… (…se non hai fatto il piano-bar)". Peppino di Capri era molto legato all'attore romano, scomparso nella mattina del 2 novembre, giorno in cui avrebbe compiuto 80 anni: per anni, infatti, era salito appositamente a Roma per festeggiare con Proietti il suo compleanno. Abbiamo raggiunto il cantante napoletano al telefono per chiedergli un ricordo.
Signor Di Capri, immagino abbia sentito la notizia, voi avevate fatto un po' di cose assieme.
«Mi è dispiaciuto moltissimo, avevo fatto da poco un augurio di buona guarigione».
Lui stava male da un po', lei lo sapeva, immagino, giusto?
«Sì, era molto grave, sapevo che aveva problemi al cuore».
Mi diceva degli auguri…
«Sì, avevo fatto un augurio di buona guarigione assieme agli auguri di buon compleanno e invece stamattina ho acceso la televisione e mi sono ghiacciato a pensare a tutte le volte che abbiamo lavorato assieme».
Voi avete lavorato spesso assieme.
«Conta che festeggiavamo assieme anche il suo compleanno. Io andavo a Roma apposta per festeggiarlo, questa cosa ha raddoppiato il dolore».
Tra l'altro avete fatto assieme il suo unico Festival di Sanremo, con il trio melody e "Ma che ne sai… (…se non hai fatto il piano-bar)".
«Infatti stavo cercando anche una foto assieme…»
Come nacque l'idea di andare assieme all'Ariston?
«Nacque grazie all'autore della canzone, Claudio Mattone, che ci disse che sicuramente sarebbe stata una cosa divertente, ironica e infatti facemmo un po' di prove nel suo studio di registrazione a Roma e lui mi correggeva le parole perché essendo un attore mi ricordo che la parola "coppietta" io la cantavo aperta e lui mi correggeva e io gli dicevo che come la pronunciava lui lo si diceva a Roma, a Napoli era come dicevo io (ride, ndr)»
Tra l'altro la canzone è rimasta nella memoria di tantissime persone…
«Sì, sì, io poi la canto ancora nelle serate, quando racconto l'atmosfera del pianobar, canto questa qui».
Qualche anno fa faceste anche qualcosa assieme in tv, giusto?
«Sì, facemmo Cavalli di battaglia, una puntata insieme. Ora sarò costretto a cantare la canzone legata al nostro trio da solo, pensando a lui».
Renato Franco per corriere.it il 2 novembre 2020. «Ho tanti ricordi, abbiamo fatto tante cose insieme. Sono turbato, molto turbato. Sapevo che stava male da tempo...». Pippo Baudo ha la voce rotta, stanca. Con la morte di Gigi Proietti se ne è andato un pezzo anche della sua giovinezza.
Qual è il primo ricordo che le viene in mente?
«La cosa più bella da raccontare è come è nato Gigi artisticamente. Era il 1970. Garinei e Giovannini stavano provando Alleluja brava gente con Rascel e Modugno. A un certo punto Rascel litigò con Modugno che decise di abbandonare lo spettacolo. Arrangiatevi, disse. Rascel era felicissimo di rimanere senza un concorrente che lo potesse oscurare. Per sostituire Modugno invitarono questo giovane attore che faceva uno spettacolo molto applaudito al Teatro delle Muse a Roma. Rascel accettò subito pensando di mangiarselo. E invece quando andò in scena la prima ci accorgemmo tutti che il dominatore assoluto era questo principiante, questo debuttante. Subito dopo lo spettacolo sono andato in camerino e l’ho portato a Fantastico».
Si capiva subito che era di un altro livello...
«Gigi veniva una settimana sì e una settimana no, si alternava niente meno che con Monica Vitti. Che tempi, che artisti, che gente».
Se si potesse riassume tutta la sua sconfinata bravura in uno spettacolo?
«A me gli occhi, please fu un grande successo di Gigi e condensava tutto il suo talento. Era uno spettacolo di tre ore, da solo sul palco, un monologo ininterrotto in cui cantava, faceva sorridere, faceva piangere. Aveva una capacità tecnica ma anche fisica eccezionali. E poi come raccontava le barzellette lui, nessuno. Nessuno. Ogni barzelletta era una commedia».
Un talento infinito, straordinario, cosa la colpiva di più tra i tanti assi?
«La capacità vocale. Con la voce Proietti faceva tutto quello che voleva. Era eccezionale. Era un vero camaleonte. Di Proietti non ce ne saranno più».
Un talento per nulla divisivo. Amato da tutti.
«Era adorato dal pubblico. Forse perché tutti capivano che ci si trovava di fronte a un essere dalla bravura eccezionale, ci si chiedeva come potesse riuscire a fare tutte quelle cose così bene. Si rimaneva allibiti di fronte alla sua classe e abilità. Non avevi parole».
E non faceva pesare il fatto di essere Proietti...
«Per niente. Penso che fosse cosciente della propria abilità ma non lo faceva mai pesare nel rapporto interpersonale. Era quasi modesto».
Della sua vita privata cosa ha colto?
«Il rapporto di grande amore con le figlie. Le adorava»
Voi vi vedevate anche fuori dal palco...
«Dopo che lui si era esibito a teatro andavamo spesso a mangiare alla trattoria toscana di piazza Barberini. E lì incominciava a raccontare barzellette fino alle tre del mattino. Era un intrattenitore nato. Il classico teatrante. Di Proietti non ce ne saranno più».
Marco Giusti per Dagospia il 2 novembre 2020. Nessuno mi ha fatto ridere come Gigi Proietti in “Casotto” quando lui e Franco Citti si tolgono i pedalini e scoprono i piedi neri. “Te credo che so neri, nun ce stamo mai fermi”. E nessuno riusciva passare come lui da un ruolo serio, complesso come quello di “Le farò da padre” di Alberto Lattuada, dove si innamora della minorenne problematica Therese Ann-Savoy, a quello di Mandrake in “Febbre da cavallo” di Steno, il suo capolavoro cinematografico. Avrebbe potuto farci ridere sempre, ricordo recentemente a San Cosimato sul palco la sua incredibile imitazione di Mario Carotenuto, ma non si è mai limitato a fare solo il comico, nemmeno nei film puramente comici. Credo che ciò derivasse da anni e anni di gavetta di teatro sperimentale, un percorso che lo porterà a duettare con Carmelo Bene in “La cena delle beffe” di Sem Benelli nel 1974 in una tournée che andò a finire malissimo, visto che se ne andò prima della fine, sostituito dal meno aggressivo Franco Branciaroli, ma forse anche i due meravigliosi film che gira con Tinto Brass, “”Dropout” e “L’urlo”, dove esplode come attore grottesco, lo spingono verso altre direzioni. Devo dire che il suo talento lo avevamo scoperto subito. Magari non al cinema, dove si limitava, negli anni ’60, a qualche partecipazione, “La ragazza del bersagliere” di Alessandro Blasetti, dove il protagonista era Antonio Casagrande, “Lo scatenato” di Franco Indovina, dietro Vittorio Gassman e Carmelo Bene, “Le piacevoli notti”, ma a teatro, dove era l’incredibile protagonista di una versione di “Operetta” di Gombrowicz diretta da Antonio Calenda che mi lasciò senza fiato. O in tv, tra il superinnovativo “Circolo Pickwick” di Ugo Gregoretti e una versione sofisticatissima del “Don Chisciotte” diretto da Carlo Quartucci com musiche di Giorgio Gaslini e scene di Giulio Paolini che la Rai di oggi boccerebbe di sicuro. Gigi era un favoloso Don Chisciotte che si aggirava per gli studi televisivi e Sandro Dori il suo scudiero Sancio Panza. Ne rimasi colpito al punto che rimase un mio riferimento personale per le poche cose che ho fatto di teatrale negli anni di liceo. Questo per dire che quando alla fine scoppiò un po’ nel cinema grazie a Mario Monicelli, “Brancaleone alle crociate”, dove ha vari ruoli, “La mortadella”, dove è protagonista accanto a Sophia Loren, e a teatro col “A me gli occhi please” scritto con Roberto Lerici da mattatore assoluto, Gigi Proietti, almeno per me, era già un mito assoluto. Se riempiva i teatri, ovvio, al cinema, dopo l’insuccesso di “La mortadella”, si decise, non si capisce bene perché, che non fosse troppo adatto, che non avesse la faccia giusta, che non funzionasse come richiamo per il pubblico. Salvo poi, contemporaneamente, utilizzarlo come doppiatore, dando la voce a Stallone nel primo “Rocky” (“Adrianaaaa!!!”), a Dustin Hoffman e, soprattutto, a Donald Sutherland nel “Casanova” di Fellini, con risultati memorabili. Quella di chiudergli le porte del cinema, almeno quelle maggiori, fu una decisione totalmente sbagliata, ma in qualche modo diciamo ne ha limitato lo sfruttamento che a più livelli colpirà tanti attori del suo calibro. Al punto che quando lo vedremo in “Febbre da cavallo” o in “Casotto” ci sembrerà davvero una meraviglia tenuta per troppo tempo nascosta. Dove eri Gigi? Proprio scorrendo la sua filmografia sembrava evidente che il suo ruolo ideale, nel mondo dello spettacolo, sarebbe stato quello di proseguire il lavoro dei colonnelli, Sordi-Gassman-Manfredi-Mastroianni-Tognazzi, avvicinandosi a un pubblico più giovane. Gassman aveva già fatto di tutto per lanciarlo, lo porterà anche in America per “Un matrimonio” di Robert Altman. Ma i produttori frenarono del tutto questo progetto. A Proietti, da una parte, rimase il cinema popolare, Steno e i suoi figli, Carlo e Enrico Vanzina, che, unici, lo trattarono come un patrimonio della commedia all’italiana anche negli anni successivi, e gli rimase il cinema diciamo sperimentale un po’ alla Brass e ancor di più alla Sergio Citti, che intuì perfettamente le chiavi romantiche romane grottesche di Proietti. E tutti i film che gireranno insieme saranno dei capolavori. Penso, oltre a “Casotto”, a “Due pezzi di pane” e, soprattutto a “Micio micio”, episodio di “Sogni e bisogni”, dove è il padrone di un micio che si deve accoppiare con una micia, ma i due padroni non capiscono che si tratta di due maschi. Citti offre a Proietti un cinema e un mondo pasoliniani ancora intatti dove potersi muovere. E Proietti sa come percorrerlo con grande eleganza. Certo, poi ci saranno il marescialli televisivi, il teatro con Gigi Magni, i grandi spettacoli dal vivo, perfino un tardo recupero al cinema con film anche recentissimi, da “Pinocchio” di Matteo Garrone, dove è Mangiafuoco al film di Natale 2020 “Io sono Babbo Natale” di Edoardo Falcone. Ma se mi chiedete quel che maggiormente ricordi di Gigi Proietti non posso non riandare con la memoria ai film dei Citti e di Brass, ai primi anni di teatro, a una meravigliosa edizione di “Alleluja brava gente” assieme a Rascel e a Mariangela Melato dove aveva preso il posto di Modugno, al suo Don Chisciotte. A quel repertorio dove doppio Casanova assieme a Fellini, e capisci che quel personaggio deve tanto a Sutherland quanto a Proietti. E mi rimane ancora la rabbia per non aver visto allora “La cena delle beffe” dove recitava assieme o contro Carmelo Bene. Troppo mattatori per poter dividere la stessa scena.
Dagospia il 2 novembre 2020. DA RTL 102.5. Maurizio Costanzo è intervenuto questa mattina in diretta su RTL 102.5 per ricordare Gigi Proietti, scomparso nelle scorse ore, all'interno di Non Stop News condotto da Fulvio Giuliani, Giusi Legrenzi e Pierluigi Diaco. Maurizio Costanzo avrebbe voluto organizzare un collegamento con Proietti in occasione dei suoi 80 anni in apertura alla seconda puntata del Costanzo Show ma si è risvegliato con la triste notizia della scomparsa dell'attore romano: "Che dire, oggi avrebbe compiuto 80 anni e quindi volevo salutarlo all'inizio della registrazione della trasmissione, invece potrò solo far fare un applauso al suo ricordo e al mio. Molti anni fa io e Proietti abbiamo vissuto nella stessa casa, sullo stesso pianerottolo, ed era molto divertente incontrarci alla mattina perché era molto foriero di battute, di situazioni. Che dire, è scomparso un grande attore, tutti lo sanno e non era prevedibile, almeno per quanto mi riguarda non sapevo dei suoi problemi. Rimarrà vivo nella memoria di tutti." "In genere la mattina ci vedevamo e mi raccontava delle battute, delle cose che evidentemente gli erano accadute di notte - aggiunge Maurizio Costanzo - Io facevo la radio allora, lui l'attore, ma non era ancora il Maresciallo Rocca, parliamo degli anni '70, un pò di tempo fa. È morto un grandissimo attore, per me dopo Gassman e Albertazzi c'era lui. Pensate allo Shakespeare che interpretava, me lo ricordo anche nelle commedie musicali. Poi Il Maresciallo Rocca, interpretato in maniera sublime, è diventato un personaggio rimasto nella memoria, forse ancora più della mandrakata."
Da ilmessaggero.it il 2 novembre 2020. «E' chiaro che io non mi metto a lavorare sotto la direzione artistica di Costanzo, me faccio frate, prima!». Trascinato da quel «dolore e stupore» che lo ha colto ieri quando ha appreso, a sorpresa, la notizia della sua sostituzione alla direzione del teatro di via Merulana con Maurizio Costanzo, Gigi Proietti si lascia andare. «A me personalmente mi provocano dei danni enormi - aggiunge - io avevo due spettacoli in produzione al Brancaccio». Il popolare attore, parlando a RadioCittaFutura, è netto nelle sue affermazioni: «Qui non ci sono né complotti né nient'altro: è successo che un proprietario non vuole avere più contatti col Comune perché c'avrà altri interessi economici. Qualcuno gli ha offerto di più e lui ha dato a Costanzo la direzione artistica». Quindi Proietti torna ad attaccare Costanzo: ««Il nemico vero, in quest'operazione del Brancaccio, del Teatro a Roma, del comune di Roma e di Gigi Proietti, è Costanzo. Io ho coraggio di dire la mia opinione e dico che se qualcuno mi avesse detto in quel teatro c'è la direzione artistica di Costanzo, siccome devono rinnovare il contratto perché non la prendi tu? Io ne sarei stato onorato, ma avrei rifiutato o, quantomeno, avrei fatto una telefonata, prima. Per cui il nemico, in senso metaforico (ma mica tanto metaforico), l'avversario culturale di questa situazione è Costanzo». «Sta di fatto - continua l'attore - che io non farò più il mio spettacolo che avevo già messo in cartellone, se la cosa rimane in questi termini. E invece del mio spettacolo ci sarà il suo spettacolo, che sarà sicuramente bellissimo, piacerà molto al pubblico, con Platinette e Calissano! Sul fatto che cambierà la cifra estetica non ci sono dubbi e non voglio dire se in meglio o in peggio». «Non ho padrini politici e ogni volta devo ricominciare sempre da capo e da solo...Ma vorrei tanto leggere l'opinione di chi segue la mia attività da anni, che credo potrebbe esprimersi su ciò che sta accadendo nei nostri teatri». Così Gigi Proietti aveva già commentato stamani il passaggio della direzione artistica del Teatro Brancaccio a Maurizio Costanzo, che si insedierà al suo posto il 1 agosto. «Non solo nessuno mi ha detto niente, ma sono dispiaciuto, stupefatto e addolorato - aggiunge - Ho fatto tanto e sono contento dei risultati raggiunti. Se ora qualcuno mi dice "vattene" e ha il potere di dirmelo, me ne vado, mica posso incatenarmi al Brancaccio. È la vecchia storia del cuculo: quando viene adocchiato un nido fatto bene, ci si mette qualcun altro». Poi aggiunge: «Ci tengo a dire che nessuno si azzardi a affermare che c'è responsabilità del sindaco. Il sindaco è quello che insiste più di tutti perché io resti al Brancaccio e vuole che si faccia di tutto perché io ci resti, perché sennò qui strumentalizziamo politicamente pure i cessi pubblici. Che nessuno mi tocchi il Sindaco. È una dichiarazione di voto, quasi, la mia». Direttore artistico del Brancaccio fino a fine luglio, Proietti aveva già preparato il prossimo cartellone: «La stagione mi è stata scippata. Per quanto mi riguarda, non potrò far altro che avvertire le compagnie che il cartellone 2007-2008 non mi riguarda più». Oltre a dire che una cosa simile gli era già successa anni fa, quando chiusero il suo laboratorio teatrale («dal quale sono usciti tanti nuovi talenti del palcoscenico»). Proietti ricorda di aver fatto «nascere ex novo anche il Brancaccino, il ridotto del teatro che non esisteva prima». Da tre anni, inoltre, è anche direttore del Globe Theatre, palcoscenico elisabettiano nel cuore di Villa Borghese: «un'altra scommessa vinta, abbiamo sempre il tutto esaurito». In cartellone al teatro romano per la prossima stagione era già previsto anche uno spettacolo di Costanzo, "A un passo dal cielo", scritto con Vaime.
Morto Gigi Proietti, il ricordo di Catherine Spaak: "Quando in "Febbre da cavallo" sfondammo il tetto". Arianna Finos su La Repubblica il 2 novembre 2020. L'attrice era Gabriella, la fidanzata di Mandrake nel film culto di Steno del 1976 "Febbre da cavallo". Tra le scene più esilaranti di Febbre da cavallo, film di Steno del 1976 diventato un culto, ci sono i duetti tra Catherine Spaak e Gigi Proietti. Lei, Gabriella, era la fidanzata bellissima a cui lui tenta di nascondere la febbre del gioco, con scarso successo visto che l'effetto collaterale della perdita è una temporanea incapacità amatoria.
Quando vi siete conosciuti con Proietti?
"Negli anni Settanta".
Com'era allora Gigi?
"Era uguale a come è sempre stato, il successo non lo ha cambiato. Quando l'ho conosciuto non era ancora famoso ma era lo stesso, istrionico, divertente e divertito, perché lui si divertiva per primo a tutto quel che faceva. Una persona gentile, educata, non è mai stato arrogante o superficiale, una persona molto attenta, un compagno di lavoro adorabile, inutile dire che era bravo, lo sanno tutti. lo hanno potuto apprezzare per anni. Una delle poche persone nel mondo del cinema veramente educata".
Del primo film, La matriarca di Festa Campanile che ricorda?
"Era il primo film di Gigi, era un ruolo piccolo, ma lui portava la sua grande personalità ed era evidente che avrebbe avuto un grandissimo successo da protagonista. Si capiva la sua energia anche fisica, lo sguardo i gesti, una presenza molto potente".
E di Febbre da cavallo di Steno?
"Quando me lo proposero accettai subito, mi era piaciuto il personaggio e la storia. Il ricordo più forte è quello della scena in cui litighiamo, io inizio a tirargli i piatti, poi saltiamo sul letto, sempre più su, sempre più su finché lui ha sfondato il sottotetto, abbiamo fatto un buco sul soffitto. Mi pareva di morire dal ridere. Quel momento è emblematico del modo in cui si lavorava a quei tempi, soprattutto con lui che era scatenato: non c'erano limiti. Quando si girava si poteva fare qualsiasi cosa, era capace di inventarsi una cosa all'ultimo momento e farla, pur restando attento ai dialoghi. Gigi aggiungeva qualcosa all'improvviso che regalava freschezza e divertimento".
Che atmosfera si respirava sul set?
"Leggera e piacevole. Se giri una commedia e l'attore si diverte riesce a divertire il pubblico. C'era grande complicità e allegria, non ricordo che Steno desse a noi indicazioni, sapevamo il testo della scena ma non ha mai detto né a me o Gigi qui "dovresti fare questo o altro", era contento fin dal primo ciak".
Come era arrivata nel film?
"Mi chiamarono e accettai subito, mi era piaciuto il personaggio e la storia. Gabriella era una donna concreta, ma piena di gentilezza, tatto. Avendo un compagno così, quando lei decide di giocare di nascosto i tre cavalli che avrebbe dovuto giocare lui vince perché ha capito che la sua essenza di giocatore vinceva su tutto e aveva le sue idee sulle corse, che era diversa da quella che lei aveva pensato. Infatti lei vince e lui perde. Ma il finale del film raccoglie bene questa mentalità di Mandrake, che non è sul treno che li porta nel viaggio dopo il matrimonio, torna a giocare e lei lo comprende".
Riuscivate a non ridere nelle scene?
"Nel litigio gli ho mollato schiaffi potenti e lui era contentissimo, aiutavano la sua mimica, il suo chiamarmi "Passerotto", fingendo che tutto andasse bene... dal primo schiaffo si entrava nel personaggio e si era concentrati, gli schiaffi sono schiaffi. Poi dopo lo stop ci buttavamo per terra dalle risate".
Vi eravate rivisti negli anni?
"Qualche tempo fa io lo avevo intervistato per una rivista, è stato carino e affettuoso, l'ho visto in scena nei vari monologhi, è stato sempre un rapporto affettuoso anche se da lontano. Nel nostro mondo soprattutto per le donne è difficile...Ma comunque tutti noi ci incontriamo, ci amiamo moltissimo, lavorando insieme, recitando, ci si avvicina molto l'uno all'altro, è un mestiere di contatto, di anime".
Lei ha recitato con grandi attori e registi. Qual era la caratteristica speciali di Proietti attore?
"L'empatia. Entrava in scena ed era già amico di tutti. Aveva un modo di comunicare con la sua mimica, anche silenzioso era comunicativo, e quindi questo suo viso, questo suo modo di essere davanti agli spettatori era già amico, complice di tutti loro. Questa credo era una delle sue caratteristiche".
Ha rivisto negli anni Febbre da cavallo?
"Non rivedo i miei film. Di quel film mi facevano ridere tutti i momenti con Gigi e la scena di Montesano che in farmacia si fa dare i soldi indietro perché la nonna è morta, irresistibile".
Gigi Proietti era consapevole di essere anche un uomo attraente?
"Non lo so, era una persona educata e un compagno di lavoro attento e rispettoso nei confronti delle donne, cosa non frequente nel cinema di quegli anni. Sagitta era una persona molto importante per lui, lo è stata per sempre. Questa è una mia sensazione, ma credo che Gigi vivesse per il suo lavoro, per essere attore e avere alle spalle questa famiglia solida era necessario per il suo equilibrio di uomo, oltre che di attore. Il fatto di essere bello o no non era un suo punto di riferimento. Le posso aggiungere una cosa?"
Dica.
"Gigi era una attore enorme, amava il teatro immensamente. Ci sono tanti attori oggi che soffrono dal punto di vista economico, vorrei cogliere l'occasione per lanciare un appello al ministro Franceschini di raccogliere fondi, tutti noi, per aiutare le persone, gli attori che sono in grandissima difficoltà in questo momento".
Addio Gigi Proietti, funerali giovedì in piazza del Popolo e lutto cittadino. In tanti arrivano in clinica a rendergli omaggio. Luca Monaco su La Repubblica il 2 novembre 2020. Molti artisti e cittadini comuni a Villa Margherita per salutare il grande artista scomparso all'alba di oggi. Il cordoglio di Raggi e della comunità ebraica: "Shalom Gigi". Stasera una grande foto dell'attore sulla facciata del Campidoglio e sul Colosseo. Volti commossi e visi in lacrime. Roma si sveglia con un dolore immenso e molti, tra comuni cittadini, attori, addetti ai lavori, allievi e persino turisti in queste ore stanno dando luogo a un vero e proprio pellegrinaggio all'esterno della clinica romana dove questa mattina, intorno alle 5, è morto Gigi Proietti per dargli un ultimo saluto simbolico. I funerali dell'artista verranno celebrati giovedì, nella chiesa degli artisti di piazza del Popolo in forma privata. Amici, conoscenti, semplici ammiratori e anche la sindaca Raggi e attori come Tullio Solenghi. In tanti si sono recati sotto Villa Margherita, la clinica romana dove all'alba è morto l'attore. La famiglia ha mantenuto il massimo e oggi dice: "Sarà ricordato come merita nei tempi e modi da definire". Si parla di esequie pubbliche ma con ingressi contingentati. Gli amici di famiglia accanto alle allieve del suo laboratorio di esercitazioni sceniche, i cittadini arrivati con le lacrime agli occhi e un fiore in mano sull’uscio della clinica Villa Margherita per ricordare il grande attore, il Maestro “semplice e generoso”. L’immagine più alta della romanità. E’ piegato dal dolore Filippo Laganà, il figlio di Rodolfo, che considerava Gigi Proietti il suo “secondo padre”. Con la madre Gloria Fegiz ricorda i tanti momenti trascorsi insieme alla famiglia Proietti a Ponza, in 30 anni di vicinanza e frequentazione: “Tra Rodolfo e Gigi c’era un rapporto speciale - ricorda Fegiz - Gigi era una persona di una semplicità unica, di una generosità straordinaria, come del resto la moglie, le due figlie. Non voleva diventare un ottantenne”. “Per me era un grandissimo punto di riferimento - aggiunge Filippo - quando l’anno scorso ho avuto un trapianto di fegato mi è venuto a trovare molte volte a Tor Vergata. Per me era un papà’ e che papà’”. Tullio Solenghi: “Non è mai stato autocelebrativo, è sempre stato un romano del popolo, era un genio normale. Spero che gli intitolino il teatro Brancaccio”. L’attrice Nadia Rinaldi: “Ci ha sempre trattato come suoi figli, ci ha rilasciato la patente per fare questo mestiere. Lo consideravo il mio papà. Quando mi sono spostata, nel 2003, mio padre era già scomparso: mi ha portato all’altare, me l’aveva promesso e ha mantenuto”. Laura Cipollina, una fan residente al quartiere Trieste, 67 anni, pensionata, stringe tra le mani una foto del Maestro: “Per me Gigi Proietti è la persona che più di tutti ha rappresentato non solo l’arte, ma un simbolo di onestà, pulizia, serietà. Era un grande esempio, era quello che dovrebbe essere ognuno di noi”. “Sta mandrakata non ce la dovevi fa”, recita un messaggio che spunta tra i sei mazzi di fiori lasciati dai fan lungo il muro di cinta della clinica. “Gigi oggi è’ diventato immortale - ripete Viviana Altieri, mentre lascia una bottiglia di campagne personalizzata con il numero 80, a ricordare il compleanno dell’attore - l’ho portata su richiesta di mio fratello Piero Altieri a nome di tutti gli allievi del maestro. Sulla bottiglia avrebbero dovuto mettere 2020 che ora è’ diventato il simbolo della sua immortalità”. Fa un passaggio discreto anche Alessandra Infascelli, la produttrice di Febbre Cavallo, che oltre a ricordare la grandezza dell’attore sottolinea “la squisitezza della moglie Sagitta, delle due figlie: sono tre persone straordinarie”. Naturalmente l'accesso a Villa Margherita, la clinica dove il grande attore era stato ricoverato, anche per rispettare le norme anti Covid, é consentito solo a familiari ed amici stretti. Molti lasciano dei fiori davanti ai cancelli e scappano via. "Un pezzo di Roma che se ne va. Grazie di tutto, Maestro". Così in un post sull'account ufficiale la As Roma ha voluto ricordare l'attore romano Gigi Proietti, tifoso giallorosso, scomparso oggi nel giorno del suo 80esimo compleanno. Intanto la famiglia fa sapere che i funerali saranno in forma pubblica, con ingressi contingentati. E a Villa Margherita arriva anche la sindaca. "Sono venuta a portare il mio saluto a un grande maestro. È Una tristezza profondissima. Roma perde una parte della sua anima. Adesso proclamerò il lutto cittadino per il giorno delle esequie. Siamo chiaramente molto vicini alla famiglia, agli amici e a tutti quelli che gli volevano bene", dichiara Virginia Raggi. "Ci lascia #GigiProietti nel giorno del suo 80° compleanno. Artista poliedrico, icona del mondo dello spettacolo da sempre amico della nostra Comunità e simbolo di #Roma. Che il suo ricordo sia di benedizione". Così, in un tweet, la Comunità Ebraica di Roma, ha ricordato Gigi Proietti scomparso questa notte a Roma che lo saluta con una foto e la scritta "Shalom Gigi".
Laura Bogliolo per ilmessaggero.it il 9 novembre 2020. Aveva chiesto di essere cremato e poi sepolto nel cimitero Acattolico di Testaccio. Lui, Gigi Proietti, un pezzo di cuore di Roma e del teatro nazionale, lui, l’attore più vicino ai romani che hanno voluto ricordarlo con murales che tappezzano la Capitale dal Tufello all’Appio, dove aveva frequentato il liceo classico Augusto. Gigi proietti sembra essere rimasto “incastrato” in una delle sue barzellette, in quelle frasi che sono in bilico tra realtà e finzione. È presumibile che la sua salma, considerando la drammatica situazione dei cimiteri capitolini, possa attendere una settimana prima della cremazione. Così ha scritto Il Messaggero l’altro giorno, ricordando il triste tsunami che ha travolto il cimitero Flaminio di Prima Porta dove decine e decine di salme da giorni aspetterebbero una cremazione. Nei registri del Flaminio il suo nome non compare tra quelli in programma nelle prossime ore e dunque è verosimile supporre che passerà qualche giorno. Insomma, nella pagina nera del lungo elenco di figuracce alla romana c’è anche questa. E mentre i romani e chiunque abbia a cuore il teatro, la recitazione, soffrono, dalla Campania arriva un appello. «Dopo aver appreso della notizia delle difficoltà incontrate, con probabile slittamento di una settimana nella cremazione della salma di Gigi Proietti al cimitero Flaminio abbiamo deciso di offrire alla famiglia la nostra piena disponibilità ad effettuare gratuitamente la cremazione». A parlare è Emilio Liquori, amministratore dell’impianto Tempio Mater di Castel Volturno. I problemi di Roma sulle cremazioni purtroppo sono noti. Tempo fa una figlia denunciò l’attesa di oltre 50 giorni per ottenere le ceneri del papà. Una storia a parte, fatta di burocrazia ed errori, ma sembra che l’ultimo cammino dei romani non sia ancora del tutto privo di ostacoli. Dopotutto già alla fine di ottobre era stato comunicato che negli ultimi tre mesi i decessi a Roma erano cresciuti notevolmente e che le richieste di cremazione erano aumentate. Da parte sua, Ama che gestisce i servizi cimiteriali, aveva dato istruzioni alle agenzie funebri della Capitale per evitare «code nell’espletamento delle operazioni cimiteriali». Tra gli ostacoli, ci sono stati i lavori di manutenzione nei forni crematori. Ama aveva fatto sapere che «i lavori di manutenzione sulla sesta linea del forno crematorio del Flaminio sono conclusi ed è stata richiesta a tutti i soggetti preposti l’accelerazione dell’iter amministrativo propedeutico alla cremazione per potenziare la capacità di far fronte alla domanda crescente».
Caos nei cimiteri capitolini, anche Gigi Proietti in fila per la cremazione. Sono ancora decine le salme che aspettano di essere cremate nel cimitero Flaminio, compresa quella di Gigi Proietti. Secondo l'Ama i disservizi sono dovuti al picco di morti causato dal Covid. Ma le associazioni attaccano: "Colpa di burocrazia e disorganizzazione". Alessandra Benignetti, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Non c’è solamente il picco di decessi registrati negli ultimi tre mesi dietro il caos che sta investendo il cimitero Flaminio, nella zona nord della Capitale. Secondo le associazioni alla base dei problemi ci sarebbe soprattutto la disorganizzazione dell’amministrazione capitolina. "Ad agosto è stato saturato il cimitero Laurentino e quindi le persone residenti nel quadrante sud della Capitale hanno dovuto iniziare a trovare soluzioni alternative per i feretri – spiega al Giornale.it Valeria Campana, portavoce del Comitato Tutela Cimiteri Capitolini - la prima, ovviamente, è la cremazione, che consente di collocare l’urna cineraria in un’altra tomba". "In questi anni – va avanti Campana – per una serie di errori tecnico burocratici il Campidoglio non è riuscito ad ampliare, modificando il piano regolatore, il cimitero Laurentino e neppure a liberare circa 1300 sepolture al Verano, che potevano essere messe all’asta così da dare una boccata d’ossigeno sia in termini di spazio che finanziari". "L’aumento di decessi delle ultime settimane, quindi – denuncia – ha solo aggravato una situazione già al limite, visto che il numero delle salme che aspettano di essere cremate è di due o tre volte superiore a quello dei morti per Covid nel Lazio". Nella Capitale, anche per colpa del nuovo coronavirus, i decessi sono cresciuti del 25 per cento soltanto nel mese di ottobre. Per evitare "congestioni" nei cimiteri la scorsa settimana Ama ha messo in campo due soluzioni: il trasferimento di parte delle salme in una "sala d’attesa" allestita al cimitero del Verano e l’attivazione della "sesta linea del forno crematorio del Flaminio" per potenziare le attività. "Resta intatta la capacità di soddisfare tutte le tipologie di operazioni cimiteriali", assicurava la municipalizzata in una nota diramata nei giorni scorsi. Ma secondo le associazioni sarebbero ancora centinaia le salme che attendono di essere cremate. In coda c’è anche quella di Gigi Proietti, l’attore scomparso la scorsa settimana per un attacco cardiaco. Secondo Il Messaggero la sua famiglia potrebbe dover attendere almeno una settimana per la cremazione. Tanto che un impianto di Castel Volturno, in Campania, si sarebbe offerto per effettuarla gratuitamente". Per gli altri, però, l’operazione non si preannuncia semplice. "Chi vuole andare a cremare il caro estinto fuori comune - ci spiega, infatti, Valeria Campana - non può farlo se non dietro il pagamento di una tassa di circa 250 euro, senza dimenticare le restrizioni sugli spostamenti dettate dall’ultimo dpcm". Intanto la figuraccia del Campidoglio fa indignare il mondo politico. "Come si può arrivare a questo?", si domanda su Twitter il candidato sindaco della Capitale, Carlo Calenda, commentando l'odissea toccata alla salma dell'artista romano. Sulla questione sono intervenute anche le consigliere Dem Valeria Baglio e Giulia Tempesta, che denunciano come lo scorso anno "i soldi allora stanziati in bilancio per le manutenzioni straordinarie dei cimiteri, tra cui le manutenzioni dei forni crematori e la realizzazione di altri sei nuovi impianti", non sono mai "arrivati a destinazione". "Il presunto picco di mortalità delle ultime settimane è solo una giustificazione meschina per nascondere l'impreparazione e l'immobilismo della giunta che da tempo era al corrente dei problemi cui sarebbe andata incontro, senza l'avvio di manutenzioni dei luoghi e lavori di adeguamento dei servizi", attaccano in una nota. "Questa situazione – concludono - non è figlia di un'emergenza temporanea, ma è una precisa responsabilità dell'amministrazione Raggi che da tempo sarebbe dovuta intervenire". È la stessa posizione sostenuta dal Codacons, che nei giorni scorsi ha annunciato un esposto contro Ama per interruzione di pubblico servizio.
Gigi Proietti, quello spiritaccio che amava l’arte dello scetticismo. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 2 novembre 2020. Dalle variazioni sui sonetti del Belli fino all'ideazione di un teatro shakespeariano dentro Villa Borghese, un talento che ha attraversato Roma. In fin dei conti la vera romanità è poliedrica, variabile e multiforme. Non si lascia imprigionare in quelle quattro o cinque macchiette - il bullo (poi coatto), il magnone, il tonto, il satiro, il pretino - che subito vengono in mente. Perché Roma, anche a teatro, è universale; e se c'è stato un artista che a tale sfuggente attitudine ha saputo dare volto e corpo, beh, Gigi Proietti sembrava nato per questo - e adesso che è morto si capisce come mai hanno subito proiettato la sua foto sul Campidoglio e sul Colosseo. E il paradosso è che l'apoteosi monumentale celebra una maschera - quel ciuffo, quegli occhiacci, quel nasone - che nel raccontarsi non si prendeva mai troppo sul serio, anzi con rara e sorridente umiltà sosteneva di aver esercitato l'alta sua vocazione secondo la logica del "'ndo cojo, cojo", ossia a casaccio. Mentre in realtà dietro quel variegatissimo percorso (attore, cantante, ballerino, trasformista, doppiatore, conduttore, regista, manager e maestro di tanti), così come negli slanci, negli sguardi sbilenchi o nelle smorfie di cupa o gioiosa meraviglia, si avvertiva qualcosa di molto antico che forse solo a Roma si esprime compiutamente: il motore segreto dello scetticismo, quella sorta di sapiente e diffidente incuriosità che da secoli consente al popolo romano di giocare a buzzico rampichino con Sua Maestà il Tempo e quindi di affrontare il vuoto del presente attraverso le forme, i picchi e gli abissi della parodia. Romano era Gigi Proietti (cognome che nel Centro Italia si dava ai trovatelli), di spiccato nomadismo: nato a Sant'Eligio, dalle parti di via Giulia, poi trasferitosi con la famiglia al Colosseo ("ma no dentro" chiariva), poi nei quartieri alti ("però sottotera", cioè in un seminterrato), poi all'Ina Casa del Tufello, poi all'Alberone, a Cinecittà, a via dei Giubbonari, al Flaminio e alla fine, negli anni del benessere e dei riconoscimenti, in fondo alla Cassia, quasi allo sprofondo. Disse di Roma, ancora una volta misurandone la contraddittoria varietà: "Città eterna e fragile, tragica e ironica, cinica e innamorata". Ma pur sempre unica, assoluta e di tutti, a cominciare dai morti. Con tale solenne consapevolezza, come un tributo dovuto ai Grandi, si rivolgeva alla santissima trinità dell'interpretazione romanesca: sorvegliato e bonario nel leggere le poesie di Trilussa; incuriosito, ma accorto dinanzi a Cesare Pascarella, il più difficile perché il più intellettuale; mentre rispetto al genio del Belli si permetteva variazioni e virtuosismi a nessun altro consentite, tipo spezzare il ritmo sacro del sonetto accennando a un canto (vedi su YouTube Er Miserere de la sittimana santa). Per il resto, tutto Proietti ha fatto a Roma, moltissimo avendo dato alla sua città, dai night per militari e donne di servizio fino a impiantare un teatro shakespeariano a villa Borghese, dal riempimento dello stadio Olimpico (era assatanato della Roma) a quella sua rinomata scuola di recitazione che sta lì a dimostrare quanto gli stesse a cuore il teatro come generosa trasmissione di tecnica e di virtù. Spiritaccio, senza dubbio, però mai malevolo; comico senza nemmeno un filo di buffoneria o volgarità, a riprova che ci sono romani che sanno stare al proprio posto; lontano mille miglia dalle polemiche e dai pettegolezzi. Insomma un puro, e forse anche per questo straordinario in quei suoi monologhi di sferzante assurdità, discorsi imbrogliati apparentemente senza capo né coda nei quali però lasciava sbocciare qualche suono, aho'!, qualche gesto, qualche segno, qualche mezza parola che di colpo illuminavano le magagne della quotidianità, troppo caotica per non riderci su. Cinema, tv, radio, regia, scrittura, poesia. Ma nulla meglio del teatro, soprattutto sul versante del cabaret, della rivista, del varietà. Dal che Gigi Proietti può proclamarsi a pieno titolo e in via definitiva l'unico grande erede di Ettore Petrolini, un altro sublime interprete romano che sapeva fare il bullo, il gagà, l'intellettuale fasullo e l'imperatore in bilico tra il ridicolo e la morte. Attori che segnano le generazioni. Così la Città eterna fa un inchino e ringrazia - senza paura che qualcuno nei pressi faccia lo spiritoso.
Il testamento di Gigi Proietti: "Io, Roma, e la più bella battuta della mia carriera". Paolo Boccacci su La Repubblica il 2 novembre 2020. Da via Giulia a via Annia, da Villa Borghese al Tufello, l'intervista definitiva del grande attore sul legame con la città. I ristoranti, i teatri, gli amici e quelle passeggiate tra buche e sampietrini: "Amo anche la muffa delle fontane quando sono a secco". “Sono nato a via Giulia, ma per favore non mi domandate niente di lì, perché non ricordo nulla. Sono andato via con la mia famiglia da quell'appartamento quando avevo nove mesi. Poi ci siamo trasferiti a via Annia, una stradina del Celio, accanto all'Ospedale militare. Lì andavo a scuola alle elementari alla Vittorino da Feltre e il primo ricordo che mi porto ancora appresso è un odore, l'odore dei libri, mescolato a quello della merendina che mia madre mi metteva dentro la cartella. Avevo due cartelle nere, rigide, di una fibra un po' strana, che si potevano anche mettere a tracolla. E mi viene ancora in mente, nonostante fossi piccolo, la vergogna di mettermi il grembiule e il fiocchetto, il fiocco insomma. Non l'ho mai sopportato. Ero un bambino e a Roma nella primissima mattina era consentito di passare addirittura davanti a piazza del Colosseo per andare sulla via del mare”. Gigi Proietti, il Grande Attore e Roma. Gigi Proietti si raccontava così in una delle ultime lunghe interviste sulla città tanto amata, rilasciata come testimonial della Guida di Repubblica ai Piaceri e ai Sapori di Roma e del Lazio del 2019. Ci eravamo incontrati sulla terrazza di un hotel al Pinciano, dove stava girando gli altri episodi di “Una pallottola nel cuore”, la serie tv di Rai 1. Davanti a noi a perdifiato la vista dei tetti. “Da via Annia” ricordava nel suo ritorno al passato “abbiamo cominciato a girare e siamo andati ad abitare vicino via Veneto, in un appartamento di fortuna, dopo la guerra. Ci siamo stati due, tre anni e ho conosciuto un luogo che ricordo benissimo e che poi è uno strano ritorno, Villa Borghese, perché andavo al cinemetto, che si chiamava dei Piccoli o Topolino e stava vicino alla Casina delle Rose, dove d'estate facevano il varietà e da dietro un canneto, avevo nove anni, vidi tra le canne, c'era una specie di recinto di piante, Billi e Riva, che facevano lo spettacolo. Però non sentivamo bene. Un posto dove sono tornato adesso, dato che ho avuto la fortuna di incontrare un sindaco lungimirante, che era Veltroni, che capì l'importanza di mettere su un teatro a Villa Borghese, il Globe Theatre”. Ma a via Veneto non ebbe il tempo di annusare la Dolce Vita. “No, subito dopo eravamo andati ad abitare in periferia, al Tufello, perciò non avrei potuto assistere alla Dolce Vita, perché ero troppo piccolo. Ma Villa Borghese è importante, ero rimasto colpito dalle fontane e soprattutto da quella specie di muffa verde che fanno quando sono a secco. La vedo ancora adesso e anche le statue un po' sbrecciate della villa. Era molto affascinante per me perché non ne capivo tanto le ragioni, ma sono immagini che mi sono rimaste impresse. Come le fontane di piazza Farnese, che un tempo stavano dentro Caracalla, pochi lo sanno ma è così. Poi quando stavo al Tufello la vera Roma non l'ho più frequentata per un po' di anni perché praticamente la borgata era in costruzione ed era lontanissima. Oggi sembra molto più vicina, ma allora bisognava prendere due autobus per arrivare fino al Centro, il 36 e il 60, tutta via Nomentana”. Poi le storie del liceo: “L’ho fatto all'Augusto sulla via Appia, perché poi dal Tufello ci eravamo spostati con la mia famiglia nella zona dell'Appio Latino, quindi la scuola più vicina era l'Augusto, una scuola pubblica, e naturalmente era in un periodo che precedeva il '68, per cui non ho conosciuto le manifestazioni della contestazione. C'erano ancora professori educati all'era fascista, qualcuno ci sarà ancora credo”. Naturalmente non perdeva la battuta, l’aneddoto. “C'era un certo Collina che ai primi appelli che facevano all'inizio di scuola non rispondeva, perché non c'era. E questo Collina non è mai venuto. E allora c'era sempre qualcuno che, quando il professore chiamava “Collina”, diceva “presente”. Facevamo a turno. Oggi mi piacerebbe conoscerlo questo Collina”. E i sapori della Città Eterna? “Ricordo una cosa importantissima. Non mi vergogno di dirlo. Allora c'erano i fagottari. E anche la mia famiglia ogni tanto faceva la fagottara, quando andava fuori la sera. Mia madre diceva “stasera andiamo a cena fuori”, però la cena te la portavi. D'estate specialmente dove c'era la pergola. Si prendeva il vino e casomai forse un primo, se volevi, sennò portavi tutto da casa”. La trattoria si chiamava La Rosetta. “Era all'Appio Latino” ricordava l’attore “dove c'era un cartello: “Accettanzi cibbi propi” accettanzi con la zeta, cibbi con due b e propri senza una r. Ed era una grandissima festa. Mia madre faceva le cotolette panate, però col sugo, perché le doveva mettere dentro una pentola e se non c'era il sugo s'attaccavano. E allora venivano come una specie di pizzaiola, diciamo così, accatastate una sull'altra, e arrivava il momento di mangiare. A volte, quando eravamo particolarmente ricchi, ci compravamo la pizza e poi le cotolette panate, una per una, mi raccomando, diceva mamma. E c'erano anche famiglie di amici. Questo m'è mancato poi all'improvviso, la conoscenza di altre persone, la comunità, il senso della comunità”. Ma a Roma i Proietti non avevano parenti. “No, parenti a Roma io non ce l'ho. La mia famiglia viene dall'Umbria e dall'alto Lazio, siamo semiburini insomma. C'era mia sorella, ma ancora non era fidanzata, però c'erano altre famiglie con le quali si poteva andare a fare queste uscite, che sostituivano le gite fuori porta dell'Ottocento. Prima c'erano le osterie, poi, per darsi un tono, le hanno chiamate hostarie, con l'h davanti”. E poi il teatro, l’incontro con le scene. “Successe quando andavo all'università, ero un ragazzetto. Oggi ci sono tanti teatri, c'è la televisione, c'è una maggiora promozione dell'attività teatrale, anche se il teatro è sempre in crisi, ma comunque... Allora era una cosa molto lontana, anche dalla scuola. Non è che uno uscisse dal liceo sapendo qualcosa di teatro. Ma io andando all'università mi iscrissi al Centro universitario teatrale che si ricostituiva allora dopo la guerra, e mi presero, non so nemmeno perché. Onestamente, non sapevo fare proprio niente. E questa fu l'occasione che mi avvicinò poi al teatro perché ero incuriosito e ho cominciato ad andare a vedere degli spettacoli”. Ed ecco dove. “La nostra era una scuola di teatro di tutti i ragazzi e quindi c'era un attimo di contestazione al sistema teatrale tradizionale, come sempre succede, difatti da quella scuola uscì addirittura Leo De Berardinis, Calenda, insomma noi giovani di allora. Il primo spettacolo che ricordo non era proprio il primo che ho visto, ma quello che mi colpì molto, uno spettacolo di Carmelo Bene, del quale poi sono diventato amico e con cui abbiamo fatto ditta insieme. E mi colpì tantissimo, anche se non è che riuscissi a fare una critica interpretativa, però aveva un fascino, lo sappiamo benissimo, già da allora. Faceva il Caligola di Camus, e poi ho cominciato ad andare, ho visto tanti spettacoli. Però per un due tre anni dopo la scuola io non partecipai più, perché dovevo laurearmi. E intanto la notte cantavo. Ho cantato in tutti i nigth di Roma, meno che all'"84". Al Pipistrello, al Capriccio, alle Grotte del Piccione dei fratelli Gabrielli. Quando io cantavo, lì stava finendo la Dolce Vita e anche il night stava per diventare discoteca, a dir la verità ancora non discoteca, ma piano bar e poi discoteca. Vennero fuori i gruppi, i Beatles e tutto cambiò”. Ed ecco come era quella Roma. “Beh, una Roma abbastanza notturna, io l'ho odorata solo un po' la Dolce Vita, quando via Veneto era ancora illuminata e c'era il passeggio. Ma stava nella fase terminale della sua gloriosa vita. E a parte via Veneto, Roma ne ha cinque-sei di Centri, c'è il centro umbertino, c'è quello imperiale...”. E la Roma da vivere? “Mah, per viverci, per esempio un quartiere popolare ma simpatico è stato sempre Prati. Lì c'erano degli appartamenti con i soffitti alti che mi piacciono molto. Poi è chiaro che se ci mettiamo a vedere quali sono le zone migliori, uno non finisce più. C'è l'Aventino, che è molto elegante, un po' triste, però, insomma... Poi quando sono andato via da casa mia, non cacciato ma andato via in armonia perfetta, sono tornato in Centro storico, Campo de' Fiori, via dei Giubbonari, proprio davanti alla sezione di Regola Campitelli del Partito Comunista. E cominciava l'avventura del teatro professionale. Ancora non ero convinto, perché facevo l'università, si fa per dire, perché gli esami non li davo mai, per ritardare il servizio militare”. Ma a teatro arrivano i primi successi. “A Roma ci sono due momenti fondamentali, il primo è quello del musical che ho fatto con Garinei e Giovannini, che mi proposero “Alleluja brava gente”. E di lì a non molto, dopo quattro anni, lo spettacolo che mi porto ancora dietro, che è “A me gli occhi please”. E oltre al teatro c’è la buona tavola. “La Rosetta era una trattoria. “Accetto i cibbi propi” mi faceva proprio ridere. Da quando ho cominciato a fare il teatro, si frequentavano i ristoranti aperti nel dopo teatro. Non ce n'erano molti, per esempio da Dante, beh la notte si va da Dante. Io poi spesso vado all'Isola della pizza, ci tengono aperto. Io mangio proprio le cose che mi piacciono e poi siamo amici con i proprietari. Amo il convivio, non sono un grande mangione, mi piace stare insieme a cena, ci piace fare i pettegolezzi, bere il buon vino. Da giovane ero un mattiniero poi piano piano sono diventato giocoforza un nottambulo per il tipo di lavoro che faccio”. Non mancano gli incontri romani con gli amici: “Uno che ho frequentato era Gassmann, uno dei miei più grandi amici, anche se era più grande di me. Con lui abbiamo assaggiato parecchie cose. Ho una fotografia a casa in cui io e Vittorio facciamo una specie di ghigno e dietro stranamente, in un ristorante, non ce ne eravamo accorti, c'era la fotografia di Giovanni XXIII. E sembra che siamo in tre, è incredibile, è bellissima". Non è finita. C’è la storia del ristorante. “Anche io ho avuto il mio ristorante a piazza Fontanella Borghese. Mi era venuta perché volevo mettere su un posto per il dopo teatro, solo per il dopo teatro. La mia idea folle, da pazzi, era di fare questo ristorante per attori, registi, e lo volevo chiamare “Il leggio”, volevo mettere un grande leggio al centro e se qualcuno voleva recitare qualcosa magari gli davo il vino gratis, poi se faceva addirittura qualcosa di più, si guadagnava la cena. Non l'ho fatto più purtroppo, ma menomale perché mi sono accorto che in questo ristorante, che era fatto proprio con lo scopo di vedere i colleghi, gli attori nun so' mai venuti. Si, i miei amici venivano, ma insomma alla fine un giorno un collega sincero mi disse: “Ma sai, noi ci diciamo: che devo anda' a porta' i soldi proprio a Proietti?”. E allora capii che insomma.... Ma è andato avanti per parecchio tempo questo ristorante. Erano gli anni Ottanta. Anche se alla fine ho dovuto ammettere che ognuno deve fare il suo mestiere, che la ristorazione è un arte, difficilissima. Per fortuna lo abbiamo venduto bene. Molti colleghi hanno avuto ristoranti. C'hanno provato in tanti, chissà perché. C'era Renzo Arbore che ha avuto un ristorante anche importante sopra piazza del Popolo. Tanti hanno tentato, perché andando a mangiare al ristorante uno vede l'effetto superficiale, non sa cosa c'è dietro. Coi cuochi che vanno via, che la sera dicono “me ne vado. Allora c'erano moltissimi egiziani, sono dei bravi cuochi. E a un certo punto magari trovavano qualcuno che li pagava di più e se ne andavano via all'improvviso. E te lasciavano così, con le scatolette”. Ma c’è anche la Roma più amata, quella da non perdere: “Non c'è che l'imbarazzo della scelta, come si fa? Poi vista dall'alto è una cosa, vista da sotto un'altra, un po' come Venezia, dove un conto è andare in gondola tra i rii, vedi un'altra Venezia. E così è Roma. Il piacere che avevo di girare una volta per Roma con un grande amico, che era Gigi Magni, era quello di passeggiare con una delle guide più preziose che la città potesse avere, addirittura sapeva tutto di ogni sampietrino, credo che conoscesse anche le date delle buche...E quindi io sono contento di stare qui e ho lavorato anche tanto per la città. Ho aperto addirittura tre teatri e una scuola di recitazione. Il Brancaccio, dove prima c'erano le ragnatele, il Brancaccino e il Globe Theatre Silvano Toti, che non esistevano. "Il Globe ha assunto un'identità nostra anche se è una copia di quello inglese. Sarà per il legno, il legno in mezzo agli alberi, sarà per questa specie di clima un po' favolistico e per il fatto che non c'è traffico, non c'è il problema del parcheggio. E' come stare dentro un'oasi nella città e se uno vuole rilassarsi un momento può sedersi al bar un attimo e si sta tranquilli. E poi volendo si sente pure una poesia di Shakespeare. Non tutti gli spettacoli vengono capolavori, ma alcuni sono importanti. “Molto rumore per nulla” l'abbiamo recitata in italiano, in siciliano e in inglese. Il siciliano con la traduzione di Camilleri, che ha studiato la riscrittura con un siciliano antico”. In ultimo un finale alla Proietti sulla più bella battuta romana. “E’ una che capitò a me e che racconto sempre in scena. Prima di fare l'attore strimpellavo con la chitarra e cantavo una canzone che diceva: “So' stato carcerato pe' un capriccio, perché portavo in berta un coltellaccio”. Però tra “carcerato” e “capriccio” c'era una piccola pausa. Una volta l'ho cantata in una Casa del Popolo, c'era un pubblico..., insomma, un ambientino. E quando ho detto: “So' stato carcerato”, ho sentito una voce: “Poco””.
Addio Gigi Proietti, gli applausi per te non si spegneranno mai. Il grande attore è morto nel giorno in cui ha compiuto 80 anni. Una carriera di successo, il rapporto unico con il pubblico e la sua città, l'amore per il teatro. «Viva il teatro dove tutto è finto, ma nulla è falso» diceva. E lui, che ha interpretato migliaia di personaggi, falso non lo è stato mai. Marco Damilano su L'Espresso il 2 novembre 2020. Gigi se n'è andato oggi che eravamo pronti a festeggiare i suoi ottant'anni, mentre il vuoto sembra divorare tutto, il vuoto delle strade e delle piazze, il vuoto dei politici che considerano improduttivi i vecchi. Mentre la platea è chiusa e il palcoscenico disabitato, mentre i teatri sono chiusi. Roberto Lerici aveva scritto per lui questa canzone stupenda, che lui recitava con l'intensità di una preghiera. Contro l'amore, «masticato da cento letterati, vomitato da principi prelati, un amore di fradicia letizia, che assolve tutto, pure l’ingiustizia, elargito per grazia del potere perché tutti ne possano godere» Un amore «deforme, malandato, generato dal vecchio capitale, fra le cosce del mondo occidentale», una «facile mania, il fascino merdoso di questa borghesia». Per questo amore, abbassava la voce Gigi, «è meglio non cantare», in attesa che torni, presto, il tempo in cui sarà possibile innamorarsi ancora. Era il 1978, l'anno del rapimento Moro, Proietti riempiva il Teatro Tenda per “A me gli occhi please”, in piazza Mancini vicino allo Stadio Olimpico dove oggi c'è un capolinea di autobus. Doveva durare sei giorni, per un buco nella programmazione, andò avanti quattro anni. Facevano la fila per vederlo tutti, l'alta borghesia e il popolo, una volta ci fu un allarme bomba e Gigi accelerò lo spettacolo per non spaventare il pubblico. Una sera nel camerino spuntò Federico Fellini e poi Eduardo De Filippo. Dietro il pianoforte, nella sua casa, l'angolo nobile, c'era la foto che ricordava questo incontro, il grande Eduardo, il giovane Gigi emozionato, tra i momenti più preziosi di una vita. «Viva il teatro dove tutto è finto, ma nulla è falso», aveva scritto Proietti in un sonetto, una volta se lo ritrovò in una trasmissione televisiva con il noto presentatore che aveva rubato la citazione. Poteva travestirsi da mille personaggi in scena, ma nulla era falso in lui. Al contrario, odiava i trasformismi, le sperimentazioni che per provocare tradivano il pubblico: «Sai la provocazione! C'è una mancanza di rispetto nei confronti della gente che vuole vedere le cose. Hanno sempre sentito parlare di Amleto, ma non glielo hanno mai fatto vedere, cazzo! Ma Amleto come muore, lo sa qualcuno, è morto di tetano? Io faccio il Globe Theatre, il teatro elisabettiano a Villa Borghese, solo per un motivo: voglio fare vedere alla gente se alla fine di Otello Iago muore!». Non era falso il pubblico, che impazziva per lui. Ricordo una notte bianca a Roma, 2006, a mezzanotte, centinaia, migliaia di persone ad ascoltarlo tra il Campidoglio e piazza Venezia mentre faceva il vecchietto delle favole che si incasinano - «cammina cammina, stanno tutti a cammina' dentro ar bosco delle favole che sembra il Tritone all'ora di punta». Il pubblico faceva lo spettacolo, dava il ritmo delle battute, le frenate e le accelerazioni. Un muro umano di cinquemila persone a sera nella cavea dell'auditorium per i Cavalli di Battaglia, nelle sere di estate, o a capodanno, e lui che fiutava gli umori di ciascuno, sapeva immedesimarsi nel respiro e nella risata di ogni singolo spettatore che si sentiva abbracciato, riconosciuto. Le barzellette erano un linguaggio universale. Le parodie, le amava (la mia preferita: lo chansonnier, nun me rompe er ca). E il viso, gli occhi, la bocca, la voce, il corpo dell'attore solo sul palco che sa far ridere quasi senza parlare (la telefonata). O emozionare, come nella Pietà di Nicola Piovani, dove era la voce recitante. La sua interpretazione più bella, però, è stata drammatica. Edmund Kean, il grande attore shakespeariano di inizio 800 destinato al declino. Lo portò in scena sul palco, nel suo Globe Theatre, con il pubblico seduto per terra ad ascoltare per ore lui, solo, i capelli bianchi, il monologo dell'attore che dà il suo addio al teatro e alla vita. Era un maestro venerato, certo, e ci scherzava su, ricordando anche qualche amarezza ricevuta dalla politica. Ma era rimasto un ragazzo entusiasta, curioso, generoso. Lo ricordo così: un papà orgoglioso delle figlie Carlotta e Susanna, legatissimo alla sua Sagitta per cui animava indimenticabili befane svedesi a casa sua. Tirava tardi perché c'era sempre l'ultima canzone da suonare, l'ultima barzelletta da raccontare e l'immancabile saluto: «ma come, già andate via, domani lavorate tutti?». Era l'inchino finale al suo pubblico che amava all' infinito, fosse un teatro pieno o un pugno di amici. Oggi tocca a noi inchinarci a lui. Per un applauso che non si spegnerà. E che torni, torni presto il tempo in cui ci si innamori.
Addio Gigi Proietti, ultimo mattatore. L'intervista: «Roma mia, non ti riconosco più». E' morto a 80 anni il grande attore Ripubblichiamo questa lunga intervista in cui si raccontava a tutto campo. Perché "la vita è solo invenzione", ma anche per la sua amata città, "ormai estranea a se stessa". Stefania Rossini su L'Espresso il 22 luglio 2015. E' morto l'attore Gigi Proietti. Ricoverato da giorni in una clinica romana per accertamenti, era stato colpito ieri da un grave scompenso cardiaco. Da subito le sue condizioni erano apparse molto serie. Proprio oggi Proietti avrebbe compiuto 80 anni. In una carriera lunga oltre 50 anni ha spaziato dal cinema al teatro. Anche senza essere suoi fan, anche se incuriositi soprattutto dalle quattromila persone che lo seguono incantate, lo anticipano nelle battute, si muovono al suo comando e lo applaudono per ogni guizzo, alla fine è impossibile non rimanere coinvolti nello straordinario rito teatrale messo in scena dal grande mattatore. E registrare ancora una volta l’intensità del rapporto tra Proietti e il suo pubblico, quello che lo accompagna da cinquant’anni senza scarti generazionali, che corre in massa ai suoi spettacoli e che anche in questi giorni ha affollato la cavea dell’Auditorium di Roma, fino a imporre repliche non programmate. Il recital “Cavalli di battaglia”, summa di un’intera carriera, con le radici in quello spettacolo primigenio “A me gli occhi, please” che nel 1976 consacrò Proietti beniamino della città, conferma infatti il legame carnale tra l’artista e il suo popolo, che lui sollecita e accarezza evocando, con sketch e canzoni, una Roma che non c’è più e immaginandone, con poche speranze, una migliore. Fino a commuoversi e a rimanere stupito del suo stesso successo.
Migliaia di persone che l’applaudono e lei che li ringrazia quasi incredulo. Possibile che non sia ancora assuefatto al successo?
«Si vede, eh? Quando il pubblico è così tanto, o ti caccia nei primi cinque minuti o lo conquisti e te lo porti fino alla fine. Ma quello che mi commuove davvero è accorgermi che mi viene riconosciuto un po’ di lavoro fatto per la mia città».
Con i suoi spettacoli?
«Io questo so fare, mica mi posso occupare di fogne. Mi vanto però di aver aperto nel corso degli anni ben tre teatri, mentre molti venivano chiusi. La scommessa è stata quella di costruirmi un pubblico mio e poi accompagnarlo ad apprezzare anche altri generi, anche i più difficili. Basta farlo con leggerezza, senza atteggiamenti elitari. “Aiutiamo la cultura”, dicono tutti. “Cominciamola a fà”, dico io. Roma ce n’ha proprio bisogno».
Già, Roma. Lei che ne è il testimonial più celebre, ha idea di che cosa sia successo a questa città?
«Non è riuscita a capire che è diventata una metropoli, non ce la fa proprio. Basta andare un giorno in una qualsiasi grande città europea per accorgersene. Anche se non potrei vivere un sampietrino più in là, io Roma non la riconosco più».
Che cosa è cambiato davvero?
«È diventata brutta, scomposta, estranea a se stessa. Non è più un’unità, ma è una somma di almeno sette città con anime diverse. Periferie che non si conoscono l’una con l’altra. Una volta volevo fare una radio che si chiamasse “Radio raccordo anulare” al solo scopo di mettere in contatto le persone. Ogni tanto qualcuno si sveglia e ripete: “Bisogna portare la cultura in periferia”. Questa è una frase da querela, come quando sento che bisogna esportare la democrazia. La nostra? Me vie’ da ride».
Che effetto le ha fatto la notizia che questa città potrebbe essere in mano alla mafia?
«È stato un pugno nello stomaco, perché le piccole ruberie ci sono sempre state. Tu mi dai una cosa, io ti faccio un favore... Ma la criminalità organizzata in collusione con la politica è una novità terrificante».
Però i romani sembrano già averla assorbita. Si è chiesto perché non reagiscono?
«Forse perché hanno contribuito pure loro a questa situazione. Quando Toto, il mio personaggio, dice: “Ma lassa perde... ma chi te lo fa fà...”, racconta l’eterna mollezza dei romani. È questo che ci frega, perché la libertà, come diceva Gaber, è partecipazione».
E come si partecipa nella città che sta descrivendo? Ha qualche ricetta?
«Guardi, trent’anni fa, un assessore geniale, Renato Nicolini, inventò l’Estate romana, amalgamando nella città barocca interessi e culture diverse. Dopo di lui, tutto si è sciolto, si va di qua e di là senza un coordinamento. Però le invenzioni vanno adeguate ai tempi. Senza fare paragoni, posso parlare del mio Globe?»
Certo, è il bel teatro shakespeariano che ha ideato con Veltroni.
«Veramente l’idea è stata mia. Io gliel’ho proposta quando, nel 2003, cercava un modo per celebrare i cento anni di Villa Borghese. Lui, che è un grande comunicatore, l’ha presa al volo e abbiamo fatto questo teatro, dove ogni estate migliaia di cittadini vedono ottimi spettacoli a prezzi bassi grazie anche ai finanziamenti del Comune. Adesso però sta rischiando di brutto. Con l’aria che tira, dicono: “Vedremo in seguito se ci sono soldi”. Io ho aperto ugualmente la stagione. Speriamo che venga tanto pubblico e non ci si rimetta troppo».
Che opinione ha del sindaco Marino?
«Non ho un’opinione. L’ho votato per una sorta di autodisciplina, sulla quale però comincio ad avere qualche perplessità».
Di solito per quale partito vota?
«Per il Pci».
Ma non c’è più!
«Appunto».
È un modo teatrale per dirci che è rimasto comunista?
«Mio padre era iscritto, io non ho mai preso la tessera. Però, sì, ero comunista e nonostante tutte le critiche che si potevano fare, per esempio sul centralismo democratico, c’era del buono. Poi ho sperato nell’Ulivo che doveva mettere insieme le parti più virtuose dell’area socialista e di quella cattolica. Invece si sono contaminate a vicenda. Ora non c’è niente. Spero in un’illuminazione».
C’è Renzi.
«Non lo conosco. Lo vedo in tv e, come tutti i bravi comunicatori ogni tanto mi sembra che mi convinca. Poi non so se è lui che molla me o io che mollo lui. Ci sono delle pause tra noi».
Ma questi politici vengono mai a vederla in teatro?
«Poco. L’altro giorno c’era Zingaretti, tempo fa vidi D’Alema. Veltroni viene sempre, ma lui non è uno spettatore, è un complice».
Lei mette il teatro al centro di ogni sua riflessione, ma nella sua vita artistica c’è anche il cinema. Perché non ne parla mai?
«Perché io al cinema non je so mai piaciuto. Ne ho sofferto un po’, ma ho dovuto accettarlo».
Ma come? Ha lavorato con registi come Altman e Tavernier. Il film di Steno “Febbre di Cavallo”, dove è un protagonista esilarante, è ormai un cult.
«L’hanno riscoperto quindici anni più tardi, ma quando uscì non incassò una lira. C’è poco da dire, non facevo cassetta. A lungo non l’ho nominato per scaramanzia, ma c’è un film che mi ha chiuso le porte del cinema, “ La mortadella” del povero Monicelli con Sophia Loren. Non lo ha visto nessuno».
Però è noto che Fellini le aveva offerto la parte di Casanova.
«Macché, me l’aveva fatto sperare, come faceva lui da serpente incantatore qual era. Poi dette la parte a Sutherland. Quando ebbe il problema di doppiarlo, mi fece cercare e io risposi: “Manco morto”. Allora mi telefonò lui “Giggiaccio non fare così... spara la cifra che vuoi”. Ne sparai una enorme e il povero Federico non seppe mai che l’avrei fatto anche gratis, perché è stata un’esperienza meravigliosa».
Insomma, lei piaceva ai grandi. Anche De Filippo si innamorò di lei.
«Non esageriamo, però è vero che il povero Eduardo venne a vedermi in “A me gli occhi, please” e, anche se il massimo delle sue risate furono un paio di ghigni come era suo solito, alla fine dello spettacolo prese le mie mani fra le sue e le alzò verso il pubblico in segno di approvazione. Mica come mia madre».
Che cosa fece sua madre?
«Mi riportò sulla terra con una sola parola. Venne in camerino e mentre tutti si affannavano a dirmi bravo, bravissimo, io le chiesi: “Ma’, ti è piaciuto?”. “Abbastanza”, rispose. E aveva ragione lei».
Nella sua autobiografia lei racconta quasi con orgoglio le condizioni modeste della sua famiglia di origine. Viene da chiederle se queste sono state un problema o uno stimolo al successo.
«Nessuna delle due cose. Mio padre, che faceva un mestiere umile e mi aveva portato fino all’università, voleva che mi laureassi. Ma cantando nei night, guadagnavo già più di lui. Poi il teatro mi ha preso e i miei hanno accettato il mio successo con una semplicità che mi fa ancora tenerezza».
Ora è lei ad avere due figlie nel mondo dello spettacolo. Ne è contento?
«Ho lasciato che scegliessero. I primi tempi che stavano in scena con me, ero molto imbarazzato, mi sentivo nudo. Forse perché mi vedevano nell’intimità del mio rapporto con il pubblico. Comunque penso di essere stato un buon padre».
È stato anche un buon marito?
«Sarebbe difficile dirlo perché non mi sono mai sposato. Il dato che conta è che sto in coppia da più di cinquant’anni, da quando una giovane svedese, che era poco più di una ragazzina e faceva la guida turistica, portava interi pullman di connazionali nel locale dove cantavo. Poi, in tutto questo tempo, abbiamo avuto le nostre burrasche. Ma ne siamo venuti fuori, anche perché, contrariamente a quanto si spettegola, io non sono certo un tombeur de femmes».
E non sarebbe ora di sposarsi?
«Ne stiamo parlando in questi giorni per la prima volta. Aspettavamo la legge sulle coppie di fatto, ma sembra che le vogliano fare solo per gli omosessuali. Dicono: voi avete già il matrimonio. Mi sa che mi tocca sposarmi, fosse solo perché Sagitta non ha ancora la cittadinanza italiana».
Proietti, in questa conversazione lei ha nominato diverse persone dello spettacolo che non ci sono più e per ognuno si è un po’ rammaricato, dandogli del “povero”, come si usa molto a Roma...
«Me sta a chiede’ se penso alla morte? Ci penso, però non sono molto originale perché, come tanti, ho paura del dolore, della morte cattiva».
Veramente, l’ho vista cantare e saltare per due ore in palcoscenico e volevo chiederle dove trova tanta energia a 75 anni.
«Le confesso che prima di quest’ultimo spettacolo mi stavo abbioccando, un po’ di tv, un po’ di spot. So bene quali sono i limiti dell’età, non posso progettare a lunghissimo termine. Però ho due figlie e, siccome credo che continueranno a fare questo mestiere, vorrei inventare qualcosa che loro possano portare avanti. Insomma, cerco un teatro».
C’è il Teatro Valle. Hanno cacciato gli occupanti un anno fa ed è ancora lì, abbandonato. Perché non prova a chiederlo?
«Ci provi lei e mi faccia sapere. Io ci vado di corsa».
Gigi Proietti: «Vi racconto tutto sul mio Globe». Paola Medori su Il Quotidiano del Sud il 9 novembre 2020. Intervista realizzata nel luglio del 2019. «Il Globe è il mio fiore all’occhiello», si emoziona Gigi Proietti che quest’anno festeggia 16 anni di direzione artistica del Silvano Toti Globe Theatre. Un cerchio di legno nel cuore di Villa Borghese. La sua creatura. Un luogo che tutte le estati diventa un viaggio nel tempo, dedicato al grande repertorio shakespeariano ed elisabettiano. Storie di passioni, gelosie, d’amore e morte, di virtù e vizi umani di allora e di oggi. Sul palco gli attori shakespeariani e il Maestro Proietti, l’istrione papà. Interprete poliedrico, instancabile e dalla forte presenza scenica. Uno dei primi a fare un teatro d’autore e d’attore che arrivasse a molti. Voce profonda, sorriso accattivante, l’artista, classe 1940, è talento puro, da quando magro e alto debuttò nell’Arlecchino e con testi di Flaiano, Arbasino e Vollaro. Preciso, quasi in modo ossessivo. Sotto i riflettori parla con il corpo, gli occhi e tutto se stesso. E con la sua arte, sospesa tra il colto e il popolare, porta in scena da Brecht a Moravia, dalle straordinarie opere del genio di William Shakespeare al Maresciallo Rocca, passando per l’incallito scommettitore Mandrake in Febbre da Cavallo. Una carriera unica, da one-man-show, divisa tra teatro, cinema, televisione, doppiaggio, regia, canto e insegnamento. Lo abbiamo incontrato in una calda mattinata al Globe per farci raccontare l’amore per il suo gioiellino popolare.
«È una delle realtà più interessanti. Ogni volta che mi guardo intorno mi sembra quasi di sognare. E mi spinge a voler continuare».
Come nacque il progetto del Silvano Toti Globe Theatre?
«Nel 2003, in occasione del centenario della donazione della villa da parte della famiglia Borghese al Comune di Roma, l’amministrazione capitolina chiese, a me e ad altri artisti, di fare uno spettacolo qui a Villa Borghese. In quell’occasione mi venne in mente di fare quello che accade in tante altre capitali estere: a New York, ad esempio, c’è la manifestazione “Shakespeare in the Park”, dove tutte le estati vengono rappresentate opere di Shakespeare».
La sua emozione è tangibile, un traguardo culturale inaspettato?
«Sono molto emozionato, pensando che questo teatro esiste da 16 anni e prima non c’era nulla. Siamo riusciti ad andare avanti insistendo, e non era semplice, spinti dall’entusiasmo siamo arrivati a questo traguardo. Sarà un anno di festa, riproponendo i nostri più grandi successi amati da critica e pubblico. Shakespeare e il teatro elisabettiano non hanno mai fine. Siamo riusciti a fare una media di cinque grandi produzioni all’anno, più altri spettacoli con caratteristiche didattiche e di informazione».
Quale è stato il compito del Globe in tutti questi anni?
«Far conoscere i grandi classici, per ora shakespeariani, ad un pubblico che sente parlare di Otello, ma sa solo che è geloso e non conosce il dramma raccontato nei versi del drammaturgo. Anche se poi facciamo anche noi ricerca con spettacoli di altri tipi, divaricanti dal filone principale, nel pomeriggio o programmandoli il lunedì».
Un amore assoluto per il teatro di Shakespeare, un autore eterno.
«Shakespeare ha avuto stagioni alte e basse. Dall’800 in poi si è incominciato a capire la sua grandezza, un gigante per la coscienza degli uomini. Basti pensare che in Europa, prima di lui, si facevano sacre rappresentazioni, con Shakespeare c’è stato un salto pazzesco. Ha scandagliato e anticipato la psicanalisi. Ha scavato nell’inconscio».
Quale è l’indicazione artistica del suo Globe?
«Fare un teatro d’attore, e ci stiamo riuscendo. Evidentemente la scelta iniziale è stata premiata. Credo che da quando portiamo in scena Shakespeare, che non si faceva tanto spesso nei teatri, le produzioni in giro sono aumentate. Non dico che sia merito nostro però forse in qualche modo abbiamo contribuito al suo rilancio».
Molto rumore per nulla, una nuova edizione de La bisbetica domata, La tempesta con Ugo Pagliai, Sogno di una notte di mezza estate, e poi Merchant of Venice in lingua originale. Cartelloni di altissimo livello eppure non è uno spazio d’elite ma per tutti.
«Sono stupefatto di essere arrivato con un trend di crescita, fino a quasi 68 mila presenze nella scorsa stagione. È pazzesco. Ed è sempre pieno di giovani che si interessano al teatro elisabettiano, non solo alle commedie ma anche alle tragedie. Li vedi seduti per terra, sui cuscini attentissimi. Sembrava quasi che mancasse questo luogo, come se i cittadini se lo aspettassero. Questo mi rende molto orgoglioso».
Fra le novità anche un concorso di corti e il gemellaggio del Globe con il Teatro Flora di Penna San Giovanni, piccolo teatro barocco e unico superstite nella provincia di Macerata dopo il terremoto del 2016.
«Su otto teatri, sette sono stati distrutti dal sisma ed è rimasto in piedi solo un piccolo straordinario teatrino tutto in legno, come il Globe. Faremo uno scambio, li ospiteremo qui nelle matinée dedicate alle scuole e manderemo due delle produzioni di Politeama per la stagione del Globe: Sonetti d’amore e Playing Shakespeare. Il teatro sottolinea ancora di più quella sua vocazione pubblica. Ci auguriamo una stretta collaborazione con l’amministrazione per quella koinè che desideriamo possa cominciare ad esserci».
Tra i segreti del Globe c’è anche il suo essere meno “ingessato” rispetto ad altri luoghi di cultura.
«Credo di sì. È un teatro popolare non solo nello spettacolo ma anche nel luogo, nel suo approccio, come si presenta e dal tipo di accoglienza. Poi, quando all’interno hai un pubblico che comincia a seguire la logica delle stagioni, si possono provare anche delle azioni più ardite. E credo che dalla prossima stagione per noi ci saranno delle novità, anche dal punto di vista formale. Ma è un po’ presto per parlarne».
A me gli occhi please, Globe Theatre e Febbre da Cavallo sono tra le sue maggiori soddisfazioni professionali?
«Si, ci metto anche lo spettacolo su Kean, il film con Altman e forse qualcos’altro, di cose ne ho fatte. Ma comunque Mandrake è imbattibile, è il personaggio più popolare a cui io sia legato, per il quale il pubblico continuamente per strada mi ripete battute. Alcuni mi ci chiamano proprio, “a Mandrà…”. Credo che in pochissimi non l’abbiano visto. Sanno tutte le battute a memoria, non c’è generazione che non lo conosca».
Partendo dal nulla è diventato una star: ecco la storia del successo di Gigi Proietti. Le sue umili origini non gli hanno impedito di diventare un'icona dello spettacolo. Ecco come un ragazzo delle borgate è arrivato a esibirsi sui palcoscenici più importanti d'Italia. L'Espresso il 22 luglio 2015.
1940 Luigi Proietti, detto Gigi, nasce a Roma il 2 novembre, secondogenito di Romano, tuttofare in un palazzo nobiliare, e di Giovanna Ceci, casalinga. La famiglia si trasferirà presto nella borgata Tufello.
1958 Prende la maturità classica al liceo Augusto e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che lascerà a pochi esami dalla laurea. Frequenta i corsi del Teatro dell’Università.
1962 Incontra Sagitta Alter, guida turistica svedese, con la quale convive da più di cinquant’anni. La coppia ha due figlie: Susanna, attrice, e Carlotta, costumista.
1963 Partecipa allo spettacolo “Can Can degli italiani” di Giancarlo Cobelli, dove tra l’altro mette in musica l’aforisma di Flaiano: “Oh come è bello sentirsi...”
1971 Garinei e Giovannini lo chiamano a sostituire Modugno in “Alleluja brava gente”. È l’inizio del successo.
1976 Con lo show “A me gli occhi, please” al Teatro Tenda di Roma si rivela grande mattatore. Lo spettacolo, che doveva durare pochi giorni, avrà due mesi di affollatissime repliche e lo accompagnerà, con continui aggiornamenti, per tutta la vita.
1978 Fonda e dirige un Laboratorio per giovani attori. Nel frattempo ha girato diversi film, tra cui il più famoso resta “Febbre da cavallo” di Steno.
1981-95 Dà prova di notevole poliedricità con spettacoli su Fregoli e su Petrolini, con il suo “Cyrano de Bergerac” e con la regia di opere liriche.
1996 Dopo molte presenze in show e sceneggiati, il successo televisivo arriva con “Il maresciallo Rocca”, a tutt’oggi replicato con buoni ascolti.
2001 Assume la direzione del Teatro Brancaccio che terrà fino al 2007.
2003 Da una sua idea nasce il Globe Theatre di Roma, costruito a villa Borghese sul modello del teatro inglese seicentesco. Da allora lo dirige senza mai recitarvi.
2010 Interpreta San Filippo Neri nella fiction tv “Preferisco il Paradiso”.
2013 Esce la sua autobiografia “Tutto sommato qualcosa mi ricordo” (Rizzoli).
2015 Con “Cavalli di battaglia”, summa del suo repertorio più famoso, richiama ancora una volta migliaia di spettatori all’Auditorium di Roma.
Due sonetti per l'Espresso. Gigi Proietti offre e dedica i suoi versi ai nostri lettori. Il primo inedito e il secondo riadattato: ecco le rime che l'artista ha scritto per noi. L'Espresso il 22 luglio 2015.
La curtura in periferia
“La curtura ha d’annà in periferia!”
E mo’? Ricominciamo co’ ’sto strazio?
Ma questa è diventata ’na mania.
Ogni tanto ce tocca pagà er dazio,
e sopportà qualcuno che je pijala
la fissazione de trovà “lo Spazio”.
Tira fori sta vecchia litaniae
nun se ferma mai, nun è mai sazio.
Dico: “Ce so’ i Teatri de Cintura,
propio perché quarcuno ce penzassea
trasferì du’ chili de curtura”
e tutti li teatranti se so’ illusi
de potella portà fori le Mura.
Ma pare che i Teatri l’hanno chiusi...
E nun è finita
Disse er procuratore soddisfatto:
“Vedrete che je leveremo er vizzio.
Per adesso er primo passo è fatto
e questo non è artro che l’inizio”
Me dissi allora “Sto a diventà matto.
Pure Roma mo’ sta ner precipizio?”.
E nun fu solo quarche mentecatto:
'na carettata annarono a giudizio.
Poi so’ aumentati da matina a sera.
L’acchiappano così ’ndo cojo cojo.
Io ripeto de fa’ in questa maniera:
Quest’inchiesta va liscia come l’ojo?
Invece de portà tutti in galera
conviè mette le sbarre ar Campidojio!
Dagospia il 3 novembre 2020. "SONETTO PER ALBERTO SORDI" DI GIGI PROIETTI
"Io so' sicuro che nun sei arrivato ancora da San Pietro in ginocchione,
a mezza strada te sarai fermato a guarda' sta fiumana de persone.
Te rendi conto sì ch'hai combinato,
questo è amore sincero, è commozione,
rimprovero perché te ne sei annato,
rispetto vero tutto pe' Albertone.
Starai dicenno: ma che state a fa',
ve vedo tutti tristi nel dolore
e c'hai ragione,
tutta la città sbrilluccica de lacrime e ricordi
'che tu non sei sortanto un granne attore,
tu sei tanto di più, sei Alberto Sordi".
27 febbraio 2003
GUARDANDO VITTORIO CHE DORME - SONETTO PER VITTORIO GASSMAN DI GIGI PROIETTI
Vittò, che brutto scherzo che c'hai fatto!
Ma che se fa così? Senza di' gnente?
Te ne sei annato zitto, quatto quatto,
e m'hai fregato, insieme a tanta gente!
Ma famme un po' capì: che gnente gnente
è tutta 'na finzione? Nun fa' er matto!
Nun è che stai a dormì serenamente,
poi t'arisveji e zompi come'un gatto?
Arzate, su, la recita è finita.
Vatte a cambià, ch'annamo ar ristorante;
semo attori, lo famo da 'na vita...
Lì, cor bicchiere, strilleremo forte
- rompendo li cojoni a chi è presente -
ch'ha da morì quella bojaccia Morte!
FAVINO RICORDA PROIETTI
Però ‘n se fa così, tutto de botto.
Svejasse e nun trovatte, esse de colpo a lutto.
Sentì drento a la panza strignese come un nodo
Sape’ che è la mancanza e nun avecce er modo
de ditte grazie a voce pe' quello che c’hai dato
pe' quello che sei stato, perché te sei inventato
un modo che non c’era de racconta' la vita
e ce l’hai regalato così un po’ all’impunita,
facendo crede a tutti che in fondo eri normale,
si ce facevi ride de quello che fa male,
si ce tenevi appesi quando facevi tutto,
Parla’, balla’, canta’, pure si stavi zitto.
Te se guardava Gi’, te se guardava e basta
come se guarda er cielo, senza vole’ risposta.
All’angeli là sopra faje fa du risate,
ai cherubini imparaje che so’ le stornellate,
Salutece San Pietro, stavolta quello vero,
tanto gia’ ce lo sanno chi è er Cavaliere Nero.
ANNA FOGLIETTA RICORDA PROIETTI.
So’ distrutta..le lacrime me scennono e nun smetteno..te ne sei annato così, in quest’anno maledetto dar Signore, dove tutti semo ansiosi e preoccupati.. te ne sei annato e manco te potemo da’ quell’abbraccio che te saresti meritato, pe’ tutte le risate che c’hai regalato, pe’ tutta la spienseratezza che c’hai fatto provà..c’hai reso leggero er core e questo Giggi caro nun c’ha prezzo. Sei destinato all’immortalità , fattene ‘na raggione, e noi poverelli destinati a vive ancora su sto monno storto, nun ce resta che ricordasse de le battute tue, de li racconto infiniti, de la risata tua che rimbombava dappertutto. Giggi sei nostro e sto passaggio infame all’artra vita, te deve accoglie co’ tutte le riverenze der caso, perché sei grande, come grandi erano l’applausi che la gente, er popolo, te faceva..nun finivano più, e te, co l’imbarazzo der pupo te ne stavi sul palco quasi ‘ntimidito.. eppure eri un re! Nun c’era er trono o er mantello de zibellino, ma tu c’avevi dentro la regalità de li signori... mettetevi in ginocchio perché Giggi nun ce sta più , e st’applauso mò deve sonà più forte de prima.
Da ilmessaggero.it il 5 novembre 2020. «Grazie, grazie perché sei stato un costante punto di riferimento, perché hai elevato questo mestiere. Perché mentre tutti parlavano di cultura, tu la facevi. Per averci fatto ridere fino alle lacrime. Perché tu eri il “10” in squadra. E quando dicevi “A me gli occhi” noi ti consegnavamo il cuore e tutta la nostra ammirazione». Così Edoardo Leo, nel suo «saluto composto e scomposto», omaggia Gigi Proietti. Tutti, anche la sindaca, molto commossi, uno dopo l'altro sono saliti sul palco accanto alla bara ricoperta di rose rosse: Marisa Laurito, Pino Quartullo, Valentina Marziali (la prima Giulietta al Globe), Paola Cortellesi («ascoltandoti, da piccola pensavo che Amleto fosse una storia tanto allegra», racconta); Enrico Brignano che, ammette, «dopo il non ci sei» non riesce a mettere la parola «più»; Walter Veltroni, che ne ricorda l'ironia ma anche l'impegno culturale politico. «Tutta la città - conclude Edoardo Leo, citando il sonetto che Proietti recitò in occasione dell'ultimo saluto ad Alberto Sordi - sbrilluccica de lacrime e ricordi. Che tu non sei solo un grande attore. Tu sei molto di più. Sei Gigi Proietti» L'intervento via Skype della sindaca Raggi, in auto-isolamento perchè positiva al Covid. «La città di Roma si stringe attorno alla famiglia di Gigi Proietti. Roma non lo dimentica. Già ci manchi. È il lutto della città, come ha detto la figlia Carlotta», ha spiegato Raggi. Ed ha annunciato: «Quando finirà la pandemia organizzeremo qualcosa di più grande. C'è bisogno di sentirlo ancora accanto a noi». Il ricordo di Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord: "Oltre ad esser stato un profondo conoscitore del teatro shakespeariano con le sue opere e tragedie, Gigi Proietti aveva intuito la potenza del dialetto. Aveva compreso quanto fossero importanti i dialetti per un popolo. A me stava simpatico per questa sua attrazione fondamentale per il dialetto".
Da romatoday.it il 5 novembre 2020. "Se oggi fosse stato un giorno qualsiasi, lontano dalla lotta che stiamo tutti conducendo contro questo cavaliere bianco, a salutare Gigi qui sarebbe venuta tutta Roma: vigili col fischio, vetturini, pensatori, macellai e musicisti. Proietti era colto, aveva studiato, pensato e scritto ma ha cercato sempre di coniugare la qualità al pubblico. Era un intellettuale popolare, colto e semplice". Questo uno dei passaggi del discorso che l'ex sindaco di Roma, Walter Veltroni, ha tenuto al Globe Theatre di Villa Borghese dove si è tenuta la cerimonia funebre per Gigi Proietti. "Magnifica è stata la vita di Luigi Proietti, in arte Gigi- ha aggiunto- e quanto stupore e dolore può creare in milioni di persone l'improvvisa uscita di scena di attore. L'Italia intera, già provata da questo anno, ha pensato che la sua morte fosse davvero troppo. Quando ascoltavi Gigi si aveva la rassicurante sensazione che dietro un'irrefrenabile risata c'era anche qualcos'altro di colto: ti sentivi più intelligente ridendo. Per lui la risata aveva un valore liberatorio e quasi rivoluzionario". Ed ha aggiunto: “far ridere gli altri è una virtù” rarissima, la risata in un mondo ingrugnato ha un valore liberatorio, quasi rivoluzionario. Gigi adorava far ridere gli altri. Ovunque. Sempre". "L'Italia con gli occhi smarriti di questo anno livoroso ha pensato che la morte di Gigi Proietti fosse troppo - ha proseguito Veltroni - E' come se qualcuno, chissà dove, con eccesso di perfidia ci sfilasse le persone che ci regalano i momenti più belli della vita". Veltroni poi ha anche ricordato i giorni della nascita del Globe Theatre di Villa Borghese. "Sembrava una follia quando riuscimmo in pochi mesi a realizzare questa struttura- ha detto- invece ora questo è diventato il luogo dell'educazione teatrale per moltissimi ragazzi".
L’ultimo abbraccio di Roma a Gigi Proietti. I funerali dell’attore scomparso il 2 novembre. Il Dubbio il 5 novembre 2020. Un ultimo saluto per le vie della città. Roma, oggi a lutto, si stringe a Gigi Proietti, l’attore scomparso all’alba di lunedì nel giorno del suo ottantesimo compleanno, per un lungo e commovente abbraccio. Il feretro, scortato dalle forze dell’ordine, partito dalla clinica Villa Margherita sulla Nomentana, dove il grande mattatore si è spento, ha raggiunto il Campidoglio per un saluto, anche da parte dell’Assemblea capitolina, rappresentata dal presidente Marcello De Vito, che oggi sostituisce la sindaca Raggi, a casa per Covid. Dopo una sosta, il feretro è arrivato al Globe Theatre, il teatro shakespeariano fortemente voluto da Gigi Proietti che sarà intitolato all’attore. Ad attenderlo le maestranze, che hanno omaggiato con un lungo applauso il passaggio della salma. Il corteo prosegue verso la Chiesa degli Artisti per le esequie blindate e in forma strettamente privata a causa dell’emergenza covid. Saranno solo 60 le persone che potranno sedersi nella Chiesa di Piazza del Popolo. Per evitare assembramenti nella piazza del Valadier, ma anche in via del Corso, su piazzale Flaminio e una parte di Villa Borghese, ingressi chiusi e spazi interdetti ai cittadini e alla circolazione. Purtroppo in epoca di pandemia gli sarà negato il bagno di folla di un popolo che ha amato e seguito Gigi Proietti a teatro, in televisione, al cinema. Come era accaduto per Alberto Sordi e Fabrizio Frizzi. Ma fuori dalla chiesa molti fan sono arrivati alle prime luci dell’alba. «Abbiamo dormito qui, siamo qui per lui», «Gigi era il numero uno, con lui se ne va un pezzo di storia, nessuno lo dimenticherà», dicono alcuni. Sul muro della chiesa degli Artisti un messaggio che recita «a te, oh re del palcoscenico, un regno fatto di scene, battute, copioni, luci e di un sipario che si è chiuso per te, per l’ultima volta. Buon viaggio Gigi». «Quello che provo oggi è una sensazione di sgomento. È come se si fosse spenta una luce. Gigi aveva la capacità di farti sentire meno solo, protetto», dice Alberto Angela durante la lunga diretta che Rai Uno sta dedicando ai funerali. L’attore romano aveva lavorato con Alberto Angela partecipando ad alcuni programmi tv. L’ultima apparizione nella puntata di Ulisse dedicata a Elisabetta II. Ed ha ricordato ancora: «Gigi è stato come una divinità… che è scesa improvvisamente dall’Olimpo. Un uomo colto, un intellettuale del popolo, un uomo grande e umilissimo. Impossibile dimenticare l’interpretazione dell’Orazione funebre di Antonio per la morte di Cesare che declamò nella puntata di Ulisse consacrata a “Cleopatra, la regina che sedusse Roma”».
L’ultimo infinito abbraccio di Roma a Gigi Proietti. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 5 Novembre 2020. Il corteo funebre del Maestro è passato per il Campidoglio, facendo un giro intorno al Marco Aurelio e poi si è diretto a villa Borghese. La sua commemorazione a piazza del Popolo, nella chiesa degli Artisti. E Roma si ferma piangendo il suo amato Gigi. Un ultimo saluto per le vie della città scortato dalle forze dell’ordine, nel giorno in cui è stato proclamato dal sindaco di Roma il lutto cittadino e la sua Roma è scesa in campo con il lutto al braccio. Nel silenzio commosso di una Roma semivuota a causa dell’emergenza Covid, il feretro di Gigi Proietti è stato avvolto da un lungo applauso avvicinandosi alla chiesa degli Artisti in piazza del Popolo per il funerale. Il virus gli ha negato il bagno di folla, ma l’immagine del grande attore continuerà a campeggiare sui muri di Roma. I romani si sono affacciati ai balconi, fermandosi per strada, per battere le mani un minuto a Gigi Proietti. Le telecamere della Rai hanno trasmesso questo suo ultimo viaggio in diretta. “Un giorno di grande dolore per la città – dice il vicesindaco De Vito che ha preso il posto della sindaca Virginia Raggi, positiva al Covid che si collegherà via Skype – per il maestro abbiamo cercato di organizzare una cerimonia dovendo tener conto delle norme anti contagio. Ma sentiamo l’abbraccio spontaneo dei romani presenti col cuore». Sarà bello osservare il murale di 11 metri per 15 voluto dalla Regione Lazio insieme ad Ater in collaborazione con la Fondazione Roma Cares della As Roma e che verrà realizzato dall’artista Lucamaleonte sulla facciata del lotto in via Tonale, la casa d’infanzia del Maestro. “È il nostro omaggio a Proietti, che per tutti noi è stato molto più che un grande attore – afferma il governatore Nicola Zingaretti – sono certo che anche grazie a questa opera il sorriso di Proietti continuerà a portare felicità ai romani . Abbiamo deciso di realizzare un murale al Tufello – aggiunge l’assessore regionale alle Politiche abitative Massimiliano Valeriani – per ricordare un attore, un uomo e un tifoso innamorato di Roma, restituendolo anche a quella parte di città che lui ha vissuto e raccontato”. Dopo un giro intorno alla statua di Marco Aurelio e il saluto militare, scortato dagli agenti, il carro che accompagna l’attore è poi ripartito salutato da un applauso, si è diretto nel suo ultimo viaggio attraverso Roma, al «suo» Globe Theatre a Villa Borghese. Le braccia spalancate che salutano il suo pubblico, lo sguardo sorridente e luminoso in una delle sue repliche di Cavalli di Battaglia all’ Auditorium Parco della Musica. È la foto scelta dalla Fondazione Musica per Roma per salutare il grande attore nel giorno del lutto cittadino proiettata sulla cupola della Sala Sinopoli. Un omaggio doveroso da parte della Fondazione Musica per Roma ad un’artista che per anni ha calcato i palcoscenici dell’Auditorium divertendo e appassionando oltre 100 mila spettatori. Al Globe Theatre a Villa Borghese, nel suo teatro che sarà intitolato all’attore romano, attori e maestranze, i personaggi della cultura e dello spettacolo hanno ricordato come Gigi Proietti meritava. Alla cerimonia presenti, tra gli altri, Enrico Brignano, Flavio Insinna, Edoardo Leo, Paola Cortellesi, Marisa Laurito e Walter Veltroni. L’ingresso della salma è stato accolto da un infinito commosso applauso durato per diversi minuti, e tutti i presenti avevano occhi gli occhi bagnati dalle lacrime. L’area di Villa Borghese adiacente al Globe Theatre, e piazza del Popolo sono state “blindate” dalle forze dell’ordine, per evitare assembramenti e curiosi. Accompagnato dalla moglie Sagitta Alter, dalle due amate figlie Susanna e Carlotta il feretro si è quindi diretto nella chiesa degli Artisti per il funerale in forma strettamente privata. Saranno solo 60 le persone che potranno sedersi nella Chiesa di Piazza del Popolo. Un ultimo saluto per le vie della città scortato dalle forze dell’ordine, nel giorno in cui è stato proclamato dal sindaco di Roma il lutto cittadino e la sua Roma è scesa in campo con il lutto al braccio. ″È difficile trovare la forza per salutare te, che mi hai aperto la porta dei sogni, che sei stato il mio mentore per eccellenza, che in tutti noi allievi hai ispirato desiderio di emulazione ma allo stesso tempo ci hai insegnato a essere noi stessi», ha detto Enrico Brignano. “Eri, sei, un gigante, con te ci siamo dovuti confrontare, ma sei stato anche un riparo…Ti sei lasciato dietro uno scintillio di cui resta un timido bagliore su tutti noi”. “Tu non morirai mai” ha esordito Marisa Laurito, “perché nessuno ti dimenticherà. Siamo noi che siamo stati privati della tua ironia, della tua intelligenza, senso sociale, cultura, della tua bellezza, maturità”. Piange anche Paola Cortellesi ricordando Proietti, “Un privilegio l’ho avuto”, ha detto l’attrice sua allieva, “Quello di passare del tempo insieme e godere dei suoi racconti e della sua genialità. Ridere a crepapelle, senza ritegno, con un maestro”. E rivolgendosi alla moglie e alle figlie dell’attore, ha concluso: “Per noi è stato un faro, ci ha mostrato l’arte, il sogno, la strada da percorrere. Oggi, a proteggervi e camminare dietro di voi, c’è un esercito di noi altri, armato di riconoscenza e che non lo dimenticherà mai”. Lo striscione dei tifosi della AS Roma in piazza del Popolo per i funerali in forma privata di Gigi Proietti presso la chiesa degli Artisti: Gigi Proietti mancherà a tutt’ Italia, non solo a Roma.
Raffo Art omaggia Gigi Proietti con un murales: “Porto i colori e la speranza nelle periferie di Napoli”. Roberta Caiano e Rossella Grasso su Il Riformista il 6 Novembre 2020. “Il luogo in cui ho realizzato il murales di Gigi Proietti rappresenta me. Nasco a pochi metri di distanza, alla periferia di Ponticelli (quartiere della periferia a Est di Napoli, ndr), il posto che mi ha sempre dato di più rispetto alla metropoli. Nasco proprio dal grigio del cemento: qui ho fatto la mia gavetta, ho realizzato i miei primi lavori e mi sono sentito in dovere di ritornare indietro nel passato e di rappresentare il volto di Proietti dove davvero nasce la prima firma di Raffo Art, su questo muro di cinta”. Nella spettralità della periferia e il grigiore dei muri di cemento, il sorriso e la solarità di Raffo incarnano i colori che da oltre venticinque anni porta nella città partenopea. Napoletano, classe 1979, Raffaele Liuzzi è conosciuto non soltanto nel capoluogo campano ma anche in tutta Italia anche per la sua partecipazione alla trasmissione Tu si que Vales, dove ha portato l’arte dello street-writing e dello spray painting riscuotendo un enorme successo. L’ultima sua opera d’arte si affaccia a ridosso della periferia est di Napoli in cui ha voluto portare “i colori positivi della città”, come recita il suo motto. Con una bomboletta spray stretta tra le mani e il suo fare gioioso, Raffo spiega al Riformista com’è nata l’idea di realizzare un murales sul noto attore scomparso lo scorso 2 Novembre e proprio perché ai confini della città. “Sono stato il primo a realizzare il dipinto di Gigi Proietti a Napoli. Provo stima per tutte le persone che amano la mia città e lui, in varie interviste, ha sempre dimostrato quanto fosse vicino a Napoli. Infatti come sfondo del dipinto ho disegnato il golfo di Napoli, simbolo che ci rappresenta in pieno”. Come accade spesso con eventi che scuotono il mondo artistico e della cultura, lo street art è sempre in prima fila per raccontare l’anima degli avvenimenti e delle persone attraverso una lettura personale e intima. Dopo la volta di Roma, città natale e artistica di Proietti, anche Raffo ha voluto omaggiarlo nella città di Napoli, secondo la sua visione. “Proietti era un’artista a 360 gradi, l’ho sempre seguito fin da giovane, ero innamorato della sua figura e del suo modo di essere artista. La risata che nasce dal cemento grezzo del muro di cinta di Napoli per me è il modo migliore per rappresentarlo”. Ciò che ha suscitato la curiosità di molti è come mai abbia deciso di disegnare solo mezzo volto. “Ho realizzato il dipinto in modo incompiuto, perché lui stesso più volte ha dichiarato nelle sue interviste che nonostante fosse un’artista con più di 50 anni di carriera, si sentiva insoddisfatto. C’era sempre l’incompiuto in lui”, specifica Raffo. “Per questo ho scelto di dipingere mezzo volto, in modo che in qualsiasi momento della mia vita e della mia carriera posso venire qua e completare il disegno”. “È probabile anche che lo completo in questo momento”, racconta l’artista nella prospettiva di terminare il graffito, “però anche il senso di incompiuto fa parte dell’opera d’arte”.
IL MURALES – “Ha un senso profondo, è un omaggio introspettivo e mi sono sentito di rappresentarlo in questo modo. Non è un ritratto, ma una visione artistica dedicata a un grande del cinema, della televisione e del teatro”. Non appena è giunta la notizia, lo street artist si è recato presso il prefabbricato a Via Ferrante Imparato “di getto e senza ripensamenti”, affidandosi all’istinto e alla sua vena artistica. “Non mi sono sentito di fare una ricerca veloce o cercare un’immagine prestampata su internet. Ho pensato che un grande personaggio del cinema, della televisione e del teatro come Proietti meritasse qualcosa in più. È un’artista che non morirà mai, e ho voluto rendergli omaggio secondo la mia visione”. Del resto, non è la prima volta che Raffo saluta i grandi del cinema e della cultura attraverso il disegno e la sua arte. “L’ho fatto con Bud Spencer, Lucio Dalla e Michael Jackson. Credo che l’artista abbia un dovere in più rispetto ad una persona che magari non dà lettura visiva alla scomparsa di un grande personaggio: l’immagine può dire più di mille parole. È come se mi fossi sentito in causa sotto questo aspetto e ho agito d’impulso”. La dimostrazione di questi attacchi d’arte si è avuta anche recentemente con i murales di Kobe Bryant e della modella di Gucci Armine Harutyunyan. “È su queste mura che esce il vero Raffo Art. Anche in questo dipinto di Proietti ho cercato di dare me stesso. È dipinto con un fat cap, un tappino a larga uscita di spruzzo per le bombolette nei murales usate per coprire una vasta porzione di muro. È stato fatto in maniera sciolta, dando tutto me stesso. Raffo non si vede nelle cose più piccole, ma in questi contesti dove mi diverto ancora di più”.
RAFFO E LE PERIFERIE – “La periferia ti dà tanto e ha bisogno di tantissimo colore. Il colore è speranza, è virtù, ti fa sorridere. Meno grigio e più colore”. È questo il messaggio che Raffo cerca di veicolare anche attraverso le sue pagine social, dove mostra non semplici disegni ma l’esplosione di colori che la sua arte sprigiona. “I colori sono sentimento, passione, anima. Ed è quello di cui hanno bisogno le periferie”. Celebre per la sua arte e la sua passione travolgente, Raffo nasce ai Quartieri Spagnoli, nel cuore di una metropoli enorme. All’età di 11 anni si traferisce in periferia, nel quartiere di Ponticelli. Ed è qui che prende vita la sua arte. “Nasco come autodidatta, la mia arte credo sia innata. Fortunatamente ho avuto una famiglia che mi è stata molto vicina e mi ha permesso di continuare gli studi”. Raffo, infatti, è diplomato all’Istituto d’arte e ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti. “Da semplice passione, ho lottato per farlo diventare un lavoro. Oggi sui social conto milioni di fan, il mio lavoro è diventato un punto di riferimento in Campania ma anche per i napoletani all’estero che vogliono decorare i propri locali o i propri appartamenti” . Dai dipinti sui muri agli interni, l’arte di Raffo si è trasformata: “C’è stata un’evoluzione del graffito, io ormai li definisco decorazioni murali. Ho cercato di fare un mash up tra le arti pittoriche e figurative passando dal pastello alla bomboletta. Ad esempio il golfo di Napoli che spesso mi trovo a dipingere, è rivisitato, l’ho reso più scarno, più visibile e piacevole a tutti. Una decorazione eterna che si sposa a 360 gradi anche con gli appartamenti più moderni”. Per questo Raffo si definisce l’artista del popolo, abbracciando l’arte in tutte le sue forme e dando forma a tutte le espressioni, soprattutto nei quartieri più spenti e grigi. “Da Scampia a Ponticelli fino a Chiaiano, sono molto vicino al sociale e cerco di darmi in tutto e per tutto. È un sogno che si realizza perché io credo che se riesci a fare quello che vuoi nella vita non lavori neanche un giorno”.
Quello stretto legame fra Gigi Proietti e la Puglia. Dal set salentino con Alberto Lattuada, nel 1974, alle tante collaborazioni teatrali e alla direzione del Kursaal di Bari. Pasquale Bellini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2020. Destino di un attore. Di un grande attore. All’alba del suo ottantesimo compleanno se n’è andato verso il Paradiso dei teatranti Gigi Proietti. Mentre ancora risuonavano gli auguri e venivano proiettati in tv alcuni dei suoi film più noti (da Febbre da cavallo di Vanzina a Tosca di Luigi Magni, da Sogni e bisogni di Sergio Citti a La proprietà non è più un furto di Elio Petri) il più vitalistico far gli attori italiani del secondo ‘900, insieme forse a Gassman ma senza quelle malinconie, ci lasciava proprio all’affacciarsi del suo compleanno! Se vogliamo è l’ultima barzelletta di Gigi, di quelle cui ci aveva abituato nel corso delle sue performance, certo la più amara e definitiva. Corsi e ricorsi pugliesi (e baresi) di Proietti: l’ultimo passaggio teatrale è avvenuto nel 2013 a Bari, al Teatroteam quando fece da «voce recitante» durante la performance musicale dell’Orchestra della Magna Grecia. Al Teatroteam ricordo di averlo anche visto nel 2010, quando portò in scena due atti unici di Eduardo, Amicizia e Pericolosamente insieme al Pierino e il lupo di Prokoviev, mentre già molti anni prima (1992) vi aveva portato quello che già allora era un suo evergreen, A me gli occhi please, scritto con Roberto Lerici. Ma la frequentazione di Proietti con la Puglia era cominciata molto prima, parliamo del 1974, quando fu protagonista del film di Alberto Lattuada, Le farò da padre, con Irene Papas e Teresa Anne Savoy, girato interamente nel Salento, fra Lecce e Nardò. Poi per dieci anni, dal ‘92 in avanti, Proietti fu di frequente a Bari, quando fece da «direttore artistico» nelle attività di prosa presso il Kursaal Santalucia, rimesso a nuovo (architetto Portoghesi) dalla gestione di Antonio Buompastore. Innumerevoli le incursioni in palcoscenico di Proietti, comprese le partecipazioni alle attività del Collegium Musicum diretto da Rino Marrone: ricordo una versione con musiche (di Strauss) del Borghese gentiluomo di Molière nel 1999, mentre l’anno dopo col Collegium fu un Don Chisciotte diretto da Gianpiero Borgia. Ma quanto alla Puglia, attraverso il suono inconfondibile della parlata, Gigi ci ha lasciato un segno immortale di affetto e simpatia: ebbene sì, la sua versione appulo-barese della Pioggia nel pineto di D’Annunzio resta vertice supremo di condivisibile allegria! Troppa Puglia, in Proietti, che parlava da multiforme mattatore tutti i dialetti d’Italia? Senza risate invece, lo ricordo in una mattinata di pioggia, stupefatto e sgomento (erano i primi Anni ‘90) in una visita al «cratere» del Petruzzelli incendiato: quel Petruzzelli dove era «passato» nel 1971 con Alleluja brava gente, il musical di Garinei&Giovannini, quello con Renato Rascel e le musiche di Modugno. A quel musical è collegato, in un certo senso, anche il primo incontro del sottoscritto con Proietti. Si perpetrava nell’autunno ‘70 in quel di Roma (complici con chi scrive anche Michele Mirabella e Rino Bizzarro) una fastosa messinscena dei Tre moschettieri da Dumas, spiritosa regia francese di Roger Planchon, con la compagnia Teatro Insieme e attori da Vincenzo De Toma a Ettore Conti a Marzia Ubaldi e tanti altri. Il ruolo di D’Artagnan pensavano di assegnarlo a Proietti, allora emergente ma non ancora del tutto emerso. Ci fu infatti qualche presenza e partecipazione alle prove, ma sopraggiunse intanto la possibilità di sostituire Modugno (infortunato) in Alleluja, accanto a Rascel: richiamo irresistibile e Proietti non resistette! D’Artagnan poi lo fece il bravo Umberto Ceriani. Fra ricordi personali (come quando prima di entrare in scena lo vedevo in camerino divorare una «bistecchina al sangue» energetica!) e passaggi teatral-mondani, come quello a Otranto (1996) nel Fossato del Castello in un Maurizio Costanzo Show con lui ospite centrale, i ruoli e i personaggi si alternano e confondono nella memoria: tra lo stile «alto» di un robustissimo attore di prosa (ricordare l’Edipo Re di Sofocle, con Gassman, nell’ 81, il suo ripetuto O Cesare o nessuno da Kean, il Dio Kurt di Moravia con cui debuttò nel ‘64) e la sempre ridanciana capacità di mettersi in gioco, di ridere e scherzare, ma seriamente, con il mestiere, con il talento immenso, con la vita. Fino a questo scherzo dell’altra notte che ci ha lasciati tutti increduli, frastornati. L’ultimo, il più terribile.
Antonio D’Orrico per “il Corriere della Sera - Edizione Roma” il 5 novembre 2020. Racconto (dal vero) in due atti di Gigi Proietti.
ATTO PRIMO È la metà degli Anni Ottanta. Vittorio Gassman ha aperto a Firenze la sua Bottega Teatrale. Un pomeriggio nel foyer della Pergola fa i provini agli aspiranti allievi. Sono uno dei cronisti che devono raccontarli. A un certo punto si materializza in teatro Gigi Proietti di scena in quei giorni in città. Finite le audizioni, Gassman e Proietti si abbracciano e vanno a bere qualcosa al bar della Pergola. Li seguo (più come ammiratore che come cronista). I due si mettono a scherzare. Gassman chiede a Proietti di cantargli Angeli Negri. Proietti risponde ridendo: «Nun me provinà, Vitto'». Angeli negri era un successo anni Cinquanta di Don Marino Barreto Junior (cantante da night e, prima ancora, soldato della Legione Straniera). La canzone fu rispolverata alla fine dei Sessanta da Fausto Leali in chiave blues (ed è tornata di attualità proprio in questi giorni a causa di una gaffe televisiva del cantante). Mi sto chiedendo, quel pomeriggio al bar della Pergola, come mai Gassman implori quasi di cantargliela, quando Proietti cede alla richiesta e comincia a cantare a bassa voce. Allora capisco tutto. La cover che Proietti fece di quella vecchia hit di Don Marino fu politicamente scorretta in maniera strepitosa. E irresistibile. Il finale (irripetibile) fu da standing ovation. Terminata l' esibizione, Proietti si guarda in giro e mi vede. Sono l' unico presente, il barista si è allontanato. Non mi dice niente, si porta l' indice sulle labbra. Il messaggio è chiaro. L' esibizione deve rimanere segreta. E lo è rimasta fino a oggi.
ATTO SECONDO (e ultimo). Qualche tempo dopo, sempre a Firenze, è prevista una conferenza stampa alla Bottega Teatrale di Gassman. Sbaglio l' ora dell' appuntamento e arrivo in largo anticipo. L' ingresso della chiesa sconsacrata in Oltrarno che ospita la Bottega è aperto. Entro. Non c' è nessuno. Ne approfitto per una visita turistica. Mi avventuro in una specie di labirinto e finisco in una grande stanza affacciata sul piccolo chiostro. Vittorio Gassman è appoggiato a un finestrone e guarda fuori canticchiando: «Tintarella di luna, tintarella color latte». Potrebbe essere la scena di un film in cui un vampiro canta, mentre aspetta con impazienza il calare delle tenebre, quel cavallo di battaglia della Mina prima edizione. Una rivisitazione yé-yé di Nosferatu. Faccio per tornare sui miei passi, con la sensazione di aver violato un momento di intimità dell' attore, ma Gassman si accorge della mia presenza. Mi chiede se ho un accendino. Il suo, mi dice, aprendosi la giacca per mostrarmi quello che è successo, è finito da una tasca scucita nella fodera e non riesce più a recuperarlo. Ci mettiamo a fumare. Gli ricordo dello spettacolo «proibito» di cui fummo gli unici spettatori al bar della Pergola. E aggiungo che Proietti, secondo me, è molto più bravo e più grande di Mentre sto parlando, vedo un baluginio allarmato, quasi sinistro, negli occhi di Gassman. Intuisco che teme quello che sto per dire. Ha paura che io dica che Proietti è più bravo e più grande di lui. Mi affretto a finire la frase. Proietti è molto più bravo e più grande di Carmelo Bene, altro mostro sacro della scena. A sentire il nome di Bene, Gassman si rilassa di colpo. Come se la cosa non fosse mai stata in discussione, dice: «Ma certamente, ma certamente».
Il lato segreto di Gigi Proietti e lo spazio nel foglio. Tanta poliedricità in Gigi Proietti è espressa graficamente dalla curvità del gesto e da un adeguato spazio tra le lettere. Evi Crotti, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Quali elementi hanno favorito tanta ricchezza, senz’altro fuori dal comune e in diversi settori, esplorati sempre con spirito creativo, tanto da trascinare l’ascoltatore, non solo come professionista, ma anche come uomo in grado di coinvolgere con sentimento, sino a farci vivere empaticamente ciò che egli interpretava? Tanta poliedricità in Gigi Proietti è espressa graficamente dalla curvità del gesto e da un adeguato spazio tra le lettere, caratteristiche che indicano un animo aperto e capace di stabilire con facilità rapporti interpersonali specie con il suo pubblico. Lo scorrere della grafia sul foglio sta a indicare immediatezza, ma anche un buon controllo tra pulsioni e ideali per cui l’Io si è costruito in armonia senza lotte. Un suo motto potrebbe essere stato: “ciò che gitta dentro vo’ significando” che lo rendeva eclettico e riservato, ma anche disponibile. Persona schietta e coerente nella gestione degli affetti intimi e familiari, nelle amicizie cercava in ogni modo l’essenzialità e l’etica. Il fatto di occupare tutto lo spazio del foglio a disposizione esprime il bisogno di dare sempre il meglio di sé, senza risparmi. Dalla grafia emergono un’instancabile creatività, teatralità, cordialità, disponibilità e tanta voglia di recuperare un passato poco gratificante vista la condizione di disagio vissuta da giovane. Gigi non è stato mai con le mani in mano, volendo passo dopo passo dare una spinta positiva alla famiglia d’origine impegnandosi per diventare, forse senza saperlo, non solo un mattatore, un intrattenitore, un musicista ma anche un uomo di grande talento intellettivo e di una notevole sensibilità, sostenuto in ciò anche da una forte volontà (vedi grafia marcata e dinamica). La firma, diversa dal testo e di grande dimensione, dimostra la determinazione che il mattatore ha sempre messo in atto per dare il meglio di sé. In questo ha giocato un ruolo importante la spinta paterna a più essere; e direi che c’è riuscito molto bene!
Gigi Proietti: "Sono un esibizionista allegro. Volevo solo una cosa: la luna". Antonio Gnoli su La Repubblica lunedì 2 novembre 2020. Ha iniziato suonando nei night. Poi il teatro, gli incontri con Bene, Lerici, Gassman, il cinema e la televisione. Il grande attore si racconta. Vuole un caffè? Così magari lo prendo anch'io. Che problema c'è? Chiedo. C'è che sto in regime salutista: un caffè e un sigaretta al giorno. Dice lui. Lui sarebbe Gigi Proietti che vado a trovare in una Roma costernata dal clima. Vive in fondo alla Cassia. Scorgo, in un angolo del salone dove ci accomodiamo, un contrabbasso. Chi lo suona? Lo suono io, ogni tanto. Ero il bassista col botto. Col botto? Sì col botto: bumbumbum. Non sapevo fare altro. La mano destra ancora, ancora. Ma la sinistra imprevedibile. Come se non avessi un braccio. Erano gli anni in cui suonavo in un complessino tirato su, senza pretese. Guadagni scarsi. Ma sufficienti per non pesare sui genitori che non navigavano nell'oro e immaginavano per me un futuro diverso.
Cosa immaginava suo padre?
"Quello che di solito hanno in testa i padri di quella generazione: studia, laureati e trova un impiego, possibilmente statale. Sa perché noi italiani abbiamo spesso tollerato la burocrazia e i suoi misfatti?"
No, mi dica.
"Perché la burocrazia era la mamma, il ventre molle e accogliente nel quale sparire e riemergere il 27 di ogni mese. Tra coloro che ce l'avevano fatta c'era la granitica convinzione che ogni cosa che accadesse fuori non li riguardava. Non credo che mio padre vivesse così lo stato delle cose. Lui pensava a una carriera onorevole".
Di cosa si occupava?
"Aveva fatto parecchi mestieri, il boscaiolo, il cameriere, prima di trovare a Roma un impiego come uomo di fiducia in un'azienda. Ho sempre ammirato la sua onestà. Era umbro, figlio di contadini. Con la mamma vennero a Roma negli anni della guerra. Sono nato nel 1940. I miei alloggiarono prima in una casa davanti al Colosseo, fummo sgombrati dalle forze dell'ordine perché l'edificio era pericolante; andammo a vivere in uno scantinato di un albergo; infine ci assegnarono un alloggio alla borgata Tufello".
Come vive le sue origini?
"Penso che le origini di una persona non sono la sua condanna. Ognuno di noi, se ha determinazione e un po' di fortuna, può decidere la propria strada".
Diceva della prima orchestrina.
"Ci chiamavamo "Gigi e i Soliti Ignoti". A Roma, parlo del 1960, c'erano i dancing. Io cantavo. Poi facemmo il salto di qualità: ci chiamarono a suonare nei night club. Entravamo alle sette di sera e uscivamo, disfatti, alle cinque del mattino. Mi ero anche iscritto a giurisprudenza. Non era facile affrontare insieme gli esami e il pubblico notturno".
Erano gli anni della Dolce vita.
"La Dolce vita stava finendo e già si intravedeva l'agonia di via Veneto".
Chi frequentava il night?
"Allora era uno status symbol. Venivano il generone romano, un po' di malavita e parecchi turisti. Questi ultimi di solito arrivavano grazie a un'organizzazione, "Rome by Night", che li guidava. Pagavano un biglietto di ingresso che gli dava diritto a una consumazione e ad assistere a uno spettacolo di streap-teese".
Cos'altro accadeva?
"Le entreneuse tenevano compagnia ai clienti. Alcune poi si appartavano nei separé. Noi suonavamo di tutto in tutte le lingue. Usando, in realtà, un gramelot, inventato per l'occasione. L'atmosfera cominciava sonnacchiosa e poi cresceva di tono. I clienti si eccitavano, le ballerine si contorcevano, le spogliarelliste si denudavano. Ce n'era una che faceva lo spettacolino con una porta".
Una porta?
"Sì, la trovata consisteva che alla fine il pubblico vedeva lei, che si spogliava, dal buco della serratura!".
Meraviglioso.
"Era un altro mondo dove i fiumi di champagne erano sostituiti dai fiumi di imprecisati liquidi. Una volta un cliente, mi pare un americano, scrutò attentamente l'etichetta della bottiglia: c'era scritto grande "Rouge et Noire" e sotto, piccolo piccolo, "Fratelli Capocci, Genzano". Lo champagne lo preparavano nel retro delle cucine. Scoppiò il putiferio".
Le manca quel mondo?
"Appartiene a un periodo della mia vita. È stato fondamentale in molti sensi. In quegli anni incontrai la donna che sarebbe stata la compagna della vita: Sagitta, una svedese che faceva la guida turistica. Stiamo insieme da mezzo secolo. Non ci siamo mai sposati. Ogni tanto dico: vedi, anche se volessi, non potrei neanche divorziare. Abbiamo due figlie che adoriamo".
Circondato da donne.
"Non è poi così male".
E il teatro?
"Ci arrivai per caso. Non ero abitato dal fuoco sacro, semmai dal fuoco fatuo. Avevo fatto dei provini. Ma non è che avessi una cultura teatrale. Feci piccole cose. Erano gli anni in cui a Roma c'erano le famose cantine e si faceva molta avanguardia. Restai folgorato da Carmelo Bene che recitava in Caligola di Albert Camus. Carmelo curò anche la regia e i costumi. Lo guardai con ammirazione. Aveva solo tre anni più di me. Ma era come se tra di noi ci fossero secoli di distanza".
Cosa la colpiva?
"Penso che la sua grande capacità innovativa si nascondesse nelle pieghe della tradizione. Me lo presentò Roberto Lerici, altro personaggio straordinario, e diventammo amici da subito. Mi propose di lavorare a uno spettacolo che poi non si fece. Ripiegò sulla Cena delle beffe , mi offrì il ruolo di coprotagonista e accettai felice di poter lavorare con quel mostro sacro".
Non era un uomo facile da trattare.
"Era istrionico, provocatorio ma anche geniale. Un poeta che a volte si lasciava andare alla sua vena più aggressiva. Trovo però difficile definirlo. A volte decadente. Altre ancora futuribile. Le maschere non gli mancavano. Negli ultimi anni parlava solo di Schopenhauer, di Nietzsche, degli amici francesi che lo avevano scoperto. Dissipò il suo talento in mille rivoli. Cominciò a dire Io non esisto . Si carmelobenizzò. Ma è stato un grande artista".
Accennava a Roberto Lerici, se non ricordo male aveva una casa editrice culturalmente agguerrita.
"La Lerici editore. L'aveva ereditata dalla famiglia e rilanciata assecondando i suoi gusti raffinati. Ma Roberto non era solo un intellettuale astratto o sofisticato. Possedeva un formidabile senso dello spettacolo. Tanto è vero che insieme allestimmo A me gli occhi please e prima ancora Fatti e fattacci.
Come spiega il successo clamoroso di "A me gli occhi, please"?
"Non lo spiego, non sarei in grado di farlo. Esordimmo a Sulmona e poi arrivammo a Roma, un po' per caso. Nei due anni che lo tenemmo in cartellone fu visto da mezzo milione di persone. Perché? Boh. Piaceva la contaminazione dei generi, il comico e il drammatico che si alternavano e poi era come se quella grande tenda, dove si svolgeva lo spettacolo, fosse diventata una sorta di isola felice. Eravamo alla metà degli anni Settanta. Anni orribili, segnati dai morti e dal fanatismo, non così diversi da quelli odierni. Allora, la gente trovò rifugio in quel teatro. Nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo successo. Forse l'unico a crederci davvero fu Lerici. Aveva visto lungo".
Divenne così un attore affermato.
"Il primo successo lo ottenni con Alleluja, brava gente ".
Poi ci fu Petrolini.
"Arrivò più tardi. Mi incapricciai di questo attore immenso. Non era solo comico. Era inquietante. Tutti dicono che parlava a raffica. No. Era il Dio della pausa. Riempiva il silenzio con le sue smorfie".
Che cos'è il tempo comico?
"Glielo spiego così: se uno racconta una barzelletta e sbaglia il tempo della battuta finale, la barzelletta non ha più senso. La pausa non è silenzio, è una forma di pienezza. Guida il ritmo dell'attore. Guai sbagliarla. Una sera recitavo Il Dio Kurt di Alberto Moravia. Il teatro era un po' malmesso. Pioveva. A un certo punto nel bel mezzo di una pausa sentiamo: toc, toc, toc. Era una goccia d'acqua che batteva su un banchetto. Sfalsò tutti i nostri tempi".
Cosa accadde?
"Immaginando la scena in cui il nazista si sarebbe seduto sul banchetto e la goccia che gli avrebbe martellato la testa, cominciammo a ridere furiosamente. Toc, toc, toc. Lo spettacolo ne risentì. Il pubblico non capiva che cosa stesse accadendo. Si alzò un brusio. Lì capii che il tempo della pausa è un tempo di convenzione, di complicità con il pubblico. Se non lo cogli si interrompe la magia".
Cosa vuol dire magia?
"Sostengo spesso che il teatro si fa tra il falso e il finto. La magia è trovare il vero che vi è nascosto".
E il cinema?
"Cerca il verosimile. Dopotutto, veniamo dalla grande stagione neorealista".
Lei ha girato parecchi film e alcuni di grande successo. Ma il pubblico non l'ha mai identificata nell'attore cinematografico.
"E forse è stato un bene. Mi annoierei a fare un solo mestiere. E poi ti devi divertire. Ho lavorato a un paio di film con Tinto Brass. Feci il protagonista insieme a Tina Aumont ne L'urlo , film che rimase in censura per nove anni".
Un film erotico?
"No, no. C'era qualche scenetta di nudi, i figli dei fiori, quelle robe lì. Brass ce l'aveva con quegli attori che definiva esibizionisti tristi. A lui piaceva il sesso come gioia. Come dargli torto? E poi, ogni artista ha le proprie ossessioni".
Le sue quali sono?
"Non sono un artista, forse sono soltanto un esibizionista allegro. Però c'è una cosa che mi ha ossessionato per anni. È una battuta di Carmelo nel Caligola : "Io voglio solo la luna"".
Come dire: prendere l'impossibile o il meglio dalla vita?
"Ma forse anche il peggio chi lo sa. Carmelo venne a Roma convinto di fare il tenore. Divenne un'altra cosa. Forse più grande. Certamente diversa. Ho capito che la mia luna era un'idea di teatro che fosse una specie di comunità. Qualcosa che il cinema non ti può dare".
Neppure la televisione?
"Neanche quella. Sono riconoscente alla Tv che mi ha regalato un successo incredibile e anche inaspettato. Dicevano: bravo Proietti, ma non buca lo schermo. E invece ha visto, no?".
Come vive il grande successo?
"La prima volta mi sconvolse. In anni in cui non ero così convinto che la popolarità fosse un bene, arrivò la notorietà con Alleluja, brava gente . Poi ho capito che molto dipende da come sei fatto. E mi sono reso conto che non ho i desideri di una star che insegue solo quello. Il successo deve essere il risultato del tuo lavoro e quando lo ottieni devi essere responsabile per ciò che dici e fai".
Parola di Mandrake?
"Parola".
Si aspettava che "Febbre da cavallo" diventasse un film cult?
"Per niente. All'inizio venne considerato un prodotto dozzinale. La verità è che Steno è stato un grande. Pubblico e critica scoprirono la leggerezza, l'ironia, la comicità di quel film".
Era una serie di meravigliosi sketch.
"La comicità dello sketch si fonda su alcuni schemi essenziali. Per esempio ne La figlia del cassamortaro prevale l'elemento dell'ingiustizia. La ragazza non riesce a fidanzarsi perché il padre costruisce bare; oppure ne La signora delle camelie c'è il suggeritore che non è in grado di suggerire; o ne La sposa e la cavalla la storia si basa su un equivoco. Ricordo che con Gassman improvvisammo uno sketch sul set di A Wedding di Robert Altman. Cazzeggiammo liberamente. Fu esilarante, come riconobbe lo stesso regista che conservò integralmente la scena. Con Vittorio passammo insieme un mese sul lago Michgan".
Gassman fu un altro compagno di strada.
"Straordinario e pieno di vita. Ho il rimpianto di non aver mai lavorato a teatro con lui. Anche se l'occasione ci fu con Otello . Avrei dovuto interpretare Jago. Mi tirai indietro. Convinto che dal confronto uno dei due avrebbe perso. Scatenando le invidie dell'altro. Peccato".
So che Eduardo De Filippo le offrì di lavorare con lui.
"In quel momento ero impegnato. Eduardo era venuto a sentirmi in A me gli occhi, please. Poi bussò in camerino, che era una roulotte. Aveva il volto segnato, da due righe profonde e inconfondibili. Mi strinse la mano e disse "bravo!" Era il 1977. Era vecchio ma emanava ancora un fascino straordinario".
E la sua vecchiaia?
"Cerco di darle una logica, ma è quasi impossibile. Faccio un mestiere che abitua a pensare alla propria fisicità. Ma non è più quella di una volta. Ora dirigo il Globe Theatre di Roma. Per ora sono riuscito a non recitarvi. Ogni tanto mi dico: Gigi, nun te preoccupà, tanto una parte da vecchio per te c'è sempre".
Silvia Fumarola per la Repubblica il 22 ottobre 2020. Gigi Proietti se ne sta a casa «buono buono, perché questo non è il periodo per fare gli spiritosi e perché ormai c'ho un'età. Non la posso manco nascondere». Il 2 novembre compie 80 anni.
Proietti, allora sta davvero buono a casa?
«Buonissimo. Non è un periodo facile per nessuno. Deprime perché fanno a gara a chi te mette più paura ma fanno bene. Non sono un guascone, la situazione è seria e poi spuntano quelli come Trump, pericolosissimi. Ci si fa belli trasgredendo. Non sai come girarti, mi mette un po' d'ansia proprio la mancanza di sacralità della vita da parte dei vecchi citrulli e dei ragazzini, a prescindere dal Covid. La vita è una. So' diventato vecchio?».
No, saggio. Le danno sempre fastidio «le parole che nascondono il vuoto»?
«Ho avuto qualche problemino di salute e mi sono visto la tv di seguito. Quando parlano del coronavirus dicono tutto e il contrario di tutto. E lo dicono insieme, nello stesso programma. Nessuno obietta: ma che state a di'?».
La cosa peggiore è sempre «avere colleghi tristi»?
«Per amor di Dio, sono tremendi. Questo è un mestiere strano, ha tutti i difetti, ma il gusto della battuta me lo fa diventare simpatico. Se manca pure quella... Alcuni non fanno un sorriso neanche se gli spari».
Il rapporto con l'età?
«La vecchiaia c'è e non puoi farci niente. Non mi ricordo chi ha detto: "Alla mia età, la malattia è questa". È una malattia da logoramento, però non mi va di essere pessimista, ringrazio i miei genitori per il senso dell'ironia. Aiuta. Pensi ai capelli».
Ha una testa leonina.
«Mi sono liberato da quando non mi tingo più. Girando Il maresciallo Rocca cominciavo a imbiancare, bisognava ritoccare sempre: sembravo incatramato. Una volta venne uno a farmi la tinta a casa e uscì fuori un colore violaceo. Sul set erano disperati. Allora ho deciso di tagliarmi i capelli. Per abituarti al bianco ci metti tempo, passi davanti a una vetrina e ti domandi: chi è quel signore anziano?». (…)
È sempre di sinistra?
«Uno che è di sinistra, specialmente della mia età, rimane di sinistra. Una volta significava un'appartenenza e mi auguro che si ritorni a un rapporto più intelligente, più aperto, perché poi la sinistra si è chiusa. Sono di sinistra in maniera naturale, non potrei essere altrimenti anche se non sono d'accordo quasi mai con quello che fanno. Quanto aveva ragione Nanni Moretti quando in Aprile diceva a D'Alema: "Dì qualcosa di sinistra". Non la dicono mai».
Il popolare attore romano ha raccontato: "Come è andato il mio inizio di fase 2? Per me non è cambiato nulla, sono rimasto sempre a casa, ringraziando il cielo ho un po' di giardino, sono stato abbastanza fortunato. Poi con queste cose grazie alle quali ci si vede tramite uno schermo, viene tutto più comodo. Si può andare a trovare i parenti, i congiunti. Ma bisognerebbe andare a cercare anche i congiuntivi oltre che i congiunti. Non amo molto i talk show, sono praticamente assente, non vado mai, onestamente non ho nessun discorso da fare alla Nazione, invidio chi ci va ed è depositario di grandi verità. Io non ho grandi verità, ho dei dubbi, ma andare ad esternare i propri dubbi in televisione mi sembra assurdo".
Sul rispetto nei confronti degli anziani: "Questo momento ci ha fatto accorgere che in effetti normalmente gli anziani non vengono trattati bene. Non è una cosa che accade solo in questo momento. Accade da sempre. Il punto è che le grandi civiltà mettono al centro gli anziani e i bambini. Devono essere quasi ritenuti sacri. Altrimenti è barbarie. Non è possibile concepire un sostegno soltanto per le persone che producono. E' massacrante, è una cosa assolutamente barbara. Un tempo anche i neonati venivano trascurati, poi ci si è reso conto che potevano esserci business da fare con pannolini, pappette e pomate. Invece gli anziani non consumano e per questo non vengono considerati. E' terribile. Non ho mai amato quando si dice i nostri vecchietti. Ma vecchietto sarà lei. Credo veramente, da sempre, che nella civiltà contadina, dalla quale noi veniamo, l'anziano era importante, aveva un suo ruolo preciso. Invece adesso no. Il concetto dell'usa e getta non mi piace".
Sul futuro del teatro: "Il teatro non è che prima del virus conoscesse chissà quale sostegno. La cultura teatrale italiana aveva il minimo indispensabile. Quando si parla di cultura si arriva al massimo fino al cinema. Il teatro non viene nemmeno nominato. Quando sento politici che parlano di teatro, mi viene da rispondere io a te a teatro non ti ho mai visto. Qualche politico sì, ma pochissimi. Eppure sono quasi 50 anni che faccio questo mestiere. Se non altro approfittiamo di questo periodo per fare in modo che le istituzioni si accorgano di noi. Bisogna discutere con serenità ma anche razionalità e disponibilità. Con la voglia di aiutare. Un po' come il turismo. L'industria del turismo soffrirà tantissimo, però anche gli altri paesi turistici stanno peggio di noi, guardate la Francia o la Spagna. Come si suol dire, mal comune... . Quello che farei è una grossissima, enorme, campagna promozionale per il turismo in Italia. Per gli italiani stessi e anche per gli stranieri. Quando è esplosa la pandemia non abbiamo fatto altro che lamentarci che non saremmo stati capaci di gestirla. E invece alla fine in un modo nell'altro è stata gestita bene. Quindi mi chiedo perché non dovremmo andare sulla Costiera Amalfitana. Ma dobbiamo pubblicizzarci bene".
Su come usciremo da questo periodo: "Se saremo migliori? Dipende da noi. Saremo migliori se vorremo essere migliori. Serve un po' di riflessione e invece qui non si è vista l'ora di uscire, di andare fuori. Come se prima stavamo come scemi ad abbracciare le persone per strada. Sì, l'espressione congiunti è stata poco infelice, ma non è quello che toglie le libertà individuali".
Ancora Proietti: "Non vedo l'ora di avere una classe dirigente di cui fidarmi. Voglio poter dare la mia fiducia a chi se la merita. Sono consapevole che la perfezione non c'è, ma dovremmo tendere a questo, ad agire un po' più razionalmente. C'è confusione anche nella lettura di questa cosa qui. Sì, la comunità scientifica dice le cose, le studia, ma poi sono i politici che decidono. Ma se decidono sulla base di quello che gli dicono, non se ne può non tenere conto. E' inevitabile che accada questo. Qui sono diventati tutti virologi. Come sempre tutti diventano economisti o allenatori di calcio".
Sulle fake news: "Facendo il nostro mestiere più che altro possiamo essere vittime di qualche pettegolezzo, qualche volta ci fanno morire, si gioca con queste cose che sono cose brutte, non sono cose delle quali poi si possa sorridere. Un tempo però eravamo meno imbocconi. Se girano le fake news è perché un sacco di gente ci crede".
Sulla cosa che più gli manca: "Mi piacerebbe riaprire il mio vecchio laboratorio dopo tanti anni, stavo lavorando a un paio di idee che ho dovuto interrompere. Speriamo che prima o poi riesca a riaprirlo, almeno a metà estate. Ci sono molte persone che lo aspettano, credo".
Sulle mascherine: "Siamo un Paese d'eccellenza nell'attività tessile, possibile mai che non ci sia stato un accordo tra tutte le varie componenti in campo per fare milioni di mascherine? Boh, magari è facile dirlo e meno farlo. Però io mi ricordo che qualche mese prima che esplodesse la pandemia, le mascherine costavano 10 centesime. Le ho dovute prendere per il teatro. Ora invece le vendono a un euro e cinquanta. E allora inizio a sospettare. Perché il guadagno è sacrosanto, ma la speculazione su una pandemia non va bene".
Emilia Costantini per corriere.it il 30 marzo 2020. “Lo definirei lo Zorro dei virus. Perché? Bè, perché mi pare molto mascherato». Gigi Proietti vive la sua clausura da Covid-19 con il suo consueto spirito critico e particolarmente riflessivo. «Sì, in clausura, ma mi sento un privilegiato».
Perché?
«Rispetto a tanti altri concittadini che magari abitano in piccoli appartamenti, senza una terrazza, senza uno sfogo, io almeno ho un giardino, che in questo momento è a dir poco vitale. E pensare che, tempo fa, volevo cambiare casa».
Per andare dove?
«Io sono nato a via Giulia, ma ormai da molti anni abito un po’ fuori dal centro, quindi con Saghitta (la moglie di Proietti ndr), stavamo valutando l’idea di tornare a vivere nel centro storico. E meno male che non l’abbiamo fatto! Adesso me ne sarei pentito: qui dove siamo non ci sentiamo costretti».
Come trascorre le sue giornate agli arresti domiciliari?
«Francamente avevo preventivato, già prima di questa emergenza, un periodo di riposo, perché avevo appena finito di girare un nuovo film: “Io sono Babbo Natale” di Edoardo Falcone, insieme a Marco Giallini. L’ho fatto con grande piacere ma finite le riprese sentivo la necessità di staccare i telefoni per starmene un po’ tranquillo».
Insomma, il coronavirus ha esaudito i suoi desideri?
«In un certo senso sì, anche se non immaginavo mi prendesse così alla lettera...».
Comincia a mancarle in rapporto con l’esterno, il contatto con gli altri?
«Oddio! Io non sono un grande frequentatore di feste, banchetti, aperitivi... non sono abituato ad abbracciare o baciare tutti quelli che incontro. Adesso, men che meno. C’è poco da scherzare in questa situazione, l’umore generale è di grande attesa...».
E di grande ansia...
«Certo. Però non è il caso di fare a cazzotti mentre si sta in fila al supermercato. Non mi piace sapere di persone che compiono azioni contro le regole e che poi se ne vantano, dicendo “ho fregato il Governo”. Eh no, perché freghiamo noi stessi. Se invece cerchiamo di stare calmi e di rispettare le disposizioni, il virus finisce prima. Però ovviamente capisco anche che uscire di casa e poter andare dove ti pare è importante psicologicamente. La limitazione della libertà è pesante, ma necessaria».
La convivenza forzata di persone che non vanno d’accordo è un’aggravante.
«Moglie e marito che litigano in tempi normali, certamente possono aggravare i contrasti, e infatti pare che le violenze domestiche siano aumentate. Tuttavia, mi piace pensare che potrebbe essere il contrario: magari, in una condizione coatta, i coniugi litigiosi fanno pace. Insomma, credo fermamente che si verificherà un profondo cambiamento e mi auguro, che alla fine di questa pandemia, non saremo più quelli di prima, speriamo in meglio».
Ma se la clausura dovesse prolungarsi?
«Ah bè... finora è trascorso un mese, se diventassero cinque, sia pure con il conforto del giardino, mica lo so che mi succederebbe. Finora il mio ménage domestico regge bene. Non usciamo nemmeno per fare la spesa, perché ce la facciamo portare a casa e a me, che ogni giorno leggo tanti giornali, l’edicolante li lascia sul cancello. Diciamo una cosa positiva».
Quale?
«Abbiamo più tempo per pensare, per riflettere su come vivere bene in una comunità. È tropo facile scaricare sugli altri le responsabilità, che invece sono di tutti noi cittadini. È una buona occasione per ragionare su cosa abbiamo sbagliato. Con questo non voglio dire che il virus ci ha invaso per colpa nostra, dico solo che forse abbiamo sbagliato qualcosa a monte di tutta questa vicenda. Invece di litiga’ dobbiamo ragiona’. Le polemiche tra i politici sono assolutamente dannose. Io amo la politica, ma questa non è politica».
Che effetto le fa Roma, in questo periodo?
«Non sopporto di sentirla definire “spettrale”. Roma non è mai spettrale, è sempre bella, occorre evitare di usare certi termini inappropriati. Anzi, è ancora più bella perché è senza traffico, come a ferragosto. Il clima è migliorato... però nun ve preoccupate: il traffico ritornerà!».
Poeti come Belli o Trilussa, cosa avrebbero scritto in una simile emergenza?
«Sono vissuti in epoche distanti: Belli quando Roma faceva ancora parte dello Stato Pontificio, Trilussa quasi cento anni dopo. Il primo, secondo me, avrebbe giocato sulla faccenda in maniera apocalittica. Il secondo si sarebbe più divertito a fare satira. Ma il problema è che c’è poco da scherzare. Tutto quello che ho sentito sul coronavirus per far ridere, a me nun me fa’ ride pe’ gniente. Sarebbe come ridere sul colera. Però ora che ci penso sul famoso vibrione un po’ ci ridevamo, perché veniva dalle cozze... e si sa, sulle cozze, c’era sempre la battuta. Stavolta la faccenda è più misteriosa, è più lontana, sembra sconosciuta, sulle cozze eravamo più informati».
C’è poco da ridere anche sulla situazione dei teatri, dei cinema. La stagione del Globe Theater si farà?
«Spero di sì. Noi saremmo pronti ad aprire a giugno. E quest’anno nel programma, oltre a tanti Shakespeare, ho intenzione di inserire qualche altro grande autore classico. Sto pensando a un Molière e vorrei pure rifare, con una compagnia tutta di giovani attori, “L’Opera del mendicante” di John Gay».
In conclusione, cosa vuole dire ai romani?
«Continuiamo ad amare la nostra città e, come cittadini della Capitale, dobbiamo dare il buon esempio al resto degli italiani».
GLORIA SATTA per il Messaggero il 13.07.2020. Per ripartire dopo il lockdown, Gigi Proietti si regala un impegno e un sogno. Il primo, in programma il 29 luglio, è la riapertura (in sicurezza) del Globe Theatre, lo spazio incastonato nel verde di Villa Borghese e da 17 anni punto di riferimento nella vita culturale dei romani. «Ripartiremo con Venere e Adone, un poemetto che Shakespeare scrisse durante la peste di Londra mentre i teatri erano chiusi. La regia è di Daniele Salvo. Spero, visto il momento, che sia di buon auspicio», anticipa il grande attore romano.
Il sogno?
«Mettere in piedi Radio Raccordo Anulare, un progetto che mi frulla in testa da anni. Un'emittente gestita da giovani per tenere collegate e informate tutte le zone della città, specie le periferie: il problema, in una metropoli come la nostra, è la comunicazione. I romani devono conoscersi, non rimanere distanti come isole».
Tra i progetti di questo artista a 360 gradi che il 2 novembre compirà 80 anni senza contemplare la pensione, ci sono poi l'allestimento di Tosca e la riduzione teatrale di Casotto, il film di Sergio Citti (1977). Intanto, Gigi racconta sé stesso e il legame con Roma tra riflessioni, ricordi, la consueta ironia.
«Io un monumento? Ma se non so manco anda' a cavallo».
Come vive il ritorno alla normalità?
«Con un certo ottimismo. Sono abituato a vedere il bicchiere mezzo pieno anche se stavolta è un po' difficile: ci terrorizzano annunciando catastrofi sanitari ed economiche per settembre con la seconda ondata del virus. Speriamo di no! Mentre i virologi non si mettono ancora d'accordo, cerco di fare al meglio quello che so fare, per la mia città. Sto dando tutto me stesso al Globe».
La gente ha voglia di tornare a teatro?
«A giudicare dai social, c'è grande attesa per la riapertura del nostro spazio che ha sempre fatto il tutto esaurito e rappresenta il mio fiore all'occhiello dopo l'esperienza del Teatro Tenda, la riqualificazione del Brancaccio e il Brancaccino. Il nostro lavoro va difeso a spada tratta, è fragile. Il teatro è pochissimo considerato mentre, come predicava il grande Eduardo, non andrebbe tassato perché non è un business ma un servizio sociale. Quando si è deciso di chiudere i teatri per il virus, non mi è parso di udire l'urlo di dolore proveniente dagli uomini delle istituzioni. Se non fosse così, riaprirebbero il Valle».
Come ci siamo comportati, secondo lei, durante la pandemia?
«Molto bene, gli italiani hanno rispettato le restrizioni e lottato insieme contro il virus con grande senso civico».
E i romani? Si aspettava che la Capitale fosse così responsabile e disciplinata?
«Ma certo. Roma ha sempre risposto benissimo alle emergenze. Lo ha dimostrato anche nel lockdown pur essendo diventata una grande metropoli con le sue complessità».
Quali sono le magagne più grandi della città?
«Facile rispondere le solite buche e la solita immondizia, ma sono problemi antichi. Non a caso già Aldo Fabrizi cantava Buongiorno monnezza».
Le hanno mai proposto di entrare in politica?
«Sì, ma ho rifiutato. Meglio essere un discreto attore che un pessimo politico. Accetterei solo se ci fosse un dicastero per le formazioni professionali: vorrei riaprire il Laboratorio per giovani attori, ci penso seriamente e intanto ho proposto all'Accademia Silvio D'Amico di mandare i neo-diplomati a farsi le ossa al Globe».
È cambiata la romanità?
«Un tempo avrei detto che la nostra prima qualità è la tolleranza, scambiata per pigrizia. Purtroppo siamo diventati troppo nervosi anche noi. Damose 'na calmata».
Come si sente in questa stagione della vita?
«Sereno: non mi sembra di aver fatto grossi danni né di aver perso tempo, soprattutto nei confronti della mia città. E voglio lavorare ancora».
Ha sassolini, sassi o macigni da togliersi?
«Qualcuno, ma ormai è diventato sabbia. Sono felice, mi sono divertito tanto e penso di aver divertito gli altri. Ho fatto teatro, cinema e avuto il grande successo popolare grazie a serie tv come Il Maresciallo Rocca».
Il momento in cui è stato più felice?
«Alla nascita delle mie figlie Carlotta e Susanna, nel periodo magico dello spettacolo A me gli occhi please».
Con l'età è diventato più tollerante?
«Per certi versi sì. Ma ci sono cose che non sopporto: lo squilibrio perdurante tra ricchi e poveri, le promesse dei politici che da 10 anni ripetono le stesse cose, l'evasione fiscale, la corruzione, la speculazione».
Memorabile il sonetto che lei compose nel 2003, al funerale di Alberto Sordi: vede un suo erede?
«Non può esistere. Sordi è una parte intrinseca del Paese che ha rappresentato in una fase storica irripetibile».
L'incubo appena vissuto ci ha resi migliori?
«Ci ha fatto capire che bisogna ripensare il sistema Italia con responsabilità, onestà, consapevolezza. Spero che siamo diventati migliori: per rimanere quelli di sempre, non serviva la pandemia. In bocca al lupo a tutti noi».
Malcom Pagani per Il Messaggero il 2 novembre 2020. L'orchestra è cambiata, ma i tromboni sono rimasti gli stessi: «L' esercito degli esperti si è moltiplicato, gli opinionisti sentono l' esigenza di dirci la loro su ogni aspetto dell' esistenza, abbiamo fatto indigestione di parole e ormai siamo immersi testa e piedi in una parodia». Gigi Proietti è nato negli anni della guerra, ma all' età «proprio come le vecchie signore» preferisce non pensare: «Non sono anziano, sono antico». I «saccenti» li irrideva già mezzo secolo fa rielaborando Flaiano: «O come è bello sentirsi profondamente intelligenti/ per il sesso sdilinquirsi/ per la donna restare indifferenti/ rispondere a ogni inchiesta/ avere sempre un' opinione/ sottoscrivere una protesta/ spiegare la situazione» e dopo aver battuto il tacco su un palcoscenico per una vita - giura - di non avvertire fatiche né consunzioni: «Perché di ridere non ci si stanca mai».
Ne è sicuro?
«Sono anni che sento dire: Non è più tempo di ridere e non ci ho mai creduto. Non ci credevano neanche i miei genitori, cresciuti in un' epoca così intangibile da far dubitare persino che certe cose siano avvenute davvero».
Quali cose?
«La retorica del passato e della povertà di ieri rilette in chiave nostalgica non mi ha mai convinto, ma il passato è esistito e il mio e quello dei miei genitori deriva da un mondo diverso».
Che mondo era l' Italia degli anni 40?
«Un mondo di tuffi nella marana, sassaiole con i coetanei e prostitute come Maria Zozzetta che svezzava i ragazzi più grandi e che noi pischelli ci accontentavamo di fischiare al suo passaggio. Un microcosmo da Via Pal incastonato in borgata, al Tufello.
Era un mondo severo?
«Il maestro Bianchi aveva un bastone molto aguzzo e ogni mattina passava in rassegna gli alunni per vedere se avevano le orecchie pulite. Se scorgeva cerume o sporcizia, calava la bacchetta come una mannaia».
Avrebbe mai pensato di diventare attore?
«Escluso un Lago dei cigni di stampo liceale che affrontai con un cortissimo, terrificante tutù legato con la corda, Il teatro non sapevo neanche cosa fosse. Mi iscrissi al Centro universitario teatrale, al Cus, con lo stesso trasporto con il quale avevo deciso di affrontare Giurisprudenza all' Università. All' epoca le provavo tutte. Cantavo nei night fino all' alba, anche 80 canzoni a sera. Bevevo, sudavo, fumavo e ricominciavo mentre sotto, a un passo da me, tra puttane, avventori alticci e litigi per i conti faraonici, succedeva qualsiasi cosa. Concentrarsi senza smarrirsi era complicato. Alla fine della corvée cercavo sempre uno specchio».
Per quale motivo?
«Per vedere se riuscivo a riconoscermi. Era tutto frenetico, folle, velocissimo. Papà mi avrebbe voluto laureato. Non c' era famiglia italiana che non fosse votata al totem del posto fisso e mio padre non faceva eccezione: Piove o tira vento, prima o poi lo Stato arriva. E con lo Stato intendeva tasse, responsabilità, scadenze, impegni. Ogni tanto mi trovava a recitare da solo e nei suoi occhi incontravo il dubbio: 'Sto figlio mio non lo capisco».
Lei invece si capiva?
«Guadagnavo 5.000 lire a sera, questo capivo. Cambiavo panni e attitudini al ritmo delle esigenze del momento, ma troppe domande non me le facevo».
Proietti: il Fregoli del secondo novecento.
«Magari. Di certo ogni tanto mi sono sentito come lui: «Sono un po' stanco di me / sempre la stessa vitaccia / qualche volta mi cambio la faccia / ma la vita rimane com' è.» Agli attori, anche a quelli giovani, càpita spesso».
Come fece a conciliare studio, night e teatro nei primi anni?
«Facile: non aprii libro e lasciai perdere gli studi. Non c' era tempo per fermarsi né per riflettere in maniera approfondita. La paura del debutto, l' emozione e la responsabilità di dover conquistare anche l' ultimo spettatore della platea sono giunti molto dopo. Il primo maestro fu Cobelli. Mi offrì una parte ne Il Can can degli italiani. Testi di Arbasino, Vollaro e Flaiano. Esordii all' Arlecchino. Mi ricordo tutto come se fosse oggi. Quando Giancarlo mi propose la parte, una parte minuscola, fui sul punto di rifiutare. Grazie a dio non lo feci, se c' è una cosa che ho imparato in fretta è che non esiste ruolo apparentemente piccolo che non possa rivelarsi una grande occasione».
Cos' altro ha capito nel tempo?
«Che la maniacalità che rimproverandomi mi addebitava Gassman era un difetto e non un talento. Mi mancava l' umiltà di chi si mette al servizio del pubblico, senza dover usare la tecnica come uno schermo tra se e gli spettatori. Mi dicevano Sei troppo bravo che era altra cosa dall' affermare: Sei bravissimo. A un tratto, mi resi conto di un dato inconfutabile. Ero insopportabile. Me lo dissi da solo: «Cazzo, Gigi: sei antipatico».
E cambiò?
«Completamente, ma per ricordarmi da dove venivo, mutare pelle e cominciare a ragionare sul mio terreno d' elezione, ebbi bisogno di un' esperienza differente. Non esisteva solo il teatro d' avanguardia e dopo aver partecipato al Don Chisciotte televisivo e poi ad Alleluja brava gente, lo capii definitivamente anche grazie all' incontro con lo sceneggiatore che aveva messo mano a Cervantes, Roberto Lerici. A presentarmi Carmelo Bene fu proprio lui».
Che animale da palco era Bene?
«Lo conobbi che non aveva ancora compiuto quarant' anni. Da ragazzo avevo visto il suo Caligola. Mi era rimasta impressa una frase: Voglio soltanto la luna. A ben vedere, un manifesto programmatico».
Allo Stabile de L' Aquila passaste molto tempo insieme.
«Era uno spettacolo vivente, Carmelo. Anzi, era lo spettacolo sempre nuovo di se stesso. In Abruzzo, il grande salentino abituato ai tepori della sua terra d' origine, arrivò vestito come se dovesse scalare le vette himalayane per recitare ne La cena delle beffe. Bevitore incallito, tifoso juventino non di rado fazioso, citazionista compulsivo di Stirner, Majakovskij e del suo preferito, Schopenhauer, al quale secondo me affibbiava teorie e pensieri che il filosofo non aveva mai pronunciato. Ogni tanto lo interrompevo: Dove l' avrebbe scritta il tuo Arturo questa cosa? A che pagina esattamente? A quel punto ridevamo fino a star male».
A L' Aquila lei divideva tempo e idee anche con Gassman.
«Quanto mi sono divertito con Vittorio. Il teatro di avanguardia stava diventando ministeriale e quello di ricerca non si preoccupava di apparire grottesco. Gassman era spiritoso, pare che un giorno abbia detto a chi lo annoiava con le spiegazioni dotte e cervellotiche: Non vi affannate, sospendete le ricerche».
Vi eravate incontrati per la prima volta su un set di Scola.
«In Se permettete parliamo di donne, nel 64. Vittorio era scatenato, amava le feste, il casino, il vitalismo. Andare in macchina con lui però rappresentava un pericolo».
Correva?
«Correva e in auto con lui evitavo accuratamente di salire. Aveva precedenti non proprio rassicuranti. A Napoli, tornando da una festa piena di stelle del cinema, irritato per la fila immobile, aveva sgasato con una Porsche finendo per travolgere una 500. Al volante c' era una signora, Gassman si precipitò a vedere se si fosse ferita e per lasciare i propri estremi. La donna era illesa, ma quando vide l' attore più famoso d' Italia circondato da Sordi e Lollobrigida ebbe quasi un mancamento».
Vi ritrovaste poi sul set di Robert Altman.
«Il film si intitolava The wedding e nel 1978 trascorremmo un mese in una villa sulle rive del lago Michigan, tra Canada e Stati Uniti. Per ingannare il tempo e regalarci una variazione dal paesaggio pianeggiante e monotono, andavamo spesso in un vicino luna park».
Che facevate al Luna Park?
«Lunghi giri sulla ruota panoramica. Poi tornavamo sul set e a volte, improvvisavamo. I ruoli non erano fissi e un giorno mi toccò interpretare il fratello minore di Vittorio. Sulla sceneggiatura c' era scritto: Dialogo in italiano e lo rivisitammo a modo nostro. Lui mi chiese come stesse mia moglie, io gli risposi che aspettava un bambino e lui, mimando con le mani il gesto dell' amplesso, proruppe in un grevissimo: Sempre a scopà, eh?. Altman non capì una sola parola, ma decise dalla prossemica che il ciak andava benissimo. Se cerca il film lo troverà identico ad allora».
Altman si accontentava?
«Tutt' altro. Era un duro, capace di severità inattese e pedanterie che altro non erano che perfezionismo. Un altro duro era Monicelli. Fuori dal lavoro, uomo simpaticissimo. Sul set un generale prussiano che sapeva sempre quello che voleva».
Lavorò per lui su un set statunitense.
«A New York passammo 20 giorni di grande letizia. Giocavamo a fare i gagà italiani e Mario si piccava di essere più elegante di me. Non gliela davo vinta: Mario, ma ci hai guardati bene? Come fai a sostenere una fregnaccia simile?. Con le persone ironiche il problema della gerarchia non esisteva».
È vero che rifiutò un Otello propostole da Gassman?
«Uno dei pochi grandi rimpianti della mia carriera. Mi offrì il ruolo di Jago. Tra Otello e Jago la rivalità dal testo si innerva sugli attori e li mette in inevitabile opposizione. Memore di un' altra edizione dell' Otello in cui Vittorio aveva recitato con Salvo Randone scambiandosi di ruolo ogni sera e ritrovandosi quindi regolarmente paragonato a lui in positivo o in negativo, sfidarlo mi parve imprudente e rinunciai: Vittorio, lo sai bene come funziona 'sta storia fra Jago e Otello, no? - gli dissi- se vinci tu me ce rode, se vinco io mi dispiace: mi sa che è meglio che continuiamo ad andare a cena insieme e rimaniamo amici. Non me ne sono mai pentito a sufficienza».
Ha mai provato invidia per qualcuno?
«È successo, certo, ma mai nei confronti di quelli che ritenevo bravi. Non ho mai sentito astio né frustrazione per chi possedeva e dominava un mestiere, al limite ho masticato amaro per chi sprovvisto di talento arrivava a recitare comunque su palcoscenici importanti».
Lei li ha calcati, non solo in teatro. Fellini la adorava.
«Mi chiamava Gigiaccio e diceva che venirmi a vedere a teatro era come assistere allo spettacolo del fuoco. Federico non si permetteva il lusso di domandarsi il perché o il per come, guardava e basta: Mi avvicino a te per lasciarmi riscaldare. Uno dei complimenti più belli che mi abbiano mai fatto.
Altre blandizie? Altre dolcezze?
«Eduardo De Filippo mi venne a vedere ai tempi di A me gli occhi please, lo spettacolo che nel 1976, senza alcuna aspettativa, ebbe un esito lungo e molto duraturo. La faccia sorpresa di Sagitta, mia moglie, che la sera della prima mi avverte insieme all' impresario della fila di persone in attesa sul ponte, non me la sono più dimenticata.
Perché?
«Perché non ci credevo. Li mandai amorevolmente a fare in culo, eppure non mentivano».
Torniamo a Eduardo?
«Era il 1977. Si sedette in prima fila e a fine spettacolo, madido di sudore, bagnatissimo, con il trucco che mi calava sugli occhi andai a salutarlo. Poi mi raggiunse in camerino, vecchio, con le rughe profonde, mi strinse le braccia e mi disse che anche lui, quando era giovane, faceva cose simili alle mie: Qualcuno finalmente continua insistette e io un po' mi commossi».
La grandezza della semplicità?
«A me gli occhi era uno spettacolo autenticamente popolare messo in piedi ai tempi in cui i detrattori pur di non pronunciare la parola popolo, preferivano dire popolaresco con un evidentissima puzza sotto il naso. Eduardo e Fellini erano grandi proprio nella semplicità. Una sera a cena con Lerici e Federico, il maestro romagnolo lo teorizzò in parole a me e a Roberto: Non c' è un solo mio lavoro che non sia partito da un' idea semplice che sviluppando ho trasformato in complessa. Federico detestava i parolai che usavano termini astrusi per non dir nulla. Se osavi pronunciare sovrastruttura ti inseguiva con il bastone».
Di gente così ne ha incontrata tanta?
«Tantissima. Alzavano il ditino e ti spiegavano: Questa è la cultura alta e quest' altra invece, quella bassa. Io a questa dicotomia non ho mai riconosciuto dignità. Non avverto la necessità di definire. Quando sento dire: Stanzio un miliardo per la cultura applaudo, però poi mi chiedo: Ci spiegate anche cosa intendete esattamente per cultura?».
Cos' è la cultura per lei?
«Sapersi comportare. Saper stare in mezzo agli altri. Saper crescere insieme. È sempre più difficile, ma non dispero. Le persone in fila al Globe per Shakespeare o all' Auditorium per ascoltare lezioni di storia contemporanea mi fanno ben sperare. Di cultura, nel senso più ampio del termine, c' è sete».
Se dovesse vergarsi un' epigrafe cosa vorrebbe che ci fosse scritto?
«È stato curioso, così curioso da inseguire forse troppe ipotesi».
Intervista di Malcom Pagani per il “Fatto Quotidiano” pubblicata da Dagospia il 14 aprile 2016. Al ritmo di oltre cinquantamila spettatori ad annata, Gigi Proietti ha fatto conoscere Shakespeare ai romani. Il suo Globe, costruito nella stesso parco, Villa Borghese, in cui girarono Visconti, Moretti e Pietrangeli, è un bel film giunto ormai al tredicesimo anno di programmazione: "Senza l' intuizione di Veltroni e l'aiuto dei fratelli Toti non avremmo visto neanche i titoli di testa. Il sindaco di allora mi propose di portare un Romeo e Giulietta per festeggiare il centenario della donazione della Villa alla città da parte della famiglia borghese. Rilanciai portando le foto del Globe di Londra e ragionammo sull' ipotesi di creare uno spazio permanente dentro la città che non costringesse, come sempre avveniva quando si parlava di teatro di stampo tradizionale, all' esilio nei teatri antichi. Per miracolo la struttura venne eretta in tre mesi. La burocrazia non fece in tempo a mettere i bastoni tra le ruote. Ho appena recitato nella seconda stagione di una fiction - Una pallottola nel cuore - che è stata vista da sei milioni di spettatori. Ma la felicità per il Globe è impagabile, soprattutto a quest' età".
Che tipo di felicità è?
«La consapevolezza che con il Globe è nato qualcosa di tangibile. Una realtà a cui ho contribuito attivamente. Era un sogno ed è diventato realtà grazie alla rete e al voce a voce. Quando ci penso avverto tante sensazioni.
Cose buone?
«Solo cose buone. Orgoglio e gioia, principalmente».
Dopo la prima stagione, nel 2003, le presenze furono 20.000.
«Oggi sono quasi triplicate. L' anno scorso abbiamo avuto 54.000 spettatori. Gente che oggi, con l' isteria da consumo immediato che si respira, è pronta a stare in piedi in platea per tre ore per ascoltare un testo shakespiriano. Non è vero che il pubblico non capisce o premia solo l' orrore, ma è vero che il rapporto con il pubblico si crea soltanto con lo scambio».
Quando vede un ventenne mettersi in fila per Shakespeare a cosa pensa?
«Le prime file fuori dal Globe me le ricordo, somigliavano a quelle che mi lasciarono senza parole a metà degli Anni 70. La gente veniva a vedere i miei spettacoli e io mi chiedevo: "Ma vengono a vedere proprio me?" Quando ti aspetti poco e ricevi tanto la soddisfazione è doppia"».
Shakespeare se ne è andato da 400 anni.
«Dicono. Qualcun altro dice che non sia mai esistito e altri ancora giurano che fosse italiano. Il signor Scuotilancia, di professione poeta. Se Shakespeare è veramente morto da 400 anni non ce ne siamo accorti».
Per la bellezza del testo scritto?
«La passione per il comando, l' indagine sul potere, i grandi sentimenti, la politica. Nei suoi scritti c' è un' attualità profonda. In Shakespeare nostro contemporaneo, Jan Kott ce lo ha spiegato bene».
Cosa ci ha lasciato Shakespeare?
«Si può trascorrere la vita intera a cercare di capirlo. Shakespeare è un pozzo senza fondo e non ti puoi limitare alla lettura del testo: ogni volta che ci rimetti mano scopri che certe cose non le avevi viste e altre ancora non le avevi proprio comprese».
Testi non semplici.
«Come diceva quel grande attore inglesi: "Beati coloro che lo possono tradurre". In Shakespeare ci sono infiniti livelli di lettura e un' investigazione della psicologia che molto tempo prima di Freud si avventura a leggere in profondità l' animo umano e a spiegare dinamiche fondamentali, l' amore, la lotta, l' ambizione. C' è una struttura molto moderna escluso qualche barocchismo di troppo».
Quando ha incontrato Shakespeare nel suo percorso?
«Interpretai un Coriolano a L' Aquila per la regia di Calenda, ma successe nel Medioevo».
Come Proietti?
«È accaduto tanto di quel tempo fa che i ricordi si confondono. Era un testo bellissimo, ma ostico. Ho un rimpianto: avrei desiderato tanto interpretare Amleto, ma non è mai accaduto. C' è sempre stato o meglio io ho sempre avuto una sorta di timore a toccare quello che drammaturgicamente è il testo più importante dello scorso millennio».
Si ricorda l' Amleto di Gassman?
«L'ho rivisto in tv, all' epoca avevo quindici anni e Shakespeare non sapevo neanche chi fosse».
Poi Amleto l' ha letto.
«"È un archetipo" ammonivano tutti. Continuano a dirlo. Non ho mai saputo che cavolo intendessero dire».
C'era molto Shakespeare nel suo Edmund Kean.
«Ma niente del gigantismo spettacolare dell' Amleto interpretato da Vittorio. Era un monologo in cui raccontando in prima persona la parabola tutta genio e sregolatezza del più grande attore inglese vissuto tra la fine del sette e l' inizio dell' ottocento approfittavo per navigare nell' infinita produzione shakespeariana. Mi piacerebbe rifarlo al Globe, ma sono due ore toste, pesanti, faticose».
Proietti non si spaventa.
«Intanto affronto Shakespeare ogni giorno aiutandomi con qualche saggetto e con qualche esegesi del poeta. Edmund Kean, magari, la prossima volta».
Ciao Gigi…”A me gli occhi, please”. Di Redazione culturaidentita.it il 2 Novembre 2020. Il 2 novembre è venuto a mancare Gigi Proietti: quel giorno avrebbe compiuto 80 anni. Per l’occasione vi proponiamo l’intervista che il grande attore concesse a il Giornale OFF nel 2017 (Redazione)
Lei stupisce tutti col meraviglioso racconto della sua inimitabile vita…Ha detto inimitabile? Ma la vita inimitabile è una prerogativa di D’Annunzio non mia che ho cominciato strimpellando una chitarra che mi era stata regalata a Natale mentre a mia sorella era toccata in sorte una fisarmonica”.
Per davvero?
“Mi ascolti e tutto le sembrerà facile. Io con la chitarra cominciai ad esibirmi, per ridere, davanti a un gruppo di coetanei, appena iscritti come me alla facoltà di Legge. Ma dopo un po’ mi stancai di avere un uditorio così limitato e un po’ per scherzo un po’ per piacere personale cominciai a raccontare delle barzellette inframmezzate da piccoli intermezzi comici. Poi mi misi a canticchiare brani di celebri canzoni del passato nelle trattorie dove andavamo dopo aver faticato sui libri a gustarci una pausa ristoratrice”.
Ma allora il palcoscenico per lei è stato una seconda scelta?
“No, è stata una meravigliosa avventura che mi è capitata addosso quasi senza volere perché una sera in una di quelle meravigliose trattorie romanesche, che oggi pur – troppo cominciano a scomparire, si presentò un grande attore e mimo come Giancarlo Cobelli. Che mi disse: “Ma lei caro, deve fare assolutamente del teatro”. Io gli risposi, che per fare teatro ci volevano gli attori. Io non sono un attore sono solo un povero pazzo che dice tre o quattro barzellette tra una lezione e l’altra all’università. Siamo un gruppo di amici che ambiscono soltanto a divertirsi. Al che Cobelli mi rispose piccato, mi dispiace molto perché lei dimostra un talento che s’ incontra di rado anche tra i giovani che frequentano l’Accademia d’arte Drammatica. Dopodiché facendomi un cenno di saluto se ne andò. Non lo rividi per qualche tempo”
E allora come andò a finire?
“Andò a finire che tra i miei incontri fortuiti ci fu quello con Vittorio Gassman. Che proprio all’università venne a raccontarci qualcosa della sua vita di palcoscenico. Io andai ad ascoltarlo incuriosito dal fatto che un uomo così importante dalla vita bizzarra e tumultuosa, venisse a parlarne con noi”.
Cosa vi disse Gassman?
“Cosa ci disse non me lo ricordo. Ricordo soltanto che mi stupì per la sua umiltà quando gli chiesi come mai avesse trionfato così giovane allestendo testi che andavano da “Otello” a “Amleto”. Mi rispose che, ad aiutarlo, era stata la sua innata timidezza che non lo lasciava mai neppure quando uscì dall’Accademia. Ma dovevo pur cominciare a farmi valere. Così capii che la paura che mi aveva da sempre attanagliato era una falsa pista. Poi cominciò a dialogare con noi come se fosse appena tornato da un allenamento. Allora non sapevo che era stato anche un grande campione non mi ricordo più se di pugilato o di atletica leggera. Glielo chiesi e lui mi rispose: “Bisogna pur gonfiare i muscoli se si vuole recitare”. Così mentre gli ricordavo il mio piccolo curriculum di cantante attore lui mi rispose: “Perché non viene a trovarmi uno di questi giorni così vedrà come recitano i miei attori. E poi andiamo a berci una bella birra”. Fu cosi continuai a frequentarlo molto amichevolmente. A quel punto decisi che il teatro sarebbe stato la mia vita. All’inizio sia io che Gassman pensavamo che il mio lavoro teatrale dovesse incanalarsi in una carriera d’attore drammatico”.
Quali sono stati i suoi primi ruoli da protagonista?
“Tra i miei primi ruoli ci fu un testo di Alberto Moravia intitolato “Il dio Kurt” che re-citai dapprima allo stabile dell’Aquila e subito dopo al Piccolo di Milano con Alida Valli e la regia di Antonio Calenda. Un testo di una drammaticità spaventosa in cui impersonavo un nazista che alla fine si redimeva. Ebbe un grande successo soprattutto tra gli addetti ai lavori. Avremmo potuto replicarlo anche per due stagioni se non fossimo stati incalzati dalle continue richieste di fare qualcosa di più commerciale. Intanto con l’avvento del sessantotto gli editori cominciavano a interessarsi alla drammaturgia. Dalle fumose librerie del centro Europa arrivavano i testi dei grandi autori polacchi che non avevamo mai sentito nominare come Witkiewicz. Io finii per innamorarmene al punto di persuadere i teatri, con cui avevo stabilito una fraterna collaborazione, di farmene interpretare qualcuno. Fu così che scoppiò il caso di “Operetta” di Gombrowicz un testo meraviglioso. Per la mia versatilità venni paragonato a Petrolini. Un attore che non ho mai potuto conoscere ma di cui ho visto alcuni spezzoni cinematografici interessanti. Sembrava un gigante e al tempo stesso un bambino capriccioso che arrampicatosi per caso all’ultimo piano di una gigantesca libreria si divertisse a saccheggiare un testo dopo l’altro. Fu a questo punto che mi ritrovai a soccombere a quel grande tentatore di Cobelli. Probabilmente, oggi avrei esitato prima di dare il mio sì incondizionato a quella stranissima prova che stava per incombere su di me. Ovvero quello strano Music Hall che s’ intitolava “La caserma delle fate”. Che ebbe successo ma che per noi attori fu molto travagliato perché di un vero e proprio copione non si poteva parlare. Infatti da regista attore Cobelli aveva confezionato da sé il copione. Ma ogni giorno, a seconda di quelle che chiamava “ intermittenze del cuore”, come quelle di Proust che stava leggendo in quel periodo, si divertiva ad aggiungere tre o quattro rime, dieci versi di una canzone inedita, cancellando battute su battute per sostituirle con altre. Tutto quanto poi era complicato dal fatto che anche Cobelli recitava con noi e come un invasato continuava ad andare su e giù dal palcoscenico cercando dei guizzi estemporanei per farli subito dopo ripetere a noi che non avevamo la sua esperienza. Erano gli anni in cui nei suoi spettacoli cantava, insieme a Laura Betti, canzoni scritte da Missiroli, da Arbasino e da Piovene che noi avremmo dovuto far da coro. Fu comunque una grossa esperienza che mi insegnò che cosa fosse la disciplina di palcoscenico sforzandomi di non di non spezzare quell’incanto che mi legava al pubblico e al personaggio che in quel momento dovevo recitare. Fu la prima volta che qualcuno per la strada mi chiedeva l’autografo e si congratulava con me. Un’esperienza per me molto imbarazzante che avrei voluto andarmene subito a casa a pensare come avrei potuto migliorare le mie interpretazioni. Sono sempre stato una specie di maliardo della scena in cui ho sempre fatto tutto e il contrario di tutto finchè non mi sono reso conto che dovevo avere una linea precisa migliorandola sera dopo sera come accadde ai tempi del Teatro Tenda di piazzale Clodio”.
E’ stata l’esperienza più interessante della sua vita: ce ne parli, la prego.
“Determinante fu l’incontro con il drammaturgo Roberto Lerici un grande amico che purtroppo non c’è più e che ancor oggi mi manca tantissimo. Lerici mi diede l’opportunità di misurarmi con me stesso continuando ad esplicare la mia vena comica. Naturalmente c’erano di mezzo i suoi testi e la sua genialità di farmi interpretare brani della Commedia dell’Arte o del teatro francese e inglese dell’Ottocento. Tutti mescolati in un calderone che oggi farebbe paura persino a me riprendere con quello spirito giovanile che si perde nel corso degli anni e che alla fine si trasforma in mestiere. In quel teatro tenda per me confluiva tutto il mondo possibile e immaginabile. Ho ancora il ricordo della gente che si assiepava e che si sedeva come se andasse alla Scala o al Piccolo Teatro e che condivideva con me il ruggito dei leoni. Perché il proprietario del tendone era un vecchio ex domatore a cui erano rimasti soltanto quattro leoni spelacchiati che circolavano liberamente dentro un’enorme gabbia e che ogni tanto mandavano i loro ruggiti”.
Veniamo adesso al teatro Sistina?
“Ad un certo punto venni chiamato da Garinei e Giovannini che di me avevano una grande stima. Avrei dovuto sostituire Modugno nel musical “Alleluia brava gente” insieme a Mariangela Melato. Fu una bellissima esperienza ma anche quella transitoria. Perché non volevo prendere il posto dei grandi mattatori della scena del varietà. Il mio varietà era un’altra cosa”.
E il cinema?
“Ricordo con grande piacere la “Tosca” che feci con Luigi Magni in compagnia di Monica Vitti che era la cantante e di Vittorio Gassman che con l’occhialino seduto in poltrona come se fosse l’imperatore di Roma era il barone Scarpia. Pensi che Monica Vitti a chi le diceva: “Attenta signora, così rischia di cadere rispondeva: “ Io non cado, mi butto”.
Ma è possibile che il nostro Gigi non abbia ancora nella sua cornucopia altre meravigliose invenzioni?
“Sono molto fiero della scuola per attori che ho tenuto per nove anni al teatro Brancaccio che poi si è trasformata a Villa Borghese nel teatro Globe il “doppio” del famoso teatro shakespiriano dove riprendo i capolavori del Bardo pieni di colpi di scena, di agnizioni e di delitti reinterpretati con spirito eversivo”.
· È morto Sean Connery.
È morto Sean Connery: il leggendario 007 aveva 90 anni. Roberto Nepoti su La Repubblica il 31 ottobre 2020. L'attore scozzese ha iniziato la sua carriera di agente segreto nel '62 con "Licenza di uccidere" e l'inaspettato successo lo ha portato a interpretarlo altre sei volte. Dopo aver abbandonato il personaggio ha spaziato tra i generi, da "Il nome della rosa" a "Gli intoccabili", "Caccia a Ottobre Rosso" e "Indiana Jones". Sean Connery è morto all'età di 90 anni. Se n'è andato serenamente nel sonno mentre si trovava alle Bahamas, circondato dai suoi familiari. È come se, in un giorno solo, avessimo perduto due vecchi amici: il celebre attore scozzese e James Bond. Benché negli anni l'agente segreto con licenza di uccidere abbia assunto i tratti di molte altre star, infatti, per unanime consenso Sean Connery è stato il "vero" e unico 007, la faccia autentica con cui identificare il personaggio immaginario di Ian Fleming. Che lo aveva inventato nel 1953 e gli aveva già dedicato una decina di libri (tra cui un racconto adattato per la tv), quando l'entrata in scena di Connery lo promosse al grado di eroe per eccellenza dell'Olimpo mediatico. Il percorso per arrivare a un simile risultato non era stato dei più semplici. Quando, a 32 anni, Sean Connery si candida per portare sul grande schermo l'agente 007, deve gareggiare con Cary Grant, James Mason e Richard Burton. Ma è lui il prescelto, quello che arriva per primo ad ammirare il bikini bianco di Ursula Andress (“007 - Licenza di uccidere”, Terence Young, 1962). Prima di questo ruolo che gli cambierà la vita aveva fatto di tutto, compreso il lucidatore di bare e rappresentato la Scozia al Concorso per Mister Universo, classificandosi al terzo posto. Dopo una serie di ruoli di secondo piano in cinema e tv negli anni Sessanta diventa la star James Bond. Quasi sessant'anni dopo è ancora lui - a detta di molti - lo 007 più amato. Ma nella lunga carriera altri ruoli lo hanno confermato nel talento e nel fascino: il nobile Ramirez di Highlander, il Robin Hood ormai anziano accanto a Audrey Hepburn, il padre di Indiana Jones, il frate detective del Nome della Rosa. Nato a Fountainbridge, sobborgo di Edimburgo, il 25 agosto 1930, da genitori di modeste condizioni, Thomas Sean Connery lasciò la scuola a sedici anni e si arruolò nella Royal Navy, che dovette lasciare per colpa di un'ulcera. Fece i classici mille mestieri (bagnino, lavapiatti, muratore, guardia del corpo); poi, alto, prestante e bello com'era, trovò anche lavoro come modello e rappresentò la Scozia nel concorso di Mister Universo del 1953, malgrado la precoce calvizie iniziata a soli diciannove anni. Ma per fortuna i parrucchini esistono e Sean, che mirava in alto, dopo piccole parti in tv e al cinema (incluso un film di Tarzan) affrontò i concorsi per incoronare il futuro 007. Scelto da Albert Broccoli e Harry Saltzman, iniziò la sua carriera di agente segreto con un primo film a modesto budget, Agente 007 licenza di uccidere (1962), il cui inaspettato successo ne generò poi altri sei: tutti interpretati da lui, ambientati in universi filmici sempre più complessi, futuribili e costosi. Come osservò a suo tempo Umberto Eco, le avventure di James Bond non cambiano mai: variano solo l'antagonista e l'ordine degli episodi. Finché durò la Guerra Fredda, comunque, questa invariabilità fu una garanzia presso il pubblico mondiale: che sapeva cosa aspettarsi da Bond e lo ritrovò puntualmente in Dalla Russia con amore, Missione Goldfinger, Thunderball, Si vive solo due volte. Tutti film di enorme successo. Oltre che bello e fascinoso, però, Connery voleva essere bravo ed era deciso a non restare per sempre legato a un personaggio: come vecchi colleghi che avevano finito per credersi Tarzan (Johnny Weissmuller) o Dracula (Bela Lugosi). Del resto si era già messo al sicuro lavorando, tra un Bond e l'altro, per registi come Alfred Hitchcock nel suspenser Marnie (1964) o Sidney Lumet, nel dramma militare La collina del disonore (1965). Dopo Si vive solo due volte decise di separarsi dal character con cui era ormai identificato: salvo riprenderlo, dopo il flop del suo sbiadito successore George Lazenby, in Una cascata di diamanti. Troverà miglior erede in Roger Moore (ma tornerà una volta ancora, ormai ultracinquantenne, a fare un ultimo Bond in Mai dire mai). Il suo fascino, comunque, non sbiadiva. Quando, nel 1999 (lo stesso anno della sua elezione a baronetto) fu proclamato dalla rivista People "l'uomo più sexy del secolo", ai giornalisti che gli chiedevano un commento rispose con humor scozzese: "Non saprei. Non sono mai stato a letto con un uomo di sessant'anni, calvo". Mentre la stampa continuava ad alimentarne il mito (malgrado la sua nota riservatezza sulle questioni private) - facendone di volta in volta un uomo attaccato al denaro, manesco con la prima moglie Diane Cilento, patriota scozzese (celebri le sue uscite in kilt) generoso di sovvenzioni all'indipendentismo - dopo il divorzio dal suo alter ego Connery non mancò certo di occasioni. Interpretò almeno quaranta film, spaziando tra i generi e richiamando quasi sempre in sala folle di spettatori. Non tutti capolavori, a onor del vero: alcuni, anzi, decisamente mediocri (il western Shalako con Brigitte Bardot, Il primo cavaliere, La leggenda degli uomini straordinari) o di semplice routine. Molti, però, destinati a diventare cult, anche grazie alla sua presenza. Elencando liberamente: il fantascientifico Zardoz (1974); l'epico Il vento e il leone, dove impersona al culmine della fotogenia il fiero capo berbero Raisuli (1975); l'avventuroso L'uomo che volle farsi re di John Huston (1975); il crepuscolare Robin e Marian (1976), in cui è una versione stanca e attempata di Robin Hood (nel film di Kevin Costner sull'arciere di Sherwood farà Riccardo Cuor di Leone) e tanti altri. Gli ultimi anni 80 sono un'altra età dell'oro per l'attore: nel 1986 è Guglielmo di Baskerville nella riduzione cinematografica del Nome della rosa di Umberto Eco, parte che gli frutta il premio Bafta come miglior protagonista; l'anno seguente vince Golden Globe e Oscar all'attore non protagonista col ruolo dell'agente Jimmy Malone in The Untouchables - Gli intoccabili di Brian De Palma. Nel 1989 si diverte a interpretare il papà di Harrison Ford in Indiana Jones e l'ultima crociata di Spielberg. Il 1990 lo vede protagonista di due intrighi internazionali di grande successo: Caccia a Ottobre Rosso e La casa Russia (dove l'età non gli impedisce di flirtare con Michelle Pfeiffer; come, più tardi, con l'ancora più giovane Catherine Zeta Jones in Entrapment). Nel 2000 si regala uno dei suoi ruoli migliori - quello di un anziano scrittore solitario e ipocondriaco - in Scoprendo Forrester di Gus Van Sant. Ma cinque anni dopo Connery, che non ha mai amato gli eufemismi e le mezze parole, dichiara a un giornale neozelandese di aver rifiutato il ruolo di Gandalf nel Signore degli anelli, che non ha mai trovato interessante, e aggiunge di volersi ritirare dallo spettacolo perché "stufo degli idioti". Promessa che (salvo prestare la voce per un videogame su 007) ha rigorosamente mantenuto.
Connery per l'eternità. Sean Connery è morto, ma il suo fascino leggendario vivrà ancora a lungo. L'attore scozzese che ha vestito meglio di ogni altro i panni di James Bond non è stato solo un'icona di stile; è stato un'ispirazione per milioni di uomini, e desiderio "raffinato" di milioni di donne. Davide Bartoccini, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Non deve essere stato facile essere l'uomo più affascinante del mondo per 90 anni. Eppure Sir Thomas Sean Connery, sangue del miglior sangue di Scozia, c'è riuscito. Fino all'ultimo tramonto. Fino all'ultimo sogno. Venuto a mancare nel sonno - mentre si trovava nella sua villa alle Bahamas, dove trascorreva da anni un confortevole esilio - possiamo dire ci abbia lasciati nella maniera più dolce che si possa augurare ad un idolo, a un mentore. A un'icona che resterà per sempre nel nostro cuore e nel nostro immaginario. Certi bambini da piccoli vogliono diventare pompieri, altri calciatori, altri piloti di formula uno; altri, guardando le pellicole di James Bond con i nonni, hanno sempre sognato da fare gli agenti segreti da grandi. Agenti doppio 0, con la licenza di uccidere i cattivi. Di riuscire, alla fine, a salvare il mondo. Sempre. E se ciò è accaduto, gran parte di questa fascinazione, di questo spirito medievale rincorso nella realtà, va attribuito a uno scozzese bello e sornione che, a dirla tutta, il ruolo della spia più famosa del mondo voleva anche rifiutarlo. Nato nel 1930 in un sobborgo di Edimburgo, figlio di un camionista e di una cameriera, Sean Connery è stato molto, prima di essere attore e icona di stile. Ci ha insegnato a indossare lo smoking, a giocare al casinò, ad abbinare uno spezzato, a corteggiare una donna davanti a un Vesper Martini. Agitato, non mescolato. È stato marinaio nella Royal Navy, bagnino, lavapiatti, guardia del corpo e verniciatore di bare. Gareggiò anche come Mr.Universo. Attore, tra i più iconici degli anni '60, premio Oscar nel 1987 nel ruolo indimenticabile di Jimmy Malone - il poliziotto con San Giuda in tasca negli Intoccabili di Brian De Palma -; e anche politico: indipendentista scozzese, ovviamente. Ambasciatore del suo patriottismo sarà il tatuaggio fatto sull'avambraccio destro quando era in marina: un pugnale che trafigge un cuore con su scritto "Scozia per sempre". Certe sue battute, certi suoi sguardi, certe espressioni, resteranno per sempre incisi nella nostra memoria: il risveglio su una spiaggia tropicale davanti una deliziosa Honey a caccia di conchiglie.. e "Under underneath the mango tree" di sottofondo. Ce lo insegna David Aames in Vanilla Sky. Quando nell'Ultima Crociata il professor Jones sr. si ricorderà il suo Carlo Magno lasciando che i suoi eserciti siano "i pennuti nel cielo". O quando atterrando con un jet-pack in "Operazione Thunderball", pronuncerà la celebre battuta: "Ogni gentiluomo dovrebbe averne uno". O ancora quando imbiancato, in The Rock, spalancherà una porta di ferro dicendo laconico: "Benvenuti ad Alcatraz". O forse, più di tutte, quando seduto al tavolo dello chemin de fer, sorriderà beffardo a Miss. Trench, dicendo che "Non ha obiezioni" se verrà alzata la posta in gioco. Questo prima di pronunciare la celebre battuta che lo consegnerà alla storia: "Il mio nome è Bond, James Bond". Il resto, sono dei rever sciallati in raso su una giacca da sera perfetta, un porta sigarette d'argento ben maneggiato e uno sguardo che trafigge i cuori: delle "bond girls", come degli uomini che guarderanno a lui come un mentore irraggiungibile, per sempre.
James Bond parlava calabrese. Lo scozzese Sean Connery era il compare di un calabrese, Albert Broccoli, che ha dato origine alla più grande saga del cinema mondiale. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud l'1 novembre 2020. Il mio nome è Bond, James Bond… Questa è la storia di uno scozzese e di un calabrese. Sean Connery era un bravo ragazzo, uno di un quartiere di periferia, uno dei pochi, che potesse indossare uno smoking senza essere ridicolo e senza mai averlo posseduto. Un proletario che ce l’aveva fatta, lanciato verso la bellezza e lo scialo: e tutto a spese del capitale. Era la parte mancante di Carlo Marx: fare la rivoluzione in proprio truccati con le maschere della borghesia. È per questo che gli abbiamo voluto bene e continuiamo a volergli bene, a guardare questi film prodotti da un tale Broccoli che non sappiamo neppure dove avesse trovato le idee per un futuro che non immaginavano neppure. È in momenti depressivi come questi che abbiamo bisogno di una favola: Sean Connery e Albert Broccoli questa favola ce l’hanno raccontata. Perché quella di Connery e di Broccoli è un favola. La descrive benissimo un articolo di Anna Maria Pasetti sul Fatto Quotidiano. Sean Connery era il figlio di un camionista di origini irlandesi e di una cameriera scozzese che si trovò a 14 anni a lavorare da “milkman”. Il giovane Connery si trovò a portare il latte nelle case di Edimburgo nel quartiere di Fountainbridge dove poi da ricco e affermato attore edificò una villa suntuosa, da vero proletario. La società si chiamava Scotmid, era stata fondata nel Natale del 1880 quasi fosse una novella di Dickens, e Sean registrato come “Thomas S Connery” iniziò a lavorarci il 20 luglio 1944, in piena seconda guerra mondiale. L’attore più celebre del mondo aveva un salario da apprendista di 21 scellini a settimana. Sempre secondo gli archivi locali, il suo ruolo preciso era quello di “Corstorphine Dairy barrow worker”. Connery interruppe il lavoro presso la Scotmid dal 1948 al 1949 (intervallo di tempo che coincise con il suo arruolamento in Marina) quando vi tornò nel ruolo di “horseman” per poi lasciarla per sempre nel 1950. Non esistono foto disponibili del divo nei panni di milkman, tuttavia pare che sia in costruzione un archivio fotografico della Scotmid per ripercorrere la propria storia aziendale: probabilmente qualche ritratto “unofficial” salterà fuori. Connery è stato bagnino, muratore, lavapiatti e soprattutto “verniciatore di bare”, insomma quasi tutto. Manca al suo brillante curriculum una menzione come allibratore di cavalli, nobile professione che apre le porte del mondo. Però – si apprende dall’articolo della signora Pasetti – che nel 1953 lo scultoreo Sean gareggiò come Mister Universe nella competizione indetta dalla NABBA (National Amateur Bodybuilders Association): di lui in veste di bodybuilder esistono diverse immagini. Il futuro attore rappresentava la Scozia e si classificò terzo. Arrivò terzo anche quando gareggiò come James Bond, il concorso indetto nel 1957 dal London Express per scegliere il corpo e il volto di 007 cinematografico. La parte di Bond fu sua grazie al sostegno di Dana, la moglie del produttore Alber “Cubby” Broccoli: pare che dopo averlo visto in un film della Disney Dana non ebbe dubbi segnalando al marito di aver trovato “il nostro James Bond”. Albert Broccoli, il produttore di James Bond, era uno delle nostre parti, nato in una famiglia italoamericana di Long Island di origini calabresi il nonno paterno Antonio Maria Broccoli era di Carolei, di Cosenza. La famiglia si trasferì in Florida e, alla morte del padre John, Albert andò a vivere con la nonna ad Astoria, nel Queens, a New York. Nel 1940, all’età di 31 anni, Cubby sposò l’attrice Gloria Blondell (sorella minore di Joan Blondell), qualche anno più tardi divorziarono senza aver avuto figli. Avendo fatto molti lavori – incluso il produttore di bare e Connery aveva fatto il verniciatore di bare – Broccoli fu coinvolto nel cinema. Iniziò dal basso lavorando come fattorino sul set del film “Il mio corpo ti scalderà” del 1941. Qui incontrò il magnate Howard Hughes, che si occupò della produzione quando il regista Howard Hawks venne cacciato. In seguito all’attacco giapponese a Pearl Harbor alla fine del 1941, Broccoli entrò nella marina militare americana tornando a Hollywood nel 1945 per lavorare come agente alla Famous Artists Agency. Come Bond anche Broccoli era un marinaio. All’inizio degli anni cinquanta Broccoli si trasferì a Londra. Si rivelò molto abile nel fare buon uso dei sussidi del governo britannico per finanziare film prodotti nel Regno Unito con cast e troupe britanniche. Nel 1951 Broccoli sposò Nedra Clark, che morì dopo aver dato alla luce la loro figlia, Tina. Negli anni sessanta, Broccoli incontrò e sposò l’attrice e romanziera Dana Wilson, che morì di tumore nel 2004, all’età di 82 anni. Nel 1962, Broccoli si mise in società con Harry Saltzman fondando la EON Productions Broccoli produsse il primo Bond movie, “Agente 007 – Licenza di uccidere”, sua figlia Barbara Broccoli e il figliastro Michael G. Wilson da allora anno prodotto tutti i film di James Bond. Lo scozzese Sean Connery/James Bond era il compare di un calabrese, Albert Broccoli, che ha dato origine alla più grande saga del cinema mondiale. Uno, Connery da giovane verniciava bare, l’altro, Broccoli, le produceva. Insomma due bravi ragazzi.
Renato Franco per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2020. La Venere del Botticelli della cultura pop. Ursula Andress esce dall'acqua in bikini color panna, le conchiglie nelle mani, il coltello alla cintura. L'effetto di Mosè quando apre le acque. Una folgorazione, un'immagine indelebile, scolpita nel bronzo del cinema. La prima Bond Girl, quindi quella che si ricordano tutti. Dopo di lei solo imitazioni. Nata in Svizzera, ma cittadina del mondo, Ursula Andress vive a Zagarolo, in provincia di Roma. Il suo italiano naïf è un impasto di 84 anni di esperienze e empatia. «Provo un dolore grande per la sua partenza. Era un grande uomo, oggi uomini così non esistono più, sono tutti troppo narcisisti, troppo presi da se stessi. Uno come Sean oggi è difficile da trovare. È stato un amico grande e un attore favoloso».
Il primo incontro fu proprio sul set di «Agente 007 - Licenza di uccidere».
«Avevo un po' paura, eravamo sul set a Kingston e non conoscevo la Giamaica. Ci siamo visti per la prima volta nella sala da pranzo del piccolo albergo dove stavamo; lui era solo al tavolo e io ero timorosa. Ma poi passò tutto. Durante la lavorazione del film fu molto protettivo con me, adorabile, fantastico. Era pieno di vitalità, di passione per le donne. Adorava le donne. Era molto uomo, indubbiamente».
Aveva capito che stava per girare un film che avrebbe fatto storia?
«In realtà io avevo accettato il film pur pensando che nessuno lo avrebbe mai visto, la sceneggiatura non mi era piaciuta per niente. Non conoscevo Sean, e pensavo: sarà la prima cosa che faccio al cinema e anche l'ultima. Poi invece il film ha preso il volo, la chimica tra noi due funzionava, era la combinazione giusta».
Che atmosfera si respirava sul set?
«Io adoravo Ian Fleming, la Giamaica, l'oceano, i posti favolosi, la gente adorabile, ma nessuno pensava mai potesse avere questo successo clamoroso. Nessuno durante le riprese ci ha mai detto che erano contenti di quello che stavamo girando».
Che effetto le fa essere entrata così prepotentemente nell'immaginario collettivo?
«Il film costava appena 800mila dollari, niente a che vedere con le cifre di oggi. Io pensavo che in quella scena avrebbero messo degli effetti speciali, delle onde enormi dietro di me. Invece niente. Sono uscita così dall'acqua, come esco tutti i giorni dal mare...Penso di essere stata fortunata perché il pubblico voleva un personaggio più vero. Prima c'erano Gina, Sophia, con le loro forme rotonde, io invece ero piuttosto atletica, ma con un corpo niente di speciale: non sono stata mai in una palestra. La mia fortuna è stata che in quel momento cercavano qualcosa di diverso».
Con Connery siete rimasti amici tutta la vita.
«Era un amico fedele. Aveva la capacità di capire al volo la gente, quelli pieni di se stessi, i superficiali. E poi aveva un senso di umorismo che mi piaceva moltissimo. L'ultima volta ci siamo visti in Svizzera, Sean aveva preso casa a Gstaad vicino a me. Abbiamo fatto tante serate, mi invitava sempre, Montecarlo, Londra, New York... Da quando ci siamo conosciuti fino ad ora siamo rimasti amici, amici veri».
Come attore non è stato solo 007.
«Al di là di James Bond ha fatto una grande carriera. È stato bravissimo nel Nome della rosa , nei film con Lumet. È stato un grandissimo».
Cosa le rimane?
«Tante cose divertenti, che però adesso mi fa quasi pena, mi fa male ricordare. Abbiamo vissuto dei momenti bellissimi e mi rimangono dei ricordi favolosi. Per me Sean non è morto rimarrà sempre vivo con me, ci sarà sempre». Si vive solo due volte, ma Sean Connery per sempre.
Arianna Finos per “la Repubblica” l'1 novembre 2020. «È difficile trovare le parole perché è stata una persona a me molto molto cara», racconta Ursula Andress, 84 anni, la voce spezzata dal dispiacere per la morte di Sean Connery. La Bond girl statuaria che usciva dal mare entrando nella storia del cinema aveva affiancato il divo scozzese in Agente 007 - Licenza di uccidere , diretto nel 1962 da Terence Young. Era stato l' inizio di un rapporto longevo: «Sean è stato un grande uomo, il mondo ha perso una figura importante, un grande attore. Io piango l' amico carissimo. Il nostro legame ha attraversato tutti questi anni senza mai interrompersi. Aveva persino comprato una casa in Svizzera vicino a me, lo vedevo lì, ci eravamo visti anche alle Bahamas. Siamo sempre rimasti in contatto, fino alla fine. Per me non andrà via mai, resterà sempre nei miei ricordi, nella vita, nelle cose fatte insieme. La nostra amicizia è stata parte della nostra esistenza».
Vi siete conosciuti sul set di "Licenza di uccidere".
«Sì, sul set in Giamaica. Abbiamo legato subito, fin dai primi giorni siamo diventati complici. Avevamo due caratteri sintonici e soprattutto, lo stesso senso dell' umorismo: Sean era capace di farmi morire dal ridere. Andavamo d' accordo su tantissime cose. Adoravo la sua prima moglie Diane, ma sono rimasta anche amica della sua ultima, Micheline. Sono sempre stata in contatto con lui e con la sua famiglia».
Vi aspettavate l' enorme successo?
«No, affatto. Ma quando scoppiò tutto Sean mi scrisse una lettera carina, in cui diceva che eravamo stati noi due insieme, con la nostra chimica, a decretare il boom di Licenza di uccidere. Non ho mai capito il clamore, ricordo che guardavo le due ore di film senza capire. In fondo, che cosa facevo? Indossavo un bikini e fischiettavo... Forse sì, era stata proprio la nostra chimica a piacere al pubblico, quel nostro essere spontanei, naturali, senza pensare alle pose come fanno tutti oggi, senza badare a come metterci in mostra al meglio».
Forse non ne avevate bisogno, belli come eravate tutti e due.
«Ma Connery non era per niente vanitoso nella vita. E rifuggiva le occasioni mondane, le feste, i gala, gli piacevano solo le cene con gli amici, chiacchiere e buon cibo. Amava le donne moltissimo, quello sì. E ognuna s' innamorava di lui. Mi tormentavano per conoscerlo, per chiedermi com' era».
E com' era Connery da giovane?
«Era divertente, era un vero uomo, come oggi non ne esistono più. Ed era un grandissimo attore. Le cose che ha fatto dopo quel film sono state grandi. Il cinema per lui era importante, prendeva il mestiere molto seriamente, faceva tante ricerche, s' immergeva. Lo ricordo al tempo di Il nome della rosa , a cui teneva moltissimo. Si è anche occupato di produzione, si impegnava in campagne benefiche... Ora però i ricordi mi sommergono, non riesco più a parlare. Ho perso un amico grande, che però resta con me, con tutte le foto e i ricordi vissuti insieme i natali, i compleanni, le vacanze in Svizzera... Guardo quelle immagini e mi pare di parlare ancora con lui».
Sean Connery, il ricordo di Gina Lollobrigida: "Elegante e mai spavaldo come gli italiani". Arianna Finos su La Repubblica il 31 ottobre 2020. L'attrice ricorda l'attore con cui girò "La donna di paglia" nel 1964 quando non era ancora famoso e lei per contratto approvò il suo nome. "Elegante, corretto, mai divo. La scomparsa di Sean Connery è un dispiacere", racconta al telefono Gina Lollobrigida con un fil di voce. Con l'attore scozzese ha girato un solo film, importante, La donna di paglia di Basil Dearden. "Era il 1964, mi trovai su questo set inglese, abbastanza diverso da quelli italiani. E il ruolo non era stato scritto per me, il personaggio fu adattato. Connery allora era un interprete inglese importante, ma non ancora famosissimo. Fui io a dover approvare il suo nome nel film, come era previsto dal mio contratto. Come pure fui io a insistere con gli sceneggiatori che la mia infermiera, raggirata dal figlio del suo paziente, prendesse alla fine consapevolezza del fatto che l'uomo si era servito di lei e non fosse solo vittima, per renderlo più vicino al mio temperamento: di questo confronto tra i personaggi ne giovammo entrambi. Il film fu un successo grandissimo". Nel film ci sono anche scene di passione tra i due personaggi: "Sean baciava con eleganza, non era spavaldo come poteva essere un attore italiano, era gentile, serio. Era sposato, anche se non ho conosciuto la moglie, e molto serio, attaccato al lavoro, professionale, con piedi ben piantati per terra. Era bello ed elegantissimo, ma niente affatto divo". "Ricordo" racconta ancora l'attrice, "che volevano fare un seguito del film, ma entrambi ci rifiutammo. Per noi era importante cambiare, mai ripetersi, esplorare strade nuove. Negli anni non ci siamo rivisti, mi invitò a una sua festa negli anni Sessanta, ma io non potevo per altri impegni. Negli anni ho seguito da lontano la sua carriera, interessante. Un ottimo attore capace di attraversare film diversissimi, da Licenza di uccidere a Gli intoccabili, una grande perdita per il cinema mondiale".
Maria Corbi per “La Stampa” l'1 novembre 2020. Era il 1964 quando Gina Lollobrigida scelse Sean Connery come coprotagonista per il film La donna di paglia. Due anni prima lui aveva girato il suo primo «007» a cui era seguito Dalla Russia con Amore. «Ma non era certo ancora un divo planetario», ricorda la Lollo.
Lei lo scelse. Quindi Sean le sarà poi stato grato.
«Io per contratto potevo scegliere il mio partner e anche il regista. Scelsi lui perché era elegante ancora prima che bello. Siamo rimasti sempre amici e quando lui fece una serata per dire addio alle scene, a Londra, dal palco mi invitò».
L' ha corteggiata?
«No, era un gentleman, molto rispettoso, un uomo raro nel mio ambiente dove era facile prendersi delle confidenze. Io ero sposata con Milko Skofic e Sean non si sarebbe mai permesso di farmi delle avances. Ma avevamo comunque un rapporto molto intimo, confidenziale e lui non era così algido come poteva apparire, ma molto empatico ed interessato alla vita degli altri. Anche questa una dote rara in un ambiente come il nostro».
Nel film «La donna di Paglia» lui faceva il cattivo e lei cedeva al suo fascino.
«Io ero una giovane infermiera, Maria, con il compito di badare a un signore anziano, malato e molto ricco, interpretato dal grande Ralph Richardson. Sean era il nipote Anthony, senza scrupoli e seduttivo, che mi convinceva ad aiutarlo nel suo piano per appropriarsi dell' eredità. Ma quando Maria inizia a volere bene al vecchio zio, i suoi piani finiscono male eanche lui».
Baciava bene?
«Baciava in modo elegante».
Definire Yul Brynner un baciatore appassionato (sue parole) e Sean Connery un baciatore elegante potrebbe smontare un mito del maschile, però...
«Perché? Sean è assolutamente un mito e un esempio maschile. Lui era un bellissimo uomo e molto serio. L' eleganza è sexy».
Giusto. Le ha mai detto perché ha voluto smettere di vestire i panni della spia più famosa del mondo?
«Sì, ne abbiano parlato tante volte. Lui detestava ripetersi e non voleva sentirsi incastrato in un personaggio. Per lui la passione artistica veniva prima dei cachet milionari, esattamente come per me, che non volevo mai girare seguiti dei film e feci un' eccezione solo per Vittorio De Sica, con cui comunque girare era una esperienza sempre nuova. Un maestro straordinario a cui non si poteva dire di no. Anche lui un uomo elegante».
In quale ruolo ha maggiormente apprezzato il suo amico Sean?
«Forse ne Il nome della Rosa. Una interpretazione magistrale. Il cinema perde veramente un grande interprete».
Parlavate mai della sua Scozia?
«Certamente. Lui mi parlava della bellezza della Scozia che amava con tutto se stesso e io gli parlavo dell' Italia. Avevamo tante cose in comune ed è stato bello essere una sua amica, vera, non una di quelle conoscenze superficiali che si fanno quando ci si incrocia sui set».
Dopo il film «La donna di Paglia» come mai non avete più lavorato insieme?
«Ci abbiamo provato e siamo stati spesso sul punto di incontrarci di nuovo su un set, ma il destino ha voluto diversamente. Poi io ho preferito dedicarmi alla mia vena artistica e così gli anni sono passati. Adesso non ci sentivamo da un po', ma che vuole, anche alla nostra età si pensa sempre di avere tutta la vita davanti».
Sean Connery, addio all'unico vero Bond, James Bond. Irene Bignardi su La Repubblica il 31 ottobre 2020. Bella faccia, humour corrosivo, voce bassa e aspra, sorriso di esibita ferocia: se le donne, sullo schermo e fuori, andavano pazze per lui, i maschietti lo adoravano in silenzio e cercavano di imitarne l'eleganza naturale e senza tempo. Eh no, questa non dovevi farcela, di andartene così, così presto, e dico presto nonostante i tuoi novanta anni, e così silenziosamente, forse per via della malattia che, dicono, "ti ha tolto, con lo humour e la bella voce rauca, due delle armi del tuo grande fascino". Non dovevi privarci della tua ironia, della tua classe naturale, dell'eleganza innata che tu, da bravo figlio della working class britannica, e, meglio ancora, scozzese, avevi abilmente sfoderato per aprirti una strada in questo difficile mondo - che hai saputo conquistare senza apparente sforzo. Ma così è andata. E dopo anni di silenzio elegante vissuto accanto alla tua Micheline Rocquebrune sei uscito di scena con il solito sapiente tempismo. Prima che diventasse troppo tardi. Quando come tante mie coetanee mi davo delle arie da intellettuale e giuravo che preferivo vedere un nuovo Bergman piuttosto che il nuovo arrivato degli schermi, James Bond, 007, mentivo negando un piacere segreto. Quello di vedere sullo schermo un uomo non solo bellissimo ma atletico, spiritoso, elegante, che ci costringeva a mettere in discussione le ideologie, perché le rivedeva con ironia e ci proponeva dall'altra parte il sogno di un cavaliere che sapeva preparare un Martini agitato e non shakerato, e che faceva tornare l'amore una cosa seducentemente pericolosa. Sean Connery invece, parliamone adesso alla terza persona singolare, era spiritoso anche in mezzo alle più ardue avventure e non diceva mai per sempre (quanto a questo, non diceva mai perché non si doveva dire mai, nulla è impossibile, tanto che la sorte del mondo è dipesa da lui almeno per sette volte, dai tempi di 007 licenza di uccidere appunto a Mai dire mai). Quando Connery, dopo un'escursione nel cinema di fuori, è tornato brevemente sullo schermo in perfetta tenuta da James Bond per chetare il suo pubblico tanto nostalgico quanto fedele. La sua storia era un sogno. Era nato povero, il bel Sean, di famiglia operaia, da un padre e un mamma cameriera, e aveva dovuto cavarsela da solo sin dai sedici anni, quando aveva incominciato a fare tutti i mestieri che gli venivano offerti. Ma la improvvisa impennata della sua vita era arrivata quando si era piazzato terzo al concorso per Mister universo, che gli consentì di tentare la via dello spettacolo. Bella faccia, humour corrosivo, voce bassa e aspra, sorriso di esibita ferocia: se le donne, sullo schermo e fuori, andavano pazze per lui, i maschietti lo adoravano in silenzio e cercavano di imitarne l'eleganza naturale e senza tempo. Ne imitavano gli smoking e copiavano la ricetta dei suoi Martini, agitati, non shakerati. Tutto, salvo il kilt, che solo Connery riusciva a portare con tanta disinvoltura. Per non parlare della disinvoltura con cui portava il parrucchino che una precocia calvizie gli imponeva. Poteva essere un disastro, e invece non fece che accrescere le sue doti di ironia e simpatia. Quando, a 32 anni, Sean Connery si candida per portare sul grande schermo l'agente 007, deve gareggiare con Cary Grant, James Mason e Richard Burton. Ma è lui il prescelto, quello che arriva per primo ad ammirare il bikini bianco di Ursula Andress ('007 - Licenza di uccidere', Terence Young, 1962). Prima di questo ruolo che gli cambierà la vita aveva fatto di tutto, compreso il lucidatore di bare e rappresentato la Scozia al Concorso per Mister Universo, classificandosi al terzo posto. Dopo una serie di ruoli di secondo piano in cinema e tv negli anni Sessanta diventa la star James Bond. Quasi sessant'anni dopo è ancora lui - a detta di molti - lo 007 più amato. Ma nella lunga carriera altri ruoli lo hanno confermato nel talento e nel fascino: il nobile Ramirez di Highlander, il Robin Hood ormai anziano accanto a Audrey Hepburn, il padre di Indiana Jones, il frate detective del Nome della Rosa. Ormai lontano dal cinema e dai riflettori festeggerà con ogni probabilità con la sua famiglia. Si sa, ed è inutile ripeterlo. Sean Connery è il solo vero Bond, James Bond. E mentre i Roger Moore e il povero Lazenby si buttavano a corpo morto nella parte e arrancavano nel tentativo di occupare degnamente quel ruolo, Sean Connery faceva la sua onorata carriera, più dipendente da lui che dal successo dei film. Basta muscoli. Benvenute le sfumature. Arrivato a lavorare per registi come John Huston, Lumet, Boorman, e quindi dopo aver sperimentato il cinema di fantascienza , quello epico, quello storico, Connery ha impresso al suo lavoro una svolta , e ha rivelato tutte le finezze di un grande attore. Che non ha fatto sempre film perfetti, ma che li ha illuminati con una particolare qualità professionale e umana, accettando con grazia e humour le trappole della vecchiaia. Lo ricorderemo per come ha accettato e ridato linfa all'età matura in Cinque giorni un'estate di Zinnemann, per come ha diviso lo schermo con Michael Caine in L'uomo che volle farsi re, per come ha portato il messaggio pacifista in Caccia a ottobre rosso, un film che si guarda e si riguarda con attenzione anche se sappiamo benissimo il finale e che fine ha fatto l'Unione Sovietica. Lo ricorderemo nei panni elegantissimi di Jimmy Malone, il poliziotto irlandese in The Untouchables - Gli intoccabili, un ruolo che gli ha dato un Oscar. E Il nome della rosa. Lo ricorderemo anche come l'unico scozzese sostenitore del movimento indipendentista a cui una spiritosa regina abbia proposto il titolo di baronetto - come ai Beatles, sì, anche loro rappresentanti di una Britannia creativa e generosa. Come l'uomo bellissimo che non ha riempito le cronache e i gossip delle sue avventure. Come la star sposata una prima volta con la bella Diane Cilento e una seconda, ormai da quarant' anni, con la pittrice Micheline Roquebrune, grande la metà di lui e si suppone molto amata, se la cosa è andata avanti da tanto tempo. Lo ricorderemo. Come il grande Sean, che se n'è andato e non lascia eredi.
Sean Connery, il tributo sui social. Daniel Craig: "Uno dei veri grandi del cinema". Rita Celi su La Repubblica il 31 ottobre 2020. Molti messaggi di cordoglio dedicati all'attore scomparso, a cominciare dall'interprete che ha ereditato il ruolo di James Bond. Sean Connery è morto nel sonno, circondato dalla sua famiglia mentre si trovava a Nassau, alle Bahamas. Era "malato da tempo", ha detto il figlio Jason Connery citato dalla Bbc. L'attore "aveva molti familiari accanto a sé alle Bahamas quando è morto, durante la notte", ha detto ancora il figlio Jason, spiegando che è stato un duro colpo anche "se mio padre non stava bene da tempo". È "un giorno triste per tutti coloro che conoscevano e amavano mio padre e una triste perdita per tutte le persone in tutto il mondo che hanno apprezzato le sue meravigliose capacità di attore". Moltissimi i messaggi di cordoglio che amici e colleghi hanno condiviso sui social, a cominciare da Daniel Craig, interprete degli ultimi titoli della saga su James Bond, che parla con tristezza della scomparsa dell'attore, "uno dei veri grandi del cinema", in un post citato sul profilo ufficiale del nuovo film No time to die (la cui uscita è stata rimandata al 2021 a causa della pandemia). "Sir Sean Connery sarà ricordato come Bond e non solo" aggiunge. "Ha definito un'epoca e uno stile. L'arguzia e il fascino che ha portato sullo schermo potevano essere misurati in mega watt, ha contribuito a creare il blockbuster moderno". E conclude: "Continuerà a influenzare attori e registi negli anni a venire. Ovunque sia, spero che ci sia un campo da golf". "Siamo sconvolti dalla notizia della morte di sir Sean Connery. Era e sarà sempre ricordato come l'originale James Bond il cui ingresso indelebile nella storia del cinema iniziò quando annunciò quelle parole indimenticabili" scrivono in una nota riportata sui profili ufficiali della saga i produttori Michael G. Wilson e Barbara Broccoli, figlia di Albert Broccoli, il produttore che inaugurò la saga e che scelse Connery per il ruolo del personaggio creato da Ian Fleming. "Con 'Il mio nome è Bond, James Bond' ha rivoluzionato il mondo con la sua interpretazione cruda e spiritosa dell'agente segreto sexy e carismatico. Senza dubbio è in gran parte responsabile del successo della serie di film e gli saremo per sempre grati". "Che infinita tristezza" commentano su twitter gli eredi di Roger Moore che ha poi interpretato Bond in sette film, dal 1973 al 1985. "Sono stati amici per molti decenni e Roger diceva sempre che Sean era stato il migliore James Bond di sempre". Stephen King lo ricorda con una foto di una delle prime apparizioni dell'attore, in un dramma teatrale andato in onda su Bbc nel 1957: “Sean Connery nel suo primo ruolo da protagonista, un pugile finito. Era un bravo attore e, a detta di molti, un bravo ragazzo". "Sono cresciuto idolatrando Sean Connery. Una leggenda sullo schermo e fuori" scrive Hugh Jackman ricordando Sean Connery con una foto nei panni di 007. "Ogni giorno sul set con Sean Connery è stato una lezione pratica su come recitare sullo schermo. Ma tutto quel carisma e quella forza erano assolutamente unici di Sean, grande uomo e grande attore" scrive il neozelandese Sam Neill, che lavorò con Connery in Caccia a Ottobre Rosso (1990) di John McTiernan. Salma Hayek commenta con tristezza la scomparsa, "ma almeno ha vissuto fino a 90 anni" aggiunge. Elton John saluta la "leggenda dello schermo" con una foto scattata insieme all'attore e a sua moglie. Michael Bay aveva poco più di trent'anni quando ha diretto The Rock: "Sean la leggenda. Mi chiamava ragazzo" ricorda il regista, "e mi ha insegnato molto, a me e tanti altri".
Morto Sean Connery, il divo che rese sexy l'agente eroe firmato Ian Fleming. Giancarlo De Cataldo su La Repubblica l'1 novembre 2020. Lo scrittore raccontò la spia, l'attore la fece diventare un mito. “Mi fermai a un tavolo dove si giocava al baccarà. Tra i giocatori c’era una delle mie bestie nere, Bloch, un lituano dalla faccia anonima ma molto ricco e molto spavaldo. Non so che diavolo mi prese, forse perché dietro di me c’era Fleming, ma quando Bloch scandì “banque ouverte!”, puntai, freddo e distaccato, cinquantamila dollari”. Siamo in piena seconda guerra mondiale. L’autore della puntata esagerata si chiama Dusko Popov.
Sean Connery, sornione e contagioso: così i maestri del cinema s'innamorarono di lui. Antonio Monda su La Repubblica il 31 ottobre 2020. Nessun altro attore riuscì ad attribuire a 007 lo stesso fascino e la stessa leggerezza. Questo gli aprì le porte con Hitchcock, Spielberg, De Palma e molti altri. Non erano soltanto il carisma e la bellezza che facevano di Sean Connery una stella di prima grandezza: la sua recitazione era piena di sfumature e profondità, e la forza dei suoi personaggi affondava le radici in un’ironia sorniona e contagiosa. Era insomma un attore molto più interessante di quanto potesse apparire per aver interpretato quell’icona imprescindibile ma bidimensionale che è James Bond, come è evidente nei film più riusciti della ...
La spia che ci amava: addio Sean Connery, gentiluomo d'altri tempi. Natalia Aspesi su La Repubblica il 31 ottobre 2020. E' morto a 90 anni l'attore che per primo vestì i panni dell'agente 007. E che con un fascino ormai introvabile ha fatto sognare generazioni di donne. Noi novantenni stiamo morendo come mosche e ieri è toccato a Sean Connery, non a James Bond, ovvio, che continuerà in eterno a macinare attori avendone già consumati cinque, e accumulato denaro a miliardi. Sean, il primo agente con licenza di uccidere però si era già evaporato nel mito, avendo abbandonato le giacche da smoking dell’agente 007 da 20 anni, il cinema da 17 con un film bruttino, La leggenda degli uomini straordinari e non si era più...
Muore a 90 anni Sean Connery, protagonista di mezzo secolo di cinema mondiale. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 31 ottobre 2020. Addio a Sean Connery. L’attore scozzese, celebre soprattutto per avere portato per primo sul grande schermo il personaggio di James Bond e averlo interpretato in sette film della saga, è morto all’età di 90 anni. Ne dà notizia il sito della Bbc. Ad agosto scorso aveva festeggiato il suo novantesimo compleanno. Nato in un sobborgo di Edimburgo il 25 agosto 1930 dopo essere stato congedato dalla Marina per problemi medici si affaccia nel mondo dello spettacolo e sul finire degli anni 50 al cinema. Nel 1962 la svolta si chiama James Bond personaggio iconico tratto dai romanzi di Ian Fleming che si prestava perfettamente alle caratteristiche fisiche e recitative di Connery. Per sette volte la spia più famosa del mondo portò il volto dell’attore scozzese poi la decisione di sciogliere il legame con il servizio segreto di sua Maestà per non essere legato indissolubilmente al quel personaggio. Fu una scelta vincente. Al di là di James Bond, Connery nella sua carriera ha vinto un Oscar nel 1988 per “The Untouchables – Gli Intoccabili”, due premi Bafta e tre Golden Globe. Nel corso della sua lunga e proficua attività ha interpretato innumerevoli ruoli spaziando in tutti gli ambiti del cinema e offrendo ai registi e agli spettatori la garanzia di una spettacolo sempre all’altezza del nome. Oltre che per il ruolo di 007, infatti, Connery è passato alla storia della settima arte anche per aver portato sul grande schermo il padre di Indiana Jones al fianco di Harrison Ford, ma anche il francescano Guglielmo da Baskerville protagonista della trasposizione cinematografica del Nome della Rosa di Umberto Eco, senza contare il comandante Marko Ramius in Caccia ad Ottobre rosso, oppure Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez che rivela il segreto dell’immortalità a Christopher Lambert in Highlander è stato anche prima Robn Hood in Robin and Marian nel 1976 e poi Riccardo I d’Inghilterra nel Robin Hood del 1991 al fianco di Kevin Costner. E la lista sarebbe infinita, l’ultima sua presenza al cinema nel 2003, dopo aver interpretato Allan Quatermain in La leggenda degli uomini straordinari. Sean Connery resta il simbolo indiscusso dell’attore seducente e versatile, capace di far proprio un personaggio senza però mai diventarne schiavo al punto che per lo spettatore diventa impossibile immaginare un attore diverso per quel ruolo ma al tempo stesso diviene condivisa la convinzione che non vi fosse ruolo che Connery non potesse far proprio. È stato nominato sir dalla regina Elisabetta II all’Holyrood Palace nel 2000.
E’ morto Sean Connery. Il cinema perde la sua icona. Sean Connery aveva compiuto 90 anni lo scorso agosto. Il Dubbio il 31 ottobre 2020. Lutto nel mondo del cinema e dello spettacolo. È morto Sean Connery: l’attore aveva 90 anni. A darne notizia i media inglesi, in particolare la Bbc. L’attore scozzese è diventato celebre in tutto il mondo per la sua interpretazione di James Bond, comparendo in sette dei film della saga nata nel 1953 dalla penna dello scrittore britannico Ian Fleming. – Lo smoking, l’Astor Martin e la sigaretta fumata elegantemente. L’immagine di Sean Connery , scomparso oggi a 90 anni, è legata indissolubilmente a quella di James Bond, di cui fu primo interprete sul grande schermo. Un legame perfetto che ha reso immortali entrambi, l’attore e il personaggio, che ha continuato a vivere nell’interpretazione di altri grandi attori ma che senza quell’inizio non avrebbe avuto probabilmente la stessa fortuna. Eppure Sean Connery non è stato solo la spia cinematografia più amata di tutti i tempi. Nato a Edimburgo il 25 agosto 1930, figlio di un camionista e di una cameriera, il suo vero nome è Thomas: lo pseudonimo Sean ha origine da un gioco di parole con un amico irlandese, Seamus, quando aveva dodici anni. Abbandona giovanissimo la scuola e a sedici anni si arruola nella Marina scozzese (a questo periodo risalgono i due tatuaggi che ha sul braccio destro, il motto ”Scotland forever” e la scritta ”Mum and Dad”). Congedato per un’ulcera, fa mille mestieri: muratore, modello per l’Edimburgh Art College, guardia del corpo, persino lucidatore di bare. Nel 1950 rappresenta la Scozia all’elezione di Mister Universo e arriva terzo nella sezione "alti" (è alto 1,88 cm). Nel 1958 viene scelto come ballerino di fila (ha preso lezioni di danza per undici anni dalla ballerina svedese Gert Malmgren) nel musical South Pacific, e, dopo alcune parti di primo piano in televisione, viene notato dalla 20th Century Fox e comincia a lavorare nel cinema. Uno dei primi film in cui ha un ruolo rilevante è Darby O’Gill e il Re dei Folletti (1959) diretto da Robert Stevenson per la Walt Disney, in cui si cimenta anche nel canto. Nel frattempo, recita in teatro con la moglie Diane Cilento, con cui è stato sposato per una decina d’anni e da cui ha un figlio, Jason, nato nel 1953, anche lui attore. Ma il successo globale è dietro l’angolo: nel ’62 è scelto dai produttori Saltzman e Broccoli per interpretare la parte dell’eroe dei romanzi di spionaggio di Jan Fleming, l’agente segreto 007 James Bond, battendo concorrenti del calibro di Cary Grant, Rex Harrison, Trevor Howard e Roger Moore – quest’ultimo otterrà il ruolo negli anni ’70. Sembra, però, che Fleming commentò la scelta con un: ”Non è esattamente quello che avevo in mente”. Comunque, Agente 007 – Licenza di uccidere (Dr. No) di Terence Young è il primo di una serie di pellicole che danno a Connery fama internazionale, consacrandolo sex symbol. Ha ripreso il ruolo altre sei volte (ricordiamo Missione Goldfinger nel 1964 e Una cascata di diamanti nel 1971), fino a Mai dire mai (1983), episodio non ufficiale dalla serie. Nella sua carriera, ha dato prova di notevole versatilità, lavorando, tra gli altri, con registi quali Alfred Hitchcock e Sidney Lumet. Nel 1969 era stato tentato anche dalla regia con il documentario The Bowler and the Bonnet, ma l’esperienza è rimasta isolata. Nel 1987 ha vinto un Oscar come miglior attore non protagonista per l’interpretazione del poliziotto Jim Malone ne Gli Intoccabili (The Untouchables) di Brian De Palma. Sul fronte del gossip, affetto da una precoce perdita dei capelli dall’età di 21 anni, è stato costretto dai produttori della serie 007 ad indossare un parrucchino. Il presidio – Scena di un crimine (1988), Sono affari di famiglia (1989) e Indiana Jones e l’ultima crociata (1989, dove interpreta il padre del noto avventuriero), sono gli ultimi film degli anni Ottanta. Poi, dopo avere ricevuto una laurea ad honoris causa in Letteratura dalla St. Andrews University, si lancia il pellicole di avventura, di spionaggio o più semplicemente action-movies. Gli anni Novanta sono infatti gli anni de La Casa Russia (1990), Caccia a Ottobre Rosso (1990), Mato Grosso (1992) e Sol Levante (1993) e non mancano, anche in questo decennio, i grandi rifiuti. No a Jurassic Park e no a Die Hard – Duri a morire, per scegliere invece pellicole mediocrissime come Alla ricerca dello stregone (1993) o il ruolo di un agente segreto nel filmone d’azione tutto catastrofici effetti speciali hollywoodiani The Rock (1996) di Michael Bay. E ancora, affianca una procace Catherina Zeta-Jones in Entrapment (1999), e poi si lascia dirigere dal regista indipendente Gus Van Sant in Scoprendo Forrester (2000). L’ultimo suo film è La leggenda degli uomini straordinari (2003). Dopo di allora, la cataratta scende sui suoi occhi, rendendogli difficile il suo mestiere. Trasferitosi a vivere fra la Spagna e le Bahamas con la moglie, rifiuta il ruolo di Gandalf nella trilogia di Peter Jackson Il signore degli anelli (2001-2003), così come rimanda al mittente il ruolo dell’Architetto negli ultimi due capitoli di Matrix (2003) e quello di Re Filippo di Macedonia in Alexander. Nel gennaio 2006, si fa rimuovere un tumore dal rene a New York e poi dà l’estremo saluto al cinema, annunciando nel 2006 il suo ritiro ufficiale. Nel 1999 è stato eletto dalla rivista People ”l’uomo più sexy del secolo” e, nello stesso anno, è nominato baronetto dalla regina Elisabetta d’Inghilterra, sebbene sia un fervido sostenitore del Partito Nazionalista Scozzese.
È morto Sean Connery, attore anti-Hollywood, maschio d'altri tempi. Simona Santoni su Panorama il 31 Ottobre 2020. Orgogliosamente scozzese, è stato lui, più di ogni altro, il vero James Bond, di una mascolinità spiccata mai sopra le righe. Geloso della sua privacy, non capiva l'aura mistica da molti attribuita al mestiere dell'attore: «È un lavoro, come il carpentiere o il muratore». «Sono sempre puntuale. Se ritardo è perché sono morto», diceva Sean Connery con quell'elegante disinvoltura che aveva sempre. Oggi se n'è andato, dopo aver compiuto 90 anni, puntualmente, il 25 agosto scorso. Smoking addosso, al volante di una Aston Martin, sigaretta in mano, «Vodka Martini agitato, non mescolato»: c'è poco da dire, «Bond, James Bond» è sempre stato e sempre sarà lui, «Connery, Sean Connery», più di ogni altro attore che l'ha succeduto. Forse perché è stato il primo a incarnare al cinema la spia dei libri di Ian Fleming, forse perché incarnava un fascino virile e assassino ormai in via d'estinzione. Sir Sean Connery è il simbolo ultimo di una mascolinità ormai rara, di poche parole e sguardi letali, spiccata ma mai sopra le righe. Orgogliosamente scozzese, Connery non perdeva il suo sex appeal neanche in kilt, che sfoggiava spesso, da ero sostenitore qual era della causa indipendentista. Tante delle sue energie le ha spese proprio per la sua patria, supportando sia nelle uscite pubbliche che economicamente il Partito Nazionale Scozzese. Sul braccio destro un tatuaggio che dice tutto: «Scotland forever» («Scozia per sempre»). Hollywood l'ha vissuta, ma non si è mai lasciato incantare dalle sue sirene, sospinto dal suo spirito domestico scozzese: in bacheca un Oscar al migliore attore protagonista per l'incorruttibile poliziotto irlandese Jimmy Malone di The Untouchables - Gli intoccabili (1987). Quando ormai il successo ero esploso, dopo Agente 007 - Licenza di uccidere (1962) e A 007, dalla Russia con amore (1963), due dei sette film sullo 007 interpretati, in un'intervista del 1964 Connery disse: «Penso che più di ogni altra cosa mi piacerebbe essere un vecchio con una bella faccia, come Hitchcock o Picasso. Sanno che la vita non è solo una gara alla popolarità». La popolarità l'ha centrata, ma mai rincorsa. Figlio di un camionista e di una cameriera, è stato per un po' in Marina; dopo aver fatto tanti lavori, dal verniciatore di bare al bagnino al muratore, il salto verso il mondo dello spettacolo: si è classificato terzo a Miss Universo nel 1953. Da lì il passo verso l'agente segreto 007 è stato breve. Pur essendo celebrato come un'icona del cinema, lui ha sempre dato poca importanza allo sfarfallare e al luccichio da divi. Diceva: «Non c'è niente di speciale nell'essere un attore è un lavoro, come il carpentiere o il muratore. Non ho mai smesso di stupirmi dell'aura mistica che le persone attribuiscono al mio mestiere». Sulla stessa linea, è stato molto geloso della sua vita privata. Si è sposato due volte: nel 1962 con l'attrice australiana Diane Cilento e nel 1975 con la pittrice Micheline Roquebrune. Riservatezza avvolge ora anche la sua morte: è morto pacificamente nel sonno durante la notte del 31 ottobre nella sua casa di Nassau, alle Bahamas. Non è stata dichiarata la causa del decesso, anche se suo figlio ha detto che «non stava bene da tempo». Sir Connery, che è stato nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II nel 2000, si era ritirato dai set nel 2003. Con il suo piglio sicuro, aveva rifiutato il ruolo di Gandalf della trilogia Il Signore degli Anelli perché, disse, non l'aveva «mai capito». Una decisione saggia e, ancora una volta, maschia: meglio ricordarcelo come avventuriero con pistola e sguardo ero ne La leggenda degli uomini straordinari, il suo ultimo film, che come mago dalla barba grigia più lunga dei capelli, cappellaccio stropicciato e bastone da fantasy.
Il generoso alfiere dell'indipendentismo scozzeze. Diceva: "La cultura definisce un Paese". Ma non ha mai voluto essere un politico. Carlo Lottieri, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Con la scomparsa di Sean Connery se ne va l'interprete più universalmente noto di quel variegato mondo indipendentista che attraversa l'Occidente e collega il Québec alle Fiandre, la Catalogna al Veneto, la Corsica alla Scozia. Perché Connery volle sempre esprimere con chiarezza la sua identità scozzese e, oltre a ciò, la speranza di vedere la propria terra riacquistare il diritto ad autogovernarsi. Ora Connery se n'è andato e la Scozia continua a far parte del Regno Unito. Eppure mai come adesso è vicino il momento della disunione, dato che la Brexit ha creato una situazione inedita che sta aprendo la porta, per varie ragioni, proprio alla compiuta indipendenza di Edimburgo. Perché Connery sperava di vedere il disfarsi del regno dei Windsor? Le ragioni erano molteplici, ma forse più di ogni altro motivo c'era il fatto che egli non amava alcun tipo di omogeneizzazione. Non a caso un giorno disse: «non sono un inglese, non sono mai stato un inglese, e non voglio esserlo. Sono uno scozzese. Ero uno scozzese e lo sarò sempre». Ai suoi occhi il mondo era composto da storie e culture differenti, e ognuna - con i propri colori e le proprie specificità - meritava di essere rispettata. Per questo trovava sbagliato che la Scozia, entro un Regno Unito egemonizzato da una schiacciante maggioranza inglese, finisse per trovarsi senza un'identità. L'indipendenza della Scozia era allora la condizione del riconoscimento della dignità di quel popolo: del fatto che anche tale comunità potesse trovare un proprio posto nella famiglia delle varie comunità di cui si compone il genere umano. Una volta dichiarò: «la Scozia dovrebbe essere uguale a tutte le altre nazioni del mondo». Intendeva dire che ha il pieno diritto di gestire da sé il presente e provare a costruirsi un futuro. Per questo motivo nel 1997 fu in prima linea nella campagna referendaria che portò al successo di quanti volevano la devolution. A giudizio di Connery, d'altra parte, la rinascita di un parlamento scozzese, dopo tre secoli, fu qualcosa di straordinariamente importante: quell'avvenimento gli apparve più che un passo lungo la strada che potrà portare al pieno distacco dalla monarchia inglese. Anche se non nascose mai le idee secessioniste e per questo si mise sempre a disposizione di quanti sono impegnati per far nascere una Scozia indipendente, non ebbe mai ambizioni politiche. Ammise più volte di non essere un uomo politico e di non voler esserlo. Questo comunque non gli impedì di evidenziare che con Alex Salmond, prima, e con Nicola Sturgeon, dopo, la Scozia era riuscita a farsi riconoscere internazionalmente come una vera società senza Stato. Al punto che, ormai, «il futuro della Scozia è nelle mani della Scozia». Si può essere favorevoli all'indipendenza della propria comunità per ragioni economiche. Si può esserlo sulla base di argomenti storici, oppure in ragione della lingua. Oppure perché si pensa che in un mondo con tante giurisdizioni indipendenti i diritti individuali siano meglio tutelati. Questo formidabile interprete di 007 faceva derivare il suo sogno di una Scozia indipendente in primo luogo da ragioni culturali. Come scrisse su The New Stateman anni fa, «la cultura definisce un Paese». Inoltre riteneva che «in sostanza non vi è nulla di più creativo di un atto che crea una nazione». Soprattutto quando, come nel caso della Scozia e di altre realtà del Vecchio Continente, si tratta solo di riannodare i fili di un passato mai del tutto cancellato.
Da "ilmessaggero.it" il 2 novembre 2020. Sir Sean Connery «soffriva di demenza senile». Lo racconta in un lungo colloquio con il Daily Mail Micheline Roquebrune, la moglie del celebre attore morto a 90 anni alle Bahamas. Gli ultimi mesi di vita della star, si legge, sono stati proprio rovinati dalla demenza. «La cosa lo faceva soffrire: non era vita per lui. Non era in grado di esprimersi da solo. Almeno è morto nel sonno ed è stato tranquillo», ha raccontato la signora Connery. Insieme per 45 anni, Micheline e Sean si sono conosciuti in Marocco a un torneo di golf nel 1970. Sean sposò Micheline in una cerimonia privata a Gibilterra nel maggio 1975, dopo averla incontrata cinque anni prima.
Sean Connery, "ecco come è morto": un'indiscrezione clamorosa dalle Bahamas (e la mezza conferma del figlio). Libero Quotidiano il 31 ottobre 2020. Sean Connery è venuto a mancare nel sonno a 90 anni mentre si trovava nella sua villa alle Bahamas. Una morte decisamente serena, quella del famosissimo attore che forse era anche abbastanza attesa dai familiari perché era “malato da tempo”, come dichiarato dal figlio Jason secondo la Bbc. Da circa un decennio si mormorava che Connery fosse stato colpito dal morbo di Alzheimer, come sostenuto pubblicamente anche dal collega Michael Caine, che era stato duramente smentito dalla portavoce di Sean. Il quale però si era ufficialmente ritirato dalle apparizioni pubbliche già nel 2011, quando la sua salute mentale e fisica veniva descritta ancora in buone condizioni. Per i molti familiari che erano riuniti accanto a lui alle Bahamas è stato un colpo molto duro. “Anche se mio padre non stava bene da tempo”, ha dichiarato il figlio Jason che po’ ha aggiunto: “È una giorno triste per tutti coloro che conoscevano e amavano mio padre e una triste perdita per tutte le persone in tutto il mondo che hanno apprezzato le sue meravigliose capacità di attore”.
Marco Giusti per Dagospia il 31 ottobre 2020. Avevamo appena festeggiato i 90 anni di Sean Connery quando, in piena seconda ondata Covid, ci arriva la notizia della sua morte. Era già malconcio, malato, l’ombra di se stesso. Ogni tanto, si faceva sentire con Ursula Andress, che gli era rimasta amica dai tempi di “Agente 007 – Licenza di uccidere” di Terence Young, il film che aveva dato a entrambi l’immortalità cinematografica. Lei guadagnò 6.000 dollari e lui 20. 000 nel lontano 1962. Già al suo secondo James Bond i dollari erano diventati 250 mila, poi 600 mila, fino al milione per il suo unico western “Shalako”, che girò con una Brigitte Bardot un po’ depressa. Erano sempre andati d’accordo Ursula e Sean. Anche se lui sia sul set che nella vita faceva più comunella con gli attori maschi, come Richard Harris, col quale divide uno strepitoso film di Martin Ritt, “I cospiratori”, film sugli scioperi dei minatori irlandesi nella Pennsylvania del 1876, o come Michael Caine, col quale divide il capolavoro di John Huston “L’uomo che volle farsi re”, che era anche il suo film preferito di sempre. Mentre aveva una profonda venerazione per Dirk Bogarde, col quale recita in “Quell’ultimo ponte”. Come spesso capita nel cinema, però, non sai mai qual è la mossa giusta che ti può cambiare la vita. Per Sean il primo 007 fu un successo planetario, visto che quel ruolo lo fece diventare a breve l’uomo più sexy del secolo. E pensare che i produttori, Saltzman e Broccoli, avrebbero voluto al suo posto Cary Grant, il vero modello di 007 per Ian Fleming, autore della saga. Era d’accordo anche Hitchcock. Ma Cary Grant non si sarebbe mai legato a un film che prevedeva non un sequel, ma una serie di sequel quasi infinita nello stesso identico ruolo. Non faceva per lui. I produttori avrebbero anche voluto al suo posto Roger Moore, l’Ivanhoe della nostra infanzia televisiva, attivo in Italia ai tempi del peplum (“Il ratto delle sabine”), come lo era anche Terence Young (“Orazi e Curiazi”). Inglese e non scozzese con qualche discendenza irlandese come Sean Connery. Ma troppo giovane per il ruolo, si dissero i produttori. O Richard Johnson, davvero perfetto come James Bond, ma legato a un contratto con la Metro. Impossibile da avere. Negandosi Johnson si dovrà accontentare poco dopo di un simil 007, “Più pericoloso del maschio”, eurospy diretta da Ralph Thomas dove recita il ruolo di Bulldog Drummond fra una serie di bellezze che spaziano fra Elke Sommer e Sylva Koscina. E si morderà le mani a vita. Credo. Perché poteva vantare una carriera alla Royal Academy, esperienze con John Gielgud, e un fisico piuttosto simile a quello di Sean Connery. Che poteva vantare un fisico da Mister Universo (ci provbò nel 1953), ma non era né bravo né elegante né inglese come lui. Aveva anche due tatuaggi, fatti a 16 anni prima di arruolarsi in marina, “Scotland Forever” e “Mum and Dad”. Coattello, quindi. Con un passato non da giovane attore, ma da tuttofare, con mille lavori e lavoretti. “Forse non sono un buon attore, ma avrei fatto peggio qualsiasi altra cosa”, dirà nel corso degli anni. Nato a Fountainbridge, nelle vicinanze di Edimburgo, Sean Connery non era di famiglia né nobile né altoborghese., come avrebbe dovuto essere James Bond. Il padre era stato fattore e camionista. Ovvio che non sapesse stare bene a tavola, tanto che Terence Young decide di non inquadrarlo mai con forchetta e coltello a tavola. Lo riveste con i suoi stessi abiti, il sarto era Anthony Sinclair di Saville Row, e gli impone di rimanere in piedi sorseggiando al massimo il suo Martini. Tutti avrebbero capito che era un cafone vedendolo a tavola. Inoltre, aveva già cominciato a perdere i capelli, tanto che sembra che in tutti i suoi sette 007 abbia sempre il parrucchino, anche se alcuni dicono che nei primi due titoli i capelli siano ancora i suoi. Il suo modello di attore era Stanley Baker, ottimo per ruoli da macho popolare, camionista, polizotto, gangster, un Tom Hardy. Ma troppo duro per fare Bond. Sean Connery, come Stanley Baker, era bello, alto quasi 1,90 e molto, molto sexy. Aveva dovuto scegliere a 23 anni tra il rugby da professionista e il cinema. Ma sapeva che a 30 anni un giocatore di rugby era già finito, mentre al cinema c’era comunque più futuro. Il regista Terence Young, bon vivant e uomo di gran gusto, con la prima scelta dei produttori, che puntavano su Guy Hamilton, Ken Hughes o Bryan Forbes, lo aveva già avuto come attore qualche anno prima in un piccolo ruolo in “Action of the Tiger” (“Il bandito dell’Epiro”), avventuroso esotico di coproduzione anglo-spagnola con Van Johnson e Martine Carol protagonisti. Fu la visione di “Darby O’Gill e il re dei folletti”, sembra, a convincere tutti, regista e produttori. Sean Connery aveva qualcosa in più. Come Clint Eastwood, che esploderà poco dopo in “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone, Sean Connery riportava un po' di sano machismo al cinema. Ironico, conquistatore, spaccone, letale. I loro film erano pieni di morti ammazzati e di battute. Cose che il cinema americano del tempo non osava più fare, ormai appiattito sui gusti televisivi degli attori con poca faccia o con star già vecchiotte come Van Johnson non proprio virili. In più Sean Connery aveva delle sopracciglia molto forti, un busto villoso che alle donne del tempo che lo rendevano estremamente attraente. Eravamo tutti innamorati della smorfia sotto il cappello di Clint Eastwood con le battute ciancicate da Enrico Maria Salerno e dalla smorfia di Sean Connery doppiato, per noi, da Pino Locchi. Il primo era lo Straniero, il secondo era Bond, James Bond. La vera differenza, sempre per noi, era che al primo le donne interessavano davvero poco, mentre il secondo le fulminava più o meno come i suoi rivali. Ma rimanevano modelli maschili fortissimi nel mondo dei telefilm e delle prime commedie disneyane. Perché sparavano, bevevano, fumavano, scopavano. E la facevano sempre franca. Con Sean, inoltre, trovavamo anche un modello di donna, Ursula, che non era quello dei film americani, ma una donna palestrata, sicura di sé, una statua, non certo la bambolina che volevano a Hollywood. Ricordo che quando vedevamo al cinema, negli anni ’60 ma anche dopo, dei film con Sean Connery fuori dal personaggio James Bond, avevamo dei problemi ad accettarlo. Esattamente come aveva pensato Cary Grant, quel ruolo lo avrebbe marchiato. Ci vollero anni per farci digerire uno Sean Connery senza James Bond. La confusione era tale che quando Alberto De Martino girò il sotto 007 “O.K. Connery” con il fratello minore di Sean, Neil, molto meno bello, meno sexy, meno recitante e anche ridotto maluccio, pochi denti, niente capelli, niente fisico, l’idea era proprio di puntare col titolo al richiamo bondiano. Neil, quando qualche anno fa, venne al festival del giallo do Courmayer, ricordò che a Sean non era affatto piaciuta questa intromissione nel suo mondo e lo pregò di non proseguire. Anche se, diciamo a cominciare dalla serie di film dove fu diretto da Sidney Lumet, “La collina del disonore”, “Rapina record a New York”, “Riflessi in uno specchio scuro”, o nel capolavoro di John Boorman, “Zardoz”, dove recita come fosse uno dei fratelli Hemsworth in versione mora e macha, o dai due grandi titolo di Richard Lester, “Cuba” e “Robin e Marion”, nel corso degli anni Sean Connery dimostrò di essere davvero un grande attore. Non solo James Bond. Resta da capire uno dei più misteriosi progetti di Sean Connery, che lo portò a incontrare in Toscana, nella sua villa, addirittura Licio Gelli per un film sulla sua vita. Il dato più incredibile è che i registi italiani contattati da Gelli, Frank Kramer alias Gianfranco Parolini e Guido Zurli non erano proprio all’altezza di Sean Connery. Ma credo che rimarrà un altro di quei misteri italiani mai risolti…
Gloria Satta per “il Messaggero” l'1 novembre 2020. «Ho voluto Sean Connery contro tutto e tutti: anche Umberto Eco l' aveva inesorabilmente bocciato. Ma io sono andato avanti per la mia strada e non mi sono mai pentito». Da Parigi, mentre prepara il kolossal sull' incendio di Notre Dame, il grande regista francese Jean-Jacques Annaud, 77 anni, racconta l' avventurosa lavorazione di Il nome della rosa, il film del 1986 ispirato al best seller di Eco, con Connery protagonista nei panni dell' enigmatico monaco-detective Guglielmo da Baskerville: uno dei ruoli più incisivi della sua carriera.
Come mai pensò di scritturare proprio lui?
«All' inizio l' idea non mi passava proprio per la mente. Dal mio ufficio di Monaco di Baviera (il film era una grande coproduzione internazionale, per l' Italia c' era Franco Cristaldi, ndr) cercavo disperatamente il mio protagonista tra gli attori emergenti. Un giorno mi chiamò l' agente americano di Connery per propormi il suo cliente».
E lei ovviamente gli fece il contratto seduta stante?
«Ma nemmeno per sogno! Mi serviva un attore in grado di interpretare un intellettuale del XIV secolo, francescano, che ricordasse Sherlock Holmes. Aggiungere a questo mix anche James Bond mi pareva un po' troppo. Così rifiutai Connery e continuai a cercare tra i talenti poco noti».
E cosa le fece cambiare idea?
«Un giorno bussano alla porta del mio ufficio, apro e mi trovo davanti proprio Sean. Era venuto di persona, senza avvertirmi, e stringeva il copione del film sotto il braccio. Mi fa: Listen, boy, ragazzo ascoltami, e comincia a recitare una pagina con la sua voce calda e avvolgente».
A qual punto lei è caduto ai suoi piedi?
«Di sicuro mi è venuta la pella d' oca. Ad impressionarmi, oltre al talento e all' intonazione che lo rendevano perfetto per il ruolo, fu il carisma di Sean: aveva una bellezza fuori dal comune. Molti attori, seducenti sullo schermo, da vicino si rivelano delle persone normali. Non lui. Era un uomo splendido, non mi viene un' altra parola per definirlo».
A quel punto gli fece firmare il contratto?
«Corsi al piano di sopra dal produttore e gli dissi urlando che avevo trovato Guglielmo. Il contratto venne stilato in pochi minuti, mentre Connery aspettava, e quindi firmato. Ma molti, a cominciare dal mio agente, mi dissero che avevo fatto una follia che mi avrebbe rovinato la carriera. E non parliamo di Umberto Eco».
Perché, come reagì lo scrittore?
«Quando gli comunicai di aver preso Connery ebbe una reazione catastrofica. Mi disse che la sua immagine popolare di grande seduttore non corrispondeva nemmeno lontanamente al personaggio che aveva creato. Eravamo a Milano e c' era anche Renate, la moglie di Umberto: Mio Dio, ma come ti è venuto in mente?, mi gridò in mezzo alla strada... Lo scrittore mi raccomandò: Sul set lo farai a pezzi. Gli risposi che era il mio lavoro di regista».
Presentò mai Connery a Eco?
«Sì, Umberto venne sul set. Parlò con Sean poi mi disse con aria di sufficienza: È molto competente. Di calcio. Ma un anno e mezzo dopo, quando il film uscì e fu un successo mondiale, riconobbe che l' attore era fantastico».
Ma perché, secondo lei, teneva tanto a fare Guglielmo?
«Per scrollarsi di dosso l' immagine di James Bond. Fatica sprecata, sul set tutti continuavano a chiamarlo 007. E le donne cadevano ai suoi piedi, nessuna poteva resistere al suo sguardo».
Cos' altro ricorda del grande attore?
«Oltre a dimostrare un enorme talento, era un uomo tenerissimo, gentile, affettuoso. Mentre gli attori francesi o italiani inseguono l' ispirazione o la vibrazione poetica, per lui il cinema era soprattutto mestiere. È una concezione che viene dalla vecchia, grande scuola inglese».
Anche secondo lei è stato il James Bond migliore di sempre?
«Senza dubbio, il suo carisma non l' ha superato nessuno. Nemmeno Daniel Craig che è un attore bravo e intelligente. Ma Connery è stato unico».
Ha mantenuto i rapporti con lui?
«Sì, abbiamo continuato a sentirci e ogni tanto ci vedevamo. Qualche anno fa sono stato invitato al suo anniversario di matrimonio, era innamoratissimo della moglie francese Micheline. Mi spiegò che aveva abbandonato il cinema perché non si divertiva più. Ma era felice così».
Marco Giusti per Dagospia il 26 agosto 2020. Non arriva benissimo ai suoi 90 anni il grande Sean Connery. Malconcio, malato. Ogni tanto si fa vivo con Ursula Andress, che gli è rimasta amica dai tempi di “Agente 007 – Licenza di uccidere” di Terence Young, il film che ha dato a entrambi l’immortalità cinematografica. Lei guadagnò 6.000 dollari e lui 20. 000 nel lontano 1962. Già al suo secondo James Bond i dollari erano diventati 250 mila, poi 600 mila, fino al milione per il suo unico western “Shalako”, che girò con una Brigitte Bardot un po’ depressa. Sono sempre andati d’accordo Ursula e Sean. Anche se lui sia sul set che nella vita faceva più comunella con gli attori maschi, come Richard Harris, col quale divide uno strepitoso film di Martin Ritt, “I cospiratori”, film sugli scioperi dei minatori irlandesi nella Pennsylvania del 1876, o come Michael Caine, col quale divide il capolavoro di John Huston “L’uomo che volle farsi re”, che era anche il suo film preferito di sempre. Mentre aveva una profonda venerazione per Dirk Bogarde, col quale recità in “Quell’ultimo ponte”. Come spesso capita nel cinema, però, non sai mai qual è la mossa giusta che ti può cambiare la vita. Per Sean il primo 007 fu un successo planetario, visto che quel ruolo lo fece diventare a breve l’uomo più sexy del secolo. E pensare che i produttori, Saltzman e Broccoli, avrebbero voluto al suo posto Cary Grant, il vero modello di 007 per Ian Fleming, autore della saga. Era d’accordo anche Hitchcock. Ma Cary Grant non si sarebbe mai legato a un film che prevedeva non un sequel, ma una serie di sequel quasi infinita nello stesso identico ruolo. Non faceva per lui. I produttori avrebbero anche voluto al suo posto Roger Moore, l’Ivanhoe della nostra infanzia televisiva, attivo in Italia ai tempi del peplum (“Il ratto delle sabine”), come lo era anche Terebce Young (“Orazi e Curiazi”). Inglese e non scozzese con qualche discendenza irlandese come Sean Connery. Ma troppo giovane per il ruolo, si dissero i produttori. O Richard Johnson, davvero perfetto come James Bond, ma legato a un contratto con la Metro. Impossibile da avere. Negandosi Johnson si dovrà accontentare poco dopo di un simil 007, “Più pericoloso del maschio”, eurospy diretta da Ralph Thomas dove recita il ruolo di Bulldog Drummond fra una serie di bellezze che spaziano fra Elke Sommer e Sylva Koscina. E si morderà le mani a vita. Credo. Perché poteva vantare una carriera alla Royal Academy, esperienze con John Gielgud, e un fisico piuttosto simile a quello di Sean Connery. Che poteva vantare un fisico da Mister Universo (ci provbò nel 1953), ma non era né bravo né elegante né inglese come lui. Aveva anche due tatuaggi, fatti a 16 anni prima di arruolarsi in marina, “Scotland Forever” e “Mum and Dad”. Coattello, quindi. Con un passato non da giovane attore, ma da tuttofare, con mille lavori e lavoretti. “Forse non sono un buon attore, ma avrei fatto peggio qualsiasi altra cosa”, dirà nel corso degli anni. Nato a Fountainbridge, nelle vicinanze di Edimburgo, Sean Connery non era di famiglia né nobile né altoborghese., come avrebbe dovuto essere James Bond. Il padre era stato fattore e camionista. Ovvio che non sapesse stare bene a tavola, tanto che Terence Young decide di non inquadrarlo mai con forchetta e coltello a tavola. Lo riveste con i suoi stessi abiti, il sarto era Anthony Sinclair di Saville Row, e gli impone di rimanere in piedi sorseggiando al massimo il suo Martini. Tutti avrebbero capito che era un cafone vedendolo a tavola. Inoltre, aveva già cominciato a perdere i capelli, tanto che sembra che in tutti i suoi sette 007 abbia sempre il parrucchino, anche se alcuni dicono che nei primi due titoli i capelli siano ancora i suoi. Il suo modello di attore era Stanley Baker, ottimo per ruoli da macho popolare, camionista, poliziotto, gangster, un Tom Hardy. Ma troppo duro per fare Bond. Sean Connery, come Stanley Baker, era bello, alto quasi 1,90 e molto, molto sexy. Aveva dovuto scegliere a 23 anni tra il rugby da professionista e il cinema. Ma sapeva che a 30 anni un giocatore di rugby era già finito, mentre al cinema c’era comunque più futuro. Il regista Terence Young, bon vivant e uomo di gran gusto, con la prima scelta dei produttori, che puntavano su Guy Hamilton, Ken Hughes o Bryan Forbes, lo aveva già avuto come attore qualche anno prima in un piccolo ruolo in “Action of the Tiger” (“Il bandito dell’Epiro”), avventuroso esotico di coproduzione anglo-spagnola con Van Johnson e Martine Carol protagonisti. Fu la visione di “Darby O’Gill e il re dei folletti”, sembra, a convincere tutti, regista e produttori. Sean Connery aveva qualcosa in più. Come Clint Eastwood, che esploderà poco dopo in “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone, Sean Connery riportava un po di sano machismo al cinema. Ironico, conquistatore, spaccone, letale. I loro film erano pieni di morti ammazzati e di battute. Cose che il cinema americano del tempo non osava più fare, ormai appiattito sui gusti televisivi degli attori con poca faccia o con star già vecchiotte come Van Johnson non proprio virili. In più Sean Connery aveva delle sopracciglia molto forti, un busto villoso che alle donne del tempo che lo rendevano estremamente attraente. Eravamo tutti innamorati della smorfia sotto il cappello di Clint Eastwood con le battute ciancicate da Enrico Maria Salerno e dalla smorfia di Sean Connery doppiato, per noi, da Pino Locchi. Il primo era lo Straniero, il secondo era Bond, James Bond. La vera differenza, sempre per noi, era che al primo le donne interessavano davvero poco, mentre il secondo le fulminava più o meno come i suoi rivali. Ma rimanevano modelli maschili fortissimi nel mondo dei telefilm e delle prime commedie disneyane. Perché sparavano, bevevano, fumavano, scopavano. E la facevano sempre franca. Assieme a Sean, allora, scoprimmo anche un modello di donna, Ursula, che non era quello dei film americani, ma una donna palestrata, sicura di sé, una statua, non certo la bambolina che volevano a Hollywood. Ci fu una storia? Chissà... Lei è sempre stata abbottonatissima. Ci furono, pare, con Jill St. John, Lana Wood, addirittura Magda Konopka, ma Connery, malgrado fosse James Bond non ebbe mai una fama di conquistatore fuori dallo schermo. Il matrimonio con l'attrice Diane Cilento, sposata prima con l'italiano Andrea Volpi, non ebbe lunga vita. Rispetto ai tradimenti si raccontano quelli di lei, non quelli di lui. Ne "La donna di paglia", girato nel 1963 a PInewood, gli scappa un ceffone che provoca un taglio al labbro della sua partner, Gina Lollobrigida, che risponde "ufficialmente" che "Il signor Connery è un caro compagno di lavoro ed è rimasto veramente male". Altro che conquistatore, insomma. Ricordo che quando vedevamo al cinema, negli anni ’60 ma anche dopo, dei film con Sean Connery fuori dal personaggio James Bond, avevamo dei problemi ad accettarlo. Esattamente come aveva pensato Cary Grant, quel ruolo lo avrebbe marchiato a vita. Ne "La collina del disonore" di Sidney Lumet litiga coi produttori perché non vuole il parrucchino che lo avrebbe troppo identificato con Bond e a Cannes, presentando il film, dice di essere già pronto a mandare in pensione 007. Ci vollero anni per farci digerire uno Sean Connery senza James Bond. Ma se ci fosse stato Rod Taylor al posto suo in "Marnie" il film non sarebbe stato certo diverso e la sua presenza, un po', spiazzava lo spettatore. D'altra parte, quando si tentò, già nel 1964, di costruire un altro James Bond, il produttore Kevin McClory, che aveva i diritti di "Thunderball", ci provò con Richard Burton, dopo aver sondato con Rod Taylor e Peter O'Toole, la cosa sembrò impossibile. La confusione era tale che quando Alberto De Martino girò il sotto 007 “O.K. Connery” con il fratello minore di Sean, Neil, molto meno bello, meno sexy, meno recitante e anche ridotto maluccio, pochi denti, niente capelli, niente fisico, l’idea era proprio di puntare col titolo al richiamo bondiano. Neil, quando qualche anno fa, venne al festival del giallo doiCourmayer, ricordò che a Sean non era affatto piaciuta questa intromissione nel suo mondo e lo pregò di non proseguire. Anche se, diciamo a cominciare dalla serie di film dove fu diretto da Sidney Lumet, “La collina del disonore”, “Rapina record a New York”, “Riflessi in uno specchio scuro”, o nel capolavoro di John Boorman, “Zardoz”, dove recita come fosse uno dei fratelli Hemswoth in versione mora e macha, o dai due grandi titolo di Richard Lester, “Cuba” e “Robin e Marion”, nel corso degli anni Sean Connery dimostrò di essere davvero un grande attore. Non solo James Bond. Resta da capire uno dei più misteriosi progetti di Sean Connery, che lo portò a incontrare in Toscana, nella sua villa, addirittura Licio Gelli per un film sulla sua vita. Il dato più incredibile è che i registi italiani contattati da Gelli, Frank Kramer alias Gianfranco Parolini e Guido Zurli non erano proprio all’altezza di Sean Connery. Ma credo che rimarrà un altro di quei misteri italiani mai risolti…
Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 25 agosto 2020. «Agente segreto». Chissà cos’ha attraversato la mente di Sean Connery quando per la prima volta gli hanno raccontato il personaggio che avrebbe dovuto interpretare. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, nessun problema: nonostante la robusta corporatura (è alto 189 cm), dimostrava grazia nei movimenti. Inoltre c’era il fattore «incognito», che si legava molto al suo carattere: per tutta la carriera, infatti, è stato estremamente riservato e ancora oggi – che compie 90 anni e si è ritirato dalle scene – sulla sua vita vige il massimo riserbo. Insomma, James Bond gli calzava davvero bene: è stato il primo a vestirne i panni e tutt’ora – per una larga fetta di appassionati – ne è considerato il miglior interprete. Tra l’altro esiste un’altra bizzarra coincidenza che lega Connery a 007: appena sedicenne, quando lavorava in una drogheria di Edimburgo, portava spesso il latte al Fettes College, la scuola che frequentava l’agente segreto nei romanzi di Ian Fleming. Insomma, tutto sembrava scritto nel destino, anche se all’inizio in pochi avrebbero scommesso sul suo futuro di attore. Figlio di un camionista e di una cameriera, cresce in un sobborgo della capitale e da giovane prende lezioni di ballo, salvo poi decidere di arruolarsi in Marina. In breve tempo però viene rispedito a casa per colpa di un’ulcera, così inizia una serie di lavoretti per guadagnarsi da vivere: muratore, bagnino, lavapiatti, guardia del corpo, verniciatore di bare e persino modello di nudo all’accademia d’arte. D’altronde ha un fascino magnetico, tanto che nel 1953 va a Mister Universo in rappresentanza della Scozia e si classifica terzo. È questo il trampolino con cui salta nel mondo della recitazione: dopo alcune piccole apparizioni in spettacoli teatrali, infatti, nella seconda metà degli anni Cinquanta prende parte ad alcune produzioni tv con cui si guadagna una discreta notorietà. La svolta professionale arriva nel 1962 quando appunto viene scelto per il ruolo di James Bond: per ben cinque episodi diventa 007, da «Licenza di uccidere» a «Si vive solo due volte», poi – dopo aver mollato per evitare un’eccessiva identificazione – torna solo per «Una cascata di diamanti», nel 1971. La carriera di Connery però è anche altro: da «Marnie» di Alfred Hitchcock a «Riflessi di uno specchio scuro» di Sidney Lumet, fino alla grani interpretazioni di Guglielmo di Baskerville ne «Il nome della rosa» e del poliziotto Jimmy Malone in «The Untuochables – Gli intoccabili» che gli vale l’Oscar. È la consacrazione: gira una serie di film diventati cult in tutto il mondo, seppur sul braccio destro campeggi un tatuaggio con scritto «Scotland Forever», che testimonia il suo intramontabile orgoglio scozzese (è stato sostenitore dell’indipendenza). Un tatuaggio che, proprio come quello dedicato ai genitori, chiede di tenere nascosto. Tutto ciò che riguarda la sua vita privata, infatti, cerca di proteggerlo da riflettori e telecamere: è stato sposato due volte, la prima con la collega australiana Diane Cilento – dal ’62 al ’73 – con cui ha avuto il figlio Jason (53) che a sua volta la reso nonno nel 1997 quando è nato Dashiell. È convolato di nuovo nozze nel 1975 con la pittrice franco-algerina Micheline Roquebrune e di loro, a parte alcune comparsate sui red carpet, oggi si sa poco o nulla. Agente segreto, per sempre.
Sean Connery, 90 anni del primo James Bond, il più amato e il più ironico. La sua misurata ironia spiega anche perché l'attore scozzese sia ancora oggi lo 007 preferito dal pubblico. La vena umoristica riemerge in molti dei suoi film, da Highlander a Indiana Jones. Roberto Nepoti il 24 agosto 2020. Nell'autunno del 1962 gli spettatori britannici poterono vedere, a distanza di pochi giorni, due versioni molto differenti di Sean Connery. Sugli schermi, infatti, l'attore scozzese (che il 25 agosto compie novant'anni) vestiva per la prima volta, in Agente 007 licenza di uccidere, lo smoking del personaggio che lo avrebbe reso celebre; ma era anche Flanagan, soldato semplice della 3° Divisione di fanteria sbarcato sulle coste della Normandia assieme a Henry Fonda, John Wayne, Robert Mitchum, Richard Burton e mezzo Olimpo del cinema nel kolossal bellico Il giorno più lungo. Apparentemente i due character avevano pochi punti in comune: campione di raffinato aplomb il killer di Ian Fleming; proletario e chiacchierone Flanagan, una specie di miles gloriosus che scende dall'anfibio minacciando i tedeschi ("Scappate, pezze da piedi. È tornato Flanagan"), ma poi finisce sott'acqua e teme di annegare ("Che porcata è?" esclama sputando "Ti affogano prima di darti il tempo di combattere"). Flanagan, insomma, è un personaggio comico: l'unico, anzi, dell'epico e magniloquente dramma bellico di Ken Annakin. Eppure, a guardar meglio, i due Connery non sono così agli antipodi. Anzi. In tutta la serie dei film di 007 Sean, pur in modo più sottile e ammiccante, condisce le proprie interpretazioni di umorismo. La sua bella faccia sprizza ironia, anche in presenza delle donne più attraenti e dei nemici più pericolosi. Ed è proprio questo atteggiamento, da superman che non si prende troppo sul serio, a insaporire avventure "a geometria variabile" che - come osservò a suo tempo Umberto Eco - in fondo non cambiano mai: cambiano solo l'antagonista e l'ordine degli episodi. La sua misurata ironia spiega anche perché Connery resti a tutt'oggi (vedi il recentissimo sondaggio della rivista Radio Times) lo 007 preferito dal pubblico: laddove, tra i suoi epigoni, un Roger Moore esagera in ammiccamenti, un Pierce Brosnan o un Daniel Craig sono troppo seri. Però l'umorismo di Connery non è solo quello prestato al suo alter-ego: anche quando interpreta personaggi diversi dall'agente con licenza di uccidere, l'attore non si nega (quasi) mai un tocco d'irrisione e divertito distacco. Ancora in piena "èra Bond", Sean compare in alcuni film fatti apposta per spremere il capitale di carisma acquisito con 007. In Una splendida canaglia (1966) esagera un tantino in gigioneria nella parte di Samson Shillitoe, poeta newyorkese sociopatico che non sa resistere alle tentazioni (le donne gli crollano addosso al primo sguardo) e finisce per sottoporsi a un esperimento di lobotomia. Mentre in Shalako (1968), curioso western di produzione europea, è un improbabile ex ufficiale di cavalleria filo-indiano che parla con accento scozzese, sfoggiando una sicurezza e un tocco di umorismo sardonico da James Bond della prateria. Dopo il (quasi) definitivo divorzio da 007, la vena umoristica dell'attore riemergerà in film e personaggi tra i più disparati. Basti pensare a Zed, il "bruto" del distopico Zardoz che si fa beffe della sofisticata Consuela sogghignando sotto i grossi baffi. O al Robin Hood anziano e acciaccato del Robin e Marian di Richard Lester, il quale continua a vaneggiare di imprese gloriose e vittorie che ormai non può più permettersi. O all'arguto e affascinante Juan Sanchez Villa-Lobos Ramirez, mèntore del protagonista della saga Highlander, un immortale che ne ha viste troppe per non sorridere di sé e degli altri. O, ancora e soprattutto, all'ineffabile professor Henry Jones sr., eccentrico e distratto papà dell'archeologo-avventuriero di Spielberg, che in Indiana Jones e l'ultima crociata si produce in autentici duetti da commedia con Harrison Ford/Indy. Certo, si potrà obiettare che spesso l'attore interpreta personaggi eroici, impegnati in grandi avventure e via via più carismatici col procedere dell'età: pensiamo al "Raisuli", il condottiero berbero del Vento e il leone, ad esempio, o all'incorruttibile poliziotto irlandese Jimmy Malone (che gli valse l'Oscar come miglior attore non protagonista) di The Untouchables - Gli intoccabili. Eppure anche ai "caratteri" più monolitici della sua filmografia Connery presta sempre un tocco (auto)ironico, che gli increspa, a tratti, le labbra sotto la barba o i baffi ormai striati di bianco. Lo humour, però, dà il suo meglio quando la derisione trascolora nell'autoironia. È il caso dei numerosi film in cui, ormai maturo, è protagonista di love story con donne molto più giovani: Michelle Pfeiffer (La casa Russia), Brooke Adams (Cuba), Catherine Zeta-Jones (Entrapment). Nei soggetti di questo tipo l'attore assume uno sguardo un po' d'intesa, un po' di scusa: ma è lo sguardo di chi sa bene che, in fondo, se lo potrebbe permettere. L'autoironia non si limita al circuito dello schermo; e lo certificano alcune delle sue più celebri battute. Come quando affermò: "Forse non sono un buon attore, ma qualsiasi cosa avessi fatto, sarei stato peggio". O quando (era il 1999), proclamato dalla rivista People "l'uomo più sexy del secolo", ai giornalisti che gli chiedevano un commento rispose con humor scozzese: "Non saprei. Non sono mai stato a letto con un uomo di sessant'anni, calvo". Se Connery predilige l'ironia, è altrettanto vero che non ha mai amato gli eufemismi o le mezze parole. Basti ricordare che, nel 2005, dichiarò a un giornale neozelandese di volersi ritirare dallo schermo perché "stufo degli idioti". Proposito rigorosamente mantenuto.
· E' morto Pino Scaccia, storico inviato della Rai.
Da repubblica.it il 28 ottobre 2020. E' morto Pino Scaccia, storico inviato della Rai ed ex capo redattore dei servizi speciali del Tg1. Romano, aveva 74 anni. Era ricoverato al San Camillo e si è aggravato a seguito delle complicazione dovute all'infezione da Covid. Il giornalista, il cui vero nome era Giuseppe Scaccianoce, era ricoverato da settimane per coronavirus. Inviato sui principali eventi internazionali degli ultimi 40 anni, Scaccia è stato in prima linea anche su temi italiani, dalla mafia al terrorismo. Su Twitter immediato il cordoglio di amici e colleghi. L'Usigrai scrive: "E' venuto a mancare Pino Scaccia, inviato sui principali eventi internazionali degli ultimi 40 anni. In prima linea anche su temi italiani, dalla mafia al terrorismo. Cronista di razza. Ha dato lustro al Tg1, alla Rai, interpretando i valori del Servizio Pubblico". Toni Capuozzo scrive: "Addio, Pino. Adesso i ricordi più belli fanno ancora più male. Pino Scaccia, l'inviato del Tg1 Rai, il collega e amico, l'uomo che aveva ancora tanti progetti e con cui era bello ritrovarsi da vecchi reduci non c'è più". L'associazione Articolo 21 sul suo sito ricorda così il giornalista: "Ci ha lasciato Pino Scaccia inviato del tg1 tra i fondatori di Articolo 21, uno che ha davvero illuminato le vite degli altri senza mai dimenticare gli ultimi di qualsiasi fede e colore della pelle. Lo ricorderemo domani all'apertura del premio dedicato al suo amico Roberto Morrione". Poi ripubblica il suo ultimo intervento per il sito di articolo 21 scritto lo scorso agosto per ricordare l'amico e collega Enzo Baldoni.
· Morta Diane Di Prima, poetessa e attivista Beat.
Morta Diane Di Prima, poetessa e attivista Beat. Roberto Galaverni Il Corriere della Sera il 26/10/2020. Nata a New York nel 1934, Diane Di Prima era di origini italiane. In particolare, il nonno materno era stato un anarchico di un certo rilievo, e chissà che il retaggio del suo temperamento e dei suoi convincimenti libertari e nient’affatto istituzionali non abbia inciso in profondità sui particolari modi della vocazione poetica della nipote. Diane, scomparsa domenica 25 ottobre, è stata infatti uno degli esponenti importanti, se non probabilmente il più importante in assoluto, del versante femminile della Beat Generation, il celebre movimento poetico in cui per altro la differenza non soltanto poetica, ma politica e sociale, tra uomo e donna non aveva alcuna rilevanza e andava pertanto contestata. È stata senz’altro una beatnik, come si definivano gli appartenenti al movimento, a tutto campo e attivissima (ha anche offerto il resoconto di questa sua avventura esistenziale e artistica in un racconto del 1969, intitolato appuntoMemorie di una beatnik, edito in Italia da Olympia nel ’69 e da Guanda nel ’94). Da questo punto di vista la trentina e passa delle sua raccolte di poesia non rappresenta che la parte più visibile e significativa di un impegno che è stato comunque a largo raggio. Del resto, proprio come indicato dal più noto dei suoi compagni di strada, vale a dire Allen Ginsberg, la pratica della poesia non era disgiunta da una spinta alla trasformazione interiore e spirituale: la pratica della meditazione e del buddhismo, la vita antiborghese e libertaria nelle comunità, lo gnosticismo e perfino l’alchimia. Tra le sue amicizie e collaborazioni importanti non si può non ricordare quella con personaggi e artisti di rilievo come Amiri Baraka, con cui fondò il New York Poets Theatre, e con Timothy Leary. Non deve sorprendere il numero dei libri di poesia che ha pubblicato nel corso di sessant’anni (in pratica, uno ogni due anni), dalla prima raccolta del 1958 all’ultima dell’anno passato,uscita tra l’altro, come parecchi altri suoi volumi, per City Lights Bookstore, la celebre casa editrice fondata nel 1953 a San Francisco da Lawrence Ferlinghetti. La sua poesia infatti non è scritta per rimanere, ma per incidere; non per essere un monumento più duraturo del bronzo, ma per intervenire sulle cose, per essere efficace, per ottenere una ricaduta immediata. Così, come accade in genere con autori con questo tipo di disposizione, le sue poesie andranno lette lasciandosi anzitutto portare dall’invenzione sonora, dai ritmi sghembi, imprevedibili e quasi improvvisati (ritmi e sonorità jazz, com’è stato detto), nonché dalla fertilità e dall’impazienza di un immaginario sempre teso e graffiante: «Il tempo/ ha mangiato la mia innocenza come un pistacchio/ l’amore se n’è andato con la mia fiducia/ o nobile primoamore».
· E’ morto Lee Kun-hee, presidente di Samsung Electronics.
(ANSA il 25 ottobre 2020) - Lee Kun-hee, presidente di Samsung Electronics, è morto oggi a Seul dopo un ricovero ospedaliero durato anni a seguito di un attacco di cuore avvenuto nel 2014. Lo riferisce una nota della prima conglomerata industriale della Corea del Sud, in cui si ricorda che Lee, autore della trasformazione di Samsung un un colosso mondiale leader soprattutto nell'elettronica e nei microprocessori, aveva 78 anni. "È con grande tristezza che annunciamo la scomparsa di Kun-hee Lee, presidente di Samsung Electronics - ha riferito la società nella nota -. Il presidente Lee è morto il 25 ottobre accanto alla sua famiglia, incluso il vicepresidente Jay Y. Lee, al suo fianco". Lee "è stato un vero visionario che ha trasformato Samsung in un player innovatore leader mondiale e potenza industriale da un'azienda locale" e "la sua eredità sarà eterna". Sotto la guida di Lee, Samsung, la più grande conglomerata a conduzione familiare ('chaebol') del Paese, è diventata il più primo produttore al mondo di smartphone e chip di memoria con un fatturato complessivo cresciuto fino a essere un quinto del Pil della Corea del Sud, nonché il 20% del suo export. Noto per lo stile di vita solitario tanto da meritarsi il soprannome di "re eremita", Lee fu costretto a rimanere a letto per l'attacco di cuore nel 2014 e da allora le sue condizioni di salute sono state avvolte nel mistero. Samsung con le altre chaebol hanno guidato la trasformazione della nazione risollevatasi dalle rovine dalla Guerra di Corea (1950-53) fino a diventare la dodicesima economia più grande al mondo, destinata quest'anno secondo le stime dell'Ocse, anche per l'effetto della pandemia del Covid, a salire al nono posto. Allo stesso tempo, Lee ha dovuto fare i conti con scandali finanziari per l'oscuro intreccio con la politica incassando due volte la condanna per reati di vario tipo. Quando ereditò nel 1987 la guida del gruppo, fondato da suo padre come esportatore di pesce e frutta, Samsung era già il primo gruppo del Paese con attività che spaziavano dall'elettronica di consumo all'edilizia e all'industria pesante. Importante il ruolo avuto sul ritorno della Corea del Sud nella comunità internazionale dopo la fase della dittatura militare e l'arrivo della democrazia suggellato con le Olimpiadi estive di Seul del 1988. Da ultimo, anche l'impegno nel Cio per avere quelle invernali di Pyeongchang del 2018. Suo figlio Lee Jae-yong, attuale il vice presidente di Samsung Electronics, è al timone dell'azienda dall'infarto del padre, finendo in carcere dopo la condanna a cinque anni comminatagli nel 2017 per i reati di corruzione e di altro tipo legati all'ex presidente Park Geun-hye, prima di essere scagionato dalle accuse più gravi in appello e rilasciato un anno dopo. Il caso è attualmente in fase di revisione.
Michelangelo Cocco per “il Messaggero” il 26 ottobre 2020. Il suo motto, un vero e proprio marchio di fabbrica, era: «Cambiamo tutto, tranne moglie e figli». Ed è proprio attraverso la continua innovazione che Lee Kun-hee, morto ieri all' età di 78 anni, era riuscito a trasformare Samsung nel più grande conglomerato industriale della Corea del sud e in un brand globale iconico. Terzo figlio di Lee Byung-chull - il fondatore (nel 1938) di quella che nacque come un' esportatrice di pesce e frutta -, Lee Kun-hee fece lievitare il fatturato di Samsung da 9 miliardi di dollari nel 1987, quando ne assunse la guida, a 400 miliardi di dollari nel 2014, quando venne ricoverato a seguito dell' infarto che lo mise definitivamente fuori gioco. A favorire questo miracolo industriale furono le politiche di Park Chung-hee, il presidente che negli anni Sessanta iniziò a cambiare il volto di un Paese agricolo attirando investimenti e garantendo alle aziende prestiti bancari agevolati per promuovere l' export dei prodotti sudcoreani. Nel 1974 contro la volontà di papà Byung-chull, tutto concentrato sul business del grano e dei tessuti Lee acquistò la Korea Semiconductor: aveva intuito che il futuro delle catene di montaggio allora come oggi quello dell' intelligenza artificiale era racchiuso nei microchip, che sarebbero diventati sempre più piccoli e sempre più potenti. Si era formato alla prestigiosa Università Waseda di Tokyo e aveva fatto di tutto affinché Samsung si emancipasse da quello che definiva «colonialismo tecnologico straniero», ovvero quello del Giappone, potenza tecnologica d' Oriente incontrastata negli anni Ottanta. Ma, nel 1983, fu la compagnia di Lee Kun-hee ad andare in Giappone, per investire nell' elettronica. Dieci anni dopo, Samsung sfornò la prima memoria DRAM da 64 mega: da allora non ha ancora mollato la leadership mondiale nella produzione di chip. Lee era ossessionato dalla qualità, e grazie a quella dei suoi prodotti, Samsung è diventata leader mondiale nei settori dei microchip, dei telefoni cellulari e dei televisori. Il suo fatturato equivale al 20% del prodotto interno lordo sudcoreano. Eppure fino al 1993 la creatura ereditata dal padre sfornava ancora manufatti a basso costo. Fu in quell' anno che Lee divenne un mito. Dopo essersi infuriato per aver visto i suoi operai che aggiustavano con dei coltelli i coperchi difettosi di lavatrici uscite da una linea di produzione, e aver ordinato di bruciare un magazzino con centinaia di migliaia di telefoni cellulari giudicati obsoleti per design e funzionalità, lanciò il suo manifesto per un Nuovo mangement. Fu allora che pronunciò lo slogan: «Cambiamo tutto, tranne moglie e figli». Quel 1993 segnò la rinascita di Samsung, grazie ai telefonini del suo brand Anycall che invasero i mercati internazionali. Nel 1996 Lee venne condannato per aver corrotto l' ex presidente Roh Tae-woo, ottenendone favori per la sua azienda. Nel 2003, si dimostrò ancora una volta un visionario, ordinando la fine della produzione di televisori a tubo catodico (di cui allora deteneva il 27% delle vendite), per passare a quelli LCD, che assecondarono il passaggio dall' analogico al digitale. Grazie a questa mossa nel 2006 superò la rivale (giapponese) Sony nel mercato delle tv. Nel 2008, fu costretto a dimettersi temporaneamente in seguito a un altro scandalo, questa volta per truffa ed evasione fiscale. In entrambi i casi non passò un giorno in prigione ed ottenne il perdono presidenziale. Schivo e solitario, Lee non usciva quasi mai dalla sua villa nel centro di Seul per andare in azienda, per questo gli avevano affibbiato il soprannome di re eremita. «La sua eredità sarà eterna», si legge nel comunicato aziendale che ne ha annunciato la scomparsa. Intanto, ai parenti lascia un patrimonio netto di circa 21 miliardi di dollari. Suo figlio, il vice presidente di Samsung Electronics Lee Jae-yong, saprà tener testa alla concorrenza cinese così come il padre riuscì a superare i rivali giapponesi?
· Morto Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900.
Enrico Ratto per "rivistastudio.com" il 23 ottobre 2020. Non è mai stato semplice raggiungere Frank Horvat. Non lo è stato nella fotografia, certo, ma nemmeno nella vita vera, fisica, fuori dalla messa in scena. Per arrivare nella sua casa in Provenza, dopo aver attraversato il piccolo paese di Cotignac, si doveva percorrere una strada sterrata, nel bosco, lunga cinque chilometri. Gli appunti dei bivi e delle deviazioni per raggiungere quel luogo occupano un foglio, ante e retro. «Vivere qui è un lusso che mi costa molto caro», ripeteva Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900, morto il 21 ottobre a Parigi, all’età di 92 anni. Difficile dire se si considerasse francese, italiano, o più probabilmente un europeo con radici ebraiche, sempre in viaggio ed incuriosito dalle strane connessioni del mondo. Era nato ad Abbazia nel 1928, allora italiana, e durante la guerra si era rifugiato in Svizzera con la madre psichiatra. Negli anni ’50, a Parigi, incontra Henri Cartier-Bresson, il quale vede la sua Rollei – macchina fotografica a pozzetto – e gli dice «I tuoi occhi non sono sulla tua pancia». Horvat compra così una Leica, la appoggia agli occhi ed inizia a girare il mondo, fotografando esattamente ciò che vede per Life, Picture Post, Paris Match. I suoi lavori escono su tutte le riviste che contano e, essendo lui di una generazione che non conosceva falsi moralismi, che erano in grado di pagare bene i suoi reportage. Entra in Magnum, ma ci resta un solo anno: l’agenzia tratteneva il cinquanta per cento degli introiti. Frank Horvat è famoso per aver portato la fotografia di moda in strada, negli anni ’60, quando i servizi, sia per i marchi del lusso sia per riviste come Elle, Vogue e Harper’s Bazaar, venivano realizzati in studio, contribuendo così alla diffusione del prêt-à-porter. Ma probabilmente a Frank Horvat non è mai interessato essere considerato padre di un nuovo genere, era distante da tutte le teorie per fotografi astratti e privi di un approccio concreto della vita, il suo obiettivo era saper coniugare questa profonda passione per il mondo, per le persone, per le strade, con un mestiere che gli permettesse di essere un autore. Ripeteva spesso che «La fotografia è l’arte di non premere il pulsante». Fermarsi un attimo prima, trattenere qualcosa per sé era più importante che riempire il mondo di immagini, pensieri, ragionamenti, emozioni di cui, forse, il mondo non ha nemmeno tutto questo bisogno. “Please, don’t smile” è il titolo di uno dei suoi ultimi libri, riprendendo ciò che veniva detto alle modelle durante i servizi fotografici. Sapeva divertirsi con questi tic, piccole fissazioni, di un ambiente che osservava da distante. Da trent’anni, ormai, ogni volta che aveva un’idea, preferiva svilupparla in un libro o in una mostra. Anche in questi casi, se il progetto non lo convinceva, si fermava un attimo prima di portarlo di fronte al pubblico. I libri dovevano essere curatissimi, nella stampa e nell’impaginazione, e chissà se ha mai risolto il problema della cucitura che interrompe le grandi foto orizzontali su doppia pagina, nessun grafico ce l’ha ancora mai fatta. «L’impaginazione e la struttura sono importanti quanto la foto, a volte di più. È come scrivere un romanzo», diceva. Parlare di lavoro con Frank Horvat, in tre lingue – italiano, inglese e francese, a seconda del tono di voce e del tipo di argomento – era una continua altalena tra questioni filosofiche irrisolte e problemi pratici da risolvere. A metà degli anni ’80, quando a causa di una malattia agli occhi, per un certo periodo non riesce a fotografare, contatta i fotografi di cui ha più stima e propone loro di fare un libro insieme. Nessuna fotografia, ma lunghe interviste. È la prima volta che un libro raccoglie i dialoghi di un fotografo con un altro fotografo, e in queste conversazioni con Helmut Newton, Robert Doisneau, Josef Koudelka e Don McCullin tra gli altri, escono fuori cose che un critico o un giornalista non avrebbe saputo cogliere. Con Eva Rubinstein si soffermano a lungo sul fatto che l’occhio destro sia dominante, per cui fotografare, e quindi raccontare il mondo, con l’occhio destro o con quello sinistro, può fare una grande differenza. L’unico italiano presente nella raccolta è Mario Giacomelli, di cui Horvat aveva immensa stima, e rimpiangeva di averlo incontrato una sola volta a Senigallia. Qualche anno fa, nella casa parigina di Boulogne-Billancourt, un giornalista americano del New Yorker visitando la sua collezione privata di fotografie del ‘900, gli domandò quali stampe avrebbe salvato, in caso di incendio. Horvat indicò tre fotografie della serie dell’ospizio di Mario Giacomelli. Ma è con la tecnologia che Frank Horvat si è sempre divertito. Negli anni ’90 è tra i primi fotografi, sicuramente il primo tra i classici, ad acquistare Photoshop, a ritoccare e ad attrarre le critiche dei seguaci di Cartier-Bresson, oltre che di HCB stesso. «Lavoro moltissimo in post-produzione», spiegava, di fronte alle scrivanie piene di Mac accesi, «In post-produzione cerco di ritrovare quello che mi aveva interessato quando ho scattato la foto, cerco di accentuare ciò che mi ha fatto scattare la fotografia». D’altra parte, la fotografia era diventata sempre più la ricerca di un punto di interesse personale: ciò che mi interessa. Da anni non si staccava da una piccola macchina fotografica compatta che teneva sempre in tasca, usciva tra nel bosco di Cotignac e fotografava i rami dei ciliegi. «Vedi», diceva, «Non c’è differenza tra i miei alberi e quelli del vicino, ma a me interessa fotografare i miei ciliegi, perché questi sono i miei». Poi sono arrivati gli iPad e l’applicazione Horvatland: un labirinto tecnologico a cui ha dedicato più di due anni per pensarne l’architettura, un ambiente digitale nel quale ha riversato 2000 fotografie, tra personali, commerciali e storiche. Un’app pensata per parole chiave, come le sue ultime esposizioni della serie “House with Fiftteen Keys” perché «all’osservatore devi offrire un punto di partenza, poi proseguirà da solo, ma una parola chiave da cui partire è sempre necessaria». Le parole, la loro esattezza ricercata in tutte le lingue possibili come fossero strumenti per relazionarsi col mondo, sono sempre state la passione di Frank Horvat. Quando nel 2015 realizzò un lavoro sullo scultore Aristide Maillol, oltre alla fotografie, Horvat scrisse anche le brevi didascalie. L’editore Gallimard si complimentò per quei testi, e questa fu la cosa che lo rese davvero felice. Le parole e le immagini servono a creare connessioni che non si vedono ad occhio nudo, a immergersi in labirinti che possano sorprendere. Quando sono arrivati i social, per qualche anno, ogni giorno, ha pubblicato su Facebook un dittico: passava le giornate a cercare in archivio due fotografie che potessero dialogare tra loro e dar vita ad una storia, inaspettata, mai immaginata prima. Il suo lavoro era fornire un punto, uno spunto, da cui partire, poi ogni cosa avrebbe preso la propria strada. È questo che ha fatto di Frank Horvat un grande autore classico.
· È morto l’attore e cantante Gianni Dei.
Da fanpage.it il 19 ottobre 2020. È morto Gianni Dei, attore e cantante bolognese scomparso il 19 ottobre all'età di 79 anni. Dei, talvolta accreditato come Gianni Dei Carpanelli, Nino Dei e John Day, ha avuto una carriera artistica assai variegata, spaziando dal cinema alla musica, ed è stato un volto di riferimento per numerosi ruoli da caratterista in molti film italiani della cosiddetta categoria B Movie. Tra i primi a dare l'annuncio della sua scomparsa la conduttrice Mara Venier, cara amica di Dei, che lo ha salutato con una foto pubblicata su Instagram in cui lo descrive come una persona assai vicina con la quale ha avuto un'amicizia profonda.
Più di 40 film all'attivo per Gianni Dei. La carriera di attore di Gianni Dei inizia dopo la licenza liceale, quando da Bologna decide di trasferirsi a Rom e dà inizio all'attività con un piccolo ruolo in Via Margutta di Mario Camerini. Seguiranno decine di film da caratterista, in tutto 43, di genere comico, commedia all'italiana, commedia erotica all'italiana, musicarelli, thriller, poliziotteschi. Negli anni Duemila è apparso in alcuni documentari tutti incentrati sulla storia del cinema italiano, tra i quali Paura: Lucio Fulci Remembered – Volume 1 del2008 e Not Quite Hollywood: The Wild, Untold Story of Ozploitation!, sempre nel 2008, anche questo realizzato interamente grazia all'aiuto di materiale di archivio.
La carriera musicale. Tra il 1988 e il 1994 escono a suo nome cinque 33 giri, da Lista d'attesa del 1988 a Inflazione amerikana pubblicato nel 1989, passando per L'angelo di Hitchcok, anno 1991 e ancora nel 1993 Fragole e champagne. Risale al 1994 Nessuno è imbattibile.
· E’ morto Enzo Mari: artista e disigner.
Simone Mosca per milano.repubblica.it il 19 ottobre 2020. "Ciao Enzo. Te ne vai da Gigante". Con un tweet è stato questa mattina Stefano Boeri a dare l'annuncio della scomparsa di Enzo Mari, grande artista e disigner nato nel '32 a Novara e poi milanese per tutta la vita. E che sabato era protagonista proprio in Triennale di una mostra dedicata ai 60 anni di carriera. Era ricoverato al San Raffaele da alcuni giorni così come Lea Vergine, moglie e compagna da quasi 60 anni. Presentando l'antologica curata a Palazzo dell'Arte, lo scorso giovedì Hans Ulrich Obrist definiva Mari un "Leonardo contemporaneo" sottolineando la vastità di argomenti, interessi, oggetti e opere con cui ha segnato sin dal Dopoguerra il mondo del made in Italy e della cultura del Novecento. Studente in Brera dal '52 al '56, aveva militato nel gruppo di Arte cinetica e programmata al fianco tra gli altri di Bruno Munari, come lui artista e intellettuale prestato al design. E il suo nome così si lega oltre che ai cinque Compassi d'Oro conquistati (di cui uno alla carriera nel 2011), al vassoio Putrella per Dainese, alle posate Piuma per Zani&Zani, allo spremiagrumi Squeezer per Alessi, alle decine di provocazioni, mostre e progetti con cui invitava a una visione critica del mondo e della società. Considerato da Alessandro Mendini "la coscienza dei designer", è sufficiente citare Proposta per un'autoprogettazione del '74, istruzioni per la costruzione fai-da-te di mobili che Mari invitava a interpretare in prima persona. Un'esperienza tornata di moda durante il lockdown.
Giampiero Mughini per Dagospia il 19 ottobre 2020. Caro Dago, alla notizia che Enzo Mari se ne è andato, a stento riesco a trattenere le lacrime. Dopo la morte di Alessandro Mendini e di Ettore Sottsass, i soli “giganti” che rimane del tempo grandissimo in cui il design italiano ha dettato legge nel mondo sono Mario Bellini e Gaetano Pesce. Beninteso, Mari non lo avevo mai accostato di persona. Non era uomo da accostarsi come se niente fosse, e nei libri di quel grande scrittore che è suo figlio Michele questo emerge chiarissimamente. Un uomo difficile, difficilissimo, arduo. Solo che il suo genio è presente quasi dappertutto in casa mia. Fra pochi minuti andrò a mangiare in cucina sul cui tavolo è un “albero” di alluminio al quale Mari aveva appeso forchette coltelli e cucchiai, un’idea che poi gli hanno copiato in tanti. Lui se l’era inventata una trentina di anni fa. Un aggeggio che costava qualche decina di euro e non più che questo. Un aggeggio per tutti, come li voleva lui, ché anzi Mari invitava alla “autoprogettazione”, a farseli da sé e con i materiali i più umili gli oggetti di cui fare e vivere. Per me è impossibile pensare a mangiare nella mia cucina se non utilizzando quell’ “albero”, quelle forchette e quei coltelli. E a non dire che non c’è giorno che Dio manda in terra che io non lo cominci maneggiando quel suo calendario sublime in plastica fatto per la Danese 50 e passa anni fa. Lo prendo in mano, cambio giorno e data, sta qui di fronte al computer su cui sto scrivendo. Lo avevo comprato in Francia nei primi anni Sessanta, quando ancora non avevo mai sentito pronunciare il termine “design” né dai professori del liceo né da quelli dell’università. Addio, indimenticabile maestro
ADDIO A ENZO MARI. Il ricordo di Carlotta de Bevilacqua con Ernesto Gismondi. La Repubblica il 21 ottobre 2020. Il presidente e vicepresidente di Artemide omaggiano il grande maestro del design. Un pensiero che ci fa comprendere meglio quale immensa eredità ha lasciato. Militante ed esigente nella vita, si è sempre misurato con la realtà concreta del fare attraverso spirito critico, metodo razionale e utopia. Produzione artistica e industriale, sperimentazione materica e formale erano costantemente integrate al pensiero etico e all’impegno sociale. Ha trasmesso tutto questo anche attraverso i suoi progetti per Danese, immagini e oggetti democratici, del presente ed universali, dedicati a tutti gli spazi della vita dell’uomo, capaci di educare ogni generazione e aggiungere qualità, cultura ed emozione al nostro quotidiano. Oltre al contributo fondamentale alla storia di Danese, Enzo Mari ha collaborato con Ernesto Gismondi per Artemideintroducendo una nuova progettualità, un pensiero sistemico e rigorosamente essenziale, per illuminare gli spazi dell’uomo. Sono cresciuta fin da bambina circondata dall’arte e dagli oggetti di Enzo Mari che mi hanno “illuminato” e non mi hanno mai abbandonato. Grazie Enzo.
Enzo Mari, "coscienza" (pratica) del design. Anti-intellettualistico e vero Maestro, inventò 1.500 oggetti ormai nel quotidiano. Luca Beatrice, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Appena due giorni fa si è aperta alla Triennale di Milano la mostra dedicata a Enzo Mari che oggi suona come l'addio al grande maestro del design italiano, scomparso ieri a 88 anni. Un omaggio davvero particolare, affidato alla curatela di Hans Ulrich Obrist (insieme a Francesca Giacomelli), con una lettura che spinge in direzione dell'arte, coinvolgendo nel progetto interventi, tra gli altri, di Tacita Dean, Dominique Gonzalez-Foerster, Mimmo Jodice e Nanda Vigo (morta alcuni mesi fa). In viale Alemagna sono esposti i lavori e i progetti più significativi in sessant'anni di carriera, che da qui in poi osserveremo con più nostalgia. Aldilà delle biografie ufficiali, esiste il libro Leggenda privata (Einaudi) scritto da Michele Mari, figlio del Maestro e della prima moglie, la disegnatrice Iela Mari (la sua seconda compagna è stata la critica d'arte Lea Vergine), una storia di bellezza straziante dove il tragico di un rapporto difficilissimo si innesta su elementi dal risvolto comico, inevitabili nella vita quotidiana. In pochi hanno scritto così profondamente su equilibri e disequilibri tra padri e figli, una storia da leggere e rileggere. Sguardo profondo, barba bianca, carattere burbero, Enzo Mari fu uomo il cui carisma si poteva toccare con mano ogni volta che ci parlavi dandogli rigorosamente del lei, intimidente e distante nella sua genialità. Nato nel 1932 a Ceriano, provincia di Novara, si era formato all'Accademia di Brera entrando negli anni '50 in contatto con l'ambiente artistico milanese e in particolare con il gruppo dell'arte cinetica e con Bruno Munari. Designer lo diventa dunque non per mestiere ma per vocazione, cominciando dalla conoscenza dei materiali, convinto di voler unire forma a funzione, in bilico tra paradosso dell'oggetto e necessità di calarsi nel sociale. Controcorrente per principio, Mari detestava la moda del design griffato e la tendenza a considerare tutto design. In uno dei suoi numerosi scritti, 25 modi per piantare un chiodo (Mondadori 2011), riprendeva la componente infantile della disciplina, desunta proprio da Munari: «Vedo giocare i bambini, di fianco al mio tavolo di lavoro, e parlo con loro, raccontando le stesse fiabe che ascoltavo da piccolo. Mi chiedo spesso come farli divertire, così inizio a progettare dei giochi, senza pensare che potranno un giorno essere prodotti industrialmente e venduti». L'uomo avverte la necessità fisiologica di progettare, modificando così il mondo che si trova davanti per tentare di migliorarlo. È una visione anti-intellettualistica e niente affatto elitaria. Proprio perché al design Mari ci arriva attraverso l'arte, che è «sinsemantica e polisemica, cioè ha mille significati». Espone in diverse gallerie milanesi nell'ambito dell'Arte Programmata, teoria per la quale non importa tanto l'oggetto finito quanto il metodo. Mari ha incontrato e si è relazionato con tutti i personaggi che hanno contribuito alla fortuna del design italiano nel 900. Bruno Munari, che non aveva neppure uno studio e lavorava nel salotto di casa, Bruno Danese, il primo imprenditore illuminato e visionario, Marco Zanuso, Achille Castiglioni ed Ettore Sottsass. Alessandro Mendini disse una volta di lui: «Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa». Vincitore di cinque Compassi d'Oro, il primo nel 1967, l'ultimo alla carriera nel 2011, autore di oggetti (circa 1.500 per le più importanti aziende italiane) che hanno definito il gusto italiano dal secondo dopoguerra in avanti dal vassoio Putrella al cestino per la carta In attesa, dalla sedia Sof Sof al calendario Formosa che può durare per sempre - applica sempre il medesimo principio: «Quando mi si chiede un progetto nuovo, anziché cercare d'inventare chissà cosa, mi limito a mettere i puntini sulle i, tenendo ben fermo un paio di convinzioni: la forma deve essere eterna, fuori dal tempo, libera dalle mode, e la sua qualità dev'essere alla portata di chi fabbrica l'oggetto, come succedeva una volta». Polemico contro l'eccesso di autorialità del design contemporaneo a molti giovani fischieranno le orecchie - Mari sosteneva che solo i bambini potranno salvare il mondo. Semplicemente chiedendosi a cosa serve e come funziona. Risposta che nessun intellettuale è mai riuscito a dare.
Morta Lea Vergine, la critica d'arte scompare il giorno dopo suo marito Enzo Mari: era ricoverata con lui in ospedale. La Repubblica il 20 ottobre 2020. La critica d'arte e curatrice aveva 84 anni. Era al San Raffaele, è morta per complicazioni dovute al coronavirus. È morta al San Raffaele all'età di 84 anni la curatrice e critica d'arte Lea Vergine ad appena un giorno di distanza dal marito, Enzo Mari, ricoverato con lei nello stesso ospedale e come lei deceduto per complicazioni legate al Covid. Nata a Napoli nel '36, al secolo Lea Buoncristiano, figura fondamentale che attraverso libri e mostre ha aperto la strada in Italia alle arti performative e all'affermazione di sguardi e autrici femminili in un ambiente che come tanti era abituato a ragionare perlopiù al maschile, si era trasferita da Napoli a Milano alla fine degli anni '70, quando dopo anni di "scandalosa" convivenza, insieme a Mari decisero di sposarsi. Si erano infatti conosciuti nei primi anni '60 quando Mari era ancora sposato con Iela Mari. Famosa per l'eloquio pungente, l'eleganza, l'ironia, le dichiarazioni taglienti, l'apparizione a mostre e vernici del suo ciuffo bianco ha segnato 60 di storia dell'arte in Italia. A lungo firma sui maggiori quotidiani e settimanali, di capitale importanza tra le molte furono due pubblicazione. Il corpo come linguaggio del 1974 dove analizzava da pioniera la nascita e l'evoluzione della body art. E poi L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche nel 1980, testo rivoluzionario che per la prima volta invitava a guardare il contributo delle donne ai principali movimenti del Novecento. Sempre pronta ad accogliere nel suo studio di via Sant'Agnese sullo stesso pianerottolo di casa artisti, artiste e talenti di ogni genere in cerca di un consiglio, tra i colleghi milanesi fu vicina a Gillo Dorfles e ad Arturo Schwartz. E ancora firmò memorabili mostra per la Galleria Milano di Carla Pellegrini quando ancora si trovava in via della Spiga. Allo stesso indirizzo espose spesso anche Enzo Mari, del quale però Vergine si rifiutò sempre di scrivere.
DAGOREPORT il 20 ottobre 2020. Lei e il marito, Enzo Mari, dicevano che l’arte fosse “come una benzodiazepina”: qualcosa di “non necessario, ma che aiuta a vivere”. Lea Vergine, curatrice e critica d’arte se n’è andata, però, come nel più classico degli amori romantici: seguendo di un giorno solo il marito: via col Covid, e così sia. Aveva avuto problemi cardiaci e viveva con “valvole nel cuore”. Un cuore tagliente: “L’artista è una persona disperata”, diceva e il critico come artista (questo era lei), pure. Napoletana, Lea Buoncristiano (in arte Lea Vergine) aveva conosciuto Enzo Mari negli anni Sessanta, entrambi da sposati. Avevano vissuto insieme a Napoli dove erano stati accusati di concubinaggio. Allora lei si era trasferita a Milano da lui e nel 1978 i due si erano sposati. Ebbero poi una figlia, Meta. “Non sono mai stata una seduttrice, sono sempre stata più attratta dalla morte. Ho capito di essere stata bella quando la mia bellezza era finita”. Se Mari era l’asceta del design lei era la malandrina delle curatrici. Ciuffo bianco (il resto dei capelli, a caschetto, li tingeva) alternato al turbante o ai cappelli con ampie falde e sigaretta sempre in bocca: “La prima sigaretta in bocca me l’ha fatta mettere un medico che stava curando mio padre moribondo… Il fumo mi piace perché evapora – diceva - e non si sa dove va a finire”. Aveva sdoganato donne e body-art sin dal 1974 con il libro “Il corpo come linguaggio. Body Art e storie simili”. Lei stessa, con i suoi atteggiamenti, faceva della body art ipso-facto quando si presentava a una mostra . E’ grazie a lei che si conobbe l’Azionismo, le sue amate Sonia Terk Delaunay, Meret Oppenheim e Carol Rama e se Marina Abramovic ha così tanto seguito qualcosa deve a lei. Così come lei deve molto a figure alle quali è stata legata durante tutta la sua carriera, come Gillo Dorfles e Arturo Schwartz. Attraverso i suoi studi ha aperto l’affermazione delle artiste (“L’altra metà dell’avanguardia”, 1980): “Le donne sono una razza particolare e superiore, anche gli uomini se ne sono accorti. Le donne sono autoironiche; gli uomini quando portano un mazzo di fiori si vergognano! Non capiscono che la cravatta e i gilet tolgono loro molti difetti, solo alcuni conservano garbo”. Leggenda vuole che fosse brava cuoca e che durante un pranzo abbia freddato le velleità culinarie di un importante industriale milanese con un implacabile “pessimo”. “Anche Marlene Dietrich – raccontò - passava il tempo a cucinare per quei coglioni come Jean Gabin”. Si definiva “una senza carriera” e a Milano qualcuno la sdegnava: “Non sono stata mai invitata ai parterre di Gregotti” diceva per indicare che una certa sinistra non l’amava tanto, pur essendo anche lei di sinistra - infatti subito sono arrivati i tweet di Franceschi, Melandri, Silvia Ballestra e tutta la compagnia di giro. La critica d’arte “mi fa pensare al parassitismo”, diceva, ma bisogna capire: nei critici c’è una malattia dell’anima “spesso hanno avuto una infanzia infelice e quindi cercano l’amore”. Tra gli altri saggi famosi: “Attraverso l’Arte. Pratica politica. Pagare il ’68”, “Dall’Informale alla Body Art. Dieci voci dell’Arte Contemporanea: 1960/1970”, “L’arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990″, “La vita, forse l’arte”.
Luca Beatrice per ''il Giornale'' il 20 ottobre 2020. Appena due giorni fa si è aperta alla Triennale di Milano la mostra dedicata a Enzo Mari che oggi suona come l' addio al grande maestro del design italiano, scomparso ieri a 88 anni. Un omaggio davvero particolare, affidato alla curatela di Hans Ulrich Obrist (insieme a Francesca Giacomelli), con una lettura che spinge in direzione dell' arte, coinvolgendo nel progetto interventi, tra gli altri, di Tacita Dean, Dominique Gonzalez-Foerster, Mimmo Jodice e Nanda Vigo (morta alcuni mesi fa). In viale Alemagna sono esposti i lavori e i progetti più significativi in sessant' anni di carriera, che da qui in poi osserveremo con più nostalgia. Aldilà delle biografie ufficiali, esiste il libro Leggenda privata (Einaudi) scritto da Michele Mari, figlio del Maestro e della prima moglie, la disegnatrice Iela Mari (la sua seconda compagna è stata la critica d' arte Lea Vergine), una storia di bellezza straziante dove il tragico di un rapporto difficilissimo si innesta su elementi dal risvolto comico, inevitabili nella vita quotidiana. In pochi hanno scritto così profondamente su equilibri e disequilibri tra padri e figli, una storia da leggere e rileggere. Sguardo profondo, barba bianca, carattere burbero, Enzo Mari fu uomo il cui carisma si poteva toccare con mano ogni volta che ci parlavi dandogli rigorosamente del lei, intimidente e distante nella sua genialità. Nato nel 1932 a Ceriano, provincia di Novara, si era formato all' Accademia di Brera entrando negli anni '50 in contatto con l' ambiente artistico milanese e in particolare con il gruppo dell' arte cinetica e con Bruno Munari. Designer lo diventa dunque non per mestiere ma per vocazione, cominciando dalla conoscenza dei materiali, convinto di voler unire forma a funzione, in bilico tra paradosso dell' oggetto e necessità di calarsi nel sociale. Controcorrente per principio, Mari detestava la moda del design griffato e la tendenza a considerare tutto design. In uno dei suoi numerosi scritti, 25 modi per piantare un chiodo (Mondadori 2011), riprendeva la componente infantile della disciplina, desunta proprio da Munari: «Vedo giocare i bambini, di fianco al mio tavolo di lavoro, e parlo con loro, raccontando le stesse fiabe che ascoltavo da piccolo. Mi chiedo spesso come farli divertire, così inizio a progettare dei giochi, senza pensare che potranno un giorno essere prodotti industrialmente e venduti». L' uomo avverte la necessità fisiologica di progettare, modificando così il mondo che si trova davanti per tentare di migliorarlo. È una visione anti-intellettualistica e niente affatto elitaria. Proprio perché al design Mari ci arriva attraverso l' arte, che è «sinsemantica e polisemica, cioè ha mille significati». Espone in diverse gallerie milanesi nell' ambito dell' Arte Programmata, teoria per la quale non importa tanto l' oggetto finito quanto il metodo. Mari ha incontrato e si è relazionato con tutti i personaggi che hanno contribuito alla fortuna del design italiano nel 900. Bruno Munari, che non aveva neppure uno studio e lavorava nel salotto di casa, Bruno Danese, il primo imprenditore illuminato e visionario, Marco Zanuso, Achille Castiglioni ed Ettore Sottsass. Alessandro Mendini disse una volta di lui: «Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa». Vincitore di cinque Compassi d' Oro, il primo nel 1967, l' ultimo alla carriera nel 2011, autore di oggetti (circa 1.500 per le più importanti aziende italiane) che hanno definito il gusto italiano dal secondo dopoguerra in avanti dal vassoio Putrella al cestino per la carta In attesa, dalla sedia Sof Sof al calendario Formosa che può durare per sempre - applica sempre il medesimo principio: «Quando mi si chiede un progetto nuovo, anziché cercare d' inventare chissà cosa, mi limito a mettere i puntini sulle i, tenendo ben fermo un paio di convinzioni: la forma deve essere eterna, fuori dal tempo, libera dalle mode, e la sua qualità dev' essere alla portata di chi fabbrica l' oggetto, come succedeva una volta». Polemico contro l' eccesso di autorialità del design contemporaneo a molti giovani fischieranno le orecchie - Mari sosteneva che solo i bambini potranno salvare il mondo. Semplicemente chiedendosi a cosa serve e come funziona. Risposta che nessun intellettuale è mai riuscito a dare.
La Stampa.it il 20 ottobre 2020. Lea Vergine, celebre curatrice e critica d'arte, è morta all'età di 82 anni, il giorno dopo la scomparsa del marito Enzo Mari. Il decesso sarebbe avvenuto per complicazioni legate al Covid-19 al San Raffaele di Milano, dove era ricoverata insieme al famoso designer e compagno di una vita. Vergine è stata una delle figure di spicco della critica d'arte degli ultimi cinquant'anni. All'anagrafe Lea Buoncristiano, era nata a Napoli nel 1938, aveva studiato i nuovi linguaggi visivi, analizzando la nascita e l'evoluzione della body art. Il suo contributo nell'approccio critico e nella rivalutazione dell'opera artistica femminile è stato rivoluzionario: Vergine ha infatti analizzato la funzione delle donne nei fenomeni artistici della prima metà del XX secolo e si era spesa per valorizzare il contributo artistico delle donne con mostre, scritti e interventi. Attraverso i suoi studi aveva infatti aperto la strada alle arti performative e all'affermazione delle artiste. Durante la sua carriera Lea Vergine è stata legata a figure come Gillo Dorfles, Arturo Schwartz, Camilla Cederna. Era nota per la sua personalità forte e arguta, e uno sguardo attento alla contemporaneità. Era diventata celebre nel mondo dell'arte grazie ai volumi sugli studi dell'azione performativa tra cui spicca 'Il corpo come linguaggio. Body Art e storie simili' del 1974. Questo era il primo saggio dedicato alla corrente, realizzato quasi in contemporanea rispetto al movimento. Alla fine degli anni '70 si era trasferita da Napoli a Milano e dopo anni di convivenza aveva sposato il designer Enzo Mari. Insieme hanno avuto una figlia, Meta. "L'arte non è necessaria", aveva detto Lea Vergine in un'intervista. «È il superfluo. E quello che ci serve per essere un po' felici o meno infelici è il superfluo. Non può utilizzarla, l'arte, nella vita. 'Arte e vita' sì, nel senso che ti ci dedichi a quella cosa, ma non è che l'arte ti possa aiutare».
Eleonora Barbieri per “il Giornale” il 10 novembre 2016. Non è che fuma un po' troppo? «Sì...» Lea Vergine, critica d' arte e scrittrice, è nel suo studio vicino a corso Magenta, a Milano. Fuma una sigaretta dietro l' altra. «Che cosa si aspetta, di che cosa vuole parlare?». L' argomento è lei, la sua vita, dalla Napoli dove è nata alla Milano dove si è trasferita per amore del marito Enzo Mari, passando per Roma; quella che racconta nel suo nuovo libro, “L'arte non è faccenda di persone perbene”, che esce oggi per Rizzoli (e che sarà presentato dall' autrice martedì, in occasione di Bookcity). «Questo libro mi ha gettato per sei mesi in una serie di ricordi, la maggior parte dei quali avevo rimossi, per sopravvivere».
Ricordi dell'infanzia?
«Dell'infanzia, dell'adolescenza, della gioventù. Una vita intera. Adesso tutto si scioglie, anche se rimangono delle ferite che non si rimarginano più».
È stata cresciuta dai nonni, e sua madre viveva in un altro appartamento, contiguo. Perché?
«Mio nonno, cattolico fervente e bigotto, aveva obbligato mio padre a sposare mia mamma quando era incinta della seconda figlia, sebbene non si volessero più neanche morti. Ma siccome non ammetteva che mia madre frequentasse la casa di mia nonna, predispose la doppia casa. Un incubo».
Suo padre com'era?
«Meraviglioso. Con lui ho avuto un flirt tutta la vita, finché è morto a 48 anni. Allora mi sono sposata, credo per andarmene via».
Come ha iniziato a scrivere i primi articoli sull'arte?
«Era un altro mondo. Già una giovane, non racchia, che si metteva a scrivere, e addirittura di arte, e poi di arte contemporanea, che era guardata solo con sarcasmo in una città come Napoli... era qualcosa di molto bizzarro».
Ha tenuto duro?
«Di giornaletto in giornaletto... A fare questo lavoro, di donne c'erano Palma Bucarelli, Lorenza Trucchi e io. A una conferenza sugli artisti napoletani contemporanei, qualcuno scrisse che venivano solo per le mie gambe. E io che ero battagliera, giovane e incosciente, anziché avere stile e lasciare cadere, anzi ringraziare, feci causa».
Vinse?
«In tribunale il giudice volle vedere le gambe. E sentenziò: Che sarà mai, sono gambe normali. Sono d'accordo. Ottenni 300mila lire, una pacchia: era la fine degli anni '50. A 23 anni andai da Roberto Pane, patrono di tutto il mondo culturale a Napoli, grande studioso di architettura e scopritore di Gaudí, perché volevo pubblicare il mio primo libro, sui pittori napoletani contemporanei. E lui: Ma quanti anni ha? Non sa quanto tempo ho dovuto aspettare io. E lei pretende che il suo libro esca, solo perché ha la presentazione di quel coglione di Argan. Disse proprio così».
Argan le aveva fatto la prefazione?
«L'avevo conosciuto perché dovevo fare delle interviste a collezionisti d' arte.
Siamo diventati amici».
Fu lui a presentarle Enzo Mari?
«Era il '66, io volevo fare una rivista e cercavo un artista che capisse anche di grafica. E lui: Ho l'uomo che fa per lei, vedrà. Ho visto. Sono cinquant' anni che vedo».
Sono tanti.
«Sì, sono tanti».
Eravate entrambi sposati.
«Fummo denunciati per concubinaggio dai portinai in via dei Bossi, dove abitavamo. Era il '67».
Perché vi denunciarono?
«Friggevano salsiccette a tutte le ore e mio marito, quando usciva da quel benedetto portoncino, si lamentava. Cioè si lamentava, li prendeva a male parole... E loro si sono vendicati».
Ha detto che il vostro è un rapporto di «ossessione amorosa».
«Una cosa diversa dall'amore. È proprio una dipendenza ossessiva. Non puoi stare senza una persona, al di là di ogni logica e ragionevolezza. Compresi gli inevitabili scontri e litigi».
Ha conosciuto tanti artisti.
«Tantissimi artisti, sì. Alcuni già a Roma, da Turcato a Kounellis, poi a Milano Lucio Fontana, prima che morisse, il gruppo T, Munari».
Fontana com'era?
«Fontana era un' eccezione. Era una persona. Non faceva mai quella cantatina dell' io io io. L' altro, tra gli italiani, è Enrico Castellani. Straordinari, le eccezioni che confermano la regola».
Quale regola?
«Che l'artista maschio è preso quasi esclusivamente dalla foia di sé».
Chi era preso dalla foia di sé?
«Ah, tutti tranne quei due. In questo senso, Burri e Fautrier sono stati due mostri: tutto autovissuto, autopromosso. Due egolatri».
Frequentava anche scrittori?
«Una delle ultime amicizie è stata con Cioran. Era vecchio, poi è morto molto malamente, con quel brutto Alzheimer. Era modestissimo, mite, ridanciano, spiritosissimo. Certo era molto fragile».
Dove vi incontravate?
«Quando andavo a Parigi. Era curioso e ci raccontava sempre della Romania e di Parigi. Gli piaceva andare al cinema e poi commentare i film».
Che cosa diceva?
«Una volta aveva visto un film tratto da Proust, con Ornella Muti: lei gli piaceva molto. Le donne gli piacevano molto, del resto. Poi c' era Sanguineti, eravamo molto amici. Quando compì 70 anni mi disse: Sto compilando un elenco, glielo consiglio per i prossimi dieci anni».
Che elenco?
«Non ballerò più il tango, non andrò più in quel posto a Parigi... L' ho fatto una volta, per poco mi sparavo».
Che cosa vuol dire: «Non si è nati invano alle falde di un vulcano»?
«Me lo disse Arturo Schwarz. In effetti le persone nate sotto un vulcano hanno delle bizzarrie, una certa fascinazione di spazi e colori. Il più grande cantore di Napoli è Raffaele La Capria».
Perché?
«Ha un rapporto straordinario col mare e la natura di Napoli. Lui abitava a Palazzo Donn' Anna, un luogo, secondo le leggende, di eccidi e di spettri, e dalla sua finestra si tuffava direttamente in acqua. Un sogno».
Che cosa la diverte?
«Tre cose. Ballare il tango, pescare con la lenza e giocare a poker. Ma purtroppo, dopo una operazione a cuore aperto e con mio marito malato... Sa che cosa faceva Katharine Hepburn?»
Che cosa?
«A 89 anni, col Parkinson, ogni sera quando si coricava chiedeva: Signore, fammi morire nel sonno. Ecco, sarebbe da morire così, come Katharine Hepburn».
· E’ morto Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor.
Il lutto nella musica. Chi è Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor. Redazione su Il Riformista il 18 Ottobre 2020. Lutto nel mondo della musica. È morto a 78 anni Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor. A darne notizia il suo manager Dino Vitola in un post su Facebook. “Alfredone non c’è più, è in cielo”, si legge sulla sua pagina in cui ripercorre alcune delle tappe della carriera di Cerruti. Discografico, cantante, autore tv Cerruti era noto soprattutto come fondatore e voce narrante del gruppo che ha rivoluzionato la musica italiana portando ironia e irriverenza nella musica nostrana e che, pur subendo la censura, sfornò 14 lp fino al 1994, oltre a due film. “Dotato di una grandissima intelligenza era di un grande ingegno”, scrive ancora Vitola che ne ripercorre la carriera: “Un grandissimo direttore artistico. Grande autore per la televisione. Nato come produttore discografico, nel 1971 crea gli Squallor unendo la sua creatività a quella di Giancarlo Bigazzi, Daniele Pace e Totò Savio, sotto la guida del discografico Elio Gariboldi. Come autore tv lavorò a moltissimi programmi iconici, collaborando ai testi di Chi tiriamo in ballo, Indietro tutta, Cocco e Stasera mi butto per RaiDue. Aspettando Sanremo, Luna di miele, Fantastica Italiana, I Cervelloni e Faccia tosta per RaiUno, oltre a essere uno degli autori di Domenica tra il 1998 e il 2000. I più esperti lo riconosceranno anche come la voce del Professor Pisapia varietà di Arbore Indietro tutta e una delle due voci dello sketch Volante 1 a Volante 2. “Un grande uomo perbene”, scrive ancora il suo manager. E che fu un uomo perbene lo dice anche il fatto di non aver mai voluto parlare di Mina con cui ebbe una relazione durata sette anni negli Anni ’70. “Con lui – prosegue Vitola – era sempre una festa, una gioia, le cene al Matriciano a Roma ed al Santa Lucia a Milano erano sempre dei film. Un po’ della sua ironia sono riuscito a prenderla. Grazie Alfredo, tutte le mie preghiere saranno per te. Ti vorrò sempre bene, amico mio”.
Se mezza Napoli si vota al disincanto, è colpa d’Alfredo (Cerruti). Errico Novi su Il Dubbio il 19 ottobre 2020. Se ne è andato anche lui, la voce storica degli Squallor: profeta di uno stile immune a sofferenza e presunzione di sé. Alfredo Cerruti è una splendida domanda su cosa siamo davvero. Ci mostriamo con naturalezza, o il pudore è ancora dominante, nell’era dell’eterna connessione? Viene da chiederselo perché a Napoli, almeno a Napoli, ci sono due miti identitari nascosti: uno almeno consapevole, l’altro del tutto inconfessato. Il primo è Massimo Troisi, l’antipartenopeo. A Napoli siamo teatrali, chiassosi, appassionati, entusiasti, invadenti. Massimo Troisi è solo appassionato, poi però è afasico, irresoluto e timido. Nessuno si sogna di mascherarsi da Troisi, però tutti noi napoletani siamo orgogliosi di lui: rende giustizia ai caratteri meno debordanti, dà diritto di cittadinanza a chi sfugga al cliché tradizionale. Poi c’è Cerruti, Cerruti Alfredo classe 1942, scomparso domenica a Roma, casa sua da molti anni. Discografico e produttore, si legge nelle biografie pudiche. Nessuno riporta subito l’unica qualifica che gli spetta: genio. Cerruti è un genio. E ha lasciato un segno, lui e i suoi Squallor, dal primo disco semiclandestino, intitolato semplicemente Troia — col disegno delle mura di Priamo in fiamme, ovviamente — fino al più noioso, come titolo, Cambia-mento, che era un gioco di parole e aveva un disegno ancora più bello, ma censurato: la faccia di Bossi che in effetti nel mento a doppia punta ricorda i maschi disegnati sui metrò di vanniniana memoria, canzonato dagli Squallor nel loro ultimo disco, anno 1994, in piena avanzata del secessionismo antiterrone. In mezzo, Cerruti, nel mentre faceva soldi, carriera e successo fra la Cgd (casa discografica milanese di cui era direttore artistico) e le geniali prove da autore tv culminate nel “Volante uno a volante due” di Indietro tutta, mentre faceva questo e aveva in sorte una famosa relazione con Mina, in mezzo a tutti questi fuochi di capodanno il nostro Cerruti ha trovato il tempo di dare alle stampe, con Giancarlo Bigazzi, Totò Savio e Daniele Pace, altri 12 album degli Squallor: Palle, Vacca, Pompa, Cappelle, Tromba, Mutando, Scoraggiando, Arrapaho, Uccelli d’Italia, Tocca l’albicocca, Manzo e Cielo duro (anche qui c’è un gioco di parole). Varrebbe la pena di parlare di loro, dei nostri Fab Four, ma anche no. Non è questo il giorno, non è questo il soggetto, a 48 ore dal lutto per la perdita del genio Alfredo Cerruti. Perché sia chiaro: per chi scrive, Cerruti è stato un padre spirituale, e con lui lo sono stati il meraviglioso Totò, il nostro fratello di mille bevute immaginarie Daniele e il genio invisibile Giancarlo. Chi scrive li considera numi tutelari, e come lui la pensano alcune centinaia di migliaia di pazzi in giro per l’Italia, che oggi hanno età variabili fra i 30 e i 70 anni. Perché ecco, per rispondere al quesito iniziale, non è il caso di raccontare la “musica” degli Squallor, bastano i titoli degli album. Perle assolute, ma appunto qui si tratta di Alfredo, delle sue frasi smozzicate come le sigarette avvolte nel whisky che lo nascondevano sul balcone mente Arbore e gli altri attendevano seduti in salotto i suoi lampi di genio per la trasmissione del giorno dopo. Cerruti smozzicato, volgare, impietoso e soprattutto profeta del disincanto. Il nostro profeta, i suoi “vafangul”, “m’’esfrantecat ’o cazz”, la sua immunità al dolore, alle sofferenze sentimentali, il suo disimpegno ideologico, la sua distanza dai menatorrone, come li chiamava Gianni Brera. Tutto questo ci è entrato sotto la pelle, a me, a Vladimiro, a Luca, a Pierangelo, ad Andrea, a Massimo, a Fabio, e potrei farvi i nomi di cento amici che pensano le stesse cose, e ciascuno di loro potrebbe farvene altri cento, e vedete se non arriviamo al milione. Cerruti ci ha insegnato il distacco, dalle delusioni d’amore e dalla presunzione di sé, una scanzonataggine mai esagerata, allegra ma non troppo, la satira verso la politica e i potenti sfacciata al punto da essere inattaccabile. Nella Marcia dell’equo canone parla dell’Avvocato Agnelli con allusioni ben oltre i limiti della querela, in un disco successivo si ferma un centimetro prima “o si no perdimm’n’ata causa”. Ma non va mai a fondo, non è mai politicamente esplicito. E cosa c’entra tutto questo con Napoli e con Troisi? C’entra eccome, perché Cerruti interpreta alla perfezione la borghesia non illuminata ma colta, l’avanguardia vitale ma politicamente disimpegnata. Spiega molte cose, spiega perché tanti napoletani brillanti abbiano scelto di fare fortuna lontano da casa, e perché oggi la classe dirigente partenopea sia fenomeno residuale. È una diserzione sottile, un distacco dell’anima dalle cose serie, tutto immerso nella consapevolezza che quelle serie davvero quasi mai finiscono sui giornali. Cerruti ha tenuto alta la bandiera del disincanto a colpi di parolacce “sfasteriate”, che è un aggettivo via di mezzo trasvogliate e infastidite, ci ha dato identità. Solo che diversamente da Troisi, ce lo nascondiamo. Chi di noi, in un’occasione sociale impegnativa, confessa di aver appreso l’arte dell’atarassia esistenziale grazie alle male parole delle canzoni degli Squallor e di Alfredo Cerruti? Nessuno. Ma vi assicuro che è così, per tantissimi di noi, e non solo a Napoli. “Sembra ieri che stavi qui! Dove sei oggi? Dove sei oggi? All’aldilà, all’aldiqua…. Statt bbuon, ci vediamo in paradiso. Se esiste, e sino che ce ne fotte a nuje… nun ceverimm cchiù, è quello che mi dispiace”. (Concettina Tramortato in “Tombeado”, dall’album Mutando, edizioni Cgd, 1981, di Pace-Bigazzi-Savio, voce di Alfredo Cerruti)
Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” il 19 ottobre 2020. La storia d’amore fra Mina e Alfredo Cerruti, morto ieri a 78 anni, era cominciata negli anni settant’anni all’indomani della nascita di Benedetta, figlia del giornalista Virgilio Crocco. Si erano incontrati in sala d’incisione e al ristorante Santa Lucia di Milano. Un colpo di fulmine. I rotocalchi si erano gettati sulla vicenda e i paparazzi li inseguivano ovunque. Impossibile per loro andare in albergo senza essere scoperti (Cerruti amava molto il Principe Savoia). Così la loro alcova divenne un monolocale abbastanza austero in via Poerio a Milano nei pressi di corso Indipendenza. Gliela aveva affittata un amico Johnny Porta, responsabile Marketing della CBS Sugar. Allora Cerruti ricopriva l’incarico di direttore artistico. «Cerruti faceva di tutto per essere simpatico al prossimo, in realtà era la persona più egoista che io avessi mai conosciuto – ricorda Porta -. All’inizio fu grande amore, ma presto anche Mina capì che non era facile avere un rapporto con Alfredo. Facevano delle interminabili partite a poker con Daniele Pace, Celentano e Bernardini. Cerruti era un perdente fisso. Si giocava pesante, somme incredibili. Mina copriva sempre le sue perdite, sempre notevole. Poi – ricorda Porta – si trasferirono in un mio monolocale nello stesso palazzo. Quando gli chiesi di liberare l’appartamento perché nel frattempo mi ero sposato mi rispose: piuttosto che averti in casa ti pago il Principe Savoia». Quello fra Mina e Alfredo fu l’ultimo amore di Mina prima dell’incontro con l’attuale marito il chirurgo bresciano Eugenio Quaini. Di questa relazione Cerruti e Mina non hanno mai parlato con amici e conoscenti e tantomeno con i media. Ma il loro amore nascosto e protetto è entrato in quelli anni nell’immaginario collettivo: uniti dalla musica e dalla passione per il gioco d’azzardo hanno avuto «una storia importante». Fondò il primo, vero, gruppo demenziale della musica italiana, gli Squallor. Ma non solo: fu anche produttore discografico e autore tv. È morto a 78 anni Alfredo Cerruti. La sua avventura di maggior successo fu dunque col gruppo degli Squallor. Della formazione facevano parte, oltre a lui, i parolieri Giancarlo Bigazzi e Daniele Pace, il musicista Totò Savio e il discografico Elio Gariboldi. Nato quasi per scherzo nel 1969, il gruppo si riuniva in sala d' incisione senza testi o spartiti. Complici damigiane di vino e qualche donnina allegra svuotavano la sentina della loro creatività fatta di grevi doppi sensi e politicamente scorretta, riuscendo a vendere migliaia di copie di dischi dai titoli e dalle copertine volgarmente allusive come Vacca o Arrapaho . E degli Squallor era l' ultimo sopravvissuto. Fu anche talent scout (per decenni direttore artistico della CBS Sugar e poi della Ricordi), spendaccione e sciupafemmine: ebbe una relazione con Mina negli anni Settanta durata tre anni. E. soprattutto, autore televisivo: firmò molti programmi di successo Chi tiriamo in ballo, Indietro tutta!, Cocco e Stasera mi butto oltre a Il caso Sanremo, I cervelloni e le edizioni '98-'99 e '99-2000 di Domenica In . E partecipò in prima persona al programma cult di Arbore Indietro tutta! dove prestò la voce a un surreale dialogo fra due gazzelle della polizia (Volante 1 a volante 2). Arbore che di lui ha detto: «Aveva un talento incredibile nello scovare gli altri talenti» Negli ultimi anni era sempre però con l' acqua alla gola. Assediato dal fisco che gli aveva pignorato i diritti d' autore e la pensione, ha sempre coltivato sogni di grandezza. Fu il primo a Milano ad avere il telefono mobile in auto. Il figlio Alfredo Cerruti jr., di indole assai diversa dal padre, è stato fidanzato e manager di Laura Pausini per oltre dieci anni, fino al 2002.
Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano”. Intervista del 21 dicembre 2014. Se dipendesse da lui, la partita dialettica finirebbe in un amen: “Sono Alfredo Cerruti, ex discografico di successo, voce narrante degli Squallor e uomo fondamentalmente assai felice. Non covo invidie, non ho rancori, non ho neanche un cazzo di minuscolo rimpianto e non concedo interviste dal ’79”. L’eccezione, a lungo rimandata, prende forma in una fredda mattina di dicembre in cui Cerruti Alfredo, napoletano del ’42, figlio di un avvocato napoletano: “civilista” e di una madre di Pordenone circuita in circostanze tumultuose: “Papà la incontrò in Friuli durante la Seconda Guerra Mondiale per ragioni di lavoro legate ad un terreno e si innamorò. La scopò la sera stessa e venni al mondo così, un po’ per caso un po’ per passione” decide di raccontarsi per fermare le stagioni. Da autodidatta: “La scuola mi rompeva enormemente i coglioni, i professori peggio. A un certo punto del Liceo abbandonai la gara con l’istruzione e mi liberai dall’inutilità con estremo sollievo. Non è meglio la vita del vocabolario di Greco?” Cerruti ha attraversato la musica italiana alla testa della Cbs: “La mia vera famiglia”, della Cgd e della Ricordi. Direttore artistico, mentore, talent scout, autore in memorabili programmi radiotelevisivi e coscienza ironica di un microcosmo abituato a prendersi troppo sul serio, questo settantaduenne con i capelli bianchi e lunghi e il naso da Cyrano ha smesso di battagliare: “Sono in pensione” ma non di ridere: “L’ho sempre fatto. Cercando, anzi inseguendo l’allegria. Senza, l’esistenza somiglia a un’agonia. E io di agonizzare non avevo voglia”. Dal 1969 con colleghi come Daniele Pace, Totò Savio e Giancarlo Bigazzi, Cerruti inventò gli Squallor. Un gruppo anomalo che pur non essendo mai apparso in pubblico e avendo subito la ciclica censura delle radio, pubblicò trentacinque album, ispirò due film e, fondendo satira allo stato puro e turpiloquio senza freni, segnò il costume dell’epoca dipingendo indelebili quadri di assoluto non-sense. I titoli degli album: “Se vuole glieli recito a memoria” e le conseguenti copertine, spiegavano agli affezionati le regole d’ingaggio degli Squallor senza bisogno di ulteriori avvertenze: “Se si esclude il primo disco, Troia, l’unico senza ‘male’ parole” dice Cerruti, “Ci sbizzarrimmo”. Fa una pausa, poi inizia a declamarli: “Ascolti, me li ricordo tutti. Il secondo si intitolava Palle, il terzo Vacca, il quarto Pompa , il quinto Cappelle. Continuo?”
Si fermi e ci racconti come iniziò il suo viaggio.
«Io e miei compagni d’avventura eravamo organici al mondo della musica. Avevamo a che fare con i cantanti e i cantanti, non so se lo sa, sono degli scassacazzi senza eguali. Egotici, arroganti, autoreferenziali. Volevano questo e pretendevano quell’altro. Gente micidiale. Usciti dai nostri incontri quotidiani con le stelle della musica, eravamo neri come la notte. Allora pensammo di donarci un po’ di luce. Parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima».
Come vi venne in mente di incidere un disco?
«Ero rimasto colpito da un vecchio film inglese Il mio amico il diavolo con una stupenda Raquel Welch girato da Stanley Donen. Non aveva il talento del suo omonimo Kubrick, ma facendosi aiutare da Dudley Moore, Donen aveva messo in scena una variazione sul tema di Faust molto interessante. Uno dei personaggi interpretava una canzone che per buona parte alternava parti cantate a parte recitate. Provai a fare la stessa cosa utilizzando la base di Lady Barbara dei Profeti e in un giorno di caldo mostruoso, nacque il nostro primo pezzo, 38 Luglio. I miei amici ridevano. Gli chiesi cosa cazzo avessero da ridere».
E loro?
«Non seppero spiegarlo. “Funziona Alfrè, che ti dobbiamo dire?”. Avevano ragione. Per discutere sull’ipotesi di un disco avevo convocato Rinaldi, un grandissimo attore e doppiatore. Pace e Bigazzi dissero: “Ma quale Rinaldi? Il disco lo facciamo noi”. Allora unimmo le forze, incidemmo un 45 giri e proseguimmo. Ho sempre provato a lavorare divertendomi perché non c’è niente di più faticoso di andare in ufficio con il muso lungo».
I suoi amici raccontano che lei in ufficio si presentava tardi.
«Mi piaceva dormire, è vero. Magari fino a mezzogiorno. Però in ufficio andavo e stavo sempre molto attento a non trasformare il lavoro in ossessione. Oggi che non ho più un mestiere capisco quanto quell’attitudine alla leggerezza mi sia servita. Ai tempi della Schif Parade con Bice Valori e Luciano Salce, delle nostre sciocchezze e dei nostri giochi di parole ridevamo fino alle lacrime».
Era un mondo d’arte e vizi?
«Il mio unico vizio sono state le donne. Ho amato molto e guardandomi indietro sono lieto di averlo fatto, ma con la droga ad esempio non ho mai avuto a che fare. Ho fumato un’unica canna in vita mia e sono stato malissimo. Eravamo io, un mio amico e due fighe pazzesche. Avvertii uno strano odore provenire da una sigaretta e me la feci passare. Non l’avessi mai fatto. Mi sentii subito malissimo. Più sostenevo di star bene, più perdevo le mie sicurezze. Alla fine mi ritrovai in bagno, da solo, pensando di morire da un momento all’altro. Le due stra-fighe, naturalmente, evaporarono».
La Rca nei 70 dominava il panorama romano, ma l’altro polo musicale del Paese era a Milano.
«A Milano arrivai un po’ per caso, grazie a Gino Paoli. Lo avevo incontrato a Roma in un locale di Via Veneto e lui, dal nulla, mi aveva offerto generosa ospitalità nella sua casa milanese. “Vieni quando vuoi, c’è tanto posto”».
Diventaste amici?
«Per qualche tempo a Gino feci anche da autista . Paoli era fantastico, ma malinconico. Aveva sofferto per amore. Stefania Sandrelli l’aveva turbato perché Stefania, va detto, era di una bellezza inaudita. La prima volta che la vidi con un vestito azzurro celestiale rimasi senza parole: “Ma da dove cazzo viene una così, dal Paradiso?”».
Per Stefania Sandrelli, Gino Paoli tentò il suicidio.
«Si era sparato, ma non era morto, Gino. Era cazzuto, ma all’improvviso faceva strani discorsi. Una volta, in macchina, a metà tra lo scherzo e l’intenzione seria, disse: “Quasi quasi sterzo e mi butto nel burrone”. Lo guardai con preoccupata dolcezza: “Ma quale burrone? Al massimo gettiamoci nel burro”».
Sdrammatizzava spesso?
«Sempre. Tutte le volte che potevo. Gliel’ho detto, avevo sempre a che fare con i rompicoglioni. Evadere dalla realtà con il gioco era terapeutico. Se escludo Dorelli e Bertoli, due signori e due uomini di rara simpatia, fatico a ricordare cantanti che amavo frequentare nel privato. Per me erano più noiosi del Fado di Amàlia Rodrigues. Gli Squallor furono una reazione al nostro universo di riferimento. Dopo una riunione con I Pooh, riunirmi con gli amici e dissacrare rappresentava un’esigenza».
Fotografie di rompicoglioni storici?
«Potrei farle decine di nomi. C’erano i rompicoglioni strutturali e poi c’erano i matti. Loredana Bertè, ad esempio, era completamente matta».
La conobbe bene?
«Benissimo. Una volta, forse eravamo vicini al Natale, si presentò con settanta magliette in regalo. Tutte per me. Quelle con il coccodrillo, quelle francesi».
Gentile.
«Era capace di slanci di affetto inauditi e di follie non prevedibili. Ci siamo mandati a fare in culo un’infinità di volte e una volta ci siamo anche picchiati».
Dice davvero?
«E certo, che dico per finta? La sculacciai sul divano davanti a Mario Lavezzi. Mario, poverino, piangeva: “Non farle male, ti prego”. Il più delle volte gli scontri si risolvevano in abbracci. Perché Loredana litigava, ma sapeva voler bene e oltre a essere un’artista vera, aveva una qualità che ai miei occhi è sempre stata importante».
Quale, Cerruti?
«Non le è mai fregato nulla del denaro. A differenza di quella belva di Marcella Bella, una ragazza che accumulava soldi senza spendere una lira, Loredana le sue fortune le ha sempre sputtanate. Sono della stessa scuola. Che gusto c’è a guadagnare se poi le banconote le metti sotto il materasso?»
Altri litigi?
«Una volta mandai a fare in culo anche Claudia Mori. Avrei dovuto fare l’autore per Celentano, ma alla fine, comunicandomelo all’ultimo istante, mi preferirono Vincenzo Cerami. Non la presi bene e le feci conoscere il mio disappunto. Tra i due, Adriano, che non è matto per niente ed è solo molto furbo, è la mente. Lei invece è il braccio. Dal suo eremo brianzolo, una casa che Celentano ha edificato e fatto abbattere decine di volte senza una ragione precisa, Adriano decide tutto. Lei esegue e rimane nell’ombra. Lui è felice perché può recitare da dio. E un po’ divino, in effetti, Adriano è».
Per il pubblico che vi seguiva, erano una divinità anche gli Squallor.
«Si creò una comunità di insospettabili che superava il conformismo e sembrava capire il senso del nostro esperimento. Quando con il secondo disco vendemmo settantamila copie intuimmo che il nostro passatempo non era più soltanto un hobby a cui dedicarsi nei ritagli di tempo».
In cosa consisteva il vostro esperimento?
«Nel non prenderci sul serio, nel ribaltare le consuetudini, nell’esagerare consapevolmente, nell’usare una volgarità apparente per dire qualcos’altro».
Cosa?
«Che nell’Italia bigotta dell’epoca la libertà di espressione mancava come l’aria. In ambito musicale si temevano persino arie ingenue come Far l’amore con te di Gianni Nazzaro e in politica andava anche peggio. Prenda ad esempio il Pci».
Preso.
«Ecco, io sono stato sempre di sinistra e alla politica mi sono sempre interessato. Pensi che tra di noi discutevamo della caduta del Muro di Berlino almeno quindici anni prima del suo crollo. Ma il Pci non mi piaceva. Era un partito monolitico che pretendeva di indirizzare la morale, dettare le regole del buon gusto, decidere chi poteva sedersi a tavola e chi doveva rimanere fuori dalla porta. Non ti faceva accomodare, il Pci. E io alle feste a cui non ero invitato non sono mai andato in vita mia».
Vostro bersaglio prediletto era il Vaticano.
«Non ci hanno mai scomunicato. Forse additarci avrebbe significato riconoscerci. Siccome i pretori erano scatenati, prima di pubblicare un disco comunque ci cautelavamo. Il nostro avvocato era il direttore della Siae. Noi gli facevamo ascoltare Lp per capire se poteva esserci casino. In genere non accadeva nulla: “Tutto a posto, andate avanti”».
Ve la prendeste anche con il Partito Socialista.
«Ci occupammo spesso di Craxi e anche di De Michelis».
Al ministro dedicaste anche una canzone. Demiculis.
«“E nacque Demiculis: "vieni avanti, grecino" gridò l’infermiera. Piccolo, goffo, con dei riccioloni unti già dietro, e un paio di fogli in mano del ministero”. Una cosa innocente in fondo. Parlammo anche di Berlusconi. Irridendolo. Lui era già uno sfigato, noi eravamo pieni di fighe».
Soprassediamo.
«Sa che un giorno conobbi anche l’ex ministro De Lorenzo? Mi cercò per scrivere uno spot contro l’Aids. Gli dissi: “Mi metto al lavoro, ma non è affatto detto che il risultato finale la convinca”».
E come finì?
«Come preventivato. Lo slogan che avevo scelto: “Col cazzo che lo prendo, l’Aids” non gli piacque granché».
Del cinema e dei due film che agli Squallor si ispirarono, “Arrapaho” e “Uccelli D’Italia” di Ciro Ippolito che ricordi ha?
«I film sono un’altra cosa. Scrivemmo il copione in due giorni a casa mia, girammo per poco più di una settimana e ci divertimmo molto. A differenza di Uccelli d’Italia che incassò poco, Arrapaho sbancò i botteghini. Quasi cinque miliardi di lire dell’epoca. Un trionfo».
Meritato?
«Non direi. Il film era tremendo. Un’accozzaglia di immagini senza costrutto intervallato qui e là da qualche battuta riuscita».
Per Morando Morandini “Arrapaho” è il peggior film della storia del cinema italiano.
«Ha ragione. Dargli torto è impossibile. Però una cosa me la faccia dire».
Prego Cerruti.
«Non è che i film di adesso siano poi molto meglio. Non ridi neanche se ti ammazzi. Non parliamo poi della tv. Un incubo, una sfilata di cadaveri. Non capisco come gli autori, chiusa la porta di casa, non si vergognino e non si pentano».
Dovrebbero?
«Eccome. C’è stata una tv migliore. Lavorai con Arbore a Indietro tutta. Era un mezzo capolavoro quel programma. Ci ritrovavamo a casa di Renzo con la mortadella e le michette. Poi, a pancia piena, ragionavamo. Certe indicazioni le davo direttamente dalla terrazza. Fumavo come un pazzo e a casa Arbore il fumo era bandito».
In Indietro tutta lei interpretava la voce poliziesca che forniva informazioni surreali al marinaio Arbore: “Volante uno a volante due”.
«Con Boncompagni, Renzo e Mario Marenco, uomo di intelligenza formidabile, pari solo alla lentezza, ci siamo divertiti come bambini felici. Ogni volta che scendevo a Roma era una festa. Una zingarata in stile Amici miei. Facevamo scherzi dalla mattina alla sera, ma il vero teatro delle nostre scorribande era la notte».
Cosa facevate di notte?
«Chiamavamo i clienti degli alberghi a tarda sera e gli annunciavamo una gita gratuita ai Fori romani per l’alba del giorno successivo. Poi ci appostavamo. Avrebbe dovuto vederli i poveri clienti. Pesti dal sonno, quasi in pigiama, sulla porta dell’albergo ad aspettare un Pullman che non sarebbe mai arrivato».
Lei crede nei ritorni?
«Neanche un po’. Né in quelli sentimentali, né in quelli artistici. Gli Squallor si spensero perché gli altri membri del gruppo scomparvero all’improvviso, ma forse sarebbero finiti comunque. Ogni cosa ha un suo tempo. E noi eravamo i primi a saperlo. Pensi che io non ho mai riascoltato una nostra sola canzone e ho sempre rifiutato revival più o meno patetici. Quando andammo al funerale di Pace, io e gli altri ci guardammo in faccia. Parlai io: “Siamo rimasti in tre, come i Police”».
Ha detto di aver molto amato, ma non ha raccontato nulla della sua storia d’amore con Mina.
«Di Mina non parlo. Posso dire soltanto che essere inseguiti dai paparazzi anche mentre prendi un caffè non è semplice. Per me andare al bar, addentare un cornetto e fare una colazione in santa pace è un perfetto esempio di felicità».
Si è almeno spiegato perché da tanti anni Mina si sia volontariamente allontanata dal palco?
«Non me lo sono mai spiegato, ma so che ha fatto bene. Anzi, benissimo».
Antonello Piroso per ''la Verità'' del 1 novembre 2018. Alfredo Cerruti, napoletano, classe 1942, potrebbe far suo il bilancio di George Best: "Ho speso molti soldi per alcol, ragazze e auto veloci. Il resto l'ho sperperato". "Scusa, ma chi te lo dice che la battuta alla Bestia non gliel'abbia regalata io?", mi stoppa Cerruti, facendo finta di non capire il nome del campione, e giù una risata che i fan degli Squallor - gruppo musicale che oggi definiremmo demenziale e sboccato, precursori, per capirci, degli Skiantos e di Elio e le Storie Tese, e delle provocazioni radiofoniche dello Zoo di Radio 105 - conoscono bene perchè spesso finiva impressa su vinile nel corso dell'incisione dei brani.
Ha vissuto come una rockstar: whisky, donne e notti in bianco.
«Ma ha anche conseguito grandi traguardi professionali come produttore e direttore artistico in Cbs, Cgd e Ricordi. Come cofondatore - con Giancarlo Bigazzi, Daniele Pace e Totò Savio- dei succitati Squallor. Come autore televisivo con Renzo Arbore (e non solo). Nonchè come fidanzato di Mina per sette anni: "Di Mina non ho mai raccontato nulla, come delle altre mie storie, perché -lo scrisse il poeta- un gentiluomo gode ma non parla. Non comincerò certo oggi, alla mia età venerabile. Come avrebbe detto Licio Gelli". Avvertenza per il lettore: con Cerruti ho lavorato per diversi anni, in tv e in radio, quindi perdonerete il "tu" in una conversazione in cui le risate si sono sprecate, con qualche momento di commozione».
Di te si tramandano tuttora gesta e aneddoti epici, c'è ancora chi ti evoca come "il guru".
«Posso affermare senza tema di smentita che sono tutti veri».
Hai vissuto in hotel a Roma per oltre 12 anni, dopo essere sceso da Milano per partecipare a Indietro tutta!.
«Nulla è più definitivo del provvisorio».
Che fai, mi citi Giuseppe Prezzolini?
«E chi è? Prezzolini, Prezzolato, non stiamo a guarda' il capello».
Comunque si trattava sempre della stessa stanza, potevi acquisirne la proprietà tramite usucapione.
«Non potevo cambiare, doveva essere al primo piano vicino alle scale di sicurezza (tra le non poche fisime di Cerruti c'è sempre stato il terrore dell'incendio tipo "Inferno di cristallo")».
Sul lavoro, erano le situazioni e gli orari a doversi adattare ai tuoi ritmi, e non il contrario.
«Mi stai dando del lavativo?»
Ma se ti sei fatto mettere in contratto da Ladislao Sugar, creatore dell'omonimo impero musicale fusosi poi con la Cgd, che non ti doveva essere consentito l'accesso in azienda prima delle 14!
«Differivo l'inizio della giornata, ma ne posticipavo anche la fine, visto che facevo tardi tutte le notti in sala di registrazione».
E lì, una volta ti sei messo a fare la voce narrante su una base musicale, ed è nato il fenomeno degli Squallor.
«Con Bigazzi, Pace e Savio eravamo amici. A fine giornata, dagli uffici in Galleria del Corso a Milano, scendevamo al ristorante Santa Lucia, e lì facevamo tardi raccontandoci i fatti della giornata, mettendo sempre in mezzo chiunque in un clima di cazzeggio allo stato puro in cui non risparmiavamo neppure noi stessi, la regola era non prendersi troppo sul serio. Del resto, avevamo a che fare per tutto il santo giorno con quegli scassacazzi dei cantanti, con le loro assurde pretese, le gelosie e le ripicche, così compensavamo a tavola».
Con qualche bicchiere di troppo, a detta dei più.
«Un goccetto per carburare».
Secondo te questo accadeva nel 1969, ma il primo disco Era il 38 luglio, è del 1971.
«Sei il solito precisino. Nel 1969 avevo visto un film in cui c'era un brano musicale più che cantato, recitato con un certo tono distaccato su una base. Lì mi dissi: "Potremmo farne qualcosa di originale"».
Che film?
«Il mio amico il Diavolo di Stanley qualcosa. Non Kubrick. Ah sì: Donen. L'idea cominciò a prendere forma, nel frattempo continuavamo a divertirci come eravamo abituati a fare».
Un esempio?
«Gli scherzi telefonici».
A 30 anni?
«Embe'? Facevamo vivere il fanciullino che è in ognuno di noi. Chiamavo in un ristorante spacciandomi per un alto prelato del Vaticano e ordinando un menu apposito, "le animelle sì, gli strozzapreti no, mi raccomando", oppure telefonavamo a casa di qualcuno e la domanda standard era: "Pronto? Buongiorno. Il carico lo scarico lì?". Quelli non capivano, e allora io spiegavo: "Lei ha vinto un tir di Coca-Cola", oppure di macchine da scrivere, o magari un cane, e poi aggiungevo: "Accetta? Non ha molto tempo per rispondere, guardi che è partito il cronometro", e con una matita battevo sulla cornetta a scandire i secondi».
Nessuno che vi abbia mai mandato a quel paese?
«Un signore, che poi scoprimmo essere il direttore generale di una casa farmaceutica, ci prese a male parole. Ci vendicammo inserendo in tutti gli scherzi successivi la possibilità di telefonare al nostro ufficio reclami, fornendo il suo numero. Alla fine, esaurito, il poveretto fu costretto a cambiare numero».
Come arrivaste a Era il 38 luglio?
«Ero innamorato della voce dei doppiatori, così quando decidemmo di entrare in studio convocai Giuseppe Rinaldi, che era la voce italiana di Paul Newman e Marlon Brando,e per fargli capire cosa volevamo mi misi al microfono per registrare una traccia. Solo che vedevo dietro il vetro quei tre sciammanati che ridevano, e alla fine mi dicono: "Col czz che questa roba la facciamo fare a qualcun altro". Vendemmo 100 mila copie, senza pubblicità e senza passaggi radiofonici in Rai, c'era solo lei, eccezion fatta per la Schif Parade di Luciano Salce e Bice Valori».
Ti credo: era l'unica canzone senza parolacce, tranne una, la zia "Wuoller".
«In effetti "Non mi scassare la guallera!" è una tipica espressione partenopea che significa...»
Lo so cosa significa, grazie. Dopo però avete esagerato con il turpiloquio, o quantomeno: il pesante doppiosenso goliardico.
«Non ti facevo così perbenista».
Parlavate di un monsignore, di cognome Fava, che adescava giovanotti nel buio di un cinema.
«Preveggenti, direi...»
D'accordo. Ma mi concederai che intitolare i 33 giri, e cito quelli più soft: Palle, Vacca, Troia (certo, ovviamente sotto finta metafora, con l'immagine da poema omerico di un cavallo a dondolo e le fiamme sullo sfondo), era un pugno sotto la cintola per quegli anni.
«C'era qualche parolaccia, ma parlavamo il linguaggio di tutti i giorni, e diventammo gli idoli dei giovani, e non solo di loro, sfottendo ipocriti e benpensanti. Eravamo volgari, ma non sguaiati, e le dicevamo con l'innocenza dei bambini, con i giochi di parole tipo "Diciamo pane al pane, e pene al pene"».
Come da titolo di un articolo del serioso Panorama del 1979.
«Bravo. Alla fine, in cinque anni avevamo venduto 400 mila ellepì, e comunque i nostri dischi li facevamo ascoltare all'avvocato Giorgio Assumma per evitare noie legali».
Una volta avete coinvolto Gianni Boncompagni.
«Per Vacca. Era lo speaker che annuncia che i componenti del gruppo The Cow alla fine del brano avrebbero realizzato un suicidio collettivo. E difatti al termine Gianni conclude: "Il gruppo The cow non esiste più"».
Ma come facevate a farvi prendere sul serio nel resto delle vostre attività?
«Pace: paroliere, e basterebbe ricordare E la luna bussò, In alto mare, Sarà perchè ti amo. Bigazzi: autore di canzoni che hanno venduto 250 milioni di copie, con tantissime cover anche all'estero (da Luglio, Rose rosse, Se bruciasse la città di Massimo Ranieri, Tu e Gloria di Umberto Tozzi, Self control e Cosa resterà degli anni 80 di Raf, Ci vorrebbe il mare e le altre hit di Marco Masini). Totò Savio: un musicista e compositore sopraffino, e ricordo solo Cuore matto e Maledetta primavera. Il segreto era non mostrarsi mai in pubblico come Squallor. Pensa che quando Ciro Ippolito decise di fare un film dal nostro disco Arrapaho, 5 miliardi di lire al botteghino, il pellerossa vagamente gaio che compariva nello spot per molti era uno di noi. Ma noi esistevamo solo in voce. Nel resto del tempo io ero il direttore artistico della più grande etichetta italiana, con la Rca di Roma, e decidevo io se un brano funzionava o no, si trattasse di un artista al debutto o di un gruppo già affermato come i Pooh».
A proposito di Pooh: sai cosa narra Red Canzian? Che eri un personaggio che incuteva anche soggezione. Se non che, una sera ti ricordi che hai fatto?
«Gli telefonai e gli chiesi che tipo di rutti facesse, lo feci venire in studio, lo misi davanti al microfono e gli intimai: rutta. Ne fece una serie, era bravissimo. Gli farà piacere saperlo a così tanti anni di distanza. L'ultimo album degli Squallor è del 1994, Cambiamento, dopo le elezioni vinte da Silvio Berlusconi: "Son passati 5 anni, siamo andati molto lento ma è arrivato il cambiamento"».
Sarebbe da fare un remix, visto che pure questo è il governo del cambiamento, o mi sbaglio?
«Sono gli eterni corsi e ricorsi della politica italiana. Purtroppo sono l'ultimo degli Squallor...»
Il primo ad andarsene fu a 50 anni Daniele Pace, nel 1985. Con leggenda annessa: al funerale...
«Ci ritrovammo davanti a due bare, e per un po' piangemmo su quella sbagliata, di tal Gargiulo. Alla fine delle esequie, commentai con Bigazzi e Savio: "Siamo rimasti in tre. Come i Police"».
Anni fa, quando con Gigi Sabani facemmo Ed ecco a voi alla radio su Rtl 102.5, e poi ai tempi di Domenica In, alla fine di ottobre dovevamo puntualmente decidere se festeggiare la notte di Halloween o quella di Aulin. Vent'anni dopo?
«Se eravamo acciaccati allora, figurati adesso. Anzi, vorrei proporre un format innovativo per la tv, che potremmo fare insieme».
Grande! Tipo?
«Catetere: ieri, oggi e -speriamo- pure domani».
· E' morto l'ex bassista degli AC/DC Paul Matters.
Da rockol.it il 16 ottobre 2020. E' morto in Australia l'ex bassista degli AC/DC Paul Matters. Descritto dalla band come un 'bel ragazzo', venne licenziato da Bon Scott nel 1975 dopo avere militato nel gruppo solo per poche settimane. Poi abbandonò del tutto la musica conducendo una vita molto ritirata. Nel libro del 2017 di Jesse Fink “Bon: The Last Highway”, Matters dichiarò: "Sono stato con loro solo per poco tempo. Ho fatto il tour di "High Voltage" in giro per l'Australia." Così ricordò come venne licenziato dal cantante della band australiana: "Scese dal retro di un camion... e mi disse che non sarei tornato a Melbourne con loro. Eravamo a Sydney a fare un concerto per degli studenti. Quindi non suonai quel giorno. Mi sono voltato e non gli ho detto una parola. Mi sono voltato e sono uscito." Disse di se stesso che gli piaceva suonare dal vivo ma era meno a suo agio in studio: "Credo che fossi solo un po' pigro". Un ex collega di una precedente band, Les Gully, nel libro disse che Matters "non si adattava veramente" agli AC/DC perché "aveva opinioni e sensibilità forti e suonava ciò che gli piaceva". Un suo amico, Paul Wescombe, gli ha reso omaggio scrivendo: “Ricordo che riusciva sempre a farmi ridere quando era dell'umore giusto. Dopo aver lasciato il New South Wales ho perso i contatti con lui come molte altre persone nel corso degli anni. Da tutte le notizie ha vissuto una vita solitaria nei suoi ultimi anni e il suo primo stile di vita rock'n'roll gli ha minato la salute. Mancherà a tutti coloro che lo conoscevano."
· È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli.
Dagonews il 15 ottobre 2020. Da molti anni Jole Santelli stava combattendo una dura battaglia contro un tumore ovarico degenerato in metastasi. La governatrice assumeva farmaci molto aggressivi, e pesantissimi per l’organismo, che erano riusciti a cronicizzare la malattia. Ma le “scorie” di questa terapia si sono fatte sentire, anche nella voce che era ormai rovinata. Probabilmente la governatrice della Calabria, proprio a causa dei medicinali assunti, ha avuto un arresto cardiaco nel sonno. Ora tutti si chiedono: può una politica così importante e così malata dormire sola in casa? Perché non c’era nessuno con lei?
Da repubblica.it il 15 ottobre 2020. È morta nella notte la governatrice della Calabria Jole Santelli. Ancora non sono note le cause del decesso della politica, che secondo indiscrezioni, sarebbe stata trovata questa mattina esanime da un membro del suo staff. Santelli, 51 anni esponente di Forza Italia, era stata eletta presidente della Calabria a fbbraio scorso a capo di una coalizione di centrodestra.
Da quicosenza.it il 15 ottobre 2020. Una notizia tragica che colpisce l’intera Calabria. Diverse fonti a lei vicine, tra cui il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto avrebbero confermato: la presidente Jole Santelli è deceduta nelle scorse ore. Secondo quanto emerso la governatrice, che proprio ieri era stata in Regione ed aveva avuto incontri istituzionali, si è spenta nelle scorse ore. Al momento non è chiara la causa che ha portato al suo decesso ma secondo i primi riscontri si sarebbe trattato di un arresto cardiocircolatorio. La governatrice, come è noto, era malata da tempo ed era affetta da una patologia tumorale e si trovava nella sua casa a Cosenza. Jole Santelli aveva 52 anni ed era presidente della Regione Calabria dal 15 febbraio 2020. Deputata dal 2001 al 2020, è stata sottosegretaria di Stato al Ministero della giustizia dal 2001 al 2006 nei governi Berlusconi II e III, nonché sottosegretaria al Ministero del lavoro e delle politiche sociali da maggio a dicembre 2013 nel Governo Letta. Il 9 dicembre 2019 si era dimessa da vicesindaco di Cosenza e il 19 dicembre era stata indicata da Forza Italia come candidata a presidente della regione Calabria per il centro-destra in vista delle elezioni del 26 gennaio 2020.
È morta Jole Santelli, presidente della Regione Calabria: aveva 51 anni. Santelli, esponente di Forza Italia e fedelissima di Berlusconi, era stata eletta governatrice nel febbraio scorso. Avrebbe compiuto 52 anni a dicembre. Alessia Candito su La Repubblica il 15 ottobre 2020. È morta nella notte la presidente della Regione Calabria Jole Santelli. La governatrice di Forza Italia era nella sua casa di Cosenza dove è stata trovata senza vita questa mattina dal collaboratore domestico che poi ha avvisato i familiari. Santelli, che avrebbe compiuto 52 anni a dicembre, era malata di tumore da tempo. Ancora da accertare le cause del decesso: pare si sia trattato di un malore. Ogni tentativo di soccorso è stato inutile. La notizia ha lasciato esterrefatti l'intera regione, il mondo politico calabrese e quello nazionale. Nulla infatti faceva sospettare che le condizioni di salute della presidente fossero compromesse o peggiorate a tal punto. Al contrario, era stata proprio lei qualche settimana fa a smentire le voci su un presunto aggravamento della malattia, bollandole come "cattiverie" e a riprova aveva tenuto a presenziare a diversi appuntamenti di campagna elettorale in tutta la regione. Santelli, di Forza Italia e fedelissima di Silvio Berlusconi, alle elezioni del 26 gennaio 2020, sostenuta da una coalizione di centrodestra, aveva vinto il confronto con l'imprenditore Pippo Callipo del centrosinistra, conquistando il 55,29% dei consensi dei calabresi diventando la prima donna governatrice della Calabria. Prima di diventare presidente della Regione, era stata deputata. La prima elezione alla Camera nel 2001. Nella sua carriera politica è stata sottosegretaria al ministero della Giustizia dal 2001 al 2006 nei governi Berlusconi, nonché sottosegretaria al ministero del Lavoro e delle politiche sociali da maggio a dicembre 2013 nel governo Letta. Laureata all'Università La Sapienza di Roma, era iscritta a Forza Italia dal 1994. Di fronte all'abitazione di Jole Santelli, a Cosenza, in queste ore si sta radunando buona parte del mondo politico cosentino e regionale. I funerali si terranno domani, venerdì 16 ottobre, alle 16.30 nella chiesa di San Nicola. La camera ardente sarà aperta dalle 10.30 del mattino. Per l'omaggio istituzionale, il feretro sarà quindi trasferito nella sede della giunta regionale, a Catanzaro, dove la camera ardente proseguirà anche nella giornata di sabato 17.
Da repubblica.it il 15 ottobre 2020. La morte di Jole Santelli, eletta presidente della regione Calabria solo il 26 gennaio scorso, per una lunga malattia che aveva raccontato anche in campagna elettorale, lascia la regione senza il presidente eletto ma non senza una guida. In attesa delle prossime elezioni, sarà Antonino Spirlì, detto Nino, a guidare la regione. Vicepresidente e assessore alla Cultura e al Commercio, Nino Spirlì ha 58 anni sul suo profilo si definisce tra le altre cose "Omosessuale a tempo perso e cattolico praticante". La figura di Spirlì è salita all'onore delle cronache per le sue prese di posizione non politically correct. “Userò le parole negro e frocio fino all’ultimo dei miei giorni, in calabrese dico nigru per dire negro, non c’è altro modo”. E ancora, ha attaccato “la lobby frocia, che ti impedisce di chiamare le cose col loro vero nome”. Quando fu eletto rilasciò la seguente dichiarazione: "Invoco la Benedizione del Signore e mi affido alle amorevoli cure della Santa Vergine Immacolata. E mi impegno a svolgere il mio compito nell'unico interesse della mia gente. Accompagnatemi solo con le Vostre preghiere. Grazie. Dio Vi voglia bene”. Come si legge sul sito istituzionale della Regione Calabria: "Il Vice Presidente della Giunta regionale svolge funzioni vicarie, sostituendo il Presidente in caso di assenza o impedimento, nell’esercizio dei poteri, delle funzioni e delle prerogative di questi, anche nei rapporti istituzionali presso la Conferenza Stato-Regioni e presso l’Ufficio di Presidenza dei Presidenti delle Regioni. Al Vice Presidente dott. Antonino Spirlì sono altresì delegate le competenze di indirizzo politico nelle seguenti materie: beni culturali; patrimonio storico, artistico ed architettonico; organizzazione delle attività culturali e teatrali; musei, biblioteche, archivi, associazioni culturali; politiche del commercio e dell’artigianato; legalità e sicurezza."
Calabria, morta la governatrice Jole Santelli. Berlusconi: "Un'amica sincera". Aveva 51 anni, da tempo lottava contro un tumore. Ieri ha partecipato a incontro politici, il suo corpo trovato in casa. Clarissa Gigante, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Lutto in Regione Calabria che - a soli otto mesi dal voto - piange la governatrice Jole Santelli. Appena 51 anni, lottava da tempo contro un cancro. Il 15 febbraio scorso era stata eletta alla guida della Regione ed è stata la prima donna a ricoprire questo ruolo. La Santelli sarebbe stata trovata senza vita in casa da un membro del suo staff. Al momento non è chiaro quale sia la causa della sua morte, ma i primi rilievi parlano di un arresto cardiocircolatorio. Della sua lotta contro un tumore aveva parlato anche durante l'ultima campagna elettorale. A maggio, in un'intervista al Corriere, aveva detto di non aver avuto mai paura per se stessa: "Quando hai sulle spalle la responsabilità di un’intera regione, la paura non te la puoi permettere", aveva sottolineato, "Come non puoi permetterti di stare chiusa in casa. La politica regionale si fa andando in Regione, non stando a casa. E io, infatti, sono stata là, alla mia scrivania". Scrivania dove è rimasta praticamente fino a poche ore dalla morte: solo ieri, infatti, aveva partecipato a incontro istituzionali nella sua Cosenza, dove era nata il 28 dicembre 1968. Città che aveva lasciato solo per dedicarsi agli studi: si è laureata in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, per poi diventare avvocato e professare in studi legali di rilievo. Inizialmente iscritta al Partito Socialista, fin dal 1994 ha creduto nel progetto di Forza Italia ed è diventata una fedelissima di Silvio Berlusconi. Con la casacca azzurra è diventata prima deputata dal 2001 al 2020 e poi governatrice della Calabria conquistando il 55,3% dei voti. Dal 2001 al 2006 è stata anche sottosegretaria al ministero della Giustizia con il governo Berlusconi e nel 2013 con il governo Letta. Nella sua breve presidenza più volte era andata allo scontro con il governo centrale. Prima con un'ordinanza che - già a maggio - riapriva bar e ristoranti all'aperto prima del via libera di Conte. Ordinanza che l'aveva portata immediatamente sotto il tiro incrociato di Pd e 5Stelle, nonostante a chiedere delle misure più morbide fossero stati per primi proprio i dem locali. Passano pochi mesi, finisce il periodo di lockdown, ma si fa sempre più allarmante la questione degli sbarchi clandestini. Il governo si dà al "gioco delle tre carte": sposta i migranti dalla Sicilia, prima sulle navi quarantena, poi nelle altre Regioni. Ed è proprio la Santelli per prima a protestare. Lo fa con una lettera che suona come un ultimatum a Conte: "Intervieni o blocco gli sbarchi", è l'aut aut. "Il progetto intrapreso, il linguaggio nuovo e l'entusiasmo che lei rappresentava non finirà", assicura il suo vice, Nino Spirlì, che prenderà le redini della Regione fino a nuovo voto, "È una grande responsabilità, continuerò il suo progetto, nella strada che lei ha tracciato e abbiamo condiviso, sarà ancora una amministrazione Santelli". Grande il cordoglio da parte del mondo della politica, sia quella locale che quella nazionale. Commosso il ricordo di Silvio Berlusconi che in un lungo post sui suoi canali social esprime "profonda costernazione" per la tragica notizia. "Non aveva paura di nulla, neppure della malattia e della sofferenza", dice, "Era un’amica sincera, intelligente, leale, era una donna appassionata, una combattente tenace. Mi è stata vicina anche nei momenti più difficili". "Un dolore profondo pervade tutta la comunità di Forza ItaliaUn dolore profondo pervade tutta la comunità di Forza Italia", ha detto il vicepresidente azzurro, Antonio Tajani, "Perdiamo una amica, una grande donna, una protagonista della politica italiana, amata dal suo popolo calabrese al quale ha dato tutta la sua vita". "La Calabria e l'Italia ti abbracciano Jole, una preghiera per te e un pensiero alla tua famiglia, ai tuoi amici e a tutta la tua comunità", scrive Matteo Salvini. "Siamo sconvolti dalla notizia della scomparsa improvvisa del presidente della Regione Calabria, Jole Santelli", dice poi Giorgia Meloni, "Ci lascia un amica, una donna coraggiosa, un politico fiero e orgoglioso delle sue idee, che ha combattuto tutta la vita per la sua terra e per offrire una occasione di riscatto alla Calabria".
Silvio Berlusconi e Paolo Del Debbio, la telefonata a Dritto e rovescio: "Ciao Jole, ci mancherai", vote rotta dal pianto. Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. "Ciao Jole, ci mancherai tantissimo". Silvio Berlusconi, al telefono con Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio, si commuove nel ricordare Jole Santelli, la governatrice della Calabria morta a soli 51 anni dopo una lunga battaglia contro un tumore. "Jole è stata con me dall'inizio in Forza Italia, 25 anni fa. Stamattina ho appreso la notizia della sua scomparsa con una costernazione profonda, nessuna parola è adeguata ad esprimere il dolore che ho provato". "Lascia un vuoto incolmabile nelle nostre anime - spiega il leader azzurro ed ex premier, con la voce rotta dalla commozione -, era un'amica sincera, intelligente, leale. Era una donna appassionata e combattente tenace, mi è stata vicina nei momenti più difficili, non aveva paura di nulla. Né della malattia né della sofferenza. Rappresentava il riscatto della sua terra, l'idea di un Mezzogiorno che ha in sé la forza di essere protagonista del futuro". E anche Del Debbio, congedando Berlusconi, si mostra visibilmente emozionato.
Jole Santelli e le bellezze della Calabria: la presidente con Gabriele Muccino alla presentazione del cortometraggio. La Repubblica il 15 ottobre 2020. In questo video, pubblicato sul profilo Facebook di Jole Santelli Presidente lo scorso 4 luglio, Gabriele Muccino e la presidente della Regione presentavano “Calabria, terra mia”, il corto realizzato dal regista per promuovere e valorizzare i prodotti identitari e le bellezze naturali e paesaggistiche della regione. Con un altro post, pubblicato solo due giorni fa, Santelli annunciava che il film sarà presentato martedì 20 ottobre alla Festa del cinema di Roma. "La kermesse - si legge nel post - diretta dal calabrese Antonio Monda, ospiterà la “prima” del corto. Stiamo lavorando senza sosta e con grande passione per cambiare l’immagine della nostra Calabria. Il corto di Gabriele Muccino è un’opera magnifica che ci permetterà di far conoscere, come mai avvenuto prima, la bellezza misteriosa e piena di fascino di una regione unica al mondo." Appresa la notizia della morte di Santelli, Muccino ha oggi espresso il suo cordoglio con un tweet: "Sconvolto dalla morte della Presidente della Regione Calabria Jole Santelli. Recentemente ho realizzato una campagna promozionale per il rilancio della sua straordinaria regione. Amava moltissimo la sua terra, era fiera e combattiva."
Il sindaco di Cosenza: "Nonostante la malattia, si è impegnata fino alla fine per la sua terra". La Repubblica il 15 ottobre 2020. A Radio Capital, il ricordo commosso di Jole Santelli del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, di cui era stata vice fino all'anno scorso: "Un grande esempio per tutti. Era malata ma ha sempre combattuto per la Calabria, non sono mai mancati il suo ottimismo e la sua presenza. Non parlava mai della sua malattia, soltanto di nuovi progetti".
Elezioni regionali 2020, Berlusconi chiama Santelli: "M5s irrilevanti, Forza Italia insostituibile". La Repubblica il 27 gennaio 2020. Jole Santelli stacca l'avversario Pippo Callipo di oltre 20 punti e il suo partito, Forza Italia, è il primo nella regione. Afona, nel comitato elettorale in festa, la nuova governatrice riceve la telefonata di Silvio Berlusconi e si commuove. Berlusconi la ringrazia, la definisce il simbolo della nuova Calabria pulita, e conclude: "Con questo risultato elettorale Forza Italia certifica il radicamento diffuso e il ruolo insostituibile, come unica espressione nel panorama politico della tradizione liberale, della tradizione cattolica, della tradizione garantista. Forza Jole! Forza Calabria! Forza Italia!". Il messaggio, senza citarlo direttamente, è per l'alleato Matteo Salvini, che guida la coalizione di centrodestra.
Tommaso Labate per corriere.it il 15 ottobre 2020.
«Glielo dico subito, io non ritiro un bel nulla».
Ha fatto un’ordinanza piena di ristoranti e bar che aprono, i tavolini all’aperto. Mentre nel resto d’Italia...
«Io sono stata una delle prime a chiudere la mia regione e mi hanno attaccato da tutte le parti. Ci ho perso il sonno. Avevo chiarito che, se le cose fossero andate bene col contenimento del contagio, avrei restituito un po’ di libertà ai calabresi. Ecco qua, l’ho fatto».
Il governo, a Roma, s’è arrabbiato.
«Se vogliono, possono solo impugnare l’ordinanza e poi vediamo come va a finire».
Alle 15 e 15 minuti di giovedì 30 aprile 2020, Jole Santelli è il nome più citato da giornali, telegiornali, radio e siti web. L’ordinanza con cui ha riaperto i bar e i ristoranti calabresi ha fatto il giro d’Europa. Fiorello ci ha costruito su una delle sue battute geniali: «Vado a mangiare una pizza a Vibo Valentia». Nella fase più complicata dell’emergenza Covid-19, tra gli incubi della governatrice di Forza Italia c’erano i morti. I tanti morti che la sua regione ha rischiato di contare, come altre regioni del Sud. Poi l’onda anomala del contagio si è fermata anche grazie a un modello di contenimento, il suo, celebrato nientemeno che da un articolo del New York Times. Chiudere i confini della Calabria a chiunque, in entrata e in uscita, anche per i residenti.
Riavvolgendo il nastro alle settimane passate: quanto ci ha pensato su prima di chiudere i confini della Calabria?
«Tempo per pensare troppo non ce n’era. Conte parla a mezzanotte passata, io ero davanti alla tv come tutti gli italiani. Alle due di notte firmo l’ordinanza che chiudeva la Calabria. Mi lasci dire che sono orgogliosa di come hanno reagito i miei corregionali. La retorica dei meridionali poco rispettosi delle regole l’abbiamo smentita al cento per cento».
Ha avuto paura?
«Mentirei se dicessi di no. Già la notte che erano venuti fuori i primi focolai in Lombardia, a Codogno, avevo chiamato il ministro della Salute Roberto Speranza. Non potevo sapere nulla dell’evoluzione del virus, per cui ho iniziato a prepararmi al peggio».
Come?
«All’inizio dell’emergenza in Calabria avevamo poco più di cento posti di terapia intensiva. Siamo arrivati a quasi duecento. Le dico come la penso: in certi casi, nella vita, è necessario essere bravi a copiare da quelli che ci sono già passati prima di te».
Scegliere chi copiare non è semplice.
«Io ho guardato soprattutto a quello che stava facendo Luca Zaia in Veneto. Ho scelto bene».
La tv ha riacceso la luce sul dramma degli ospedali calabresi.
«Che la nostra sanità fosse in ginocchio non l’abbiamo certo scoperto nelle ultime settimane. Siamo in una situazione di commissariamento figlia di problemi antichi e con un carico pesantissimo di trasferimento di risorse, di fondi tagliati».
La sanità calabrese era finita in ginocchio prima dei fondi tagliati, non crede?
«Questa storia del Covid-19 ci ricorderà anche in futuro che comunque non si possono praticare tagli sulla vita delle persone».
Quanto tempo ci vorrebbe per arrivare a una situazione di efficienza, in una regione come la Calabria?
«Ci vorrebbero anni, parecchi anni, per arrivare all’eccellenza. Molti di meno per raggiungere quel minimo di efficienza che ancora non abbiamo. Dobbiamo invertire la tendenza e capire che la sanità è un servizio da rendere al cittadino, non al singolo primario».
Luigi Camporota, medico calabrese, ha fatto parte del team che ha avuto in cura il premier britannico Boris Johnson. Questa storia le fa rabbia perché quel medico avrebbe dovuto lavorare in Calabria o invece la riempie d’orgoglio?
«Mi riempie d’orgoglio. Ciascuno deve sentirsi libero di seguire le proprie ambizioni dove crede. Quando ci riesce un mio corregionale, che si è formato e ha studiato in Calabria, io ne sono felice».
Il dramma del Covid-19 ha mostrato che dove governa una donna si ottengono risultati migliori.
«Io lavoro bene con tutti ma devo dire, e quest’emergenza mi ha dato ulteriori prove, che le donne nei momenti di crisi sanno essere più pragmatiche. Un dialogo tra donne, spesso, risolve i problemi con più rapidità. Le faccio l’esempio di una telefonata con una donna che sta in un’azienda sanitaria provinciale. “Quanti tamponi hai a Reggio Calabria? Diecimila? Mandamene tremila a Catanzaro e domani te li restituisco”. Problema risolto».
Quanto le fa paura l’idea delle spiagge calabresi affollate d’estate?
«Chi viene qui dovrà farlo in massima sicurezza, per sé e per chi in Calabria vive tutto l’anno. Stiamo programmando un’estate, diciamo così, diversa dal solito».
Come?
«L’estate che sta arrivando non potrà essere uguale alle altre. Stiamo pensando a come potenziare e favorire soluzioni alternative al mare. Ad esempio, puntando molto sugli agriturismi che sono nell’entroterra. Ci stiamo lavorando».
Durante l’ultima campagna elettorale ha parlato della sua battaglia contro la malattia. Ha avuto paura per sé stessa?
«Glielo dico con sincerità. No, non ho avuto paura per me stessa. Neanche un po’. Quando hai sulle spalle la responsabilità di un’intera regione, la paura non te la puoi permettere. Come non puoi permetterti di stare chiusa in casa. La politica regionale si fa andando in Regione, non stando a casa. E io, infatti, sono stata là, alla mia scrivania».
La vita — Nata a Cosenza il 28 dicembre 1968, si è trasferita a Roma, dopo il liceo, per studiare Giurisprudenza alla Sapienza. Ha iniziato la professione di avvocato con Tina Lagostena Bassi, poi nello studio di Vincenzo Siniscalchi e, infine, in quello di Cesare Previti.
La politica — La sua attività politica è iniziata nel Partito Socialista. Poi, nel 1994, è passata a Forza Italia ed è diventata una fedelissima di Berlusconi. Deputata dal 2001, è stata sottosegretaria al ministero della Giustizia, dal 2001 al 2006 e sottosegretaria al ministero del Lavoro nel 2013, governo Letta. Il 26 gennaio 2020 ha vinto le elezioni regionali con il 55,3% dei consensi ed è diventata la prima donna presidente della Calabria.
E’ morta Jole Santelli presidente della Regione Calabria. Il Corriere del Giorno il 15 Ottobre 2020. La notizia ha colpito e lasciato incredula l’intera regione, il mondo politico calabrese e quello nazionale. Al momento nulla faceva presagire che le condizioni di salute della presidente fossero compromesse o peggiorate sino a questo punto. Era stata proprio la Santelli a smentire le voci, qualche settimana fa, su un presunto aggravamento della sua malattia, giudicandole solo come “cattiverie” ed a riprova aveva preso parte a diversi appuntamenti di campagna elettorale in tutta la regione. Si è spenta questa notte nella sua casa di Cosenza Jole Santelli presidente della Regione Calabria, che è stata rinvenuta priva di vita vita questa mattina dal collaboratore domestico che ha immediatamente avvisato i familiari, ma ogni tentativo di soccorso è stato inutile. La Santelli avrebbe festeggiato il suo 52° compleanno il prossimo 28 dicembre, da tempo era stata colpita da un tumore, e le cause del decesso sono ancora da accertare, anche i primi rilievi medici parlano di un arresto cardiocircolatorio. La notizia ha colpito e lasciato incredula l’intera regione, il mondo politico calabrese e quello nazionale. Al momento nulla faceva presagire che le condizioni di salute della presidente fossero compromesse o peggiorate sino a questo punto. Era stata proprio la Santelli a smentire le voci, qualche settimana fa, su un presunto aggravamento della sua malattia, giudicandole solo come “cattiverie” ed a riprova aveva preso parte a diversi appuntamenti di campagna elettorale in tutta la regione. Nello scorso maggio, in un’intervista rilasciata al settimanale SETTE del Corriere della Sera, aveva dichiarato di non aver avuto mai paura per se stessa: “Quando hai sulle spalle la responsabilità di un’intera regione, la paura non te la puoi permettere”, aveva sottolineato, “Come non puoi permetterti di stare chiusa in casa. La politica regionale si fa andando in Regione, non stando a casa. E io, infatti, sono stata là, alla mia scrivania“. Quella scrivania dove è rimasta a lavorare praticamente fino a poche ore dal suo decesso. Proprio ieri Jole Santelli aveva partecipato a incontro istituzionali nella sua Cosenza, la città dove era nata il 28 dicembre 1968, e che che aveva lasciato solo per dedicarsi agli studi. Laureatasi in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, per poi diventare avvocato esercitando la sua professione in importanti studi legali . Precedentemente iscritta al Partito Socialista Italiano, la Santelli ha creduto fin dal 1994 nel progetto di Forza Italia diventando una “fedelissima” di Silvio Berlusconi. Deputata dal 2001 al 2020, è stata anche sottosegretaria al ministero della Giustizia con il governo Berlusconi dal 2001 al 2006 e nel 2013 con il governo Letta. e successivamente Presidente della Regione Calabria conquistando il 55,3% dei voti. Nella sua breve presidenza della Regione Calabria, Jole Santelli era andata più volte allo scontro con il governo Conte. Dapprima con un’ordinanza che riapriva già a maggio bar e ristoranti all’aperto, quindi prima del “via libera” del premier Conte. Un’ordinanza regionale che l’aveva portata immediatamente sotto il fuoco incrociato di critiche del Pd e del Movimento 5Stelle, nonostante fossero stati per primi proprio i dem locali a chiedere delle misure più morbide. Dopo pochi mesi, terminato il periodo di “lockdown”, con la questione degli sbarchi clandestini sempre più allarmante, mentre il governo Pd-M5S-LeU guidato dal premier Conte si dava al “gioco delle tre carte”, trasferendo i migranti dalla Sicilia, prima sulle navi quarantena, poi nelle altre Regioni, è proprio la Santelli a protestare per prima con una lettera che suonava quasi come un ultimatum a Conte: “Intervieni o blocco gli sbarchi”, un vero e proprio aut aut. “Il progetto intrapreso, il linguaggio nuovo e l’entusiasmo che lei rappresentava non finirà“, garantisce il suo vice, Nino Spirlì, che adesso prenderà le redini della Regione fino al nuovo voto, “È una grande responsabilità, continuerò il suo progetto, nella strada che lei ha tracciato e abbiamo condiviso, sarà ancora una amministrazione Santelli”. Commosso il ricordo di Berlusconi che in un lungo post sui suoi canali social ha manifestato il suo dolore per la tragica notizia. “Non aveva paura di nulla, neppure della malattia e della sofferenza“, dice Berlusconi, “Con profonda costernazione apprendo la tragica notizia della prematura scomparsa di Jole Santelli. Nessuna parola è adeguata ad esprimere il mio dolore e quello di tutti noi di Forza Italia. Jole lascia davvero un vuoto incolmabile nelle nostre anime“. Così il Presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, rende omaggio a Jole Santelli. “Era un’amica sincera, intelligente, leale, era una donna appassionata, una combattente tenace. Mi è stata vicina anche nei momenti più difficili. Non aveva paura di nulla, neppure della malattia e della sofferenza. Come pochi altri – prosegue Berlusconi – aveva saputo mettere nell’impegno politico generosità, intelligenza, cultura, aveva affrontato senza esitare sfide difficili in Parlamento, al Governo, in Forza Italia, fino all’ultima bella battaglia che l’aveva portata alla Presidenza della sua Regione. Jole rappresentava la speranza del riscatto di una terra che amava appassionatamente, l’idea di un Mezzogiorno che ha in sé stesso la dignità e la forza di essere protagonista del futuro, di guardare all’Europa e al mondo. Ai suoi cari, a tutti coloro che l’hanno conosciuta, stimata, amata voglio esprimere il mio cordoglio più sentito e più profondo. Il loro dolore è anche il mio“. Grande il cordoglio da parte del mondo della politica, sia quella locale che quella nazionale. “Un dolore profondo pervade tutta la comunità di Forza ItaliaUn dolore profondo pervade tutta la comunità di Forza Italia“, ha detto il vicepresidente azzurro, Antonio Tajani, “Perdiamo una amica, una grande donna, una protagonista della politica italiana, amata dal suo popolo calabrese al quale ha dato tutta la sua vita”.
“La Calabria e l’Italia ti abbracciano Jole, una preghiera per te e un pensiero alla tua famiglia, ai tuoi amici e a tutta la tua comunità“, scrive Matteo Salvini. “Siamo sconvolti dalla notizia della scomparsa improvvisa del presidente della Regione Calabria, Jole Santelli“, commenta Giorgia Meloni, “Ci lascia un amica, una donna coraggiosa, un politico fiero e orgoglioso delle sue idee, che ha combattuto tutta la vita per la sua terra e per offrire una occasione di riscatto alla Calabria”.
Anche il colonnello Sergio De Caprio, meglio noto a tutti come “Capitano Ultimo” che Jole Santelli aveva voluto al suo fianco come assessore all’ambieente ha voluto ricordarla: “Ci sono persone che fanno la differenza, ho visto la forza, la determinazione, l’eleganza, nel Suo modo di essere Donna e PRESIDENTE della #Calabria . La porto nel cuore. Lei combatte, Lei vive. Ultimo“.
“Una perdita dolorosa! La scomparsa di Jole Santelli è una ferita profonda per la Calabria e per le Istituzioni tutte. Il mio pensiero commosso e le più sentite condoglianze ai suoi familiari“. Così il premier Giuseppe Conte su twitter.
“La scomparsa di Jole Santelli ci ha colpito e addolorato. Era una donna tenace e appassionata, che ha combattuto a lungo. Alla sua famiglia e alla comunità che rappresentava, a tutti i suoi concittadini, vanno il nostro pensiero e la vicinanza dei Democratici”scrive su Facebook il segretario del Pd, Nicola Zingaretti.
“Una notizia che sconvolge tutti. La morte di Jole Santelli, eletta meno di un anno fa presidente della Regione Calabria, ci rattrista profondamente. La mia vicinanza alla sua famiglia, ai suoi cari, a chi l’ha sempre amata e la amerà per sempre”. ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Buona parte del mondo politico: rappresentanti istituzionali, politici, ma anche semplici cittadini, si stanno recando in queste ore a casa della governatrice della Calabria Jole Santelli. Una delle prime ad arrivare è stato il prefetto di Cosenza Cinzia Guercio. A casa della Santelli, in via Piave, nel centro di Cosenza, a portare le condoglianze alle due sorelle e ai familiari, numerosi politici regionali, tra i quali il vice presidente della Giunta Nino Spirlì – che reggerà la Regione fino al voto – ed il presidente del Consiglio regionale Domenico Tallini. Numerosi anche i semplici cittadini che hanno voluto rendere omaggio alla salma della Santelli. I funerali di Jole Santelli si svolgeranno domani pomeriggio alle 16.30 nella chiesa di San Nicola a Cosenza. La camera ardente sarà allestita nella stessa chiesa – che si trova nelle vicinanze del Comune – e sarà aperta alle 10.30.
È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli. Il Dubbio il 15 ottobre 2020. La governatrice da anni lottava contro il cancro. Annullata la conferenza Stato-Regioni. È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli. Aveva 51 anni. A confermarlo all’Italpress il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani. «Un dolore profondo pervade tutta la comunità di Forza Italia. Perdiamo una amica, una grande donna, una protagonista della politica italiana, amata dal suo popolo calabrese al quale ha dato tutta la sua vita», questo il messaggio del vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani. Proclamata il 15 febbraio 2020, da anni lottava contro il cancro. Secondo quanto si è appreso avrebbe avuto un malore nella sua casa a Cosenza, dopo una giornata di incontri politici a Cosenza. La presidente sarebbe morta per un’emorragia interna causata dalle patologie tumorali di cui soffriva da tempo, secondo quanto si è appreso da fonti mediche che hanno visto il corpo. È stata la sorella, questa mattina, a scoprire la sua morte.
Santelli, prima donna a ricoprire il ruolo di governatrice in Calabria, prima di diventare presidente della Regione è stata deputata. Avvocato di professione, con pratiche forensi negli studi di Tina Lagostena Bassi e di Cesare Previti, era stata eletta per la prima volta al Parlamento nel 2001, quando è diventata deputata con Forza Italia, partito nel quale milita dal 1994, ed era stata rieletta in ogni successiva tornata elettorale delle Politiche, per complessive cinque legislature. Negli anni ha anche ricoperto il ruolo di sottosegretaria al ministero della Giustizia dal 2001 al 2006, nei governi Berlusconi II e III, nonché quello di sottosegretaria al ministero del Lavoro e delle politiche sociali da maggio a dicembre 2013 nel Governo Letta. La Santelli, inoltre, aveva ricoperto anche il ruolo di vicesindaco e assessore al Comune di Cosenza nella Giunta guidata da Mario Occhiuto dal 28 giugno 2016 fino al 9 dicembre scorso, quando si era dimessa per le polemiche legate alla sua candidatura alle Regionali dopo che era tramontata la candidatura dello stesso Occhiuto. Alle Regionali era stata sostenuta da sei liste (“Jole Santelli presidente”, Forza Italia, Casa delle Libertà, Lega, Fratelli d’Italia e Udc): per lanciare la sua corsa alla presidenza della Regione, sono scesi in Calabria tutti i leader dei partiti di centrodestra, Silvio Berlusconi per la chiusura e, più volte, Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, appresa la morte di Santelli, ha sconvocato le Conferenze Stato Regioni e Unificata convocate per oggi in seduta straordinaria. Le Conferenze, chiamate a deliberare su provvedimenti ordinari, potrebbero essere riconvocate per domani. «Una perdita dolorosa! La scomparsa di Jole Santelli è una ferita profonda per la Calabria e per le Istituzioni tutte. Il mio pensiero commosso e le più sentite condoglianze ai suoi familiari», ha commentato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sui suoi profili social.
Dolore è stato espresso dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi. «Con profonda costernazione apprendo la tragica notizia della prematura scomparsa di Jole Santelli. Nessuna parola è adeguata ad esprimere il mio dolore e quello di tutti noi di Forza Italia. Jole lascia davvero un vuoto incolmabile nelle nostre anime. Era un’amica sincera, intelligente, leale, era una donna appassionata, una combattente tenace. Mi è stata vicina anche nei momenti più difficili. Non aveva paura di nulla, neppure della malattia e della sofferenza».
Cordoglio «per la prematura scomparsa di Jole Santelli, presidente della Regione Calabria», viene espresso dal ministro Peppe Provenzano. «Sono stati mesi di leale collaborazione istituzionale, pur nella diversità di idee politiche. Una donna forte e generosa. Mancherà», aggiunge, sempre su Twitter, il ministro per il Sud e la Coesione territoriale.
«Dolore, sconcerto e profonda tristezza – scrive invece il presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Stefano Bonaccini -. Subito dopo le elezioni del 26 gennaio, abbiamo lavorato con Jole nella gestione della drammatica situazione causata dalla pandemia da Covid-19. Ne ho apprezzato la determinazione e la responsabilità istituzionale che hanno caratterizzato la sua azione politica e amministrativa. Oggi la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome piange la perdita della prima donna presidente della Regione Calabria ed esprime il cordoglio profondo e la vicinanza a tutta la comunità calabrese».
«Sono vicina alla famiglia di Jole Santelli, una collega, un’amica, prematuramente scomparsa questa notte. Quello per la sua perdita è un dolore che ci accomuna tutti. La dedizione, il coraggio, l’amore per la sua terra, l’avevano portata ad essere la prima donna presidente della Regione Calabria. Mancherà ai suoi cari, mancherà a tutti noi, ma soprattutto mancherà a tutti i calabresi. Addio Jole», ha dichiarato Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia.
Jole Santelli ha dimostrato di essere una grande combattente. Lo scrive su Twitter Matteo Renzi, leader di Italia viva (Iv), commentando la notizia. «Un pensiero commosso in memoria della Presidente Jole Santelli – scrive Renzi -, una donna che ha dimostrato di essere una grande combattente. Le mie condoglianze più sentite alla famiglia, agli amici ed ai suoi colleghi di Forza Italia», conclude. «Andarsene a soli 51 anni, dopo aver lavorato per la tua gente, con il sorriso, fino a poche ore fa. La Calabria e l’Italia ti abbracciano Jole, una preghiera per te e un pensiero alla tua famiglia, ai tuoi amici e a tutta la tua comunità. Buon viaggio cara Jole», scrive il leader della Lega, Matteo Salvini. Cordoglio anche da parte di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia: «Siamo sconvolti dalla notizia della scomparsa improvvisa di Jole Santelli. Ci lascia un amica, una donna coraggiosa, un politico fiero e orgoglioso delle sue idee, che ha combattuto tutta la vita per la sua terra e per offrire una occasione di riscatto alla Calabria. Da parte mia e di tutta fratelli d’Italia voglio esprimere il più profondo cordoglio e vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari. Addio Jole, ci mancherai».
Addio Jole Santelli, politica di razza e amante della vita. L'ingresso in Parlamento a 32 anni, la pratica in avvocatura con due big del calibro di Tina Lagostena Bassi e Vincenzo Siniscalchi, la malattia affrontata con una grinta unica. Il racconto della governatrice della Calabria appena scomparsa. Marco Damilano su L'Espresso il 15 ottobre 2020. Io di Jole Santelli ricordo l'ingresso alla Camera, nel maggio 2001. Io giovane cronista dell'Espresso da poco arrivato a raccontare il Transatlantico, lei - mia coetanea - eletta deputata con Forza Italia, nel collegio di Paola. Aveva 32 anni, figurava nei ritratti immancabilmente come assistente di Marcello Pera e legale nello studio di Cesare Previti, come dire i suoi padrini politici, ma lei in realtà poteva vantare già una laurea in Legge, un diploma all'Istituto per gli studi legislativi, l'avvocatura. Aveva fatto pratica con due big, Tina Lagostena Bassi e Vincenzo Siniscalchi, stravedeva per Claudio Martelli e militava nei radicali, poi aveva incontrato Forza Italia, nel 1994, nella prima storica campagna elettorale di Silvio Berlusconi, e si era impegnata nel gruppo parlamentare. «Per un partito giovane come il mio il Parlamento è la scuola di selezione di nuove persone», mi aveva detto. La politica nel sangue: lo zio era stato un nome chiave della Prima Repubblica, il leader socialista Giacomo Mancini. Era stato il suo maestro e quando era entrata a Montecitorio le aveva dato un consiglio affettuoso: «Resta sempre te stessa, non farti trascinare dalle bufere». Berlusconi l'aveva nominata sottosegretaria alla Giustizia, sembrava l'inizio di una carriera travolgente. Una sera l'avevo vista scendere da un'auto blu di fronte all'hotel Plaza di Roma, con la mamma e la sorella Roberta, per la presentazione di un libro di Bruno Vespa, si era fatta fotografare sullo scalone e l'avevo presa in giro sul giornale. Ma lei non era il tipo da togliere il saluto a un giornalista malizioso e percepito come avversario politico: «Negli ultimi anni ho cambiato mestiere troppe volte. Ora spero di calmarmi. La politica è una rincorsa. Quando stai in alto puoi cadere». In quell'ottovolante spericolato e bugiardo che è la politica italiana, era diventata un mito per le deputate di Forza Italia, una roccia per tutte, soprattutto per le più giovani, e nel periodo più difficile, tutte messe in croce allo stesso modo e senza distinzioni, e una collega stimata da avversari e avversarie di tutti i partiti. Lì, su una poltrona di Montecitorio, a dare consigli, dispensare battute, una sigaretta dopo l'altra. Una professionista della politica, animale raro nella Seconda Repubblica del deserto delle appartenenze, la politica che era la passione per cui è vissuta fino all'ultimo momento. Simpatica, a tratti spudorata e mondana ma con una profonda umanità che richiamava rispetto. Era malata, ma ha affrontato l'ultima battaglia con la grinta che era il suo modo di stare al mondo. Prima l'elezione a presidente della regione Calabria, poi l'incubo covid. Con il peso interiore di una malattia di cui non puoi parlare con nessuno, perché la politica brucia tutto e non ti puoi dimostrare fragile, vulnerabile, non puoi rivelare solitudini, soprattutto se sei donna, in un mondo maschilista come quello che abita e comanda i partiti italiani, di destra e di sinistra. Confesso che in questi mesi ogni tanto mi capitava di pensarla e avrei voluto chiamarla. Mi capitava spesso di chiedere a chi la conosceva: «Come sta Jole?», da lontano, con riservatezza. E quando qualche giorno fa l'ho vista ballare in un video, nonostante le critiche, ho avuto uno strano e doloroso presentimento. Che fosse stato quello il modo di salutare tutti che aveva scelto Jole Santelli, politica di razza, amante della vita.
Da blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2020. Su Facebook un’attivista M5S ha scritto un post in cui festeggia per la morte della governatrice della Calabria Jole Santelli, scomparsa a soli 51 anni. “Evviva!!! Una mafiosa di meno!!!”, questo il post dell’attivista M5S riguardo la morte di Jole Santelli. Un post che è stato poi rimosso, mentre la pagine dell’attivista è stata oscurata da Facebook dopo le diverse segnalazioni fatte da molti utenti. Il post poi si concludeva con la frase: “Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio, ecc.ecc.”. A sollevare il caso è Monica Pietropaolo, attivista di Fratelli d’Italia e presidente del Circolo Giorgia Meloni presso il V Municipio di Roma. Il post in questione invece porta la firma di una attivista 5 stelle che su Facebook si presenta come “la prima attivista genovese dai tempi degli ‘Amici di Beppe Grillo’”. Il post è stato rimosso ma lo ha condiviso sulla sua pagina Fb la Pietropaolo, che all’agenzia Dire spiega: “Io non riesco a capire la cattiveria dimostrata da questa appartenente a M5s di Genova. Cattiveria totalmente gratuita e inutile, anche perché la Santelli non ha mai avuto a che fare con i mafiosi né tantomeno avuto mai procedimenti penali a suo carico. Detto questo io sono sempre per il discorso che il nemico politico si batte nelle urne e non si deve mai esultare per la morte di nessuno. Che esso sia del tuo stesso seme politico o d’altro”. “Premesso ciò – prosegue – se fossi nei rappresentanti politici del Movimento 5 stelle prenderei immediatamente le distanze e produrrei le scuse per colpa di questo soggetto che ritengo ignobile. Ma essendo loro di caratura politica sinistroide sono sicurissima che ciò non accadrà. Gioire per la morte di un essere umano è ignobile!”.
Ci va di mezzo anche l’Agesci. L’attivista M5S sul suo profilo tra le informazioni ha scritto “lavora presso Agesci gruppo Genova 14”. E così molti utenti stanno scrivendo proprio all’Agesci di Genova. L’Agesci gruppo Genova su Facebook si vede quindi costretta a fare questa precisazione: “Da questa mattina la Comunità Capi riceve tramite i canali social ingiurie e manifestazioni di sdegno e repulsione per alcuni post pubblicati da questa perona, la quale sul suo profilo – nonostante i nostri inviti a rimuoverlo – mantiene la dicitura ‘lavora presso Agesci gruppo Genova 14’. Questa persona nulla ha a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto pubblicamente prende le distanze sia dalle ideologie espresse dalla persona in oggetto sia dai contenuti da essa pubblicati”. (Fonte Facebook e Stretto Web).
L'odio dei 5 Stelle contro Jole Santelli, il post di Paola Castellaro: "Evvai, una mafiosa di meno". L'odio non si ferma nemmeno davanti alla morte, come dimostra Paola Castellaro, attivista 5 Stelle, con un post contro Jole Santelli a poche ore dalla sua scomparsa. Francesca Galici, Venerdì 16/10/2020 su Il Giornale. L'odio del web non si smentisce mai, nemmeno davanti alla morte. La scomparsa del governatore della Calabria, Jole Santelli, ha scatenato gli istinti più bassi di molti utenti del web che, si sono spinti ben oltre con commenti inutili e fuori luogo. Dalle pagine di satira fino ad attivisti politici, i messaggi contro la Santelli non si contano. Tra questi c'è un post di Paola Castellaro, che dopo aver pubblicato la sua gioia per la morte di una donna, è stata sommersa dalle critiche, al punto che non si è limitata a cancellare il commento, ha preferito sospendere il suo profilo di Facebook. "Evvai!!! Una mafiosa di meno!!! Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio ecc. ecc.", ha scritto Paola Castellaro. Parole violente e cattive come non mai, che fotografano una situazione fuori controllo nel nostro Paese. La donna si vantava di essere un'attivista del Movimento 5 Stelle, anzi, "la prima attivista genovese dai tempi degli 'Amici di Beppe Grillo'". Il suo attivismo politico è certificato anche da una candidatura alle amministrative del 2017 nel consiglio comunale con il Luca Pirondini per il Movimento 5 Stelle. Forse consapevole dell'errore commesso, o forse per evitare di continuare a essere sottoposta alla gogna mediatica per quanto scritto, Paola Castellaro ha preferito eliminare il suo profilo Facebook. Ma il web non perdona, rimane sempre una traccia di quanto scritto, tanto più quando si tratta di affermazioni di questo tenore. Inevitabile la polemica contro di lei, tanto che molti utenti adesso chiedono che vengano presi provvedimenti. "In merito a Paola Castellaro. Vi prego segnalate queste sue esternazioni alla scuola dove lavora. Mi sono presa la briga di cercare informazioni e ho scoperto che dovrebbe lavorare al liceo Parini di Genova", scrive Maura che si appella agli altri utenti: "Per cortesia spendere 5 minuti del vostro tempo per far sì che anche le parole d'odio e la cattiveria sui social possano aver conseguenze nella vita reale, andando oltre il credo politico". A dissociarsi dalla signora è anche il gruppo scout Agesci - Genova 14, che la Castellaro ha indicato come una delle sue sedi lavorative nel profilo Facebook. Per questa ragione, il distaccamento scoutistico ha ricevuto neumerosi insulti e inviti a prendere le distanze dalla Castellaro. "Questa persona non ha nulla a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto, pubblicamente, prende le distanze sia delle ideologie espresse dalla persona in oggetto, sia dai contenuti da essa pubblicati", si legge nel messaggio.
La commozione e il ricordo. Destra, sinistra e 5 Stelle: il dolore per la morte di Jole Santelli è di tutti. Aldo Varano su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. «A Berlusconi devo tutto» aveva una volta confidato Jole Santelli, Presidente della Regione Calabria. Non è un caso, quindi, che proprio dal Cavaliere siano venute le parole più emozionate e commosse che si staccano dalla marea di dichiarazioni emerse dalla notizia della sua morte improvvisa, a Cosenza nella notte tra mercoledì e giovedì. Per il leader di Fi «Jole lascia davvero un vuoto incolmabile nelle nostre anime»: non nelle nostre file, ma nelle anime. Preludio a momenti di confessione ancora più partecipati: «Mi è stata vicina nei momenti più difficili». Per poi concludere, riferendosi ai parenti e agli amici di Jole: «Il loro dolore è anche il mio». Un dolore privo di confini politici ha accompagnato la notizia della scomparsa. Sapevano tutti, perché Jole aveva avvertito pubblicamente tutti, dal suo tumore ai polmoni. Aveva capovolto il suo dramma di ex impenitente fumatrice facendone un punto di sfida e di forza, ma anche di speranza, spiegando a gran voce che, quando le avevano chiesto di guidare la Regione Calabria aveva prima preso il tempo necessario per “confrontarsi” col suo oncologo di fiducia sulla possibilità di accettare quella sfida. Solo dopo il via del medico aveva accettato. «Non ho mai nascosto la mia malattia – aveva poi aggiunto – ma non voglio che mi perseguiti». E usandola a favore della Calabria, una terra da dove tutti i malati di tumore che economicamente possono scappano verso Roma e Milano, aveva spiegato: «Io sono in cura al reparto di oncologia di Paola (a un tiro di schioppo dalla sua Cosenza, ndr). Da noi ci sono medici eccellenti». Nessun leader del paese è rimasto zitto. Cordoglio unanime: dall’estrema destra all’estrema sinistra, 5s compresi. Così la presidente della regione Calabria ha costruito un’unità politica che molto raramente s’è manifestata nel nostro paese. Nel mare delle dichiarazioni, non solo politiche, è possibile cogliere perle che non t’immagini. Maria Falcone da Palermo, per fare un esempio, ha espresso dolore dopo avere apprezzato di Jole «il garbo e la dolcezza d’animo. Personalmente – ha aggiunto la sorella di Giovanni Falcone – ho avuto modo in molte occasioni di conoscerne, oltre alle doti umane, la sensibilità, la passione civile, l’impegno nelle battaglie per la legalità e l’amore per la sua Calabria. La ricorderemo con affetto», ha concluso. Santelli era arrivata a Berlusconi attraverso un percorso tutto calabrese che s’era incontrato con la complessità della politica italiana ai tempi della nascita di Fi. A Cosenza, la città del socialista Giacomo Mancini, giovanissima, aveva militato nel Psi. Da lì, finiti gli studi alla Sapienza, era entrata in contatto, fino a entrare nel suo studio, con Tina Lagostena Bassi “l’avvocata delle donne”, femminista della prima ora, poi deputata di Fi. Il rapporto tra Jole e Fi, però, si sarebbe intrecciato nuovamente con la Calabria. Calabrese, in quel tempo, era l’avvocato di fiducia di Berlusconi, si chiamava Previti e diventerà ascoltatissimo consigliere politico del Cavaliere nonché ministro della difesa (Fi e B. non riuscirono a farne il ministro della Giustizia come avrebbero voluto per meglio fronteggiare il conflitto coi giudici). È nello studio Previti che arriva Jole Santelli: è calabrese, brava, giovane, carica di passione politica e determinazione. Nel 1994 Jole, che ha 25 anni, passa del Psi a Fi, una scelta che viene fatta da molti socialisti. Diventerà presto parlamentare, sottosegretaria alla Giustizia nel secondo e terzo governo Berlusconi (vicinissima alla postazione strategica in cui Berlusconi aveva destinato Previti, e quasi sua sostituta) e poi farà parte del governo Letta (uno dei fondatori del Pd) come sottosegretaria al Lavoro. Alla presidenza della regione Calabria Santelli, con ormai venti anni di parlamento alle spalle, era arrivata per combinazione e senza averlo mai chiesto. Il Cdx calabrese si era incartato sulle candidature e a quel punto Berlusconi aveva calato l’asso riducendo tutti al silenzio. Era proprio una persona speciale Jole Santelli. Controprova: le Regioni esistono da mezzo secolo e quindi sono stati eletti fino ad oggi in Italia circa 200 consigli regionali. Le donne presidente sono state fino a oggi solo tre e Jole è stata una di loro.
E’ morta Jole Santelli. Redazione il 15 Ottobre 2020 su culturaidentita.it. Jole Santelli è deceduta poche ore fa: la Governatrice della Regione Calabria, malata da tempo di tumore, si è spenta a causa di un arresto cardiocircolatorio. Jole Santelli aveva 52 anni ed era presidente della Regione Calabria dal 15 febbraio 2020. Deputata dal 2001 al 2020, è stata sottosegretaria di Stato al Ministero della Giustizia dal 2001 al 2006 nei governi Berlusconi II e III, nonché sottosegretaria al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali da maggio a dicembre 2013 nel Governo Letta. “Resto sgomento da questa improvvisa morte. Jole, malgrado la malattia, aveva affrontato con coraggio la campagna elettorale vincendola. CulturaIdentità è vicina alla sua famiglia” (Edoardo Sylos Labini, editore di CulturaIdentità). Perdiamo una grande Donna, che ha dedicato la sua vita per la politica e la Calabria. Il suo essere prima donna Presidente ha rappresentato la voglia di cambiamento radicale dei calabresi. Non perdiamo un Presidente, perdiamo un esempio dell’essere calabrese onesto e genuino dalle alte doti culturali. Sono convinto che rimarrà nei cuori di tutti i calabresi. Perdiamo la presidente guerriera, colei che ci ha insegnato a combattere senza sosta fino alla fine. (Pasquale La Gamba, responsabile regionale di CulturaIdentità) Per tributarne la memoria pubblichiamo l’intervista che la Governatrice aveva concesso a CulturaIdentità in prossimità delle ultime elezioni regionali (Redazione) Jole Santelli, cinquant’anni, sarà la candidata del centrodestra alle elezioni regionali in Calabria. Forzista della prima ora e per due volte sottosegretario al Ministero della Giustizia nei governi Berlusconi, oggi è deputata eletta nella circoscrizione di Paola, provincia di Cosenza.
Onorevole Jole Santelli, quali saranno le priorità del suo programma politico?
«La Calabria eredita un abbandono sistematico di cui la politica deve assumersi parte delle responsabilità. Non è stato sempre facile scardinare diffidenze millenarie e speranze passive del popolo calabrese. E, questa mancanza, ha causato mali peggiori dell’umile ignoranza; mali che hanno figliato il malaffare e la guerra allo Stato. Per questa regione dal- la plurisecolare dignità voglio puntare su quattro colonne portanti: Ambiente, Innovazione, Agricoltura, e, in unico blocco, Cultura e Turismo».
Veniamo alla cultura: in Calabria una componente importante è quella collegata all’arte sacra.
«Già! La Calabria, prima che “produttrice” e ospite di Arte Sacra, è terra di Santi. Dai primi Santi del Cristianesimo, fino al primo degli “europeisti”, San Francesco di Paola. Per quanto riguarda le opere, santuari, basiliche, statue e dipinti di pregevolissimo valore arricchiscono la fede Cristiana. Ma non dimentichiamo che, a Bova Marina, sono presenti anche i resti di una delle prime sinagoghe ebraiche».
La Calabria, culla della civiltà magno-greca, ha un patrimonio storico-archeologico di altissimo livello, ma ancora poco valorizzato: quali iniziative ha intenzione di mettere in campo?
«Non solo turismo di rientro o mordi e fuggi. C’è la necessità di inserire la Calabria nei grandi circuiti del turismo mondiale, sfruttando i moderni mezzi di informazione. La Calabria, che detiene oltre il sessanta per cento del patrimonio culturale e identitario di tutto il Sud Italia, non è considerata per ciò che rappresenta: un forziere colmo di tesori. Una buona occasione per arricchire le menti e le coscienze di chi viene a visitarci: finora solo enogastronomia e mare. Un po’ pochino, direi».
Cosa si può fare per tutelare i beni archeologici?
«Lavorare di concerto con governo centrale, Unione Europea e aprirsi ai privati. Con un buon matrimonio fra pubblico e privato, con la partecipazione attiva del mondo dell’associazionismo, e con la collaborazione di fondazioni e singoli cittadini, il risultato finale sarà un benessere diffuso e una tutela accurata, un aumento di possibilità di lavoro e un migliore impiego di forze e disponibilità. Io ci credo e farò di tutto per coinvolgere tutta la migliore gente di buona volontà. Ovunque essa sia».
Le minoranze etnico-linguistiche calabresi attendono da tempo risposte. È la volta buona?
«Ogni goccia di sangue calabrese ne contiene almeno una ventina che rappresentano i popoli che in questa terra hanno trovato ospitalità o ci sono arrivati con vigore e prepotenza. Viviamo in una terra che è un molo d’attracco naturale nel cuore del Mediterraneo e siamo gente ospitale. Fino a oggi, solo convegni e selfie. Con noi, le Identità (non amo il termine minoranze) saranno dignitosamente rappresentate. Non considerate animali da circo, da esibire come inutile fiore all’occhiello».
Morte di Jole Santelli, sognava la fabbrica di speranza per i giovani, il lavoro e il futuro. Giovanni Minoli su Il Quotidiano del Sud il 16 ottobre 2020. È morto un capo. Forte, gentile e visionario. Per me che non la conoscevo è stato un incontro fulminante con una persona che sprigionava pazzia visionaria e concretezza. C’era in lei la forza e la velocità che forse oggi si capisce da dove venivano. Dalla certezza che il tempo era poco per realizzare il cambiamento della sua terra che tanto amava. Sognava ad occhi aperti. Per quanto mi riguarda aveva in testa che avrei potuto aiutarla a realizzare il suo sogno di trasformare la sua terra, i suoi talenti, la sua fantasia in un progetto di un lavoro proiettato nel futuro come quello della fiction di lunga serialità. Mi ha detto «fai come hai fatto a Napoli con un Posto al Sole a Palermo con Agrodolce». La fabbrica del futuro è quella della fantasia al potere che racconti di una terra dura e infelice e le grandi storie che la abitano. Mi diceva «voglio che la mia legislatura sia segnata da questa fabbrica di speranza per i giovani, per il lavoro e per il futuro». Forse sapeva di avere il destino segnato e voleva affrontarla con speranza, gioia e progetto. Ciao Jole.
Il ricordo. Il ricordo di Jole Santelli, e di quando D’Alema andò a stringerle la mano. Paola Sacchi su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. «Pasionaria? Più giusto definirla una guerriera. Jole guerriera lo era davvero». Giovanbattista Caligiuri, detto Gegè , ex presidente della Regione Calabria, che fu anche coordinatore regionale di Forza Italia, uno dei 27 uomini azzurri del Presidente, Berlusconi, che da Publitalia misero in rampa di lancio FI nel ‘94, ex senatore, è stordito, come sorpreso. Perché una “guerriera” così non deve morire. Tanto più a soli 51 anni. Gegè , da sempre molto vicino a Jole e al Cav, sapeva da tempo che la malattia della ex presidente della Calabria, sua successora a distanza di tempo, era molto più grave di quanto la “guerriera” desse a vedere : «I medici le dettero l’ok per la campagna elettorale e il nuovo ruolo di governatrice, perché Jole si era ripresa bene. Aveva fatto scrupolosamente tutte le cure, faceva costanti controlli. Poi, non mi chiedere cosa sia accaduto, sono sconvolto…». Da inviata di politica parlamentare di lungo corso, prima a L’Unità, poi a Panorama del Gruppo Mondadori, con Jole io non avevo solo un rapporto professionale, ma anche di amicizia e affetto. Cementati da un sentire comune sul garantismo, il socialismo liberale, il ricordo di Bettino Craxi. Jole aveva anche una parentela con Giacomo Mancini. Caligiuri: «Jole era liberale e socialista. Ovvero uno dei simboli di quell’eredità politica che Berlusconi ha saputo raccogliere dentro Forza Italia». Jole socialista, Gegè democristiano, un esempio di quell’amalgama creato dal Cav con le forze politiche del pentapartito spazzato via dalla “ghigliottina” del ‘92. Fu Jole, avvocata preparatissima, formatasi da ragazza, dopo la laurea, nell’ importante studio romano di Cesare Previti, a farmi conoscere meglio negli ultimi anni 90 il professor Marcello Pera, liberale al cubo, maggior studioso italiano di Karl Popper. Pera non era ancora Presidente del Senato, era responsabile Giustizia di FI e Jole era la sua assistente. Ricordo una sera a cena noi tre in un ristorante vicino a Palazzo Madama. Rivelai a loro, come liberandomi da un’ angoscia, che ero andata in forma del tutto privata, ero ancora inviata dell’Unità, a trovare Bettino Craxi a Hammamet. Che ero indignata e preoccupata per le sue condizioni. La mattina di ottobre 1999 in cui dal televideo di casa vidi la notizia che Craxi era stato portato in ospedale, prima cercai Jole, non la trovai, poi chiamai direttamente il senatore Pera: «Ho visto il presidente Craxi solo un mese fa… Senatore la prego, dica, faccia qualcosa perché sia salvato». Poco dopo l’agenzia Ansa batté la dichiarazione di Pera. Quando Jole nel 2001 entrò in parlamento, candidata alla Camera dallo stesso Caligiuri, nel collegio di “Paola 2”, e divenne Sottosegretaria alla Giustizia del secondo governo Berlusconi ne fui felice. Era preparatissima, se lo meritava davvero. Giovane e bella, quanti veleni sul suo conto. Ma lei ci rideva. Era rimasta la ragazza di quella sera a cena con il senatore Pera e me. Con me si è sempre comportata, anche quando ebbe un altro ruolo da sottosegretaria nel governo di larghe intese di Enrico Letta, come la Jole di sempre. «Ciao, Paoletta» e sempre trovava un attimo per sedersi e parlare sui divanetti di Montecitorio. Mai un gossip, sempre ragionamenti in generale sulla situazione politica, sulla giustizia, il suo rovello, arguti, illuminanti per una cronista. Ricordo un giorno in cui Massimo D’Alema andò a stringerle la mano mentre lei parlava con me. Le disse: «Grazie per avermi difeso», dandole di fatto atto della sua obiettività e civiltà con gli avversari politici. Dopo la malattia, le chiesi alla buvette: «Come va?». Lei : «È un cancro, però il mio compito è quello di stare qui, lavorare». E fece spallucce. Sorrise: «Tanto, Paole’, e chi ci ammazza…». L’ultima volta al telefono: «Ciao presidente Jole o preferisci governatore?». Lei : «Jole e basta». Jole che si scontrò con il governo Conte per esser stata tra i primi a far rimettere tavoli all’aperto nei bar della sua Calabria molto meno colpita dal Covid che altrove. Un direttore di giornale, molto zelante, le dette in tv dell’irresponsabile, senza mai chiamarla presidente, come invece avrebbe fatto con un uomo governatore. Ma la guerriera non si scompose.
"Ciao Jole, grande donna. Eri abituata a lottare tutti i giorni". In Calabria, l'ultimo saluto alla presidente Santelli. Commozione durante la funzione nella chiesa di San Nicola con il premier Conte, la ministra Lamorgese e la presidente del Senato Casellati. Palloncini colorati dei giovani di Forza Italia. Il cartello: "Gli eroi devono essere celebrati in vita non solo quando non ci sono più". Alessia Candito su La Repubblica il 16 ottobre 2020. Un lungo applauso per salutare l'arrivo in chiesa questa mattina, un altro quando il feretro ha lasciato la piazza, diretto alla Cittadella regionale dove è stata allestita una camera ardente. Cosenza ha detto addio alla presidente Jole Santelli, morta improvvisamente nella notte tra mercoledì e giovedì per un malore, con un funerale celebrato in forma ristretta nella centralissima chiesa di San Nicola. Non la più grande, né la più imponente della città, ma di certo la più vicina a quel Comune di cui Santelli è stata per lungo tempo vicesindaco. Uno dei tanti incarichi ricoperti nel corso di una vita dedicata alla politica e alle istituzioni. "Era una grande donna dalla grande determinazione" dice ai familiari di Santelli il premier Giuseppe Conte al termine della funzione. E poi su Facebook scrive "Una donna schietta, autentica, innamorata della sua terra, la Calabria. Appena venne eletta presidente della regione mi dichiarò subito la volontà di voler collaborare con il governo, con massima lealtà nell'interesse dei suoi conterranei. E così ha fatto". Per essere presente, il premier ha volato da Bruxelles e ha stravolto la sua agenda. E a Cosenza arriva insieme alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese, che piange "non solo la donna delle istituzioni, ma l'amica" Jole Santelli "una persona eccezionale che ha lavorato per questa terra con tutta la passione e la determinazione. Presenti anche il vice presidente della Camera, Ettore Rosato e la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che ricorda una delle ultime conversazioni. "Le ho chiesto se avesse paura del Covid mi ha detto di no perché era abituata a lottare tutti i giorni con la sua malattia" rivela. Ma a salutare la presidente di Regione Calabria, c'era anche lo stato maggiore di Forza Italia, l'ex presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, il senatore Maurizio Gasparri, una delegazione di parlamentari azzurri, tutta la Giunta regionale, rappresentanti di tutta la maggioranza che ha sostenuto la sua amministrazione in Regione. Al funerale di Jole Santelli, si sono presentati tutti. "Jole ha fatto un miracolo, ha radunato qui tanti rappresentanti istituzionali. Grazie, e che sia un incoraggiamento affinché la vostra presenza sia di speranza e di sostegno, che ci sia speranza, conforto, vicinanza. Ne abbiamo bisogno", ha detto nel corso della sua omelia monsignor Francesco Nolé, l'arcivescovo di Cosenza-Bisignano. "Mancano gli educatori alla legalità - ha sottolineato - e forse anche noi dobbiamo fare mea culpa. Dobbiamo impegnarci tutti affinché questo stato di diritto possa far esprimere le tante belle potenzialità della Calabria. Dobbiamo farlo per dare speranza al futuro. E questo il miglior modo di onorare Jole". Nonostante le restrizioni, la chiesa di San Nicola - a un passo dal Comune di cui Santelli è stata vicesindaco - è piena. "Per i funerali è ancora in vigore il dpcm del 18 maggio, le presenze dipendono dalla capienza" spiega un sacerdote che, lista alla mano, permette o meno l'accesso alla chiesa, con accanto gli uomini del Questura. Tutti in borghese, ma presenti in forze. La piazza, tutta transennata, non si riempie. I giovani di Forza Italia rimangono fuori e decidono di salutare Santelli con tanti palloncini colorati, lasciati volare via mentre la bara esce dalla chiesa. Due ragazzi invece mostrano un cartello "Gli eroi devono essere celebrati in vita non solo quando non ci sono più. Grazie Jole, Conte aiutaci". Non sono organizzati, non fanno politica giurano, il loro, dicono, è stato solo un gesto spontaneo. Come loro, diverse centinaia di cittadini si sono assiepati dietro le transenne in attesa della fine della funzione. Ma non c'è folla, niente assembramenti. Nessuno è senza mascherina. Oggi la Calabria tocca il suo massimo record di contagi giornalieri - 102, quasi il 10% dei tamponi effettuati - e ormai anche in una regione sostanzialmente risparmiata dalla prima ondata della pandemia inizia a esserci paura. Forse per questo anche in mattinata, non era molta la gente comune che ha raggiunto la chiesa di San Nicola per un ultimo omaggio. Attorno alle 10.30, il silenzio ha accompagnato la bara della governatrice Jole Santelli mentre usciva per l'ultima volta dalla sua casa di Cosenza, un silenzio quasi surreale l'ha accolta nella piazza della chiesa di San Nicola. Neanche una voce, non un brusio, solo un applauso ha salutato il feretro di Santelli, atteso in cima alle scale dal sacerdote e dal sindaco Mario Occhiuto, di cui per lungo tempo è stata vice, e che oggi ha proclamato il lutto cittandino. A portare a spalla la bara c'era anche Sergio De Caprio, il capitano Ultimo da lei chiamato in Giunta come responsabile regionale dell'Ambiente. Stessa cosa hanno chiesto di fare prima di lui, gli assessori regionali Gianluca Gallo, Francesco Talarico e Fausto Orsomarso e il consigliere Pierluigi Caputo, che hanno accompagnato il feretro all'uscita da casa. A seguire il corteo, Sandra Savaglio, amica prima che assessore di Santelli, occhiali scuri e viso provato. La sua collega Domenica Catalfamo, difesa dalla governatrice anche quando è stata travolta da un'imbarazzante indagine. E Nino Spirlì, da ieri presidente facente funzioni di Regione Calabria. Più la famiglia, gli amici più intimi. E poi c'è chi avrebbe voluto esserci, ma non ha potuto come la capogruppo di Fi alla Camera, Maria Stella Gelmini, che ha scoperto questa mattina di essere positiva al coronavirus. Mentre il fondatore della Lega, Umberto Bossi, la ricorda così: "Jole, la tua gentilezza lascia un vuoto".
Morte Jole Santelli, commozione e applausi per l’ultimo saluto a Cosenza. Il Quotidiano del Sud il 16 ottobre 2020. Commozione, fiori e lunghi applausi hanno accompagnato l’ultimo saluto a Jole Santelli nella sua Cosenza. I funerali della presidente della Regione Calabria, scomparsa ieri all’età di 51 anni, sono stati celebrati nella chiesa di San Nicola della città bruzia. Oltre a familiari, parenti e amici della governatrice, erano presenti anche la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, rappresentanti del Parlamento, delle istituzioni regionali e locali. «Quello che viviamo oggi è un momento di sconforto per la morte di Jole Santelli”, ha detto nella sua omelia l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, monsignor Francesco Nolè, che ha celebrato le esequie assieme all’arcivescovo emerito di Cosenza-Bisignano, mons. Salvatore Nunnari, e all’eparca di Lungro, mons. Donato Oliverio. “A noi fedeli – ha aggiunto – non rimane che ringraziare questa persona per il bene che ha fatto durante la sua vita». «Jole è stata una donna intelligente, preparata e determinata», ha sottolineato l’arcivescovo ricordando alcuni episodi: «l’ultima volta che parlammo – ha spiegato – ho avuto la conferma di quanto amasse la sua terra, la sua città, con un’umiltà capace di accogliere e di comprendere chiunque si trovasse in difficoltà». Per l’arcivescovo, la governatrice lascia come “testamento e testimonianza” la «dignità, la riservatezza e la sua delicatezza, non cedendo mai alle provocazioni. Ma anche il coraggio con cui ha affrontato la malattia, non facendola mai pesare sul suo lavoro e sulla sua attività amministrativa. La malattia, diceva, ti fa conoscere la libertà e ti spinge a non avere paura più di niente». Per Nolè, Santelli «ha fatto un miracolo» perché ha «radunato tanti rappresentanti delle istituzioni. Sia un incoraggiamento – ha aggiunto -, sia una presenza di speranza». «Un grande dolore per una grande donna», ha detto la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, poco prima di entrare in chiesa. «L’ho sentita – ha continuato – anche di recente. Quando le ho chiesto se avesse paura del Covid mi ha detto di no perché era abituata a lottare tutti i giorni con la sua malattia». «Oltre che una donna delle istituzioni – ha dichiarato il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese – era un’amica. Un grandissimo dolore e dispiacere di aver perso una persona eccezionale che ha lavorato per questa terra con tutta la passione e la determinazione». Rose rosse ad accompagnare il feretro e tanti fiori sui gradini esterni della chiesa. In piazza, al di là delle transenne, tante persone hanno atteso l’uscita della salma per dare l’ultimo commosso addio alla presidente della Regione. Un lungo applauso e poi il silenzio. Domani sarà allestita una camera ardente in Cittadella regionale a Catanzaro dove è prevista anche la benedizione da parte del presidente della Cec e arcivescovo di Catanzaro-Squillace, monsignor Vincenzo Bertolone. Nella sede della Regione, quindi, i calabresi potranno dare l’ultimo saluto alla governatrice.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 16 ottobre 2020. Mille foto: ma non ce n'è una del periodo dal 1996 al 2000, quando era, prima di altro, una bellissima ragazza mediterranea. Ma quel «prima di altro» in realtà non esisteva, esisteva colei che in quegli anni ho conosciuto all'ufficio legislativo del Senato e poi della Camera, ogni tanto in qualche ristorante, ogni tanto, la sera, a casa sua. Parlava. Parlava sempre. Di Cesare Previti, di Marcello Pera, di Gaetano Pecorella, e poi cose di procedura penale, diritto, principi, lei che aveva lavorato con Tina Lagostena Bassi e Vincenzo Siniscalchi, una passione da militante radicale (in realtà socialista) sballottata ai quattro angoli della prima anarchia politica berlusconiana. E parlava. Parlava sempre, non staccava mai - mentalmente - ed era il suo limite e il suo punto di forza. Nel momento più improbabile e rilassato - all'apparenza - era capace di tirar fuori una cosa su Marcello Pera. È chiaro che la sfottevamo. Sentivi la sua mente che rullava. Non si sarebbe fermata mai, lei «nubile e senza figli» in un Paese dove «tu non sai cos' è Cosenza». Dal 2000 non l'ho vista più, solo sentita ogni tanto al telefono, dove parlava (e parlava) di tutto ciò che era «prima di altro», e che nel tempo l'ha fatta conoscere come la combattente che era, tenace, instancabile, impossibile da abbattere, superiore all'uomo: come sanno essere le donne inferiori per nascita e tradizione. A parte la ferocia del tempo e della malattia, vista da lontano, non è mai cambiata. «Prima di altro» c'era sempre qualcos' altro da fare, e subito. E siccome il merito e la fortuna ogni tanto s' incontrano - persino in Italia - era diventata presidente della Calabria proprio per questo: perché era giusto. E così ora, prima di altro, c'era la Calabria. E solo dopo di questo, per esempio, c'era altro, tipo la banale mortalità. Adesso siamo tristi perché anzitutto, per noi, è morta. Ma lei non lo sa. È morta da viva. Ce l'ha fatta: ha vissuto dopo di altro.
L'ultimo saluto alla Santelli "Ha illuminato la Calabria". Funerali a Cosenza, presenti Conte, Lamorgese, Casellati Vergogna 5s, un'attivista la insulta: «Una mafiosa in meno». Fabrizio De Feo, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. Nonostante le restrizioni la chiesa di San Nicola è piena. Un sacerdote, lista alla mano, controlla l'accesso alla chiesa. Il feretro è sulle spalle di Sergio De Caprio, il capitano Ultimo voluto come assessore all'Ambiente, degli assessori Gianluca Gallo, Francesco Talarico e Fausto Orsomarso e del consigliere Pierluigi Caputo. A seguire il corteo, Sandra Savaglio, assessore all'Istruzione, che da astrofisica la descrive così: «È stata come una cometa che per poco tempo ha illuminato il nostro cielo buio». È un addio commosso e composto quello che Cosenza tributa a Jole Santelli. Un abbraccio plurale in cui si respira una partecipazione non di circostanza. Ci sono le istituzioni con Giuseppe Conte che rende omaggio a «una donna schietta, autentica, innamorata della Calabria», la ministra dell'interno Luciana Lamorgese, il vice presidente della Camera Ettore Rosato, il sindaco Mario Occhiuto, la presidente del Senato Elisabetta Casellati che racconta: «Quando le ho chiesto se aveva paura del Covid, mi ha detto di no perché era abituata a combattere con la sua malattia». Ci sono le sorelle Paola e Roberta così come i nipoti con i quali aveva un legame speciale. E tanti parlamentari, da Antonio Tajani a Maurizio Gasparri ad Anna Maria Bernini che in Senato qualche ora prima aveva ricordato in lacrime l'amica: «È stata una ventata d'aria fresca per la Calabria, un privilegio avere conosciuto una donna straordinaria». Unica sgradevole nota stonata il post di un'attivista grillina che esulta sui social: «Evviva!!! Una mafiosa di meno!!!». È ai rappresentanti istituzionali che si rivolge l'arcivescovo Francesco Nolè: «Jole ha fatto un miracolo, ha radunato qui tanti rappresentanti istituzionali. Mancano gli educatori alla legalità, e forse anche noi dobbiamo fare mea culpa. Jole ci lascia la dignità, la riservatezza e la sua delicatezza. La malattia, diceva, ti fa conoscere la libertà e ti spinge a non avere paura più di niente». Sono i ricordi delle persone che l'hanno vissuta da vicino l'attestato più grande. Catia Polidori che due mesi fa aveva condiviso con lei l'ultima vacanza - naturalmente in Calabria - racconta: «Era una forza della natura, la sua gioia di vivere era contagiosa. Viveva la malattia come la sua fede con molta discrezione e non faceva mai pesare la sua stanchezza». Ma ci sono anche attestati inattesi. Umberto Bossi scrive: «Jole, la tua gentilezza lascia un vuoto». E Giovanni Minoli, commissario della Calabria Film Commission, regala una riflessione affettuosa: «È morto un capo. Forte, gentile. Per me che non la conoscevo è stato un incontro fulminante con una persona che sprigionava pazzia visionaria e concretezza. Sognava ad occhi aperti. Aveva in testa che avrei potuto aiutarla a realizzare il suo sogno di trasformare la sua terra, i suoi talenti, la sua fantasia in un progetto proiettato nel futuro come quello della fiction di lunga serialità. Forse sapeva di avere il destino segnato e voleva affrontarlo con speranza, gioia e progetto». E poi il pensiero delle sorelle. «Perché noi siamo 3 sorelle e sempre lo saremo», scrivono Paola e Roberta. «Il nostro patto - scrive Paola - è quello di supportarci, di coccolarci e di amarci immensamente. Joletta, noi ti amiamo alla follia e siamo grate di averti come sorella. Certo mi hai fatto questo brutto scherzo di non aspettarmi, ma ci sarà una ragione, perché ogni tua azione verso di noi era frutto di amore e protezione! Joletta nostra, tu sei e sarai sempre la regina dei nostri cuori».
Morte di Jole Santelli, ora la Calabria ha scoperto che aveva una grande leader. I tanti omaggi nazionali danno la cifra del peso politico della Santelli. Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 17 ottobre 2020. Accade sempre così. Raramente si riescono ad inquadrare bene le cose quando si hanno sotto gli occhi. Tutti i calabresi conoscevano la storia politica di Jole Santelli, i suoi vent’anni in parlamento, i ruoli di sottogoverno, la sua dedizione a Forza Italia, a Berlusconi. Ma in pochi avevano contezza del ruolo che recitava nello scacchiere politico nazionale. La Calabria aveva un leader politico di peso, ma non ce ne eravamo accorti. “Colpa” della Santelli, del suo modo di essere. Colpa di Jole, come la chiamavano tutti e come lei pretendeva di essere chiamata «Continuerò ad essere Jole per tutti», disse la notte del suo trionfo elettorale alle scorse regionali. Trattava tutti allo stesso modo dai leader politici nazionali al bottegaio sotto casa, a noi cronisti di provincia, lei che aveva rapporti confidenziali con le grandi firme nazionali. Affrontava tutti con quel suo sorriso che non aveva nulla di amaro o malinconico, era privo di quella venatura di tristezza che potesse farti anche solo intuire la battaglia che stava combattendo contro il male oscuro che la stava divorando. Aveva un’energia contagiosa e fino al suo ultimo giorno ha coltivato tenacemente uno sguardo sul futuro. Invece ieri i calabresi hanno capito. La venuta in Calabria per i funerali del presidente del consiglio Giuseppe Conte, della presidentessa del Senato Casellati e del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese ne è plastica testimonianza. Il paragone può essere irrispettoso e ce ne scusiamo, ma nemmeno ai funerali di Giacomo Mancini o Riccardo Misasi scesero a Cosenza cariche così alte dello Stato. Per la Santelli ci sono stati riconoscimenti unanimi con il minuto di silenzio osservato sia alla Camera dei Deputati sia al Senato, con l’omaggio resole in sede di conferenza Stato/Regioni, il CorSera che ha scelto di trasmettere in diretta streaming i funerali e il profluvio di dichiarazioni da parte praticamente di tutto il mondo politico, nessuno escluso. Certo in parte avrà contribuito le circostanze di questa morte che hanno sorpreso una giovane donna in età troppo precoce. Ma questo spiega solo in parte la risonanza che ha avuto la dipartita della prima presidente donna della Calabria. La verità è che la Santelli aveva la stoffa e il carisma del leader, aveva una grande capacità di intessere relazioni anche fuori dal suo schieramento politico e dalla politica con rapporti stretti che aveva allacciato con la mondanità romana ma anche pezzi importanti dello Stato nella magistratura e nelle forze dell’ordine. Credeva molto nella complicità femminile in nome di quella che lei stessa definiva «la grande concretezza delle donne». Così fra i tanti omaggi ricevuti sicuramente significativo è quello delle donne di centrosinistra che l’hanno ricordata con rispetto e senza ipocrisia. Aveva un carisma di cui hanno parlato firme del calibro di Marco Damilano o Tommaso Labate. Sapeva aggregare, coinvolgere. Forza Italia in Calabria era sostanzialmente lei con i suoi pregi e i suoi difetti. Era lei che ne disegnava le traiettorie del futuro. Quel futuro che oggi è tutto da decifrare e che comunque andrà avanti; però senza Jole, senza le sue sigarette, la sua politica, la sua voglia di vivere.
Morte di Jole Santelli, l'omaggio del consiglio regionale: «Hai dimostrato che la Calabria può cambiare». Il Quotidiano del Sud il 17 ottobre 2020. «Da oggi, nel nome tuo, Jole Santelli, questo grande palazzo è davvero e per sempre la casa di tutti calabresi». Così, nel giorno della camera ardente allestita in Cittadella, il presidente del Consiglio regionale, Domenico Tallini, ha ricordato il presidente della Regione, Jole Santelli. Tallini ha sottolineato le capacità diplomatiche della prima donna alla guida della Calabria: «Jole, hai compiuto un vero e proprio miracolo, la tua più grande opera: quella di unire tutto il nostro popolo, cancellando d’un colpo divisioni e lacerazioni, contrapposizioni e conflitti». Il presidente Tallini ha proseguito descrivendo lo stato d’animo di una comunità intera: «Il dolore acuto e composto della nostra gente, dalle cime del Pollino al mare dello Stretto, è stato in grado di dare il senso dell’unità e dell’identità, quel senso che purtroppo troppo spesso è mancato, segnando negativamente la storia della Calabria. Non ci sono cosentini o catanzaresi, reggini, crotonesi e vibonesi a piangerti, amata presidente. Ci sono solo i calabresi, addolorati e uniti». «Jole – ha aggiunto Tallini – ci hai lasciato anche un altro messaggio, oltre a quello dell’unità e dell’orgoglio. Il tuo messaggio più alto è quello dell’amore per la nostra terra, che deve orientare le nostre vite e le nostre azioni sociali e politiche. Solo uno smisurato amore per la Calabria poteva consentirti di affrontare la difficilissima sfida del cambiamento della nostra regione, una sfida appena iniziata e spezzata da un destino crudele». In chiusura, da parte del presidente dell’assemblea calabrese, un elogio all’alto senso delle istituzioni del presidente Santelli e il saluto in suo onore: «In questi due giorni drammatici, in tanti in Calabria e in Italia hanno tessuto le tue lodi, Jole. Avevi un rispetto straordinario per le istituzioni. Mi avevi chiesto, non molto tempo fa, di spostare al nono piano di questo palazzo i gruppi consiliari, perché volevi avere un contatto più diretto con tutti consiglieri regionali, anche con quelli dell’opposizione. Avevi il senso della squadra, anche se sapevi che le decisioni più importanti andavano assunti in solitudine, la solitudine che accompagna tutti coloro che hanno grandi responsabilità. Nel darti, Jole, l’ultimo saluto, a nome del Consiglio regionale, sento di dirti che questi otto mesi della tua presidenza valgono quanto una legislatura, perché il tuo coraggio straordinario è servito a dimostrare che la Calabria può cambiare, che la Calabria non è quella delle cronache nere, che la Calabria è una perla del Mediterraneo, una terra piena di colori che può guardare con speranza al futuro. Ciao Jole, non ti dimenticheremo».
· Morto il giornalista Gianfranco De Laurentiis.
Gianfranco De Laurentiis, morto lo storico giornalista Rai di Dribbling e Domenica Sprint. Libero Quotidiano il 14 ottobre 2020. Lutto nel giornalismo sportivo, è morto Gianfranco De Laurentiis. Romano, 81 anni, per trent'anni volto Rai tra i più amati dai telespettatori. Cresciuto nel Corriere della Sera, sbarca nel 1972 in Rai e da allora dà volto e voce ad alcuni dei programmi sportivi più iconici della tv nazionale: EuroGol a Diretta Sport, Domenica Sport, Dribbling, Domenica sprint, la Ds, la Giostra del gol destinata agli italiani all’estero. Non solo calcio, comunque: De Laurentiis è stato anche conduttore dello storico Pole Position dedicato alla Formula 1. L’ultimo saluto sarà in forma strettamente privata. Gianfranco De Laurentiis, da tempo in pensione, lascia la moglie Mirella e i figli Roberto e Paolo. Lo sconcerto e il dolore per la morte di un giornalista così familiare ha scosso gli appassionati e il mondo del giornalismo sportivo. Su twitter Riccardo Cucchi ha postato: “Un signore del microfono. Un giornalista del servizio pubblico capace di una narrazione puntuale, onesta, sobria, elegante. un modello, un maestro. Un giornalismo che mi manca. Da collega e da telespettatore. Addio a Gianfranco #DeLaurentiis”.
È morto Gianfranco De Laurentiis, volto storico di "Dribbling" e "EuroGol". Il giornalista è venuto a mancare nella notte all'età di 81 anni. E' approdato alla Rai nel 1972 firmando trasmissioni come "EuroGol", "Diretta Sport", "Domenica Sport", "Dribbling", "Domenica sprint", la "Domenica sportiva", la "Giostra del gol" e "Pole Position" dedicato alla F1. La Repubblica il 14 ottobre 2020. Lutto nel mondo del giornalismo sportivo. Ieri notte è infatti venuto a mancare a 81 anni Gianfranco De Laurentiis, giornalista romano, per oltre trenta storico volto dello sport Rai e apprezzato da tantissimi sportivi.
In Rai dal 1972 e tante storiche trasmissioni. De Laurentiis cominciò la sua carriera al Corriere della Sera, per poi andare alla Rai dal 1972.. Direttore della Tgs, la testata giornalistica sportiva, dal 1993 al 1994, prima e anche dopo tante trasmissioni a cui ha legato volto e fortune. Come dimenticare, per chi non è più giovanissimo, trasmissioni come "EuroGol" (rubrica del Tg2 sulle coppe europee), "Diretta Sport", "Domenica Sport", "Dribbling"; oppure "Domenica sprint", la "Domenica Sportiva" insieme ad Alessandra Casella, "Numero 10" con Michel Platini fino alla "Giostra del gol", programma della vecchia Rai International destinato agli italiani all'estero e condotto insieme a Ilaria D'Amico.
Garbo e professionalità. Dal 1997 al 2001 è stato invece il conduttore di "Pole Position", trasmissione che andava in onda prima e dopo ogni Gp di Formula 1 quando la Rai possedeva i diritti dei grandi eventi. Nel frattempo Mondiali ed Europei, personaggi e storie del calcio e dello sport e la capacità di entrare nelle case dalla tv con garbo e grande professionalità. "Il mio primo maestro in Rai è stato Gianfranco De Laurentiis. Ogni sabato mattina aspettavo il suo giudizio e le sue legnate mentre vedeva i miei pezzi di Dribbling con la sigaretta all'angolo della bocca. Mancherai Gianfranco", ha scritto su twitter Alessandro Antinelli, giornalista della Rai. L'ultimo saluto a De Laurentiis sarà in forma strettamente privata.
· È morto il principe Giuseppe Lanza di Scalea.
Arianna Rotolo per palermo.repubblica.it l'11 ottobre 2020. È morto a 74 anni il principe Giuseppe Lanza di Scalea, discendente di Ignazio e Franca Florio. La madre era Arabella Salviati. In un lungo ed accorato post su Instagram, Alba Parietti rivolge l'ultimo saluto al ex compagno. Una storia d'amore lunga 8 anni avvenuta fra la fine degli anni Novanta e inizio Duemila. "Giuseppe, sei stato l'uomo migliore del mondo, il padre per Giulia più amoroso, dolce e presente, per me l'amico più grande della vita. Sei stato per tutti un sole meraviglioso che scaldava l'animo con gentilezza e sorriso. "Mi hai sempre aiutato e sostenuto fino all'ultimo, hai sostenuto Francesco nel momento più difficile della sua vita e nelle sue battaglie. Mi sei stato vicino quando mia madre se ne è andata. Abbiamo condiviso vita e morte. Grandi tragedie e grandi gioie. Mai nulla di brutto, in 20 anni mai una parola, un gesto, qualcosa che mi abbia fatto male: non mi hai mai deluso. Mai. Solo cose bellissime e ricordi meravigliosi". E ancora: "Sono stata onorata e fortunata ad averti al mio fianco prima, e come amico poi: avrei dato un braccio per te . Ci siamo voluti veramente un bene dell'anima. Eri e sarai sempre il mio migliore amico, il mio pilastro, mio padre, mio fratello, la persona di cui più mi fidavo al mondo". La loro storia d'amore, intensa e travolgente, balzò sulle pagine di gossip riscuotendo molto successo. Più volte la Parietti trascorse insieme a lui l'estate a Mondello, al circolo canottieri "Roggero di Lauria".
Paola Pottino per palermo.repubblica.it l'11 ottobre 2020. Le favole di un tempo ci hanno raccontato che un principe è solitamente bello, alto, fiero, con gli occhi azzurri e un bel sorriso, galante, dai modi di fare pacati e cortesi. Giuseppe Lanza di Scalea, figlio di Arabella Salviati, nipote di Igea e pronipote di Ignazio Florio, stroncato questa notte a 74 anni da un male, oltre a possedere un altisonante titolo nobiliare, era un principe nell'animo, estremamente riservato, la cui timidezza veniva celata da un sorriso appena accennato. Oggi il mondo del web lo ricorda con affetto e tra gli amici più cari, l'addio di Alba Parietti, sua compagna per tanti anni: "Non posso immaginare questo mondo senza di te -scrive su Instagram - senza la tua dolcezza, la tua risata. La mia vita non sarà mai piu? la stessa, eri il mio punto fermo, la mia luce nel buio". Uno dei gentiluomini più stimati del nostro tempo, eclettico, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, che amava cimentarsi in esperienze diverse. "Quando sopraggiunge la noia - diceva - capisco che è arrivato il momento di cambiare e provare nuove sfide lavorative" e così è stato per tutta la sua esistenza. Nipote di Giuseppe Lanza di Scalea, per tre volte sindaco di Palermo e figlio di Francesco, anche lui politico, ricordava il rapporto non facile con il padre dal quale però conservava il valore fondamentale dell'onestà intellettuale e l'impegno di mantenere sempre la parola. A soli diciotto anni, lascia Villa Scalea, la settecentesca residenza nobiliare immersa nella Piana dei Colli, per volare a Milano. Qui studia e si laurea, ma non contento della vita milanese, decide di fare altro. Trascorre dieci anni a Roma dove apre una società di distribuzione cinematografica ma, dopo questa esperienza sicuramente stimolante, il richiamo alle proprie radici si fa sempre più forte, torna a Palermo dove si stabilisce definitivamente, "perché qui, alla fine - raccontava il principe - la nostra città per quanto abbia tantissimi difetti, riesce ad avvolgerci sempre". Amante della cultura e dell'arte ("la cultura - diceva - non significa vedere quanti libri si è letti o a quante mostre si è andati, ma è piuttosto un modo di essere e sentire"). Nella sua vita, anche la partecipazione nel 2008 alla fiction televisiva diretta da Giovanni Minoli, "Agrodolce", dove ha interpretato la parte di un nobiluomo, non così distante dalla realtà. "E' stata un'esperienza divertentissima - raccontava Giuseppe Lanza di Scalea - che mai pensavo di poter fare", l'unico rammarico, ci ha confessato una volta, era quello di essere stato doppiato da una voce completamente diversa dalla sua nella quale non si riconosceva affatto! Dalla cultura, all'arte, dal cinema alla televisione ai diversi impegni sociali e imprenditoriali, dentro quegli occhi azzurri dolcissimi il principe, pur amando la solitudine, era un uomo benvoluto e amato dai suoi amici, il cui amore era contraccambiato con sincerità. "Gli amici sono fondamentali - soleva dire - e sono stati da sempre la mia vera famiglia". E a tale proposito, indelebile nei suoi ricordi di gioventù, quel viaggio nelle Filippine quando con un gruppo di amici comprò un pezzetto di terra su un'isola selvaggia, senza elettricità dove costruirono tre capanne e dove ogni anno tornavano per le vacanze. Giuseppe Lanza di Scalea lascia la moglie Benedetta Fumi Cambi Gado e la figlia Giulia di 25 anni. "Sono molto contento di come sta crescendo - confessò anni fa - dei valori che porta con sé e del nostro rapporto confidenziale". Parole che oggi, Giulia, terrà più che mai strette al cuore.
· E’ morto il cantante Anthony Galindo Ibarra.
Simona Marchetti per "corriere.it" il 9 ottobre 2020. Il 27 settembre scorso l’ex cantante dei Menudo, Anthony Galindo Ibarra, aveva tentato di togliersi la vita e da allora era in un letto di ospedale in condizioni disperate. Per sei giorni i medici hanno tentato l’impossibile per strapparlo alla morte, ma sabato 3 ottobre si sono dovuti arrendere e il 41enne artista venezuelano se n’è andato per sempre. «È con profondo dolore che diamo oggi la notizia della morte del nostro adorato Anthony Galindo, dopo sei giorni durante i quali i medici hanno fatto tutto quello che era umanamente possibile per salvargli la vita – si legge in un comunicato della famiglia, postato sulla pagina Instagram del cantante - . Vi ringraziamo per tutte le preghiere e il sostegno ricevuto in questi momenti difficili per la nostra famiglia e per tutti coloro che lo conoscevano personalmente e come artista. Com’era la sua volontà, abbiamo accettato la richiesta di donare i suoi organi, così che la sua morte possa salvare altre vite».
Depresso perché non poteva esibirsi. Subito dopo il suo tentativo di suicidio – causato dalla depressione, aggravata dall’impossibilità di esibirsi per via della pandemia di Covid-19, come si legge in un altro post social – la famiglia di Ibarra (che lascia la moglie Dayana Maya e la figlia Elizabeth Michelle) aveva avvisato i fan sulla gravità delle condizioni del cantante attraverso la pagina aperta su GoFundMe per pagare le spese mediche e quelle del funerale, spiegando che il quadro clinico «non era compatibile con la vita». Altrimenti noto come El Papi Joe, nel 1979 Ibarra si era unito ai Menudo, la boy band di Puerto Rico di cui ha fatto parte anche Ricky Martin e che ancora oggi è considerata uno dei gruppi latino americani più famosi degli anni Ottanta, per poi passare ai MDO nel 1997.
· E' morto Marco Diana, militare in lotta contro lo Stato per l'uranio impoverito.
E' morto Marco Diana, militare in lotta contro lo Stato per l'uranio impoverito. Pubblicato giovedì, 08 ottobre 2020 da Monia Melis su La Repubblica.it. È morto a Cagliari Marco Diana, ex maresciallo dell'esercito, protagonista della lotta contro l'utilizzo dell'uranio impoverito nelle missioni militari all'estero. Originario del Sulcis, Villamassargia, aveva cinquanta anni e da più di venti conviveva con un tumore al sistema linfatico. Lo aveva contratto dopo l'esperienza in Somalia nel 1993, dove vestiva la divisa del corpo scelto Granatieri di Sardegna a cui era seguita quella nei Balcani, in Kossovo, fino al 1998. Il suo volto, la sua voce, e l'estenuante impegno nella controversia contro lo Stato e le istituzioni accusate di esporre i militari italiani a sostanze cancerogene sono state di stimolo per decine di altri malati arruolati. Con le sue battaglie legali e proteste, dai cartelloni agli appelli social degli ultimi anni, ha contribuito a sollevare altri casi come il suo, e infrangere l'omertà sulle malattie da missione. Il suo spirito è riassunto in una frase: "Non è una lotta personale, ma è quella di tutti i servitori dello Stato che si sono ammalati nell'assolvere il loro dovere". Più volte Diana ha denunciato di sentirsi solo, abbandonato dallo Stato. Ma è comunque andato avanti fino a ottenere un risarcimento da un milione di euro nel 2005 e la causa di servizio con una pensione privilegiata "da invalido militare". Nei documenti non si fa cenno all'uranio impoverito ma ad "altre sostanze cancerogene" con cui Diana, e i colleghi, sono entrati in contatto. Nei suoi racconti dettagliati il confronto tra le protezioni inesistenti degli italiani a Mogadiscio, durante l'operazione Restore hope, e quelle degli americani: "I missili sparati dai loro elicotteri sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. Sembravano dei marziani, mentre noi stavamo in maglietta e calzoncini, esposti a tutte quelle strane polveri". Su malattie e morti tra le fila dei militari all'estero nel 2018 è stata presentata la relazione finale della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'uranio impoverito che ha indagato su malati e morti: per gli esperti c'è un nesso tra tumori ed esposizione. Nonché si rilevano meccanismi tra i ranghi della Difesa per "offuscare i rischi" e "arginare le responsabilità dei reali detentori del potere". Per Diana, da sottoufficiale in congedo, il riconoscimento dell'indennizzo non è stato comunque la fine della lotta. La malattia di servizio accertata andava sempre sottoposta a nuovi esami. E poi i ritardi nei pagamenti, le spese continue per integratori e viaggi sanitari. Per questo nel 2013 aveva messo in vendita la casa, la vigna e qualche terreno. E appena quattro anni fa, nel 2016, per un rimborso da 20mila euro, non concesso dalla Difesa, aveva pubblicato su Youtube il video "Io sono vivo", poi rimosso. Per i toni utilizzati era stato denunciato per vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate, nonché per tentata truffa in concorso per non essersi presentato a una visita medica.
· È morto Johnny Nash.
È morto Johnny Nash, sua "I Can See Clearly Now". La Repubblica il 07 ottobre 2020. Aveva 80 anni. Amico di Bob Marley, considerato uno dei primi cantanti non giamaicani ad aver inciso musica reggae a Kingston. È morto Johnny Nash, famoso soprattutto per il brano I Can See Clearly Now. Il cantante aveva 80 anni ed è morto a Houston in Texas per cause naturali. Nash iniziò come cantante pop ma le sue canzoni più famose furono melodie reggae. È considerato uno dei primi cantanti non giamaicani ad aver inciso musica reggae a Kingston in Giamaica appunto ed era amico di Bob Marley. I Can See Clearly Now, uscito nel 1972, rimase in testa alle classifiche per settimane. Nash divenne popolare anche per l'interpretazione della colonna sonora del cartone animato L'invincibile Ercules.
· E’ Morto Eddie van Halen.
È morto Eddie van Halen, il fondatore della band Van Halen. Aveva 65 anni. Pubblicato martedì, 06 ottobre 2020 da La Repubblica.it. Eddie van Halen, leggenda del rock mondiale, è morto a causa di un cancro alla gola, che stava cercando di curare da tempo. Aveva appena 65 anni. Forti vicine al musicista hanno fatto sapere che è scomparso al St. John's Hospital a Santa Monica, in California. La moglie, Janie, si trovava al suo capezzale insieme al figlio Wolfgang e ad Alex, il fratello maggiore e batterista con il quale, nel 1972, aveva formato i Van Halen. I medici, secondo quanto riportato dal bollettino sanitario, nelle ultime 72 ore aveva segnalato una progressiva espansione del tumore che, dal collo, di era propagato fino al cervello. È raro che la parola leggenda venga utilizzata con il giusto peso ma, per Edward Lødewijk 'Eddie' van Halen, olandese naturalizzato statunitense, non era affatto eccessiva. Nato a Nimega il 26 gennaio 1955 è periodicamente rientrato nei gradini più alti di tutte le classifiche dei migliori chitarristi, non solamente come virtuoso ma anche tra quelli con un stile più originale e innovativo. Chiunque abbia cominciato a suonare la chitarra elettrica, affascinato dai suoni hard rock e soprattutto, heavy metal, ha studiato sulle sue partiture. Per la rivista specialissata nello strumento, Guitar World, van Halen è addirittura sul podio mentre Rolling Stone lo ha classificato all'ottavo posto tra i cento migliori chitarristi di sempre.
Andrea Laffranchi per Corriere.it il 7 ottobre 2020. Se ne va un pezzo degli anni Ottanta. Se ne va una delle divinità della chitarra. È morto ieri Eddie van Halen, chitarrista della band hard rock cui aveva dato il cognome. «Non mi sembra vero dover scrivere questo, ma mio padre Edward Lodewijk van Halen ha perso la sua lunga e faticosa battaglia con il cancro», ha annunciato sui social il figlio Wolfgang, che suonava il basso nella band «di famiglia» dal 2006. La chitarra elettrica non sarà tanto di moda oggi, il rock è sparito dalle classifiche di vendita (non dagli stadi, attenzione), ma fra quelli che ne hanno costruito l’iconografia c’è sicuramente Eddie van Halen.
Il tapping. Un posto nella storia della musica se lo è conquistato con quelle velocissime mani che perfezionarono la tecnica del tapping (suonare delle note anche con la mano destra sulla tastiera dello strumento) e contribuirono a riportare il rock ai vertici della cultura pop americana all’inizio degli anni Ottanta.
Le mani e quella chitarra a strisce bianche, nere e rosse, che lui aveva ribattezzato Frankenstein, perché costruita con pezzi di altri strumenti. La tecnica di Eddie, un suono fatto di velocità e virtuosismi, lo ha portato all’ottavo posto nella classifica dei chitarristi di tutti i tempi della rivista Rolling Stone.
Le origini olandesi. Eddie era nato nel 1955 ad Amsterdam. La famiglia aveva deciso di emigrare negli Stati Uniti e nel 1962 si stabilì a Pasadena, in California. Una decina di anni dopo, Eddie, il fratello Alex alla batteria, il cantante David Lee Roth e il bassista Michael Anthony formarono i Van Halen. Dopo una gavetta sui locali di Sunset Boulevard a Los Angeles, arrivò il primo e omonimo disco nel 1978. Fu un successo immediato. Ma l’esplosione arrivò con «1984». Erano gli anni in cui l’hair metal, i capelli vaporosi, gli assoli infuocati e le tamarrissime tutine aderenti conquistavano anche la Mtv generation. «Jump», che divenne la loro unica hit qui da noi in Europa, fu il simbolo di quell’epoca, grazie alla performance chitarristica di Eddie e a quella atletica di David Lee Roth nel video.
Gli anni 80 e Mtv. Eddie era un simbolo di quella onda hard-heavy, la band infilava un album milionario dietro l’altro. Secondo i dati della Riaa, l’associazione della case discografiche americane, i Van Halen sono al ventesimo posto per vendite nella storia degli stati Uniti. A questo impressionante successo commerciale per Eddie bisognerebbe aggiungere anche una quota di «Beat It», hit planetaria del re del pop Michael Jackson cui lui fornì uno dei suoi indimenticabili assoli di chitarra. Il successo commerciale dei Van Halen proseguì anche a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, quando al posto di David Lee Roth arrivò Sammy Hagar. Poi la band, fra i rientri alternati dei due cantanti e gli anni con Gary Cherone alla voce, perse smalto e direzione. E anche Eddie, troppa confidenza con l’alcool, finì per perdere la lucidità artistica.
Dagospia il 6 ottobre 2020. Dal profilo facebook di Andrea Scanzi. Li avete mai ascoltati i 102 secondi incendiari di “Eruption”? Il virtuosismo puro: la chitarra che divampa e incendia. Ve lo ricordate l’assolo di “Beat It” di Michael Jackson? Era sempre lui, Eddie Van Halen. Il maestro del tapping. Uno dei chitarristi più grandi di sempre. Se n’è andato stasera, ed è una notizia tremenda. Aveva 65 anni, e combatteva da tempo con un cancro alla gola. La sua chitarra, e la band che porta il suo cognome (e del fratello Alex batterista), sono fortemente legate alla fine dei Settanta e agli Ottanta. Negli articoli viene ora ricordato per il brano “Jump”, singolo vendutissimo dell’album “1984”, ma è riduttivo. Ha fatto molto di più. E molto di meglio. In casa ho quattro suoi vinili: “Van Halen”, “Van Halen II”, “1984” e “5150”. Per la mia generazione, erano dischi praticamente irrinunciabili. Gli preferisco, ma lì si va a gusti, Hendrix, Page, Clapton, Gilmour, Rory Gallagher, Duane Allman, SRV, Knopfler (etc). E forse il suo sound era profondamente ancorato a quegli anni. Infatti, almeno io, è da un po’ che non lo ascolto. Ma era un fenomeno. Uno dei più grandi di sempre. Un mostro di tecnica. Un artista capace di creare un suono e di incidere profondamente nel suo tempo. La sua scomparsa ci rende tutti più orfani e soli. Persino più di quanto già non lo fossimo. So long, Eddie.
Chiara Dalla Tomasina per "iodonna.it" il 7 ottobre 2020. Per tutti è stato “la leggenda del rock“. Ma per lei, Valerie Bertinelli, 60 anni, Eddie Van Halen è stato molto di più: l’uomo che l’ha resa moglie e poi madre del suo unico figlio, che oggi ha 29 anni.
Il tributo di Valerie su Twitter all’ex marito Eddie Van Halen. Il celebre chitarrista dei Van Halen, gruppo musicale hard rock ed heavy metal che prende il suo nome, è scomparso ieri a soli 65 anni, dopo una lunga battaglia contro un tumore al collo che si è diffuso fino al cervello nel giro di sole 72 ore. E Valerie, nonostante i due avessero divorziato nel 2007, ha dedicato all’ex marito un tributo molto sentito su Twitter. Dal quale traspare ancora tutto il suo affetto. «Quarant’anni fa ti ho incontrato e la mia vita è cambiata per sempre», ha scritto l’attrice, che ha preso parte a diverse sitcom tra cui Hot in Cleveland. «Mi hai donato Wolfang, nostro figlio, la vera luce della mia vita».
Così «grata» di essere stata accanto all’ex fino alla fine. La donna nel post prosegue spiegando che «nonostante tutti i durissimi trattamenti che hai subito per curare il cancro ai polmoni, non hai mai perso il tuo spirito straordinario e il tuo sorriso sbarazzino». La Bertinelli, che su Twitter appare come @wolfiesmom, ovvero “la mamma di Wolfie”, conclude il post, al quale ha aggiunto una bella foto in bianco e nero insieme al loro figlio ancora piccolo, scrivendo di essere «così grata che, insieme a Wolfie, abbiamo potuto stare con te fino ai tuoi ultimi momenti. Amore mio, ti cercherò anche nella mia prossima vita». Insieme alla Bertinelli e al figlio, al capezzale del musicista era presente anche Janie Liszewski, la sua seconda moglie.
Le parole di Wolfie, figlio di Eddie Van Halen. Anche Wolfie, il figlio della coppia, ha dedicato un commovente tributo al padre. Il ragazzo non si capacita ancora della perdita del genitore. «Non riesco a credere a ciò che sto scrivendo. Mio padre Edward Lodewijk van Halen questa mattina ha perso la sua lunga battaglia contro il cancro», ha postato il giovane su Twitter. «Era il padre migliore che potessi desiderare. Tutto il tempo passato con lui fuori e sopra un palco sono stati un dono». Wolfie, infatti, dal 2012 ha sostituito al basso Michael Anthony. Il sodalizio padre-figlio è stato molto fortunato e A Different Kind of Truth, pubblicato il 7 febbraio 2012, ha debuttato al secondo posto della classifica di Billboard. Il disco ha venduto quasi 400 mila copie negli Stati Uniti solo nei primi sei mesi, confermando anche le abilità musicali del giovane. Il post del ragazzo si conclude dicendo che «il mio cuore è spezzato e non credo che mi passerà mai. Ti voglio così tanto bene, Pop».
Sei corde nella leggenda. L'ultimo re della chitarra che rivoluzionò il rock. Era da tempo malato di tumore. Tra i più influenti di sempre, inventò lo stile "tapping". Paolo Giordano, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. Allora se ne è andato anche lui, uno dei chitarristi più grandi di sempre, uno dei pochi ad aver portato la chitarra fuori dal rock fin dentro il virtuosismo più puro. Eddie Van Halen, che è morto ieri a Santa Monica in California ad appena 65 anni, è stato il Modigliani della sei corde, uno degli ultimi ad aver creato uno stile unico, personale, difficilmente imitabile senza aver studiato e ristudiato, senza aver fatto migliaia di ore di pratica. Altro che l'autotune e i magheggi con le app da uno smartphone che oggi trasformano chiunque in un fenomeno. Aveva un cancro, Eddie Van Halen, un cancro che si portava avanti da anni, prima alla lingua, poi al collo e poi fulminante al cervello che lo ha ucciso in sole 72 ore, una maledizione veloce, quasi un contrappasso per uno dei musicisti più veloci della storia. Con la sua band omonima, nella quale alla batteria c'era suo fratello Alex e alla voce lo spettacolare David Lee Roth, ha ridisegnato i confini dell'hard rock reduce dagli anni Settanta cupi e incazzati aggiungendoci i ritmi allegri e tropicali che gli scorrevano nel sangue (la mamma era indonesiana). Un fulmine nel cielo nuvoloso del rock. E il risultato è stato subito stellare: 56 milioni di copie vendute soltanto negli Stati Uniti, oltre 80 in tutto il mondo. Tour esauriti. Premi a pioggia. E addirittura un super successo mondiale, ossia Jump del 1984, un brano che passa in radio pure oggi e viene sfruttato negli spot di mezzo mondo. Roba da non crederci per un immigrato povero in canna, che aveva trascorso l'adolescenza ascoltando i Beatles e i Led Zeppelin. Dopotutto, talenti si nasce e lui «lo nacque», dimostrando subito di essere un fuoriclasse per dote innata. In sostanza Edward Lodewijk Van Halen, figlio di un sassofonista di Amsterdam traslocato a Pasadena a metà degli anni Sessanta, è diventato il miglior chitarrista di sempre (per lo specialista Guitar World, invece Rolling Stone lo piazza all'ottavo posto) grazie a uno stile riconoscibile e una tecnica che nessuno prima credeva potesse esistere: il «tapping». Il «tapping» è in poche parole il suono della chitarra con entrambe le mani sulla tastiera, sia la sinistra che la destra, invece che una sola. Nella chitarra elettrica amplificata, due mani sulla stessa tastiera possono raggiungere intervalli molto più ampi del solito e, soprattutto, impossibili da raggiungere in qualsiasi altro modo. Un prodigio in un'epoca, gli anni Ottanta, durante la quale il virtuosismo chitarristico era al centro dell'attenzione dopo la scorpacciata di maghi anni 70, da Carlos Santana a Jimmy Page. Tanrto per capirci, negli Stati Uniti i Van Halen sono diventati in pochissimo tempo la «big thing» la sensazione di cui tutti parlavano (e di cui tutti compravano i dischi e i biglietti). Dischi come Van Halen II o Women and Children First diventarono veri e propri cult. E questo virtuoso della chitarra entrò nei circuiti «bene» del pop mondiale. Non a caso Michael Jackson gli affidò l'assolo di chitarra di uno dei suoi pezzi più decisivi, ossia Beat it. Lì più o meno in trenta secondi Eddie Van Halen scrive un pezzo della storia del rock. Nel frattempo, lui così fuori moda ma così schiavo dei vizi (alcol e cocaina, soprattutto) sposò Valerie Bertinelli, attrice bella e sensuale ma non così brava, che lo fece diventare padre di Wolfgang, che poi entrò addirittura nella band del padre. Insomma per venti anni Eddie Van Halen è stato al centro dell'attenzione, dei Grammy Awards, dei record di incassi. Poi, come sempre accade, le mode cambiano e i suoi Van Halen sono usciti dal circuito mainstream. Ci sono stati cambi nella band (prima arriva Sammy Hagar, poi torna David Lee Roth) e soprattutto ci sono stati i problemi di salute. Mentre Eddie, con quel suo sorriso triste, li affrontava, le scuole di chitarra nel mondo diffondevano la sua tecnica, così intuitiva ma così difficile da realizzare. Ora che Eddie Van Halen non c'è più, rimane un talento cristallino ed epocale, qualcosa che sopravvive alla cronaca e poi entra nella storia.
· E’ morto l’attore Thomas Jefferson Byrd.
Da "ilmattino.it" il 5 ottobre 2020. L'attore statunitense Thomas Jefferson Byrd, interprete-feticcio in numerosi film del regista Spike Lee, è stato ucciso a colpi di pistola, sparati alla schiena, sabato notte ad Atlanta, in Georgia. Aveva 70 anni. Il ritrovamento del cadavere, riferisce «Variety», è stato reso noto dalla polizia, che sta indagando sulla dinamica dell'omicidio, che è ancora tutta da chiarire. Sulla sua pagina ufficiale su Instagam Lee ha pianto la scomparsa dell'amico: «Sono davvero triste di annunciare il tragico omicidio del nostro amato fratello Thomas Jefferson Byrd la scorsa notte ad Atlanta, in Georgia. Tom è il mio ragazzo, il personaggio di molti miei film. Insieme alle condoglianze, mandiamo ogni benedizione alla sua famiglia. Riposa in pace, fratello Byrd». Tra i film in cui Byrd è stato diretto da Lee figurano: «Clockers» (1995), «Girl 6 - Sesso in linea» (1996), «Bus in viaggio» (1996), «He Got Game» (1998), «Bamboozled» (2000), «Red Hook Summer» (2012), «Il sangue di Cristo» (2014) e «Chi-Raq» (2015). Con il regista ha recitato anche nella serie tv «Shès Gotta Have It» (2017-19), interpretando il ruolo di Stokely Darling. Secondo quanto comunicato dalla polizia di Atlanta, Byrd è stato ucciso da una serie di colpi d'arma da fuoco alla schiena. Le forze dell'ordine e i soccorsi sanitari, allertati intorno all'1:45 di notte con una telefonata che segnalava una persona ferita in strada, sono giunti in Belvedere Avenue e non hanno potuto fare altro che constatare il decesso dell'attore. Sono in corso le indagini per accertare la dinamica dell'omicidio. Nato il 25 giugno 1950 a Griffin, in Georgia, dopo aver recitato in teatro soprattutto in California, Byrd debuttò in tv solo nel 1992 vestendo i panni di Luis Arthur nella serie «L'ispettore Tibbs». Dal film «Clockers» (1995) Byrd ha legato indissolubilmente la sua carriera a Spike Lee. Tra gli altri film interpretati da Byrd: «Set It Off - Farsi notare» (1996) di F. Gary Gray, «Bulworth - Il senatore» (1998) di Warren Beatty, «MacArthur Park» (2001) di Billy Wirth, «Ray» (2004), il biopic su Ray Charles diretto da Taylor Hackford con Jamie Foxx, e «Brooklyn's Finest» (2009) di Antoine Fuqua.
· Morto lo stilista Kenzo Takada.
Da corriere.it il 4 ottobre 2020. Lo stilista giapponese Kenzo Takada è morto domenica a causa del coronavirus all’età di 81 anni. «È deceduto domenica 4 ottobre 2020 presso l’American Hospital di Neuilly-sur-Seine», ha annunciato un portavoce in una nota. Kenzo è stato il primo stilista giapponese a stabilirsi a Parigi, dove ha sviluppato tutta la sua carriera raggiungendo la fama internazionale.
Coronavirus, morto lo stilista Kenzo Takada. Aveva 81 anni. Il designer, scomparso per complicanze da Covid-19, non era riuscito a causa del suo stato di salute a partecipare il 30 settembre alla sfilata del marchio che porta il suo nome, oggi di proprietà di LVMH. I suoi abiti dalle silhouette inusuali hanno segnato la storia della moda. Serena Tebaldi su La Repubblica il 4 ottobre 2020. Lo stilista giapponese Kenzo Takada, universalmente conosciuto come Kenzo, è morto domenica 4 ottobre per complicazioni da Covid-19. Aveva 81 anni. Lo ha reso noto un portavoce di K3, la linea di tessile per la casa che aveva lanciato pochi mesi fa, spiegando che il designer, da anni residente a Parigi, si è spento all'ospedale americano di Neully-sur-Seine. Inutile dire quanto colpisca la scomparsa di uno dei nomi simbolo della moda proprio nel pieno delle sfilate francesi: la collezione per la primavera/estate 2021 del marchio, disegnato da inizio anno da Felipe Oliveira Baptista, è andata in passerella solo lo scorso 30 settembre. Il brand è di proprietà del gruppo LVMH dal 1993 ma, come fa notare al WWD Sidney Toledano, CEO di LVMH Fashion Group, Kenzo ha sempre continuato a sostenerlo: la sua assenza all'ultima sfilata si spiega infatti con l'aggravarsi delle sue condizioni. "Penso fosse un grande designer e una gran bella persona", ha dichiarato Toledano. La carriera del creativo giapponese è sempre stata atipica: nato il 27 febbraio 1939 a Himeniji, una cittadina nella regione del Kansai, nonostante un interesse nella moda sviluppato sin da piccolo, a 18 anni per volere dei genitori si iscrive all'università di Kyoto per studiare letteratura, per poi abbandonare gli studi dopo un anno e iscriversi al Bunka Fashion College di Tokyo, celebre scuola di moda giapponese fino a quell'anno aperta solo alle donne: Kenzo fu il primo studente maschio. Nel 1960 inizia a lavorare per i grandi magazzini Sanai: disegna abiti per ragazze, e arriva a produrre sino a 40 look al mese. Nel 1964, su suggerimento dei suoi professori, si trasferisce a Parigi, che diventa presto la sua città. Inizia come free lance, disegnando per altre case di moda, fino a quando nel 1970 apre la sua prima boutique, ribattezzata Jungle Jap, in un'antica bottega all'interno della Gallerie Vivienne, non lontana dal Pais Royal. In poco tempo i suoi abiti oversize e le silhouette inusuali, unite all'unicità del suo negozio, colgono l'attenzione di pubblico e addetti ai lavori. Nel 1983 lancia la collezione uomo, nel 1988 arriva il primo profumo, Kenzo de Kenzo, anche se il best seller del brand, Flower by Kenzo, viene lanciato nel 2000. Dopo la cessione a LVMH del marchio nel 1993, Kenzo resta altri 6 anni alla guida del marchio, per poi ritirarsi nel 1999. Gli sono succeduti alla guida creativa della maison Antonio Marras (2003-2011), Humberto Leon e Carol Lim (2011-2019) e, da quest'anno, il portoghese Felipe Oliveira Baptista.
Morto lo stilista giapponese Kenzo: aveva preso il Covid. A causa del virus è venuto a mancare lo stilista Kenzo. A 81 anni la moda piange uno dei suoi artisti più celebri. Carlo Lanna, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. La notizia è stata battuta dalle agenzie nel corso della giornata di domenica 4 ottobre. Il mondo della moda piange la morte di uno dei suoi stilisti più amati e estrosi che il mondo abbia mai conosciuto, e che ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo dell’arte. É morto a Parigi, all'età di 81 anni e a causa del coronavirus, lo stilista giapponese Kenzo Takada. A confermare per primi la notizia sono stati i media locali francesi. É spirato nell’ospedale di Neuilly-sur-Seine nella capitale francese in cui era ricoverato da giorni. Quanto è avvenuto ha scosso nel profondo il mondo della moda, dato che Kenzo è venuto a mancare proprio durante la mitica settimana della moda parigina, che si sta svolgendo in questi giorni. Era un uomo di grande talento, un artista eclettico e visionario.
Et voilà, la moda francese con Dior parla italiano. Dopo il diploma, Kenzo si trasferisce a Parigi nel 1964. La popolarità per lui arriva solo nel 1970, anno in cui presenta la sua prima collezione al Vivienne Gallery. Grazie al successo ottenuto, Kenzo è in grado di aprire la sua prima boutique, il Jungle Jap, e da lì a poco una sua modella appare sulla copertina di Elle. Gli anni ’70 sono un momento di grande fermento per la moda e per la cultura in genere e permettono al genio di Kenzo di imporsi come un faro in un mondo in continuo cambiamento. Nel 1971 le sue collezioni vengono presentate a New York e Tokyo, e l'anno seguente ottiene l'ambito riconoscimento Fashion Editor Club of Japan. Nel 1978 e nel 1979 le sue spettacolari sfilate di moda sono tenute nel tendone di un circo. Contemporaneamente realizza costumi per il teatro e per il cinema. Dal 1983 il marchio Kenzo lancia anche una linea di abbigliamento per uomo, e dal 1998 cominciano ad essere prodotti profumi. Il profumo di maggior successo è senz'altro Flower by Kenzo, lanciato nel 2000 ed è ancora oggi molto amato dalle donne. Dal 2001 vengono lanciati anche prodotti per la cura del corpo, sotto il suo marchio. Dal 1993 però il nome di Kenzo è di proprietà della compagnia francese LVMH. E di lì a breve Kenzo Takada annuncia il suo ritiro dalle scene. Esattamente nel 1999, e lascia la casa di moda alla propria assistente. Nel 2002, riappare sulle scene come decoratore di interni, lanciando una linea di complementi d'arredo e mobili. La sua morte arriva in un periodo buio per tutto il comparto. Le sue creazioni però resteranno per sempre nell’immaginario di tutti.
· È morto Quino, il disegnatore di Mafalda.
Da "lastampa.it" il 30 ottobre 2020. È morto Quino, il disegnatore argentino che ha inventato il celebre personaggio di Mafalda. Ne dà notizia l'editore. Joaquín Salvador Lavado, questo il suo vero nome, aveva 88 anni. La notizia della morte è stata confermata su Twitter dal suo editore argentino, Daniel Divinsky. "Quino è morto. Tutte le brave persone del paese e del mondo lo piangeranno", ha riferito Divinsky, cofondatore di Ediciones La Flor. Secondo quanto riferito dalla stampa locale, Quino aveva subito un ictus nei giorni scorsi, che ha provocato un peggioramento delle sue condizioni di salute. Il fumettista era figlio di immigrati andalusi ed è nato a Mendoza il 17 luglio 1932. Il suo personaggio più famoso, Mafalda, iniziò ad essere pubblicato sulla rivista argentina Primera Plana nel 1964.
E' morto Quino, il disegnatore argentino padre di Mafalda. Il fumettista aveva creato il personaggio della bambina ribelle per una pubblicità di lavatrici, nei primi anni Sessanta, poi la fece debuttare su un giornale argentino. Tradotti in tutto il mondo, i libri con le sue strisce hanno venduto milioni di copie. Lara Crinò il 30 settembre 2020 su La Repubblica. E’ morto in Argentina Joaquín Salvador Lavado, conosciuto in tutto il mondo come Quino, disegnatore del celebre personaggio di Mafalda, la bambina contestatrice e polemica protagonista delle sue strisce. Considerato l’umorista in lingua spagnola più tradotto al mondo, si è spento a Mendoza, dove era nato nel 1932 e dove era tornato nel 2017 dopo la morte della moglie Alicia. Veniva da una famiglia di immigrati spagnoli originari di Malaga, e rimase orfano di padre a 14 anni. Aveva fin dal piccolo coltivato la passione per il disegno grazie a uno zio che faceva il grafico, e pubblicò le sue prime vignette negli anni Cinquanta (poi raccolte nel libro Mundo Quino). Mafalda invece nacque tra il 1962 e il 1963. Quino l’aveva ideata per la pubblicità delle lavatrici Mansfield, ma il committente non apprezzò i disegni. Così la piccola Mafalda restò nel cassetto fino al 1964, quando fece la sua comparsa sulle pagine del giornale di Buenos Aires Primera plana, per poi passare al quotidiano El Mundo l'anno successivo. Gli albi delle sue strisce, realizzati a partire dal 1966 in Argentina e tradotti in più di trenta lingue negli anni successivi, hanno venduto milioni di copie (ln Spagna, a inizio anni Settanta, le sue storie furono censurate dal franchismo). In Italia apparve nel 1968, in un'antologia di Feltrinelli con testi letterari e disegni umoristici che si intitolava Il libro dei bambini terribili per adulti masochisti. Bompiani pubblicò poi il primo albo, col titolo Mafalda la contestaria: la prefazione era di Umberto Eco. Mafalda era diventata anche un personaggio cinematografico: con un film argentino di 75 minuti, di cui Quino si era dichiarato non soddisfatto, poi con due serie d'animazione. Tuttavia, l'enorme popolarità della sua eroina non impedì a Quino, nel 1973, di farla finita con la sua bambina geniale (e con la banda di personaggi che la circondava, incluso l'idealista Felipe, il suo preferito), dedicandosi ad un altro genere di vignette, dalla vena sofisticata e politica, che sarebbero state pubblicate negli anni Novanta sul supplemento domenicale dello spagnolo El País e che sarebbero confluite in volumi come Quinoterapia e Quanto è cattiva la gente (editi in Italia, come le strisce di Mafalda, dall'editore Salani). Dagli anni Settanta, allontanandosi dall'Argentina in mano alla dittatura di Videla, aveva vissuto a Milano e in seguito anche a Madrid e Parigi, prima di rientrare in patria con la moglie Alicia. Scriveva Eco nel 1969, dopo aver messo a paragone Mafalda con Charlie Brown, che la ragazzina di Buenos Aires era un “eroe del nostro tempo”: "non sembri questa una qualifica esagerata per il piccolo personaggio di carta e fumo che Quino ci propone. Nessuno ormai nega che il fumetto sia (quando raggiunge alti livelli di qualità) una spia del costume: e in Mafalda si riflettono le tendenze di una gioventù irrequieta, che qui assumono l’aspetto paradossale di un dissenso infantile, di un eczema psicologico da reazione ai mass media, di un’orticaria morale da logica dei blocchi, di un’asma intellettuale da fungo atomico. Siccome i nostri figli si avviano a diventare – per nostra scelta – tante Mafalde, non sarà allora imprudente trattare Mafalda col rispetto che merita un personaggio reale". Daniel Jorge Divinsky, storico editore argentino, che pubblicava gli albi di Quino fin dagli esordi, ha così commentato la sua scomparsa: “Lo piangeranno tutti gli uomini buoni, in Argentina e nel mondo”.
· Addio a Juliette Greco.
È morta l'attrice e cantante francese Juliette Gréco. Pubblicato mercoledì, 23 settembre 2020 da Chiara Ugolini su La Repubblica.it. Aveva 93 anni. Nella sua lunga carriera ha incrociato tantissimi artisti da Miles Davis a Jean Paul Sartre, da Jacques Prévert a Serge Gainsbourg. È morta l'attrice e cantante francese Juliette Gréco. Aveva 93 anni. Icona della canzone francese, celebre anche per il suo ruolo d'attrice in Belfagor - il fantasma del Louvre sceneggiato televisivo. L'annuncio è stato dato dalla famiglia: "Juliette Gréco si è spenta questo mercoledì 23 settembre 2020 circondata dai suoi familiari nella sua casa tanta amata di Ramatuelle. La sua fu una vita fuori dal comune". Nella sua lunga carriera, iniziata a metà degli anni Quaranta nei caffé bohemienne di Saint-Germain-des-Prés a Parigi, è stata la musa ispiratrice di tantissimi artisti da Miles Davis a Jean Paul Sartres, da Jacques Prévert a Serge Gainsbourg. Settant'anni di musica, figura emblematica dell'esistenzialismo, una giovinezza marcata dall'impegno politico fin da quando giovanissima venne arrestata e picchiata dalla Gestapo nella Francia occupata dai nazisti mentre insieme alla sorella Charlotte cercavano la madre deportata. Aveva solo 15 anni. Nel '49, a 22 anni, Juliette Gréco canta in un ristorante-cabaret alla moda: Le boeuf sur le toit nel quartiere degli artisti e dei poeti. La notano in molti per la sua voce così particolare ma anche per la sua figura esile, il piglio passionale, diventa in breve tempo un'icona imitata e ammirata dalle altre ragazze. A Saint- Germain ha una stanza all'hotel La Louisiana, è stato Sartre a permetterle di ottenere l'unica camera con l'acqua calda, la numero 10, al 76 risiede un trombettista che si farà strada, è Miles Davis. È il 1949: Gréco e Miles Davis si ameranno per qualche settimana, poi lui tornerà a New York senza neanche salutare. Nel frattempo In uno degli stabilimenti di rue Dauphine, Le Tabou, Juliette scopre per caso, grazie al cappotto appoggiato su una ringhiera e caduto da una scala, un'ampia cantina a volta inutilizzata che il proprietario chiama "il tunnel". Juliette e le sue amiche lo trasformano nel posto perfetto per fare musica e ballare mentre discutono di filosofia. Ci vuole solo una settimana perché i curiosi vengano in gran numero ad osservare questa nuova umanità chiamata esistenzialisti.
Addio a Juliette Greco, “ha vissuto una vita fuori dal comune…” Il Dubbio il 23 settembre 2020. Cantante, attrice, musa di artisti e filosofi, Juliette Greco è morta a 93 anni: “La mia ragione di vita è cantare! Cantare è tutto, c’è il corpo, l’istinto, la testa”. E’ morta, all’età di 93 anni, la cantante e attrice francese Juliette Greco. Considerata la musa degli esistenzialisti francesi negli anni Quaranta, debutta, ancora molto giovane, esibendosi come cantante nei caffè parigini di Saint-Germain-des-Pre’s. Nel 1949 conosce il trombettista Miles Davis, giunto a Parigi – con una band composta da Tadd Dameron, Kenny Clarke, James Moody e Pierre Michelot – per una serie di concerti al Paris Jazz Festival. I due hanno un’intensa relazione, ma una volta tornato negli Stati Uniti (dopo appena un paio di settimane), Davis cade in una profonda depressione che sfocia negli anni bui dell’eroina. Il repertorio delle canzoni di Juliette Greco è incentrato su versi scritti da autori famosi, come Raymond Queneau (Si tu t’imagines), Jean-Paul Sartre – amico personale della cantante. Attrice di rilievo, sa distinguersi per interpretazioni notevoli anche per il pubblico italiano, con lo sceneggiato televisivo Belfagor, trasmesso dalla Rai negli anni sessanta. Si è sposata tre volte: con l’attore Philippe Lemaire (1953-1956; da cui ha avuto una figlia, Laurence-Marie Lemaire), con l’attore Michel Piccoli (1966-1977) e col pianista Ge’rard Jouannest (dal 1988 ad oggi).
“Juliette Greco si è spenta oggi, mercoledì 23 settembre 2020 nella sua amata casa di Ramatuelle. La sua vita era fuori dal comune”, hanno scritto i familiari in una nota all’agenzia di stampa Afp. E’ stata una “brillante cantante fino all’età di 89 anni”, quando la sua carriera si è conclusa con un ictus, spiega la nota. Sempre nel 2016, perse la sua unica figlia, Laurence-Marie. “Mi manca terribilmente”. La mia ragione di vita è cantare! Cantare è tutto, c’è il corpo, l’istinto, la testa”, ha detto alla rivista Telerama in un’intervista a luglio. “E’ una grandissima donna che ci ha lasciato”, ha detto ad Afp Alexandre Baud, il produttore della sua ultima tournè. “Juliette era stanca da tempo, ma aveva mantenuto la sua mente estremamente acuta, come dimostra la sua intervista molto aperta con Telerama”, ha aggiunto.
Juliette Gréco rip. Marco Giusti per Dagospia il 24 settembre 2020. Ecco. Se ne va anche Juliette Gréco, 93 anni, la musa, la sacerdotessa dell’esistenzialismo. Amica di Jean-Paul Sartre Sartre, di Françoise Sagan. Capelli neri corvini lunghi sulle spalle, occhi enormi su pelle bianca spettrale, naso forte, voce roca da troppe sigarette, abiti rigorosamente neri, calzoni aderenti e maglione un po’ sporco. Ovvio. In un’intervista disse che li usava neri perché sudava troppo perché quando cantava era troppo emozionata e il sudore letteralmente le bruciava i vestiti. Cantante dei primi cabaret del dopoguerra in quel di Saint-Germain de Prés, il mitico Tabou e un po’ dopo il Rose Rouge. E poi attrice di teatro e di cinema, anche se i più giovani, diciamo i sessantenni, associano il suo nome al leggendario telefilm francese in bianco e nero degli anni ’60 “Belfagor – Il fantasma del Louvre”. Che paura… Amante, giovanissima, di Miles Davis nella Parigi del primo Dopoguerra, ma anche del potente produttore americano Darryl F. Zanuck, che dalle cantine della rive gauche le aprirà le porte della 20th Century Fox e di Hollywood, in una serie di film a fianco di Errol Flynn, Orson Welles, Tyrone Power. Facendone una star di prima grandezza. Con i soldi di Zanuck, per prima cosa si rifarà il naso. E butterà via il maglione sporco per la pelliccia di visone. Cosa che le cronache mondane degli anni ’50 subito notano malignamente. Come nota la tenera amicizia col produttore, anche se nelle interviste rifiuterà sempre l’etichetta di “protetta di Zanuck”. Nata a Montpellier nel 1927, da un padre ispettore di polizia corso e da una mamma che la lascia presto per combattere i nazisti e poi per partire per l’Indocina, cresce a Parigi nella casa dei nonni. A 18 anni, a guerra appena finita, vive con “un panino imbottito e un cetriolo”. Abita in una stanzetta al Louisiana a Saint-Germaine, e inizia a cantare. Le canzoni di Prevert, di Vian. Nasce l’esistenzialismo. Presto così popolare che anche Totò in “Totò all’inferno” rifaceva il verso a Juliette Gréco (“Noi siam esistenzialis, leggiamo solo Proust…”). Inizia anche il cinema nei primi anni ’50. Una particina in “Nel regno dei cieli” di Julien Duvivier con Serge Reggiani, in “Orfeo” di Jean Cocteau, ma è protagonista del mélo di Jean-Pierre Melville “Labbra proibite” a fianco di Philippe Lamaire e Yvonne Sanson. Si innamorerà di Philippe Lemaire e lo sposerà nel 1953, facendoci anche la sua unica figlia. Un matriomonio che durerà poco, tre anni, anche perché si innamora di lei Darryl F. Zanuck che cercherà di farne una star internazionale. Così ha un buon ruolo anche nello spionistico “La castellana del Libano” di Richard Pottier con Gianna Maria Canale, Jean Servais, Luciana Paluzzi e un giovanissimo Omar Sharif che cerca l’uranio in Libano. La vuole Jean Renoir in “Eliana e gli uomini” con Ingrid Bergman protagonista. Lei ha un ruolo di gitana canterina. Poi la troviamo a fianco di Eddie Constantine e Folco Lulli in “Le creature del male” di Raoul André. Ha il ruolo di una greca, Nicky Mistakos. Mai visto. Ma non è facile fare della Gréco una vera attrice. E’ troppo caratterizzata come la Gréco, è da subito un monumento dell’esistenzialismo. Zanuck la infila a forza nel cinema della Fox del tempo. Sono grandi produzioni per lo più girate in Europa o in Africa. “Il sole sorgerà ancora” diretto da Henry King, tratto da Ernest Hemingway, con Tyrone Power, Errol Flynn e Ava Gardner. Poi “le radici del cielo” di John Huston, tratto da un romanzo di Romain Gary, con Errol Flynn, Orson Welles, Trevor Howard. Mettiamoci anche “Terra nuda” di Vincent Sherman con Richard Todd e John Kitzmiller, il bellissimo “Dramma nello specchio” di Richard Fleischer con Orson Welles e Bradford Dillman. Sei ruoli per tre attori. Film che non vediamo da anni. O il grosso rischio, diretto da Fleischer e da con Stephen Boyd Elmo Williams. Zanuck le offre il ruolo da protagonista di “Anastasia”, l’ultima dei Romanoff, diretto da Anatole Litvak, ma tratto dalla commedia di Maurice Maurette che proprio la Gréco recitava a teatro in Francia. Ma lei rifiuta. Parte una causa con la Fox e con Zanuck, l’uomo che l’ha sempre protetta e accettato qualsiasi sua stravaganza, da 4 milioni di dollari.
Canzoni e filosofia. Juliette Gréco: una vita tra esistenzialismo, arte e musica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Cantava nelle caves, aveva sempre il maglioncino nero a collo alto degli esistenzialisti e la voce dell’esistenzialismo. Fillette, fillette, si tu t’imagines… Era la persona che rappresentava soltanto la nostra epoca, non credo che quelli di dopo possano avere la più pallida idea di chi e cosa fosse Juliette Gréco. Cantava Brassens, Brel, le sue nenie riportate dal sudest asiatico, la sua piccola tonchinoise. Era la testimone della Francia occupata dai tedeschi e della gente attonita che si chiudeva in quei sotterranei di vino e di disperazione composta, per cantare, ascoltare, ripetere le più belle canzoni degli altri, una tonalità profonda, sensuale, calda, complice, mai sguaiata, canzoni fatte di strofe, con le rime, come tutti gli chansonniers di quell’epoca in cui la parola non era seconda alla musica e i significati erano eleganti, personali, la morte come massima ingiuria mai perdonata. Da decenni era scomparsa ma si sapeva che era viva. La sua Parigi era Saint Germain-des -Prés, il suo amico prediletto Jean Paul Sartre, e quando cantava filosofeggiava e quando parlava di politica era un poeta e tutti coloro che l’avvicinavano in quegli anni di una Parigi piena di orrore e di poesia e sensi di colpa si trovavano in lei. In fondo non sembrò una grande stranezza che nel 1965 tentasse il suicidio per anore di Albert Camus. Come Marilyn, tre anni dopo: una super dose di barbiturici. Marilyn ce la fece, lei no. Rifiutava di invecchiare e si operò tre volte quel viso che soltanto lei poteva avere e la sua frangia fu un marchio per più generazioni, un avatar per molte donne di quel tempo e dei tempi successivi. Era una donna di sinistra, come tutte le intellettuali di quell’epoca e fece la campagna elettorale per Mitterrand. Incise molti dischi e parlava un buon italiano che le veniva da un padre corso, Gérard Gréco. Ma esisteva soltanto per la sua poetica, per la sua silhouette, la sua figura di femmina unica elegante ed essenziale che dedicava ogni suo gesto al minimo indispensabile affinché nulla di superfluo eccedesse la misura della sua persona, della sua parola e della sua voce. Cantò molto l’amore, ma non con lo spropositato senso della tragedia di Édith Piaf. Dopo il rovesciamento tedesco di fronte, la sua famiglia comunista entrò subito nella Resistenza e sua madre fu arrestata e torturata nel 1943. Anche lei, ragazzetta, fu arrestata dalla Gestapo. Chiusa la parentesi della guerra la sua vita fu tutta nei caffè e noi andavamo a Parigi per annusare i luoghi i cui lei era passata, in compagnia di Jean Cocteau e il poeta Jacques Prévert che la definì la musa dell’esistenzialismo. Fu così che Juliette si trasformò in un simbolo, in un’icona, un desiderio, un’immagine sacra e incorrotta che le impedirono poi di seguitare ad apparire man mano che gli anni le portavano via i segni grafici dell’immagine che aveva rappresentato e che erano quelli della Francia di Yves Montand, dei Brands Boulevard, degli amori negativi e assurdi, della piccola disperazione trattenuta nella consapevolezza di una morte che ti tallona da quando nasci e che non sarà mai soddisfatta finché non ti avrà ritirato dall’esistenza di un mondo senza tempo, ma i cui segni, come diceva Einstein, sono così persistenti da sembrare davvero reali.
LA BIOGRAFIA
1927 – Nasce a Montpellier, città a sud della Francia
1943 – A soli 16 anni è coinvolta nella Resistenza francese contro l’occupazione nazista e viene arrestata dalla Gestapo
1946 – Si trasferisce nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés, dove poco debutta come cantante nei caffè parigini
1948 – Esordisce al cinema con Aller et retour, di Alexandre Astruc
1949 – Conosce il trombettista Miles Davis: i due ebbero una relazione molto intensa. Davis dopo la loro separazione, cadde in depressione e iniziò a fare abuso di eroina
1950 – Debutta con il suo primo album Si tu t’imagines
1951 – Canta uno dei suoi più grandi successi: Les Feuilles mortes
1953 – Sposa l’attore Philippe Lemaire da cui avrà una figlia, Laurence-Marie Lemaire
1965 – Recita nella serie tv Belfagor ovvero Il Fantasma del Louvre
1966 – Dopo il divorzio da Lemaire sposa l’attore Michel Piccoli
1988 – Si sposa per la terza e ultima volta con il pianista Gérard Jouannest
2020 – Muore all’età di 93 anni nella sua amata casa di Parigi
· È morto il direttore della fotografia Michael Chapman.
È morto Michael Chapman, sua la fotografia di Toro scatenato e Taxi driver. Pubblicato martedì, 22 settembre 2020 da La Repubblica.it. Michael Chapman (1935 — 2020) È morto il direttore della fotografia statunitense Michael Chapman, celebre per la sua collaborazione con il regista Martin Scorsese per i film Taxi Driver e Toro Scatenato, nella sua casa di Los Angeles all'età di 84 anni. L'annuncio della scomparsa, riferisce The Hollywood Reporter, è stato dato dalla famiglia. Nel corso di una carriera di quasi mezzo secolo, con 45 film all'attivo, Chapman ha conquistato due nomination ai premi Oscar per la miglior fotografia: la prima volta per il film di Scorsese dedicato alla vita di Jake LaMotta con Robert De Niro dove girò la sequenza iniziale con l'attore ripreso sul ring al rallenty; il resoconto per il thriller Il fuggitivo (1993) con Harrison Ford. Tra le altre pellicole che lo hanno visto direttore di fotografia: Doc Hollywood - Dottore in carriera, Un poliziotto alle elementari, Ghostbusters II, I gioielli del fantasma, Sulle tracce dell'assassino, Ragazzi perduti e Il mistero del cadavere scomparso. È stato anche regista, ha diretto Tom Cruise, allora all'inizio della sua carriera, nel film Il ribelle (del 1983). Qua e là è comparso anche come attore in piccoli ruoli.
Michael Chapman rip. Marco Giusti per Dagospia il 22 settembre 2020. Giornataccia per Hollywood. Perdiamo anche Michael Chapman, 84 anni, direttore della fotografia di due capolavori del cinema americano come “Taxi Driver” e “Toro scatenato” di Martin Scorsese. Credo che non si fosse mai vista una New York come quella fotografata di notte da Chapman in “Taxi Driver”, commentata dalla musica di Bernard herrman a bordo del taxi di Travis Bickle alias Robert De Niro. Rimanemmo tutti incantati. E in “Toro scatenato”, Chapman seppe ricreare in bianco e nero la stessa densità che vedevamo nelle fotografie di boxe degli anni ’60. Furono due rivelazioni per i nostri occhi. E se non bastassero questi due titoli metterei sul piatto anche “Bad”, il video diretto da Scorsese per Michael Jackson e “L’ultimo valzer”, sempre di Scorsese, dedicato all’ultimo concerto della Band di Robbie Robertson con Bob Dylan. Chapman ha fatto un lavorato incredibile per il cinema della New Hollywood negli anni ’70. Nato ovviamente a New York nel 1935, diventa operatore alla macchina a metà degli anni ’60 per un film abbastanza ignoto con Sal Mineo, “Il sadico” di Joseph Cates, poi per il bellissimo “Mariti” di John Cassavetes, dove la fotografia è di Victor J. Kemper, e diventa poi il principale assistente e collaboratore alla macchina di un genio della fotografia come Gordon Willis, che firmerà un capolavoro come “Il padrino” di Francis Coppola, ma anche “Loving” di Irvin Kerschner, “Il padrone di casa” di Hal Ashby, “Piccoli omicidi” di Alan Arkin, “Una squillo per l’ispettore Klute” di Alan Pakula. E’ evidente che Michael Chapman abbia imparato tutto quello che doveva imparare da Gordon Willis, che dopo “Il padrino” era diventato forse il più importante direttore della fotografia del momento. Quando si stacca di Willis e gira da direttore della fotografia “L’ultima corvé” di Hal Ashby, ci rendemmo conto che Chapman aveva la stessa stoffa del suo maestro. Prima aveva forse girato, senza fimarlo, “The Slumber Party Massacre”, uno splatter diretto da Amy Jones, che diventerà poi sua noglie. Si lega poi a un regista sottile e importante come Philip Kaufman per l’avventuroso “The White Dawn”, che non arriverà mai in Italia, e per una serie di film che girerà negli anni ’70 e ’80, da “Terrore nello spazio profondo”, remake del celebre film dei baccelloni giganti di Don Siegel, a “The Wanderes”, risposta a “The Warriors”. Ma sarà l’incontro con Martin Scorsese per “Taxi Driver” nella loro New York violenta e fascinosa a dare a Chapman l’opportunità di dimostrare la sua grandezza. Girerà poi per Martin Ritt il non fortunato “Il prestanome” con Woody Allen e Zero Mostel, con James Toback “Fingers” con Harvey Keitel, con Paul Schrader “Hardcore”, tutti film che girano attorno al nuovo modello di cinema portato avanti da Scorsese e Coppola. Ma Chapman realizzerà anche progetti più complessi come “Il mistero del cadavere scomparso” di Carl Reiner, dove il suo detective, Steve Martin, parla con i grand attori dei noir del passato, o “Space Jam”, che mescola animazione e riprese dal vivo. I suoi film da regista, penso a “Il ribello” con Tom Cruise, che non vediamo da anni, il cavernicolo “Cro Magnon”, in realtà non funzionarono moltissimo e dimostrarono che non sempre un grande direttore della fotografia è anche un grande regista.
Ron Cobb rip.
Marco Giusti per Dagospia il 22 settembre 2020. Credo che gran parte dell’immaginario fantastico e fantascientifico dalla fine degli anni ’70 a oggi sia legato al nome di Ron Cobb, leggendario concept artist americano, fumettista, scenografo, morto a Sidney a 83 anni dove si era rifugiato dal 72 dopo aver combattuto in Vietnam e aver sopportato malamente il ritorno in patria. Ron Cobb è l’uomo che ha creato le navi spaziali di “Dark Star”, opera prima di John Carpenter, di “Alien” e “Aliens”, di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, di “Guerre stellari” di George Lucas, ma ha disegnato anche la DeLorean di “Ritorno dal futuro” di Robert Zemeckis. Tutta la grafica di “Conan il barbaro” di John Milius e tutti i mostri del bar di “Guerre stellari” di George Lucas, per dire, sono suoi. Un genio assoluto, che, assieme a Syd Merad, scomparso un anno fa anche lui, ha dominato l’immaginario internazionale del cinema fantastico di più generazioni. Dopo il successo incredibile di “Incontri ravvicinati”, Steven Spielberg gli offre l’opportunità di dar vita al sequel, “Night Skies”. Lo scrive, ci lavora. Diventerà la base di “E.T.”, che dirigerà però lo stesso Spielberg. Ron Cobb non sarebbe stato in grado, in realtà, di girare un vero film di successo. Firma una sola regia nel 1992 per un film che nessuno ha mai visto, “Garbo”, girato in Australia. Nato nel 1937 a Los Angeles, a 18 anni lavora alla Disney a “La bella addormentata nel bosco”. E si occupa di fumetti e di grafica. Partito per il Vietnam, diventa un grafico dell’esercito, e quando torna realizza copertine di dischi, come quella di “After Bathing at Baxter’s” dei Jefferson Airplane, ma soèprattutto si scatena in una serie di cartoon satirici contro la guerra e contro Lyndon B. Johnson che faranno storia. Ma sarà il cinema la sua strada maggiore.
Michael Lonsdale rip.
Marco Giusti per Dagospia il 22 settembre 2020. Grosso, con una voce profonda e meravigliosa, i lunghi capelli neri o bianchi sparsi sul collo, barbuto, perfetto sia come cattivo per la saga di James Bond, fu un torvo Hugo Drax in “Moonraker”, sia come buono per la scena chiave di “Ronin” di John Frankneheimer o buonissimo per il recente film sui frati martiri francesi in Tunisia “Des hommes et des dieux”. Il cinema internazionale perde una colonna come Michel Lonsdale, alla francese, o, se volete Michael Lonsdale all’inglese, 89 anni, senza preferenze, visto che era di madre francese e di padre inglese, morto nella casa di Parigi dove ha vissuto quasi tutta la sua vita. Adorato da registi come Luis Bunuel, con cui fece “Il fantasma della libertà”, Orson Welles, che lo volle ne “Il processo”, François Truffaut, “La sposa in nero” e “Baci rubati”, Fred Zinneman, “Il giorno dello sciacallo”, Joseph Losey, “Mr. Klein”, Una romantica donna inglese”, “Galileo”. Attore feticcio di Marguerite Duras, “India’s Song”, Jean-Pierre Mocky, “La grande lessive”, Marcel Hanoun, per tutta la vita si divise tra il teatro, che fu il vero amore della sua vita sia da attore che da regista, e il cinema, dove a causa del fisico non ebbe grandi possibilità da protagonista, ma, essendo bilingue, si distinse subito passando da grandi film internazionali, come “The Jackal”, “Ronin” o “Moonraker”, a film sperimentali o comunque difficili, come quelli della Duras, di Marcel Hanoun, o come il complesso “Out1 Spectre” di Jacques Rivette o l’ultra –erotico concettuale “Spostamenti progressivi del piacere” di Alain Robbe-Grillet. Senza disdegnare però il cinema di genere, come dimostrano “Folle à tuer” di Yves Boisset o “Dagobert” di Dino Risi o “Ma vie est un enfer” di Joasiane Balasko. Nato a Parigi nel 1931 come Michael Edward Lonsdale Crouch, figlio di una francese e di un soldato inglese, si sposta a Londra nel 1935 e poi in Marocco nel 1939, dove il padre verrà fatto prigioniero durante il governo di Vichy. Si occupa di cinema già per le truppe alleate a Casablanca verso la fine della guerra, ma è solo nel 1946 che arriva a Parigi deciso a fare teatro. Lavora con Roger Blin, ma sarà il belga Raymond Rouleau a francesizzare il nome in Michel Lonsdale. Negli stessi anni diventa un cattolico militante. Si impone presto a teatro, mentre faticherà un po’ di più nel cinema, che inizierà dalla fine degli anni ’50, lavorando prima con registi come Michel Boisrond, Gerard Oury, Michel Deville. Fondamentale sarà l’incontro con Jean-Pierre Mocky per “Snobs!” e “La bourse ou la vie”, che seguirà per tutta la vita, ma anche con Orson Welles e Fred Zinneman che gli apriranno le porte del cinema internazionale. Già negli anni ’60 lo troviamo in “Parigi brucia” di René Clement, in “Baci rubati” di Truffaut, in “Detruire, dit elle” della Duras, ne “Il soffio al cuore” di Louis Malle ma anche in grandi successi come “Hibernatus” con Louis De Funes. Il fatto di poter passare da grandi produzioni internazionali, dove recita in inglese a piccoli film d’autore, lo porta a muoversi negli anni ’70 tra i set di Jean Eustache e di Peter Handke a quelli dei film di James Bond, dove come Hugo Drax lascerà un forte segno. Negli anni ’80 lo troviamo anche in Italia per “Dagobert” di Dino Risi e “Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud dove è l’abate. Cattolico militante, molto attivo, ebbe spesso nella sua lunga carriera ruoli di prete, frate, perfino cardinali. Il massimo sarà il recente ruolo di padre Luc in “Des hommes et des dieux” che gli farà vincere il suo unico César. In questi ultimi vent’anni, grazie a grossi film come “Munich” di Spielberg o “Ronin” o “Le fantome de Goya” di Milos Forman o “Agora” di Alejandro Amenabar ha avuto modo di mettersi molto in luce, ma ha seguitato a fare film più piccoli o più sperimentali, come “Il villaggio di cartone” di Ermanno Olmi, trovandosi in perfetta sintonia col regista italiano come sensibilità cattolica, o “5X2” di François Ozon. Ha lavorato fino all’ultimo. Solo recentemente ha rivelato che pur non essendosi mai sposato, e facendo una vita apparentemente ascetica, ha avuto una grande storia d’amore segreta con una celebre attrice francese, Delphine Seyrig, che al tempo era sposata. Li vediamo assieme in “Baci rubati” di Truffaut. E’ lì che si vede anche la casa dove ha sempre abitato agli Invalides.
· E’ morto il compagno Peppino Caldarola.
MORTO PEPPINO CALDAROLA, DIRIGENTE PCI E DIRETTORE UNITÀ. (ANSA il 21 settembre 2020) - E' morto al Policlinico Umberto I di Roma, dopo una breve malattia, a 74 anni, Peppino Caldarola. Dirigente del Partito Comunista a Bari, poi deputato per due legislature del Gruppo L'Ulivo. Giornalista, è stato vice-direttore di Rinascita, fondatore e primo direttore di Italiaradio. Dopo lo scioglimento del Pci ha aderito al Partito Democratico della Sinistra e, successivamente, ai Democratici di Sinistra. Dal 1996 al 1998 e dal 1999 al 2000 è stato direttore dell'Unità.
Addio a Peppino Caldarola, ex direttore de l'Unità. Aveva 74 anni. È stato primo dirigente del Partito comunista a Bari e deputato per due legislature de L'Ulivo. La Repubblica il 21 settembre 2020. È morto questa mattina al Policlinico Umberto I di Roma, dopo una breve malattia, Peppino Caldarola. Aveva 74 anni ed è stato primo dirigente del Partito Comunista a Bari, poi deputato per due legislature del Gruppo L'Ulivo. È stato per anni vice-direttore di Rinascita, fondatore e primo direttore di Italiaradio. Dopo lo scioglimento del Pci ha aderito al Partito Democratico della Sinistra e, successivamente, ai Democratici di Sinistra. Dal 1996 al 1998 e dal 1999 al 2000 invece direttore del quotidiano l'Unità. Tanti i messaggi di cordoglio per Caldarola. "La morte di Peppino Caldarola è una grande perdita. È stato direttore dell'Unità in anni difficili, punto di riferimento per intere generazioni, spirito critico e osservatore acuto. Mi mancherà", scrive su Twitter il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Per Peppe Provenzano, ministro per il Sud, "bisognerà parlare di lui, della sua militanza, della sua intelligenza. Oggi però mancano le parole. Gli volevo bene". "Lascia un grande vuoto. Mi mancherà la sua intelligenza critica", è il commento sempre sui social di Roberto Speranza, ministro della Salute. "Un enorme dolore la perdita del mio amico Peppino Caldarola. Un uomo colto intelligente e arguto. Ci mancherà moltissimo", è il post del ministro degli Affari Europei, Vincenzo Amendola. "Ciao Peppino", così su Twitter Walter Veltroni ha salutato Caldarola. Anche la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, affida ai social il suo messaggio: "Addio a Peppino Caldarola, giornalista, persona per bene e grande amico della Comunità Ebraica. Si mobilitò, per difendere Fiamma Nirenstein che era stata raffigurata con una vignetta infame. Ci mancheranno tuo coraggio e rettitudine".
Il lutto. Addio a Peppino Caldarola, grande giornalista e firma storica del Riformista. Redazione su Il Riformista il 21 Settembre 2020. Un grave lutto colpisce il mondo del giornalismo. È morto al Policlinico Umberto I di Roma dopo una breve malattia Peppino Caldarola. Storico dirigente del Partito Comunista a Bari, quindi deputato per due legislature prima nei Ds e poi ne L’Ulivo, è stato più volte direttore dell’Unità, dal 1996 al 1998 e dal 1999 al 2000. Caldarola, scomparso oggi all’età di 74 anni, è stato per dieci anni collaboratore de Il Riformista, dal 2002 al 2012. Nel giugno 2019 diventa direttore della rivista Civiltà delle macchine, ma nelle sua lunga carriera giornalistica è stato per anni vice-direttore di Rinascita, fondatore e primo direttore di Italiaradio, direttore responsabile della rivista ItalianiEuropei. Unanime il cordoglio della politica per la sua scomparsa. “È morto Peppino Caldarola. Bisognerà parlare di lui, della sua militanza, della sua intelligenza. Oggi però mancano le parole. Gli volevo bene”, scrive su Twitter il ministro per il Sud Peppe Provenzano. “Un enorme dolore la perdita del mio amico Peppino Caldarola. Un uomo colto intelligente e arguto. Ci mancherà moltissimo”, è il commento del ministro delle Politiche Ue Enzo Amendola, mentre per il ministro della Salute Roberto Speranza “lascia un grande vuoto la perdita di Peppino Caldarola. Mi mancherà la sua intelligenza critica”.
Addio a Peppino Caldarola, dirigente Pci e direttore dell'Unità. Il cordoglio di Decaro ed Emiliano. Era ricoverato al Policlinico di Roma. Aveva 74 anni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Settembre 2020. E’ morto al Policlinico Umberto I di Roma, dopo una breve malattia, a 74 anni, Peppino Caldarola. Dirigente del Partito Comunista a Bari, poi deputato per due legislature del Gruppo L’Ulivo. Giornalista, è stato vice-direttore di Rinascita, fondatore e primo direttore di Italiaradio. Dopo lo scioglimento del Pci ha aderito al Partito Democratico della Sinistra e, successivamente, ai Democratici di Sinistra. Dal 1996 al 1998 e dal 1999 al 2000 è stato direttore dell’Unità.
IL CORDOGLIO DI DECARO - Il sindaco di Bari, Antonio Decaro, esprime il proprio cordoglio per la scomparsa di Peppino Caldarola. «Oggi la nostra città - dice - perde un illustre concittadino, Peppino Caldarola, veterano del giornalismo politico italiano, direttore dell’Unità, vice-direttore di Rinascita e fondatore di Italiaradio, parlamentare e militante coerente e appassionato». «Proprio da Bari, sua città natale, mosse i primi passi sia nella professione sia nella sua intensa attività politica. Giovane redattore in quella straordinaria fucina di talenti che è stata la Casa editrice Laterza, Peppino - ricorda Decaro - diventò dirigente e segretario del Partito Comunista italiano della città di Bari nel periodo doloroso della contrapposizione ideologica e degli anni di piombo. Nonostante i suoi impegni professionali e politici l’avessero allontanato da Bari, Peppino Caldarola ha continuato a mantenere con la nostra città un legame intenso e affettuoso. Intellettuale eclettico, lo ricorderemo sempre per la sua straordinaria capacità di esprimere punti di vista colti, informati ed originali. Alla sua famiglia e ai suoi amici giunga l'abbraccio del sindaco e di tutti i baresi».
IL RICORDO DI EMILIANO - «Siamo stati sempre dalla stessa parte: quella della sinistra pugliese, italiana ed europea. Peppino Caldarola ci mancherà. Mancheranno le sue idee, il suo sguardo sui nostri tempi, il suo impegno». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, dopo aver appreso della scomparsa di Peppino Caldarola.
LE PAROLE DI LOIZZO - «”Non scriverò più di politica” aveva detto Peppino due anni fa, non si riconosceva in una politica senza politica, gestita «da energumeni": diceva di non essere capace di scrivere “usando il loro stesso linguaggio”. Era un uomo libero e lucido di pensiero, non mandava il cervello all’ammasso. Per tornare ad esprimersi, attendeva un tempo nuovo, nel quale le vecchie e le nuove generazioni sapessero ritrovarsi insieme, avere una visione comune, un progetto di società». Così il presidente del Consiglio regionale pugliese, Mario Loizzo, ricorda Peppino Caldarola. «Da politico fuori del coro - spiega Loizzo - aveva sempre compreso l’Italia e gli Italiani e non nascondeva il disagio per una società incattivita, egoista, priva di valori, lontana dall’etica della partecipazione e della condivisione, qual era quella che si mostrava ai suoi occhi. Da uomo di cultura e giornalista (per due volte direttore dell’Unità, vicedirettore di Rinascita, fondatore di Italiaradio), soffriva la cattiva deriva dei tempi. Non poter più essere, con la Sinistra italiana, a difesa «strenua dell’Italia che stava male e dell’Italia che voleva progredire», lo aveva convinto ad occuparsi di politica solo come cittadino, pronto a tornare in prima linea in ogni momento in cui avrebbe avvertito un pericolo democratico». Peppino era questo, uno straordinario interprete della società, della storia e dei tempi. Lo è sempre stato. Ci mancherà».
IL TWEET DI FITTO - “Sono addolorato per la scomparsa di #PeppinoCaldorola - scrive l'eurodeputato Raffaele Fitto su Twitter - “Le divergenze politiche non hanno mai intaccato il mio giudizio sul giornalista”.
BIOGRAFIA DI PEPPINO CALDAROLA. Da cinquantamila.it.
• (Giuseppe) Bari 9 settembre 1946. Giornalista, è stato vicedirettore di Rinascita, direttore di ItaliaRadio e dell’Unità (1996-1998, 1999-2000), poi direttore del Riformista. Politico, già portavoce del segretario ds Piero Fassino, e prima ancora collaboratore di Enrico Berlinguer, nel 2001 e 2006 fu eletto alla Camera (Ds). «Da una polemica o si esce vincitori o si esce sconfitti. Il pareggio non esiste».
• «Socialista di tradizione comunista» (Il Foglio), tra i più scettici alla nascita del Pd («una semplice somma di nomenclature e di partiti personali, sindaci, assessori, golden share emiliana»), nel 2008 non è stato candidato: «È un epilogo naturale. Questi sei anni non sono stati un granché, mi hanno fatto parlare solo cinque volte in aula di cui tre in piena notte». Si è vendicato sparando bordate dal blog “Vaicolmambo”.
• «Mia madre era un’operaia alla manifattura tabacchi, sezione sigari. Quando ebbe lo scatto sociale diventò commessa dell’Upim. Mio padre era un operaio che dopo la guerra studiò e divenne impiegato alla Banca d’Italia. Una vita difficile. Mio padre si indebitò con gli usurai per salvare mia sorella malata di cuore. E alla fine dovette regalare la propria casa agli usurai. Forse da qui deriva la mia combattività».
• È stato presidente dell’associazione interparlamentare amici di Israele.
• Ha scritto qualche libro sulla sinistra, sulla mafia e su Israele. Da ultimo Controcorrente (Laterza, 2013) in cui intervista Massimo D’Alema.
• Si dichiara di sinistra ma apolide.
• «Ha preso l’Unità come un tassì» (a proposito Renato Soru) [Fog 03/03/2009].
• «Ha definito Santoro “il Lucio Presta del giustizialismo italiano, il press agent di Marco Travaglio”» (Aldo Grasso) [CdS 25/09/2009].
• «Renzi? Dà l’impressione di non aver mai letto un libro, mi appare tremendamente privo di contenuti» (Fabio Martini) [Sta 28/10/2011].
• « (…) Peppino Caldarola spiega le ragioni della decadenza del Pd. Un partito cui non ha mai voluto iscriversi. “Se inizialmente ero rimasto affascinato dall’idea, espressa da Veltroni al Lingotto, di trovare una casa del riformismo italiano, mi sono sentito tradito dall’alleanza con Antonio Di Pietro. In quell’occasione fummo in tre a schierarci contro: io e i senatori Marco Follini e Antonio Polito. Da lì è iniziato un processo di distacco che mi ha portato fuori”» (Costanza Rizzacasa) [Iog 07/10/2009].
• Il 20 gennaio 2012 il tribunale di Roma lo ha condannato, insieme ad Antonio Polito, a risarcire con 25mila euro il vignettista Vauro. Caldarola aveva definito antisemita una vignetta pubblicata sul manifesto, in cui si vedeva Fiamma Nierenstein, giornalista ebrea e deputata del Pdl, disegnata col naso adunco e la stella di David cucita sul petto e la scritta “Fiamma Frankestein”. «Ho ironizzato sulla sinistra radical mettendo una frase di critica contro la vignetta di Vauro sostenendo che è come se avesse scritto “sporca ebrea” » (Peppino Caldarola) [Linkiesta.it 24/01/2012]. «E così i giudici non hanno semplicemente sentenziato a favore del diritto di satira (diritto che nessuno aveva messo in discussione: Caldarola non aveva chiesto la censura della vignetta, semplicemente pensava di poterla criticare) ma contro il diritto a criticare la satira. E anche, mi pare, contro il diritto a criticare l’antisemitismo» (Piero Sansonetti) [Altri 24/01/2012].
• Sposato con Emanuela, tre figli.
• Milanista, iscritto al fan club del Milan di Montecitorio (presieduto da Enrico Letta).
· E’ morta la compagna femminista Rossana Rossanda.
Morta Rossana Rossanda, comunista eretica e fondatrice del «manifesto». Si è spenta domenica 20 settembre a Roma l’intellettuale e dirigente del Pci che venne radiata dal partito nel 1969 con il gruppo dei dissidenti di sinistra. Aveva 96 anni. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 21 settembre 2020. Rossana Rossanda è morta domenica 20 settembre a Roma. A dare la notizia «il manifesto». Rossanda fu dirigente del Pci negli anni 50 e 60, deputata per la prima volta nel ‘63, icona della sinistra internazionale, amica di Sartre e Foucault, fu radiata dal Partito nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Luigi Pintor, Valentino Parlato, Lucio Magri, Aldo Natoli e Luciana Castellina, fondò «il manifesto». «Divenni comunista all’insaputa dei miei — raccontò una volta —. Era il 1943. Il mio professore di estetica Antonio Banfi mi suggerì una lista di libri tra cui Stato e rivoluzione di Lenin». Con la sua intelligenza acuta e la sua levatura culturale Rossana Rossanda, scomparsa all’età di 96 anni, avrebbe potuto certamente raggiungere una posizione di rilievo in campo accademico. Ma era ancora una studentessa diciannovenne quando si era unita alla Resistenza nelle file comuniste. E da quella scelta era disceso l’impegno diretto in politica, abbracciato come una vocazione senza dogmi, che l’aveva condotta a farsi largo nel Pci e poi a criticarne le posizioni da sinistra, fino a essere radiata nel 1969 con il gruppo del «manifesto». Da allora era divenuta una sorta di coscienza critica dell’estrema sinistra italiana, senza mai recedere dai suoi ideali comunisti, nonostante le ripetute sconfitte e delusioni.
Nata il 23 aprile 1924 a Pola, in Istria, da una famiglia borghese il cui benessere era stato compromesso dalla crisi del 1929, aveva vissuto per sei anni a Venezia, insieme alla sorella Marina (detta Mimma, più giovane di tre anni e morta nel 2006), presso una zia, poi si era stabilita con i genitori a Milano, dove si era iscritta all’università. E qui, nei giorni tragici seguiti all’armistizio del 1943, aveva chiesto indicazioni politiche al suo maestro Antonio Banfi (filosofo vicino al Pci di cui avrebbe poi sposato il figlio Rodolfo), che l’aveva introdotta negli ambienti della lotta partigiana. Terminata la guerra, Rossana Rossanda si era laureata nel 1946 e aveva trovato il primo impiego all’enciclopedia Hoepli, per poi lasciarlo e dedicarsi con sempre maggiore intensità al lavoro di partito. Le riunioni in sezione, i primi comizi in provincia e in periferia, un viaggio in Urss nel 1949. La convinzione, maturata allora e mai dismessa, che il Pci avesse limiti molto gravi, ma fosse «il solo a innervare la protesta e la speranza, a dare coscienza a masse che non l’avevano mai avuta». Agli inizi degli anni Cinquanta le venne affidato un compito perfetto per il suo talento: rivitalizzare la Casa della cultura come fulcro dell’attività intellettuale progressista a Milano. Fu un indubbio successo, poiché alle sue iniziative si aggregarono energie che andavano ben oltre la cerchia comunista: personaggi come Giorgio Strehler, Cesare Musatti, Piero Calamandrei, Franco Fortini, solo per citarne alcuni. Poi il fatidico 1956, con il rapporto segreto di Nikita Krusciov sui crimini di Stalin e soprattutto il soffocamento della rivoluzione ungherese. Nel suo libro autobiografico bello e amaro, ma ricco anche di notazioni ironiche, La ragazza del secolo scorso (Einaudi, 2005), Rossana Rossanda riferiva di essere rimasta di sasso vedendo una foto con due operai sorridenti a Budapest di fronte al cadavere di un impiccato. Fu terribile per lei scoprire che i comunisti potevano essere odiati così tanto dalle classi popolari: «Quei giorni — ricordava — mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni».Non bastava tuttavia per incrinare le sue convinzioni politiche. Anzi il tramonto dello stalinismo offrì più spazio a chi, come lei, non ne aveva mai sopportato gli aspetti più rozzi. Nel 1962 Rossana Rossanda fu chiamata a Roma per dirigere il settore culturale del partito e l’anno dopo fu eletta deputata. Poteva essere il decollo verso una carriera di vertice, invece ne scaturì una divaricazione crescente, accelerata dalla morte di Palmiro Togliatti nel 1964. I tentativi innovatori di Rossana Rossanda erano accolti con perplessità, a volte respinti con asprezza, la sua tesi che stessero maturando le condizioni per un mutamento radicale della società non trovava rispondenza nella linea prudente del Pci. Dall’XI Congresso del partito (1966) la sinistra comunista uscì sconfitta ed emarginata, ma la parte più combattiva, di cui lei faceva parte assieme a Luigi Pintor, Aldo Natoli, Lucio Magri, Luciana Castellina, decise di non smobilitare, tanto più che poi arrivò il Sessantotto a confortarne le speranze. Nel saggio L’anno degli studenti (De Donato, 1968) Rossana Rossanda sostenne che la contestazione giovanile poteva «fungere da detonatore d’una più profonda esplosione sociale». E intanto l’invasione della Cecoslovacchia, condannata con cautela dal Pci, rendeva insostenibile ai suoi occhi la prosecuzione di un seppure attenuato legame con Mosca. Nel giugno 1969 Rossana Rossanda e gli altri del suo gruppo presero a pubblicare con notevole successo di vendite la rivista «il manifesto», la cui linea era chiaramente alternativa a quella ufficiale del Pci, che allora non tollerava correnti organizzate (dette spregiativamente «frazioni»). I reprobi vennero radiati nel novembre dello stesso anno. Ma non si scoraggiarono, anzi nel 1971 trasformarono «il manifesto» in un quotidiano. Pensavano che l’Italia andasse in una direzione rivoluzionaria e si sbagliavano di grosso, ma la longevità della loro iniziativa ne dimostra le formidabili capacità sul piano giornalistico. Dalle colonne del «manifesto», su cui scriveva anche il suo nuovo compagno K.S. Karol (giornalista polacco naturalizzato francese, scomparso nel 2014), Rossana Rossanda si affermò come una voce eretica della sinistra marxista. Fece scalpore nel 1978 con un articolo in cui riconobbe nel linguaggio dei rapitori di Aldo Moro il marchio dell’«album di famiglia» staliniano. E più tardi curò, insieme a Carla Mosca, il libro intervista Brigate rosse. Una storia italiana (Anabasi, 1994; poi Mondadori) con il capo terrorista Mario Moretti. Non aveva difficoltà a riconoscere la matrice di sinistra delle Br e fu sempre molto severa, da posizioni garantiste, verso chi appoggiava in modo acritico la magistratura inquirente. Assai interessante anche la sua fitta interlocuzione con le femministe, di cui riconosceva le ragioni, pur continuando a ritenere che il problema decisivo nella nostra epoca fosse il superamento del capitalismo. Ovviamente Rossana Rossanda aveva accolto in modo molto negativo la metamorfosi del Pci avviata da Achille Occhetto. E del resto poi si era progressivamente distaccata anche dalla redazione del «manifesto», di cui era rimasta a lungo una figura di riferimento, una sorta di «sorella maggiore». Ai suoi allievi rimproverava di aver disconosciuto la centralità del conflitto di classe.
«Il comunismo ha sbagliato. Ma non era sbagliato», era la sintesi del suo giudizio storico, corroborato da un’analisi pessimista del presente: «Non c’è mai stata tanta ineguaglianza nella storia», aveva dichiarato nel 2013. D’altronde avvertiva già da molti anni che alla sconfitta delle sue idee non si poteva rimediare in tempi prevedibili, tanto che già nel novembre 1976 aveva proposto ironicamente questa lapide per la sua tomba: «Cari compagni, costei scelse di far la rivoluzione invece che l’università, ma il risultato non si è visto, non riposi in pace».
Lucio Magri e il suicidio assistito, Rossanda: «Fu una scelta anche politica». La «ragazza del secolo scorso» ricorda l’altro fondatore del Manifesto, che accompagnò in Svizzera per il suicidio assistito: «Aveva la sensazione che ormai non c’era più niente da fare. Non solo per la perdita della sua compagna». Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera l'8 giugno 2019. «Un’Italia così non me la ricordavo. L’avevo lasciata nel 2005-2006 per trasferirmi a Parigi. Il clima di adesso è pieno di risentimento. Tutti ce l’hanno con tutti», sostiene Rossana Rossanda, classe 1924, un nome che dice poco ai ragazzi di oggi e che tra la fine degli anni Sessanta e nei due decenni successivi era noto a parecchi nelle università e nelle scuole. Nata a Pola, diventò comunista tra Milano e Venezia nel 1943 mentre la repressione nazifascista contro i partigiani era feroce. «Li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate», scrisse successivamente. Il viso di questa donna che adesso si muove su una sedia a rotelle sembra tuttora meno anziano di quanto è. In gran parte lo si deve a un aspetto: agli occhi di molti, li ha da sempre i capelli di un grigio argentato. Le si imbiancarono a 32 anni d’età, cambiarono di colore nel 1956. Successe durante i giorni dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Dirigente locale del Partito comunista italiano, combattuta tra un certo spirito libertario e un’usurata fiducia per Mosca, lei rimase colpita dalla foto di un funzionario durante la rivolta ungherese. Era impiccato a un fanale. «Il povero e l’oppresso hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto», affermò 50 anni più tardi Rossana Rossanda nel ricordare quel periodo e i tormenti nella sua coscienza. Con un ragionare pacato nei toni e radicale nella sostanza, ha affascinato sia studenti della «sinistra rivoluzionaria» sia intellettuali italiani e stranieri. Nel 1969 sdegnò numerosi dirigenti del Pci, partito nel quale era cresciuta e che la radiò perché con il gruppo del Manifesto aveva condannato risolutamente l’invasione sovietica di Praga. Una nuova pagina nera, quell’aggressione sferrata da Leonid Breznev contro la capitale della Cecoslovacchia, in una storia immaginata in precedenza migliore. Rossana Rossanda rimase comunista anche quando Achille Occhetto, chiudendo un’era della politica italiana, dopo il 1989 propose di trasformare in Partito democratico della Sinistra il Pci nel quale lei non era mai rientrata. Nonostante tutto, non si è arresa. Con Luciana Castellina, il mese scorso, è intervenuta a un incontro nella Casa delle Donne per la campagna elettorale de La Sinistra. Mente lucida, labbra vivide con rossetto brillante, «La ragazza del secolo scorso», come Rossana Rossanda si definì in un suo libro edito nel 2005 da Einaudi, è seduta nello studio di casa a Roma. Qualche sguardo agli scaffali della libreria permette di rintracciare ingredienti sparsi della sua formazione e dei suoi interessi: La città futura 1917-1918di Antonio Gramsci, saggi in francese e in inglese, letteratura, filosofia. Molta la storia, daI ricordidi Marco Aurelio aThe nemesis of power. The German Army in politics 1918-1945. La conversazione che segue comincia parlando della ragazza diciassettenne lasciatasi morire in Olanda, giorni fa, perché non desiderava più vivere. Fu Rossana Rossanda, nel 2011, ad accompagnare in Svizzera Lucio Magri, 79 anni, un altro dei fondatori del Manifesto, quando lui fece porre fine alla propria esistenza. Per età e motivazioni della scelta, due casi diversi. Così l’incontro è proseguito parlando di Magri e altri argomenti che il suo suicidio assistito può evocare. Che cosa è la vita, la propria vita, per alcuni ex dirigenti comunisti cresciuti nel sogno di un’uguaglianza nella giustizia secondo i termini teorizzati da Karl Marx. Che cosa hanno provato queste persone, nel Paese che ebbe il più forte partito comunista dell’Occidente, quando soltanto al principio degli anni Novanta riconobbero l’uscita del comunismo dagli eventi realizzabili in un futuro accessibile ai contemporanei. Che cosa è l’Italia di oggi vista a 95 anni dalla ragazza del secolo scorso. Doveroso premettere che Rossana Rossanda, tra 1978 e 1979, al Manifesto quotidiano è stata direttore di chi scrive queste righe.
Quali riflessioni derivarono dall’accompagnare Magri al suicidio assistito?
«Pensavo e penso che lui avesse diritto. Non mi sono opposta alla sua volontà di finire».
Affinché arrivasse il suo ultimo giorno andaste insieme vicino Zurigo. La misura nell’uso delle parole rende l’idea di quanto accade più di alcuni toni alti. Sulla morte di Magri la tua descrizione fu questa: «È stato tristissimo. Non terribile, ma tristissimo».
«Lucio aveva perduto sua moglie a causa di una malattia».
Mara, scomparsa tre anni prima. La mancanza di lei accentuò un suo malessere?
«Sì. Rispetto agli altri amici che non erano d’accordo sulla scelta di Lucio io non ho avuto difficoltà ad accompagnarlo. Ma per lui, come per tutti, decidere di morire non è semplice. E lui aveva la sensazione che ormai non c’era più niente da fare. Non solo, come è ovvio, per la sua compagna. Anche per la vita politica».
Dunque per quanto era successo dopo il 1989, l’apertura del Muro di Berlino, e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Ma tu Magri e altri, nel 1969, foste radiati dal Pci perché eravate in contrasto con il vostro partito sull’Urss e sull’invasione della Cecoslovacchia. Perché risentire fino a quel punto della sconfitta sovietica? Fosti tu tra 1977 e 1979 a promuovere i convegni del Manifesto sulle «società post-rivoluzionarie», atti d’accusa contro la dittatura di Breznev.
«Fummo radiati perché eravamo in dissenso con il partito. Il nostro dissenso con l’Unione sovietica però veniva da lontano».
E come mai il collasso dell’Urss doveva essere motivo di disperazione per Magri?
«Perché non era solo il crollo dell’Unione sovietica, ma delle nostre speranze in Italia. Del resto guarda un po’ come va oggi. Non è che Lucio sbagliasse. Allora al governo c’era stato fino a poco prima Silvio Berlusconi».
Tuttavia sei stata ragazza durante il fascismo. Non è che in gioventù avessi vissuto momenti politici migliori per una comunista. Erano stati infinitamente peggiori.
«Ero giovane».
Rispetto alla vita, la vostra generazione ha conosciuto molto più dolore rispetto a chi in Italia è giovane adesso.
«Vedere finire ogni speranza di una vita diversa non è cosa da poco».
Non credi di aver dato ad altri insegnamenti che non si disperdono?
«Non mi pare di aver fatto niente di speciale».
Davvero?
«Davverissimo».
Venivi ascoltata sempre con attenzione e rispetto in riunioni e assemblee. Le divergenze politiche e vicende della vita ci hanno portato in tanti su strade diverse da quella del Manifesto, ma, solo nel campo del giornalismo, tu sei stata considerata una dei maestri anche da Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Norma Rangeri che invece al Manifestoè rimasta e lo dirige.
«È una vostra fantasia. Molte cose sono state insegnate a me. Avevo 15 anni nel 1939. Dal 1939 al 1945 ero già abbastanza grande. Ho imparato. Non era semplicissimo. Non è che si trovassero i comunisti o gli antifascisti così facilmente. Quindi sono stati i libri ad avermi fatto maturare, soprattutto quelli esteri. Penso a Fascisme et grand Capitaldi Daniel Guérin».
Credi che non esista alcuna prospettiva per la sinistra? E, dal tuo punto di vista, nessuna possibilità per un miglioramento del genere umano?
«Comunque quello che era un nostro progetto era proprio fallito. Adesso poi le cose sono peggiorate. Non è semplice accettare che la persona adesso con più peso in Italia sia Matteo Salvini. Non è un problema?».
Un italiano, qualunque sia la sua posizione politica, se lo considera problema non lo ritiene certo di vita o di morte. E tu, Pintor, Valentino Parlato, altri dirigenti della sinistra diffidando di vari estremismi insegnavate a fare i conti con la realtà: cercare di capire qual è il campo di battaglia e se le vie desiderate non funzionano, trovarne di nuove.
«In effetti è solo Lucio che anche per le valutazioni politiche ha deciso di finire. Noi no».
Che la fine di un sogno strutturato in ideologia possa causare disagio, dolore è comprensibile. Eppure a sinistra c’è chi rispetto ai comunisti ha azzardato meno nell’ambizione, nell’utopia, e ha compreso meglio la realtà. Molti socialisti, laburisti, socialdemocratici.
«Ma non è che il realismo ti obblighi ad accettare tutto».
Questo «tutto» è riferito alle ingiustizie, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però le condizioni dei lavoratori italiani sono migliori di 50 anni fa. Senza rinunciare a uno spirito critico sulla società attuale, è un dato di fatto. Andrebbe riconosciuto.
«Dipende. Bisogna misurarsi anche con le speranze. In ogni modo, io non mi sono uccisa. Ho accompagnato Lucio. E non credo che in Italia si stia meglio di 50 anni fa. Perché conta anche l’investimento che fai nelle speranze. Adesso ce n’è molto poco».
Un po’ come una spiegazione che il Manifesto diede delle proteste studentesche del 1977? Contava relativamente che i giovani non fossero poveri come lo erano stati i genitori, si sosteneva, se in tempi di crisi economica l’aver studiato non garantiva loro il tipo di lavoro sperato. È un paragone valido anche per l’oggi?
«Le aspettative delle persone contano. Anche adesso».
Tornando al rapporto tra situazione attuale, passato, speranze e delusioni incontrate dalla tua generazione, non solo da chi era comunista: ma voi non avete visto di peggio? E in tanti non reagiste con tenacia? C’erano stati la guerra e i campi di sterminio, in Europa, mentre eravate giovani voi.
«È un’altra dimensione quella dei campi di sterminio. Vale la riflessione di Primo Levi: chi non l’ha provato non ha conosciuto quel senso di annullamento».
Sopravvissuti ai lager nazisti della Shoah sono poi emigrati in Israele e lì hanno contribuito a far nascere banane nel deserto, a trasformare aree desertiche in zone coltivate. A maggior ragione la storia va spinta in avanti, non indietro.
«Sì, è vero. Però in questo contesto che cosa vuol dire: che Lucio aveva torto?».
Vuol dire che il suo dolore esistenziale e individuale merita rispetto, ma la sua scelta non era una via per tutti voi.
«Se rileggi i libri di Luigi neanche lui era molto positivo (Luigi Pintor, altro fondatore del Manifesto, direttore e corsivista brillante che spiccava per graffiante ironia e che allo stesso tempo soffriva il peso interiore di un’amarezza provata da quando nel 1943 il fratello Giaime morì su una mina, ndr)».
Di sicuro Luigi Pintor non era sempre ottimista. Il suo Servabo, parola latina che ha tra i suoi significati «conserverò» oppure «servirò, sarò utile», è un libro sofferto. Tuttavia sul serio anche molto utile.
«Certo. A quale aspetto ti riferisci in particolare?»
Pintor spiegò così come mai gli esseri umani, mortali, si sforzano «in forme esasperate» per accumulare denaro, costruire relazioni e avere potere: perché sentono di doversi curare quando in un momento dell’esistenza arriverà «l’accerchiamento finale». Però a chi assiste una persona cara che sta male alcuni passaggi diServabo possono dare conforto. Soprattutto uno: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
«Comunque puoi capire che per qualcuno la speranza ideale, politica, sia una sfida di vita o di morte. Puoi dire: “Non sono d’accordo”».
Che cosa legge attualmente Rossana Rossanda? Che cosa guarda o che ascolta?
«Ho cercato di capire un po’ più della politica italiana ed è veramente desolante, devo dire».
Lo sostengono in parecchi, al di là delle collocazioni politiche. A volte, comunque, le persone delle quali non si condividono le idee possono fornire insegnamenti a ciascuno di noi se riescono a vedere qualcosa di noi che non vediamo o non vogliamo vedere.
«Vero, eppure nella circostanza specifica aiuta poco. E personalmente non ho rancori. Se penso al passato, neanche verso Giorgio Amendola. Constato che alcuni dirigenti del Pci, più tardi, hanno voluto demolire il Partito comunista. Hanno fatto bene? Non lo penso».
Parlavi di fallimento di un progetto. Ritieni possibile migliorare lo stato delle cose senza sottoporre a cambiamenti criteri e finalità dell’ideologia nella quale ti formasti?
«Domanda del tutto legittima. Ma sono convinta che l’Italia sia peggiorata, non migliorata in questo periodo. Da quando l’avevo lasciata, poi, è un Paese involgarito».
Morta Rossana Rossanda, fondatrice del Manifesto, giornalista e intellettuale. Pubblicato domenica, 20 settembre 2020 da Concetto Vecchio ed Alessandra Longo su La Repubblica.it La ragazza del secolo scorso", come aveva titolato la sua autobiografia, aveva 96 anni e si è spenta nella notte a Roma dopo una vita di battaglie, quasi tutte eretiche. A partire da quelle che le era costata l'espulsione dal Pci. E' morta nella notte Rossana Rossanda, giornalista, intellettuale, comunista, scrittrice, fondatrice del Manifesto. "La ragazza del secolo scorso" aveva 96 anni e si è spenta nella notte nella sua casa di Roma. La notizia è stata data dal sito del Manifesto che ha annunciato un'edizione speciale del giornale per martedì per ricordare la giornalista. Storica dirigente del Pci, nel 1969 venne radiata, in quanto esponente della sinistra critica del partito. Quindi, con Lucio Magri, Luigi Pintor e Valentino Parlato aveva fondato il manifesto, prima come rivista e poi come quotidiano. Era nata a Pola, antifascista aveva partecipato alla Resistenza. Una vita di battaglie, quasi tutte eretiche. E' stata l'unica ad aver convinto il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, a parlare in un'intervista del caso Moro. Nei giorni della fermezza lei sostenne la tesi della trattativa. Fu allieva dell'economista Antonio Banfi, "il mio maestro", come lo definiva. Amica di Jean Paul Sartre, aveva vissuto a lungo a Parigi, da dove era tornata due anni fa, stabilendosi a Roma, in una casa nel quartiere Parioli. Una delle sue ultime uscite pubbliche fu l'anno scorso, a maggio, per sostenere alla Casa delle donne alcune candidate della sinistra alle elezioni Europee. "Nel bilancio della sua vita prevalgono più le ragioni o i torti?", le domandammo nell'ultima grande intervista sulla sua vita, concessa a Repubblica, il 31 ottobre 2018. "Ho cercato di fare prevalere le ragioni, ma ho avuto grandi torti, del resto chi può negare di sé di non averne avuti". E qual è il torto più grande: "Non glielo dico. Lo dico a fatica anche a me stessa". «Perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto ad un giornale che non è più tuo? E’ un’illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: “Lei è stata un mito!” Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c’entro. Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due...». In questa lunga citazione dall’autobiografia di Rossana Rossanda «La ragazza del secolo scorso» (uscita per Einaudi, nel 2005), c’è tutta lei, una signora della politica italiana, una comunista mai pentita ma sempre critica, una «eminente marxista», come la presentavano orgogliosamente sulle piazze di paese prima dei comizi. Lei minuta, tosta e restia al microfono, colta, appassionata di filosofia e arte (vagheggiò a lungo la carriera universitaria), lei che vedeva la madre al telaio e subito riandava con il pensiero alla merlettaia di Vermeer, lei nata nel 1924 a Pola, sul tormentato confine orientale, abituata, borghesemente, a trattenere i sentimenti («Non sono infondati i rimproveri che mi fanno per aver dato troppo o troppo poco al partito, alla rivoluzione, alla causa delle donne, al movimento o a me stessa». Una donna complessa, intelligente, anche ingombrante, che ha attraversato il secolo con straordinaria pienezza, nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci, eletta alla Camera dei Deputati nel 1963, radiata con l’accusa di «frazionismo» dal Comitato centrale del partito nel 1969, assieme ad Aldo Natoli, Luciana Castellina, Lucio Magri, Luigi Pintor, passata per l’esperienza del Pdup, Partito di Unità Proletaria per il comunismo, ma soprattutto fondatrice con Pintor, Magri e Valentino Parlato, de «il manifesto», un giornale, un collettivo, dal quale si è separata con grande amarezza nel 2012: «Prendo atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione. Smetto di collaborare». Divergenze di linea politica e di approccio editoriale, incomprensione forse sanabile, il gap anagrafico ammesso in un’intervista a Simonetta Fiori: «Mi hanno sempre visto come una madre castratrice anche se io non mi sono mai sentita tale. Ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. Ora è toccato a me». Lucida, laica, politicamente razionale. Del Pci degli Anni 50 e Sessanta ricorda, nella sua autobiografia, lo straordinario contributo «al processo di democratizzazione della società italiana». In morte di Ingrao, nel 2015, Rossanda evoca ancora con grande convinzione i pregi di «quella comunità militante, internazionalista», che fu il partito, non una nave di matti, ma un moltiplicatore di forze con un orizzonte grande che dava senso alle storie dei singoli... L’orgoglio di essere stata dentro una storia importante, che non le impedisce tuttavia di mettere da subito a fuoco gli errori, i dubbi sempre più laceranti sull’Urss, il disagio profondo per i fatti di Ungheria del ‘56 («La vicenda ungherese mi si è rappresa dentro in una fotografia, un funzionario appeso ad un fanale davanti alla Csepel, il collo spezzato e il volto scomposto dell’impiccato, mentre sotto di lui ridono due operai della fabbrica in rivolta... I comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto»). Le analisi di Rossanda: senza veli, senza omissioni, senza ipocrisie. Così in quel famoso articolo sul «manifesto« del 1978, in pieno sequestro Moro, che cercava di capire la logica brigatista: «Chiunque sia stato comunista negli anni ‘50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria». Ne seguirono polemiche feroci, Emanuele Macaluso, dalle colonne dell’Unità, parlò di «confusione e distorsione impressionanti». Ma Rossanda, minuta, con i suoi capelli bianchi, con l’inconfondibile neo sopra la bocca, un sorriso distaccato, non fece una piega. Ragazza solida, ragazza del secolo scorso, fisicamente fragile in vecchiaia. Da tempo aveva scelto di vivere a Parigi, pur registrando ogni sussulto della vita politica italiana. Perché a Parigi viveva ed è morto, nel 2014, il compagno della vita, Karol Kewes Karol, ebreo polacco, scampato al nazismo riparando in Russia dove si arruolò nell’Armata Rossa, uno dei fondatori del Nouvel Observateur, collaboratore del manifesto sin dal primo numero. Karol era cieco, Rossanda lo ha assistito con dolcezza e premura, fino alla fine. Ma questo è il suo privato, tenuto gelosamente lontano dai riflettori. Parlava poco volentieri anche del suicidio assistito di Lucio Magri, nel 2011. Lei lo accompagnò in Svizzera a morire, altri amici si erano rifiutati. Una decisione lacerante, raccontata ad Antonio Gnoli: «Lucio era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sè un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. Non mi pento di quel gesto. Credo che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane». Il fallimento politico di Magri era anche quello di Rossanda, che lei avvertiva. Ma sia pur bloccata in carrozzella, dopo un ictus, sia pur delusa dalla volgarità della politica attuale, Rossanda, allieva del filosofo Antonio Banfi e dello storico dell’arte Matteo Marangoni, ha conservato fino all’ultimo l’anticorpo più forte alla depressione: percepiva, da esteta allenata, la bellezza: «Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura». La bellezza, appunto. Quella bellezza che aveva conosciuto da piccola, in Istria, «passeggiando sulle isole deserte piene di conigli selvatici, tra i narcisi alti come me che profumavano forte». Fino all’ultimo il rimpianto frenato dalla ragione, dalla consapevolezza di «un corpo che non risponde»: «Mi dispiacerebbe morire per i libri che non ho letto e i luoghi che non avrò visitato ma confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita».
L'INTERVISTA. Compagna delle mie passioni. Si dichiara sconfitta ma rivendica le sue scelte. Critica chi oggi fa abiura e "miagola". La signora del "Manifesto" rimpiange solo la storia dell'arte. Stefania Rossini su La Repubblica il 27 settembre 2005. C'è in Rossana Rossanda una qualità strana che annulla il tempo. Lei non nasconde i suoi 80 anni, le fragilità del fisico, le malinconie della memoria. Ma tu non li vedi. Lei racconta quasi un secolo di passioni e delusioni e tu la senti contemporanea. Lei parla della vecchiaia e della morte e tu noti soltanto la sua capacità di trattare con realismo la caducità umana. Nulla, in un colloquio che dura a lungo, la farà mai apparire vecchia, neanche i ricordi più remoti e le indignazioni più recenti. Alla fine sai che non c'è età per il vigore intellettuale. La politica, la letteratura, la filosofia e anche la psicoanalisi tengono questa grande donna al di qua degli insulti del tempo, mentre il distacco severo verso gli accidenti del mondo ne fa una voce critica ancora preziosa. Ci accoglie in una bella casa romana che non le piace. Ha appena traslocato da un piccolo appartamento sui tetti del centro, da cui è stata sfrattata perché i ricchi pagano quei tetti milioni di euro e lei, presa dalle sue passioni, non pensò in tempo a comprarsi una casa. Un po' sospettosa per un'intervista che si chiama sentimentale, ma quasi divertita di essersi decisa una volta tanto a parlare di sé, è ancora invasa dalle emozioni contrapposte per la salvezza di Giuliana Sgrena, per le pallottole americane sugli italiani e per la morte di Calipari. Non possiamo che cominciare da lì.
Rossanda, alla fine vince il sollievo o l'indignazione?
«Sono stata contenta solo per 20 minuti, quelli trascorsi tra la liberazione di Giuliana e la notizia di quell'insensata sparatoria. Ero stata pessimista fino all'ultimo perché il direttore del "manifesto" e Valentino Parlato mi avevano tenuto all'oscuro delle trattative. La riservatezza era più che giusta, intendiamoci, ma io ero molto spaventata».
Trova verosimile l'ipotesi di un agguato?
«No. Solo Pier Scolari ha il diritto di pensarlo e di dirlo. Ha sentito sparare in diretta addosso alla sua compagna e sfido chiunque a rimanere razionale. Ma ritengo che la leggerezza e l'arroganza di un'azione sfuggita a un esercito invasore possano fare gli stessi guasti di un complotto».
Che pensa delle due Italie riunite dalla morte di Calipari? Ha avvertito anche lei questa comunione?
«Nessuna comunione, solo una vera commozione per la sorte toccata a una brava persona. La gente che è venuta alla grande manifestazione per la liberazione di Giuliana è la stessa che piange Calipari, ma che continua a ritenere questa guerra catastrofica. Il governo Berlusconi si è comportato bene nella vicenda ma sbaglia colpevolmente appoggiando Bush. Nella nostra vita abbiamo vissuto solo con il nazismo una tale prepotenza imperiale».
Lei è intatta nelle sue convinzioni? Si sente ancora comunista?
«Sì, sono una comunista sconfitta che non si pente e non miagola».
Con chi ce l'ha?
«Con chi fa abiure per compiacere. Per contrapporsi agli errori di un comunismo che non si curava dei mezzi per raggiungere i fini, la sinistra attuale si occupa solo dei mezzi. Così non propone alcuna idea di società e riesce solo a perdere identità. Certe volte trovo più netto Prodi che Fassino».
D'altra parte la parola comunista è ormai usata come un insulto.
«Insultino pure, è una sciocchezza. Il comunismo ha sbagliato ma non era sbagliato. Il suo scacco riguarda la nostra epoca, non tutta l'umanità. Oggi viviamo un periodo di rapporti talmente iniqui che il mondo dovrà tornare a interrogarsi sulle grandi questioni dell'uguaglianza e delle pari opportunità per tutti gli uomini».
Anche dopo le tragedie e i fallimenti del secolo scorso?
«Non deve ricordarlo a me. Io sono stata tra i primi a criticare l'Unione Sovietica e per questo sono stata espulsa dal Pci, insieme agli altri compagni fondatori del "manifesto"».
Era il 1969. Ancora se ne rammarica?
«No, fu un provvedimento giusto perché ormai non eravamo più d'accordo su niente. E poi non cademmo nel vuoto, ma nella braccia del movimento in un periodo di grande fermento sociale. Questo non toglie che quell'espulsione fu una delle mie grandi perdite».
Ne ha avute molte?
«Tutta la mia vita ne è stata scandita. A cinque anni persi la mia casa di Pola, una bella villa con giardino, perché mio padre, che faceva il notaio e aveva investito tutti i suoi denari nelle cave di pietra istriane, fu travolto dalla crisi del 1929. Due anni fa ho perso Luigi Pintor, compagno, amico e fratello carissimo. In mezzo città perse, persone perse, lavori abbandonati con uno strappo».
Quali lavori ha lasciato?
«La mia vera strada era quella di storica dell'arte, un interesse che mi sembrò totale finché non vinse quello per la politica. Più tardi, nel '63, mi pesò molto non fare più la funzionaria di partito a Milano ma la parlamentare a Roma. Non era il posto per me. Intanto avevo perso due genitori ancora giovani. Le sembrano sufficienti come perdite?».
Nella vita di ognuno ci sono distacchi e lutti. Lei mostra di viverli con una sensibilità più accesa.
«Forse ha ragione. Alla mia età, che è quella dei bilanci, ci sono ancora molte cose che vorrei capire. Una riguarda queste mie antenne sulla perdita così aperte, così indifese. Se non fossi così vecchia, mi piacerebbe andare in analisi per saperlo».
Perché non lo fa? È l'ultima frontiera. Ormai i lettini degli psicoanalisti sono pieni di anziani.
«Mi ferma una lontana interdizione di Pontalis, grande psicoanalista francese e caro amico. Avevo 49 anni quando gli chiesi se era il caso che mi sottoponessi a una terapia. Mi rispose testualmente: "Hai una vita strutturata, ti va abbastanza bene. Meglio non andare a smuoverla". Però, se non costasse così tanti soldi, oggi sarei tentata».
Lei la sa già lunga sui conflitti interiori. Commentando "La marchesa von 0" di Kleist, ha sostenuto ad esempio che la protagonista prova un coinvolgimento amoroso durante lo stupro. Tesi infuocata per una donna che ha fama di essere fredda.
«Le risulta che ho questa fama? Forse dipende dal fatto che sono una donna del Nord, ho fatto un lavoro da uomo e non mi piace mettere le viscere per terra. Ma non sono fredda, ho sempre frequentato le passioni. E le delusioni. Sa quando mi vennero i capelli bianchi?».
Quando?
«Nel 1956, durante l'invasione sovietica dell'Ungheria. Tutta quella vicenda si è coagulata nella mia mente attraverso una foto che mostrava un funzionario impiccato a un fanale, il volto scomposto, e sotto di lui alcuni operai della fabbrica in rivolta che ridevano. Mi dissi: ci odiano. Non i padroni, i nostri ci odiano. Avevo 32 anni e mi ritrovai di colpo sbiancata».
È stata molto bella anche così, e lo è ancora. Se ne è mai compiaciuta?
«Anche questa è una favola. Non sono stata bella e non mi ci sono mai sentita. Del resto i modelli della mia giovinezza erano Greta Garbo e Norma Shearer, mentre io ero grassottella e con i capelli dritti. Una volta, circa dieci anni fa, incontrai a casa di amici Catherine Deneuve e le chiesi cosa si prova ad essere belle. Mi rispose: "Paura di non esserlo più". Almeno questa l'ho scampata».
Rossanda, lei è stata molto amata?
«Le posso raccontare di due matrimoni. Il primo con Rodolfo, figlio del filosofo Antonio Banfi, mio maestro. Siamo stati sposati vent'anni, un po' separati in casa ma molto amici. Ora è morto ed è stato un grande dispiacere. Quando avevo 40 anni ho poi incontrato Karol ed eccoci qui, ancora insieme anche se a modo nostro». Qual è il vostro modo? «Quello di una coppia di una seconda età, senza figli. Passiamo le vacanze insieme e ci sentiamo tutti i giorni, ma teniamo aperte due case, una a Roma e una a Parigi. Ci facciamo lunghe visite, ma sotto sotto siamo due zitelloni che ogni tanto hanno bisogno di spazi separati». Rimpiange di non aver avuto figli? «Non sono mai rimasta incinta. Da giovane ho usato mezzi anticoncezionali rudimentali, antenati spaventosi del diaframma. Ma poi se avessi voluto un figlio, avrei cercato di farlo. La verità è che io di figli ne ho avuti una serqua. Il mio rapporto con i compagni del "manifesto" è in fondo un rapporto madre-figli».
Quindi di odio e amore?
«Mi amano e mi odiano. Mi adorano e mi vorrebbero ammazzare. Spesso sento che mi vedono come una figura interdittiva, una cornacchia che li sgrida. Ma sento anche il loro grande affetto».
Lei compirà tra poco 81 anni. Le pesa diventare vecchia?
«Sì, la vecchiaia è brutta perché ci si stanca come bestie. Tutte le cose che sei abituata a fare ti costano fatica. E poi ti vedi invecchiare come se il corpo andasse per conto suo, fuori dalla sua forma vera».
In che età aveva la sua forma vera?
«Intorno ai 38, 40 anni. Non vorrei mai riavere i diciott'anni, ma quell'età piena e compiuta sì. Penso che sia la migliore della vita».
Ha paura della morte?
«No. Ho solo paura di essere messa in una scatola e portata in giro nelle piazze. Ho visto fare questo a Pintor e l'ho trovato insopportabile».
Lei è una delle poche persone che continua a definirsi atea, altra parola svillaneggiata.
«Già, a differenza di Bertinotti, sono atea come trent'anni fa, anche se credo che ciò che gli uomini hanno pensato di Dio faccia parte della più alta elaborazione umana. Detesto invece l'idolatria che si respira in giro».
A che cosa si riferisce?
«A tutti questi santi, queste madonne che lacrimano. Ma anche il modo in cui questo papa parla di sé e viene trattato dai media. Ritenersi insostituibili è idolatria».
Eppure lei è solita fare lunghi ritiri con religiosi amici. Cosa cerca tra loro?
«L'aspetto sapienziale del cristianesimo, che è straordinariamente affascinante. Quello amoroso non mi interessa. Su quel piano non hanno niente da insegnarmi. In fatto di poveracci, io so tutto».
Addio Rossana Rossanda, comunista sofferente. La cofondatrice del "Manifesto" si è spenta a 96 anni a Roma. Partigiana, intellettuale, fu radiata dal Pci nel '68. Nell'autobiografia politica "La ragazza del secolo scorso" raccontò le sue sconfitte e i suoi errori. Telesio Malaspina il 20 settembre 2020 su L’Espresso. Si era autodefinita "La ragazza del secolo scorso" in uno splendido e amaro libro autobiografico - di autobiografia politica, s'intende - uscito qualche ano fa. Splendido perché scritto con il cuore aperto e una grandissima onestà intellettuale. Amaro perché a tratti sembrava un catalogo di errori e di sconfitte. Rossana Rossanda si è spenta a Roma a 96 anni - ne avrebbe compiuti 90 ad aprile - dopo una vita dedicata all'impegno e alla battaglia intellettuale. Nata da famiglia italiana in Istria (a Pola, «tra il verde e gli scogli bianchi scavati dai datteri di mare», come scrisse lei stessa), aveva studiato a Milano (liceo classico al Manzoni e Filosofia alla Statale) per poi entrare giovanissima nella Resistenza partigiana con il nome di "Miranda". Più tardi descrisse così quell'esperienza: «Non ho glorie da sventolare, non ho chiesto il diploma di partigiana che mi hanno mandato. (…) Ho avuto spesso paura. Le scelte obbligate sono serie. Non avevo sognato avventure, volevo passare la vita in biblioteca. E ora stavo in un'avventura di molti, accettando di fare e andare dove mi era detto». Donna di studi e di libri, nel 1946 s'iscrisse al Partito comunista e venne notata presto da Palmiro Togliatti, che stava cercando di costruire nel Pci una solida rete di intellettuali. Entrò a far parte del Comitato centrale del partito nel 1958 e poco dopo divenne responsabile della politica culturale del partito. Venne eletta per la prima volta deputato nel 1963, a 39 anni, e assunse la direzione della prestigiosa Casa della Cultura a Milano. Ma la sua avventura nel "grande partito comunista" era destinata a finire pochi anni dopo, quando la sua critica all'Unione Sovietica divenne più aspra ed evidente a seguito dell'invasione da parte da parte dei russi della Cecoslovacchia. Così nel 1968 Rossanda - insieme a un piccolo gruppo di intellettuali dissidenti - fu radiata dal Pci durante il XII Congresso nazionale di Bologna. Con lei, appunto, Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri, che diedero vita l'anno successivo all'avventura del Manifesto: il primo progetto di una sinistra radicale ma libertaria, desiderosa di uscire dalla ortodossie sovietiche e di immaginare una strada non autoritaria e non burocratica verso il comunismo...«Io sono stata tra i primi a criticare l’Urss e per questo sono stata espulsa dal Pci», scrisse anni dopo. «Fu un provvedimento giusto perché ormai non eravamo più d’accordo su niente. E poi non cademmo nel vuoto, ma nelle braccia del movimento in un periodo di grande fermento sociale. Questo non toglie che quell’espulsione fu una delle mie grandi perdite. Tutta la mia vita ne è stata scandita». Il Manifesto - oltre che una testata giornalistica, prima mensile e poi quotidiana - fu all'inizio anche un partito, che tuttavia non ebbe successo al suo debutto alle urne (nel 1972) e finì per confluire con Lucio Magri nel Pdup, la maggiore forza che all'epoca stava alla sinistra del Pci. Rimase però "il Manifesto" come giornale di cui Rossanda fu anche direttrice ma soprattutto rimase tra le firme di punta fino a pochi mesi, quando decise di lasciare dopo più di quarant'anni per dissidi con l'attuale direzione. Poco propensa a parlare della sua vita privata, si confidò una volta con Stefania Rossini, inviata dell'Espresso: «Non sono stata bella e non mi ci sono mai sentita. Del resto i modelli della mia giovinezza erano Greta Garbo e Norma Shearer, mentre io ero grassottella e con i capelli dritti. Due matrimoni. Il primo con Rodolfo, figlio del filosofo Antonio Banfi, mio maestro. Siamo stati sposati vent’anni, un po’ separati in casa ma molto amici. Ora è morto ed è stato un grande dispiacere. Quando avevo 40 anni ho poi incontrato Karol», cioè Karol Kewes (noto come K.S. Karol), giornalista e saggista polacco-francese che ha scritto a lungo anche sul Manifesto. Tra le altre opere di Rossanda: "L' anno degli studenti" (del 1968, editore De Donato), "Le altre" (Feltrinelli), "Un viaggio inutile" (Bompiani), "La perdita", (Bollati Boringhieri).
Massimiliano Di Giorgio per leggo.it il 20 settembre 2020. I cinquant’anni dalla sua radiazione dal Partito Comunista Italiano, in cui era cresciuta ed era divenuta una dirigente, nel 1969; e i cinquant’anni dalla nascita del quotidiano Manifesto, nel 1971, che insieme a Luigi Pintor, Lucio Magri e Luciana Castellina e altri fondò proprio per dare una voce a quel pezzo di sinistra comunista a cui non bastava più il Pci. Quasi centenaria, costretta da tempo su una sedia a rotelle ma lucidissima sempre, Rossanda era tornata a Roma da alcuni anni, dopo aver trascorso un lungo periodo a Parigi per prendersi cura di K. S. Karol, suo compagno di vita, morto nel 2014. Quasi tre anni prima, nel 2011, era stata lei ad accompagnare a Bellinzona, in Svizzera, Magri, che aveva scelto il suicidio assistito. E nel 2012 lo scontro seguito all’ennesima crisi economica del Manifesto, che stava anche rischiando di portarlo davvero alla chiusura, aveva condotto Rossanda e Valentino Parlato (Pintor era morto nel 2003) a interrompere la collaborazione col giornale. Ma col Manifesto si era riconciliata poi nel 2018, ed era tornata a scrivere commenti e analisi. La sua storia in realtà non s’identifica solo con quella del “quotidiano comunista”, come ancora si definisce il giornale. Nel 1969, quando il gruppo che aveva dato vita alla rivista mensile chiamata appunto Il Manifesto viene radiato dal Pci, con l’accusa in sostanza di essere una frazione filocinese, Rossanda aveva già 45 anni, non era certo priva di esperienza politica. Da giovane stata allieva del filosofo di sinistra Antonio Banfi, alfiere del cosiddetto razionalismo critico. Nel 1963 era stata eletta deputata. Aveva guidato la sezione culturale del partito, faceva parte del Comitato Centrale, era stata a Cuba. Insieme ad altri dirigenti e intellettuali di partito, Rossanda aveva fatto riferimento per lungo tempo a Pietro Ingrao, cioè il leader storico della sinistra Pci. Ma nel corso degli anni le posizioni divennero sempre più critiche e dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e l’esplosione del movimento studentesco, lei e il suo gruppo contestarono la linea politica sia interna che internazionale del partito di Luigi Longo ed Enrico Berlinguer. Che pure, come raccontava qualche mese fa Filippo Maone, consideravano “il miglior partito comunista del mondo”. Da una parte non volevano che il Pci si avvicinasse all’area governativa e al centrosinistra di Dc e Psi, dall’altra criticavano l’Urss e il suo imperialismo ed esaltavano invece il modello cinese. La nascita della rivista finì per provocare la rottura col Pci, che in quella fase non volle accettare un dissenso così organizzato. Non era quello però lo scopo originale di quelli del Manifesto, come raccontò la stessa Rossanda: avrebbero voluto condizionare il dibattito interno, spostare a sinistra le posizioni del partito, ma non ci riuscirono. Non se ne andarono, furono cacciati. Nel 1972 provarono a dare vita a un partito, ma le elezioni andarono male praticamente per tutta l’estrema sinistra. Poi nacque il Pdup, un piccolo partito di cui Il Manifesto fu per breve tempo organo ufficiale. Il ritorno al Pci avviene per poco tempo, nel 1989, quando Achille Occhetto annuncia l’intenzione di scioglierlo. Gli antichi avversari - quelli che cacciarono e quelli che furono cacciati - si ritrovano, uniti nel nome dell’ideale comunista.
Una battaglia persa. Il Manifesto rifiuta poi di diventare l’organo di Rifondazione Comunista, e il giornale va per la sua strada, accompagnato sempre da problemi economici, guidato da una nuova generazione di giornalisti che non sono più militanti. Tra le tantissime cose scritte e dette da Rossanda, che è sempre stata soprattutto un’intellettuale critica e lucida, spicca la consapevolezza espressa negli anni Settanta che la lotta armata, le organizzazioni terroristiche, come le Br o Prima Linea, rientrassero, per linguaggio e simbologia, nel vecchio “album di famiglia” della sinistra, del movimento operaio. E forse basta una sua frase a riassumere la capacità di Rossana Rossanda a cogliere la complessità, l’onestà intellettuale, la capacità autocritica e il perdurante richiamo di un ideale: “Il povero e l’oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto”.
Addio a Rossana Rossanda. Si è spenta a 96 anni la fondatrice del Manifesto. Il Dubbio il 21 settembre 2020. È morta nella notte a Roma la nostra Rossana Rossanda. Aveva 96 anni. Lo annuncia l’edizione online del Manifesto, il quotidiano comunista che aveva fondato nel 1971. «Ricorderemo la nostra fondatrice sul giornale in edicola martedì», si legge sul sito del quotidiano. Nata a Pola il 23 aprile 1924, fra il 1937 e il 1940 Rossana Rossanda frequentò il liceo classico Alessandro Manzoni di Milano e anticipò di un anno l’esame di maturità. All’Università Statale di Milano fu allieva del filosofo Antonio Banfi. Giovanissima partecipò alla Resistenza e nel 1946 si iscrisse al Pci. Nel 1958 entrò nel comitato centrale del partito e grazie anche alla sua vasta cultura venne nominata dal segretario Palmiro Togliatti responsabile della sezione di politica culturale del Pci, che diresse dal 1963 al 1966. Deputata (1963-68), partecipò nel 1969 alla fondazione del mensile Il Manifesto con Luigi Pintor, Valentino Parlato, Lucio Magri, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Massimo Caprara. Accusata di frazionismo, fu radiata dal Pci. Contribuì quindi alla costituzione del movimento politico del Manifesto militando poi nel Partito di unità proletaria per il comunismo (Pdup, 1976-79), di cui fu cofondatrice. Tra i fondatori del quotidiano Il Manifesto nel 1971, che ha lasciato nel 2012 per discrepanze con l’allora nuova direzione, ne è stata più volte direttrice e, comunque, una delle figure più autorevoli e rappresentative. Tra le tante definizioni possibili di Rossana Rossanda, l’interessata ha scelto per se stessa quella di «ragazza del secolo scorso» quando si è trattato di raccontare la sua vita, «la politica come educazione sentimentale». E proprio La ragazza del secolo scorso volle intitolare la sua autobiografia pubblicata da Einaudi nel 2005. «Questo non è un libro di storia. È quel che mi rimanda la memoria quando colgo lo sguardo dubbioso di chi mi è attorno: perché sei stata comunista? perché dici di esserlo? che intendi? senza un partito, senza cariche, accanto a un giornale che non è più tuo? è una illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: “Lei è stata un mito!” Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c’entro – scriveva Rossanda – Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due. Ma la domanda mi interpella». La vicenda del comunismo e dei comunisti del Novecento, ammetteva Rossanda, è «finita così malamente che è impossibile non porsela». Che è stato essere un comunista in Italia dal 1943? Comunista come membro di un partito, non solo come un momento di coscienza interiore con il quale si può sempre cavarsela: «In questo o in quello non c’entro». «Comincio dall’interrogare me. Senza consultare né libri né documenti ma non senza dubbi», argomentava Rossanda. «Dopo oltre mezzo secolo attraversato correndo, inciampando, ricominciando a correre con qualche livido in più, la memoria è reumatica – confessava la giornalista – Non l’ho coltivata, ne conosco l’indulgenza e le trappole. Anche quelle di darle una forma. Ma memoria e forma sono anch’esse un fatto tra i fatti. Né meno né più». Su Facebook il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, ricorda così la giornalista. «Addio alla ragazza del secolo scorso che ci ha insegnato il valore del dissenso e del pensiero critico. Ci lascia una grande eredità: che cultura e politica non possono essere mai disgiunti, che libertà individuale, giustizia sociale e uguaglianza avanzano insieme, e che per questi ideali vale la pena spendere una vita». «Grazie per ogni parola scritta che ci ha aiutato sempre a vedere al di là del nostro sguardo», commenta il ministro per gli Affari europei, Vincenzo Amendola. Cordoglio e commozione anche da parte di Loredana De Petris, senatrice di Leu, che definisce Rossanda «una maestra di pensiero e di azione politica, un’intellettuale e militante marxista che ha sempre saputo coniugare, come pochissimi altri, la lotta per il riscatto sociale con la difesa dell’eredità liberale: il culto della libertà, il garantismo strenuo, la fede in un pluralismo di sostanza, la fiducia nella democrazia parlamentare», ricorda De Petris. «Nella sua lunga vita ha dimostrato come, senza piegarsi a logiche di partito e a volte anche in quasi totale solitudine, si possa incidere a fondo sul percorso sociale e culturale di tutti: pochi hanno saputo farlo come lei, che resterà un modello e un esempio. Ci mancherà moltissimo ma non dimenticheremo nè lei nè la sua lezione». «Addio a Rossana Rossanda, partigiana, femminista, giornalista, dirigente del Pci, una protagonista della storia italiana. Una ragazza – diceva di sé – che ha avuto una vita intensa, sempre in collera con il corso del mondo e le sue inique storture», è il ricordo invece dell’ex ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. Presso Einaudi, Rossanda ha pubblicato, oltre al già citato La ragazza del secolo scorso (2005), Un viaggio inutile (2008) e Quando si pensava in grande (2013). Il suo ultimo libro è Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri, 2018). Tra i suoi libri L’anno degli studenti (De Donato, 1968); Le altre. Conversazioni sulle parole della politica (Feltrinelli, 1979); con Pietro Ingrao e altri, Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri, Roma 1995); con Filippo Gentiloni, La vita breve (Pratiche, 1996); con Carla Mosca, il libro-intervista all’ex terrorista Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana (Anabasi, 1994).
È morta Rossana Rossanda, a 96 anni se ne va “la ragazza del secolo scorso”. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2020. “Addio Rossana Rossanda”. Con un Tweet Il Manifesto annuncia la morte della sua fondatrice, la giornalista Rossana Rossanda. Aveva 96 anni. Si è spenta a Roma durante la notte. È stata una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il Manifesto. Nacque a Pola il 23 aprile del 1924 e visse a Milano. Mente brillante sin da subito, anticipò di un anno la maturità classica. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale partecipò attivamente alla Resistenza come partigiana. Si iscrisse subito al Partito Comunista Italiano e venne nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del PCI. Nel 1963 venne eletta per la prima volta alla Camera dei deputati. Nel 1968 nel mezzo delle agitazioni studentesche ed operaie pubblicò il piccolo saggio “L’anno degli studenti”, in cui dichiarava di abbracciare le rivendicazioni che gruppi e collettivi di sinistra stavano portando avanti. Insieme ai compagni di partito Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri nel 1971 fondò il giornale “Il Manifesto”. Subito iniziarono le divergenze con la linea politica che prese il PCI. Rossanda da subito fu critica nei confronti del socialismo reale dell’Unione Sovietica. La divergenza diventò incolmabile quando il PCI si posizionò nei confronti dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte di paesi del Patto di Varsavia, a cui il gruppo de il manifesto aveva speso parole di dura e netta condanna dell’accaduto. Rossanda venne radiata insieme a tutta la sua corrente, nonostante il parere contrario del futuro segretario nazionale Enrico Berlinguer, durante il XII Congresso nazionale del Partito svoltosi a Bologna nel 1969. “Perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto ad un giornale che non è più tuo? È un’illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: ‘Lei è stata un mito!’. Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c’entro. Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due…”. Scriveva così in un’autobiografia dal titolo “La ragazza del secolo scorso” (uscita per Einaudi, nel 2005). Rossanda è stata una giornalista e una signora della politica italiana, comunista mai pentita ma sempre critica. Lascia un vuoto incolmabile nella cultura e nella politica italiana.
Il ritratto. Chi è Rossana Rossanda, “la ragazza del secolo scorso”: fondò il Manifesto. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Rossana Rossanda (Pola, 23 aprile 1924) è una giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI negli anni cinquanta e sessanta e cofondatrice de il manifesto. Rossana Rossanda era una giornalista, politica e intellettuale. Nacque a Pola il 23 aprile del 1924 e visse a Milano, Parigi e Roma. Mente brillante sin da subito, anticipò di un anno la maturità classica. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale partecipò attivamente alla Resistenza come partigiana. Si iscrisse subito al Partito Comunista Italiano e venne nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del PCI. Nel 1963 venne eletta per la prima volta alla Camera dei deputati. Nel 1968 nel mezzo delle agitazioni studentesche ed operaie pubblicò il piccolo saggio “L’anno degli studenti”, in cui dichiarava di abbracciare le rivendicazioni che gruppi e collettivi di sinistra stavano portando avanti. Insieme ai compagni di partito Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri nel 1971 fondò il giornale “Il Manifesto”. Subito iniziarono le divergenze con la linea politica che prese il PCI. Rossanda da subito fu critica nei confronti del socialismo reale dell’Unione Sovietica. La divergenza diventò incolmabile quando il PCI si posizionò nei confronti dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte di paesi del Patto di Varsavia, a cui il gruppo de il manifesto aveva speso parole di dura e netta condanna dell’accaduto. Rossanda venne radiata insieme a tutta la sua corrente, nonostante il parere contrario del futuro segretario nazionale Enrico Berlinguer, durante il XII Congresso nazionale del Partito svoltosi a Bologna nel 1969. Come giornalista Rossana Rossanda, pseudonimo Caterpillar, era brillante ma anche sempre approfondita, sempre di parte e mai faziosa. Nel cuore del sequestro Moro scrisse un pezzo da manuale del giornalismo, quello sull’ “album di famiglia” in cui rintracciava la discendenza genealogica precisa delle Br dal Pci degli anni ’50. Inutile dire che il Pci la prese molto peggio che male. Era sposata con il giornalista di guerra polacco e francese d’adozione Karol, la cui famiglia era stata sterminata nei lager nazisti. Karol aveva svolto la guerriglia contro l’armata di Hitler in prima persona. Per seguire il marito Rossanda si trasferì a Parigi, tornando in Italia solo dopo la scomparsa del marito. Gli ultimi anni della sua vita li ha trascorsi a Roma dove si è spenta il 20 settembre 2020 all’età di 96 anni. L’ictus l’aveva paralizzata ma senza toglierle un briciolo di lucidità fino al suo ultimo giorno di vita.
Intellettuale, rivoluzionaria, "Caterpillar": i mille volti di Rossana Rossanda. David Romoli su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Rossana Rossanda è stata una protagonista gigantesca del ‘900 italiano e come spesso capita ai grandi protagonisti di un’epoca presentava troppi aspetti diversi, troppi lati di un prisma complesso, perché le istantanee dei ricordi giornalistici possano renderne conto e renderle giustizia. C’è la giovane, brillante e vorace intellettuale, allieva prediletta di Antonio Banfi, ed è una Rossana Rossanda che non è mai uscita di scena, neppure quando la militanza politica prese il sopravvento su tutto. Amica di personaggi come Sartre e Althusser, guida della Casa della Cultura di Milano per 12 anni, dal 1951 al 1963, nominata responsabile della cultura del Pci direttamente da Palmiro Togliatti, uno che in materia non era di bocca buona, è rimasta una studiosa curiosa, attenta a qualsiasi novità reale e non alla moda fino all’ultimo. Nessuno della sua generazione ha saputo più di lei entrare in contatto e a volte in conflitto, ma sempre fecondo, con le generazioni successive di intellettuali marxisti. Ci teneva definirsi così “una marxista”, segnando la differenza con amici e compagni con cui aveva diviso la vita, che amava ma che definiva “comunisti italiani”. Cose diverse e ne era consapevole. C’e la militante rivoluzionaria che a 19 anni era entrata nella Resistenza e poi, nel dopoguerra nel Pci. In una lunga vita, nata nel 1924, morta a 96 anni ieri, Rossana Rossanda non ha mai smesso di considerarsi tale. Lo era anche nel Pci degli anni ’60, senza le rigidità già allora arcaiche dei duri come Pietro Secchia ma con un’attenzione estrema a tutto quello che il vento della rivoluzione portava di nuovo: il Terzo Mondo, gli studenti del ’68, sui quali scrisse uno dei primi migliori libri, L’anno degli studenti, soprattutto gli operai protagonisti dalla grande insorgenza sociale del decennio 1968-1978. In questa veste, nello storico XI congresso del Pci del 1966 fu protagonista in prima linea della battaglia che vide la sconfitta della sinistra ingraiana, con conseguente estromissione da tutti gli incarichi dirigenti. Non si arresero né lei né molti di quelli che avevano retto quello scontro: l’ex direttore dell’Unità Luigi Pintor, un dirigente popolarissimo a Roma come Aldo Natoli, e poi Lucio Magri, Luciana Castellina, Eliseo Milani. La storia sembrava dargli ragione. La rivolta delle università e poi delle fabbriche confermava le loro analisi, gli a est anche. Nella primavera del 1969 tentarono di dar vita a un periodico dissidente dall’interno del partito, il manifesto. Il partito la prese malissimo. Quella ribellione fu oggetto di tre riunioni del Comitato centrale e la situazione precipitò dopo un editoriale sulla Cecoslovacchia rimasto nella storia: “Praga è sola”. Finì nel peggiore dei modi: con la messa alla porta. “Speravamo di essere il ponte tra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un’altra storia”. Si chiude così La ragazza del secolo scorso, l’autobiografia parziale, limitata alla prima parte della sua vita e della sua militanza politica, di Rossana Rossanda. Pubblicato nel 2005, quel libro si arresta al 24 novembre 1969, quando l’autrice, con tutto il gruppo del manifesto, fu radiata dal Pci. La differenza tra radiazione ed espulsione, in termini concreti, era inesistente ma la misura meno severa, se non meno drastica, attestava che i radiati non erano comunque rinnegati o traditori. “Compagni che sbagliavano” e soprattutto che si intestardivano a non ammettere l’errore come gli aveva chiesto di fare più volte Enrico Berlinguer, rappresentante dell’accusa che avrebbe preferito evitare la misura estrema. Qualcuno si smarcò e votò contro la radiazione e tra quei 12 c’era Achille Occhetto. Pietro Ingrao e Alfredo Rechlin, che nel 1966 erano stati protagonisti dello scontro decisivo all’XI Congresso, votarono secondo le disposizioni dall’alto. C’è la Rossana Rossanda leader della sinistra extraparlamentare, perché nel clima effervescente dell’epoca quegli intellettuali che provenivano dal granitico Pci provarono a creare qualcosa di diverso, un gruppo della sinistra exptraparlamentare aperto al dialogo sia con gli altri gruppi rivoluzionari che con la sinistra del partito da cui provenivano. Fu una storia di aggregazioni, unificazioni, scissioni separazioni. La mossa a effetto fu la candidatura di Pietro Valpreda, ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, nelle elezioni del 1972. Andò malissimo ma il gruppo restò vivo, diventando Pdup ancora per anni prima di essere sommerso dall’onda del ’77. Rossanda in quella fase non si fece mai coinvolgere troppo dalle ansie di creare partiti o partitini. Preferiva il giornale, in edicola dall’aprile 1971, il primo quotidiano della sinistra extraparlamentare a nascere, l’unico che non sia morto con il movimento e sia anzi ancora in campo. Il quotidiano permetteva un’azione politica libera dai condizionamenti asfissianti degli interessi politici di micropartito, permetteva di esercitare un’analisi laica e a tutto campo. La Rossana Rossanda giornalista ha dato il meglio di sé: un modello unico o quasi di marxismo rigoroso ma capace di conservare l’eredità del pensiero liberale, con il pluralismo e il garantismo intesi come valori non trattabili. Come giornalista Rossana Rossanda, pseudonimo Caterpillar, era brillante ma anche sempre approfondita, sempre di parte e mai faziosa. Nel cuore del sequestro Moro scrisse un pezzo da manuale del giornalismo, quello sull’ “album di famiglia” in cui rintracciava la discendenza genealogica precisa delle Br dal Pci degli anni ’50. Inutile dire che il Pci la prese molto peggio che male. C’è anche una Rossana Rossanda privata, quella della lunghissima relazione e del matrimonio con il giornalista di guerra polacco e francese d’adozione Karol, uno che aveva alle spalle lo sterminio della famiglia nei lager nazisti, la guerriglia contro l’armata di Hitler in prima persona, decenni di giornalismo in mezzo alle bombe. Con lui e per lui, ormai cieco, negli ultimi anni della sua vita Rossanda era andata a vivere a Parigi, tornando in Italia solo dopo la scomparsa del marito. L’ictus la aveva poi paralizzata senza toglierle un briciolo di lucidità. C’è anche una Rossana Rossanda sconfitta: nel Pci, nella società italiana, nella ricostruzione della sinistra, nello stesso manifesto dal quale si era allontanata nei primi anni ’10 di questo secolo. Di certo negli ultimi anni della sua vita si sentiva tale. Ma sul fatto che lo sia stata davvero è lecito dubitare. Con i grandi protagonisti della storia il tempo è spesso galantuomo. Forse lo sarà anche con lei e con la sua battaglia.
Noi la ammiravamo e lei disprezzava la nostra ammirazione. Rossana Rossanda e le ex "ragazze del Manifesto" che ne spiavano sguardi e mosse. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Settembre 2020. Quel giorno d’estate aveva indossato i suoi sandali che lasciavano intravedere piedi ben curati e unghie laccate di rosso. La vide un vecchio deputato democristiano (forse ministro) e le sussurrò: «Scusi, onorevole – le diede del lei perché alle colleghe non si dava del tu – non potrebbe evitare di venire in Parlamento con le unghie rosse?». «No, non potrei», rispose lei, non da sventurata come la Monaca di Monza, ma da Rossana Rossanda. Donna vera, che ora non c’è più. Sono una delle ex ragazze del Manifesto – scomodo anticonformista libertario “quotidiano comunista” – , giovani appassionate che sognavano la rivoluzione sessantottina e intanto ne avevano già fatta una, quella delle minigonne. Ed è così che mi piace ricordare Rossana, da donna a donna. Glielo devo, anche perché dieci anni fa ho scritto un libro che si chiamava Donne che odiano le donne e non sono stata tenera con lei, anche se la mia ferocia l’avevo riservata a Letizia Moratti. Noi ex ragazze del Manifesto (Lucia Annunziata, Ritanna Armeni, Rina Gagliardi, Grazia Gaspari, Norma Rangeri, Mariuccia Ciotta e tante altre) volevamo costantemente l’approvazione di Rossana, avevamo con lei un vero rapporto d’amore, ne spiavamo le mosse, gli sguardi, il linguaggio del corpo. «Attenzione, si è messa il rossetto», bisbigliavamo nel corridoio della sede romana di via Tomacelli, e significava allarme rosso, problema politico. Poi si entrava nello stanzone dove ogni mezzogiorno si riuniva il “collettivo”, non solo una riunione di redazione, quasi una seduta di autocoscienza, come si usava allora nei gruppi femministi. Lei non era l’uomo che a qualcuno sembrava e non era neanche quel cubetto di ghiaccio che appariva ai superficiali che volevano sminuirne la storia. Quando dondolava la borsa con il manico appeso al ginocchio e intanto parlava di comunismo, non era a Marx che noi pensavamo, ma a come farle sparire quella ruga sulla fronte. Incontentabile, questo sì. Ma con una sua dolcezza segreta. Quando mi sussurrò «pensa al giornale, ma pensa anche a te» in seguito a un mio tragico lutto che avrebbe potuto danneggiarci tutti quanti, sentii in lei più la rivoluzionaria Rosa Luxemburg quando parlava dei “lividi dell’anima” che non l’austera comunista che aveva dato lezioni a tutti nel dodicesimo congresso del Pci. Rossana ha sicuramente amato le donne, le ha stimate e, a un certo punto della vita, quando noi “ex ragazze” degli anni Settanta avevamo in gran parte preso il volo forse anche per liberarci di lei, ha dialogato con il femminismo. A modo suo. Senza rendersi conto del fatto che a noi, se pur singolarmente non aveva del tutto negato la vicinanza e la sua particolare dolcezza, aveva anche fatto del male. Ci aveva aiutate a scappare. Ci chiedeva di apparecchiare la tavola, disse un giorno Ritanna, mentre i fratellini ne erano dispensati. Noi l’ammiravamo e lei disprezzava la nostra ammirazione. E a Lucia, la ribelle che forse fu la figlia più amata, un giorno prese il viso tra le mani, mentre lei stava per andare a una manifestazione e le disse piano «per favore, non bruciare troppe macchine». Un gesto d’amore, una rara capacità di mettersi nei panni dell’altra. Ma un’altra volta le spiegò con fermezza (poi se ne pentì, raccontandomi l’episodio e non aspettandosi un mio commento) che di quello che lei pensava e diceva non le importava proprio niente. Come a dire: tu per me non sei nulla. Forse anche per quello, quando ho intervistato le “ex ragazze” per il mio libro dieci anni fa, Lucia Annunziata fu molto decisa nel dire che a lei di quell’esperienza non era rimasto niente. «Siamo state amate –mi ha detto- assorbite, poi scordate». Ma oggi, ripensando alle tre donne di potere che ho incontrato al Manifesto, oltre a Rossana, Luciana Castellina e Lidia Menapace, non posso che ringraziarle. Ci siamo costruite una scorza robusta, grazie a loro. Che erano ideologiche, dure, forse divoratrici delle figlie, ma non “donne che odiano le donne”. Quando Rossana mi diceva “non miagolare” (avevo avuto uno scontro con Franca Rame per un suo brutto spettacolo sui palestinesi e lei si era lamentata con Lucio Magri), non era una mamma con il ditino alzato. Era qualcuno che mi stava dando uno strumento che mi aiutasse a dar valore alle mie ragioni e a farmi valere. Lo spettacolo era brutto e io avevo il diritto di scriverlo. Rossana condivideva, non mi diceva “hai ragione”, ma solo di non miagolare. Volevo sempre scappare, però, da lei e dal Manifesto. E ci sono rimasta vent’anni, fino a che sono andata in Parlamento, nel 1992. Lei ne ha attesi altri venti, fino a rompere nel 2012 ogni rapporto con un giornale che non aveva più, e non ha più, nulla in comune con quello che fu. Era difficile per tutti distaccarsi, spezzare quel cordone. Eravamo stati una famiglia, con tutto l’amore e la violenza che albergano nelle famiglie. Ma allora io mi sentivo continuamente sacrificata e chissà quale riconoscenza mi ero aspettata quando, al ritorno da una spedizione non proprio priva di rischi cui ero stata esposta con un viaggio nel Portogallo di regime in compagnia di un clandestino condannato a morte, lei mi aveva liquidata con un “bene”. Avevo appena scoperto che il ragazzo che mi avevano pregato di accompagnare (con documenti falsi) era ricercato e faceva parte di un gruppo armato, avevo rischiato di essere arrestata, ero stata quasi stuprata, e lei mi diceva solo che andava tutto bene? Cinismo, freddezza? O non invece rispetto per una donna adulta quale io ero? Al Manifesto, Rossana, proprio come noi ragazze e ragazzi di allora, ha imparato a fare la giornalista. Luigi Pintor, Valentino Parlato, Luciana Castellina lo erano da prima. Io, che vivevo a Milano ed ero nata alla politica mentre esplodeva la bomba di piazza Fontana, Valpreda veniva arrestato e Pinelli precipitava da una finestra della questura, divenni cronista giudiziaria. Sono presuntuosa se dico che Rossanda le prime nozioni di garantismo le ha apprese in assonanza con i miei articoli? La sua sensibilità, la sua capacità di lettura e ascolto fecero del Manifesto un piccolo giornale corsaro che per primo seppe non solo mettere in discussione le versioni ufficiali (per quello sarebbe bastato Lotta continua), ma anche l’ideologia della sinistra che voleva i fascisti tutti colpevoli e i compagni tutti innocenti. Mandavo i miei pezzi da Genova sul rapimento del giudice Sossi, scrivevo Brigate rosse, Pintor metteva le virgolette a “rosse” e Rossana le toglieva. Prima ancora di scrivere dell’album di famiglia. E ben prima di scrivere, insieme a Carla Mosca, quel bel libro-intervista a Mario Moretti. Ma insieme difendemmo anche, in un giornale che portava la scritta “quotidiano comunista”, le garanzie per Mambro e Fioravanti, terroristi di destra. Tra gli insulti degli uomini della federazione bolognese del Pci. E l’intero giornale fu sicuro di sé contro la linea della fermezza nei giorni del rapimento Moro. Né (si parva licet) ci fu esitazione alcuna, un anno dopo, nel protestare contro la procura della Repubblica di Milano che mi aveva messo le manette per la mia partecipazione a una cena. La storia politica di Rossana Rossanda è anche questa cosa qui. Questo suo modo di essere donna che oggi da ex ragazza del Manifesto voglio salutare senza piangere. Senza miagolare, come vorrebbe lei.
Rossana Rossanda, il ricordo di Luciana Castellina: “Oggi dovevamo andare a votare No insieme”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Rossana Rossanda, la “ragazza del secolo scorso” – come lei stessa si definì – attraversata da protagonista la storia grande e terribile del secolo scorso, ha chiuso il cerchio della sua vita a Roma, dove nel 1969 aveva fondato Il Manifesto e da dove si era allontanata per tanti anni di esilio volontario a Parigi, disgustata da “sovranisti e populisti”, come spiegò in una recente intervista. La aveva convinta a tornare quella che definiva sua sorella di fatto, Luciana Castellina: “La nostra è stata una vita passata insieme”, confida al Riformista. “E la vita di Rossana coincide per tante parti con la mia. Un rapporto politico, di sorellanza. Con qualche bisticcio, ma come si litigava tra sorelle. È rimasta lucida fino alla fine, sebbene paralizzata. Leggeva, si aggiornava su tutto. Abbiamo parlato due giorni fa. Era di una lucidità incredibile, sempre informata di tutto, veloce nei ragionamenti, anche se tradita dal corpo”. Quel corpo che a 96 anni era diventato per lei, per dirla con Platone, “una prigione”. “Ci eravamo messe d’accordo. Sarei dovuta passare a casa sua questa mattina, con la macchina. Ci teneva a andare a votare, come sempre. Era convinta delle ragioni del No, come sono convinta io. Avremmo votato anche questa volta dalla stessa parte. Lei 96, io 91, insieme ne abbiamo fatte di tutti i colori. E speriamo non invano”. Mario Capanna la ricorda senza sconti. “Provo una grandissima afflizione alla notizia che ci ha lasciato. Ebbi con lei dei rapporti conflittuali, sin dai tempi del Pdup. Loro sostenevano, tramite il Manifesto, il comunismo come programma per l’azione. Cosa che a me sembrava piuttosto avventata, come poi i fatti si sono incaricati di dimostrare. Ci fu un conflitto che portò loro, radiati dal Pci, ad espellermi dal Pdup. Un bel paradosso. Ma nonostante questi scontri, ho da sempre provato una grande stima, ha vissuto sempre con la spina dorsale dritta. Ha fatto errori di valutazione della realtà, ma chi non ne fa? In una recente intervista aveva detto: attenzione, se vince Salvini è colpa della sinistra. Cosa che io condivido. Perché la sinistra non ha fatto più il suo dovere. E con lei ho condiviso la sua ultima battaglia, quella per il No, perché questa masnada di gente che la ha proposta – i Cinque Stelle e il Pd, che è diventato il portatore d’acqua di Grillo – sono degli analfabeti della politica. A questo referendum va votato No con tutte e due le mani, è un attentato non solo alla Costituzione, ma è un passo verso l’oligarchia”. Aldo Garzia era al Manifesto sin dal primo giorno. “Da giovani a via Tomacelli avevamo una certa reverenza nei suoi confronti, una ex combattente partigiana che era diventata capo della commissione cultura del Pci. Sentivamo il peso del suo calibro, ma lei no: parlava con tutti, amava il dialogo e l’interesse per il nuovo”. Di lei gli mancherà “la coerenza intellettuale, il suo sforzo di capire sempre le novità sociali e politiche, a partire dal femminismo. Una intellettuale sempre all’avanguardia, ma ultimamente faceva fatica a capire il dibattito italiano. Era disorientata dal rapporto tra Pd e Cinque Stelle. Era preoccupata dall’annacquamento dell’essere di sinistra, dal fatto che non si riesce più a capire che cos’è la sinistra. Una sinistra che non era per lei fatta di sacri testi, ma di misura con la realtà”. Poi Garzia ci affida un ricordo recente: “Era stata al mare in questi ultimi giorni, dall’inizio di settembre. A Sperlonga, perché voleva rivedere il mare, prima di morire”. Vincenzo Vita, presidente della Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, ha le lacrime agli occhi. “Una perdita dolorosissima. Non è un fatto personale, è una cesura con la storia: con lei si conclude anche simbolicamente una intera stagione di speranze. Rossana era la ragazza del secolo scorso che però sapeva guardare avanti. Poliedrica, ha attraversato tutti i saperi”. La sua lezione? “Cimentarsi con le domande. Solo interpretando le domande si può immaginare di costruire risposte che abbiano senso. E’ stata un tempio di immaginazione del comunismo bello, democratico e mai autoritario”. Vita fu tra i primi ad arrivare al Manifesto, quando la rivista si trasformò in quotidiano, avvenuta la radiazione del gruppo – Rossanda, Magri, Parlato – dal Pci. Ricordo le conversazioni sempre stimolanti a via Tomacelli. A lei dobbiamo – tante e tanti di noi – la nostra crescita. C’è una intera generazione di intellettuali che ha appreso molto da lei”. E dopo di lei? “Vedo il buio. Altri verranno, ma questa mattina la sua mancanza ci sommerge di cordoglio”. L’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, in una nota saluta la “Partigiana, politica, intellettuale, femminista. La ragazza del secolo scorso che non ha mai smesso di lottare per gli ideali in cui credeva. Giulia Rodano, Casa delle Donne, la ricorda nella sua ultima manifestazione pubblica. “Combattiva e appassionata, prese il microfono per sostenere le donne candidate alle Elezioni Europee”. Era il maggio 2019, aveva novantacinque anni e nessuna voglia di tacere. La sua voce d’altronde, ci dicono tutti gli intervistati, continuerà a farsi sentire, e con essa l’eco delle sue domande, dei suoi interrogativi rimasti senza risposta. Il punto interrogativo, rovesciato, è un amo per andare a pesca. Inclinato, è una falce senza martello.
L'addio alla "compagna" Rossana. “Rossana Rossanda è stata una protagonista della storia d’Italia”, il ricordo di Emanuele Macaluso. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Si sono combattuti per una vita. Ma sempre con rispetto, come si addice a “vecchi” comunisti, dove quel “vecchi” non è legato all’età ma a un costume, a un modo di intendere la lotta politica e le relazioni personali, una concezione, un modus vivendi, che non trovano spazio nel presente di una politica dominata da mezze tacche, arroganti quanto privi di pathos. Per Emanuele Macaluso, Rossana Rossanda è sempre rimasta la “compagna Rossana”, alla quale dice, nel giorno della sua scomparsa, “ho voluto bene, molto bene”.
Qual è il ricordo di Rossana Rossanda?
«Il ricordo di una “compagna”, termine che per me ha ancora un grande valore. Le ho voluto bene, molto bene, e a questo sentimento non ha fatto velo le posizioni politiche divergenti, a volte anche opposte, che avevamo quando eravamo dirigenti del Pci. Ma le nostre battaglie le abbiamo sempre condotte a viso aperto, con quella passione e quel rispetto che non sono mai venuti meno nel corso del tempo».
Il tempo. In quale occasione avvenne il vostro primo incontro?
«“Dobbiamo andare molto indietro con la memoria. Al 1958. L’ho conosciuta a Milano. Lei dirigeva la Casa della Cultura nella storica sede di via Borgogna 3, a San Babila, ed io dirigevo il Pci in Sicilia. Eravamo distanti, non solo in chilometri… Rossanda mi invitò a parlare, in quella prestigiosa Casa, della “Operazione Milazzo” all’Assemblea regionale siciliana, che provocò un terremoto politico nel Pci. Prima di esprimere un giudizio, voleva sapere, voleva capire. Non si accontentava di analisi superficiali, oggi si direbbe di qualche twitter. Poi, però, quando si era formata una convinzione, non arretrava mai. Come ti dicevo, era il 1958. Ricordo che andai a pranzo a casa sua. Fu l’inizio di un rapporto profondo, a volte agitato, segnato da una divergenza politica aspra ma affettuosa. Sì lo so, “aspra” e “affettuosa” possono sembrare sentimenti inconciliabili. Ma non è così, o almeno non lo è stato nel rapporto con Rossana».
La prima donna ad essere chiamata, da Palmiro Togliatti, alla guida della commissione cultura del Pci.
«Fu una scelta coraggiosa, quella di Togliatti, coraggiosa quanto appropriata. E non solo perché era la prima donna ad essere chiamata a dirigere un settore così importante per il partito come era quello culturale. Fu una scelta coraggiosa e appropriata perché Rossanda portava con sé un bagaglio culturale, letture e curiosità intellettuali che rappresentavano una innovazione importante, non dico una rottura con una visione “ingessata” del rapporto tra partito e intellettuali, ma di certo una forte discontinuità, pur nel solco del comunismo italiano. A un certo punto, le nostre strade si sono separate, ma Rossana resta una protagonista della storia d’Italia, sì dell’Italia, perché di quella storia il Pci è stato, per lungo tempo, un facitore, e Rossana quella storia ha contribuito a realizzarla, da protagonista. Il tempo è inesorabile, e uno alla volta i militanti e i dirigenti del Pci vanno scomparendo. Ma quello che non può, non deve scomparire è la storia di quel partito, il Pci, di cui Rossana è stata parte importante. Una storia che lei ha sempre rivendicato, anche quando si consumò la rottura. Spero che le nuove generazioni della sinistra non la mandino in archivio. Anche perché questa storia ha segnato negli anni la vita di migliaia di persone. Rossana l’ha costruita questa storia, assieme a tanti altri. Oggi il mio addio alla compagna Rossana, mi ha fatto riflettere, ancora una volta, su questa vicenda straordinaria».
Francesco Musolino per “il Messaggero” il 21 settembre 2020. Storico dirigente della Sinistra italiana, Emanuele Macaluso ha iniziato la sua lunga carriera politica nel 1951come deputato regionale siciliano delPci. Parlamentare nazionale per sette legislature (dal 63 al 92), ha diretto L' Unità e allo scioglimento del Pci, ha scelto di aderire al Pds. Nel corso degli anni, i suoi accesi confronti con Rossana Rossanda a partire dalla spinosa questione de l' album di famiglia sono entrati negli annali del partito ma non appena le agenzie hanno dato notizia della sua scomparsa, è stato fra i primi a volerla ricordare, pubblicando un ricordo personale su Facebook.
La scomparsa di Rossana Rossanda è una perdita per tutto il paese?
«Senza dubbio e abbiamo il dovere di ricordarla. Lei aveva la mia stessa età, fummo militanti e dirigenti del Pci su posizioni politiche diverse, anzi direi divergenti. Aveva una mente fervida e la sua scomparsa mi amareggia».
Dove avvenne il primo incontro?
«A Milano. Rossana dirigeva la Casa della Cultura, in via Borgogna 3, a San Babila mentre io dirigevo il Pci in Sicilia. Era il 1958 e mi invitò a tenere una conferenza in quella Casa, a proposito della complicata operazione Milazzo all' Assemblea regionale siciliana che provocò nel Pci un terremoto politico. E poi, pranzai a casa sua».
Che rapporti ci sono stati in questi anni fra voi?
«Una continua divergenza politica, a volte aspra, persino polemica. Ma le volevo molto bene».
Rossana Rossanda è stata espulsa dal Pci nel 1969. Un evento clamoroso?
«Erano anni tumultuosi, allora il segretario del partito era Enrico Berlinguer. Lei venne accusata di frazionismo e radiata. Una decisione presa in conseguenza alla decisione - con Lucio Magri, Aldo Natoli, Luigi Pintor e Valentino Parlato di fondare, all' insaputa del partito, la rivista Il Manifesto, che poi divenne il quotidiano. Il loro fu un atto di forte indisciplina».
Lei prese parte a quella decisione?
«No, non partecipai alla sua espulsione, ero lontano. Dopo la nascita de Il Manifesto li invitai a casa, volevo ricomporre lo strappo con Berlinguer, ero certo che fosse possibile intervenire e ricreare un dialogo ma le cose andarono diversamente. Ancora oggi penso che la decisione di espellerla fu decisamente esagerata, un errore».
Dunque anche il Pci commise degli errori?
«Il Pci ha avuto un ruolo nazionale importante non solo per la Sinistra ma per l' Italia intera.
Tuttavia, non c' è alcun dubbio, ci sono stati degli errori, delle contraddizioni. Era inevitabile che accadesse. I dirigenti non erano certo infallibili anche se non tutti erano pronti ad ammetterlo».
In un celebre articolo del 1978, Rossana Rossanda scrisse: «Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l' album di famiglia». Come andò?
«Fui proprio io ad entrare apertamente in contrasto con Rossana e oggi confermo la mia posizione. Il Pci non ha mai avuto rapporti con il terrorismo e quando lei affermò questa presunta contiguità, saltai sulla sedia. Era un' immagine rispettabile ma sbagliata».
Ci mancherà la forza politica della Rossanda?
«Certamente. Ebbe anche posizioni politiche discutibili ma era sempre piena di spunti interessanti. La sua mancanza apre un vuoto perché lei ha avuto un ruolo importante per il paese, non dobbiamo dimenticarlo».
Eravate ancora in contatto?
«Pochi giorni fa la chiamai. Lei mi chiese di andarla a trovare, non stava bene. Non l' ho fatto e avverto un profondo rammarico».
Da “il Giornale” il 21 settembre 2020. Voglio rendere onore alla memoria di Rossana Rossanda. Una donna che seppe coltivare per tutta la vita due grandi virtù, quella della coerenza e quella della libertà di pensiero. Le sue convinzioni politiche erano ovviamente lontane dalle mie, ma questo non mi ha impedito di apprezzarne, anche incontrandola personalmente, la cultura e lo spirito critico. Rimarrà di lei il ricordo di una protagonista della vita politica e culturale del 900, rispettata da amici e avversari. Silvio Berlusconi.
Manconi: “Garantista e libertaria, quella di Rossanda era un’eleganza dell’anima”. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 21 settembre 2020. Intervista a Luigi Manconi: “Credo che all’origine del suo garantismo ci fosse la volontà di comprendere le ragioni, per quanto orribili, di chi commette reato. Nel caso del terrorismo, di chi commette reato in nome di un progetto rivoluzionario che Rossanda vedeva come derivato da una concezione di cui conosceva l’origine”. Di Rossana Rossanda si racconta soprattutto l’eccezionale carisma. La Signora della sinistra, come la definiscono in molti, esercitò sugli amici più cari e meno vicini una solenne fascinazione: ricordarla significa ripercorrere il secolo scorso attraverso il suo sguardo perché chiunque abbia condiviso un pezzo di quegli anni con lei ne riconosce la particolare profondità. «La fisionomia, il volto, la capigliatura: tutto in lei la rendeva una personalità dal tratto ieratico», racconta Luigi Manconi – giornalista, politico, già senatore del Partito Democratico – che con Rossanda promosse quel laboratorio culturale che fu la rivista Antigone. Il “bimestrale di critica dell’emergenza” nato tra il 1985 e il 1986 attorno a un gruppo di intellettuali e militanti che, con ispirazione garantista, elaborò una lettura critica delle vicende giudiziarie seguite alla stagione del terrorismo in Italia.
On. Manconi, qual è il suo ricordo di Rossana Rossanda?
«La sua eleganza era un’eleganza dell’anima. C’era in lei una certa naturalezza, un comportamento fatto di discrezione, di toni bassi della voce, di moderazione. La sua solida educazione borghese, colta e misurata, non rendeva la sua condizione sociale un fattore di potere, né di prevaricazione. E certamente non di superiorità: la sua condizione borghese rappresentava una modalità di stare al mondo vivendolo, intrattenendo le relazioni con l’altro».
Come la conobbe?
«Come redattore, per un periodo, del quotidiano il Manifesto. Si tenga conto che io militavo in Lotta Continua, una formazione lontanissima da quella realtà: non venivo da un’esperienza leninista, ma da un movimento fatto di spontaneità, emotività e innovazione. Lotta Continua fu “uno stato d’animo”, come lo definì la giornalista Rina Gagliardi (direttrice del Manifesto tra il 1985 e il 1986, ndr), legatissima a Rossanda. Ma non ricordo per questo alcuna frattura».
Come nacque, in seguito, l’idea di fondare la rivista Antigone?
«La spinta fu una vicenda pubblica di grande impatto, nota come “Caso 7 aprile”: la serie di processi, svolti tra il 1979 e il 1988, che seguirono agli arresti dei militanti di Potere operaio e Autonomia operaia. Un gruppo di persone, tra cui me, Rossana Rossanda e Massimo Cacciari, sviluppò un pensiero critico nei confronti di quell’azione giudiziaria. L’Italia è un paese in cui a cadenza ravvicinata si promuovono le emergenze: eventi storici che la classe politica tende a gestire come stati d’eccezione, e in risposta ai quali produce leggi speciali. Questo accadde soprattutto negli anni del terrorismo nero e rosso: quelle leggi emergenziali, ad avviso di quel gruppo di persone, introducevano lesioni allo Stato di diritto».
Lei ha scritto di una Rossana Rossanda garantista, come si sviluppò questa sua sensibilità?
«Credo che all’origine del suo garantismo ci fosse la volontà di comprendere le ragioni, per quanto orribili, di chi commette reato. Nel caso del terrorismo, di chi commette reato in nome di un progetto rivoluzionario che Rossanda vedeva come derivato da una concezione di cui conosceva l’origine. C’era la volontà di comprendere le ragioni per cui un ideale si deforma fino a farsi crimine. Questa ispirazione si manifestò a partire dal 1978, in seguito al sequestro di Aldo Moro. Poi ci fu la vicenda del 7 aprile, appunto, intorno alla quale certamente la sua riflessione si sviluppò con molta intensità. Antigone fu una palestra importante: per la prima volta, forse, si aggregarono intellettuali di varie discipline e militanti con sensibilità diverse intorno al consolidarsi di un tema, il garantismo, che corrispondeva a una parola allora molto poco diffusa. Ma la sua sensibilità non si arrestò con la chiusura della rivista. Tanto è vero che coltivò questa riflessione anche nei confronti delle successive grandi vicende giudiziarie italiane. Fu garantista anche negli anni di Tangentopoli, e certamente guardò con atteggiamento razionale e grande capacità critica anche tutte le vicende che riguardarono Silvio Berlusconi».
Anche questo ha contribuito ad assegnarle l’appellativo di comunista “eretica”?
«Questa è una definizione giornalistica, abusata e inservibile. Il suo dissenso con il Partito Comunista – in seguito all’invasione di Praga, come è noto – fu profondo, qualcosa di molto serio. Era un dissenso sul socialismo reale, e non soltanto di linea sul programma del Pci nel nostro paese: qualcosa di molto più radicale».
E ad oggi, qual è l’eredità dell’elaborazione politica di quegli anni?
«Se dovessi esprimere un giudizio comparativo, direi che oggi una certa attenzione garantista è certamente più diffusa. Ma spesso si manifesta nella classe politica come movimento filatorio, come atteggiamento ondivago a tutela dei propri e mai come principio universale. Ma questa è l’unica interpretazione possibile del garantismo: o vale per tutti, per gli amici come per gli avversari, o non è. Quella elaborazione teorica era già allora coltivata da personalità irregolari come fu Umberto Terracini, uno dei padri costituenti, tra i fondatori del Pci. Ma l’unico soggetto garantista programmaticamente era ed è il Partito Radicale».
Quale fu il rapporto di Rossanda con i radicali?
«Ritengo che sia la cultura che lo stile politico di Rossanda fossero molto distanti dalla cultura politica di Marco Pannella. Tuttavia, la sua libertà di pensiero e il suo apprezzamento per una teoria libertaria della società, certamente la resero curiosa verso quella esperienza».
La rottura con il Pci. Achille Occhetto ricorda Rossana Rossanda: “Non l’ho mai capita fino in fondo”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 22 Settembre 2020. Un ricordo personale che incrocia passaggi che hanno segnato la storia della sinistra italiana e di quello che è stato il suo più grande partito: il Pci. Ha questa impronta il ricordo di Achille Occhetto di Rossana Rossanda, dai giorni della Casa della cultura di Milano, alla dolorosa rottura con la radiazione del gruppo de il manifesto dal Partito comunista italiano, alla criticità di Rossanda nei confronti della svolta della Bolognina. A Il Riformista l’ultimo segretario del Pci si apre con alcune toccanti rivelazioni. E con uno sguardo rivolto al presente.
Qual è il tuo ricordo di Rossana Rossanda, una “ragazza del secolo scorso” che tanto ha rappresentato nella storia della sinistra italiana?
«Con lei ho avuto un rapporto molto importante a Milano, quando Rossana Rossanda dirigeva la Casa della Cultura. Ero un giovane universitario ed ho partecipato a quel laboratorio culturale che lei aveva realizzato, una esperienza di straordinaria importanza in quel momento. La Casa della Cultura era un punto di riferimento di tutti gli spiriti critici del Pci, sia quelli un po’ più a destra o più a sinistra ma tutti anti stalinisti. Grazie a lei, la Casa della Cultura era diventata un cenacolo di opposizione allo stalinismo che a Milano aveva il suo centro nella federazione del Pci. Di quella federazione, la Casa della cultura era un contraltare. La vicinanza con Rossana Rossanda mi è stata molto utile per mettere a fuoco i primi elementi di un pensiero critico che ho poi cercato, a modo mio, di sviluppare nella mia vita, anche se poi abbiamo seguito strade diverse. Ricordo con grande passione quel momento di solidale collaborazione, io un po’ più giovane di lei, in quel momento importante di battaglia politica, a cavallo del ’56, dei fatti di Ungheria, della destalinizzazione».
A proposito di battaglia politica. Come hai vissuto la lacerazione, lo strappo che si ebbe con la radiazione dal Pci del gruppo de il manifesto, di cui Rossana Rossanda, assieme a Lucio Magri e Aldo Natoli, era una delle esponenti di punta?
«Come l’ho vissuto? Drammaticamente. Devo dire che per un certo periodo ho fatto la spola tra il gruppo della Rossana e Berlinguer, per arrivare a un accomodamento. Io ero molto vicino ad alcune delle loro istanze. Tra l’altro il gruppo del manifesto, e non so quanto allora se ne rendessero fino in fondo conto, rompeva con il dogma fondamentale di un partito comunista, che era il centralismo democratico. Sarebbe stata una vera svolta, sarebbe stato un fuoriuscire dalla storia, e quindi Berlinguer, benché fosse, come tutti credo oggi abbiamo capito bene – anche chi non lo aveva capito al tempo – un vero rinnovatore, non poteva cedere in quel momento su quel punto. Con grande dolore, quando ho dovuto scegliere tra Berlinguer, di cui già intuivo le grandi volontà e capacità innovatrici, e il gruppo del Manifesto, ho, pur con grande malincuore, votato con Berlinguer. E continuo a pensare che sia stata la scelta giusta. Lasciami però aggiungere che di Rossanda e del gruppo originario del manifesto ciò che più ho apprezzato nel corso del tempo è la critica del cosiddetto “comunismo reale”. E su questo il contributo di Rossanda è stato prezioso, soprattutto per comprendere l’89. Lo ebbi a dire qualche tempo fa e oggi penso sia giusto ribadirlo: il comunismo è crollato facendo tutto da solo. Dall’altra parte del muro non c’era il comunismo, c’era la Stasi, la prigione, la tortura. Io continuo a offendermi se qualcuno chiama quei paesi socialisti, perché io nel socialismo credo. Ciò in cui non credo è nella polizia, nella tortura, nei partiti autoritari. Su questo mi conforta sapere che con Rossanda eravamo in grande sintonia».
Rossana Rossanda è sempre stata una comunista critica, e tuttavia non ha mai rinunciato a definirsi comunista e per questo lei ebbe un atteggiamento critico verso la svolta della Bolognina della quale tu sei stato l’artefice. Come hai vissuto questa sua criticità?
Io non l’ho mai capita fino in fondo. Così come non ho mai capito fino in fondo quella di Ingrao. Si poteva avere dei dubbi sul modo, però sarebbe stato più opportuno cercare di condizionare da sinistra, con grande amicizia, quel processo. Io sono stato lasciato solo e poi in realtà abbiamo visto che la deriva, anche contro le mie stesse posizioni, è andata a destra. Però non rivangherei molto su questi aspetti. Piuttosto devo farti una confessione: durante il lockdown ho scritto un libro, che uscirà l’8 ottobre per Marsilio, intitolato Una forma di futuro. E mentre scrivevo, dicevo: ma questa cosa che sto scrivendo dovrebbe piacere molto a Rossana Rossanda, per dire il legame che avevo».
Senza memoria non c’è futuro. Ai giovani di oggi, che di Rossana Rossanda e della storia di cui è stata protagonista, sanno poco o niente, cosa credi dovrebbe rimanere dell’esperienza di una “ragazza del secolo scorso”?
«Dovrebbe restare quello che ha fatto Rossana Rossanda così come dovrebbe restare gran parte della storia positiva del Partito comunista italiano, che indubbiamente ha rappresentato un elemento fondamentale nello sviluppo della democrazia del nostro paese. Quindi è bene che i giovani sappiano e conoscano queste radici del socialismo italiano in generale. Una sinistra che guarda al futuro senza subalternità al pensiero unico neoliberista, quella sinistra che cerca una “forma di futuro”, deve andare oltre le ideologie del Novecento. Ma andare oltre non significa vergognarsi del passato o addirittura negarlo. Io ricordo con orgoglio le grandi battaglie del Pci nella società italiana. Rivendico la Bolognina ma non ho mai avuto l’improntitudine di dire di non essere mai stato comunista. E se guardo a ciò che è avvenuto in questi decenni, dico, con amarezza ma con convinzione, che uno degli errori più gravi commessi dalla sinistra è quello di governare con le idee degli altri; meglio perdere con le proprie idee. Avere una posizione silente o subalterna nei confronti del liberismo e delle politiche di austerità ha fatto sì che si smarrisse la vocazione sociale della sinistra e con essa il rapporto con il popolo».
Il ricordo. “Rossana Rossanda è stata la prima a vedere la portata rivoluzionaria del femminismo”, il ricordo di Lea Melandri. Angela Stella su Il Riformista il 22 Settembre 2020. Le amicizie più forti e più durature spesso arrivano dopo aver condiviso iniziali periodi di antipatia, di lontananza, di avversità culturali: è il caso del rapporto nato tra Lea Melandri e Rossana Rossanda. La prima una delle figure più note del femminismo italiano, la seconda responsabile della politica culturale del Pci negli anni sessanta del Novecento. Due donne diverse nelle origini, nell’aspetto, nelle battaglie culturali e politiche ma che poi hanno avuto l’abilità e l’onestà intellettuale di rendere le differenze un arricchimento reciproco e di coltivare così una profonda amicizia che è durata fino a qualche mese fa: Lea ha ascoltato per l’ultima volta la voce già fragile e affaticata di Rossana prima dell’inizio del lockdown. Oggi con noi ricorda il percorso personale e letterario condiviso con Rossana Rossanda che trova forse l’apice della osmosi intellettuale nel libro a quattro mani Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri, 2018): «Parlare del corpo – si legge nella quarta di copertina – è smuovere un’inquietudine. Ancor più per una donna che ha anteposto le ragioni del suo “io politico” al principio del “tutto è sessuato”, in amichevole dissonanza nei confronti del pensiero femminista con cui non ha mai smesso di dialogare».
Come è nata la sua amicizia con Rossana Rossanda?
«È nata in un modo particolare, direi paradossale. Io venivo dalla provincia, la politica era sempre stata lontana da me: poi negli anni Settanta entrai nel Movimento non autoritario, senza il quale sarei rimasta chiusa nel mio privato. Rossana fondava intanto il manifesto. Eravamo due figure molto lontane, anche dal punto di vista fisico: lei con i suoi capelli bianchi, io con i miei rossi. Io non sono stata tra le adoratrici di Rossana all’epoca. Non la conoscevo di persona, leggevo i suoi scritti sul manifesto e mi arrabbiavo moltissimo e mandavo spesso lettere cattivissime contro di lei, che regolarmente venivano pubblicate. Finché nel 1977 esce il mio libro L’infamia originaria e Rossana scrive due paginoni straordinari con la sua grande onestà intellettuale. Una frase mi colpì: «Melandri mi ha messo contro un muro e lì resto». Questa lettura del mio libro mi ha molto colpita».
Dopo cosa accadde?
«È stata lei che ha chiesto a una redattrice di conoscermi; si chiedeva perché la trattassi così male mentre a lei risultavo così simpatica! E ci vedemmo di persona: il primo incontro non fu facile ma quando andai io a trovarla a Roma scoprii una donna straordinaria. La figura di Rossana è stata molto complessa: c’è quella parte politica che tutti vedono, e poi c’è quella della sua grande cultura. Ricordo che quando andavo a farle visita – e sono grata per questa amicizia, per questo rapporto privato che si è instaurato tra di noi – lei per tutto il giorno parlava di politica, poi da mezzanotte alle 4 del mattino leggeva libri di arte, di letteratura, di psicoanalisi. Con lei ebbi uno scambio politico intenso come testimoniato dalla rivista Lapis di cui ero direttrice. La spingevo a fare quello che io stessa non riuscivo a fare: parlare del corpo e della cultura femminile. La nostra amicizia, che ha avuto dei momenti intensi, si è prolungata fino a questa perdita per me dolorosissima».
Diverse ma poi amiche?
«Il nostro rapporto si è contraddistinto da una lato per le diversità: diverse le nostre origini, diversi gli interessi. Le dissi molto sinceramente che all’inizio non aveva capito molto il Sessantotto e il movimento degli studenti: criticava la posizione di Elvio Fachinelli che invece era quella che mi aveva personalmente più convinta. Rossana poi si è sempre definita una donna della storia, della politica; una politica che le era caduta addosso con la guerra mondiale e la Resistenza. Mentre io venivo da una famiglia contadina che mi ha permesso di studiare. Al di là di queste differenze, quello che mi colpì negli anni Ottanta è stata la straordinaria intelligenza con cui Rossana ha guardato al femminismo, riconoscendo con onestà che il femminismo era una rivoluzione, era davvero una cultura antagonista».
Nel suo “Manifesto per un nuovo femminismo” Rossanda ha scritto: «Ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo, non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva». Qual è stato appunto il suo rapporto con il femminismo?
«Mentre agli inizi degli anni Settanta io ero nel pieno del femminismo, ero legata alla rivista L’erba voglio, lei guardava al fenomeno con qualche perplessità; poi la rilettura del mio libro la colpì perché sapeva capire i cambiamenti. Straordinarie furono le sue interviste a Radio 3 che poi sono state raccolte nel libro Le altre. In questa rivisitazione anche della politica Rossana ha riconosciuto la portata immensa del femminismo. Poi cominciò subito a dire «come mai il vostro pensiero non entra in modo così dirompente rispetto ai saperi e ai poteri della vita pubblica?». È stata lei a vedere la portata ambiziosa e rivoluzionaria del movimento femminista. Rossana è stata legata anche personalmente a tante donne del femminismo: il libro Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986 è stato il suo riconoscimento al movimento delle donne. Negli ultimi anni non amava molto parlare del femminismo ma il suo riconoscimento è comunque avvenuto in quel “Manifesto”, soprattutto nel suo appoggio a Non una di meno: a distanza di anni e di generazioni, ha avuto ancora una volta l’intelligenza di capire che questa nuova rete di donne è una espressione importante del femminismo».
Tra i tanti scritti andrebbe ricordato di più “Questo corpo che mi abita” che lei ha curato e in cui sono raccolti gli articoli di Rossana Rossanda pubblicati sulla rivista Lapis.
«Con la sua generosità ha mostrato anche altri aspetti di sé che riguardano appunto il corpo. Ha parlato della bellezza, della vecchiaia e ha scritto del corpo come io non sono riuscita a fare. Feci la prefazione, gliela mandai e lei mi disse che andava bene ma mancava qualcosa, mi incoraggiò a parlare del mio corpo. Purtroppo quello era il mio tallone d’Achille, purtroppo non riuscivo a farlo. Lei era conosciuta come la donna della politica, mentre in questa raccolta ha mostrato un altro io rispetto a quello politico».
Rossanda scrisse a pagina 9: «Nessuna lettura del mio libro – raccolta di articoli di una decina d’anni e più – è stata più amorosa di quella di Lea. Nessuna più ravvicinata. Nessuna mi ha mandato più amorosamente a dire “Oh infelice, ti sbagli”».
«Si riferisce soprattutto agli anni Settanta e Ottanta quando io ero nel pieno del femminismo e vedevo la centralità delle tematiche che erano state sempre inspiegabilmente considerate private, appunto il corpo, la sessualità, la cancellazione della donna come persona, ridotta all’unico ruolo di madre e di moglie. Le donne sono state identificate con il corpo a cui altri hanno dato ruoli. Lei invece si è mossa politicamente sempre nel mondo degli uomini ma con una grande autonomia: i suoi scritti politici non hanno nulla di politichese. Lei ha accentuato in alcuni di questi articoli questa nostra diversità da cui però abbiamo tratto tutte e due grande arricchimento: io era molto curiosa della sua storia politica, lei di tutte quelle esperienze, per altro le più universali dell’umano – come la maternità, la sessualità – che sono state considerate “non politiche” e confinate nel privato».
Il ricordo e il lutto. Fausto Bertinotti ricorda Rossana Rossanda: “Protagonista di un’eresia senza scisma”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Settembre 2020. «Era una personalità del mondo comunista insieme molto rappresentativa della sua storia e contemporaneamente portatrice di una tensione eretica. Si sentiva – ci racconta Fausto Bertinotti – integralmente parte di una storia collettiva e in particolare della storia comunista. Ma non c’è traccia in lei di un passaggio dalla critica alla estraneità. Non ha mai detto: io non c’entro. Non sono parte di queste cose. Contemporaneamente, con la stessa legittimità, è stata portatrice di una tensione critico-eretica nei confronti di questo movimento».
È stata protagonista di una rottura con l’organicità dogmatica del partito, che allora era una chiesa.
«Una eresia senza scisma, in questo vicina a un compagno di strada cui è stata legatissima, cioè Pietro Ingrao. Lei è stata radiata, lui al bivio della Bolognina è uscito dal partito. Tutti e due hanno votato Rifondazione Comunista. Sì, ma… c’è un “ma” importantissimo: tutti e due hanno sempre pensato che si potesse subire una separazione, non produrre uno scisma. Ti senti parte integrante di questa storia, sei indotto a viverla e a sorvegliarla criticamente, ma il cammino della storia è quello che percorri insieme a questa comunità di donne e di uomini in marcia verso il socialismo. Quando fondò la rivista il manifesto lei era convinta di far vivere un dibattito di idee all’interno del Pci. Il momento della sua radiazione fu estremamente doloroso per lei. Hanno subito l’esclusione, non l’hanno cercata e non l’hanno voluta. Hanno sperato disperatamente fino in fondo che Berlinguer si fermasse anche per la stima che nutriva nei suoi confronti. Ma la sua non era e non fu una scissione».
Rossanda aveva conservato una visione del partito organico?
«Se lei avesse dovuto indicare un maestro, uno solo, credo avrebbe detto Palmiro Togliatti. Loro sono stati dalla storia costretti alla rottura non solo organizzativa ma politico-culturale. L’incipit è dettato dal titolo dell’editoriale del manifesto firmato da Luigi Pintor, Praga è sola. Nel momento in cui Praga è una innovazione del tono della rivoluzione, il fatto che i partiti comunisti abbiano lasciato solo questo tentativo rivoluzionario, strangolato dai carri armati sovietici, porta alla rottura. Ma non fu l’unico motivo per rompere. Fu l’episodio finale, e certamente il più grave, di tutti quegli elementi critici che si erano venuti accumulando verso il Pci: l’incapacità di intendere il nuovo conflitto operaio e il non aver capito l’affacciarsi dei movimenti studenteschi del 1968 precipitano di fronte a una cosa che fa pensare al tradimento delle ragioni stesse dell’essere comunisti. Il rinnovamento della rivoluzione comunista è stato strangolato in culla».
Che cosa chiedeva, chi difendeva Praga dai sovietici?
«A Praga era in atto un tentativo drammatico e difficilissimo di reinvenzione della prospettiva comunista. La critica al partito comunista di averli lasciati soli diventa un insopprimibile atto di ribellione che viene accolto dal Pci ma non porta alla rottura organizzativa. L’eresia, dicevamo: non lo scisma. Ecco perché dico che fu una tragedia da parte del partito comunista quella di non capire il valore della sfida del gruppo del manifesto. Io credo che se il Pci avesse accettato l’apertura della dialettica interna proposta dal manifesto, tutto il seguito della nostra storia sarebbe stato diverso».
Rossanda si rifaceva spesso a Togliatti, bene. Ma anche lui l’avrebbe radiata.
«Direi di sì. Troppe volte Togliatti aveva scelto le ragioni del primato del partito su tutto il resto. Si trattava di sconfessare un sistema complesso che nasceva a Mosca e che aveva avuto la più forte influenza sul Pci».
Eppure Berlinguer le distanze da Mosca le prese, nel tempo.
«Sì, ma qui eravamo nel 1969. E non si trattava di abbracciare l’ombrello della Nato ma di scongiurare che le attenzioni di Mosca si focalizzassero troppo sul comitato centrale del Pci. Se il Partito comunista italiano si fose schierato con Praga, cioè con una visione rinnovata, nazionale del comunismo, qualcosa sarebbe potuto accadere anche da noi. Facile ipotizzare che per Berlinguer quella della radiazione non fu una scelta facile, e che anzi fu drammatica per un profilo unitario come il suo. La radiazione era un allontanamento motivato, l’espulsione un disconoscimento assoluto, una cacciata violenta. E una delle ragioni che portarono alla radiazione, dicevo, è stata l’idea che l’Unione Sovietica avrebbe approfittato del riconoscimento della dialettica interna verso il gruppo del manifesto per introdurre nel Partito Comunista la sua longa manus: se permettete a loro una articolazione, allora la dovete permettere anche ai più filo sovietici».
Via gli ingraiani, ma Ingrao non viene espulso. Che posizione tiene?
«Credo condividesse tanta parte del manifesto, ma non condivideva il modo di condurre la battaglia politica interna. E alla fine votò a favore dell’espulsione del gruppo. Pietro Ingrao dopo l’XI congresso, che segnò la sua emarginazione, non ha più pensato di poter riaprire una dialettica interna. Non se la sentiva più di condurre battaglie. Poi, anni dopo, si pentì. Si riavvicinò a Rossana e insieme scrissero anche un libro, a metà anni Novanta. Rossana, che pure apparteneva a quella cultura, è protagonista della ricerca del manifesto. Ti possono cacciare oppure processare, o perfino fucilare come è successo ai leader nel periodo di Stalin. Puoi temperare le modalità di espressione della battaglia interna al partito, ma non puoi mai rinunciare alla ricerca. Perché come diceva Gramsci «la verità è rivoluzionaria». La sua fedeltà era verso le ragioni del comunismo, non al partito. E questo le consente di coniugare questa fedeltà, trasformata con la libertà del pensiero, dell’azione e della ricerca».
E lei, Bertinotti, dov’era, in quel momento?
«Fuori dal Pci, nel Psiup. Altro partito che morì – pensa che beffa! – proprio su Praga. Assunsero una linea che era il monumento all’ipocrisia. «L’intervento in Cecoslovacchia non risolve ma aggrava i problemi del socialismo» si limitarono a dire. La sinistra movimentista del Psiup, guidata da Vittorio Foa, militò sulle stesse ragioni del manifesto e anche quel partito morì su quei temi».
Poi nasce Rifondazione e Rossanda ritrova la passione, pur rimanendo fuori dalla porta.
«Rossana fu una delle pochissime che non ci ha mai fatto mancare il suo sostegno. E quando togliemmo l’appoggio al governo Prodi, fu l’unica a difendere a spada tratta quella nostra scelta. Voto, sì. Sostegno, sì. Anche con un articolo. Ma non appartenenza. Perché l’appartenenza per chi era stato dirigente del Pci può essere data solo a un nuovo soggetto del cambiamento, all’altezza del partito precedente».
«Chi viene alla politica dall’antifascismo, non può cedere mai al populismo» scriveva nella sua biografia.
«E questo modo di pensare non era permesso alla generazione di dirigenti comunisti della generazione post-togliattiana. Non erano vicini al populismo. Semmai potevano essere inclini all’aristocraticismo. Almeno come aristocrazia culturale».
Rossanda diceva di non riuscire a capire l’alleanza Pd-Cinque Stelle.
«Sono due negatività che si accoppiano, dove per negatività indico “l’assenza di”. Si sommano con la sola attrattività della calamita del governo. Non è una operazione che ha a che fare con la tradizionale cultura delle alleanze. Nelle ultime telefonate parlava soprattutto dell’inesistenza di un soggetto della sinistra capace di competere contro i partiti che stiamo citando».
Quale può essere il suo lascito?
«Userei ancora per lei la formula attribuita a Claudio Napoleoni: “Cercate ancora”. Non arrendersi. Cercare le vie della trasformazione della società. Un nuovo comunismo? Si può chiamare in molti modi, ma il lascito è: il nostro avversario è questo capitalismo, produttore di diseguaglianze, produttore di alienazione. Questo sistema va rovesciato, cambiato dal fondo. Lei ci ha provato, e ha dimostrato che si può perfino perdere a testa alta».
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 23 settembre 2020. Sebbene trasgressiva, Rossana Rossanda condivise alcuni orrori del comunismo. Celebriamo la memoria della Gran Dama colta e carismatica che Togliatti mise al posto dell' eretico "cacciato": Vittorini. Disciplinata nemica del marmo stalinista, si invaghì del castrismo e poi della feroce Cina di Mao, compresa Tienanmen. Si sedette "dalla parte del torto" ma già allora avevano ragione i vituperati riformisti, anche se meno glamour . Rossana Rossanda vive a Parigi da tanti anni. Ha una casa sulla Senna: sulla Rive Gauche, naturalmente. La palazzina ottocentesca ha un’aura tutta particolare. Nel suo appartamento, mi racconta, c’era la tipografia di Colette. È in questo angolo di Parigi che arrivo per intervistarla. Le ho spiegato che abbiamo uno spazio particolare di racconto su Pubblico, che noi chiamiamo what’s left. Era curiosa di sapere di noi e del nostro modo di vedere le cose «Che cosa intende per sinistra il tuo direttore?», mi chiede. Le rispondo che a me sembra che da questo punto di vista Luca sia rimasto congelato al suo passaggio nella Fgci a metà degli anni ‘80. La cosa l’ha sorpresa e, mi è sembrato, anche divertita: «Più passa il tempo – mi dice – e più il Pci quel partito, che ho criticato molto, lo trovo meraviglioso. Fu una grande costruzione». La guardo, per un attimo: un ovale di madreperla incastonato in una corona di capelli bianchissimi che sembrano disegnati da un giro di matita di Picasso. Mi ricordavo la Rossanda dell’iconografia letteraria de Il manifesto: l’intellettuale rigorosa e austera. E invece la trovo affabile e curiosa. Parliamo a lungo, per tre ore. Partiamo da Internet («Sopravviveranno i giornali alla rete?») per terminare all’America Latina («Capisco che hanno fatto cose importanti, ma non è un modello a cui guardo»). Ma alla fine, gira e rigira, mi rendo conto che abbiamo parlato soprattutto di storia e del Novecento. E non poteva essere diversamente con una «ragazza del secolo scorso», per stare all’immagine con cui ha scelto di intitolare la sua autobiografia. In questo lungo dialogo mi accorgo che ci sono tre tappe, tre snodi che contrassegnano il suo racconto. La prima è la sua adesione al comunismo, al Pci. Siamo nel 1943, dopo il 23 luglio, a Milano. (Al ricordo sorride). «Avevo sentito dire che Antonio Banfi fosse comunista. E glielo sono andata a chiedere. «È vero?». Così, quasi come un’oca.
E lui? Mi ha risposto: «Perché me lo chiede?». Mi ha dato dei libri da leggere. Sono tornata dopo una settimana, gli ho detto: «Va bene. E se uno volesse mettere in pratica queste idee?». (Ma ciò che è importante per Rossanda, oggi, è spiegare, oltre questo episodio, come avesse potuto essere facile per una ragazza di famiglia borghese «a-fascista» aderire al comunismo).
Perché?
«Perché la cultura borghese era sin dall’800 impregnata di valori progressisti e di uguaglianza. Vedi, mio padre, per esempio, si era formato su Tolstoj, Rudolf Steiner. Bene: quando capì che ero entrata nella Resistenza – perché la polizia venne a perquisire casa – mi domandò preccupato: «Ma con chi ti sei messa?»».
E tu gli hai detto la verità?
«Sì. E quando seppe che ero con i comunisti, mi disse: «Meno male!». La borghesia magari poteva essere fascista. Poteva essere moderata. Poteva pensare che la disuguaglianza ci sarebbe sempre stata. Ma non c’era quell’idea che trovi oggi: la povertà come una colpa. La disuguaglianza come un valore».
Il secondo atto di questa storia personale e collettiva si svolge negli anni ’60. Ma il racconto non è sulla vicenda del Manifesto. Che succede in quegli anni?
«C’è una mutazione antropologica. Hosbawn la racconta bene. Tutto cambia. C’è il boom. I consumi di massa. Le donne entrano nel mercato del lavoro. La scolarizzazione di massa».
Inizia la critica ai partiti. Comincia quella divaricazione tra partiti, movimenti e società, che forse proprio oggi ha raggiunto il suo culmine.
«Si. Esplodono i movimenti, prima studenteschi, poi operai. Il Pci e i partiti non li capiscono. Ricordo, erano stupefatti da questa onda che si formava al di fuori di loro. I vecchi, gente tipo Secchia e Terracini. pensavano: «Se gli operai si sono mossi senza il Pci, ci deve essere uno sbaglio».
Nella sua autobiografia, che forse significativamente, si ferma qui, al 1969, Rossanda, riferendosi al gruppo de Il Manifesto, dice: “speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra: non funzionò”. Infine, ecco la terza tappa: inevitabilmente, si svolge alla fine degli anni 80.
Il 1989 cosa è stato per te?
«Il crollo dell’Urss per implosione interna. Forse persino più sorprendente, la svolta della Cina: un partito comunista che si fa fautore del capitalismo. Se me lo avessero detto dieci anni prima non ci avrei creduto. Per l’idea della sinistra è stato un passaggio fatale».
Perché?
«Perché – ti piacessero o meno – fino a lì c’erano stati due campi, due culture, due realtà. A quel punto, ne rimane una sola. E rimane anche una sola interpretazione che dice: il capitalismo – il darwinismo sociale – sono una condizione naturale. Il socialismo, l’uguaglianza, sono illusioni, per dirla con Furet. Sono un’utopia. Una parola che detesto. E’ lì che quella cultura progressista del ’800, e quella sua ipotesi socialista, vaga, sparisce”. E con ciò, in qualche modo, affonda l’idea stessa di sinistra. Perché per me la sinistra è questo. Una morale dell’uguaglianza. Se vuoi è un’idea che data dalla Rivoluzione francese. Non è una questione di ordine economico, ma politico, morale. Perché sul piano del funzionamento tutti e due sistemi possono stare in piedi. Sinistra è questa lotta contro le ingiustizie del mondo attraverso un’idea di proprietà gestita politicamente».
Era qui che ci volevi portare?
«Si, perché se la vedi così, la domanda da che parte ricomincia la sinistra, è molto complicata».
Che cosa è che complica la risposta?
«Che cosa è successo? Cosa non ha funzionato? A quelle domande bisogna rispondere. Non come ha fatto fino ad oggi la sinistra. Che è sfuggita a queste domande. Non lo ha fatto quella chimera, quel minestrone, quel centauro che è oggi il Pd. E nemmeno quelli che si continuano a chiamare comunisti. Ma c’è anche una seconda mutazione antropologica che avviene negli anni 80 e 90. Quella generazione post-89 che – “anche per effetto della rivoluzione tecnologica” – perde il filo della continuità con il passato, “come se l’esperienza cessi di essere trasmissibile”».
Rossana racconta due episodi che le sono rimasti impressi. Partiamo dal primo?
«Il primo è quel che successe quando Pintor scrisse un editoriale negli anni ’90 sulla villa con 16 bagni di Berlusconi».
Perché lo consideri così importante?
«Per lui era come dire: non può essere una persona perbene. In tanta ricchezza, c’era qualcosa di sbagliato e di immorale. Lo avrebbe scritto anche mio padre. Ebbene fece un tonfo spaventoso. Prese un mare di critiche. Era successo qualcosa. Erano cambiati i valori».
E il secondo episodio?
«È più recente. Ero in viaggio in Italia, presentavo il mio libro in un’università. Una giovane donna laureata, con tanto di master, faceva lì la segretaria in forme precarie».
E cosa succede?
«È gentile con me, ma mi dice: «Io di quello che lei dice – che studiando, impegnandosi in un partito, in un sindacato si possa cambiare qualcosa – non credo niente»».
Purtroppo non è stupefacente…
«Quella giovane rappresenta una disperazione che la mia generazione non ha conosciuto. Vedi: mio padre fallì nella crisi del ’29. Mi ricordo ci portarono via i tappeti. Finimmo in grandi ristrettezze. A vivere in due stanze. Eppure io mi ricordo quell’orgoglio luciferino di sentirci intellettuali. Quella sicurezza che io e mia sorella avevamo. Che studiando non avremmo avuto problemi. E non li abbiamo avuti. Oggi c’è una condizione di miseria che si combina con una maggiore conoscenza. Ma non c’è più fiducia che si possa cambiare».
Adesso però c’è una crisi profonda, sistemica del capitalismo.
«Si, posso essere d’accordo. Però la crisi della sinistra mi sembra ancora più grave».
E che pensi di questi fenomeni emergenti di populismo?
«Dopo questa spaccatura sociale, seguita alla devastazione della sinistra, escono i populismi. Fino a che abbiamo avuto il Pci e un sindacato forte si sono avute riforme e progresso, per il lavoro e nei diritti civili. Il Pci ha prodotto grandi riforme anche dall’opposizione. Adesso saranno pure andati al governo, ma c’è stata involuzione e divaricazione nei redditi. La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi».
E di Grillo che ti sembra?
«A me sembra il classico qualunquismo di destra».
C’è stato qualcosa che ti è sembrato di interessante, dopo l’89?
«Solo i movimenti».
Che a te non entusiasmano…
«Cosa oppongo ai movimenti? Non tanto il culto dell’efficacia elettorale, che ha portato i partiti a una crisi profonda. Però hanno sacrificato il problema dell’efficacia a favore del tema della partecipazione, pure importante. Ma il problema è che non sfondano da nessuna parte. Non hanno continuità. Diventano pazzi anche solo a parlare di organizzazione».
Però qualche ragione ce l’avranno a criticare i partiti?
«Si. Ma non è che si siano posti il tema di come essere efficaci evitando le gabbie dei partiti tradizionali, per ridare voce alla persona, alla sua complessità. alla convivialità. Posso capire la critica che ha fatto il femminismo. È vero che io fino agli anni ‘70 non ho mai scritto cominciando con io… cercavo l’obiettività delle cose. Però c’è anche il mondo. L’io non può essere la misura di tutto».
E quindi?
«E poi questa immagine dei partiti è anche sbagliata. Il Pci era una grande medusa che respirava nella società. Stare in quel grande corpo – in quel partito pesante, come lo definì Occhetto – ti portava a incontrarti con tanti mondi, ad avere una percezione più obiettiva della società. Nei movimenti ci sono molti individualismi di gruppi. Non si lavora insieme. Ciascuno va per sé. Guarda: finirò per scrivere un elogio dei partiti. Tanto per rendermi un po’ più antipatica».
Che ti sembra di questa idea che è in questo momento tornata con molta forza di abolire i gruppi dirigenti?
«È vero che questa idea è iniziata nel 1968 e sta venendo fuori nuovamente, dopo 45 anni. Tutti uguali. Però alla fine, quando si dice tutti uguali, ti salta fuori il leader. Dove non hai partiti, hai leader. Non gruppi, ma un uomo solo. Almeno finora è andata così».
Pensi a Grillo?
«Io penso anche al gruppo di Ginsborg. O alle donne a Paestum, che recentemente si sono incontrate in questo modo. Nessuno in presidenza. Nessuna relazione introduttiva. Nessun vertice. Tre minuti ciascuna».
Tu sei scettica?
«Loro sono state contente. Hanno avuto un’emozione di appartenenza. A me per la verità sembra un gran casino. Però è vero che i partiti comunisti erano organizzazioni formate da una élite, e dietro c’erano masse quasi analfabete e non educate. Oggi c’è un acculturamento di massa. Il tema quindi c’è. Ed è questo: come si può organizzare una massa acculturata».
Ho detto a una giovane spagnola, a una indignata, che venivo a intervistarti. Le ho chiesto cosa le sarebbe piaciuto chiederti. Mi ha chiesto di domandarti come fa il 99% a sconfiggere l’1%.
«Perché il 99% dell’umanità incassa dall’ 1%? Perché si è perso il primato della politica sull’economico. La politica nel Novecento ha portato il primato della uguaglianza. La politica ha perso il primato. Però attenzione: lo ha perso per effetto di una sconfitta politica. Perché è stata sconfitta l’idea di uguaglianza».
Insomma, come concludiamo?
«Guarda: viviamo un momento tragico e interessante. Oggi c’è un massimo di divaricazione tra movimenti e istituzioni. I movimenti sono forti, ma non superano la barriera di istituzioni spiaccicate. L’Italia è forse la più disgraziata: con tutto questo parlamento schiacciato su Monti».
Sei pessimista.
«Sì. Però penso anche che qualcosa rinascerà. Guarda: la sola ragione per cui mi dispiace di morire è non vederla. Anche perché questa volta non sarà in una società arretrata, come è stato con l’Urss. Questa volta – anche grazie a internet e alla rivoluzione delle comunicazioni –la protagonista sarà una società acculturata. E sarà diverso».
Rossana Rossanda, esempio di cultura, politica e garantismo. Franco Corleone il 22 settembre 2020 su L'Espresso. E’ scomparsa una figura eccezionale, per cui tutte le parole usate per definirla, austera, autorevole, rigorosa, eretica, appaiono non retoriche, ma adeguate alla esperienza di una vita lunga e appassionata. Ho frequentato con piacere la Casa della Cultura a Milano e aleggiava anche dopo tanto tempo la sua impronta. La giustizia è stato il campo in cui l’ho sentita in sintonia piena per difendere un sistema di garanzie e lo stato di diritto. Testimone assidua durante il processo del 7 Aprile, autrice con Carla Mosca di un libro intervista a Mario Moretti, infine protagonista intransigente della battaglia per il giusto processo. E’ stata una dirigente del Partito Comunista e fondatrice del Manifesto, un collettivo irripetibile di intelligenze di alto spessore, Lucio Magri, Luigi Pintor, Valentino Parlato, Aldo Natoli, solo per ricordare alcuni nomi. Mi piace ricordarla come scrittrice. Il suo libro “La ragazza del secolo scorso” è di una bellezza commovente e il titolo di un altro volume “Quando si pensava in grande” offre la possibilità di meditare sulla crisi della politica e della sinistra.
Addio ad una delle più grandi intellettuali di sinistra. Rossana Rossanda, l’unica rivoluzionaria garantista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Settembre 2020. Domenica mattina è morta Rossana Rossanda. Magari molti giovani non sanno nemmeno chi sia stata. Purtroppo la società di oggi ha la memoria cortissima. È stata una delle più colte e intelligenti intellettuali di sinistra del dopoguerra. Nel dopoguerra esisteva la categoria degli intellettuali, oggi praticamente estinta. E aveva un ruolo notevole nella formazione dello spirito pubblico. Non so come posso spiegare a un giovane chi fossero gli intellettuali. Magari loro pensano a Casaleggio, o agli opinionisti Tv, o agli influencer dei social. No: erano persone colte, che avevano un sistema di pensiero, una conoscenza della storia e della società, un’idea di futuro. E che erano capaci di influenzare e affascinare con queste loro doti intere generazioni. Rossanda è stata decisiva nella formazione intellettuale di quelli che si chiamano i baby boomers, la generazione nata subito dopo la guerra e nei primi anni 50. È stata una rivoluzionaria, credeva nel marxismo, lo studiava, immaginava come riformarlo e plasmarlo. Era lontana mille miglia dallo schema degli apparati sovietici. Aveva combattuto lo stalinismo, e aveva pagato per questo, anche se aveva avuto una incomprensibile infatuazione per Mao. E dagli anni 70 in poi è stata un monumento del garantismo. Rigoroso, totale. Cioè vero. Conoscete molti intellettuali di sinistra del dopoguerra che avessero il garantismo come pilastro teorico?
Il giorno in cui Rossana Rossanda insegnò il garantismo alla sinistra e alla stampa…Il Dubbio il 23 settembre 2020. Dopo anni di udienze e di galera preventiva per gli imputati, il processo “7 aprile” crollò come una castello di carte. Rossana Rossanda accusò giornali e procura denunciando quella “prova generale” del processo mediatico-giudiziario che rovinò la vita di decine di persone innocenti. Ecco l’articolo pubblicato su il Manifesto il 9 giugno 1987.
Rossana Rossanda: La Corte d’Appello di Roma ha demolito il castello accusatorio del 7 aprile attraverso il quale Stato, partiti e poteri si liberarono nel 1979 dell’Autonomia operaia. E mandarono un segnale minaccioso ai movimenti, inchiodati tra l’attacco delle organizzazioni armate da un lato e quello del partito comunista dall’altro. I grandi sostenitori del delirio del procuratore padovano Calogero, del primo pentito, ancorché assassino comune, Fioroni e delle leggi speciali sono stati infatti un drappello di magistrati, avvocati, giornalisti e dirigenti comunisti, con il codazzo ossequente dell’Unità e di Repubblica. Nulla di quell’ipotesi accusatoria, che si voleva storia di un decennio, dal 1969 al 1979, è rimasto in piedi. Non l’accusa di tentata insurrezione armata; la quieta voce del giudice Verrone ha detto quel che tuti sapevano, e cioè che «il fatto non sussiste». Non la celebre «O», l’organizzazione per eccellenza che, ora sotto una sigla ora sotto un’altra, avrebbe diretto occultamente l’eversione armata sotto la guida d’un pernicioso intellettuale, Antonio Negri, a partire da Potere operaio fino alle BR. Potere operaio non fu una banda armata: delle orientate memorie di Carlo Fioroni la Corte ha ritenuto soltanto, come già il giudice Palombarini e poi la Corte di Padova, che ci furono alcune persone che agirono illegalmente, caso per caso esaminandone i capi d’accusa.Non il sangue di Carlo Saronio. Esso non sta su nessuno degli imputati del 7 aprile, su cui fu gettato man mano che cadevano in istruttoria altre accuse: esso sta, come già disse la magistratura milanese, tutto su Fioroni e Casirati. Né c’è altro sangue: per Argelato, è rimasto a Negri un esitante concorso morale, verosimilmente destinato a cadere in Cassazione. Né Oreste Scalzone è mandante della rapina di Vedano Olona, nella quale peraltro il solo ferito fu uno dei giovanissimi attentatori, Zinga. Le altre sono violenze minori, illegalità contro le cose, che pesano con brevi pene su neanché metà degli imputati. Uscite dalla scena giudiziaria, come si doveva, le figure dei cattivi maestri, delle cattive idee, del discorso eversivo: la Corte ha giudicato sui fatti. Ha sempre giudicato bene? Forse no. Sorprendente la condanna di Mario Dalmaviva o di Augusto Finzi. Ma questi sono errori, che vogliamo credere riparabili, in un processo che nel suo insieme ha mandato a pezzi 45.000 pagine di istruttorie senza confronti e senza uno straccio di prove, e una sentenza di primo grado che, indifferente agli esiti del dibattimento, ha ripetuto servilmente il rinvio a giudizio. Tutto bene, dunque? Bene, un respiro di sollievo, quella pioggia di assoluzioni, di prescrizioni, il normale uso delle attenuanti, il senso della distanza, di equilibrio, di buon senso che ha impegnato la Corte. Pesante – non piangevano soltanto di felicità gli imputati assolti dopo anni di galera – la constatazione che dunque per quasi un decennio della vita di sessanta persone sono pesate accuse enormi e infamanti, e che alcune di esse hanno inutilmente scontato fino a cinque anni di carcere. La magistratura s’è prestata a punire una estrema sinistra scomoda, con una grevità che ricorda i tribunali fascisti. Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, ieri assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? e i quasi dieci anni di sospensione dall’insegnamento? E agli altri, molti, nelle sue stesse o simili condizioni? Chi cancellerà la mostrificazione di Negri, tale che non fu mai costruita su nessun killer, né politico né comune? Forse l’Espresso, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come la sua? Repubblica che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi, codardie e coperture. L’onorevole Spadolini favorì l’espatrio illegale di Carlo Fioroni e il Parlamento rifiutò di aprire un’inchiesta. Come oggi giace l’inchiesta sulla protezione a lui, latitante di stato, offerta da Andreotti per il Ministero degli esteri. Istituzioni e stampa hanno contribuito indecentemente a un’operazione politica bassa, la più bassa della magistratura della repubblica. Tanto che il manifesto, il GR1, più tardi ma con ostinazione Radio radicale, sono sembrati fastidiosi e di parte, per aver detto, ripetuto, gridato: qui si commette un’ingiustizia che sporca la scena politica, distrugge la memoria, massacra tutto un passato assieme alle vite presenti. Il gusto della libera stampa, la tradizione di voler la verità, la giustizia. Le prove sono di pochi, e i pochi sembrano dei fissati. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica, ma a un trucco giudiziario. Qualcuno ci ha detto ieri: è anche una vostra vittoria. Magra vittoria vedere restituita, a otto anni di distanza, una più presentabile immagine della giustizia. Perché la pena era già stata inflitta, è stata scontata prima del processo, una vendetta è stata eseguita. Quella di ieri è una tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile. Articolo pubblicato su il Manifesto il 9 giugno 1987
Così il “comitato centrale” ha rimosso il garantismo di Rossana Rossanda. Giacomo Losi su Il Dubbio il 25 settembre 2020. Incredibile la superficialità con cui nelle celebrazioni è stato trattato il fronte sul quale Rossana Rossanda si è spesa e battuta più: quello del garantismo, del carcere, dell’invadenza del potere giudiziario nelle sfere di competenza degli altri poteri dello Stato. Le personalità che segnano un’epoca storica presentano sempre troppe sfaccettature e hanno una biografia intellettuale troppo vasta perché se ne possa rendere per intero la complessità e la ricchezza se non in una corposa e approfondita biografia. Era dunque inevitabile che nel ricordo di Rossana Rossanda, probabilmente la più importante intellettuale italiana marxista, organizzato a Roma dal giornale che aveva contribuito a fondare sfuggissero una quantità di aspetti e altrettanto inevitabile è che quanti a quegli aspetti della sua azione politica e della sua riflessione sono invece particolarmente legati lamentino l’assenza almeno di una citazione. Ma questo tipo di “distrazioni” è invece nell’ordine delle cose. Il discorso è però diverso quando si parla non di aspetti minori, o periferici o comunque non centralissimi di una biografia ma, al contrario di elementi essenziali, fondamentale sia sul piano politico che su quello intellettuale. Non è dunque giustificabile, e forse neppure comprensibile, la superficialità con cui in quella celebrazione è stato trattato il fronte sul quale Rossana Rossanda si è spesa e battuta più che su qualsiasi altro non per una breve e transitoria fase ma per decenni: quello della giustizia, del garantismo, del carcere, dell’invadenza crescente del potere giudiziario nelle sfere di competenza degli altri poteri dello Stato, della battaglia culturale fermissima contro il giustizialismo, da qualsiasi parte provenisse, e contro le fantasie dietrologiche. Anche se il gruppo politico del manifesto candidò Pietro Valpreda già alle elezioni politiche del 1972, non riuscendo a far eleggere l’anarchico ingiustamente accusato di essere l’autore della strage del 12 dicembre 1969, sembra, almeno stando alla sua opera pubblica, che il nodo della giustizia s’imponga come prioritario, per Rossanda, negli anni ’80, con il processo “7 aprile” intentato contro i leader dell’Autonomia operaia. Presenziò a tutte le sedute del processo. Scrisse decine di articoli in cui denunciava un maxi processo politico basato su un teorema non supportato da alcuna prova e nel quale i capi d’accusa venivano cambiati ripetutamente a seconda della necessità dell’accusa. Un’aberrazione giuridica passata sotto silenzio in nome dell’ “emergenza”. Non fu l’unico processo politico di cui la fondatrice del manifesto denunciò il carattere politico, la fragilità dell’accusa, il pregiudizio iniziale. Lo fece per anni nel caso del processo contro Sofri e Lc per l’omicidio Calabresi, ma lo fece anche per la strage di Bologna quando il “quotidiano comunista” fu a lungo l’unica voce a sostenere coraggiosamente l’innocenza dei Nar neofascisti e a denunciare i vizi e i pregiudizi di quel processo. A partire dall’esperienza del 7 Aprile, Rossanda si adoperò con ogni strumento per arrivare a una soluzione politica della vicenda sanguinosa del terrorismo italiano. Diede vita, con Luigi Manconi, a un giornale che si occupava solo di questo, Antigone. Sostenne prima il movimento della dissociazione, poi la necessità di un’amnistia per tutti. Fu allora che si rese conto della tendenza della magistratura, allora in fase iniziale ma già evidente, a debordare dei propri limiti istituzionali e costituzionali, a invadere il terreno proprio degli altri poteri. Fu anche quella una crociata che non avrebbe più abbandonato. Rossana Rossanda è stata una delle poche a evitare la sbronza giustizialista che negli anni di tangentopoli individuava nei pm i salvatori della patria. Non faceva sconti al sistema dei partiti ma neppure alle toghe e non ne avrebbe mai fatti in seguito, neppure a proposito delle leggi speciali antimafia. Il caso Moro è parzialmente diverso. L’editorialista del “quotidiano comunista” fu la prima a infrangere l’unanimità emergenziale che indicava nelle Br o una sigla fittizia che copriva provocatori fascisti oppure una banda di folli criminali senza vere radici politiche. Con Moro ancora vivo e prigioniero scrisse un famoso articolo, quello sull’ “album di famiglia”, nel quale non solo confermava che le Br erano una formazione di estrema sinistra, cosa a quel punto ovvia per tutti, ma soprattutto che la loro cultura, la loro fraseologia, la loro visione del conflitto sociale rispecchiavano quelle del Pci, o di una parte sostanziosa del Pci, negli anni ’50.Nei decenni successivi continuò a seguire puntigliosamente il caso Moro ma anche a cercare di capire e chiarire come quell’insorgenza armata, unica nel mondo occidentale post-bellico, si fosse potuta determinare. Firmò con Carla Mosca il libro-intervista a Mario Moretti Br. Una storia italiana, testo essenziale per chiunque voglia capire la lotta armata italiana negli anni ’70-80. Non smise mai di contrastare, confutare e sbugiardare le fluviali teorie sul complotto, sulle Br eterodirette, sull’omicidio Moro ordito da occulte centrali di potere per fermare la marcia trionfale del Pci verso il governo. Sapeva che si trattava di sciocchezze. La critica acuminata nei confronti della magistratura, il garantismo, il rifiuto della dietrologia non sono stati oggetto di alcuni articoli brillanti ma sporadici firmati dalla ex responsabile della Cultura del Pci radiata nel 1969. Sono state campagne che ha combattuto in prima persona quotidianamente per decenni e che hanno qualificato il suo giornale, restando a lunghissimo parte essenziale della sua particolare identità culturale e politica. Per questo aver scelto di soprassedere su questa parte centrale della storia e della biografia di Rossana Rossanda, di fatto cancellandola nel ricordo, non è un peccato veniale ma una omissione grave.
Il ricordo. Addio Rossana Rossanda, lucida e solitaria. Redazione su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Si sono svolti ieri i funerali di Rossana Rossanda, morta domenica scorsa a 96 anni. Circa 2000 persone si sono raccolte in piazza Santi Apostoli, a Roma, dove era stato sistemato il palco. Hanno parlato prima gli ultimi tre superstiti del gruppetto di dirigenti del Pci che nel ‘69 lasciò il partito – anzi ne fu espulso – e fondò il manifesto (un po’ rivista, un po’ gruppo politico, e poi quotidiano col sottotitolo gridato: comunista). Luciana Castellina, la più nota, e poi Ninetta Zandegiacomi, ex sindacalista, e Filippo Maone, che all’epoca era un ragazzino e oggi è l’unico a restare sotto i settant’anni… Poi ci sono stati vari altri interventi, tra i quali quelli di tre dirigenti del Pci, anche loro un po’ superstiti di quel comitato centrale che nel 1969 decise, quasi all’unanimità, l’espulsione del manifesto. Aldo Tortorella e Emanuele Macaluso, entrambi sopra i 95 anni, e Fabio Mussi, settantenne con una medaglietta di valore: fu uno dei tre membri del comitato centrale che si opposero all’espulsione. Mussi all’epoca avea vent’anni, era un fanciullo. E pagò. Era l’esponente più giovane del gruppo dirigente del partito e pochi mesi dopo il suo voto di dissenso fu messo fuori dal Comitato centrale. Di Rossana Rossanda abbiamo scritto molto nei giorni scorsi. Abbiamo detto di come lei sia stata una delle maggiori intellettuali di sinistra del dopoguerra. Di come abbia influenzata profondamente la generazione dei ragazzi nati negli anni 50. Purtroppo la ricordano in pochi. Purtroppo la memoria storica, in questa epoca, è quasi svanita. Qui di seguito pubblichiamo i saluti che le mandano due dei suoi compagni di tante battaglie, Oreste Scalzone e Franco Piperno, che furono tra i fondatori di potere Operaio.
Che malinconia. Lucia ed io l’avevamo ritrovata una delle ultime volte a Parigi alla cerimonia degli addìi per Karol, e uscimmo dopo esser restati un po’ insieme con lei con una traccia di inequivocabile malinconìa. Il non esserci oggi, di presenza, per impossibilità assoluta, fa riaffiorare più forte questa densa tristezza non rassegnata. Ma forse è bene così, poterne parlare fuori degli echi di epicedi “a tutto tondo”. Tentare un risultato nell’approssimare quanto si può una veridizione, non è cosa facile né breve. Intanto, un addio. Oreste (con Lucia e Rossalinda) Scalzone
La mia cattiva maestra. Di nuovo ha suonato l’altra notte la campana, proprio quando nel cielo appariva la falce della Luna crescente segnando così l’inizio dell’arcaico calendario semitico. Questa volta, con la scomparsa di Rossana, viene a mancare uno spirito libero che, tra le altre sue imprese, aveva costituito, con la parabola stessa della sua vita, un riferimento etico-politico per i giovani comunisti della generazione del “baby-boom”, quella successiva alla fine della guerra. Rossana Rossanda è stata davvero una cattiva maestra; di cui sarà ben difficile fare a meno. Così, senza il suo magistero, noi ci sentiamo irreparabilmente diminuiti. Franco Piperno
Rossana Rossanda umiliata da Fico e dai 5 Stelle. Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2020. «Rossana Rossanda era una delle ex parlamentari a cui il presidente Fico e M5s hanno tagliato il vitalizio, facendole passare gli ultimi 3 anni della vecchiaia nell’umiliazione di improvvise ristrettezze e amarezza per come sono stati descritti gli ex parlamentari, come un branco di ladri e profittatori. Una recente delibera aveva parzialmente reintegrato l’assegno (evito le cifre per ragioni di riservatezza) ma non le tolse l’amarezza. Spero che il presidente Fico ci risparmi nei prossimi giorni l’ipocrisia del suo ricordo in Aula», lo ha scritto su Facebook il giornalista Giovanni Innamorati.
Morta Rossana Rossanda: la fondatrice del "manifesto" aveva 96 anni, addio alla "comunista critica". Libero Quotidiano il 20 settembre 2020. Morta nella notte Rossana Rossanda. Giornalista, intellettuale e scrittrice, fondò il manifesto, il quotidiano comunista. La Rossanda ci lascia a 96 anni, si è spenta nella sua casa di Roma. La notizia è stata data dal sito del manifesto, che ha anche annunciato un'edizione speciale del giornale, in edicola martedì, interamente dedicata alla giornalista. Nata nel 1924, fu dirigente del Pci negli anni cinquanta e sessanta, dove era esponente di spicco dell'ala di sinistra movimentista, vicina alla figura di Pietro Ingrao. Atea e da sempre critica nei confronti dell'Unione sovietica, venne radiata dal Pci nel Congresso nazionale di Bologna del 1969 proprio per la sua linea divergente rispetto al Comitato centrale circa l'occupazione della Cecoslovacchia da parte dei paesi del patto di Varsavia. Lasciò il manifesto definitivamente nel 2012 a causa di pesanti dissidi con il gruppo redazionale, prendendo "atto delle indisponibilità al dialogo".
È morta Rossana Rossanda. Rossana Rossanda inizia come responsabile cultura del Partito comunista per poi divenire deputata nel 1963. Nel '68 viene espulsa e fonda Il Manifesto. Francesco Curridori, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. “Nessuna delle mie idee aveva funzionato, troppo presto o troppo tardi che fosse”. Rossana Rossanda, fondatrice del giornale Il Manifesto, amava definirsi “una comunista ortodossa”.
La giovinezza di Rossana Rossanda. Proprio Lei, che, dopo essere stata eletta in Parlamento col Pci, negli anni della contestazione, viene espulsa per le sue critiche nei confronti dello stalinismo.“Pensavo che l’Urss fosse un Paese giusto, solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato”, dirà parecchi anni dopo Rossanda che ha vissuto la passione per la politica fin da giovanissima. La giornalista, nata a Pola nel 1924, cresce in “in una famiglia che aveva un’idea della convivenza non nazionalista” in cui “si parlava tedesco, sloveno, italiano, in una quotidianità plurilingue, ancora priva di tensioni etniche”. Negli anni ’30 si trasferisce dagli zii di Venezia, mentre i genitori, colpiti dalla crisi economica, vanno a lavorare a Milano. Rossana li raggiungerà solo nel ’38. Diplomatasi, poi, al liceo classico Alessandro Manzoni, si iscrive in Lettere moderne all’Università Statale dov’è allieva del filosofo Antonio Banfi. Durante la Seconda guerra mondiale Rossanda entra tra i partigiani e, terminato il conflitto, si iscrive al Pci. Nel 1946 si laurea, comincia a lavorare per l’Enciclopedia Hoepli e, pochi anni dopo sposa Rodolfo Banfi, il figlio del filosofo dal quale si separa all’inizio degli anni ’60.
La carriera dentro il Pci. Già nel 1947 viene chiamata dall’allora segretario Palmiro Togliatti per assumere incarichi di partito, tra cui il più importante è indubbiamente quello di responsabile nazionale della Cultura. Nel 1949 visita per la prima volta l’Unione Sovietica, poi diventa consigliere comunale a Milano e, pian piano, si fa strada dentro il partito fino ad essere candidata in Parlamento. Lei viene eletta alla Camera, mentre la sorella Marina entra a Palazzo Madama. “La mia vera strada era quella di storica dell’arte, un interesse che mi sembrò totale finché non vinse quello per la politica. Più tardi, nel 1963, mi pesò molto non fare più la funzionaria di partito a Milano ma la parlamentare a Roma. Non era il posto per me”, spiegherà la Rossanda che, infatti, di lì a poco sarebbe entrata in rotta di collisione col partito.
La nascita del Manifesto. È il 1968, scoppia la contestazione giovanile dei movimenti studenteschi e, a stretto giro, Rossanda pubblica il saggio L’anno degli studenti in cui rende noto tutto il suo appoggio alla protesta. Il 23 giugno 1969 esce il primo numero de Il Manifesto, il giornale fondato insieme a Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri e Luciana Castellina con l’intento di dar voce alla critica allo stalinismo e al socialismo reale che si fa ancora più forte dopo l’invasione russa di Praga. Una critica troppo dura per essere digerita dai vertici del Pci che decidono, quindi, di radiare lei, Pintor e Natoli. “Io sono stata tra i primi a criticare l’Unione Sovietica e per questo sono stata espulsa dal Pci, insieme agli altri compagni fondatori del Manifesto. Fu un provvedimento giusto perché ormai non eravamo più d’accordo su niente”, dirà Rossanda che continuerà sempre a far politica. Il Manifesto, infatti, tenta di farsi partito, ma alle Politiche del 1972 ottiene appena lo 0,8% dei consensi e, di lì a poco, confluisce nel Partito di Unità Proletaria. Nel 1978, affrontando il tema del terrorismo rosso, scrisse: “Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l'imperialismo, dall'altra il socialismo. L'imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale”.
Rossana Rossanda e il femminismo. Rossanda è rimasta fieramente comunista, atea e soprattutto femminista fino alla fine dei suoi giorni. “Il rombo di questo tempo è stato così forte che la voce delle donne non la ricordo; quella che decifro oggi nelle amiche femministe non l’ho avvertita mai prima. La donna era un dolore aggiunto, un particolare modo di patire o di fuggire”, scrive nel libro Le altre. In un articolo del 2008 dal titolo Parliamo di donne, la Rossanda propone “che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere”. Dall’età di 40 anni si lega sentimentalmente con lo scrittore polacco Karol Kewes con cui, nel 2007, si trasferirà a Parigi. Kewes morirà nel 2014, ma Rossanda ritornerà in Italia soltanto cinque anni dopo. Nel 2005 ottiene un grande successo con il libro autobiografico La ragazza del secolo scorso e sfiora la vittoria del Premio Strega.
Gli ultimi anni di vita. Nel corso di tutta la Seconda Repubblica, Rossanda usa parole decisamente sprezzanti nei confronti del centrodestra: “L’Italia va incontro ai tempi più oscuri da quando è nata la repubblica. Ha mandato spensieratamente a Palazzo Chigi un governo di fascistoidi, bugiardi e corruttori”, scriverà nel 2008. Le elezioni politiche di quello stesso anno non celebrano soltanto il trionfo del centrodestra, ma anche il tonfo dell’estrema sinistra che rimane esclusa dal Parlamento. “E se questo è successo, qualche responsabilità l’avremo avuta pure noi nel nostro piccolo. Per distrazione, per sufficienza, perché ‘rivoluzione o niente’, per stanchezza - siamo in campo da quasi quarant’anni, troppo modesto distributore di contravveleni”, scrive la fondatrice del Manifesto, giornale che lascia nel 2012 per dissensi con la redazione. “Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto ad averci cacciato. L'abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a far tacere i più giovani”, dirà. Nel 2019, dopo dodici anni vissuti a Parigi, Rossanda torna in Italia: “Ho trovato un Paese veramente orribile. Il contatto con l’Italia salviniana mi ha stupito, non mi aspettavo un cambiamento così profondo”. La giornalista prosegue la sua feroce critica nei confronti della classe politica italiana, bastonando sia i gialloverdi sia i giallorossi. “Il Movimento 5 Stelle non è niente”. Conte? “Politicamente non è niente”, mentre l’alleanza tra i dem e i grillini “aumenterà solo l’inconsistenza della sinistra”. Sempre nel 2019 la 96enne Rossanda, che già aveva avuto un ictus, viene ricoverata nell'ospedale romano del Santo Spirito per una crisi cardiaca.
La rilettura delle sue opere. La morte secondo Rossana Rossanda. Lea Melandri su Il Riformista il 3 Ottobre 2020. La morte è un problema politico? La risposta è sì, tenuto conto che l’atto di nascita della politica poggia sulla differenziazione originaria che ha visto prevalere un principio paterno, svincolato dalle leggi della vita materiale, sulla maternità rimasta a rappresentare la componente carnale dell’uomo, il nascere e morire degli altri esseri viventi, come scrive Johann Jakob Bachofen. Rileggo alcuni scritti, i meno conosciuti di Rossana Rossanda, pubblicati nel libro Anche per me (Feltrinelli 1987) e negli anni Novanta sulla rivista Lapis, e resto ancora una volta sorpresa che sia stata una donna, “invasa” come dice lei stessa dalla politica e gettata dalla guerra sull’ “orizzonte smisurato della storia”, a sottrarre alle acque insondate della persona il corpo e l’inquietudine che getta sull’io la sua finitezza. «La fonte del dolore, il chiodo della Crocifissione: questo sta assai più profondamente infitto nell’inquietudine dell’io (…) Siamo finiti, perimetrati, conclusi nel tempo come nell’estensione della nostra mente. Non è drammatico nel senso di sofferente, è tragico nel senso di inesorabile». Al di là dei modi diversi con cui avviene questa presa d’atto, di coscienza, aggiunge Rossana, «essa sta in tutto quel che scopro dell’uomo e della donna e che posso chiamare anche il neutro della specie, perché è su questa comune condizione che è stato effettuato un antico atto di dominio di un sesso sull’altro, e poi costituito un decalogo della differenza». Alla donna che avrebbe voluto sapere tutto “del tempo che ci è dato”, compreso il giorno della sua morte, cambiare tutto, non rassegnarsi a nessuna forma di predeterminazione, non poteva passare inosservata la politicità, che il femminismo veniva riconoscendo, di quel “rimosso” secolare su cui si è costruita la nostra storia. Sorprendente era per Rossana che la materialità di cui è fatta la vita fosse rimasta così a lungo un interdetto, un “impensato”. «Per essere così vicino, il corpo è in assoluto la zona di conoscenza meno frequentata. Mi limito a constatare che da sempre la conoscenza del corpo, che in linea logica dovrebbe essere il primo è più interessante oggetto di esplorazione, è quasi magicamente precluso. Il corpo nasce, invecchia e muore e noi nasciamo, invecchiamo con lui: “con”, come se fosse altro da noi. Lo sentiamo come qualcosa di esterno/interno. Invecchiamo, ci ammaliamo, moriamo nostro malgrado: è lui, il corpo, che mi trascina nei suoi ritmi, programmi, disastri». “Tragico”, per Rossana, significava non drammatico e lacrimoso, ma di “rara soluzione” e “di molta perdita” e, soprattutto, il dover vivere evitando di pensare alla morte o vivere una finitezza che ti nega. La verità ultima del corpo è quella che segna, all’origine, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e che finisce sepolta sotto quei “disastri” della storia che sono le ingiustizie, le illibertà che vengono da necessità imposte dal potere, dal denaro, «da tutto ciò che ti fa essere oggetto di scelte altrui». «Io credo che gli esseri umani sono uguali, perché a che cosa è comparabile una vita se non a se stessa, al suo arco breve? E non tollero che non abbiano gli stessi diritti di gestire la nostra sorte e la nostra intrinseca, non coatta, liberatoria diversità…». A fronte del suo “luciferino” bisogno di vivere nel mondo, nell’incontro/scontro con l’altro, sentendosi un “frammento parlante di una storia comune”, il polo che la storia ha creduto di consegnare alla natura, al destino della donna e alle esperienze più universali dell’umano, considerate paradossalmente “private”, si impone a Rossana con una evidenza e complessità nuove, anche rispetto al femminismo. Se è difficile muoversi tra il “profondo” e la “storia”, affrontare la lacerazione che passa dentro di noi, tra quello che siamo e i modelli incorporati che altri ci hanno imposto, sopportare la “perdita di senso” e di potere sul nostro destino, impossibile è pensare a quel corpo che “ti ammazzerà”, «come un killer che se ne va per strada e quando ti incontra ti spara». Attenta a ciò che differenzia la percezione del corpo per l’uomo e per la donna, per lui il “fare”, per lei l’ “apparire”, Rossana che amava definirsi «una in un pieno di uni e une», non poteva nascondersi il fatto che per entrambi i sessi il corpo è “intrigante”, e la sua finitezza ragione di profonda inquietudine. A confronto di tante “illibertà” che ci assediano dall’esterno e dall’interno di noi stessi, ma che potrebbero essere rimosse, sta la consapevolezza “tragica” che la materia di cui è fatta la vita ci detta i suoi ritmi e la sua legge, anche se è proprio da questo confine ultimo che la vita sembra ritrovare il suo “suono più autentico”. La rimozione del corpo e della morte, del tempo breve che ci è dato di vivere, ha portato con sé non solo l’esclusione delle donne dal governo del mondo, ma anche la mutilazione della politica riguardo a quei “tesori di cultura”, legati alla persona, alla memoria, all’essere sessuati, che avrebbero potuto intaccarne a fondo la separatezza e l’illusoria onnipotenza. «Duro, ma adulto sarebbe riconoscere che la condizione dell’uomo, appeso tra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forma e missione non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma (soltanto!) liberarlo dalla intollerabilità dell’ingiustizia».
Dagospia il 28 settembre 2020. Lettera di Ferdinando Proietti. Caro Roberto, mi obblighi su Dagospia a un ricordo privato di Rossana Rossanda legato soprattutto alla mia esperienza politico e giornalistica al Manifesto in quei primi anni settanta: per affetto, stima e amicizia antica obbedisco. Mi obblighi, nonostante quest’ultimo evento luttuoso per tanti (bravi) giornalisti e “amici” della scomparsa è stata l’ennesima l’occasione - twittando garruli pure sui social in assenza di necrologi a mezzo stampa -, per sfilare, dolenti, sul black carpet dell’epitaffio agiografico. Al fine ultimo di simulare una intimità con la cara defunta, a suo modo famosa. Ben altra cosa dei tradizionali e scrupolosi obituaries cari alla stampa anglosassone. Ma è inutile versare lacrime sui “coccodrilli” d’antan dimenticati negli archivi polverosi della stampa che fu. Nei miei anni brevi al Manifesto, impegnati e carichi di speranze (tradite), ahimè sono riuscito a strappare a Rossana soltanto due mezzi sorrisi e qualche mezza confidenza. E’ colpa mia (e di altri redattori) se non siamo riusciti penetrare nella solida corazza del privato di Rossana e nel respingere il magnetismo intellettuale che lei spargeva? Forse. Anche con Luigi Pintor, il direttore che prima di morire si paragonò all’inetto capitano spagnolo Dominick che finì prigioniero di se stesso, i rapporti con Rossana non furono sempre idilliaci. Né con gli altri padri fondatori: Lucio Magri, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sin dal primo numero (ne furono vendute 100 mila copie) Luigi era convinto che il quotidiano non dovesse “supplire” alla costruzione di una nuova sinistra-partito bensì “offrire un strumento di conoscenza, d’intervento e di mobilitazione”. Ma tradì subito questo principio schierandosi nel 1971 per la presentazione di liste del Manifesto alle elezioni politiche che si rivelarono un micidiale flop. Rossana era per l’astensione. E aveva ragione. Poi le parti s’invertiranno e si complicheranno: dai rapporti con gli altri gruppi extraparlamentari; al giudizio sulla lotta armata soprattutto al momento dell’uccisione di Moro a opera delle Br. Per Rossana leggendo i loro comunicati sembrava di sfogliare “l’album di famiglia” dei comunisti anni Cinquanta. E a spaccare il corpo redazionale del Manifesto provvidero pure l’unificazione con il Pdup e il ritorno alla casa madre del Pci. Nel volume sulla storia del Manifesto di Aldo Garzia, “Da Natta a Natta” (Edizioni Dedalo), è ben raccontata la vicenda umana e politica dei moschettieri rossi del Manifesto. E in quella compagnia di eretici (espulsi dal Pci per antistalinismo: “facemmo la cosa giusta, ma non cademmo nel vuoto bensì nelle braccia del movimento”, disse una volta), l’aristocratica ragazza del secolo scorso - che affascinò Palmiro Togliatti per la sua cultura europea -, intimidiva molti di noi. Redattori e impiegati (con pari paga operaia anche se i fondatori potevano far ricorso alla pensione di parlamentare), che si mostravano poco riverenti nei confronti dei padri carismatici di quel piccolo quotidiano comunista. Né ho mai capito se Rossana, educata al bon ton della politica colta e alta di scuola marxista coltivata nei quartieri bene tra Pola, Milano, Roma e Parigi, fino a che punto tollerasse che in quelle stanze di via Tomacelli, sede del giornale, “ogni reverenza era bandita, la libertà o licenza sconfinavano piacevolmente nell’anarchia”. A ricordarlo è stato il suo direttore, Luigi Pintor. E anche gli amori sbocciavano senza conoscere età o ruolo politico al passo con la rivoluzione sessantottina. Quando il Migliore, Togliatti, le chiese d’incontrare e conoscere il filosofo Jean Paul Sartre, lei – a rivelarlo è stata la sua amica del cuore Luciana Castellina -, organizzò la cena al ristorante romano “Ranieri” frequentato da Gianni Agnelli e altri padroni del vapore. Una volta si sorprese nell’incontrami in un salotto della capitale in cui politica e spettacolo tenevano banco. “Che ci fai qui?”, mi chiese regalandomi un sorrisetto. E in quell’occasione mondana, dove in tv andava in onda la premiazione della mostra del cinema di Venezia, mostrò tutto il suo candore (o snobismo) nello scoprire che le donne erano ancora bardate in lungo e gli uomini in smoking. Chissà, pensai allora, forse non aveva torto il filosofo Adorno nel chiosare pungente: “gli intellettuali sono gli ultimi nemici dei borghesi e, nello stesso tempo, gli ultimi borghesi”. Ma Rossana aveva la dolcezza delle sirene nell’incantare e rimettere a posto le “tessere” del suo privato e quelle della politica nel tumultuoso vissuto della redazione. “Non sono mai stata bella e non sono stata mai una simpaticona e non sono fredda, ho sempre frequentato le passioni”, diceva di sé Rossana che bella lo era davvero. Già, il Manifesto quotidiano di cui sono stato testimone involontario (fallibile e disincantato degli accadimenti vissuti) ma senza voler dare qui forma a una esperienza politica che riguarda altri storici. “Mi trovo dopo trent’anni (con riferimento alla sua passata esperienza all’Unità, ndr) in un giornale povero, simile di nuovo a una comunità o a una scuola, ma questa volta con regole proprie e senza severi maestri. Maestro involontario questa volta sono io”, confessa Luigi Pintor nel suo splendido libro di memorie e di squarciamenti cioriani, “Servabo” (Bollati Boringhieri 1991). Per Giampiero Mughini “il più bel libro scritto da un comunista sul loro essere stati comunisti”, giudizio che condivido appieno. Il vento del Sessantotto, il ritorno all’università (studente&lavoratore) e l’amicizia di Luigi Pintor e di sua moglie Marina mi spinsero in quell’”avamposto nel deserto dei tartari”. Un salto nel buio. Dopo cinque anni di felice “abusivismo” lasciavo il Corriere dello Sport diretto dall’ex comunista, Antonio Ghirelli, e dato alle stampe nell’ex tipografia Uesisa in via IV Novembre da tanti colleghi generosi di consigli. In quel giornale sportivo dove ebbi la fortuna di vivere(tra l’altro) a bordo ring la grande stagione del pugilato (Benvenuti, Mazzinghi, De Piccoli, Arcari, Rinaldi, Burruni…) si respirava anche uno stantio e plumbeo tanfo (ideologico) lasciato in eredità dal Littoriale fondato dal fascistone bolognese, Leandro Arpinati. Fui arruolato al Manifesto da Luigi forte di una buona esperienza giornalistica e sia pure scarsa solidità ideologica. Così, insieme a sua figlia Roberta, salii per la prima volta le scale del palazzo Ina di via Tomacelli per partecipare, alla luce di qualche candela, alla prima riunione di redazione. E’ l’avvio della mia conoscenza (incompiuta) con la ragazza del secolo scorso. Nel partecipare oggi alla cerimonia del suo addio, è difficile non riconoscerle la grande autorevolezza intellettuale anche fuori dall’Italia. E non si può non perdonare la sua fede incrollabile nel comunismo. Un credo, faccio mie le parole del saggista e poeta polacco, Czeslaw Miloz, in cui Rossana resterà “prigioniera” fino agli ultimi giorni della sua lunga esistenza. Già, allontanarsi dalla fede (comunista), ha osservato il saggista Tony Judt, che invece l’aveva abbandonata, a volte “si perde più di quel che si guadagna”.
· Addio a Ruth Bader Ginsburg, icona femminista della Corte suprema.
Addio a Ruth Bader Ginsburg, icona femminista della Corte suprema. Il Dubbio il 19 settembre 2020. Giudice liberal e icona pop. Ruth Bader Ginsburg, seconda donna della storia americana a far parte del massimo organo giudiziario (dopo Sandra Day O’Connor) è morta all’età di 87 anni, per complicazioni legate al cancro al pancreas. Paladina dei diritti e della lotta per la parità di genere era stata nominata da Bill Clinton nel 1993. Giudice liberal e icona pop. Ruth Bader Ginsburg, seconda donna della storia americana a far parte del massimo organo giudiziario (dopo Sandra Day O’Connor) è morta all’età di 87 anni, per complicazioni legate al cancro al pancreas. Paladina dei diritti e della lotta per la parità di genere era stata nominata da Bill Clinton nel 1993. Il presidente Donald Trump l’ha definita “un titano della Legge”, ordinando le bandiere a mezz’asta alla Casa Bianca. Si è’ spenta circondata dai familiari nella sua abitazione di Washington. Pochi giorni prima di morire aveva dettato il suo testamento politico alla nipote Clara Spera: “Il mio più fervente desiderio è di non venire sostituita fino a quando non si sarà insediato il nuovo presidente”. Era uno dei quattro giudici progressisti nel panel di nove membri del massimo organo giudiziario Usa che si avvia verso una schiacciante maggioranza conservatrice, 6 a 3. Il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, si è detto pronto a votare la ratifica della nomina della Casa Bianca che potrebbe arrivare a giorni. I democratici reclamano che sia il prossimo presidente a scegliere il successore .Ginsburg è stata l’architetto legale della lotta per l’emancipazione femminile negli anni Settanta e l’alfiere delle liberta’ civili. Lo status di popstar, consacrato anche al cinema con due film sulla sua vita, è arrivato in tarda età, intorno agli 80 anni. Ha un soprannome da rapper, Notorious Rbg (preso in prestito da The Notorious Big, assassinato nel 1997) e la sua immagine troneggia su magliette, tazze, tatuaggi e ogni tipo di gadget mentre i suoi rinomati colletti, oltre a fare tendenza, lasciavano intuire il suo stato d’animo. Occhialoni, minuta e riservata, senza mai alzare la voce è stata la donna più rivoluzionaria d’America. Nata a Brooklyn nel 1933 da genitori ebrei immigrati dalla Russia, si è laureata ad Harvard (era una delle nove ragazze in una classe di 500). Dopo la laurea, è diventata avvocato in un momento in cui “le donne non erano desiderate nella professione legale”. Faticò moltissimo a trovare lavoro. La sua prima vittoria in tribunale risale agli anni Settanta, nel caso “Frontiero versus Richardson”, quando sostenne le ragioni di una sottotenente dell’aeronautica discriminata per poi arrivare all’equiparazione tra discriminazione razziale a sessuale. La sua prima rinomata opinione come giudice risale al 1996 quando venne dichiarata incostituzionale la policy del Virginia Military Institute che da 157 anni ammetteva solo uomini. I suoi “Io dissento” sono diventati proverbiali. Vantava una profonda amicizia con il giudice conservatore Antonin Scalia con il quale condivideva un profondo amore per l’opera. Del marito Marty Ginsburg, conosciuto all’università e morto di cancro nel 2010, disse che era l’unico uomo al quale importava che lei avesse un cervello. Lascia due figli, Jane e James, sua nipote ed un posto da riempire che segnerà la cultura americana per almeno una generazione.
Usa, addio a Ruth Bader Ginsburg, giudice icona liberal della Corte Suprema. Le sue ultime volontà: "Sostituitemi dopo le elezioni". Aveva 87 anni, nominata da Clinton nel '93. Femminista, abortista, pro matrimoni gay, era la figura più a sinistra della massima istituzione giudiziaria. E ora, sulla sua successione, si gioca una partita vitale. Anna LOmbardi il 19 settembre 2020 su La Repubblica. La paladina delle donne se n'è andata. La giudice della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg, 87 anni, non ha resistito oltre. Il cancro al pancreas di cui soffriva da tempo e l'aveva già fatta finire cinque volte in ospedale, l'ha uccisa ieri sera. Lasciando sgomenta l'America democratica che ormai la considerava praticamente immortale. RGB - l'acronimo con cui tutti qui la chiamavano, reso celebre da una biografia con quel titolo e un documentario premiato dall'Oscar - è invece morta a poche settimane dal voto. E ora Donald Trump, c'è da giurarci, farà di tutto per eleggere un ennesimo conservatore prima del 3 novembre, ben cosciente del peso elettorale di una scelta che potrebbe spostare definitivamente a destra quella Corte Suprema attualmente formata da 5 giudici repubblicani su nove: un sesto, per intenderci, potrebbe influenzare le scelte legislative e sociali di questo paese per le prossime generazioni. Veterana liberal della Corte Suprema, nominata da Bill Clinton nel 1993, Bader Ginsburg era considerata un'icona femminista: ed era così popolare da avere il suo volto stampato su borse e t-shirt, mentre i suoi celebri colletti ricamati, indossati sulla toga nera, facevano ormai anche quelli tendenza. Mentre ogni sua uscita pubblica era accolta da standing ovation. "Non chiedo favori per il mio sesso, chiedo solo che smettano di calpestarci": la sua più celebre dichiarazione in tribunale era stato il motto di tutta una vita. Nata in una famiglia di immigrati ebrei, laureatasi nel 1955 in quella Harvard che aveva appena iniziato AD ammettere le donne (fu una delle prime 9 su 500 colleghi maschi), dopo la laurea fu a lungo impossibilitata ad esercitare perché nessuno voleva assumere un avvocato donna. E si fece dunque inizialmente strada tenendo un corso universitario su "genere e legge": diventando, così una pioniera del femminismo. Nelle aule del tribunale approdò solo nei primi anni 70: vincendo la prima causa di discriminazione sessuale, la celebre Frontiero versus Richardson, sostenendo le ragioni di una sottotenente dell'aeronautica discriminata dai colleghi maschi per ragioni di indennità. Per poi arrivare, in seguito, a chiedere che la discriminazione sessuale venisse equiparata a quella razziale. Costantemente impegnata a difendere i diritti delle donne ovunque venissero violati, la sua vita è stata un susseguirsi di battaglie sociali: dal diritto all'aborto al matrimonio gay, dall'immigrazione all'assistenza sanitaria per tutti. L'altra frase che la caratterizza è poi: "Io dissento". Tante volte ripetuta in quelle argute opinioni che metteva per iscritto opponendosi a certe decisioni della Corte Suprema. A dirla tutta, nel 2015 Barack Obama l'aveva invitata con discrezione a dimettersi, per via dell'età avanzata, sperando di farle lasciare il posto a un collega più giovane e di provata fede democratica. Ma all'epoca lei aveva fatto finta di non capire e d'altronde l'aveva ripetuto fino all'ultimo: "Il lavoro mi dà la forza di vivere". Sul letto di morte, a Washington, circondata dai suoi familiari, ha però espresso un ultimo desiderio: "La mia ultima e fervente volontà è di non essere rimpiazzata fino a quando non ci sarà un nuovo presidente alla Casa Bianca". Da domani, c'è da giurarci, per la sua poltrona sarà guerra aperta. Anche perché quando nel febbraio 2016 morì improvvisamente il giudice conservatore Antonin Scalia e Barack Obama nominò il giudice Merrick Garland, la maggioranza repubblicana al Senato, guidata dal senatore del Kentucky Mitch McConnell rifiutò di considerare la candidatura e approvarla sostenendo che Obama era alla fine della sua presidenza (sarebbe scaduta quasi un anno dopo, il 20 gennaio 2017). In realtà non esiste nessun regolamento del genere e i repubblicani lo sanno bene. Solo qualche giorno fa Trump ha annunciato di aver redatto una lista con circa 20 nomi di papabili giudici costituzionali. Fra questi gli ultraconservatori senatori Ted Cruz, del Texas e Tom Cotton, dell'Arizona. Alle elezioni manca pochissimo. E vedremo chi la spunta.
Usa, addio a Ruth Bader Ginsburg, giudice icona liberal della Corte Suprema. Le sue ultime volontà: "Sostituitemi dopo le elezioni". Pubblicato sabato, 19 settembre 2020 su La Repubblica.it da Anna Lombardi. È morta Ruth Bader Ginsburg, giudice icona liberal della Corte Suprema, seconda donna della storia americana a sedere nel massimo organo giudiziario. Aveva 87 anni. Il decesso, per complicazioni per un tumore al pancreas, è stato reso noto dalla Corte Suprema dove era stata nominata dal presidente Bill Clinton nel 1993. Nata a New York, Ginsburg è stata l'architetto legale della lotta per i diritti delle donne e l'emancipazione femminile negli anni Settanta. La speaker della Camera, Nancy Pelosi, chiede bandiere a mezz'asta a Capitol Hill. "Il mio più fervente desiderio è di non venire sostituita fino a quando non si sarà insediato il nuovo presidente". Sono le ultime volontà, affidate alla nipote Clara Spera. Ma il presidente Usa (ignaro della morte della giudice, non ha interrotto il suo comizio elettorale nel Minnesota) pare abbia alcuna intenzione di aspettare. E - riporta la Abc - presenterà una nomina per sostituirla nei prossimi giorni. Così l'ex advisor del presidente Donadl Trump, Kellyanne Conway, ha reso omaggio alla giudice scomparsa: "Ha vissuto un'incredibile vita dalle profonde conseguenze. Ha lavorato con passione e convinzione, ha ispirato molte donne e ha offerto speranza ad altri sopravvissuti al cancro". "Ha spianato la strada a molte donne, inclusa me. Non ci sarà mai nessuna come lei. Grazie RGB". Lo twitta l'ex segretario di stati, Hillary Clinton. Il cuore di New York si spezza con la morte del giudice Ruth Bader Ginsburg" è il tweet di cordoglio di Mario Cuomo. "Durante la sua straordinaria carriera - ha aggiunto l'ex governatore dello Stato di Ny - ha rotto le barriere e le lettere RBG hanno assunto un nuovo significato, come grido di battaglia e ispirazione. La sua mente legale e la dedizione alla giustizia lasciano un segno indelebile sull'America". "Nel suo nono decennio è diventata un'icona culturale improbabile di una generazione molto più giovane" è il ricordo del New York Times. "Un'ispirazione, una apripista" ha commentato l'ex presidente americano George W. Bush. A luglio l'ultimo ricovero A luglio era stata ricoverata dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute. Ma al momento delle dimissioni aveva voluto precisare di essere "pienamente in grado di proseguire il compito". Aveva anche precisato di dover proseguire le sedute di chemioterapia che ormai da tempo affronta due volte alla settimana. La morte di RGB - l'acronimo con cui tutti la conoscevano, reso ancor più celebre da una biografia con quel titolo e un documentario da Oscar - apre ora una certa tensione politica sulla nomina del suo successore. E' noto infatti che, almeno fino alle elezioni di novembre, non c'è Congresso in grado di impedire a Donald Trump di nominare un altro giudice ultraconservatore dopo Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh. Qualcuno capace di spostare definitivamente a destra una Corte Suprema che attualmente ha già 5 giudici repubblicani su nove. Ma per ora conta sul magistrato capo John Roberts, 65 anni, il repubblicano nominato da George W Bush, che nelle ultime settimane si è posto come ago della bilancia, sostenendo i diritti Lgbtq, quelli dei Dreamers e perfiino protetto l'aborto in Louisiana.
L'America piange Ruth Bader Ginsburg. Trump: "Titano della legge". Biden: "Notizia triste, era amata". Hillary: "Mai nessuna come lei". Cordoglio dal mondo della politica e della società civile. Cuomo: "Il cuore di New York si spezza". Nyt: "Icona culturale improbabile di una generazione molto più giovane". Alberto Custodero il 19 settembre 2020 su La Repubblica. E adesso l'America piange la scomparsa della sua icona liberal, Ruth Bader Ginsburg, l'architetto legale della lotta per i diritti delle donne e l'emancipazione femminile negli anni Settanta. Bandiere a mezz'asta alla Casa Bianca. "Incarnava giustizia, genialità e bontà. La sua scomparsa è una perdita incalcolabile per la nostra democrazia e per tutti coloro che si sacrificano e si sforzano di costruire un futuro migliore per i nostri figli" commenta la speaker della Camera, Nancy Pelosi, che le bandiere a mezz'asta le chiede anche a Capitol Hill. Il presidente Usa, Donald Trump, non ha interrotto il suo comizio nel Minnesota quando si è diffusa la notizia della morte della giudice. Subito dopo, ai cronisti ha detto: "Sono dispiaciuto, è stata una donna formidabile". Poi il Tycoon ha postato un comunicato su Twitter sostenendo che gli Usa sono in lutto per la perdita di "un titano della legge". "Una notizia molto triste, era amata, è stata alla guida degli sforzi per l'uguaglianza delle donne" ha affermato Joe Biden. "L'America ha perso uno dei giudici più straordinari che abbiano servito alla Corte Suprema. Era un giudice magnifico e una persona meravigliosa e brillante" ha sottolineato l'ex presidente Bill Clinton, che l'aveva nominata nel 1993. Commosso il ricordo di Hillary Clinton: "Ha spianato la strada a molte donne, inclusa me. Non ci sarà mai nessuna come lei. Grazie RGB" è il tweet dell'ex segretario di Stato. "Il cuore di New York si spezza con la morte del giudice Ruth Bader Ginsburg", è il tweet di cordoglio di Andrew Cuomo. "Durante la sua straordinaria carriera - ha aggiunto il governatore dello Stato - ha rotto le barriere e le lettere RBG hanno assunto un nuovo significato, come grido di battaglia e ispirazione. La sua mente legale e la dedizione alla giustizia lasciano un segno indelebile sull'America". "Ha vissuto un'incredibile vita dalle profonde conseguenze. Ha lavorato con passione e convinzione, ha ispirato molte donne e ha offerto speranza ad altri sopravvissuti al cancro", così le ha reso omaggio l'ex advisor di Trump, Kellyanne Conway. "Nel suo nono decennio è diventata un'icona culturale improbabile di una generazione molto più giovane", è il ricordo del New York Times. "Un'ispirazione, una apripista" ha commentato l'ex presidente americano George W. Bush.
La giudice liberal della Corte Suprema: "Il cancro è tornato, ma resto al mio posto". Ruth Bader Ginsburg, 87 anni, nominata da Clinton nel '93 è in chemioterapia. E' considerata la paladina dei diritti civili: senza di lei, e con una nomina trumpiana, l'alto tribunale slitterebbe a destra. Anna Lombardi il 17 luglio 2020 su La Repubblica. Ci risiamo. Ruth Bader Ginsburg, 87 anni, è finita di nuovo in ospedale: mettendo mezza America in ansia per l'ennesima volta. Per carità Super Ruth, la veterana liberal della Corte Suprema, nominata da Bill Clinton nel 1993 e considerata un'icona femminista così popolare da avere il suo volto stampato su borse e t-shirt, per ora non cede. Dopo una serie di controlli è già tornata a casa. "Sono pienamente in grado di proseguire il mio compito", afferma, pur precisando di dover proseguire le sedute di chemioterapia che ormai da tempo affronta due volte alla settimana. Ma non è un mistero per nessuno che se a mollare dovesse essere proprio RGB - l'acronimo con cui tutti la conoscono, reso ancor più celebre da una biografia con quel titolo e un documentario da Oscar - almeno fino alle elezioini di novembre, non ci sarebbe Congresso in grado di impedire a Donald Trump di nominare un altro giudice ultraconservatore dopo Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh. Qualcuno capace di spostare definitivamente a destra una Corte Suprema che attualmente ha già 5 giudici repubblicani su nove. Ma per ora conta sul magistrato capo John Roberts, 65 anni, il repubblicano nominato da George W Bush, che nelle ultime settimane si è posto come ago della bilancia, sostenendo i diritti Lgbtq, quelli dei Dreamers e perfiino protetto l'aborto in Louisiana. Salvo tornare a votare con i conservatori per un tema delicato come i fondi alle scuole religiose. Proprio per evitare lo scenario peggiore, Barack Obama l'aveva invitata con discrezione, nel 2015, a dimettersi per via dell'età avanzata lasciando il posto a un collega giovane e di provata fede democratica. All'epoca lei fece finita di non capire. E da quando è stato eletto Trump alla Casa Bianca sa benissimo di dover tener duro. Coriacissima Ginsburg: ancora assicura di essere in grado di portare avanti il suo compito per altri 5 anni. Ricordando come già nel 2012 e 2013 fu costretta a curarsi dal cancro: ma si è sempre rimessa completamente, tornando al lavoro più grintosa di prima. Certo, l'età avanza: e in privato Donald Trump, che pure due giorni fa le ha augurato di rimettersi presto, ha già detto di essere ancora convinto di poterla rimpiazzare. "Non chiedo favori per il mio sesso, tutto quello che chiedo ai nostri fratelli è che smettano di calpestarci": la sua più celebre dichiarazione in tribunale resta ancora il suo motto di tutta una vita. E difficilmente la vedremo mollare. Nata in una famiglia di immigrati ebrei, laureatasi nel 1955 in quella Harvard che incominciava appena ad ammettere le donne (fu una delle prime 9 su 500 colleghi maschi), dopo la laurea fu a lungo impossibilitata ad esercitare perché nessuno voleva un avvocato donna. E si è dunque inizialmente fatta strada tenendo un corso universitario su "genere e legge". Nelle aule del tribunale approda solo nei primi anni Settanta: vincendo la prima causa di discriminazione sessuale, la celebre Frontiero versus Richardson, sostenendo le ragioni di una sottotenente dell'aeronautica discriminata dai colleghi maschi per ragioni di indennità. In seguito arriva perfino a chiedere che la discriminazione sessuale venisse equiparata a quella razziale. Costantemente impegnata a difendere i diritti delle donne ovunque venissero violati. La sua vita è stata dunque un susseguirsi di battaglie sociali. E lo è ancora oggi, nonostante sia la più anziana dei 9 giudici in carica. L'intera America democratica fa il tifo per lei. Se RBG dovesse mollare, le conseguenze si sentirebbero per generazioni. E lei è ben cosciente che tutto ciò per cui ha sempre lottato, rischierebbe di svanire. Anche per questo non mollerà. Finché avrà respiro.
Marco Valsania per "ilsole24ore.com" il 20 settembre 2020. Ruth Bader Ginsburg, la seconda donna a sedere nella Corte suprema americana e leader della sua ala progressista, è scomparsa venerdì sera all’età di 87 anni a causa di complicazioni causate da un tumore. Ginsburg, che aveva a lungo lottato contro la malattia ricomparsa a luglio, lascia una influente eredità quale campionessa dei diritti delle donne e dell’eguaglianza. È stata paragonata per statura intellettuale e acume giuridico a Thurgood Marshall, il grande alto magistrato che segnò la storia della battaglia per i diritti degli afroamericani. Ma soprattutto Ginsburg lascia oggi un vuoto alla Corte in un momento estremamente delicato, che promette di scatenare una nuova, durissima battaglia politica negli Stati Uniti alla vigilia delle elezioni sulla nomina del suo successore.
Una successione pesante. Donald Trump ha l’opportunità, e ha espresso ripetutamente la volontà, di nominare un nuovo esponente a vita della Supreme Court, spostando così il suo baricentro significativamente a favore di una maggioranza sempre più conservatrice intenta a ribaltare decisioni quali il diritto d’aborto, la nota sentenza Roe v. Wade. Il ruolo della Corte nell’interpretare le leggi negli Stati Uniti è cruciale a ha di conseguenza forti riflessi sulla società, come in passato hanno dimostrato casi storici quali la desegregazione delle scuole e i diritti gay oltre all’aborto. Oggi l’ago della bilancia è il presidente stesso della Corte John Roberts, considerato un conservatore moderato, dopo che Trump ha già ottenuto la nomina di altri due esponenti più radicali. La nomina di un altro magistrato vicino a Trump e ai repubblicani più militanti ridurrebbe tuttavia la corrente liberal dentro la Corte a soli tre voti sicuri su nove in totale.
I candidati di Trump. Trump non ha fatto riferimento ad una nuova nomina nella notte. Ha espresso sorpresa alla notizia della scomparsa di Ginsburg al termine di un comizio in Minnesota, offrendo il proprio omaggio alla vita e carriera del magistrato. Aveva però nelle scorse settimane menzionato esplicitamente una lista di venti nomi per una possibile sua scelta per la Corte Suprema, da senatori repubblicani quali Tom Cotton e Ted Cruz a giudici, tra i quali Amy Coney Barrett, Thomas Hardiman e William Pryor. Tutti considerati fedeli esponenti conservatori. La promessa di Trump di nominare giudici molto conservatori e contro l’aborto è stata tra i cavalli di battaglia della sua elezione nel 2016 per mobilitare la sua base più militante e lo resta anche nel 2020.
L’opposizione democratica. I democratici contano a loro volta che l’alta posta in gioco alla Corte mobiliti oggi la loro base progressista. E hanno chiesto, il candidato alla Casa Bianca Joe Biden in testa, che i repubblicani aspettino l’esito delle elezioni per la nomina di un nuovo alto magistrato. Hanno ricordato loro che nel 2016 avevano bloccato la nomina di un candidato di Barack Obama negli ultimi dieci mesi della sua presidenza citando proprio la necessità di rispettare il volere degli elettori prossimi a esprimersi.
I repubblicani vogliono un voto. Il leader del Senato, il repubblicano Mitch McConnell, ha tuttavia indicato senza indugi che questa volta intende portare al voto un candidato scelto dal Presidente. I repubblicani possono farlo. Al Senato basta una maggioranza semplice per approvare il nome e i repubblicani hanno 53 seggi contro i 47 dei democratici. Tre senatori repubblicani avevano in passato indicato che potrebbero defilarsi, Mitt Romney, Susan Collins e Lisa Murkorwski, ma resta da vedere se lo faranno davvero e comunque sarebbe necessario un quarto “tradimento” per bloccare una nomina, visto che una eventuale parità viene rotta dal voto del vicepresidente Mike Pence. McConnell ha due possibilità concrete in termini di tempi: portare al voto un candidato di Trump prima delle elezioni del 3 novembre oppure aspettare tra novembre e dicembre, dopo le urne ma prima che si insedi un nuovo Congresso e un Presidente. Un simile voto potrebbe insomma avvenire sia che vincano Trump e i repubblicani sia che perdano. Il vantaggio di aspettare a votare in Senato all’indomani delle elezioni sarebbe quello di galvanizzare la base a recarsi alle urne e allo stesso tempo di evitare di danneggiare, con una controversa approvazione, alcuni senatori moderati del partito che rischiano di non essere rieletti in circoscrizioni combattute.
Notorious RBGA. A Ruth Bader Ginsurg, nel frattempo, hanno offerto tributi in tanti. Era stata solo la seconda donna a essere nominata alla Corte e a lungo era rimasta l’unica, prima che Obama nominasse Elena Kagan e Sonia Sotomayor. Omaggi sono fioccati dall’ex Presidente Bill Clinton, che l’aveva scelta per la Corte Suprema nel 1993, come da Hillary Clinton, che l’ha definita una “apripista” e una “ispirazione” per generazioni di donne. Ginsburg e le sue opinioni alla Corte, spesso forti dissensi negli ultimi anni data la maggioranza conservatrice nell’istituzione, avevano assunto uno stato iconico. Sul magistrato sono stati anche girati un documentario e un film, stampate magliette e spille. La sua apparenza gracile e minuta tradiva una forza e una passione riconosciute da sostenitori e critici. Questa forza a passione le erano valse, tra le generazioni più giovani, enorme popolarità e il soprannome di Notorious RBG, dal nome di un noto artista di rap nato a Brooklyn come lei. Prima dell’ingresso alla Corte Suprema aveva vinto, quale avvocato che aveva eccelso in una professione a dominio maschile, quattro su cinque casi portati davanti alla Corte stessa, anzitutto sui diritti delle donne e contro pratiche discriminatorie.
Giuseppe sarcina per il "Corriere della Sera" il 20 settembre 2020. A Ruth Bader Ginsburg piaceva essere chiamata «la giudice del dissenso». Ma in realtà, per almeno trent' anni, è stata una delle più formidabili costruttrici dell'America moderna. Aveva la capacità, di questi tempi piuttosto rara, di trasformare i grandi ideali in cose visibili. Leggi e sentenze nel suo caso. Pari opportunità tra donne e uomini, dignità e tutela per ogni tipo di lavoro, garanzie per i diritti universali, compreso il matrimonio tra omosessuali. Nel 1993 Bill Clinton la nominò giudice della Corte Suprema, il massimo organismo giuridico degli Stati Uniti. Prima di lei ci era arrivata solo un'altra donna, Sandra Day O' Connor, scelta da Ronald Reagan. Attivista e pragmatica, secchiona e grintosa, amante dei guantini di pizzo e delle felpe da ginnastica. È morta ieri a 87 anni, nella sua casa di Washington, sconfitta dal tumore al pancreas, l'ultimo di una serie cospicua. Se n'è andata raccomandando a una delle nipoti: «Il mio più fervente desiderio è di non venire sostituita fino a quando non si sarà insediato il nuovo presidente». Ma Trump si sta già muovendo per consolidare la maggioranza conservatrice tra i nove togati. Ieri il presidente ha avuto parole di ammirazione nei suoi confronti, dimenticando quella volta che Ruth gli aveva dato pubblicamente dell'«impostore». Poi la magistrata riconobbe di aver esagerato e se ne scusò. Così come attenuò il primo giudizio («ma che stupidata») sulla protesta di Colin Kaepernick, il giocatore di football che si era inginocchiato durante l'esecuzione dell'inno nazionale. Non era solo un genio giuridico. Era anche, e forse soprattutto, uno spirito libero. Ecco perché negli ultimi anni entusiasmava i giovani. La sua immagine è tra i tatuaggi più popolari e compare su magliette, tazze, sacche da spiaggia. Una star sorprendente, che teneva banco anche sui social. «Non posso uscire di casa, che c'è qualcuno che vuole farsi una foto con me», aveva raccontato a Yahoo! . Nata a Brooklyn da una famiglia di ebrei russi, studia alla Cornell University, dove, diciassettenne, incontra Martin Ginsburg, l'uomo che sposerà tre anni dopo e con cui avrà due figli. Nel 1956 si iscrive alla Harvard Law School, insieme con il marito, il suo sostenitore più acceso. «A un certo punto ero pronta per il lavoro - raccontò in un'intervista alla Cbs - E quante offerte ricevetti? Zero. Avevo tre cose contro di me. Primo: ero un'ebrea. Secondo: ero una donna. Ma la cosa peggiore era la terza: avevo un figlio di quattro anni». Nel 1972 fonda una delle associazioni chiave di quegli anni, «Women's Rights Project», con l'American Civil Liberties Union. Comincia il suo lavoro in profondità, il suo tratto intellettuale distintivo. Un solo esempio, ma di capitale importanza. Ruth Bader Ginsburg criticava la sentenza chiave in materia di aborto, la Roe v. Wade del 1973. Il diritto all'autodeterminazione non doveva discendere dal concetto di libertà personale o di privacy, bensì dalla protezione fisica e morale garantita ai cittadini dalla Costituzione. Il suo principale avversario-interlocutore era Antonin Scalia, la quinta essenza della dottrina conservatrice. I due hanno animato fiere discussioni e coltivato un'intensa amicizia, oltre che la passione comune per l'opera. Nel 2015 la rivista Time inserì Ginsburg tra i 100 personaggi più influenti e chiese proprio a Scalia di scriverne il profilo. Un'impresa. Difficile afferrare fino in fondo una personalità come quella di Ruth. Nelle sentenze adottava un linguaggio ricercato, non convenzionale. Due volte alla settimana si presentava in una palestra di Washington: venti flessioni, qualche esercizio alla panca, indossando una felpa con la scritta: «Super diva».
Morte di Ruth Bader Ginsburg, Trump: "Nominerò una donna per il seggio alla Corte Suprema". Pubblicato domenica, 20 settembre 2020 da La Repubblica.it. Dopo la scomparsa di Ruth Bader Ginsburg e dopo il tweet con cui Donald Trump ha dato ufficialmente il via alla battaglia per la nomina della Corte Suprema, destinata a spaccare ulteriormente l'America alla vigilia delle elezioni presidenziali, il tycoon da un palco in Carolina del Nord, ieri ha dato la spallata finale: "Presenterò un candidato la prossima settimana. Sarà una donna", ha detto da Fayetteville, "con grande talento e molto brillante". I nomi presi in considerazione per la Corte Suprema includono tre donne che sono giudici della Corte d'appello federale: Amy Coney Barrett, amata dai conservatori e tra le prime favorite; Barbara Lagoa, ispanica e proviene dalla Florida; e Allison Jones Rushing, già nella squadra del giudice Clarence Thomas e di Neil Gorsuch, uno dei due già nominati per il ruolo all'alta corte da Trump. Per il rivale democratico Joe Biden, la decisione sulla sostituzione deve attendere fino a dopo il voto. E la stessa cosa aveva chiesto Ruth Bader Ginsburg come ultimo desiderio: "La mia ultima e fervente volontà è di non essere sostituita fino a quando non ci sarà un nuovo presidente alla Casa Bianca". Ma il presidente Trump ha promesso di rimpiazzarla "senza indugio" facendo infuriare i democratici che temono una maggioranza conservatrice decennale nella più alta Corte del paese. Durante il comizio elettorale a Fayetteville, alcuni sostenitori hanno cantato in coro: "Riempi quel posto!" esortando Trump a cogliere la rara opportunità di nominare il terzo giudice durante il suo mandato, dopo Gorsuch e Brett Kavanaugh. I dem si oppongono con forza. Non ci saranno nomine prima delle elezioni di novembre, così come non ci fu quella su Barack Obama quando i repubblicani la bloccarono nel 2016. Ginsburg, icona liberale e femminista, è morta di cancro al pancreas metastatico nella sua casa di Washington DC, circondata dalla sua famiglia. È stata la seconda donna in assoluto a sedere alla Corte Suprema. Venerdì sera i suoi una veglia di sostenitori si è riunita fuori dal tribunale sera per rendere omaggio alla donna che era diventata affettuosamente conosciuta come "The Notorious RBG".
· Addio Enzo Golino, giornalista e critico letterario.
Addio Enzo Golino, intellettuale a tutto tondo. Giornalista e critico letterario, è stato per tanti anni vicedirettore dell'Espresso. Lo vogliamo ricordare ripubblicando un suo editoriale del 1987 che parte dalla controversa questione dell’ora di religione nelle scuole italiane, per riflettere sulla laicità dello Stato. L'Espresso il 18 settembre 2020. È morto a Roma, dopo un a lunga malattia Enzo Golino. Era nato a Napoli nel 1932. Giornalista, critico letterario, Golino aveva lavorato alla Rai, ai servizi culturali, al 1962 al 1975. Poi era stato responsabile delle pagine culturali di Repubblica e del Corriere della Sera, prima di passare all’Espresso dove per anni ha ricoperto la carica di vicedirettore. Intellettuale a tutto tondo, attento ai rapporti tra letteratura e società, Golino era di quei napoletani freddi, che nascondono la passione culturale, civile e politica dietro i modi eleganti e distaccati dell’ironia. Tra i tanti articoli che ha firmato per il nostro settimanale, ripubblichiamo un editoriale del 1987 che parte dalla controversa questione dell’ora di religione nelle scuole italiane, per riflettere sulla laicità dello Stato. Alla moglie Mimma e ai figli Andrea e Claudia l’abbraccio della redazione dell’Espresso.
LA RELIGIONE NON PUO’ IMPORRE LA RELIGIONE di Enzo Golino (1987). È un brutto segno quando la religione diventa un affare di Stato da dirimere secondo le regole della Realpolitik. Una disputa come quella in corso fra lo Stato italiano e la Chiesa sull' ora di religione nelle scuole della Repubblica evoca fantasmi concordatari che sembravano seppelliti e suscita il pericoloso rigurgito di opposti integralismi. Una confessione religiosa deve garantire la pratica dei propri fedeli in presenza di regimi totalitari, di gulag ideologici: è un suo diritto, una esigenza vitale per scongiurare il dissolvimento dei valori che le appartengono, non è questo il caso di un paese come l'Italia dove, caduto i fascismo, ogni libertà dei cittadini è garantita dalla Costituzione e l'ipotesi di un “compromesso storico” fra il partito cattolico per eccellenza e il partito comunista aleggia da anni, con alterna fortuna. sulla scena politica. Il tentativo del Vaticano, a volte ovattato a volte brutale, di trasformare la religione cattolica in religione di Stato, si fonda probabilmente anche sul fatto che circa il 90 per cento degli studenti si sono dichiarati favorevoli a frequentare l'ora di religione (d'accordo con le rispettive famiglie). È una fin troppo facile profezia che questa maggioranza, vantata come schiacciante e confermata da un recentissimo sondaggio nazionale, si dissolverebbe rapidamente, riducendosi a quantità di gran lunga inferiore, se quell'ora fosse collocata all'inizio o alla fine della giornata scolastica. Esiste un conformismo collettivo, un "effetto gregge" in questo tipo di risposte, che sarebbe davvero sbagliato trascurare. Un altro elemento da valutare è il modo in cui viene insegnata la religione nelle nostre scuole. Ai fini dell'apprendimento, si tratta di tempo sprecato, di un rapporto fra professori e alunni che, salvo eccezioni, si svolge sulla base di genericità etiche e di approcci modesti allo straordinario patrimonio della cultura religiosa. Non a caso, come riferisce Sandro Magister nel servizio che pubblichiamo a pagina 14, prestigiosi intellettuali cattolici e laici ritengono che scuola e religione possano coesistere: a patto che la Pubblica Istruzione promuova un insegnamento storico-critico della materia, svincolato dal controllo ecclesiastico. Magari cominciando dalla cosiddetta ora alternativa che appare una iniziativa quanto mai confusa. Quel che si deve respingere senza mezzi termini (la Dc saprà dimostrare autonomia laica e senso dello Stato?) è l'ingerenza vaticana nell'organizzazione del curriculum scolastico. Altra cosa è infatti la questione concordataria, di ovvia pertinenza anche della Chiesa, e sulla cui arretratezza rispetto alla situazione politica e sociale dell'Italia di oggi si registra un consenso piuttosto esteso, In una eventuale e augurabile revisione del nuovo Concordato, firmato appena tre anni fa da Bettino Craxi nella qualità di presidente del Consiglio, converrà dunque che Stato e Chiesa ricordino almeno due massime del severo Tertulliano, il padre della teologia occidentale: «Non fa certo parte della religione imporre la religione»; «La religione di un uomo non è di danno né di aiuto a un altro». Viviamo in un tempo che non giustifica l'immagine della religione come “oppio dei popoli” o come ” una delle forme dell'oppressione spirituale”. Questo dato incontrovertibile rende ancor più anacronistico il clima da crociata instaurato dal pontificato wojtyliano nell'occasione che stiamo discutendo. Un clima strumentale, voce di un potere che tende a intimidire le coscienze, ma in stridente contrasto perfino con la sensibilità che il sinodo dei vescovi, attualmente in corso, dimostra nei confronti di un problema serio, e cioè la valorizzazione della laicità nella Chiesa. (Pubblicato sull’Espresso dell’11 ottobre 1987)
· E' morto lo scrittore Winston Groom, autore di "Forrest Gump".
E' morto lo scrittore Winston Groom, autore di "Forrest Gump". Lo riporta la Cnn citando Karin Wilson, sindaco di Fairhope, la città natale di Groom in Alabama. Groom aveva 77 anni. Il suo romanzo, dopo l'uscita del film che ha avuto un sensazionale successo, è passato dalle 30.000 al milione e mezzo di copie vendute, facendo esplodere il fenomeno definito "gumpismo". La Repubblica il 18/9/2020. Il libro racconta trent' anni di storia americana visti con gli occhi di un idiota, alternando con intelligenza la realtà alla finzione e l'ironia al sentimentalismo, e mettendo l' accento sulle osservazioni fatte dal protagonista riguardo a tutto quello che gli capita. Si tratta di osservazioni banali, spesso senza senso, che tuttavia, grazie alla apoditticità leggiadra e demente con cui vengono pronunciate, assumono la veste della saggezza e della verità assoluta. Nessuno prenderebbe mai troppo sul serio battute del tipo "La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai cosa c' è dentro", o "E' stupido chi fa delle cose stupide" eppure, grazie alla sapienza strutturale con cui vengono fatte pronunciare al protagonista, riescono a nascondere la vacuità su cui si fondano.
Il film: storia di un geniale idiota. Forrest Gump è nato con un quoziente di intelligenza di soli settantacinque punti ma ha il talento di correre come il vento. Il film percorre le tappe più salienti di questi tre decenni, attraverso la guerra del Vietnam, le proteste dei figli dei fiori, gli attentati e gli assassinii dei presidenti e l'arrivo dell' Aids. Un'epica picaresca di un moderno Candido, eterno ottimista guidato da due grandi amori: per la mamma (Sally Field), che lo ha tirato su da sola convincendolo che non era diverso da chiunque altro e per Jenny (Robin Wright), di cui è innamorato fin da piccolo, una bambina vittima degli abusi del padre che nel diventare donna cade preda di ogni moda e movimento sociale.
· È morta la sessuologa Shere Hite.
Da "ilmessaggero.it" il 15 settembre 2020. È morta a Londra la sessuologa americana Shere Hite che negli anni '70 provocò una «rivoluzione in camera da letto» ma dopo due decenni abbandonò gli Usa per l'Europa perchè gli americani erano troppo bacchettoni. L'autrice di del celebre «Rapporto Hite» del 1976 sulle abitudini sessuali delle donne Usa aveva 77 anni e soffriva di Alzheimer e di Parkison. Da giovane era bella come una top model e quando ancora studiava a Colombia aveva posato nuda per una pubblicità Olivetti. La Hite aveva costruito le sue ricerche pionieristiche sulla sessualità partendo dai lavori di Alfred Kinsey e della coppia William Masters e Virginia Johnson. Il suo lavoro sulla sessualità femminile, basato sulle confidenze anonime di 3.500 donne tra 14 e 78 anni e venduto in oltre 50 milioni di copie, sfidò Freud e i preconcetti maschili proclamando che molte donne non avevano bisogno di un rapporto sessuale tradizionale - nè avevano bisogno di un uomo - per raggiungere la soddisfazione sessuale.
Il rapporto. «Il Rapporto Hite» incoraggiò le donne a prendere il controllo della loro vita sessuale e fu deriso come «Hate Report» (rapporto odio) da «Playboy». Ma per tutte le donne che fino ad allora avevano finto l'orgasmo fu una rivoluzione. Arrivando all'apice della «Seconda Ondata» del femminismo Usa, il «Rapporto» segnò una svolta rispetto alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta che aveva dato alle donne licenza di andare a letto con altrettanti partner degli uomini, ma non aveva cambiato la dinamica maschile dominante in camera da letto. «Molte donne interrogate dalla Hite pensavano che la rivoluzione sessuale era un mito, che le lasciava libere di dire si, ma non di dire no», scrisse all'epoca Erica Jong, l'autrice di «Paura di Volare», recensendo il saggio sul «New York Times»: «Pensavano che il doppio standard era ancora vivo, che la quantità del sesso era aumentata, ma non la qualità». La Hite era arrivata al femminismo per vie traverse. Studentessa a Columbia, per pagarsi da vivere aveva posato nuda per una pubblicità Olivetti. Era rimasta poi orripilata dalla didascalia apposta a corredo dello spot: «Questa macchina da scrivere è così intelligente che lei non deve esserlo». Shere si era così unita a un gruppo di donne che picchettavano per protesta l'ufficio Olivetti di New York: primo atto di una militanza che l'avrebbe portata lontana. L'atto clamoroso di lasciare gli Usa rinunciando al passaporto risale al 1995: «Dopo decenni di attacchi al mio lavoro sulla sessualità femminile - aveva spiegato - non mi sento più libera a proseguire il mio lavoro nel paese dove sono nata».
· E’ morto il regista Marco Vicario.
Marco Giusti per Dagospia il 15 settembre 2020. Se ne va anche Marco Vicario, nella Roma dove era nato, 95 anni che avrebbe compiuto tra pochi giorni, leggendario regista, produttore e autore di un film cult degli anni ’60, “I 7 uomini d’oro”, che girò con la sua prima moglie, la bellissima Rossana Podestà, e un cast capitanato da Philippe Leroy come cervello di una banda di ladri, Gastone Mischin, Gabriele Tinti, ecc., dedita ai grandi colpi alla Topkapi. Ricordate la celebre musica composta da Armando Trovajoli che allora impazzava. Un film che ebbe un altrettanto fortunato sequel, “Il grande colpo dei 7 uomini d’oro”, con lo stesso cast. Ma Vicario fu anche il regista di una serie di commedie sexy con Lando Buzzanca protagonista, da “Il prete sposato” a “Homo Eroticus”, che fecero epoca e lanciarono una moda che andrà avanti fino alla fine degli ’70. Cercò di giocare ancora più in grande con “Paolo il caldo” con Giancarlo Giannini e una serie infinita di bellezze del tempo, passò poi a “L’erotomane” con Gastone Moschin, “Mogliamante” con Laura Antonelli, “Il cappotto di Astrakan” e “Scusa s’è poco” con Diego Abatantuono, che è poi il suo ultimo film. Quasi tutti film invedibili per anni, che i cultori del genere potevano trovare in dvd solo in Giappone, perché Vicario non solo si tenne stretti i loro diritti di sfruttamento, ma non si interessò mai di farli passare in televisione. Ancora oggi “Il prete sposato” e “Homo Eroticus” non hanno avuto dei passaggi televisivi. Caso del tutto unico nel panorama del cinema italiano popolare. Marco Vicario si chiamava in realtà Renato Vicario, ma visto che esisteva un altro attore, specializzato in fotoromanzi con lo stesso nome, pensò bene di cambiarlo in Marco. Anche i suoi fratelli, Natalino e Narciso, lavorarono nel cinema con mansione diverse. Studiò come attore al Centro Sperimentale e ancor giovanissimo esordì nel cinema negli anni ’50. Non erano grandi film, parliamo di “Cavalcata d’eroi” di Mario Costa con Cesar Danova e Carlo Del Poggio, 1950, il suo esordio, “Alina”, “I grandi peccatori”, “La storia del fornaretto di Venezia”, “Redenzone”. Un titolo maggiore fu “Roma ore 11” di Giuseppe De Santis, ma non era maggiore il ruolo. Nel 1953, ancora giovanissimo, sposa Rossana Podestà, che grazie a “Elena di Troia” di Robert Wise era già una star internazionale. Un matrimonio che durerà fino al 1977. Dopo “Desiderio di gloria”, storia della battaglia di El Alamein, arriva al ruolo di protagonista nell’ormai dimenticato “Giovane canaglia” diretto da Giuseppe Vari, del quale è però anche produttore. Rendendosi conto che nel cinema come attore non avrebbe sfondato, si butta nella produzione di film di genere dai primissimi anni ’60, di solito inserendo come protagonista sua moglie Rossana Podestà. Produce tre peplum abbastanza simili, “La schiava di Roma” di Sergio Grieco, “Solo contro Roma” di Herbertg Wise alias Luciano Ricci ma con Riccardo Freda alla direzione delle scene di battaglia e di arena, “Il crollo di Roma” di Antonio Margheriti. L’incontro con Margheriti fu fondamentale, perché assieme dettero vita a due grandi horror gotici degli anni ’60, “La vergine di Norimberga” con Christopher Lee e la Podestà e il bellissimo “Danza macabra” con Barbara Steele e Georges Riviere. Stanco del cinema di genere si butta nella regia con l’erotico-letterario “Le ore dell’amore” con Keir Dullea e, ovviamente, Rossana Podestà. Ma sarà solo con “I sette uomini d’oro”, nella linea dei grandi film pop action ironici sui grandi colpi che arriverà al grande successo popolare a cui aspirava. Dopo il sequel, “Il grande colpo dei sette uomini d’oro”, si butta in un nuovo genere, riprendo gli umori della commedia siciliana lanciata da Pietro Germi e da Alberto Lattuada. Ma rendendola molto meno intellettuale e trovando in Lando Buzzanca il suo protagonista ideale. “Il prete sposato”, con Lando e una serie di bellissime attrici, da Rossana Podestà a Barbara Bouchet, da Mariangela Melato a Silvia Dionisio sarà un successo immediato, 2 miliardi in 60 giorni di programmazione. Seguirà “Homo Eroticus”, sempre con Buzzanca, ambientato in Lombardia, il mondo di Piero Chiara. Si rompe il sodalizio con Buzzanca quando Vicario preferirà a lui Giancarlo Giannini, più nazionale, meno macho, più da film d’autore, come protagonista di “Paolo il caldo”, tratto da Brancati e riempito il più possibili di presenze femminile. C’è pure una giovanissima Ornella Muti. Sarà un grande successo, ma l’aver perso Buzzanca sarà per Vicario un duro colpo. Nel successivo “L’erotomane” si capisce che Gastone Moschin non può funzionare in quel ruolo come Lando. Vicario girerà altri tre film da regista, “Mogliamante”, scritto da Rodolfo Sonego, con Laura Antonelli, “Il cappotto di Astrakan” e “Scusa s’è poco” con Lando Buzzanca, inseguendo un cinema che potesse unire al popolare la matrice letteraria. Ma la critica maggiore dei giornali, diciamo la verità, non lo ha mai seguito su questa strada, mentre quella successiva dei giovani cinefili nati coi vhs hanno amato i suoi film precedenti buzzanchiani e perfino le sue buffe produzioni dirette da Michele Lupo, “Stanza 17-17 ufficio delle imposte”, ad esempio. Vicario si è risposato poi con Patrizia Castaldi, mentre la Podestà si era risposata con Walter Bonatti. Rifacendosi una nuova vita tutti e due. Ha lavorato fino a pochissimo tempo fa nella produzione pubblicitaria. Infaticabile.
· Morto Toots Hibbert, pioniere del reggae.
Morto Toots Hibbert, pioniere del reggae e leggenda della musica giamaicana. Laura Zangarini su su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2020. Toots Hibbert, uno dei «padri» del reggae e leggenda della musica giamaicana, è morto in un ospedale di Kingston, capitale della Giamaica, all’età di 77 anni. Agli inizi di settembre il cantante, veterano dello ska, compositore e chitarrista era stato ricoverato in terapia intensiva dopo essere stato contagio dal coronavirus. Nato come Frederick Nathaniel «Toots» Hibbert a May Pen l’8 dicembre 1942 era il leader del gruppo ska-reggae Toots The Maytals, che si era formato nei primi anni ‘60 in piena epoca ska: della band facevano parte Nathaniel «Jerry» Matthias e Raleigh Gordon. The Maytals furono il primo gruppo ad usare la parola «reggae», citandolo nel brano «Do the Reggay» (1968) prodotto da Leslie Kong, che ha influenzato le successive generazioni di musicisti giamaicani. La notizia della scomparsa è stato data dalla famiglia con un comunicato: «È con il cuore spezzato che annunciamo che Frederick Nathaniel “Toots” Hibbert è morto serenamente ieri sera, circondato dalla sua famiglia all’Ospedale universitario delle Indie occidentali a Kingston, in Giamaica. La famiglia e il suo team di produzione desiderano ringraziare i medici e i professionisti che hanno prestato le loro cura con diligenza e chiedono di rispettare la loro privacy durante questo periodo di dolore». Nato in una famiglia di sette figli (lui era il più giovane), i genitori di Hibbert erano entrambi ministri della Chiesa avventista del settimo giorno ed era cresciuto cantando in chiesa. Si era trasferito nella capitale giamaicana da adolescente e aveva formato la prima versione dei Maytals all’inizio degli anni ‘60. Nei successivi dieci anni il gruppo ha creato canzoni e inciso dischi che fanno parte della leggendaria Hall of Fame del reggae: «Coxsone Dodd», «Prince Buster», «Byron Lee», «Leslie Kong». Hibbert ha scritto tra le altre canzoni «Bam Bam», «Sweet and Dandy» e «54-46 That’s My Number», quest’ultima ispirata al numero di cella in cui fu rinchiuso per scontare una pena detentiva nella metà degli anni ‘60 per possesso di marijuana (Hibbert raccontava di essere stato incarcerato ingiustamente perché era «rastafariano»). Nel 1971, grazie ad un contratto con la Island Records di Chris Blackwell, divennero star internazionali. Il gruppo si sciolse nel 1981. Da allora Hibbert diede inizio ad una lunga serie di collaborazioni con noti produttori come Sly Dunbar e Robbie Shakespeare ottenendo diversi successi durante gli anni ‘80. Hibbert creò la nuova formazione dei Maytals nei primi anni ‘90 continuando a suonare in giro per il mondo. Alcuni loro brani («Louie, Louie» e «54-46 That’s My Number» tra gli altri) sono parte della colonna sonora del film «This is England» del regista Shane Meadows (2006).
· E’ morta l’attrice Diana Rigg.
Valeria Morini per fanpage.it il 10 settembre 2020. Ci lascia un'altra, indimenticata, Bond Girl. All'età di 82 anni si è spenta Diana Rigg, mitica Teresa "Tracy" Draco Di Vincenzo di "Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà", unico film della lunga saga di James Bond interpretata da George Lazenby. L'attrice britannica era nota almeno per altri due ruoli di culto: quello dell'intrepida Emma Peel nella serie televisiva "Agente speciale" e il personaggio di Olenna Tyrell, nella celebre serie "Il Trono di spade".
Chi era Diana Rigg. Il suo nome completo era Enid Diana Elizabeth Rigg: era nata a Doncaster, nello Yorkshire, il 20 luglio 1938. Trascorse i primi 8 anni di vita in India, imparando anche l'hindi. Iniziò a lavorare nel teatro, recitando sotto l'egida del grande regista Peter Brook (entrò poi nella prestigiosa Royal Shakespeare Company). Fu la prima attrice a recitare senza veli sul palco, in "Abelard and Heloise" (1970). Nel 1994 la regia Elisabetta l'aveva nominata Dame Commander of the Order of the British Empire. Si sposò due volte: la prima con Menachen Gueffen, la seconda con Archibald Hugh Stirling (nipote del colonnello Sir David Stirling, fondatore dello Special Air Service). Da quest'ultimo è nata nel 1977 la figlia Rachael Stirling, attrice di "Biancaneve e il cacciatore".
Il ruolo di Tracy in 007 al fianco di George Lazenby. Dopo alcune serie tv e pellicole, il ruolo che le regalò popolarità fu quello di Emma Peel dalla quarta stagione di "Agente speciale", al fianco di Patrick Macnee (personaggio che molti anni dopo sarebbe stato interpretato da Uma Thurman in "Avengers", remake cinematografico della serie). Curiosamente, prima di lei in "Agente speciale" era presente Honor Blackman, altra celeberrima Bond Girl. Nel 1969 la Rigg lasciò "Agente speciale" per vestire i panni di Tracy in "Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà": figlia di un boss, fa innamorare l'agente segreto più famoso e donnaiolo al mondo, portandolo addirittura all'altare. Un ruolo rimasto nella storia del cinema, nonostante il film non sia tra i più amati della saga e sia l'unica esperienza di Lazenby nei panni di Bond. Oltre a una sterminata carriera teatrale lunga 60 anni, la Rigg è apparsa in molti film (da "23 pugnali per Cesare" a "Delitto sotto il sole" e al più recente "Il velo dipinto") e in tantissime serie televisive. Ha avuto un ruolo nella miniserie biblica anni 90 "Sansone e Dalila" con Elizabeth Hurley e in un episodio di "Doctor Who". Il personaggio più famoso degli ultimi anni è però quello della "Regina di Spine" Olenna Tyrell ne "Il Trono di Spade", per cui ha ricevuto una candidatura come Outstanding Guest Actress in a Drama Series e una come Guest Actress agli Emmy.
· E’ morta l’architetto Maria Cristina Mariani Dameno, coniugata Boeri.
Stefano Bucci per il “Corriere della Sera” il 10 settembre 2020. Architetta proprio negli anni in cui qualcuno sosteneva persino che l' architettura non fosse esattamente cosa da donne. E ancora designer sempre attenta ai desideri (non solo estetici ma anche pratici) dei suoi interlocutori (le aziende come i committenti privati che le chiedevano una casa elegante e raffinata, riconoscibile per uno stile moderno e classico allo stesso tempo). Maria Cristina Mariani Dameno, coniugata Boeri (nata a Milano il 19 giugno 1924), universalmente nota come Cini Boeri o «la Cini», scomparsa ieri a 96 anni nella sua casa milanese, è stata con la sua eleganza e la sua intelligenza una dei grandi protagonisti dell' Italian Style. Sembra così quasi logico che «la Cini» (mamma insegnante, padre partigiano, amministratore della basilica di Sant' Ambrogio) se ne sia andata proprio nel giorno dell' assegnazione del Compasso d' Oro, premio da sempre simbolo del design italiano di dimensione internazionale, che aveva vinto nel 1979 per il divano Strips (certamente uno dei suoi gioielli), disegnato nel 1968 per Arflex ed esposto presso la collezione permanente della Triennale di Milano. Premio che avrebbe bissato nel 2011 quando le era stata conferito il Compasso d' Oro alla carriera (lo stesso anno era stata nominata anche Grande ufficiale al merito della Repubblica dal presidente Napolitano). Allieva e collaboratrice di Gio Ponti, professionista in proprio dal 1993, Cini Boeri lascia i tre figli: Stefano, architetto (autore del pluripremiato progetto del Bosco verticale) e attualmente presidente della Triennale di Milano, l' economista Tito e Sandro, giornalista. Laureata (in architettura) nel 1951 al Politecnico di Milano (dove insegnerà dal 1981 al 1983 Progettazione architettonica e Disegno industriale) Cini Boeri (sposata con il neurologo Renato Boeri da cui si separa nel 1965), dopo una lunga collaborazione con Marco Zanuso, ha scelto di occuparsi di architettura civile e disegno industriale. Progettando in Italia e all' estero case unifamiliari, ville (dalla casa per vacanze nel golfo di Abbatoggia, sull' isola della Maddalena, in Sardegna, a quella nel Bosco di Osmate, in provincia di Varese), appartamenti, allestimenti museali, uffici, negozi, dedicando costantemente grande attenzione «allo studio della funzionalità dello spazio e ai rapporti psicologici tra l'uomo e l'ambiente» (come aveva raccontato nel suo libro Le dimensioni umane dell' abitazione , pubblicato nel 1980 da Franco Angeli). Emblema di una milanesità internazionale che non aveva paura a rimettersi sempre in gioco, esponente (per qualche critico) di «un femminismo architettonico e esistenziale», Cini Boeri ha firmato oggetti ormai diventati elementi essenziali del nostro panorama domestico attuale: la poltrona Bobo (1967), il divano Serpentone (1971), la libreria girevole Double face (1980), tutti per Arflex; il tavolo Lunario (1970) per Knoll; la poltrona trasparente Ghost (1987) per Fiam; il lampadario Feltro (1989) per Venini. Lo scorso anno la «sua» Milano (quella borghese, colta ed elegante come lei) l' aveva festeggiata con l' Ambrogino d' oro , un nome (quello di Cini) scelto su proposta dall' Anpi provinciale di Milano. Scelta certo non casuale visto che «la Cini», durante la Resistenza, era stata staffetta partigiana.
Annachiara Sacchi per il “Corriere della Sera” il 10 settembre 2020. Intellettuale, femminista, progettista, designer, Compasso d' Oro, staffetta partigiana, raffinatissima espressione di una Milano creativa, impegnata e coraggiosa. Poteva sembrare una mamma ingombrante Cini Boeri, con quella vita «bellissima e intensa», la personalità unica, le battaglie politiche, gli incontri, le amicizie (Ferruccio Parri fu suo testimone di nozze). Non lo è stata, racconta il secondogenito Stefano, architetto come lei, talentuoso come lei. Cini era «tigre e chioccia», attenta e affettuosa, implacabile, «ironica e dolcissima», grande lavoratrice e vestale della famiglia, tre figli, sette nipoti, le amate nuore. È morta così Cini Boeri, nella sua casa milanese, senza soffrire, con i suoi «ragazzi» intorno. «Sapeva tenerci tutti insieme. E insieme siamo stati fino all' ultimo». Novantasei anni. «Sono tanti», dice Stefano sereno e malinconico, il trambusto nella sua casa-studio nel cuore di Milano, le telefonate di condoglianze, le parole di affetto. «Fino a un anno fa andava in studio la mattina, tutti i giorni. Il lavoro era la sua vita, la teneva in piedi, la stimolava. Anche negli ultimi mesi, nonostante la fatica, continuava a progettare e disegnare, anche con le mani, è sempre stata una disegnatrice di forme, mia mamma». L' architettura come motore, il senso profondo di un' esistenza che non si è mai concessa momenti di ozio, che ha preferito il lavoro - sempre - a una borghese esistenza da signora milanese. L'impegno alla spensieratezza. Notti a progettare, a fumare - «ha fumato fino a pochi mesi fa, non ha mai smesso» - a discutere con tutti. Tenace e combattiva in un mondo, quello dell' architettura, che nell' Italia del dopoguerra non era ancora pronto a confrontarsi con le donne progettiste, la Cini e la Gae (Aulenti), «così amiche e così diverse, ma sempre leali una nei confronti dell' altra, rispettose del lavoro altrui». Continua Stefano: «Al Politecnico Giuseppe de Finetti disse a mia madre: "Non puoi fare l' architetto! È una professione per uomini"». Si laureò nel 1951. Nonostante gli inviti più o meno palesi a rinunciare al cantiere, a fare la moglie e la madre. Durante un incontro del Tempo delle Donne del «Corriere della Sera» nel 2014, Cini raccontò con la sua solita ironia: «Marco Zanuso più brutalmente mi apostrofò: "Cini, non hai i coglioni per fare l' architetto"». Dimostrò a tutti che si sbagliavano. Il lavoro e la famiglia, i due pilastri a cui Cini non volle mai rinunciare. Ricorda ancora Stefano: «Era fiera del suo Compasso d' Oro (lo ricevette nel 1979 e alla carriera nel 2011), orgogliosa dei suoi successi, pronta in ogni momento a sviluppare nuove intuizioni e collaborazioni. Eppure, nonostante una carriera così importante e totalizzante, per noi c' era, sempre. Concentrata sulle nostre vite, non ci perdeva mai di vista». E il rapporto con il figlio architetto, anzi, con l' archistar del Bosco verticale Stefano Boeri? «Non abbiamo mai lavorato insieme. Per scelta. Parlavamo spesso di architettura, in modo sincero, a volte infuocato. Ognuno con le sue idee nel segno del rispetto reciproco. Erano confronti molto belli i nostri. E sapevo che la sua porta era sempre aperta per me. Era mia madre». Nessun complesso? «Nessuno. Anche mio figlio è architetto. E non ci sono conflitti...». Progressista, milanese che sognava di avere un aereo privato «come Norman Foster per scappare nella natura appena possibile», laica. I funerali di Cini Boeri si terranno domani a Lambrate, ceneri come voleva, come aveva sempre deciso, autonoma e forte, indipendente, «caparbia e dolce, come piace ricordarla a noi figli». Quei figli per cui Zanuso la prendeva in giro: «Lo sai che i tuoi bambini hanno il testone? Sarà l' intelligenza, mi spiace». E lei: «Provocazioni che non mi ferivano anche perché i miei bambini erano bellissimi». E lui ancora: «Progetti la cappella dell' Asilo nido avendo un suocero mangiapreti?». Risposta: «Mio suocero era solo un repubblicano». La serata in casa Boeri è un susseguirsi di ricordi teneri. Memorie di una vita straordinaria, quasi sempre vissuta nel quartiere di Sant' Ambrogio, vicino alla basilica. Storie di una donna fuori dal comune («morta di vecchiaia, dolcemente»), e di una madre stupenda, unica. Anche se non sapeva «per niente» cucinare.
· E’ morto Franco Maria Ricci.
(ANSA il 10 settembre 2020) - ROMA, 10 SET - E' morto Franco Maria Ricci, nella sua casa a Fontanellato, in provincia di Parma. Editore e collezionista, famoso per aver pubblicato negli anni '80 la rivista FMR conosciuta in tutto il mondo e aver creato il Labirinto della Masone a Fontanellato, aveva 82 anni. Era nato a Parma il 2 dicembre 1937. Ne dà notizia il nipote Edoardo Pepino.
Aveva fede nel Bello. E nel bello trovò la Fede. Camillo Langone per “il Giornale” l'11 settembre 2020. Mi viene da piangere perché era il più grande, era il più grande parmigiano vivente, era il più grande grafico editoriale (FMR fu davvero la più bella rivista del mondo, i suoi cataloghi sono davvero, e tuttora, il massimo a cui un'artista possa aspirare), era il più grande bodoniano del pianeta, era il più grande costruttore di labirinti, era il più grande committente di architettura...Sì, sono ipersensibile alla grandezza, sono un elitista, la morte è sempre una tragedia ma ben di rado produce una perdita di tali dimensioni. Ricci era un aristocratico in ogni senso, in senso stretto perché marchese e in senso lato perché di gusti sublimi. Se lo conoscevi diventavi monarchico, non ci potevi più credere alla democrazia, alla tirannia della quantità. Tutto ciò che toccava diventava bello, non ho mai conosciuto qualcuno dal gusto più sicuro del suo e può sperimentarlo chiunque, minimamente sensibile, entri nel museo del Labirinto di Fontanellato. Un uomo del genere, nato e cresciuto nell'alta società di Parma quando la petite capitale ancora insegnava eleganze all'Italia, avrebbe potuto facilmente essere odioso, sprezzante, e invece era una persona dolcissima, lo ricordo quando venne qui sotto casa a portarmi il suo ultimo libro, una creatura cartacea perfetta a cui come sempre teneva tantissimo, e lo ricordo una delle ultime volte che lo vidi quando lo fotografai per la mia collezione di ritratti di maestri e lui, sommo esteta, fu subito disponibile a farsi trafiggere col telefonino da un fotografo evidentemente inetto come me...Lo ricordo quando lo intervistai per il Giornale sull'argomento della fede, mi raccontò di quando da ragazzo andava in pellegrinaggio a piedi al santuario di Fontanellato e di come si rammaricasse di doverci tornare, ormai vecchio, in macchina, forzato dall'età e dai mutati costumi. «I gesuiti mi hanno insegnato come si sta al mondo. Poi ognuno fa quello che vuole ma conoscere il bene e il male e saperli distinguere è alla base di tutto». Per i Greci il bene e il bello erano suppergiù la stessa cosa, Ricci era un antico greco redivivo e il bello oltre a distinguerlo perfettamente lo seppe diffondere e oltre a diffonderlo, col Labirinto di Fontanellato, lo seppe eternare.
Addio al dandy ed editore nel labirinto dell'arte. Vittorio Sgarbi per “il Giornale” l'11 settembre 2020. Non avrei mai voluto scrivere questo articolo perché ci sono morti che appartengono a tutti, e muoiono talvolta nel momento sbagliato; ma te ne fai una ragione. Sono i morti pubblici, le persone note, gli scrittori, gli artisti. In molti casi la morte si manifesta di sorpresa, anche se la malattia l'annuncia, ma, pure in queste circostanze, Franco Maria Ricci non doveva morire. Era un pezzo, e forse il più importante, della mia vita di scrittore d'arte, ed era stato ragazzo con me. Giocando con me, e più di me, alla provocazione della bellezza. Se dovessi indicare le persone che hanno (...) (...) rappresentato epoche della mia vita, lui è forse la più importante. Il primo fu mio zio Bruno Cavallini; il secondo Francesco Arcangeli, il mio professore all'università di Bologna; il terzo, parmigiano come Ricci, Mario Lanfranchi, sublime collezionista; il quarto Franco Maria Ricci; il quinto, per ragioni più umane che politiche, Silvio Berlusconi. Probabilmente nell'Olimpo di Franco Maria Ricci la figura dominante è quella Jorge Luis Borges. E io devo a Ricci anche gli incontri con Borges, certo memorabili, a New York, a Parma, a Milano, a Palermo; con Calvino; con Manganelli; con Carlo Bernari; con Patrick Mauries; con André Chastel; con Francis Haskell; con Umberto Eco: un mondo di persone straordinarie che orbitavano intorno alla sua casa editrice nata intorno al 1965 per ristampare il Manuale tipografico bodoniano, e alla rivista FMR, fondata nel 1982, con il mio stabile contributo, orgoglioso e appassionato, per i primi 36 numeri che vogliono dire quattro anni di vita, di frequentazione quasi quotidiana. Si andava allora alla casa editrice, in via Cino del Duca, a Milano, e nella meravigliosa casa di gusto prevalentemente déco, ma piena di oggetti e di libri distribuiti su quattro piani in via Giason del Majno. Quante notti, quante albe, quanti amori! Accolto come un fratello minore, non posso dire un figlio perché le nostre menti erano contemporanee, da lui e da Laura Casalis, la donna che è stata più di una moglie o di una compagna, ma una costola di lui. Le persone che sono state per me le più familiari, dopo i miei genitori. Ricci amava lo strano, il bizzarro, l'eccentrico, senza contrapporlo al classico e al tradizionale. Non avrebbe voluto essere altro che parmigiano. Bodoni era il padre di Franco Maria Ricci, si sono conosciuti e frequentati, scavalcando i secoli, e Ricci conosceva Bodoni meglio di Bodoni stesso, non era un grande architetto e designer dell'editoria di un'altra epoca, vivevano nello stesso tempo, e stamparne il manuale era sovrapporsi a Bodoni, coincidere con lui, continuare la sua impresa, tutta per altro presente nella più compiuta raccolta di edizioni bodoniane, con pubblicazioni talvolta non registrate neppure nella Biblioteca palatina. Mentre ristampava il manuale, Ricci, grafico insuperabile (ricordiamo per Bompiani la collana «Pesanervi»), Ricci si comprava una Jaguar E, la macchina di Diabolik, che era parte della sua iconosfera dandy. E il dandismo, in lui, non era una debolezza, era una forza. E si manifestava anche nel gusto che lo ha reso il primo editore d'arte del nostro tempo e il fondatore della «rivista più bella del mondo». Nella mente di Ricci, a fianco di Bodoni, c'erano Diderot e D'Alembert, gli enciclopedisti, così come enciclopedica era la sua curiosità e francese (essendo egli di Parma, figlio di Maria Luisa) il suo gusto. Essere nato nella città più elegante di Italia gli imponeva obblighi, cui ha sempre corrisposto. Ricci creava prototipi, edizioni numerate, riproduzioni impeccabili. Ha formato una generazione di fotografi, inviati a riprodurre opere, per renderle, nell'obiettivo finale, più belle del vero. Memorabili e irripetibili le sue impaginazioni, e le sue attività di grafico. Negli anni della nostra collaborazione totale creò anche, e diede metodo, a un altro giovane astro, a fianco degli scrittori e commentatori, chiamati non a fare i critici d'arte, ma a raccontare le loro emozioni davanti alle opere d'arte: Massimo Listri. Anche una fotografia è interpretazione, ma, nel caso di Ricci, nella piena fedeltà all'originale. Agiva in lui la suggestione del Pierre Menard autore del Chisciotte di Borges; e la sua curiosità, insieme alla sua voracità, gli consentivano di trarre vantaggio anche dai nostri capricci, che egli non intendeva contenere o lusingare. Dicevo: non voleva migliorarti. Amava le diversità e sopportava bene anche la malinconia dell'abbandono. Una sola volta non ascoltai la sua preghiera di restare a lavorare per la rivista, in un'altra notte febbrile; e io partii per Roma per una ragione apparentemente futile. Fu in quel viaggio che trovai il San Domenico di Nicolò dell'Arca, l'opera più importante della mia collezione, che tra qualche settimana sarà esposta al Louvre. In questo episodio c'è la potenza della contraddizione e anche il gesto di sfida che, in diverso modo, ci caratterizzava. Mi feci perdonare lo smacco: amavamo, come nessuno più di noi, la scultura. Gli segnalai l'assoluto capolavoro di Adolfo Wildt, Vir temporis acti, l'opera più importante della sua collezione, come in un mausoleo fortunatamente allestita nel santuario laico illuministico, che egli realizzò vicino a Fontanellato, a Masone, intorno all'idea borghesiana del labirinto. L'opus magnum della sua vita. Libri, collezioni, chiostri, cappella: il luogo della perfezione, progettato con l'architetto Bontempi. Missione compiuta, dopo tanti monumenti editoriali, dopo i segni dell'uomo, Ricci aveva compiuto la sua impresa: Exegi monumentum aere perennius. E poteva dirsi postumo di se stesso. Nondimeno, nei suoi occhi, baluginava una luce sempre nuova e, negli ultimi anni, pur impedito dalla malattia, dal suo stesso aldilà mi telefonava con una frequenza insolita, come negli anni della nostra giovinezza. Faticavo a comprenderne le parole, e andavo a trovarlo al Labirinto, metafora del suo pensiero insoddisfatto. Non pensava alla morte, pensava alla vita, in una ideale eredità di affetti. Probabilmente nel mio smodato vitalismo, nel mio non metter mai la testa a posto, sentiva una vibrazione di vita, che poteva consentirgli di continuare. Riprendendo, per esempio, la pubblicazione di FMR, tristemente interrotta. L'unico work in progress che poteva concepire, per la natura stessa progrediente di numero in numero, di una rivista. Non voleva arenarsi in una palude e neppure compiacersi dell'opera compiuta. Quella scintilla, che vedeva accesa in me, poteva accendere il grande fuoco della conoscenza che egli sentiva, foscolianamente, come «calore di fiamma lontana». Mi parlava, ci guardavamo, c'era ansia, non disperazione, nei suoi occhi, c'era desiderio di continuare ad ardere. «Poca Favilla gran fiamma seconda». Temevo che non sarebbe arrivato a veder riaccendersi il fuoco, sentivo che me ne chiedeva con affetto e considerazione di prenderne il testimone, di farlo contro tutti e contro tutto, nelle difficoltà di poter riavere i diritti sulla «sua» testata. Preoccupazioni e prudenza trattenevano le persone a lui care, ma lui aveva un solo desiderio: buttarsi nel fuoco. È morto serenamente, salendo verso l'alto su una scala, come per avvicinarsi al Dio in cui credeva. È accaduto. Tocca a noi, ora, a Laura, a Edoardo, a me, per lui, e perché egli continui a vivere, ripartire. Riaccendere quel fuoco.
· Addio a Ronald Bell, fu uno dei fondatori dei Kool & the Gang.
Addio a Ronald Bell, fu uno dei fondatori dei Kool & the Gang. L'artista aveva 68 anni: co-fondò il supergruppo funk, rythm & blues e pop che ha segnato gli anni Settanta e Ottanta. Tra i grandi successi del collettivo, "Celebration" e "Fresh". La Repubblica il 10 settembre 2020. Il musicista statunitense Ronald Khalis Bell, uno dei co-fondatori dei Kool & the Gang, supergruppo funk, rythm & blues e pop che ha segnato gli anni Settanta e Ottanta con successi mondiali come Celebration e Fresh, è morto improvvisamente ieri nella sua casa nelle Isole Vergini americane. Aveva 68 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato da Sujata Murthy della Universal Music Enterprises, senza tuttavia precisare le cause del decesso. Compositore, arrangiatore, produttore e interprete, Bell è stato una forza trainante di uno dei gruppi funk di maggior successo dell'ultimo mezzo secolo. I Kool & the Gang si formarono nel 1964 a Jersey City e la loro esplosione commerciale avvenne nel 1974, quando uscì l'album Wild and Peaceful, emblema della disco music. I membri principali del gruppo sono stati i fratelli Robert Bell (conosciuto come 'Kool') al basso (nato l'8 ottobre 1950 a Youngstown, in Ohio) e Ronald Bell al sassofono tenore (nato il primo novembre 1951 sempre a Youngston); George Brown alla batteria; Robert Mickens alla tromba e alle percussioni; Dennis Thomas al sassofono alto; Claydes Charles Smith alla chitarra (1948-2006); Clifford Adams alla tromba (1952-2015) e Rick Westfield alla tastiera. Il padre dei fratelli Bell era uno dei manager di Thelonious Monk e i fratelli erano amici di Leon Thomas. Nel 1964 Robert formò una banda strumentale chiamata The Jazziacs con il fratello Ronald e cinque amici del liceo. In seguito cambiarono il loro nome in Kool & the Gang e segnarono le pop-charts mondiali con l'uscita del loro debutto musicale, Kool & the Gang (1970). Seguirono diversi album dal vivo e in studio: Wild & Peaceful (1973) ottenne grande successo grazie a singoli come Jungle Boogie (che in futuro verrà utilizzata in Pulp Fiction di Quentin Tarantino) e Hollywood Swinging (utilizzata nel videogioco Grand Theft Auto: San Andreas). Dopo l'altro album di grande successo, The Spirit of the Boogie (1975), la band abbandonò la musica funk e abbracciò la disco music. Nel 1980 il disco Celebrate!, che contiene le canzoni Fresh e Celebration, scalò la classifica e replicarono di nuovo il successo con il lavoro successivo, del 1984, intitolato Emergency. I Kool & the Gang si fermarono dopo l'album Forever (1986), quando il cantante James 'JT' Taylor e Ronald Bell lasciarono il gruppo. Entrambi sarebbero in seguito ritornati, ma le canzoni non sarebbero più state quelle di un tempo. L'ultimo album pubblicato dai Kool & the Gang è Still Kool del 2007.
· Addio al «re del grano» Pasquale Casillo.
Foggia, addio al «re del grano» Pasquale Casillo: fu presidente della squadra. Il decesso in nottata nell'ospedale di Lucera dove era ricoverato per una grave malattia. La Gazzetta del Mezzogiorno. È morto la scorsa notte a 71 anni, a causa di una malattia, l’imprenditore Pasquale Casillo, storico presidente del Foggia Calcio che traghettò la squadra negli anni 90 dalla serie C alla sere A. Casillo era soprannominato il 're del granò, essendo stato tra i maggiori produttori di grano al sud. Negli anni '90 fu presidente dell’associazione degli industriali di Foggia. Nell’estate del 1986 l’imprenditore rilevò il Foggia dall’allora proprietario Nino Lioce. Nella stagione calcistica '90-'91 la squadra, guidata da Zdenek Zeman, venne promossa in serie A.
Pasquale Casillo l’ex “patron” del Foggia Calcio ci ha lasciato. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2020. L’ex "Re del Grano" Pasquale Casillo è deceduto nella notte presso l’ospedale di Lucera. E’ stato presidente del Foggia Calcio di Zemanlandia aveva 71 anni. Agli inizi dei Novanta Casillo era stato eletto presidente dell’Associazione degli Industriali di Foggia città che aveva scelto per i suoi affari e dove si era affermato tanto da guadagnarsi tra gli Ottanta e i Novanta l’ indiscusso titolo di “re del Grano”. Si è spento la scorsa notte Paquale Casillo, imprenditore di San Giuseppe Vesuviano, aveva 71 anni, ex presidente della squadra di calcio del Foggia guidato da mister Zeman prima e del ritorno del boemo alla guida dei rossoneri dopo in Lega Pro, pare fosse malato da tempo di tumore. Il ‘Re del Grano‘, così era stato soprannominato, si è spento nella notte presso l’ospedale di Lucera. Con la sua scomparsa perdo un vero amico con il quale ho condiviso serate indimenticabili romane trascorse insieme al “Tartarughino” di Roma, un ristorante piano-bar luogo di ritrovo “ristretto” della Capitale, una sorta di “club” dell’Italia che contava durante la 1a Repubblica. Quante risate ci siamo fatti insieme a Renato Altissimo, Gianni de Michelis, Ninì Romanazzi (l’indimenticabile editore della Gazzetta del Mezzogiorno e presidente della Fiera del Levante), il costruttore Franco Caltagirone, e tanti alti. Agli inizi dei Novanta Casillo era stato eletto presidente dell’Associazione degli Industriali di Foggia città che aveva scelto per i suoi affari e dove si era affermato tanto da guadagnarsi tra gli Ottanta e i Novanta l’ indiscusso titolo di “re del Grano”. Il 21 aprile del 1994 Casillo venne arrestato. «Don Pasquale», così era soprannominato, aveva 46 anni e il suo Foggia stava lottando per entrare in Coppa Uefa; mancavano due partite alla fine del campionato e grande era l’attesa nel capoluogo pugliese. Il fatturato del gruppo di Casillo era, alla data dell’arresto, di 2.300 miliardi di vecchie lire, una cifra considerevole che lo metteva tra i più importanti gruppi industriali del nostro Paese. Un arresto vergognoso di fronte ai familiari, davanti all’ unico figlio Gennaro di 9 anni, per il quale stravedeva, con un’accusa infamante a suo carico: il famigerato articolo 110-416 bis (concorso esterno in associazione di stampo mafioso). L’inchiesta partì dalle rivelazioni di Pasquale Galasso, un “pentito” della camorra affiliato con Carmine Alfieri, che aveva raccontato di presunte collusioni tra Casillo e la criminalità organizzata. Fu una mazzata pesante e spaventosa quella che si abbatté sulla famiglia Casillo che non ebbe semplicemente una deriva legata ad una giustizia penale ma anche civile. Immediatamente e automaticamente la solita “magistratura” manettara, mise sotto sequestro tutte le società di tutto il gruppo che faceva riferimento a Pasquale Casillo. Venne nominato un nuovo amministratore giudiziario il quale non aveva, come i fatti hanno dimostrato, alcune volontà, capacità ma neanche l’idea di salvare il gruppo. Dell”incapacità di quell’amministratore giudiziario vi è ampia traccia. I libri societari della capogruppo «Casillo Grani SNC» finirono in tribunale su richiesta del Banco di Napoli, nonostante alcune delle primarie banche Italiane avessero proposto un finanziamento ponte di 100 miliardi di lire che vennero rifiutate dal neo amministratore giudiziario. Casillo rimase in carcere quasi un anno, undici mesi, dichiarandosi innocente e chiedendo, nel 1994, di essere processato immediatamente. Ma purtroppo questa richiesta legittima non venne accolta e, “Don Pasquale“, subì una serie lunghissima di rinvii legati alla difficoltà nel determinare la competenza del tribunale di riferimento. Infatti si passò dal Tribunale di Napoli a quello di Bari per poi finire a Roma ed infine individuare il tribunale di competenza nel tribunale di Nola, in provincia di Napoli. La vicenda penale di Pasquale Casillo s’incrocia fatalmente sia con la propria vita privata e familiare che con la vicenda legata al fallimento delle sue società gestite da un amministratore giudiziario che si poneva soltanto il problema di vendere ciò chela famiglia Casillo aveva costruito in una vita. La rinuncia del finanziamento ponte nel maggio del 1994 già deliberato dall’Abi è la palese conferma della mancanza di volontà di salvare le aziende da parte del nuovo gestore giudiziario ; aziende che avevano, nell’ultimo bilancio un fatturato di 2.300 miliardi di vecchie lire contro un debito di 400 miliardi. Casillo era a capo di un vero e proprio impero economico impegnato in molteplici campi dell’imprenditoria nazionale; dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio a diverse partecipazioni in istituti di credito come la Banca Mediterranea e la Cassa di Risparmio di Puglia. Sono stati necessari ben 13 anni per arrivare al 16 febbraio del 2007 quando Pasquale Casillo venne assolto «per non aver commesso il fatto». Ma l’imprenditore campano non vede finire i propri guai con la giustizia, questa volta civile. Infatti pur assolto dall’accusa dell’infamante articolo 110-416 bis e quindi dall’accusa di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, per l’imprenditore campano rimase, anche dopo oltre 20 anni dopo l’arresto l’impossibilità di recuperare le proprie aziende che sono ancora sotto tutela di un amministratore giudiziario. In una sua lettera inviata a Massimiliano Nardella, un giornalista foggiano, Pasquale Casillo aveva recentemente affidato un suo sfogo, in cui scriveva tante sacrosante verità: “Sono l’ex Patron del Foggia Calcio, per intendere quello della seria A con Rambaudi, Signori, Baiano, Kolivanov, Shalivomv, Di Biagio etc. etc.; sono l’ex Re del Grano, proprietario di 52 aziende tutte miseramente annientate da una campagna di odio e diffamazione che portò al mio arresto e alla mia assoluzione dopo 14 di causa; le mie società sono fallite non per mala gestio ma per la chirurgica operazione di delegittimazione posta in atto da schegge impazzite rappresentati da falsi pentiti manipolati da alcuni magistrati (per fortuna pochi, considerato che la gran parte dei essi è gente per bene) politicamente indirizzati a danzare sul mio cadavere“. Parole pesanti, crude, tristi, ma vere, che devono farci riflettere su come una certa “malagiustizia” può distruggere la vita di una persona, e condizionare l’economia di un territorio, lo sviluppo di un territorio, la fiducia verso il futuro della comunità che ci vive. Una lettera fiume-testamento scritta di impeto, con il cuore, come era nel carattere di Don Pasquale come tutti amavamo (me compreso) chiamarlo, nella quale precisava di essere tornato a Foggia da uomo libero e da persona dal certificato penale immacolato: “Ho ripreso a sognare una programmazione per il futuro del Foggia Calcio che non passasse dalle spese folli e che non potesse prescindere da uno stadio e da un settore giovanile fucina di campioni del domani. Ho sognato di ritornare ma la forza non era più la stessa. Ho chiamato al mio fianco i miei ex amici, ossia quelli che un tempo fecero conoscere Foggia fino a Madrid e a giocare con il Real. Ho sognato, è vero. Quando sei innamorato non puoi ragionare che con il cuore. Il cuore mi disse di ricomprare il Foggia Calcio nel 2010 dagli imprenditori che lo vendettero con passività di oltre un milione e mezzo di euro e con la promessa delle sponsorizzazioni finalizzate all’accollo della metà della debitoria.” “Lo comprai con uno stadio non adeguato alla serie C, con una capienza di meno di 3.000 spettatori e con un manto erboso reduce da un concerto che costrinse la squadra a giocare in trasferta le prime tre partite di campionato. Lo comprai tra mille problemi economici e sull’orlo della mancata iscrizione; lo comprai per l’amore che ancora nutro nei confronti di quei colori. Con me ritornarono Zeman Pavone e Altamura. Ognuno di loro ci mise del suo. Onore e tutti e tre. Con loro arrivarono , tra gli altri, Insigne, Laribi, Sau, Regini, Romagnoli, Salamon, e tanti altri campioni che ancora militano in serie A e in Nazionale. Mai scelta più oculata fu fatta e mai i conti di quella società, a parte i debiti pregressi, non consentirono al Foggia la certificazione della COVISOC“. E continuava: “il mio Foggia fallì per meno di centomila euro. Il mio Foggia subi torti arbitrali, torti amministrativi con il peggior nemico rappresentato dal Comune di Foggia; torti giudiziari. Nessun imprenditore che fino a ieri è corso al capezzale del Foggia con una mano dentro il portafoglio e una sul portafoglio per timore che i soldi uscissero realmente, mi aiutò a superare la china e a partecipare al completamento della fidejussione“.“ Recentemente Pasquale Casillo aveva spiegato anche le ragioni del suo addio alla Foggia rossonera, città che aveva scelto per continuare a vivere: “Fui costretto a abdicare anche a causa di coloro che fomentarono la folla e organizzarono manifestazioni e cortei di piazza per allontanarmi” con un chiaro riferimento è alla manifestazione di piazza Cavour del maggio 2012 quando circa 500 tifosi chiesero la sua testa: “Casillo vattene!““. La sua storia in realtà adesso dovrebbe fare riflettere molte persone, sopratutto quelle che gli avevano voltato le spalle, e che oggi non meritano neanche di essere citate. Adesso Don Pasquale ci ha lasciato, è volato in cielo, lasciando in noi, ed in me in particolare un vuoto interiore, la consapevolezza di aver perso una persona per bene, un grande imprenditore, ma sopratutto un vero amico sincero dal cuore grande e dal sorriso buono. Pasquale Casillo ci mancherà non poco. La vergogna di averlo distrutto senza ragione e motivo resterà sulle spalle di qualche magistrato “superficiale” per non dire altro. Nel suo caso non è bastato avere giustizia, su una giustizia ingiusta.
Ex imperatore di Foggia morto in povertà. Ritratto di Pasquale Casillo: il Berlusconi del Sud distrutto da Pm, camorra e giornali. Biagio Marzo su Il Riformista il 15 Settembre 2020. C’era una volta un uomo nato benestante, diventato ricco, morto povero. Con l’aggravante che venne iscritto al casellario civile: fallito. Si chiamava Pasquale Casillo, nato a San Giuseppe Vesuviano e vissuto a Foggia, città d’adozione. Lo chiamavano tutti Pasquale, nell’immaginario della gente era il “re del grano”, l’inventore di “Zemanlandia”, era un signore del Sud che dava del tu all’Avvocato Gianni Agnelli. In una intervista al quotidiano la Repubblica, Silvio Berlusconi affermò che «nel Mezzogiorno c’era uno più ricco di lui». Era don Pasquale. Giramondo, raccontava che nei suoi viaggi in Russia aveva un giovane autista che si chiamava Roman Abramovich. Oggi Roman è il proprietario del Chelsea. Casillo aveva zone di intervento un po’ in tutto il mondo. Possedeva un intero molo al porto di New York. È morto qualche giorno fa a 71 anni, all’ospedale di Lucera, in provincia di Foggia, quasi in solitudine. Cancro ai polmoni. Tempo fa aveva subito due infarti. Dietro il volto sorridente e bonario si nascondeva una forte, complessa e spigolosa personalità. Non gli mancava la vis polemica, anzi, talvolta era eccessiva, al vetriolo, e avrebbe potuto evitarla per non farsi tanti nemici. Nessuno come lui aveva un grande fiuto per gli affari. Don Pasquale, che non era mai solo, ha subito negli ultimi anni l’onta del mancato sostegno e conforto della folla plaudente al suo seguito, come avveniva negli anni ruggenti, quando Foggia era la città del “miracolo”, grazie alla squadra di calcio in serie A con l’allenatore Zdenek Zeman. In quegli anni c’era la processione, come se Don Pasquale fosse il santo protettore di Foggia. Il capostipite della famiglia, Gennaro, commerciante di frutta secca e cereali, originario di San Giuseppe Vesuviano, un giorno, quando Pasquale era ragazzino, decise di trasferirsi con armi e bagagli a Foggia. Il giovane Casillo, nel giro di poco tempo, a 25 anni, costruì il suo El Dorado divenendo uno dei più importanti commercianti di grano d’Europa. Mise su un gruppo molitorio di 58 aziende con il fratello Aniello, – al netto del Foggia calcio- che produceva il 10% della semola dell’Unione europea, fornendo il 60% del fabbisogno della Buitoni, con una flotta di 250 navi e un parco di 250 Tir, un numero impreciso di mulini sparsi per il Vecchio continente, con un fatturato di 3000 miliardi di lire all’anno. Poi, all’improvviso, arrivò la malagiustizia. Fu accusato, come al solito quando non si trovano reati, di concorso esterno in associazione mafiosa. Andò in carcere nel 1994 e aspettò fino al 2007 per essere scagionato da tutte le accuse dal Tribunale di Nola, su richiesta della Procura. Formula piena per non aver commesso il fatto. ma dopo 13 anni di tragedia. Chi lo aveva tirato in ballo fu il pentito camorrista Pasquale Galasso, accusandolo di avere rapporti con il capo della camorra, Carmine Alfieri, a cui era affiliato. E per di più, il pentito inguaiò il leader Dc nonché capo della corrente dorotea, Antonio Gava, incolpato di avere rapporti con il camorrista Nuvoletta. Dopo una traversia giudiziaria durata anche quella 13 anni, l’ex ministro dell’Interno venne assolto in appello definitivamente e il suo avvocato chiese un risarcimento allo Stato di 38 milioni di euro. A Poggioreale, Casillo fu messo sotto pressione dai pm, ma lui non accusò mai alcuno. Al contrario, Galasso “cantò” del rapporto di Alfieri con il mondo del calcio indicandolo come colui che aveva le mani in pasta per l’acquisto, per conto di Casillo, del Napoli e quello alle viste della Roma. Questi non si rassegnò a portare addosso il marchio del camorrista, una sorta di “Lettera scarlatta”, e si mise di buzzo buono per trovare la chiave delle sue disavventure giudiziarie e personali, che lui definì, in poche parole, “congiura”, con la regia di un intreccio di poteri forti che muovevano il combinato disposto di mezzi di informazione e del partito dei pm. Suoi strenui avversari furono, da una parte, l’onorevole Franco Cafarelli, democristiano di Foggia e segretario della Commissione bicamerale dell’antimafia nella XI legislatura e alcuni esponenti di Rifondazione comunista pugliese e dei post comunisti; dall’altra, in modo ciclico, Franco Ambrosio di Ottaviano anche lui nel settore dei cereali, formatosi nella “scuola” di Casillo senior, padrone del gruppo Italgrani, legato alla Dc di Giulio Andreotti. Cosa successe? Dopo il suo arresto, di botto le banche gli voltarono le spalle e il “re del grano” si trovò “senza corona e senza scorta”. Nonostante fosse azionista nel credito: Banca Mediterranea e Caripuglia, nel maggio 1994, su istanza del Banco di Napoli finiscono in Tribunale i libri contabili della “holding” “Casillo grani Snc”. Di fronte a un pool di banche, coordinate dall’Abi che aveva offerto un finanziamento ponte di 100 miliardi di lire, ci fu la netta opposizione dell’amministratore giudiziario del gruppo. Di qui scattò di soppiatto l’istanza di fallimento, richiesta dai creditori della società capofila. Col passare dei mesi e degli anni, lo Stato distrusse il suo “impero”, con amministratori giudiziari che non tennero conto di nulla, se non di farne carne di porco. Una storia ignobile che non fa onore alla magistratura. Pasquale fu arrestato davanti al figlio Gennaro di 9 anni, in una vicenda ordita dalle menzogne di un pentito infame che distrusse la vita della famiglia Casillo, mettendo sul lastrico 3000 dipendenti, in una terra in cui l’occupazione si cerca ancora con il lanternino. Non finisce qui. Don Pasquale fece risorgere, come editore, l’antica testata di Achille Lauro, Il Roma, direttore Domenico Mennitti, che vedeva tra i giornalisti, nomi di spicco come quelli di Luciano Lanna, Carmelo Briguglio, Pierangelo Buttafuoco. Beninteso, ricco e potente non significa famoso. Basti citare, ad esempio, Serafino Ferruzzi. Divenne celebre solo dopo la morte dovuta all’incidente aereo come uno degli imprenditori di granaglie più ricchi al mondo. Casillo diventò famoso con l’acquisto del Foggia Calcio e la scelta di Zeman come allenatore. Senonché alla coppia Casillo e Zeman nessuno avrebbe dato credito allora. E invece sugli outsider alcune volte bisognerebbe puntare. Non bisogna mai sottovalutarli. “Zemanlandia” non era un modulo calcistico bensì un modo di fare calcio. In poco tempo il Foggia entrò nel gotha del calcio italiano e le maglie dei suoi calciatori furono tra le più vendute dopo quelle di Real Madrid, Barcellona, Juventus, Milan e Inter. A proposito del Real Madrid, come dimenticare che Don Pasquale comprò un’amichevole di lusso proprio con le Merengues? Sì, i “Blancos” giocarono allo stadio Zaccaria. Ma non fu la sola squadra famosa che mise piede nella città Dauna. Fu un’epopea straordinaria, quella del “Foggia dei miracoli” che dalla C risalì in A, incantando i tifosi del calcio per il suo gioco offensivo grazie al trio delle meraviglie Baiano – Signori – Rimbaudi. Casillo ebbe altre squadre, tra cui l’Avellino con cui cercò di ripetere il “miracolo”, senza dimenticare le compartecipazione nel Bologna e nella Salernitana. E rilevò un’altra volta il Foggia Calcio, ma dopo 2 anni la lasciò in seguito alla mancata promozione dalla Lega Pro Prima Divisione alla serie B, però nacquero i campioni di oggi come Romagnoli, Insigne, Sau e Farias. Un anno fa Pasquale Casillo scrisse al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Mi hanno accusato ingiustamente. Ho perso tutto e sono stato assolto. Ora rivoglio dignità». Come nel romanzo di Gabriel Garcia Marquez “Nessuno scrive al colonnello”, a Don Pasquale la risposta non è mai arrivata.
Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.
La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”. Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone. “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".
"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".
· È morto il dj Erick Morillo.
Da lastampa.it il 2 settembre 2020. E' morto l'autore della hit mondiale "I Like to Move It", resa ancor più celebre dal film "Madagascar" della Dreamworks: il corpo di Erick Morillo, 49 anni, è stato trovato ieri nella sua casa a Miami Beach in Florida. Lo rende noto la polizia locale. Non è ancora chiaro quale sia la causa della morte. Come ha riferito un portavoce delle forze dell'ordine della Florida, non sono state trovate tracce di un qualche evento violento. L'autopsia non è ancora stata effettuata. Per venerdì prossimo era stata fissata un'udienza del processo che vedeva Morillo accusato di violenza sessuale. Nato a New York ma cresciuto in parte anche in Colombia, Morillo aveva messo a segno notevoli successi come Dj, soprattutto nella scena house. Il suo successo "I Like to Move It" era stato pubblicato nel 1993 sotto lo pseudonimo Reel 2 Real, mentre il grande pubblico conosceva soprattutto l'interprete del brano, il cantante Mark Quashie, noto anche come The Mad Stuntman, originario di Trinidad. Nel 2005 un nuovo trionfo internazionale, quando la canzone è entrata a far parte della colonna sonora del film d'animazione "Madagascar" del 2005.
È morto il dj Erick Morillo: sua la hit "I like to move it". Pubblicato martedì, 01 settembre 2020 da La Repubblica.it. È morto il deejay, musicista e produttore Erick Morillo, 49 anni, star della musica house e famoso per la hit degli anni 90 I like to move it, diventata il tormentone della trilogia animata Madagascar. La polizia di Miami Beach ha avviato un'indagine per chiarire le circostanze della morte dell'artista, il cui corpo è stato trovato nella sua abitazione dopo aver ricevuto una chiamata. Di origine colombiana ma cresciuto nel New Jersey, Morillo ha realizzato remix per artisti come Whitney Houston, Bassements Jazz, Puff Daddy e Boy George. Con la sua etichetta, Subliminal, dal 1997, è stato tre volte vincitore del miglior dj house award ai Dj Award e vincitore del premio come miglior Dj internazionale nel 2002, 2006 e 2009. La sua morte arriva dopo che è stato arrestato all'inizio di agosto per presunta violenza sessuale dopo essere stato accusato di aver violentato una donna lo scorso dicembre. Nella sua carriera ha usato diversi pseudonimi, tra cui Ministers De-La-Funk, The Dronez, R.A.W., Smooth Touch, Reel 2 Real e Deep Soul. Negli anni 90 con il progetto Reel To Real ha prodotto alcune canzoni di fama mondiale come I like to move it e Can you feel it (1993-94). In particolare I like to move it è stata utilizzata per diverse campagne pubblicitarie, ma è tornata in auge nel 2005 quando è stata inserito nella colonna sonora di Madagascar film animato targato Dreamworks e nei sequel del 2008 e 2012. Nel primo film il brano è interpretato da Sacha Baron Cohen (Mi piaci se ti muovi nella versione italiana, interpretata da Oreste Baldini che dà la voce a re Julien). Nel 2008 per Madagascar 2 la canzone è stata interpretata da will.i.am.
· E’ morto Philippe Daverio.
È morto Philippe Daverio, storico e critico d’arte. Philippe Daverio era malato da qualche tempo ed è morto all’Istituto dei tumori di Milano. Come gallerista ed editore ha allestito molte mostre, e pubblicato una cinquantina di titoli. Il Corriere della Sera il 2 settembre 2020. È morto questa notte all’istituto dei Tumori di Milano, lo storico e critico d’arte Philippe Daverio. Era nato a Mulhouse, in Alsazia, il 17 ottobre 1949 da padre italiano, Napoleone Daverio, costruttore, e da madre alsaziana. Era malato da qualche tempo ed è morto all’Istituto dei tumori di Milano. Come gallerista ed editore ha allestito molte mostre, e pubblicato una cinquantina di titoli, tra i quali ricordiamo: Catalogo ragionato dell’opera di Giorgio De Chirico fra il 1924 e il 1929; Catalogo generale e ragionato dell’opera di Gino Severini. Specializzato in arte italiana del XX secolo, ha dedicato i suoi studi al rilancio internazionale del Novecento. Tre le gallerie d’arte moderna da lui inaugurate: la prima, la Galleria Philippe Daverio, nel 1975 a Milano in Via Montenapoleone , dedicata all’arte italiana del XX secolo, nel 1986 la Philippe Daverio Gallery a New York, anch’essa rivolta all’arte del XX secolo, e nel 1989 una seconda galleria a Milano in Corso Italia, con uno spazio dedicato all’arte contemporanea. Tra le ultime pubblicazioni, nel 2011 è uscito il volume Il Museo Immaginato, edito da Rizzoli, e nel 2012 il volume Il Secolo lungo della Modernità, per la stessa casa editrice, con cui nel 2013 ha pubblicato Guardar lontano veder vicino. Esercizi di curiosità e storia dell’arte, seguito a fine 2014 da Il secolo spezzato delle avanguardie. Nel 2015 sono usciti i volumi La buona strada, L’arte in Tavola e Il gioco della pittura, sempre editi da Rizzoli. Daverio è stato, dal 1993 al 1997, nella giunta Formentini del comune di Milano, dove ha ricoperto l’incarico di assessore con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all’Educazione e alle Relazioni Internazionali.
Pierluigi Panza per Corriere.it il 2 settembre 2020. Pensiamolo con il suo sorriso arguto e bonario, pensiamolo con il suo farfallino, quell’aria da eterno ragazzone mezzo italiano, mezzo francese, certamente europeo poliglotta e ricordiamo quanto ha insegnato, divulgato dietro a uno schermo tv, dietro una cattedra o passeggiando in museo. Stava male da qualche tempo e ci ha lasciati stanotte Philippe Daverio, alsaziano di Mulhouse (1949), città sempre contesa sin dai tempi degli Asburgo e dove aveva studiato da ragazzo, «in maniera rigorosa», ricordava, con i suoi fratelli, lui quarto di sei figli di padre italiano (ma di nome faceva Napoleone) e madre alsaziana.
La carriera e la politica. Educazione un po’ottocentesca, la sua, che si conclude alla Bocconi prima della laurea e l’apertura di una sua galleria d’arte a Milano. Propone mostre, apre una sede a New York, diventa il divulgatore d’arte e cultura di spicco in città e il sindaco Marco Formentini lo chiama in Giunta come assessore alla cultura (1993-97). L’esordio è straordinario, con una installazione giocosa davanti a Palazzo Reale. Dal 1999 è artefice di programmi televisivi: Art’è sui Raitre, poi Art.tù quindi il celeberrimo Passpartout, seguito poi da Il Capitale. Diventa collaboratore di molti giornali, cura iniziative d’arte legate al Corriere della Sera ed è collaboratore di Style Magazine, diventa direttore di Art Dossier e docente a Palermo nel 2016 per Chiara fama. Escono un lunga messe di libri per Rizzoli a partire da «Il museo immaginato», sorta di breviario per farsi ciascuno un proprio ideale museo. Interpreta persino piece teatrali e una parte in «La vedova allegra» alla Scala con regia di Pizzi; Scala di cui è stato consigliere di amministrazione per la Regione Lombardia. Aveva creato anche il movimento politico «Save Italy» nato per opporsi alla discarica vicino a Villa Adriana.
Polemista e attivista. Come tutte le persone brillanti e di carattere fu al centro di polemiche spesso risolte con il sorriso, che largamente e con generosità riservava a tutti quanti, amici di una vita e persone da poco conosciute. Molto impegnato con gli Amici di Brera nel sostegno alla pinacoteca milanese, questa proverà forse ad attrezzarsi per una camera ardente.
Morto Philippe Daverio, portò l’arte in tv, con gusto e ironia. E la Rai lo mandò via senza un motivo. Aldo Grasso il 2 settembre 2020 su Il Corriere della Sera. «Passepartout», il programma di divulgazione artistica di Philippe Daverio, scomparso oggi a 70 anni, per molto tempo ha saputo narrare il mondo attraverso quel racconto privilegiato che è la storia dell’arte: per fare un programma culturale non basta parlare di cultura. Non è nemmeno necessario evocare «linguaggi alternativi»: bisogna invece avere competenza, passione e gusto per il dettaglio. Non capitava tutti i giorni di sentire frasi come «Hieronymus Bosch non è un direttore di circo ma un raffinato intellettuale che tenta di riassumere tutte le fiabe della fine del millennio, quando non fa più paura ma genera nuove fantasie» o «La pittura? Un virus latino diffuso in tutto il mondo dagli antichi romani» o «La madonna e Dio padre sembrano i reali di un misterioso oriente nordico» o «Questa è un’opera di catarsi didattica» o «La Pala di Isenheim di Matthias Grünewald conservata nel monastero degli Antoniani è uno dei dieci eventi pittorici più importanti dell’umanità, è la Cappella Sistina del Nord». Capitava una volta alla settimana, cui vanno aggiunte le migliaia di repliche estive. Ed era sempre una festa.
Morto a 70 anni lo storico e critico d’arte. Della curiosità e della conoscenza Daverio (così mirabilmente snob da fare l’assessore leghista alla cultura del comune di Milano, ai tempi di Formentini, e poi la tv) guardava sempre in macchina, per fissare lo spettatore con sguardo ora minaccioso ora complice. Ma, giocando sulle spinte contrapposte della ripulsa e della lusinga, lo conduceva in un affascinante viaggio. Un bel giorno, era il settembre del 2011, la Rai decise di chiudere “Passpartout”, dando il benservito a Daverio, come fosse una “badante” del sapere. Nessuno è sceso in piazza a gridare contro l’oscurantismo, la censura, la libertà di pensiero. Nessuno ha evocato editti bulgari, ha parlato di “funerale del Servizio pubblico” o di “Italia del bavaglio”, come a suo tempo era stato fatto per altri conduttori A questo atto di ottusità della Rai, Daverio rispose con ironia, componendo un elogio funebre della sua trasmissione: «È improvvisamente mancato Passepartout, nel pieno della sua salute. Lo compiangono la redazione tutta e centinaia di migliaia di affezionati suoi seguaci. La causa del decesso è da ascriversi probabilmente ad una pallottola vagante sparata durante il riordino amministrativo recente della Rai che si è trovata costretta a passare dall’ordinamento privato della sua gestione a quello pubblico più consono alle risorse erariali che la alimentano». Daverio aveva una straordinaria capacità di farsi capire senza per questo evitare la complessità dei discorsi, di descrivere manifestazioni conosciute (dalla Biennale al Salone del Mobile) con un occhio diverso, di non trattare mai la cultura al pari di un oggetto o di un argomento, come di solito fanno le précieuses ridicules della tv.
È morto Philippe Daverio, ultimo divulgatore dell'arte in televisione. Il docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, aveva 70 anni. Per 10 anni ha scritto e condotto "Passepartout" su Rai3. Dario Pappalardo il 2 settembre 2020 su La Repubblica. È morto all'istituto dei Tumori di Milano lo storico dell'arte Philippe Daverio. Aveva 70 anni. Con lui scompare l’ultimo divulgatore dell’arte in televisione e non solo. Quello che faceva storcere il naso ai critici duri e puri, a chi gli rimproverava il difetto di non essere un accademico tout court. Anzi, ammetteva con disinvoltura di non essere nemmeno laureato. Eppure un programma come Passepartout, nato su Rai 3 quasi vent’anni fa riusciva incredibilmente a raccogliere attorno a una tavola ospiti in grado di confrontarsi su un percorso storico-artistico definito in ogni puntata, tra un vino e una portata. Nel mezzo, Daverio raccontava da Cicerone un’Italia delle meraviglie non scontata, mai banale. Percorreva vie desuete e non solo, lasciava che si spalancassero alle telecamere le porte di chiese montane e affeschi bizantini. Tra una zoomata e l'altra sui particolari dei capolavori, la macchina da presa lo mostrava poi seduto dietro una scrivania con l'immancabile papillon, le espressioni da antologia e le pagine cancellate dall'artista Emilio Isgrò sullo sfondo. Ammiccava allo spettatore, riuscendo persino a fargli apprezzare il più sperduto dipinto della storia dell'arte. Gli ascolti, in fasce orarie fuori da ogni gara di share, lo ripagavano: superava spesso e volentieri il milione di spettatori. Daverio non aveva il piglio di Federico Zeri, né la sua aria da fuoriclasse profeta delle arti. Il suo commento era da amico colto, più che da storico dell’arte. Da amatore, più che da esperto. Un tono che si ritrovava uguale nelle sue pubblicazioni uscite per lo più da Rizzoli. Come "Grand Tour per l'Italia a piccoli passi" di due anni fa, dove ripeteva un format personalissimo: percorrere il Paese a suo modo con la sua scala di preferenze e priorità. D'altronde il suo amore per l'arte era nato a 10 anni, visitando la Villa Imperiale di Pesaro, non la Reggia di Versailles. La sua "formazione" riversata poi nei programmi tv e nei libri è "local", sul campo, fuori dalle accademie. Considerava l'Italia un enorme tesoro en plein air mai abbastanza conosciuto. I suoi titoli sono guide alla vecchia maniera, quando i viaggiatori di una volta riversavano gli appunti di viaggio sulla carta. C'era una volta la divulgazione.
È morto Philippe Daverio, storico dell'arte e divulgatore. Pubblicato mercoledì, 02 settembre 2020 da La Repubblica.it. È morto questa notte all'istituto dei Tumori di Milano lo storico dell'arte Philippe Daverio Lo ha reso noto la regista e direttrice del Franco Parenti Andree Ruth Shammah. Docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, aveva 70 anni. "Mi ha scritto suo fratello stamattina per dirmi che Philippe è mancato stanotte" ha detto Shammah all'Ansa. Nato il 17 ottobre 1949 a Mulhouse, in Alsazia, è stato anche assessore del Comune di Milano dal 1993 al 1997 nella giunta Formentini, con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all'Educazione e Relazioni Internazionali, e si è occupato della ricostruzione del Padiglione d'Arte Contemporanea distrutto a seguito dell'esplosione della bomba avvenuta in via Palestro il 27 luglio 1993. Philippe Daverio si è sempre definito uno storico dell'arte. Il grande pubblico lo ha conosciuto nel 1999 come inviato della trasmissione Art'è su Raitre. L'anno dopo è stato autore e conduttore della trasmissione Art.tù, poi dal 2002 al 2012 autore e conduttore di Passepartout, programma d'arte e cultura divenuto Il Capitale, e del programma del 2011 Emporio Daverio per RAI 5. Come gallerista ed editore ha pubblicato una cinquantina di titoli. Diverse anche le sue pubblicazioni scientifiche e quelle divulgative. Daverio ha svolto attività di docente in diverse università: è stato incaricato di un corso di Storia dell'arte presso lo Iulm di Milano, laurea in Comunicazione e gestione dei mercati dell'arte e della cultura; ha svolto diversi corsi di Storia del design presso il Politecnico di Milano, e dal 2006 è professore ordinario di Disegno Industriale presso l'Università degli Studi di Palermo. Nel 2013 ha ricevuto dal presidente della Repubblica, il Cavalierato delle Arti e delle Lettere e la Medaglia d'Oro di benemerenza del Ministro per i Beni Culturali; sempre nel 2013 è stato insignito dal presidente della Repubblica francese della Lègion d'Honneur. Nel settembre 2014 è diventato direttore artistico del Grande Museo del Duomo di Milano, e dal 2015 membro del Comitato scientifico della Pinacoteca di Brera e Biblioteca nazionale Braidense. Ha collaborato come opinionista per "Panorama", "Liberal", "Vogue", "Gente", ed è stato consulente per la casa editrice Skira. Nel 2008 era stato nominato direttore della rivista d'arte "Art e Dossier" della casa editrice Giunti. Nel 2010 è stato anche autore e conduttore di "Emporio Daverio" su Rai5, una proposta di invito al viaggio attraverso le città del Belpaese, un'introduzione al museo diffuso ed uno stimolo a risvegliare le coscienze sulla necessità di un vasto piano di salvaguardia. È autore di numerose pubblicazioni: "Il Museo Immaginato" (Rizzoli, 2011), "Il Secolo lungo della Modernità" (Rizzoli, 2012), "Guardar lontano veder vicino. Esercizi di curiosità e storia dell'arte" (Rizzoli, 2013). Daverio è andato spesso a braccetto con la politica: la prima volta con la giunta del leghista Formentini a Milano, poi fece il "bibliotecario" con Vittorio Sgarbi nella sua giunta del Comune di Salemi, è stato candidato in provincia a Milano nel 2009 nella lista di Filippo Penati e nel 2010 è stato, per poco, consulente per la Festa di Santa Rosalia a Palermo nella giunta Cammarata. Il vulcanico critico d'arte era trasversale: "Destra e sinistra? Non hanno più senso", diceva.
Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 7 dicembre 2020. Il 17 ottobre, giorno della sua nascita, aveva scelto di ricordare il poco noto Louis Vauxcelles, fondatore del Gruppo Fauves che nel Salon d' Automne del 1905 a Parigi unì Matisse e amici sotto un unico «marchio». E per quello della sua scomparsa - ma questo non poteva prevederlo -, il 2 settembre, si ricorda lo scoppio del Grande Incendio di Londra del 1666, un 666 che fece spargere anche fiumi di inchiostro sull' intervento del diavolo. L' incendio, «forse partito dalla casa del panettiere di Carlo II Stuart, divampò per tre giorni distruggendo la vecchia Londra». Di Philippe Daverio (Mulhouse, 17 ottobre 1949 - Milano, 2 settembre 2020) esce postumo un calendario-annuario di vivace curiosità - Il vizio della curiosità , con Elena Gregori, Rizzoli, pagine 365, e 24,90 -: un avvenimento per ciascun giorno dell' anno, illustrato e ironicamente spiegato dal critico-conoscitore d' arte scomparso tre mesi fa. Daverio aveva quella qualità di base della libera conoscenza che è la curiosità. Aveva una gran voglia di capire, si appassionava a molte cose - proprio come quei caratteri geniali e poco classificabili - e trasmetteva agli altri l' entusiasmo per le Belle arti e la cultura. Quell' Entusiasmo nelle Belle Arti titolo di un libro di estetica del 1799 dell' erudito Saverio Bettinelli. Il quale vedeva nella rapidità, novità, meraviglia, trasposizione e altro i parametri attraverso i quali le arti esaltavano l' animo umano. Daverio li ha fatti propri. La sua arma migliore era l' erudizione trasmessa con un' ironia sottile che si ritrova anche in questo «scadenziario» che va dal primo all' ultimo giorno dell' anno. Per ogni giorno una immagine e un commento. Primo gennaio, Capodanno: «Mi stupisce - scrive riferendo a quando accaduto nel passato anno - l' affetto con cui i milanesi ascoltano la Marcia di Radetzky Alle mie orecchie di risorgimentalista suona al pari di una mai scritta marcia del colonnello Kappler». Rancore degli alsaziani verso i tedeschi? Avrebbe sorriso. Di contro, il 31 dicembre è dedicato alla nascita di Henri Matisse (31 dicembre 1869), colui che portò alle estreme conseguenze «l' art pour l' art». Poi è un susseguirsi di «forse non tutti sanno che». Prendiamo i cambi di stagione: per il 21 marzo, equinozio di primavera, pagina dedicata alla Primavera di Botticelli, «il grande fashion designer dell' antichità»; il 21 giugno, primo giorno d' estate, lettura di La musica è come la pittura di Francis Picabia; il 21 settembre l' Autunno del praghese Art nouveau Alfons Mucha e, infine, il 21 dicembre viene ricordata la nascita di Masaccio (1401) con un particolare della Cacciata dal Paradiso della Cappella Brancacci. Curiosità, spigolature... Nella mitologia greca, la curiosità è quella della prima donna mortale, Pandora, che volle aprire il vaso che Zeus le aveva affidato e dal quale uscirono tutti i mali del mondo. Ma la curiosità è quell' istinto che nasce dal desiderio di sapere, è il meccanismo fondamentale dell' apprendimento. «La curiosità - ha scritto il filosofo Michel Foucault - evoca la cura, l' attenzione che si presta a quello che esiste o che potrebbe esistere». Il reale e il possibile, dunque: i due registri sui quali il filosofo gioca la sua curiosità. È quanto ha fatto Daverio in questo suo curioso annuario.
Addio a Philippe Daverio, lo storico dell’arte aveva 70 anni. Docente e saggista, era stato assessore alla cultura del comune di Milano. Il Dubbio il 2 settembre 2020. È morto stanotte all’istituto dei Tumori di Milano lo storico e critico dell’arte Philippe Daverio. Aveva 70 anni. A renderlo noto è stata sul suo profilo Facebook la regista teatrale Andrèe Ruth Shammah, direttrice del Teatro Parenti di Milano. «Con Philippe Daverio scompare uno dei grandi protagonisti della vita culturale di Milano degli ultimi decenni. Daverio è stato un innamorato di Milano cui ha sempre dato la forza della sua originalità e della sua competenza, dal Comune alla Scala fino al Museo del Duomo e a Brera», scrive su Facebook il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. «L’ho visto all’opera in tanti frangenti – sottolinea Sala – non sempre ho condiviso le sue posizioni, ma mi ha sempre colpito la sua libertà di pensiero. Soprattutto Milano e l’Italia devono allo spirito internazionale e alla capacità comunicativa di Philippe la sua lotta in difesa del bello e dell’arte del nostro paese di cui fu un instancabile e geniale divulgatore. Grazie, Philippe, and “save Italy”». Nato il 17 ottobre 1949 a Mulhouse, in Alsazia, Daverio è stato anche assessore del Comune di Milano dal 1993 al 1997 nella giunta Formentini, con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all’Educazione e Relazioni Internazionali, e si è occupato della ricostruzione del Padiglione d’Arte Contemporanea distrutto a seguito dell’esplosione della bomba avvenuta il 27 luglio 1993 partendo dalla ricerca degli sponsor al coordinamento degli interventi sia tecnici sia amministrativi. Dal 1993 al 1997 è stato assessore alla Cultura del Comune di Milano, dove si è occupato soprattutto del restauro e del rilancio del Palazzo Reale e della ricostruzione del Padiglione d’Arte Contemporanea distrutto a seguito dell’esplosione della bomba mafiosa del 27 luglio 1993. Opinionista per «Panorama», «Liberal», «Vogue», «Gente», consulente per la casa editrice Skira, Daverio si è sempre definito uno storico dell’arte. In questa veste lo scopre il pubblico televisivo di Rai3: nel 1999 in qualità di “inviato speciale” della trasmissione «Art’è», nel 2000 come conduttore di «Art.tù», poi autore e conduttore di «Passepartout», programma d’arte e cultura che ha avuto grande successo e notevole riconoscimento di critica e di pubblico. Si è occupato inoltre di strategia ed organizzazione nei sistemi culturali pubblici e privati e svolge attività di docente: è stato incaricato di un corso di storia dell’arte allo Iulm di Milano e ha tenuto corsi di storia del design al Politecnico di Milano. Dal 2006 era professore ordinario di sociologia dei processi artistici alla Facoltà di Architettura (dipartimento Design) dell’Università degli Studi di Palermo. Nel 2008 era stato nominato direttore della rivista d’arte «Art e Dossier» della casa editrice Giunti. Nel 2010 è stato anche autore e conduttore di «Emporio Daverio» su Rai5, una proposta di invito al viaggio attraverso le città del Belpaese, un’introduzione al museo diffuso ed uno stimolo a risvegliare le coscienze sulla necessità di un vasto piano di salvaguardia. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui figurano: «Il Museo Immaginato» (Rizzoli, 2011), «Il Secolo lungo della Modernità» (Rizzoli, 2012), «Guardar lontano veder vicino. Esercizi di curiosità e storia dell’arte»
Lutto nel mondo dell'arte. Morto Philippe Daverio, storico dell’arte che ha raccontato l’Italia: aveva 71 anni. Serena Cristiano su Il Riformista il 2 Settembre 2020. Lutto nel mondo artistico. E’ morto all’età di 71 anni lo storico dell’arte Philippe Daverio. A renderlo noto è stata la regista teatrale e direttrice del Teatro Parenti di Milano Andree Ruth Shammah. Docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, Daverio è venuto a mancare questa notte all’istituto dei Tumori di Milano. Shammah ha dichiarato la scomparsa dello storico dell’arte all’Ansa: “Mi ha scritto suo fratello stamattina per dirmi che Philippe è mancato stanotte”.
LA CARRIERA – “Nasco nel 1958,una storia complessa: studio alla scuola francese, in Alsazia, e poi alla Scuola della comunità europea di Varese. Mio nonno aveva servito il kaiser, ma era francese: sono un Lumbard cosmopolita”. Così amava definirsi Philippe Daverio, che amava raccontare l’arte al pubblico con leggerezza ed ironia. La sua carriera sboccia nel fiore dei suoi anni. Nel 1975 ha aperto la galleria che portava il suo nome "Galleria Philippe Daverio", in via Monte Napoleone a Milano, dove si occupava prevalentemente di movimenti d’avanguardia della prima metà del Novecento. Nel 1986 sbarca anche oltreoceano, dove viene aperta a New York la "Philippe Daverio Gallery" rivolta all’arte del XX secolo. Come gallerista ed editore ha allestito molte mostre, e pubblicato una cinquantina di titoli. È stato, dal 1993 al 1997, nella giunta Formentini del comune di Milano dove ricopriva l’incarico di assessore con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all’Educazione e alle Relazioni Internazionali. Famoso anche nel mondo televisivo, nel 1999 è stato inviato speciale della trasmissione Art’è sulla rete Rai e nel 2000 è stato autore e conduttore del programma Art.tù. Celebre negli anni 2000 è stata la sua conduzione alla serie Passepartout, programma d’arte e cultura. Ha collaborato con riviste e quotidiani, tra cui il periodico Art e Dossier di cui era direttore. Tantissimi i commenti di cordoglio da tutto il mondo dello spettacolo e del pubblico che ha amato il suo modo di raccontare il mondo dell’arte.
Il critico d'arte è morto a 70 anni. Sgarbi ricorda Philippe Daverio: “È riuscito a portare l’arte a tutti”. Redazione su Il Riformista il 2 Settembre 2020. “Aveva un solo obiettivo: che l’arte fosse comprensibile e in questo è stato uno dei migliori”. Vittorio Sgarbi ricorda Philippe Daverio, il critico e divulgatore d’arte scomparso oggi a 70 anni a causa di un tumore, in un’intervista al Foglio. E ricorda 40 anni di “due vite parallele”, di “due fratelli”, caratterizzati da tanti dibattiti, scambi di vedute e un unico litigio, provocato dall’impegno politico e contrapposto dei due. “Lo conoscevo da più di 40 anni – racconta Sgarbi a Luca Roberto – da quando era partito a Milano come mercante d’arte, in un momento in cui l’arte contemporanea si dibatteva tra ideologia e cupidigia. Lui è stato in grado di inserirsi in quel mondo con le sue caratteristiche naturali, un passo leggero e originale, che lo facevano interprete e lo avrebbero reso celebre prima tra le persone che si occupano d’arte e poi per il grande pubblico”. Una notorietà possibile grazie ai suoi testi chiari ed esplicativi. “Eravamo gli esponenti di una storia dell’arte popolare e sempre in difesa dei valori stabili – continua Sgarbi – Ed è il motivo per cui poi è riuscito a maneggiare con maestria il mezzo televisivo diventando più uno storico dell’arte che un critico a tutto tondo, con una ricostruzione molto particolare dell’arte italiana, non solo ottocentesca e novecentesca ma anche con affondi nel passato. È stata la perfetta conclusione di un secolo che si era aperto con Adolfo Venturini”.
IL POST SUI SOCIAL – “Daverio era aria libera”, ha scritto Sgarbi su Facebook ricordando il collega e amico. “Nonostante qualche screzio, i nostri rapporti sono stati di grande amicizia. Mentre gli altri erano stati uomini di regime, Daverio è stato uno che si è sporcato le mani con la politica: ci ha messo la faccia – ha conitnuato Sgarbi – Oltre a storico e critico d’arte è stato anche un importante mercante d’arte. E poi aveva capito l’importanza della televisione. Sia io che lui abbiamo fatto politica ma eravamo nell’arte “non politici”; infatti tutti quelli che ce l’hanno con me dicono : “ah, come critico d’arte non si discute, ma non siamo d’accordo su… “ , e questo si può dire anche per lui perché la sua esperienza come assessore leghista non ha determinato una scelta ideologica , come se il mondo dell’arte fosse un “paradiso dell’innocenza”. Ecco, lui e stato in un paradiso dell’innocenza: è certamente il più leggibile, il più godibile, il più piacevole , il più divertente, il più allegro e quindi ci mancherà la felicità , l’allegria il divertimento, il paradosso, rispetto alla seriosità di Celan o di Calvesi: due critici d’arte per pochi. Daverio è stato uno storico al servizio del popolo e quindi lo ha divertito, gli ha raccontato l’arte , lo ha fatto con la televisione. Quindi onore a Daverio”.
A 70 anni muore lo storico dell'arte Philippe Daverio. Il ricordo di Aqp. Si è spento all'Istituto Tumori di Milano. A luglio era uscito il suo ultimo libro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Settembre 2020. È morto questa notte all’istituto dei Tumori di Milano lo storico dell’arte Philippe Daverio. Lo ha reso noto la regista e direttrice del Franco Parenti Andree Ruth Shammah. Docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, aveva 71 anni. «Amico mio ....il tuo silenzio per sempre è un urlo lancinante stamattina» ha scritto Shammah su Instagram, dando notizia sui social della morte dell’amico Philippe Daverio. Ha commentato Emanuele Fiano del Pd: «Andree Ruth #Shammah ci da purtroppo notizia della scomparsa di Philippe #Daverio uomo di grande cultura, simpatia e umanità. Una grande perdita per #Milano e per tutti. Sono molto addolorato per la sua scomparsa. Sia lieve a lui la terra». "Una gravissima perdita - ha aggiunto il presidente dell’Anpi provinciale di Milano Roberto Cenati - per il Paese, per Milano, per la cultura, per tutti noi».
IL CORDOGLIO DI DECARO - Il sindaco di Bari Antonio Decaro esprime il proprio cordoglio per la scomparsa dello storico e critico d’arte Philippe Daverio. “Philippe Daverio ci ha lasciati con la stessa discrezione e delicatezza con cui ci ha accompagnato per decenni nello straordinario viaggio di conoscenza tra le meraviglie del patrimonio artistico e architettonico del nostro Paese. Intellettuale cosmopolita e raffinato, ha saputo coniugare al meglio la storia dell’arte con il giornalismo e l’informazione televisiva. La sua grande capacità di divulgatore dal linguaggio semplice e, al tempo stesso, ricercato, ha risvegliato in tanti l’amore per l’arte. La città di Bari lo ricorda con lo stesso affetto che Daverio, con la sua autorevole presenza, ha manifestato per la nostra città in occasione della riapertura del Teatro Piccinni il 6 dicembre scorso”.
IL RICORDO DI AQP - Acquedotto Pugliese piange la scomparsa di Philippe Daverio, unendosi al cordoglio delle istituzioni, del mondo della cultura e di tutto il pubblico televisivo, che lo ha seguito nel corso dell’infinita serie di programmi di successo, dedicati all’arte e alla storia del nostro Paese. «La scomparsa di Philippe Daverio ci rattrista profondamente. Abbiamo ancora vivo il ricordo della sua formidabile lezione offerta presso il nostro palazzo, lo scorso dicembre, in occasione della presentazione del progetto editoriale «Acqua, madre della vita», realizzato nell’ambito delle iniziative per il centenario dell’acqua pubblica», osserva il presidente di Aqp, Simeone di Cagno Abbrescia. «Con la sua straordinaria competenza, non disgiunta da una non comune capacità di parlare da esperto d’arte anche al pubblico dei non addetti ai lavori - prosegue di Cagno Abbrescia - Daverio ci consegnò, quella sera, un meraviglioso affresco del nostro storico palazzo, la cattedrale laica dell’acqua, che simboleggia con plastica efficacia l’eccezionale impresa della conquista dell’acqua per la nostra regione e per tutta la popolazione. Con lui il Paese perde la figura di un grande intellettuale, che ha saputo dare lustro al mondo della cultura. Solo la cultura potrà salvare il mondo, è il lascito più prezioso di Daverio. Un insegnamento stimolante per tutti, che sentiamo di condividere pienamente».
Morte Philippe Daverio, l’ultimo servizio come inviato a Striscia la Notizia. Fan Page il 2/9/2020. La morte dello storico dell'arte Philippe Daverio sorprende il mondo della comunità dell'arte e della cultura. Philippe Daverio aveva un tumore, era malato da tempo ma non l'aveva detto a nessuno. Gli ultimi a godere delle grandi capacità affabulatorie e delle competenze di Philippe Daverio sono stati quelli di "Striscia la Notizia". Per loro, Philippe Daverio curava la pagina dedicata all'arte e al territorio. A rendere nota la morte del critico e storico dell'arte, la direttrice del Franco Parenti, Andree Ruth Shammah: «Mi ha scritto suo fratello per dirmi che Philippe è mancato stanotte». Proprio nella mattina di ieri, i profili social del programma di Antonio Ricci hanno pubblicato il suo ultimo servizio sulle curiosità e i segreti sull'Opera di Parigi e sulla Gioconda e gli aneddoti su Raffaello Sanzio e Claude Monet. La peculiarità dei servizi di Philippe Daverio per "Striscia la Notizia" era di andare a individuare musei e opere di alto interesse visitabili in maniera completamente gratuita. Durante la trasmissione televisiva "Il borgo dei borghi", nella quale Daverio era componente di giuria, il suo voto risulto decisivo per assegnare a Bobbio (PC) il premio della stagione 2019 ribaltando il risultato del televoto che aveva assegnato una maggioranza schiacciante a Palazzolo Acreide (SR). Il segretario della commissione di vigilanza Rai, l'onorevole Michele Anzaldi, sollevò «il caso Daverio» puntando sul conflitto d'interesse del critico, in quanto cittadino onorario proprio del Comune di Borgo. Dopo quella vicenda, Philippe Daverio ha ricevuto minacce di morte continuando a esprimere giudizi negativi sulla Sicilia e sui siciliani, paragonando la forma del dolce tipico "cannolo" a quella del fucile a canne mozze. Il critico rettificò e si scusò ufficialmente dopo una lettera al presidente della Regione Sicilia Musumeci.
Striscia la notizia, Antonio Ricci dopo la morte Philippe Daverio: “Chi lo aveva fatto fuori dalla tv". Libero Quotidiano il 02 settembre 2020. Philippe Daverio, ultimo divulgatore dell’arte in televisione, è venuto a mancare all’età di 70 anni. Striscia la Notizia ha voluto ricordarlo tramite Antonio Ricci, che ha svelato un retroscena del passato: “Venni a sapere che Philippe era stato tagliato fuori dalla televisione. Un editto bulgaro, accettato in silenzio da Daverio, al quale il ruolo della vittima piantina certo non si addiceva. Mi sembrava scandaloso che un intellettuale di tale spessore non potesse avere il suo spazio, soprattutto sulla tv di Stato a cui aveva sempre garantito programmi di grande qualità e successo. Così, per riparare ad un’ingiustizia, nella grande famiglia di Striscia arrivò “Muagg - Il museo aggratis””. Ricci ha ricordato anche il capolavoro di Daverio con il Gabibbo: “Lo volle per la trasmissione di Rai3 Passepartout, facendogli commentare tra le sale di Palazzo Reale a Milano la mostra su Picasso. Elevò il pupazzo rosso a "terzo genovese più famoso del mondo" dopo Colombo e Picasso. Lo coinvolsi anche come cantante facendogli registrare la spiga di Cultura Moderna. Una complicità basata su un comune senso dell’ironia”.
Striscia la Notizia e "l'ultima" di Philippe Daverio: la scoperta dopo la morte dello storico dell'arte. Libero Quotidiano il 02 settembre 2020. L'Italia piange Philippe Daverio, lo storico dell'arte è morto a Milano, a 70 anni, a causa di un tumore. Era malato da tempo ma non lo aveva reso noto. Un lutto doloroso e sorprendente, quello che si è consumato nelle ultime ore. E così si ripercorrono gli ultimi passi di Philippe Daverio. E si scopre un qualcosa di curioso: gli ultimi a godere delle sue impareggiabili capacità oratorie sono stati quelli di Striscia la Notizia. Già, proprio per il tg satirico di Canale 5, Daverio curava la pagina dedicata all'arte e al territorio. Si pensi che soltanto ieri, martedì 1 settembre, i profili social di Striscia la Notizia avevano pubblicato l'ultimo servizio dello storico dell'arte sulle curiosità e i segreti sull'Opera di Parigi e sulla Gioconda e gli aneddoti su Raffaello Sanzio e Claude Monet. Nei servizi per Striscia, Daverio scovava musei e opere d'arte di alto livello che si potevano visitare in modo completamente gratuito.
Dagospia il 3 settembre 2020. Il ricordo di Philippe Daverio di Antonio Ricci. Con Elena, la moglie di Philippe, mi sentivo spesso perché, animalista convinta, mi segnalava per Striscia maltrattamenti a povere bestiole. Venni incidentalmente a sapere da lei che Philippe era stato tagliato fuori dalla televisione. Un editto bulgaro, accettato in silenzio da Daverio, al quale il ruolo della vittima piangina certo non si addiceva. Mi sembrava scandaloso che un intellettuale di tale spessore non potesse avere il suo spazio, soprattutto sulla tv di Stato a cui aveva sempre garantito programmi di grande qualità e successo. Così, per riparare ad un’ingiustizia, nella grande famiglia di Striscia arrivò “Muagg – Il museo aggratis”, la vera rubrica formato famiglia: Philippe conduceva, il figlio Sebastiano faceva la regia e la moglie Elena continuava la sua infaticabile attività di tessitrice. Conoscevo Philippe da quando aveva la galleria d’arte in via Montenapoleone, ma cominciammo a collaborare circa 20 anni fa. Volle il Gabibbo per la trasmissione di Rai3 Passepartout, facendogli commentare tra le sale di Palazzo Reale a Milano la mostra su Picasso. Elevò il pupazzone rosso a “terzo genovese più famoso del mondo” dopo Colombo e Picasso. Tempo dopo ci fece sentire tutta la sua autorevolezza di critico e storico dell’arte affiancandoci nella battaglia contro le torri, progettate dall’architetto Consuegra, che avrebbero devastato il centro storico di Albenga. Dopo i grattacieli lo coinvolsi anche come cantante facendogli registrare la sigla di Cultura Moderna. Una complicità basata su un comune senso dell’ironia. Philippe parlando del “Muagg – Il museo aggratis” sosteneva “Questo progetto è ironico nel suo significato antico. L’ironia era un metodo della maieutica. Consiste nello spostare il punto di vista. Per chi si occupa di comunicazione artistica diventa una chiave molto interessante”. Un progetto che mostrando le bellezze “aggratis” dell’Italia, teoricamente poteva non avere mai fine. Teoricamente, purtroppo.
Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 3 settembre 2020. Siamo alle solite e dunque eccoci a celebrare un morto dopo che è morto, quando lo meritava prima: ma a Philippe Daverio non è andata neanche così male, negli ultimi anni erano stati in parecchi ad accorgersi che Daverio era Daverio e che soprattutto ce n'era sicuramente uno solo. Il punto è tutto qui: ora non ce n'è altro, né nessuno che possa anche solo vagamente assomigliargli. Se c'è, avvertiteci. C'era un solo Daverio, ma tante vite. Alsaziano di nascita e milanese di adozione, definiamolo critico d'arte, saggista, autore, conduttore televisivo, animatore culturale, politico, assessore, viaggiatore, uno che da alsaziano voleva fare il funzionario pubblico e che in casa parlava tre lingue e due dialetti; nonno militare a Berlino, prozio a Parigi, nonno italiano, infine forte accento lombardo e sessantottino nel Sessantotto, di quelli che si dimentica di discutere la tesi. Un non laureato come tanti, nel senso che i non laureati coltissimi sono veramente tanti, nel nostro Paese. Poi s' è messo in testa di fare quel mestiere un po' da ladri che è il mercante d'arte moderna, anche perché era facilissimo: aveva 27 anni e in un niente trovò una bottega in affitto in via Montenapoleone. Era un'altra città, e offriva tante opportunità. la famiglia Dal 1972 vive al fianco di Elena Gregori, bisnipote del fondatore del Gazzettino, dalla quale ebbe un figlio, Sebastiano. E ancora, come niente, aprì un'altra galleria a New York. Si fece notare perché appunto era notevole. Dal 1993 al 1997 fu assessore alla Cultura e all'educazione a Milano e qualcuno gli tolse il saluto, ma non gliene fregava niente. Era come lo ricordiamo: allegro, esuberante, un guardaroba che era un arcobaleno di colori (le sue cravatte e i farfallini su tutto) e i suoi vernissage erano imperdibili per tutta la gente che credeva di contare. Ma la gente che contava, spesso, passava per la televisione, ed eccolo: dal 1999 fa Passepartout e trova un link col moderno (sin troppo) con nove tappe di storia del seno nelle raffigurazioni artistiche: il primo topless fu del Carpaccio nel secondo Quattrocento, con Michelangelo i seni sono possenti, con Rubens barocchi, poi i corpetti, e via così, sino al trionfo del seno esaltato dal push-up e ingrandito dai chirurghi. Ma il programma fece il 5 per cento di audience (circa tre milioni di persone) e in Italia non basta. Daverio comunque era già diventato se stesso da un pezzo. Il sigaro. Gli alcolici. I colli e i polsini rifatti. Le case spaziosissime per far star comodi i cani. Intanto, decine di libri scritti nel campo dell'arte. Aveva diversi pianoforti e suonava spesso Mozart (e che altro, uno come lui?) e aveva una visione musicale estetica e auto-curativa. Però ci capiva: tanti viaggi musicali, opera lirica, diceva che l'Italia non era fondata sul lavoro ma sul melodramma, mentre la Germania sulla tragedia e la Gran Bretagna sull'import dall'estero: senza Haendel non ci sarebbero stati i Beatles, diceva. Tanto anticonformismo, ma alla fine era un moderato credente e aveva una famiglia borghese e tradizionale: lui, la moglie, il figlio con la sua ragazza e cinque cani. La politica? Come assessore leghista si trovò benissimo (eccellente il rapporto col sindaco Marco Formentini, che pochi lo sanno, ma era trilingue) e si battè perché Milano diventasse città metropolitana. I leghisti di oggi li trova un po' troppo rurali, mentre riguardo ai grillini parlò di «trashologia» e Beppe Grillo definì Daverio «uno squallido analista politico». Il resto è una storia serena. Faceva molte conferenze pubbliche (vincendo un'iniziale ritrosia a parlare in pubblico) ed era divenuto un prezzemolo presenzialista: giudice nello Strega e nel Campiello, il consiglio di amministrazione della Scala, il Duomo e il suo museo, il Piermarini, e via così. Potremmo anche aggiungere che gli piaceva cucinare e che amava gli arrosti, il puree, certe zuppe francesi e naturalmente gli spaghetti senza i quali «non si può vivere», ma chi se ne frega. Vacanze? Poche e per lavoro, ma una volta con sei amici prese in affitto una rompighiaccio alle Isole Svalbard per andare verso il Polo Nord. Luca Pavanel, sul Giornale, gli propose il gioco della torre: un quadro, un brano, un libro, un film che avrebbe salvato. Risposte: per l'arte La colazione sull'erba di Monet, perché riassumeva il passato e anticipa il futuro; per la musica L'arte della fuga di Bach, una costruzione colossale; riguardo ai libri, la Crocifissione rosea di Henry Miller, dove secondo lui c'era tutta la complessità del mondo moderno. Film: Senso di Luchino Visconti, riassunto epico del nostro Paese. Con Paolo di Stefano del Corriere, invece, accettò di sottoporsi al cosiddetto questionario di Proust. Il tratto principale del suo carattere? «La schizofrenia». La qualità che preferisce in un uomo? «La rettitudine». E in una donna? «Il fascino». Il suo principale difetto? «La pigrizia». L'ultima volta che ha pianto? «Poche ore fa». Il giorno più felice della sua vita? «Boh». E il più infelice? «Spero che non venga». Autori preferiti? «Goethe». Se dovesse cambiare qualcosa nel suo fisico che cosa cambierebbe? «La panza». Il dono di natura che vorrebbe avere? «La facilità pianistica». Il regalo più bello che abbia mai ricevuto? «Il disegno di un'anatra da mio figlio». Come vorrebbe morire? «Senza accorgermene». Stato d'animo attuale? «Leggermente ansioso». Il suo motto? «Come i carabinieri: semper immota fides». Quando compì i 70, lo visse un po' come uno shock. «Il primo progetto che ho», disse, «è quello di non rimbambire». Non ha fatto in tempo.
Franco Fanelli per ilgiornaledellarte.com il 3 settembre 2020. A cavallo degli anni Settanta e Ottanta, quando Roberto d’Agostino a «Quelli della notte» annunciava l’avvento dell’«edonismo reaganiano», conseguenza del famoso «riflusso delle ideologie» e ispiratore di memorabili versi cantati quali «Lo diceva Picasso: io di giorno mi scasso/ma la notte no…», anche il mondo dell’arte si liberò di alcune foglie di fico. Fu allora che alcuni suoi protagonisti diventarono improvvisamente popolari, catapultati nelle case degli italiani dal talk show di Maurizio Costanzo come pittoreschi fenomeni da baraccone. I critici (lo status di curatore non era ancora sancito) e gli storici dell’arte si dimostrarono più interessanti degli artisti dai quali avevano caso mai mutuato stravaganze comportamentali e guardaroba improbabili. Venne l’ora dei calzini diversi di Achille Bonito Oliva e delle urla di Sgarbi, ma anche della loro penetrazione, complice la rivincita della destra non necessariamente colta, e dunque della sua necessità di dotarsi di una presentabilità culturale, nella politica. Nel 1993, un anno dopo l’elezione di Sgarbi a sindaco di San Severino Marche, Philippe Daverio entrava nella giunta leghista di Formentini come assessore alla Cultura di Milano. Due conservatori, il primo con forti simpatie monarchiche e il secondo, alsaziano di nascita ma milanesissimo d’adozione, figlio di un costruttore, ex gallerista ed editore (sostenitore dell’avanguardia, ma di quella d’inizio ’900) apparvero, come altri loro simili, tra i pochi autentici «eversori», identità rafforzata proporzionalmente allo sbiadirsi del rosso fuoco della sinistra. Partecipi entrambi del transito che avrebbe portato l’Italia craxiana al berlusconismo, avrebbero percorso vie parallele, aprendone altre ad alcuni imitatori (pensate a Flavio Caroli nel salotto di Fabio Fazio). Daverio, scomparso questa notte a 70 anni, più di tutti ha avuto la capacità di cavalcare diverse stagioni e interpretare ruoli diversi, anche, va pur detto, a seconda di dove tirava il vento dell’economia, della politica e del costume. Gallerista ed editore raffinato (il primo spazio lo aprì nel 1975 in via Montenapoleone, cui aggiunge, nel 1989, quello a New York), tanto colto quanto commercialmente agguerrito (in fondo, pur senza conseguire la laurea, aveva studiato alla Bocconi), fu tra i primi a capire che l’arte italiana del primo ’900, da de Chirico a Severini, più di altri settori aveva sofferto della scarsità di studi accreditati, della «concorrenza» di altre ricerche coeve ma agevolate dal loro essersi manifestate sul palcoscenico parigino e dell’identificazione, anche inconscia, con un periodo e una cultura da dimenticare: Futurismo e fascismo subivano ancora le loro connessioni; benché già molto falsificato, Sironi scontava la damnatio memoriae arganiana; e sino agli anni Ottanta non era opportuno rivelare in Nietzsche le radici e le ragioni della modernità di de Chirico. Ma questo gallerista, capace a volte, con molta disinvoltura, di spingersi oltre la spregiudicatezza, ma anche in grado di supportare le sue scelte con una produzione editoriale di prestigio (complice la prossimità di Paolo Baldacci), questo dandy culturalmente onnivoro e poliglotta non ebbe problemi, dopo questi esordi, a unirsi ai «barbari» leghisti della prima ora. Se a Roma il suo omologo socialista Nicolini aveva introdotto nel gusto popolare l’effimero e le luminarie tra le arcate di Massenzio, lui portò tre le Cariatidi di Palazzo Reale stormi di uccelli variopinti per festeggiare il Carnevale ambrosiano, senza dimenticare il restauro del grigio PAC danneggiato da un attentato stragista ordinato dalla mafia. La mafia, appunto: indimenticabili certe sue invettive, come quando ricondusse alla foggia delle canne della lupara la forma del cannolo. Questo a seguito di questioni di basso profilo (un sospetto di conflitto d’interessi nordista in occasione di un concorso dedicato al «Borgo dei borghi» italiano, quando ribaltò, a favore di Bobbio, in provincia di Piacenza, di cui era cittadino onorario, il voto della giuria popolare che invece aveva premiato Palazzolo Acreide, nel siracusano) e delle contestazioni subite nel 2010 quando divenne consulente del sindaco di Palermo Diego Cammarata per il Festino di Santa Rosalia. Altre volte si fece beccare in sortite sovraniste, come nel 2013 quando definì la Biennale di Venezia «un luogo artistico pagato con i soldi degli italiani e comandato da un pool di stranieri», salvo poi, più recentemente e più in linea con la sua anima europeista, lodare il ministro per i Beni Culturali Franceschini per il coraggio di aver chiamato degli stranieri a dirigere i musei italiani. Al corpulento gourmet e bon vivant con il papillon e i gilet variopinti, che non disdegnava ghette e bombetta, va poi riconosciuto l’intuito di avere identificato nella divulgazione editoriale e televisiva eccellenti canali attraverso i quali «porgere» l’arte a un pubblico che, dati delle mostre alla mano, risultava in forte crescita numerica. «Art’è» e «Passepartout», i suoi programmi televisivi più noti, hanno alfabetizzato alla bellezza un popolo stabilmente piazzato negli ultimi posti delle classifiche mondiali sulla diffusione della lettura. Se nei suoi libri funziona l’accattivante esca del Grand Tour, nobilitante etichetta per un distratto turismo culturale di massa, se tra le sue molte pubblicazioni e nella stessa rivista «Art&Dossier», il filo conduttore è la rassicurante e fintamente selettiva compilation (Il museo immaginato) o la pedagogia bon ton (L’arte di guardare l’arte, Guardar lontano, veder vicino, Il gioco della pittura), in televisione Daverio diventa l’alfiere degli accostamenti tematici (con buona pace della filologia) e della demolizione delle cronologie nel nome di un eterno e antistorico presente a proposito del quale non è proprio il caso di scomodare il già citato Nietzsche. Più onesto parlare di divulgazione in cui la preziosità di alcune proposte di luoghi «minori» è spesso annullata da grossolane semplificazioni attraverso analogie troppo facili per essere credibili. E basterebbe paragonare una sua trasmissione ai più «divulgativi» testi e conferenze di Federico Zeri (che finì anch’egli in televisione senza per questo dimenticare di essere uno studioso) per rilevare la debolezza di alcuni prodotti di Daverio, pure abilissimo nel cucire insieme luoghi, nomi e date in piacevoli patchwork. Non era un connoisseur; ma era curioso e diligente, l’arte amava vederla da vicino, un’abitudine che lo spinse a postulare la sostanziale inutilità dell’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole. Il «ritorno alla pittura» negli anni Ottanta gli aveva aperto qualche varco nell’arte contemporanea (Jori e Cannavacciuolo tra gli artisti trattati), ma come altri della sua generazione e cultura, riuscì ad accettare e ad accostarsi ai leoni del secondo ’900 (Kounellis, tra gli altri) soltanto nel momento in cui la storicizzazione ne aveva apparentemente ammansito la ferocia. Questa è la ragione per cui i suoi racconti della Biennale di Venezia o addirittura dalla Fiera di Bologna hanno sempre quel sapore un po’ vernacolare (per non dire populista) che lascia intendere quanto il re sia nudo (anche quando non lo è affatto). Era il prezzo da pagare alle esigenze di un copione che pretendeva un progressivo abbassamento di livello, ma anche l’inevitabile destino di un personaggio che non sarebbe dispiaciuto a Gogol, capace di rinnovarsi e mutare continuamente, di riciclarsi ogni volta con estrema abilità, di rinunciare persino a parte di sé pur di svolazzare disinvolto, come le sue mantelline e i suoi papillon, su quasi mezzo secolo di cultura e incultura italiane.
Quando Daverio arrivò a Bari e s'innamorò della Storia di San Nicola. Dopo la scomparsa dello studioso, emergono racconti di varie visite in Puglia. Gerardo Cioffari il 04 Settembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Il mio primo impatto con Philippe Daverio fu sulle scale della Basilica di San Nicola nel 2002. Egli aveva tra le mani alcuni miei libri, tra i quali la Storia della Basilica di San Nicola. L’epoca normanno-sveva. Con il sorriso sulle labbra ci sedemmo sulle scale e lui entrò subito in argomento parlando dei Normanni. Io non sapevo che cosa facesse e in che contesto avesse voluto incontrarmi. Poi, dalla cassetta video che mi diede Vittoria Cappelli a Roma in altra occasione, ho capito che l’incontro di Bari rientrava nel programma Passepartout che Rai Tre aveva avviato pochi mesi prima. Quello di Bari era il programma n. 17: Bari anno Mille. Bari e il Sud Italia all’epoca delle prime crociate (in onda il 3.03.2002, ma replicato numerose volte). Ricordo come il Daverio mi colpì dal primo momento. Eravamo disposti in modo informale, anche se lui aveva la solita cravatta a farfalla e io l’abito domenicano. Il suo sguardo non si distraeva e seguiva con grande attenzione il discorso su Bari intorno all’anno Mille e sulle origini della Basilica. La cosa che più mi colpì fu la rapidità con cui assimilava i dati storici che gli comunicavo, e soprattutto la sua capacità comunicativa. Mi colpiva il fatto che la notizia che io gli avevo dato un istante prima egli me la ritrasmetteva con una vivacità tutta sua. Ecco perché, vedendo le strisce didascaliche su Rai News 24 o su Sky o su News 24.Com che lo definiscono «storico dell’arte», resto alquanto perplesso. Per me egli è piuttosto un «artista della storia». Infatti, ciò che io gli comunicavo come fredda documentazione archivistica, diventava nelle sue parole, arricchite dalle immagini, qualcosa di vivo e attuale. Probabilmente il successo su Bari e i Normanni lo spinse alcuni mesi dopo a tornare e a invitarmi a Roma negli studi di Vittoria Cappelli. Quindi mi portò per Roma a contatto coi conventi domenicani e soprattutto con quello di S. Sabina, dove risiede il maestro generale dell’Ordine. Lì andammo nei giardini, e mentre curava l’inquadratura mi faceva le domande che avrebbero costituito la puntata su La Linea gotica dei Domenicani (andata poi in onda l’8 dicembre 2002, ma anch’essa replicata numerose volte). Anche in questa occasione notai la sua grande capacità di ascolto. Passavamo con grande scioltezza dai temi concernenti l’architettura domenicana a quelli più vivaci sull’inquisizione. Gli piaceva nelle mie risposte il riconoscere le tante macchie dell’Ordine nel medioevo, ma la forza con cui mettevo i rilievo i grandi meriti. Non aggiravo mai la risposta, anche quando la domanda poteva apparire provocatoria. Ma io sapevo che non lo era, perché in lui (come credo in me) la verità è più attraente dello scandalo e della provocazione. Non ricordo bene se ho fatto un altro programma con lui di argomento domenicano. Ricordo solo che andammo in una bella villa tra il Lazio e la Toscana (fra Viterbo e Grosseto, se la memoria non m’inganna), dove egli ci fece trovare una bella tavola imbandita, e con me c’era un altro padre domenicano di cui non ricordo il nome. Probabilmente era un programma diverso da Passepartout. I migliori ricordi sono però quelli legati a questi programmi, e non posso negare che mi faceva piacere sentire i confratelli che lo incontravano, che egli chiedeva di me. Come «Cicerone» della Basilica di San Nicola ho incontrato molte personalità. Di molti di loro ho perduto la memoria. Di Philippe Daverio, proprio no. Per me resta «l’artista della storia».
È morto Philippe Daverio: storico d'arte ed ex assessore di Milano. Le Iene News il 02 settembre 2020. Avrebbe compiuto 71 anni il prossimo 17 ottobre. È morto stanotte Philippe Daverio, docente e saggista, volto noto della tv, ex assessore alla cultura del comune di Milano. È morto questa notte Philippe Daverio. Lo storico d’arte aveva 70 anni, ne avrebbe compiuti 71 il prossimo 17 ottobre. Docente e saggista, scrittore e volto noto della tv, ex assessore alla cultura del comune di Milano si è spento questa notte all'istituto dei Tumori di Milano. Lo ha reso noto la regista e direttrice del Franco Parenti Andree Ruth Shammah. Daverio era cittadino onorario di Bobbio, un borgo in provincia di Piacenza. Proprio per questo un anno fa è scoppiata la polemica che vi abbiamo raccontato a Le Iene con Ismaele La Vardera (qui il servizio). Polemica finita con un gemellaggio tra i due borghi: Bobbio e Palazzolo Acreide (Siracusa). "Amico mio, il tuo silenzio per sempre è un urlo lancinante stamattina", scrive Shammah su Instagram. "Un uomo di grande cultura, simpatia e umanità. Una grande perdita per Milano e per tutti. Sono molto addolorato per la sua scomparsa", aggiunge Emanuele Fiano. "Una gravissima perdita per il Paese, per Milano, per la cultura, per tutti noi", commenta il presidente dell'Anpi provinciale di Milano Roberto Cenati.
Philippe Daverio, morto il critico d'arte di Passepartout: fu assessore a Milano nella rivoluzionaria giunta leghista di Formentini. Libero Quotidiano il 02 settembre 2020. È morto Philippe Daverio, storico dell’arte, "agitatore" e divulgatore culturale diventato famosissimo anche in tv. Aveva 70 anni, ad annunciare il decesso la regista e direttrice del teatro Franco Parenti Andree Ruth Shammah. Francese di Mulhouse (Alsazia), era italiano da parte di padre e con doppia cittadinanza. Giovane bocconiano, mai laureato, aprì una galleria d'arte nel 1975 e debuttò in tv nel 1999, nel programma di Raitre Art’è. Nel 2000 è alla guida della trasmissione Art.tù e dal 2002 al 2012 conclude il suo programma simbolo, Passepartout. Non si è fatto mancare le polemiche (con Vittorio Sgarbi non è sempre corso buon sangue) né esperienze politiche "controcorrente", come quando accettò il ruolo di assessore con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all’Educazione e alle Relazioni Internazionali offertogli dal sindaco di Milano Marco Formentini nella rivoluzionaria giunta leghista.
È morto Philippe Daverio. Storico dell'arte, figlio di un italiano e un'alsaziana, avrebbe compiuto 71 anni a ottobre. Fu assessore alla Cultura Milano dal 1993 al 1997. Orlando Sacchelli, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. Lo storico dell'arte Philippe Daverio si è spento a 71 anni (li avrebbe compiuti il prossimo 17 ottobre). Lo ha reso noto sui social network la regista teatrale Andrèe Ruth Shammah, direttrice del Franco Parenti di Milano: "Amico mio... Il tuo silenzio per sempre è un urlo lancinante stamattina", ha scritto su Instagram.
Daverio è morto nella notte tra l'1 e il 2 settembre all'Istituto dei tumori di Milano. Nato a Mulhouse (Francia) da padre italiano e madre alsaziana, Daverio ha avuto una vita poliedrica, svolgendo diverse attività, sempre con brillanti risultati: docente, scrittore-saggista, politico (fu assessore alla Cultura al Comune di Milano dal 1993 al 1997) e apprezzato personaggio tv. Al centro della sua vita ci furono sempre l'arte, la storia e la cultura. In un'intervista al Giornale raccontò di aver avuto un'educazione ottocentesca in un collegio episcopale: "Ricordo ancora una severità assoluta. Alzarsi alle 5 del mattino, ritmo di vita durissimo, ogni giorno l'obbligo di giocare per mezz'ora a football. Penso ancora a quel pallone scuro e gelido, di cuoio, che quando ti colpiva portava via un pezzo di pelle. Ma quella scuola mi ha lasciato una formazione di base con la quale ho vissuto di rendita a lungo, una bella formazione per la crapa (testa in milanese, ndr). Nella provincia francese la borghesia veniva tutta formata lì, in quel luogo". Il suo primo lavoro, lasciata l'università (diede tutti gli esami alla Bocconi ma non si laureò), fu il mercante d'arte. "Prima l'ho fatto stando a casa, subito dopo ho aperto una bottega vera e propria nel centro di Milano. Allora fare questo era una cosa facilissima". In tv ebbe un grande successo. Il programma d’arte e cultura "Passepartout" su Rai3 dal 2002 al 2013, seguito poi da "Il Capitale", lo resero celebre al grande pubblico. La fama arrivò dopo aver superato una paura, quella di parlare in pubblico (grazie anche alla politica):"Devo la mia fortuna ai quattro anni di politica che ho fatto. Prima avevo paura a parlare in pubblico. È stato come imparare a nuotare cadendo in un canale". "Con Philippe Daverio scompare uno dei grandi protagonisti della vita culturale di Milano degli ultimi decenni", ha scritto su Facebook il sindaco di Milano Beppe Sala. "Daverio è stato un innamorato di Milano cui ha sempre dato la forza della sua originalità e della sua competenza, dal Comune alla Scala fino al Museo del Duomo e a Brera. L’ho visto all’opera in tanti frangenti, non sempre ho condiviso le sue posizioni, ma mi ha sempre colpito la sua libertà di pensiero. Soprattutto Milano e l’Italia devono allo spirito internazionale e alla capacità comunicativa di Philippe la sua lotta in difesa del bello e dell’arte del nostro paese di cui fu un instancabile e geniale divulgatore. Grazie, Philippe, and Save Italy!".
Camillo Langone per “il Foglio” il 3 settembre 2020. Philippe Daverio era un uomo talmente libero che non si era laureato, pur avendo dato tutti gli esami, che aveva fatto l’assessore alla Cultura con la Lega, che aveva difeso l’utilizzo degli animali nei circhi, che da milanese aveva definito Milano brutta, ed era talmente intelligente da capire che i grattacieli sono pura hybris e che il declino dell’estetica cattolica inizia addirittura con Leone XIII, ossia con la dottrina sociale della Chiesa. Daverio era la dimostrazione che i più utili alla società sono coloro che si mostrano antisociali, che la civiltà si serve con una certa impopolarità. Come dandy si collocava, secondo l’esperto Giuseppe Scaraffia, a metà strada fra la scuola di Wilde e quella di Brummell, e dunque riconoscibile ma non troppo, eccentrico senza furori. Considerava il vestirsi bene alla base del vivere civile (a Palermo disse: “La cura mondana è di per sé antimafiosa, perché la mafia sbaglia sempre la cravatta”). Come Goethe e Milosz sapeva che l’estetica precede l’etica. L’Italia in braghe corte non se lo meritava, Philippe Daverio, e infatti gli aveva tolto la televisione. Ma non poté togliergli il farfallino.
Luca Beatrice per “il Giornale” il 3 settembre 2020. Addetti ai lavori a parte, ben pochi conoscevano il mestiere di storico e critico d' arte, che non è compreso in nessun album professionale. Quasi nessuno ricorderà che Giulio Carlo Argan fu sindaco di Roma, eppure il ricco patrimonio culturale del nostro Paese ne avrebbe avuto così bisogno di esperti, appassionati, conoscitori. Forse a Philippe Daverio sarebbe stato giusto assegnare il ministero della cultura, lui che parlava tante lingue, erudito e insieme divulgatore, capace di comunicare con chiunque e di scelte controcorrente e coraggiose. Era malato da tempo ed è scomparso ieri mattina a Milano, a soli settant' anni che sembrano pochi per la faccia e l' espressione da ragazzo mai cresciuto, con i suoi abiti ricercatissimi volutamente demodé, tra il dandy e il gentiluomo di campagna, l' uniforme di un uomo si è vestito per uscire anche durante la reclusione - che solo per caso è vissuto tra i due ultimi secoli ma che probabilmente avrebbe preferito attraversare l' Ottocento, per un' idea di arte ancora legata al manufatto di pregio, all' abilità dell' artefice, che si arresta poco prima delle avanguardie. Nei suoi libri ne ha scritti tanti, i più recenti pubblicati come strenne natalizie ricche di immagini, aneddoti, curiosità, dai titoli subito ficcanti e indovinati Ho finalmente capito l' Italia. Piccolo trattato ad uso degli stranieri (e degli italiani), Grand Tour d' Italia a piccoli passi. Oltre 80 luoghi e itinerari da scoprire, La mia Europa a piccoli passi, usciti per Rizzoli fino al recente Racconto dell' arte occidentale. Dai Greci alla Pop Art, pubblicato da Solferino - si rivela la cultura enciclopedica mai specialistica, che faceva storcere il naso agli accademici. Nato a Mulhouse, in Alsazia, nel 1949, apolide ma comunque milanese (anche se non mancò di definire brutta la sua città) si vantava di aver studiato alla Bocconi senza essersi laureato, e già questo la dice lunga sul suo snobismo rispetto ai canali ufficiali dell' istruzione. L' arte per Daverio è stata passione personale e insieme capacità di parlare al pubblico. Primo mestiere, il gallerista. Nel '75 aprì uno spazio in via Montenapoleone, quindi nel 1986 a New York per poi tornare a Milano, in corso Italia, occupandosi prevalentemente di pittura del primo 900. Anche il provenire dal mercato gli attirò qualche sospetto, in un Paese dove la maggior parte dei critici condiziona le scelte dei collezionisti e incassa interessanti percentuali, Daverio fece tutto alla luce del sole. Seconda eresia, la più estrema: tra 1993 e 1996 fu assessore alla cultura della giunta Formentini a Milano, apparentandosi pur da indipendente alla Lega e dunque al centrodestra. Apriti cielo, chiunque, tra i pochi, si fosse permesso di trattare la cultura oltre il dominio della sinistra veniva trattato come un paria. Scelte che si pagano con l' autoisolamento dal salotto buono e a cui si può rispondere solo attraverso la popolarità, peraltro crescente, suggellata dalla divisa daveriana: papillon su camicie a righe e quadretti, abito a tre pezzi, calzino in tinta con la pochette, un' esplosione ardita di tinte a contrastare il total black dei contemporaneisti. Torniamo alla politica. Difficile affermare che Daverio sia stato organico alla destra (sosteneva semmai fosse stata la Lega ad aver sposato le sue idee) e infatti anni dopo si candidò con Filippo Penati a sinistra e, nel 2019 sostenne l' europeismo di Emma Bonino. Sembra che per l' intellettuale cambiare idea sia normale, il giorno che ne troveremo uno disposto coerentemente a restare a destra avrà il nostro plauso incondizionato. Tuttavia la vera forza di Philippe Daverio fu nella televisione. Passepartout è stato a lungo il miglior programma di arte e di cultura trasmesso in Rai, dove il conduttore vestiva i panni di eccezionale guida turistica per far scoprire agli italiani le più incredibili bellezze nascoste. Andò in onda su Rai Tre per dieci anni, in fasce orarie spesso proibitive, eppure seguitissimo da un pubblico molto vasto, desideroso di conoscere e imparare. Venne chiuso nel 2011 senza nessuna ragione particolare, fortunatamente molto dell' immenso materiale raccolto è finito nei suoi libri. Un ricordo personale, infine. Non credo per disistima nei miei confronti, Daverio prese male la mia nomina al Padiglione Italia per la Biennale del 2009. Mi attaccò sui giornali sostenendo capissi ben più di calcio che di arte. Ne seguì qualche schermaglia, poi sfumata. Lo rincontro anni dopo e basta una stretta di mano e una buona a cena annaffiata dal gin tonic (che amava molto) per dimenticare. Gli racconto del mio libro in uscita, argomento l' arte italiana ai tempi di Silvio Berlusconi e lui, generosamente, mi regala il titolo geniale che ancora non avevo: «nati sotto il Biscione». E dunque gli devo ancora un grazie e la speranza, nell' addio, che vada a spiegare in paradiso quanto è bella l' Italia.
L'addio al critico d'arte. Quel mix unico che era Philippe Daverio. Guido Barlozzetti su Il Riformista 7 Settembre 2020. Per chi lo ha conosciuto attraverso la televisione Philippe Daverio resta un esempio di divulgatore dell’arte, verve spumeggiante e curiosità inesauribile, lontano dai territori dell’ovvio e dei banali bignamini travasato oggi nei wikipedini. Avrebbe compiuto settantuno anni il prossimo 19 ottobre, essendo nato a Mulhouse in Alsazia da padre italiano, un costruttore che si chiamava Napoleone, e una madre di lì, Aurelia Hauss. Un incrocio di radici in una terra che la storia ha eletto a crocevia d’Europa, non a caso all’origine di qualche conflitto mondiale, ma anche luogo di scambio di culture e di lingue, come lui stesso rivendicava riconoscendovi una sorta di pulsione originaria che gli ha attraversato la vita. Un’educazione vecchio stampo che lo porta alla Bocconi dove non si laurea pur avendo sostenuto tutti gli esami, che sembra il vezzo aristocratico di chi fa una cosa e la fa bene, ma non si cura del risultato finale. Poi l’attività di gallerista, Milano e poi New York, e quindi la televisione e un’incursione nella politica, assessore alla cultura nella giunta del sindaco Formentini che governò Milano tra il ‘93 e il ’97, con la sfrontatezza di chi ama scavalcare gli steccati e non farsi imprigionare dalle etichette degli schieramenti. In mezzo, tante cose: collaborazioni con i giornali, libri (tanti), lui stesso editore, sempre con quel tono accogliente e ironico di chi non fa parte della cerchia degli specialisti e magari il piacere di sentirne sullo sfondo il rumore livoroso, L’arte di guardare l’arte, Il secolo spezzato delle avanguardie, Pensare l’arte, Il gioco della pittura a pranzo con l’arte, Grand Tour d’Italia a piccoli passi… fino a La mia Europa pubblicato lo scorso anno. E poi, come detto, la lunga stagione delle trasmissioni televisive, culminate nelle nove edizioni di Passepartout, tra il 2001 e il 2010, e basterebbe scorrere i titoli delle puntate per capire le rotte imprevedibili, laterali, minimaliste, con il gusto del paradosso e dello spiazzamento che Daverio ha percorso: l’utopia dell’arte borbonica, la riva sinistra del Reno, Picasso rivisitato con il Gabibbo, i dioscuri Savinio e De Chirico, Rembrandt vs. Rubens, Notturni dalla Maremma, daje de tacco, daje de punta la danza delle avanguardie, Carracci che sorpresa, Sui passi di Mario Soldati, Vacanze sullo Yangtsé, Rio come la vedo io, Re-cessi, Il naso dei senesi… Insomma, Daverio ha messo insieme un’auto-enciclopedia televisiva del Paese e di un oceano d’arte visitato nei più reconditi rigagnoli. A questa lunga stagione è legata la sua immagine popolare, il farfallino che aveva esibito anche quando soffiavano i venti del Sessantotto, il panciotto, la policromia delle giacche, il gioco delle citazioni nell’abbigliamento di chi non lascia nulla al caso e là dove i più indossano un vestito lui mette in scena una mise tanto originale quanto ludica nei riferimenti della storia e delle epoche. Con accanto le scritte cancellate di Emilio Isgrò, tanto per dare un segnale ai sopracciò del territorio. Popolare, abbiamo detto, e certo Daverio lo è stato, ma in che senso? Si potrebbe rispondere che ha fatto un esercizio per un verso antico per l’altro forse desueto, e cioè portare l’alto al basso, secondo l’ispirazione del Convivio dantesco, dare a chi non può sedere alla tavola del sapere e della conoscenza e abbia almeno uno spirito gentile, una disposizione insomma, qualche pietanza, con il pane che ne faciliterà la digestione. Un vecchio campo di battaglia che non solo da noi ha contrapposto gli accademici a guardia del fortilizio e questi spiriti aperti alla navigazione e con il piacere di immergersi nel mondo, massimo godimento quello di ritrovarsi sul bordo, di mettere in contatto facendo leva sul narcisismo dell’immagine e la facondia delle parole. E’ stato un salotto con gli arredi aristocratici, ma aperto a tutti quello allestito da Daverio che ha fatto dello spettacolo di sé stesso un modo per raccontare un patrimonio d’arte, e viceversa, un attimo prima che arrivasse la piena delle rete e cominciasse a mettere in discussioni statuti, posizioni, riserve presidiate. Lui che pure costruiva il suo discorso come una navigazione sul web, con navigazioni che si ramificavano, ne incrociavano altre, trovavano accostamenti e rimandi sorprendenti, da nocchiero-giocoliere collaudato di quei mari, Un mix singolare Philippe Daverio e per certi versi irripetibile, dal genius loci della nascita agli estri nutriti studi, letture, ambienti che non si fanno più, a quell’arte della conversazione e del racconto che non s’impara(va)no ma si respira(va)no per portare ai più il dono della bellezza. Con una smorfia dello sguardo, un ammiccamento e un compiaciuto coup de dés.
Ma davvero Daverio? Un ordinario senza laurea. Nel corso della puntata del 26 settembre 2017 di Matrix su Canale 5 condotta da Nicola Porro il noto televisivamente storico e critico d’arte Philippe Daverio ha spiegato come “per essere professore universitario ordinario in Italia non serva la laurea.” Egli spiega che avendo frequentato l’università durante il ’68, dato il fermento intellettuale, a un certo punto non ha più sentito il bisogno di continuare a studiare e, malgrado sia passato quasi mezzo secolo, non ha inteso riprendere mai quegli studi. Pur tuttavia ha ottenuto, ci tiene a dirlo mediante concorso, una cattedra da ordinario all’Università di Palermo al Dipartimento di Architettura.
A Bologna Galileo diventa docente di matematica anche se non è laureato (è ancora oggi così: per essere professori universitari non è necessario avere una laurea, mentre per diventare ricercatori si).
Galileo galilei nasce a Pisa nel 1564 e morirà a Firenze nel 1642. Il padre Vincenzio era un musicologo e musicista, ed è proprio da lui che Galileo riprenderà questa passione per la matematica; essere dei musicologi e musicisti voleva dire avere a che fare con i ritmi e continuamente con la matematica. Nel 1581 il Padre iscrive Galileo all'Università di Pisa per studiare medicina, ma in tre anni si dimostra un pessimo studente perchè non riesce a dare nemmeno un esame, ma manifestò grandi interessi verso la matematica e al fisica e sotto la guida di Ostilio Ricci, Galileo si dimostrò un genio! Non ancora ventenne , Galileo scopre l'isocronismo del pendolo; nel 1586 inventa la bilancetta che serviva per pesare il peso specifico degli elementi; scrive un trattato sul teorema del baricentro dei Conidi; e, Galileo essendo un grande studioso di Dante , voleva capire dove si trovasse l'inferno e dalla descrizione che il Grande scrittore Fiorentino da nella Divina Commedia fa l'ipotesi che potrebbe trovarsi al centro della terra, collegando il fuoco con la lava dei vulcani , ma poi dice che l'Inferno è un luogo teologico e che quindi non può trovarsi sulla terra. La prima lettera che Galileo scrive è diretta a Clavius, che era un gesuita matematico che insegna nel Collegio Romano (ebbe un ruolo importante perchè il Clavius, chiamato anche Euclide per le sue doti matematiche, ebbe un ruolo primario nella riforma del calendario). Siamo nel 1588. A Bologna Galileo diventa docente di matematica anche se non è laureato (è ancora oggi così: per essere professori universitari non è necessario avere una laurea, mentre per diventare ricercatori si). Nel 1592(Galileo aveva 28 anni) vince il concorso di docente presso l'università di Padova e ci resterà fino al 1610. Padova era l'Università di Venezia ed è la prima Università italiana per chi viene dalle Alpi, ed è quindi Internazionale perchè accoglieva tanti studenti provenienti da tutta Europa. Venezia era lo stato Italiano più importante a livello Europeo, soprattutto dal punto di vista commerciale; basti pensare che a Venezia vi erano ben 200 tipografie; abitare a Venezia intorno al 1600 era "chic" un pò come lo è ancora oggi. A Padova c'è la libertà assoluta di ricerca e non è un caso che il primo professore a dichiararsi ateo ufficialmente nella storia sia Cesare Cremonini, Docente dell'Università di Padova. Cesare Cremonini credeva nella natura ma non in Dio; morirà a Venezia affogato per opera della Chiesa (stesso periodo della morte e la condanna di Giordano Bruno). Galileo insegnerà quindi a Padova per ben 18 anni. Durante il periodo Universitario come studente a Pisa, a Galileo gli muoiono sia la madre che il padre ed è costretto a lavorare per comprare la dote alle sorelle per farle sposare; sempre in questo periodo galileo convive (senza però sposarla) con una donna che gli darà 3 figli. Nel 1610 Galileo diventa il matematico e il filosofo del Granduca di Toscana, e le 2 figlie dello scienziato le farà entrare in un Monastero di Clausura strettissima per sempre, perchè non essendo nate da un matrimonio sono figlie illegittime; la seconda figlia non perdonerà mai il padre per averla rinchiusa senza il suo consenso nel Monastero, mentre la figlia maggiore muore nel 1633. Galileo chiederà al Granduca di Toscana di insegnare nell'Università di Firenze, e ottiene il permesso. Galileo stava diventando simpatizzante del sistema copernicano e pensa di dimostrare tale ipotesi usando come esempio le maree di Venezia, ovvero l'acqua alta nel capoluogo Veneto. Galileo, diventato famoso per le sue scoperte, ha una corrispondenza con lo scienziato tedesco Keplero; nelle lettere si scambiano idee e teorie, e uno dei principali argomenti riguarda le orbite dei pianeti, che per Galileo erano circolari, mentre per Keplero erano ellittiche (come appunto sono). Le differenze tra i due scienziati sono parecchie, come il fatto che Keplero non divulgava le sue scoperte al "mondo" ma soltanto alle piccola cerchia di scienziati, perchè riteneva che erano gli unici che le avrebbero capite; mentre Galileo sentiva il bisogno di divulgare e spiegare le sue scoperte con tutti; ad un certo punto Galileo smette questa corrispondenza con Keplero anche perché il Pisano era infastidito dal latino non proprio classifico(un po’ maccheronico) di Keplero.Droga e cyberbullismo, ecco i pericoli della scuola che spaventano i genitori italiani.
Prof senza laurea e fino al 2057 graduatorie a esaurimento, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Avanti così e nel 2057 le «graduatorie a esaurimento» dei docenti, che dovevano inizialmente esaurirsi cinque anni fa, saranno infine esaurite. Evviva. Una «svista» di decenni. Dovuta non solo all’ottimismo un po’ ganassa di alcuni protagonisti (Matteo Renzi si impegnò a settembre del 2014 ad assumere tutti «a settembre del 2015»!) ma allo sbracamento del sistema. E all’incontinente prodigalità di certi Tar. Risultato: salvo retromarce, potranno andare in cattedra migliaia di docenti mai laureati, mai passati ai concorsi imposti dalla Costituzione e spesso mai chiamati in vent’anni, neppure un giorno, a insegnare. E gli studenti che si dovessero ritrovare con maestre e professori del tutto incapaci? Auguri. Ed è da qui che bisogna partire: dal panorama attuale del corpo docente. Prendiamo la capitale. La città con più iscritti alle Gae, le famose liste destinate a svuotarsi. Scrive Tuttoscuola in una dettagliatissima inchiesta in uscita oggi che, prendendo a esempio solo le materne e le elementari, nonostante i 42/43 anni di età media degli aspiranti maestri, «tra i 6.123 iscritti nella Gae di Roma per la scuola dell’infanzia ben 4.873 docenti, pari al 79,6% del totale (circa quattro su cinque), risultano iscritti con zero punti di servizio: verosimilmente è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Mai. Eppure peggio ancora va nelle «primarie»: «Su 5.356 iscritti risultano con zero punti di servizio ben 4.916 (91,8%): nove docenti su dieci è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Rileggiamo: mai. «Docenti per caso», li chiama la rivista di Giovanni Vinciguerra. Ma un paese come il nostro, che ha solo il 26% di laureati tra i cittadini tra i 30 e i 34 anni (penultimo in Europa davanti solo alla Romania), che ha 3 docenti su cento nelle «superiori» con meno di 40 anni contro i 26 di Francia e Germania, i 43 del Belgio e i 46 del Regno Unito, che investe nella ricerca la metà della media Ocse, un terzo della Germania o della Svezia e riceve fondi competitivi su merito e qualità assegnati da Agenzie pubbliche indipendenti pari a un quarantaduesimo della Gran Bretagna, può accettare un pantano così? Come può tenere il passo, ed è una questione di vita o di morte, con un mondo che accelera e accelera e accelera? Certo, vanno capiti tutti quegli aspiranti al posto fisso, disoccupati o sotto-occupati che si sono messi in coda per entrare nel mondo della scuola. Più ancora quanti si sono ritrovati perfino impossibilitati a vincere ogni concorso perché, fossero pure dei fuoriclasse, di concorsi non ce n’erano, come tra il 2000 e il 2011. Dice la Costituzione che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso» ma, come accusa il giornale, «leggi e sentenze hanno messo all’angolo» la Carta. Intendiamoci: quando nel 2007 nacquero le «Gae» assorbendo decenni di graduatorie permanenti, furono istituite con buone intenzioni. Certo, il sistema conteneva già un principio discutibile: chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. A costo di ostruire l’accesso a nuovi docenti. Magari preparatissimi, forti di un concorso vinto, entusiasti, ricchi di fantasia. Si pensò che fosse più importante mettere un punto. Fissando questo schema: metà dei posti vacanti a chi aveva passato un concorso, metà agli iscritti alle graduatorie ad esaurimento. Per svuotare finalmente il bacino dei precari generato da un’incessante catena di sanatorie iniziate con un decreto di Vittorio Emanuele II nel 1859: «In eccezione alla regola del concorso…» Ma come smaltirli, tutti quei precari in attesa? Allargando le maglie. Al punto che le buone intenzioni sono state via via sradicate e, scrive Tuttoscuola, «la perentorietà della chiusura delle graduatorie ad esaurimento è stata violata più volte a partire dal 2008, per iniziativa parlamentare o per via giudiziaria». Con quelle famose sentenze che una dopo l’altra accoglievano un po’ tutti i ricorsi. Col risultato che non solo smaltire i «vecchi» precari si è rivelato lentissimo ma «sono stati immessi in ruolo nei vari settori oltre 215 mila docenti (50 mila da provvedimenti del ministro Fioroni, 73 mila del ministro Gelmini, oltre 90 mila nell’epoca Profumo-Giannini-Fedeli), pari a oltre un quarto degli attuali posti di ruolo». Morale: coi ritmi attuali, come dicevamo, serviranno 14 anni per esaurire le graduatorie nelle «primarie» e 41 (quarantuno!) nelle scuole d’infanzia. Certo, ricorda la rivista, si tratta di «una previsione teorica fatta “a vita lavorativa infinita”: molte insegnanti (nate a cavallo degli anni 1950-60) nell’attesa supereranno infatti il limite massimo di età per essere assunte in ruolo». Di più: sul capo di quasi la metà degli iscritti «con riserva» a queste graduatorie incombe «la decisione che il Consiglio di Stato, a sezioni riunite, assumerà nel prossimo autunno per accertare la sussistenza del requisito di accesso alle Gae». Se il verdetto sarà sfavorevole, quegli iscritti con riserva «verranno definitivamente depennati». Se sarà favorevole, un po’ alla volta gli aspiranti maestri e professori dovranno essere smaltiti tutti. Anche quelli «recuperati» con la vecchia abilitazione. Che studiarono non 18 ma solo 13 anni, che non sono laureati, non sanno l’inglese, non hanno competenze digitali, non hanno mai fatto un concorso e neppure una supplenza… E magari non aprono un libro dai tempi del diploma. E potrebbero andare in cattedra dopo aver fatto per anni il commercialista o il postino, la contabile o la cuoca. Trovandosi alle prese con materie studiate anche venti o trent’anni prima, come un diplomato al liceo che dopo decenni allo sportello di una banca dovesse tradurre l’«Anabasi» di Senofonte. Onestamente: buon per loro ma cosa potrebbero insegnare ai nostri figli? Sono rimasti così abissalmente lontani dalle aule, tanti di questi docenti «a esaurimento», spiega Tuttoscuola, che si aggirano tra di noi i fantasmi di circa 1.300 docenti introvabili. I quali sono stati immessi in ruolo ma, dopo tanti anni trascorsi a fare altre cose, non se ne sono manco accorti. «L’Ufficio scolastico regionale della Campania, ad esempio, ha emanato tempo fa un decreto con cui i nominati che non avevano provveduto a ritirare entro sette giorni il contratto a tempo indeterminato venivano considerati rinunciatari alla nomina». Macché. Desaparecidos.
Si può insegnare senza abilitazione? Scrive Maura Corrada il 2 febbraio 2017. Per diventare insegnanti, bisogna passare per l’università, il Tfa e il concorso. Ma ci sono casi in cui è possibile insegnare senza abilitazione?
Per partecipare ai concorsi e ottenere una cattedra negli istituti scolastici pubblici è necessaria l’abilitazione all’insegnamento che si ottiene attraverso la partecipazione al Tfa(Tirocinio Formativo Attivo). In altre parole, quindi, i laureati che non hanno potuto parteciparvi si trovano in una situazione di stallo e non possono accedere all’insegnamento nelle scuole pubbliche. Ciò non significa, però, che non vi siano altre strade per insegnare senza l’abilitazione.
«Mi fanno paura due cose: la povertà e rimbambire». «Quando feci l'assessore con Formentini la borghesia di Montenapo mi guardò male, solo Bocca mi difese. Allora la Lega era rivoluzionaria». Luca Pavanel, Martedì 06/11/2018 su Il Giornale. Philippe Daverio, 69 anni, alsaziano di nascita e milanese di adozione, ha vissuto tante vite in una. Gli manca solo di andare nello spazio. Critico d'arte, saggista, autore-conduttore tv, animatore culturale, politico e instancabile viaggiatore. «Quello che mi piace di più? - fa eco alla domanda il professore seduto nel suo affascinante studio tra quadri, oggetti carichi di memoria, computer - quello che sto facendo ora, scrivere un libro a favore dell'Europa». Roba da niente, insomma. Sempre avventure di un certo peso; chissà che cosa si immaginava della sua vita quand'era giovane. «Inizialmente, quando ero francese, volevo fare il funzionario pubblico. Diventato italiano ho pensato che era corretto campare. Credo alla Provvidenza e che se uno dà retta al piano di sopra la strada gli viene indicata».
Nato in Francia, si considera un immigrato?
«No, eravamo degli europei di base. In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi, mio nonno era italiano, insomma una famiglia Ue. Siamo venuti qui per una grossa operazione immobiliare a Varese fatta da mio padre».
Che ricordi ha della sua educazione giovanile?
«Ho avuto una educazione ottocentesca in un collegio episcopale (mostra la foto, ndr). Ricordo ancora una severità assoluta. Alzarsi alle 5 del mattino, ritmo di vita durissimo, ogni giorno l'obbligo di giocare per mezz'ora a football. Penso ancora a quel pallone scuro e gelido, di cuoio, che quando ti colpiva portava via un pezzo di pelle. Ma quella scuola mi ha lasciato una formazione di base con la quale ho vissuto di rendita a lungo, una bella formazione per la crapa (testa in milanese, ndr). Nella provincia francese la borghesia veniva tutta formata lì, in quel luogo».
Può dipingere un ritratto di famiglia?
«Mio padre era piccolo e napoleonico come il suo nome, Napoleone appunto, molto grintoso e totalmente lumbard; parlava in alsaziano. Un suo prozio fece le Cinque Giornate di Milano. Come carattere ho preso da papà, ma forse di più dalla mamma, Aurelia, un colonnello molto umano e con una inclinazione a difendere il gusto».
Uno come lei non può non avere un po' di sangue nobile, o no?
«C'è l'elenco dei milanesi doc del XII secolo e il nome Daverio è già lì. Perciò non ho fatto altro che andare alla radice, come un salmone che ritorna alla fonte. Sento di appartenere a Milano, e me lo dice la memoria dei cromosomi. Che mi suggerisce pure che appartengo al posto di mio nonno, Berlino».
Sembrerebbe che alle origini ci tiene proprio...
«Per evitare che questo discorso sull'appartenenza fosse una pazzia letteraria, ho chiesto a mio fratello, il meno letterato, Paul, che è uno dei più noti chirurghi plastici svizzeri. Gli ho domandato ma quando sei a Berlino come ti senti? e lui mi ha risposto: A casa. Insomma lo sa pure mio fratello che non ha letto la letteratura guglielmina».
Non solo la provenienza, nella vita contano pure scelte e bivi, ne vuole rivelare almeno uno?
«Beh, quando ho deciso di mollare gli studi. Non mi sono laureato all'università Bocconi. Mi ero rotto, non avevo più voglia di stare lì. Ero sessantottino, come me diversi miei amici anche loro sessantottini non si sono laureati. Ho dato l'ultimo esame, non la tesi. Ho deciso di fare altro nella vita».
Qual è stato il suo primo lavoro?
«Lasciata l'università mi sono messo subito a fare il mercante d'arte. Prima l'ho fatto stando a casa, subito dopo ho aperto una bottega vera e propria nel centro di Milano. Allora fare questo era una cosa facilissima».
Milano è stata almeno un po' buona con Daverio?
«Una mattina sono uscito di casa e mi sono detto voglio trovare una bottega. Avevo 27 anni, ne ho parlato con mia moglie. Quel negozio l'abbiamo cercato in Montenapo, l'ho trovato subito, ce n'era uno in affitto. La città a quei tempi offriva tante opportunità ai ragazzi, occasioni che nessuno ora si può immaginare. Adesso Milano offre decisamente meno».
Ci fa un bilancio delle sue avventure lavorative?
«Per quanto riguarda l'editoria, decine di libri scritti nel campo dell'arte. Scrivere è il modo più personale e libero per guadagnare denaro. Una persona sta in casa, apre il computer, digita i tasti e via. La sopravvivenza si fa con le dita. È un lavoro artigianale fantastico».
E quali sono gli argomenti che l'appassionano di più?
«Sostanzialmente quelli di cui mi occupo. La storia dell'arte, un po' la politica. E la musica, naturalmente. Dove lavoro e abito ci sono più pianoforti. Ho studiato e mi piace moltissimo suonare Mozart. La musica serve per calmare i nervi ed è inoltre propedeutica all'estetica, tutti i concetti di armonia sono legati alla musica».
In tutto questo che spazio hanno gli affetti?
«Sono fondamentali, senza questi una persona non carbura. Credo che la famiglia non sia una roba del tutto sbagliata. Il pregio numero uno è che rappresenta la prima struttura di solidità alla quale uno appartiene. Vengo da una famiglia enorme ma vivo in una piccolina: io, mia moglie, il figlio, la sua ragazza e poi abbiamo allargato con cinque cani».
Vissi d'arte e di famiglia, e le amicizie dove le mettiamo?
«Importantissime, quelle vere, quelle che legano al destino. Io devo gran parte della mia fortuna milanese al fatto di avere avuto tre o quattro persone, di una generazione anteriore alla mia, che mi hanno dato una mano a fare quello che ho fatto».
E se (ri)pensa alla politica...
«Come assessore leghista mi sono trovato benissimo, perché c'era un sindaco come Marco Formentini. Lui parlava francese e inglese come l'italiano. Era di ottima famiglia, suo zio aveva seguito gli scavi archeologici della Lunigiana, c'è un museo. Io sono arrivato a lui perché era molto amico dell'editore Mario Spagnol e io pure. Ai tempi amavo la forza di rottura rivoluzionaria che aveva la Lega, che ora però è diventata rurale».
I suoi amici quella scelta non l'hanno presa benissimo...
«C'è una persona alla quale ero molto legato, amico pure di mia moglie, il giornalista Giorgio Bocca. Lui mi sostenne contro tutta la buona borghesia. Perché quando feci la scelta di Formentini, la mia buona borghesia di Montenapo mi guardò male. Ma io forse per genesi francese, sono un po' giacobino».
Di cosa va fiero di quell'esperienza?
«Quando ero assessore ho lavorato anche all'idea della cosiddetta Città metropolitana, la sua genesi; un'idea che ancora oggi credo sia importante. Ho spinto tanto in questa direzione ma la cosa non è ancora sbocciata, sono convinto che nei prossimi anni succederà, ce lo chiederà l'Europa».
Cambiamo canale: dalla pubblica amministrazione alla tv...
«Ho fatto Passepartout sui canali Rai, trasmissione nata per caso e nata con uno spirito anti-televisivo che si occupava di storia dell'arte. Abbiamo dimostrato che esiste una fascia di italiani interessati all'argomento, avevamo un 5% di audience, circa tre milioni di persone. Poi, purtroppo, la televisione non si interessa a noi, le nicchie in Italia sono proibite».
Televisione o no, come speaker si trova a suo agio?
«Io faccio molte conferenze pubbliche ed lì che trovo il rapporto fisico con il lettore. In questo senso devo la mia fortuna ai quattro anni di politica che ho fatto. Prima avevo paura a parlare in pubblico. È stato come imparare a nuotare cadendo in un canale».
E nei panni del critico (o giudice)?
«Una faticaccia davvero anche se molto bella. Sono presente sia nello Strega sia nel Campiello e devo occupami di centinaia di libri ogni anno. Lo faccio ricorrendo pure a un meccanismo di annusatura dell'opera. È come negli esami all'università, si capisce subito se uno studente c'è oppure proprio non c'è».
A questo punto della sua vita, ha altri progetti?
«Assolutamente sì. Da pochi giorni sono entrato nel settantesimo anno di vita, è stato uno choc psichico ma il primo progetto che ho è quello di non rimbambire. Adesso ci sono tempi e progetti molto più brevi. Ho degli amici novantenni che sono molto svegli, per me sono un modello da seguire».
Come vede il futuro, c'è qualcosa che le fa paura o terrorizza?
«Una cosa che mi fa paura, vivendo in Italia, è la povertà. Sono molto riconoscente alla nostra sanità per le cure che ho ricevuto in passato, ma qui se si diventa poveri è una catastrofe, non ti risollevi più. So che fino a quando posso lavorare vado bene, nel caso contrario diciamo che mi potrei sentire un po' imbarazzato».
C'è qualcosa a cui non vorrebbe mai rinunciare?
«Vorrei ancora avere una possibilità di partecipare alla politica. Penso che questo sia molto importante per ogni persona. Potrei accettare una proposta in questo senso in un'unica direzione, in una sorta di europeismo riformato. Io sono fautore non dell'Europa di oggi, ma assolutamente dell'Europa sì, e la vorrei composta di cinquanta regioni, che è l'unica soluzione vera che possiamo avere».
Ma di tempo libero per sé ne ha?
«In generale no, poi c'è da dire che il tempo applicato alle cose è più bello. Se c'è da cucinare un piatto mi piace molto farlo, mia moglie mi frena perché sporco troppo le pentole. Ero legato alla cucina delle mie origini, amo gli arrosti, amo il puree, amo certe zuppe francesi. Però amo molto anche l'italianità. Senza spaghetti non si può vivere, il risotto è fondamentale».
Qualche giorno per le vacanze lo scova da qualche parte?
«I viaggi hanno un senso quando non sono solo turistici, quando dietro c'è un progetto. Una volta con sei amici abbiamo preso in affitto un rompighiaccio alle Isole Svalbard per andare al Polo Nord. Oppure apprezzo gli spostamenti che nascono per motivi di lavoro. Per esempio in Cina a fare un video, all'Avana per un trasmissione. Ancora ricordo la trasferta per la Biennale di Dakar».
Per i viaggi intellettuali e artistici lo spazio lo trova...
«Beh noi siamo sempre stati legati alla musica. Quindi in questo senso viaggi tanto. Mi piace l'opera lirica, perché è una delle identità dell'italianità. L'Italia non è un Paese fondato sul lavoro ma sul melodramma; la Germania sulla tragedia e la Gran Bretagna sull'arrivo dall'estero di forze musicali. Senza Haendel non ci sarebbero stati i Beatles. La Francia, infine, ama la musica pomposa».
Con l'opera ha mai avuto «incontri ravvicinati» di qualche tipo?
«Nel 2008 sono stato chiamato dal regista Pier Luigi Pizzi a interpretare il narratore Njegus nell'operetta La vedova allegra di Franz Lehár, in scena al Teatro alla Scala. È stata un'emozione formidabile perché sono rimasto in scena per tutta la durata dello spettacolo».
Che rapporti ha con il Teatro alla Scala?
«Attualmente sono nel consiglio di amministrazione. In verità i miei ruoli gestionali si sono svolti tutti qui, a Milano: prima a Palazzo Marino, poi mi sono occupato del Duomo e del suo museo, e ora il Piermarini, tutti luoghi che raggiungo a piedi».
Con tutte queste esperienze che cosa ha capito dell'Italia?
«A proposito ho scritto un libro. L'Italia è un Paese diverso da tutti gli altri Paesi europei, con parametri aggregativi differenti. Tutta l'Europa è monarchica, noi siamo comunali, una sommatoria di comuni. L'Italia è unita con la forchetta e con il bicchiere».
Gioco della torre: un quadro, un brano, un libro, un film che non butterebbe giù, che salverebbe...
«Per l'arte La colazione sull'erba di Monet perché riassume il passato e anticipa il futuro. Per la musica L'arte della fuga di Bach, è una costruzione colossale. Riguardo ai libri la Crocifissione rosea di Henry Miller, c'è tutta la complessità del nostro mondo moderno. Infine il film, penso a Senso di Luchino Visconti, è il più bel riassunto epico del nostro Paese».
Ultima domanda su Dio.
«Sono religioso ma non baciapile. Il rapporto col piano di sopra è fondamentale e faccio di tutto per mantenere un dialogo costante».
Da ilfattoquotidiano.it il 17 novembre 2019. “È un problema di super ego. Non posso risolverlo io, ma ci vorrebbero migliaia di psichiatri”. Con queste parole Philippe Daverio è ritornato sulla polemica contro i siciliani. Il critico nelle scorse settimane era stato protagonista di una dura polemica che era arrivata addirittura in parlamento a causa delle sue dichiarazioni contro il popolo siciliano. Oggi durante Book city Milano è tornato sull’argomento, parlando poi anche di razzismo. “L’Italia non è mai stata razzista, ma era di più. È campanilista. La politica sfrutta molto questo trend, utilizzando le forme di populismo”.
Daverio contro la Sicilia: la guerra dei borghi. Le Iene il 27 ottobre 2019. Il “borgo dei borghi” 2019, per la trasmissione tv di Raitre, è Bobbio. Il comune piacentino ha trionfato sulla siciliana Palazzolo Acreide, dopo il voto decisivo di Philippe Daverio, presidente di giuria. Peccato che Daverio, dal quale è andato il nostro Ismaele La Vardera, è cittadino onorario di Bobbio. E davanti ai nostri microfoni è andato giù pesantissimo. Bobbio, in provincia di Piacenza, è il “borgo dei borghi” del 2019. Lo ha stabilito la trasmissione di Raitre condotta da Camila Raznovich. Nulla di strano, direte voi. Peccato però che il comune in provincia di Piacenza, che ha trionfato in finale sulla siciliana Palazzolo Acreide, lo ha fatto con il voto decisivo del presidente della giuria, il critico d’arte Philippe Daverio. Perché peccato? Perché Daverio da un anno è anche cittadino onorario della stessa Bobbio. Ismaele La Vardera ci racconta l’incredibile bagarre nata dalla proclamazione di Bobbio come borgo più bello d’Italia. Il televoto del pubblico da casa, al costo di 51 centesimi per messaggio, aveva decretato la vittoria di Palazzolo Acreide contro Bobbio, per il 42% contro il 27%. Ma è bastato il voto finale di Philippe Daverio, che al comune siciliano ha dato un impietoso 0% per cento di gradimento, a ribaltare completamente la classifica. Ed è venuto giù letteralmente il mondo. E quando la Iena è andata a sentire proprio il contestatissimo presidente di giuria, lui ci ha messo il carico da 90: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo, è una patologia locale che nei secoli non ci si è mai riusciti a curare. Si chiama onfalite, è l’infiammazione dell’ombelico. Per loro tutto ciò che non è Sicilia è molto lontano, è quasi intollerabile”. Daverio ha poi aggiunto di avere paura, dopo le pesantissime critiche che gli sono piombate addosso: “Mi hanno spaventato, il tono è di minaccia e fa parte della tradizione siciliana: ho paura di tornare in Sicilia. Non la amo, non mi interessano l’arancina e i cannoli, mi piace il foie gras e bevo champagne. Il cannolo non mi piace, perché ha la canna mozza…”
Daverio in guerra con la Sicilia: “Non mi piace, mi hanno minacciato”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Il voto del presidente della giuria Philippe Daverio assegna alla piacentina Bobbio la vittoria in tv come “borgo dei borghi 2019”. Peccato che proprio lui, ex assessore leghista a Milano, sia cittadino onorario di Bobbio. E quando Ismaele La Vardera va a chiedere spiegazioni lui attacca a testa bassa: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo. Ora ho paura, sono stato minacciato”. “Mi hanno spaventato, io ho paura della Sicilia”. A parlare così è il noto critico d’arte ed ex assessore leghista di Milano Philippe Daverio. Durante il concorso su Raitre3 “Il borgo dei borghi 2019” ha dato il suo voto decisivo alla piacentina Bobbio e non a Palazzolo Acreide, in Sicilia. Il voto che ha scatenato fortissime polemiche da parte della cittadina in provincia di Siracusa, che era arrivata in finale grazie al massiccio televoto del pubblico da casa (42% contro il 27% di gradimento per Bobbio). A capo della giuria tecnica c’era proprio Daverio, che a Palazzolo Acreide ha assegnato lo zero per cento. Peccato che Daverio da un anno sia cittadino onorario di Bobbio: apriti cielo! Il presidente della commissione di vigilanza della Rai, Michele Anzaldi ha dichiarato che “i danneggiati sono i comuni che si sono trovati in questo pasticcio e tutti noi che paghiamo il canone oltre ai cittadini che hanno votato da casa”. Un televoto tra l’altro non gratis, ma che costa ben 51 centesimi a messaggio. “Sarebbe bello sapere a chi vanno questi soldi” ha aggiunto Anzaldi, che ha annunciato anche un’interrogazione parlamentare. “Mi auguro si metta fine a questa brutta pratica dei televoto che poi non vengono rispettati”. “Bobbio è un bellissimo borgo, l’Italia è tutta bella. Però io dico se facciamo questa cosa, facciamola in una maniera corretta” dice a Ismaele La Vardera il sindaco di Palazzolo Acreide, Salvatore Gallo. Quando andiamo da Philippe Daverio, lui invece ci mette il carico da 90: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo, è una patologia locale che nei secoli non ci si è mai riusciti a curare. Si chiama onfalite, è l’infiammazione dell’ombelico. Per loro tutto ciò che non è Sicilia è molto lontano, è quasi intollerabile”. Sulla presunta incompatibilità dice: “Essere cittadino onorario che vuol dire? Il diritto di opinione è sancito dalla nostra costituzione. Il televoto non è stato ribaltato, aveva già fatto vincere Bobbio”. E quando gli facciamo notare, numeri alla mano, che non è così, lui ripete: “Era esattamente ciò che dovevo fare. Porterò in Tribunale il sindaco di Palazzolo, perché è un’intimidazione sicula, bisogna stare attenti”. La Sicilia, Philippe Daverio, proprio non la ama: “Non amo la Sicilia, non mi interessa l’arancina e i cannoli, mi piace il foie gras e bevo champagne. Il cannolo? Non mi piace perché ha la canna mozza… E mi piace Bobbio. È un mio diritto. Mi hanno spaventato, il tono è di minaccia e fa parte della tradizione siciliana... Io ho paura di tornare in Sicilia”.
Borgo dei Borghi, ora Daverio chiede scusa alla Sicilia: ho generalizzato. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. Nuovo colpo di scena nella vicenda delle polemiche legate alla trasmissione di Rai Tre «Il Borgo dei Borghi». Ora il critico d’arte Philippe Daverio si scusa con la Sicilia: «Ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi». È la nuova puntata di una polemica che si sussegue da giorni, nata dopo l’assegnazione del premio al borgo più bello d’Italia a Bobbio (Piacenza), a scapito di Palazzolo Acreide (Siracusa), decisa dalla giuria tecnica che ha ribaltato l’esito del televoto. Dettaglio: presidente della giuria del programma Rai era proprio Daverio, che di Bobbio è anche cittadino onorario. A sollevare la questione era stato inizialmente il parlamentare renziano di Palermo Michele Anzaldi, componente della commissione della Vigilanza Rai, che aveva fatto un’interrogazione in Parlamento: «La Rai chiarisca se dietro il concorso televisivo non ci sia un imbarazzante caso di conflitto di interessi del presidente della giuria. Se sono stati commessi errori e ci sono state connivenze, chi ha sbagliato deve pagare». Inizialmente Daverio aveva risposto alle accuse in modo netto: «Anzaldi ha detto “chi ha sbagliato deve pagare”... Ha parlato di “connivenze”, una parola che considero intimidatoria — aveva detto —. Manlio Messina, assessore al Turismo della regione Sicilia, ha persino dichiarato: “Se un vincitore ci deve essere, desideriamo che sia la nostra Palazzolo Acreide”. Beh, la Sicilia non è al centro del mondo. La Sicilia è contro Daverio. Mi occupo da sempre dell’Italia, delle bellezze del nostro Paese, da Nord a Sud, e accusarmi di essere di parte è come delegittimare la mia professione. Non ci sto, difenderò la mia onorabilità per via legali». Ma la sua difesa aveva ulteriormente irritato i siciliani. Tanto da far intervenire addirittura il governatore Nello Musumeci: «Un atteggiamento così spocchioso ci impone come governo della Regione di rivolgerci all’autorità giudiziaria. Se poi dovessero arrivare le scuse, sarò io stesso a invitare il razzista francese nella nostra Isola». E in giornata Daverio si è dunque scusato: «Sono talvolta ingenuo — scrive il critico — e come tale, dopo una lunga giornata di viaggio e di lavoro, dopo una sommatoria di insinuazioni d’interesse mio privato lanciatomi da politici siciliani per il mio voto libero nella trasmissione dei borghi e, dopo aver ricevuto minacce d’ogni genere e anche di morte a me e alla mia famiglia mi sono trovato pure inseguito da una iena della nota trasmissione, ex candidato sindaco di Palermo, che mi ha posto una serie di tranelli. Mi ha fatto ribollire il sangue e ho sbottato come lui sperava che facessi. Non tollero i ricatti, dal Nord o dal Sud. E ho reagito in un modo ironico che ha generato confusione e da parte di spiriti malversati reazioni spropositate». E così, di fronte alle parole di Daverio, è intervenuto il sindaco di Palazzolo Acreide, Salvatore Gallo, che lo ha invitato ad un confronto pubblico: «Sarà accolto come tutti, con vera gentilezza e sensibilità. Noi non abbiamo nulla contro l’intellettuale Daverio, e gli riconosciamo notevole valenza culturale. Abbiamo solo chiesto il rispetto delle regole e che la Rai ci risponda in merito al potenziale conflitto di interessi».
Da repubblica.it il 29 ottobre 2019. "Mi scuso con i siciliani, perché ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi". Lo scrive, in una lettera aperta, il critico d'arte Philippe Daverio, dopo le aspre polemiche sollevate ieri in seguito alle sue dichiarazioni rese alle Iene in cui attaccava i siciliani dicendo, tra l'altro: "Ho paura dei siciliani". Daverio scrive anche una lunga lettera al Presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci che ieri ha preteso le sue scuse annunciando querela. "Sono talvolta ingenuo e come tale, dopo una lunga giornata di viaggio e di lavoro, dopo una sommatoria di insinuazioni d'interesse mio privato lanciatomi da politici siciliani per il mio voto libero nella trasmissione dei borghi e dopo aver ricevuto minacce d'ogni genere e anche di morte a me e alla mia famiglia, mi sono trovato pure inseguito da una iena della nota trasmissione, ex candidato sindaco di Palermo, che mi ha posto una serie di tranelli - dice Daverio - Mi ha fatto ribollire il sangue e ho sbottato come lui sperava che facessi. Non tollero i ricatti, dal nord o dal sud. E ho reagito in un modo ironico che ha generato confusione e da parte di spiriti malversati reazioni spropositate". "Al Presidente della Regione Sicilia che ha dato una intervista contro di me nella quale esige la mia espulsione dagli schermi della RAI ho scritto la seguente lettera aperta", dice Daverio. Che pubblica una lettera di Boris Vian del 1958, inviata all'allora Presidente della Repubblica francese: "Je vois envoie une lettre que vous lirez peut-être si vous avez le temps (Boris Vian 1958 al Président de la République)". "Onorevole Presidente Musumeci, mi permetto d'assumere un tono ironico per affrontare questa versione contemporanea della Secchia Rapita che ha trasformato un gioco televisivo in una farsa tragicomica nella quale Ella non ha avuto il buongusto di evitare lo scivolone - scrive Daverio - L'appello dei neoborbonici chiede che non lavori più in Rai: non si preoccupino, è da tempo che la Rai non mi vuole e ha smesso di trasmettere i miei video nei quali tra l'altro ho spesso esaltato la Sicilia, con la trasmissione su Palermo, quella sui Normanni e quella sulla presenza araba". "Ho insegnato a lungo in Sicilia e devo riconoscere con orgoglio che molti miei laureati presso la Facoltà di architettura di Palermo conservano un buon ricordo del mio operato didattico, ricambiato dalla medesima mia simpatia - dice ancora Philippe Daverio - Ho collaborato con passione all'attività del Teatro di Montevergini e ho avuto l'incarico di organizzare la festa di Santa Rosalia, una volta con successo facendo costruire il carro gratuitamente a Jannis Kounellis (purtroppo quell'opera dall'altissimo valore economico è poi marcita all'aria aperta), una seconda volta in mezzo a mille polemiche quando la scarsità di fondi restrinse la distribuzione di incarichi". "Ho polemizzato per la cattiva manutenzione degli immobili della Facoltà nella quale insegnavo ed ho subito i biasimi d'un senato accademico che non tollerava le critiche al loro membro ormai defunto che quest'edificio aveva progettato. Ho quindi più d'una volta in Sicilia litigato con dei siciliani; sono umano e sanguigno come lo erano i miei parenti svevi ed è forse la mia quota sveva che mi ha reso possibile intendere la complessità dell'animo siciliano, nel bene sempre e nel male talvolta - prosegue ancora Daverio - Ho letto con profondo disappunto la sua intervista apparsa sul Giornale di Sicilia nella quale dice: "Mi auguro che il servizio pubblico televisivo, se esistono ancora rapporti professionali con questo personaggio, li rescinda immediatamente. Se poi dovessero arrivare le scuse, sarò io stesso a invitare il razzista francese nella nostra Isola". Non posso fare altro che prenderne atto. Alla Secchia Rapita, che Ella sicuramente ha letto vista la sua nota cultura storica, Ella ha avuto l'ispirazione di aggiungere una riedizione dei Vespri Siciliani individuandomi come una replica degli angioini cacciati nel XIII secolo". "Le debbo purtroppo comunicare che sono italiano e come tale ho servito Milano da assessore per quattro anni - dice ancora Philippe Daverio nella lettera a Musumeci - sono francese per metà e per quella normativa che mi consente d'essere francese per jus soli e italiano per jus sanguinis in quanto il mio ceppo familiare lombardo (quanti sono i siciliani che di cognome fanno Lombardo!) è iscritto nella Maricula nobilium familiarum Mediolani sin dal 1377 e che mio parente fu quel Francesco Daverio, il quale a capo del partito popolare delle Cinque Giornate riportò Garibaldi in politica". "Che i neoborbonici assieme a Lei si siano inalberati non mi sorprende quindi, anzi onora sia me che i miei antenati morti per far sorgere l'Unità di quest'Italia". "La TV non è del tutto la realtà, ne è solo uno specchio, talvolta drammatico, talvolta come in questo caso oggettivamente ludico. Credo che pure il Suo ispiratore storico l'On Almirante ("il maestro della mia generazione" Ella disse) lo avrebbe capito e mi duole dover ricordare che sono ben meno razzista di quanto non lo fosse stato l'ambito ideale al quale Ella storicamente si riferisce - prosegue Daverio - Ho oggettivamente partecipato alla realizzazione d'un capolavoro: farmi dare del razzista da un seguace di colui che fu segretario di redazione de La Difesa della Razza a partire dal 20 settembre del 1938, negli stessi giorni delle leggi razziali. Le auguro di potersi emancipare da un passato che sembra incombere inesorabilmente su di Lei e assumere una percezione aggiornata della contemporaneità". "Per il resto le suggerisco di riguardare la trasmissione e si accorgerà che anche gli altri due componenti della Giuria hanno votato a favore di Bobbio: ritenere che siano stati influenzati da me è un drammatico insulto alla loro professionale competenza e alla loro rispettabilità - dice ancora Daverio - Sono l'una olimpionica con varie medaglie d'oro, la gentile signora triestina Margherita Granbassi e il geologo Mario Tozzi, il quale ha votato pure per Rotondella in provincia Matera, dove ha lavorato per anni (sarà quindi anche lui mosso da conflitto d'interesse per via del martelletto da geologo?) e per la quale ho votato pure io (c'eravamo forse messi d'accordo con dei pizzini passati sottobanco?). La cultura del sospetto e delle insinuazioni è repellente". "In seguite alle Sue dichiarazioni la mia pagina facebook è stata inondata di minacce - dice ancora Daverio - Liliana Segre sostiene che "gli hater sono persone di cui bisogna avere pena, vanno curate". Lei riceve tuttora duecento messaggi razzisti al giorno. Sono orgoglioso d'essere in sua compagnia. Ma le minacce di morte giunte a me alla mia famiglia vanno oltre ogni limite di convivenza civile. In seguito alla Sue dichiarazioni l'assessore al Turismo della Sua onorevole Amministrazione, Manlio Messina, ha dato via ad una caricatura di class action chiedendo che non possa più io lavorare in Rai. Forse un attimo di riflessione sull'articolo della nostra Carta costituzionale potrebbe tornarvi a tutti assai d'aiuto laddove l'articolo 21 recita: ½Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure". "Non mi permetterei mai di chiederLe una traccia di sense of humour ma nondimeno spero non abbia confuso una trasmissione televisiva virtuale con la realtà che Ella deve affrontare nell'ARS e che il suo collega Ansaldi dovrebbe afferrare in Parlamento. Capisco che per un politico l'inseguire l'opinione pubblica più immediata sia sempre argomento d'insuperabile fascino ma reputo che la responsabilità etica debba andare verso pensieri più elevati - dice ancora nella lettera a Musumeci - Con le minacce che mi sono pervenute mi sarà assai difficile intraprendere qualsiasi lavoro nell'isola. So bene, onorevole Presidente, che del mio lavoro da comunicatore dei Beni Culturali ad Ella non potrà importare nulla; la Sicilia è già perfetta così come è, la sua notorietà mondiale è accertata. Le vorrei solo ricordare anche l'articolo 4 della Carta, quello che recita: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". "Le scuse a tutti i siciliani le faccio con sommo piacere, e so che alcuni mi capiranno, almeno quelli non troppo suscettibili ai pizzicotti critici - dice ancora il critico - Ero stato inseguito da un giornalista insistente e molesto delle Iene, ovviamente pure lui siciliano e candidato sindaco a Palermo, dopo una lunga conferenza e in mezzo ad una ressa di pubblico. Le scuse da parte Sua non me le aspetto".
Lettera di Filippo Facci a Dagospia il 29 ottobre 2019. Caro D'Agostino, il caso vuole che io visiti regolarmente, da parecchi anni, «i più bei borghi d'Italia» citati nell'omonimo sito, e ho visto che la scelta del più bello (secondo una giuria composta anche da Philippe Daverio, che è cittadino onorario di Bobbio) quest'anno è caduta su Bobbio, come raccontato in una trasmissione di Raitre del 20 ottobre. Il caso vuole che proprio il giorno precedente alla diffusione della notizia, quella che Bobbio era stato scelto quale «borgo dei borghi», io fossi casualmente a Bobbio, appunto a visitarla e a mangiare. In serata avevo pure pubblicato su Facebook una mia foto che mi ritraeva sul ponte Gobbo: te la allego, per quel che conta. Non mi interessano le polemiche di altri borghi siciliani che erano in lizza per essere giudicati il borgo più bello, e ho visto peraltro che Philippe Daverio è stato oggetto di un linciaggio mediatico ridicolo e orribile. Però una cosa te la posso assicurare: in tutti questi anni ne ho visti veramente tanti, di borghi (anche al Sud: incredibili quelli della Basilicata) e Bobbio è in assoluto uno dei più brutti, non capisco neppure come sia finito nell'elenco. Ho letto che l'ottimo Philippe Daverio ha difeso la sua scelta e, di fronte alla sciocca accusa di essere «un razzista francese», ha precisato anzitutto di essere italiano. Non c'è dubbio.
Le Iene, Philippe Davero contro i siciliani: "Mi fanno paura, terroni che rosicano". Tutta colpa di Bobbio. Libero Quotidiano il 29 Ottobre 2019. "A me la Sicilia non piace, è abitata da terroni che rosicano". Questa uscita infelice Philippe Daverio a Le Iene ha scatenato un putiferio, con tanto di interrogazione parlamentare. Ma riavvolgiamo il nastro e proviamo a spiegare per bene l'intricata vicenda che ha indotto il critico d'arte a rilasciare tali dichiarazioni. Tutto parte dalla puntata conclusiva di Il Borgo dei Borghi, la trasmissione di Rai3 che offre la possibilità a venti paesini italiani di mettere in mostra le rispettive bellezze. C’è da decretare il borgo vincitore: il televoto premia Palazzolo Acreide (Sicilia) con il 41% delle preferenze, mentre Bobbio (Emilia Romagna) si ferma al 20%. La giuria diretta da Daverio cambia il risultato; nulla di male, se non fosse che dietro al ribaltone si nasconde un evidente conflitto d'interessi. Il critico d'arte è infatti cittadino onorario di Bobbio ed è quindi stato accusato di aver privato Palazzolo Acreide della vittoria finale per una questione personale. Intercettato da Le Iene, Daverio ha aggravato la situazione: "Non amo la Sicilia e neanche ci andrò più, visto come hanno preso la cosa. Sono spaventato, ho avvertito un tono di minaccia che fa parte della cultura siciliana". In realtà, il sindaco di Palazzolo Acreide ha accolto con ironia la decisione della giuria, promettendo la cittadinanza onoraria al critico d’arte. Quest’ultimo si è poi scusato, comprendendo forse di essersi spinto oltre il limite: "Mi scuso con i siciliani, perché ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi".
Philippe Daverio, il presidente Musumeci: “Venga in Sicilia, ma si scusi”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Il critico d’arte Philippe Daverio in tv aveva fatto vincere Bobbio, di cui è cittadino onorario, contro la siciliana Palazzolo Acreide. E quando Ismaele La Vardera è andato a chiedere spiegazioni, Daverio ha detto di non amare la Sicilia e di avere paura di tornarci. Ora gli risponde il presidente della Regione Musumeci. “Non amo la Sicilia, non mi interessa l’arancina e i cannoli, mi piace il foie gras e bevo champagne". Non la tocca piano il critico d'arte Philippe Daverio ai microfoni di Ismaele La Vardera, che lo ha cercato dopo la polemica sulla vittoria di Bobbio nel programma tv “Il borgo dei borghi 2019” per chiedergli spiegazioni (come potete rivedere nel servizio qui sopra). E ha rincarato: "Il cannolo? Non mi piace perché ha la canna mozza… Mi hanno spaventato, il tono è di minaccia e fa parte della tradizione siciliana... Io ho paura di tornare in Sicilia”. Nello Musumeci, presidente della regione Siciliana, ha affidato a Facebook la sua risposta. “Il professor Philippe Daverio ha il dovere di scusarsi con tutto il popolo siciliano, che ha offeso volutamente, con toni razzisti e con dichiarazioni calunniose. Amare la Sicilia non è un dovere, ma usarle rispetto sì. Non è tollerabile un atteggiamento così spocchioso, che ci impone come governo della Regione Siciliana di rivolgerci anche all’autorità giudiziaria. Questo disarmante pregiudizio verso la Sicilia spiega chiaramente l'epilogo del concorso sul Borgo dei Borghi, a danno di una nostra Comunità”. Musumeci, oltre a minacciare un’azione legale, si rivolge alla stessa dirigenza della Rai: “Mi auguro che il servizio pubblico televisivo, se esistono ancora rapporti professionali con questo personaggio, li rescinda immediatamente. Se poi dovessero arrivare le scuse, sarò io stesso a invitare il razzista francese nella nostra Isola: senza cannoli a canne mozze, stia tranquillo, ma con una abbondante fetta di cassata, accompagnata da un bicchierino di passito. E non è una minaccia”. Gli fa eco l'ex presidente dell'assemblea regionale siciliana Gianfranco Micciché: "Da uomo di cultura quale è, sono certo che non nutre alcun tipo di preconcetto nei confronti di noi siciliani, ma rimangono di cattivo gusto alcune sue recenti affermazioni - come si fa paragonare un cannolo ad un fucile a canne mozze? Probabilmente, un conflitto d’interesse c’è stato e a tal proposito probabilmente sarebbe stato opportuno non partecipare al voto o declinare l’invito a far parte della giuria. Professor Philippe Daverio, lei è una persona colta, intelligente e raffinata; lasci perdere i pregiudizi nei nostri confronti. Pregiudizi che fino a qualche tempo fa peraltro non nutriva. Torni in Sicilia, venga a visitare Palazzo dei Normanni, sarà mio gradito ospite. Sono certo che ne rimarrà ammaliato. Potrà anche trovare interessanti i comuni siciliani che hanno già conquistato l’appellativo di “Borgo più bello d’Italia”, come Petralia Soprana, Gangi, Sambuca di Sicilia e Montalbano Elicona". Anche Rai3 prende le distanze dalle affermazioni di Daverio, che definisce “battute e allusioni intollerabili, in contrasto con lo spirito stesso del programma al quale Daverio ha collaborato”. Nel servizio in onda la scorsa puntata vi avevamo raccontato l’incredibile vicenda del concorso tv “Il borgo dei borghi 2019”. A vincere la finale del contest, contro la siciliana Palazzolo Acreide, era stata la piacentina Bobbio, un comune che però solo un anno fa aveva nominato cittadino onorario proprio Philippe Daverio. Il televoto aveva visto in testa Palazzolo Acreide, con il 42% di preferenze contro il 27% di Bobbio, ma a ribaltare completamente l’esito della gara era stato il voto decisivo di Daverio (che a Palazzolo Acreide aveva dato lo zero per cento di gradimento). Il presidente della commissione di vigilanza della Rai, Michele Anzaldi ha dichiarato che “i danneggiati sono i comuni che si sono trovati in questo pasticcio e tutti noi che paghiamo il canone oltre ai cittadini che hanno votato da casa”. Un televoto tra l’altro non gratis, ma che costa ben 51 centesimi a messaggio. “Sarebbe bello sapere a chi vanno questi soldi” ha aggiunto Anzaldi, che ha annunciato anche un’interrogazione parlamentare. “Mi auguro si metta fine a questa brutta pratica dei televoto che poi non vengono rispettati”. Quando Ismaele La Vardera si è recato da Philippe Daverio, lui è andato giù pesantissimo: “Il siciliano è convinto di essere al centro del mondo, è una patologia locale che nei secoli non ci si è mai riusciti a curare. Si chiama onfalite, è l’infiammazione dell’ombelico. Per loro tutto ciò che non è Sicilia è molto lontano, è quasi intollerabile”.
Daverio si scusa con la Sicilia. Ma ci attacca. Le Iene il 29 ottobre 2019. Il critico d’arte Philippe Daverio, travolto dalle polemiche dopo le dichiarazioni a Le Iene sulla Sicilia e i siciliani, scrive una lettera di scuse al presidente della Regione Musumeci, che aveva annunciato querela chiedendo alla Rai di non farlo più lavorare. Ma per Daverio la colpa sarebbe nostra. "Mi scuso con i siciliani, perché ho generalizzato dicendo a tanti ciò che era destinato a pochi facinorosi". Dopo la tempesta di accuse incrociate e minacce di querela, Philippe Daverio chiede scusa, ma non perde l'occasione per puntare il dito contro di noi. Scuse nate dopo le dichiarazioni molto pesanti fatte da Daverio a Ismaele La Vardera, che lo aveva incalzato sulla vittoria di Bobbio al concorso tv “Il borgo dei borghi 2019”, dopo che Daverio (presidente di giuria ma anche cittadino onorario di Bobbio) aveva fatto vincere il comune piacentino contro la siciliana Palazzolo Acreide, ribaltando clamorosamente il televoto (come potete rivedere nel servizio qui sopra). Le scuse di Daverio, se di scuse possiamo davvero parlare, arrivano con una lunga lettera aperta rivolta al presidente della Sicilia Nello Musumeci, che come vi abbiamo raccontato aveva annunciato querela contro le gravi affermazioni del critico d’arte e che lo aveva definito “francese razzista”. Una lettera velata di ironia e di riferimenti colti, nella quale Daverio non sembra però fare alcun passo indietro. Anzi: “Onorevole Presidente Musumeci, mi permetto d’assumere un tono ironico per affrontare questa versione contemporanea della Secchia Rapita che ha trasformato un gioco televisivo in una farsa tragicomica nella quale Ella non ha avuto il buongusto di evitare lo scivolone. L’appello dei neoborbonici chiede che non lavori più in Rai: non si preoccupino, è da tempo che la Rai non mi vuole e ha smesso di trasmettere i miei video nei quali tra l’altro ho spesso esaltato la Sicilia, con la trasmissione su Palermo, quella sui Normanni e quella sulla presenza araba". "Ho insegnato a lungo in Sicilia – prosegue Daverio nella sua lettera - e devo riconoscere con orgoglio che molti miei laureati presso la Facoltà di architettura di Palermo conservano un buon ricordo del mio operato didattico, ricambiato dalla medesima mia simpatia”. E poi, sulle accuse di razzismo avanzategli da Musumeci su Facebook, aggiunge: "Credo che pure il Suo ispiratore storico l’On Almirante (“il maestro della mia generazione” Ella disse) lo avrebbe capito e mi duole dover ricordare che sono ben meno razzista di quanto non lo fosse stato l’ambito ideale al quale Ella storicamente si riferisce. Ho oggettivamente partecipato alla realizzazione d’un capolavoro: farmi dare del razzista da un seguace di colui che fu segretario di redazione de La Difesa della Razza a partire dal 20 settembre del 1938, negli stessi giorni delle leggi razziali. Le auguro di potersi emancipare da un passato che sembra incombere inesorabilmente su di Lei e assumere una percezione aggiornata della contemporaneità". E conclude così: "Le scuse a tutti i siciliani le faccio con sommo piacere, e so che alcuni mi capiranno, almeno quelli non troppo suscettibili ai pizzicotti critici. Ero stato inseguito da un giornalista insistente e molesto delle Iene, ovviamente pure lui siciliano e candidato sindaco a Palermo, dopo una lunga conferenza e in mezzo ad una ressa di pubblico. Le scuse da parte Sua non me le aspetto". Philippe Daverio accusa poi direttamente il nostro Ismaele La Vardera, dal cui incontro erano scaturite le polemiche. "Sono talvolta ingenuo e come tale, dopo una lunga giornata di viaggio e di lavoro, dopo una sommatoria di insinuazioni d’interesse mio privato lanciatomi da politici siciliani per il mio voto libero nella trasmissione dei borghi e dopo aver ricevuto minacce d’ogni genere e anche di morte a me e alla mia famiglia, mi sono trovato pure inseguito da una iena della nota trasmissione, ex candidato sindaco di Palermo, che mi ha posto una serie di tranelli. Mi ha fatto ribollire il sangue e ho sbottato come lui sperava che facessi. Non tollero i ricatti, dal nord o dal sud. E ho reagito in un modo ironico che ha generato confusione e da parte di spiriti malversati reazioni spropositate". Ci tocca però farle notare, signor Daverio, che ha fatto davvero tutto da solo. Noi ci siamo limitati a chiederle se non ci fosse una incompatibilità tra il suo ruolo di giurato e quello di cittadino onorario del comune in gara, soprattutto dopo la vittoria della sua amata Bobbio. E inoltre, ma tanto lei questo lo sa bene, non abbiamo neanche inserito nel servizio tutte le sue dichiarazioni, perché in realtà contro la Sicilia ci è andato giù ancora più pesante. Accettiamo comunque le sue scuse, a nome anche dei siciliani. E dei cannoli, che ha ingiustamente offeso. E per fare questo la invitiamo a guardare l’immagine che le manda il nostro Ismaele La Vardera
Biografia di Philippe Daverio da cinquantamila.it, il sito a cura di Giorgio Dell'Arti. Mulhouse (Francia) 17 ottobre 1949. Gallerista. Critico d’arte. Docente universitario (Politecnico di Milano, Iulm, Università di Palermo). Membro della Giuria dei Letterati del premio Campiello. Direttore di Art & Dossier. Conduttore tv (Passepartout, Raitre). Nel 2008 nominato da Vittorio Sgarbi «bibliotecario» di Salemi (99.100 volumi). «Arrivato a diciott’anni ho smesso la cravatta e son passato al papillon. È più pratico: non casca nel brodo. Adesso, però, lo confesso, è diventato una mania».
• Quarto di sei figli, papà italiano che si chiamava Napoleone e faceva il costruttore, e mamma alsaziana, Aurelia Hauss. Educazione ottocentesca dentro austeri collegi francesi. Trasferitosi con la famiglia al Sud (era Varese, per loro profondo Sud) si iscrisse a Economia e commercio alla Bocconi di Milano. Completò tutti gli esami, ma niente tesi perché «i sessantottini di ferro non potevano laurearsi».
• Cominciò quasi per caso a fare il mercante d’arte moderna e negli anni Ottanta aprì una galleria a Milano e una a New York. Dal 1993 al 1997 fu assessore alla Cultura e all’educazione del Comune di Milano.
• «Era l’esatto contrario del bocconiano tipico: triste, serio, ingessato. Lui era allegro, esuberante e già allora il suo guardaroba non conosceva il grigio. Il suo guardaroba è una festa di colori, le sue cravatte, a farfalla, un arcobaleno. La galleria d’arte divenne a Milano la galleria d’arte per antonomasia. Indimenticabili i suoi vernissage, a farne un avvenimento non era solo la qualità dell’artista ma la qualità del pubblico che vi accorreva» (Lina Sotis).
• «Gli fu proposto di diventare assessore, con un bel mazzetto di incarichi, della giunta milanese retta da Marco Formentini. Avrebbe gestito, tra un incarico e l’altro, il 52 per cento del bilancio. Solo che a bilancio non c’era molto, solo che Formentini niente temeva di più di essere accusato di sprechi e di favoritismi. A Milano si vide qualcosa che non si era mai vista. Daverio aveva molti amici. Pochi si tirarono indietro quando si trattò di dargli una mano a organizzare manifestazioni che non dovevano costare nulla» (Sandro Fusina).
• Dal 1999 fa programmi tv, con Passepartout ha ribaltato i canoni tradizionali: «Inquadriamo dettagli come la bocca o il naso. Il montaggio poi è velocissimo».
• Ha ripercorso in nove tappe la storia del seno nelle raffigurazioni artistiche. (Il primo topless, rappresentato da Carpaccio nel secondo Quattrocento, rispecchia la spinta libertaria dell’Umanesimo. Nel Rinascimento, con Michelangelo i seni sono possenti, per diventare barocchi con Rubens. Il Settecento francese lancia i corpetti: Watteau e Fragonard sono gli interpreti della libertà sessuale dell’epoca. L’Ottocento invece registra una svolta: in David e Canova il seno è libero e proporzionato, mentre all’inizio del Novecento torna piccolo nelle incisioni di Aubrey Beardsley. Nel dopoguerra è burroso, come nei celebri disegni di Alberto Vargas. Negli anni Settanta, la modella inglese, seno minuscolo, è l’icona delle ragazze che bruciano in piazza il reggiseno. Alla fine del secolo scorso, il trionfo del seno, esaltato dal push-up e ingrandito dai chirurghi) (Monica Bogliardi e Veronica Russo).
• Dal 1972 vive al fianco di Elena Gregori, bisnipote del fondatore del Gazzettino, dalla quale ebbe un figlio, Sebastiano. Per «colpa sua» si rimise a sciare e suonare il pianoforte. «Sono fermamente convinto che i figli vadano sfruttati, cioè ti possono servire a sfruttare vecchie passioni» (ad Anna Maria Salviati). Fuma il sigaro. Dichiara di bere tutto il bevibile, di farsi rifare colli e polsini delle camicie «così durano almeno vent’anni», di spendere volentieri i soldi per l’affitto di case spaziosissime dove poter camminare in lungo e in largo e far stare comodi i cani.
• Consulente artistico del progetto «Genus Bononiae» della Fondazione Carisbo nel 2011. Nello stesso anno fonda il movimento d’opinione «Save Italy», nato per sensibilizzare i cittadini alla conservazione dell’eredità culturale del Paese.
• Si dichiara un fan di San Valentino: «Noi over sessanta siamo un po’ fuori tempo massimo per San Valentino e tutto il suo corollario, soprattutto se si tratta di un festeggiamento frugale, che per meccanismo compensativo prevede forti ricadute erotiche. Approfitto e lancio un appello: se uscite per San Valentino fatevi dare una delega da chi lo snobba e festeggiate anche per loro» (a Michela Proietti) [13/2/2013].
• Gli piace moltissimo consultare Wikipedia «È come interrogare la Sibilla. Tanto più che io lo faccio nelle mie cinque lingue, e scoprire ognuna tratti lo stesso argomento in modo diverso è fantastico. Sono un wikipedista convinto. Meglio della Treccani» (ad Alberto Mattioli) [Ttl-Sta 22/11/2014].
• In un’intervista al programma Otto e mezzo ha dichiarato riguardo il MoVimento 5 Stelle: «Continua il percorso inarrestabile verso la trashologia. Grillo già un po’ mi spaventa, per un certo verso» [Huf 2/2/2014]. Per questo si è aggiudicato un pezzo sulla rubrica dissacrante Il giornalista del giorno, all’interno del blog di Beppe Grillo, che l’ha definito: «Uno squallido analista politico» [L43 2/2/2014].
• Ultimi libri: Il secolo lungo della modernità (2012), Guardar lontano veder vicino (2013) e Il secolo spezzato delle avanguardie (2014), tutti pubblicati da Rizzoli.
· E’ morto l’attore Chadwick Boseman.
Da ansa.it il 29 agosto 2020. E' morto a 42 anni per un cancro al colon Chadwick Boseman, attore statunitense protagonista nel 2018 di “Black Panther” della Marvel Comics. Boseman non aveva discusso pubblicamente della sua malattia, che gli era stata diagnosticata per la prima volta nel 2016, e aveva continuato a lavorare su grandi produzioni film di Hollywood. "È stato un onore nella sua carriera dare vita a Re T'Challa in Black Panther", si legge in una dichiarazione pubblicata sugli account social di Boseman. "È morto a casa sua, con la moglie e la famiglia al suo fianco", spiega il suo ufficio stampa. Boseman è diventato il primo supereroe nero a ottenere un suo film indipendente nel franchise da record Marvel. 'Black Panther', ambientato nell'immaginario regno africano di Wakanda, è stato adorato dalla critica e dal pubblico diventando la prima pellicola tratta da un fumetto ad essere nominata per il miglior film agli Oscar e incassando oltre 1 miliardo di dollari in tutto il mondo. All'inizio della sua carriera Boseman ha interpretato le icone nere Jackie Robinson in '42' e James Brown in Get on up. Recentemente è apparso in "Da 5 bloods" di Spike Lee e nel sequel di Black Panther previsto per il 2022.
Addio a Chadwick Boseman. È morto l’attore di "Black Panther" dei film Marvel. All'età di 43 anni è morto Chadwick Boseman, l'attore americano è stato il primo attore di colore a interpretare un super-eroe dei fumetti. Era malato di cancro dal 2016. Carlo Lanna, sabato 29/08/2020 su Il Giornale. La notizia è stata diffusa nel corso della notte. All’età di 43 anni si spegne il celebre Chadwick Boseman. Attore americano di colore, è diventato famoso per il ruolo ricoperto in Black Panther, film legato al franchise dei supereroi Marvel. È stato il suo agente, in una nota che è stata pubblicata sul profilo Twitter di Boseman, a riferire quanto accaduto. L’attore è morto a causa di una grave forma di cancro al colon che gli è stato diagnosticato nel 2016. Nonostante gli interventi, nonostante le chemioterapie, Chadwick ha continuato a recitare, incurante di tutto e di tutto. Nessuno sapeva della sua malattia, tranne gli amici stretti e alcuni membri del suo entourage. È nato nel Sud della California, e dopo aver terminato gli studi a Washington, si è trasferito a New York per cercare lavoro nel mondo del cinema e della tv. Dopo una lunga gavetta, Chadwick Boseman ha avuto il suo primo ruolo da protagonista nel 2013, nel film "42" in cui ha interpretato Jackie Robinson, il primo giocatore afroamericano di baseball. Poi l’anno successivo è stato James Brown in "Get on up", ma la consacrazione è giunta solo nel 2016. L’attore infatti ha raggiungo il successo grazie alla sua interpretazione di T’Challa in "Black Panther", eroe della Marvel. Chadwick è stato il primo attore di colore ha interpretare un personaggio dei fumetti. Il ruolo che ha ricoperto per la prima volta in "Captain America: Civil War", lo ha ripreso nel film a lui dedicato e poi anche in "Avengers: Inifity War" e in "Endgame". Di Black Panther era previsto anche un sequel, ma alla luce dei fatti, la produzione sarà costretta a cercare un nuovo attore per il ruolo. Il film che gli ha regalato il successo e che ha celebrato tutta la black culture, è arrivato anche agli Oscar del 2019, candidato persino come Miglior Film dell’anno (premio vinto poi da Green Book). Oltre a Black Panther, l’attore ha preso parte a due action movie, come "City of Violence" e "Da 5 Bloods", diretto da Spike Lee. Fiero del suo lavoro, Chadwick Boseman non ha mai smesso di ringraziare chi ha creduto in lui e nelle sue capacità. "Spero che le persone che guarderanno questo film riusciranno a conoscere l’uomo che c’è dietro l’eroe", aveva rivelato in un’intervista durante la prima del film Marvel. Ha combattuto la malattia in sordina, ma purtroppo non è riuscito a vincere la guerra.
· È morto il giornalista Arrigo Levi.
È morto Arrigo Levi, il giornalista aveva 94 anni. Il Corriere della Sera il 24 agosto 2020. Consigliere per i problemi internazionali di due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, è stato il primo conduttore professionista di un telegiornale italiano. È morto Arrigo Levi, giornalista e consigliere per i problemi internazionali di due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Levi aveva 94 anni: è stato il primo conduttore professionista di un telegiornale italiano. Prima del 1966, infatti, le notizie televisive venivano lette da speaker che non erano giornalisti. È stato editorialista del Corriere della Sera e direttore de La Stampa.
È morto Arrigo Levi, fu direttore della Stampa e consigliere di due presidenti. Pubblicato lunedì, 24 agosto 2020 da La Repubblica.it. Lutto nel giornalismo: è morto Arrigo Levi, aveva 94 anni. Nato a Modena nel 1926, fu costretto all'esilio con la famiglia nel 1942 a causa delle leggi razziali contro gli ebrei. Da Buenos Aires iniziò la carriera giornalistica che lo portò ad essere corrispondente da Mosca prima per il Corriere della Sera e poi per Il Giorno. Dopo un passaggio in Rai, tornò ai giornali come inviato e poi direttore della Stampa. È stato consigliere per le relazioni esterne del Quirinale con Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.
Lutto nel giornalismo: è morto Arrigo Levi. All'età di 94 anni si spegne Arrigo Levi. Carlo Lanna, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Il mondo del giornalismo e della politica dice addio ad Arrigo Levi, che si è spento all’età di 94 anni. È stato un giornalista e consigliere per le relazioni esterne del Quirinale per Carlo Azelio Ciampi e Giorgio Napolitano. Ha raccontato tutti i cambiamenti più importanti dell’Italia dal dopoguerra fino agli anni ’80. Arrigo Levi era tornato a casa dopo un lungo ricovero dovuto a problematiche legate all'età. "In ospedale quando aveva sentito approssimarsi la fine ha cantato l'inno d'Israele e una filastrocca modenese, legata probabilmente alla sua infanzia", ha raccontato il il direttore del Tg5 Clemente Mimun su Twitter. Al cordoglio si unisce anche Bruno Vespa: "Grande giornalista, grande servitore dello Stato, grande gentiluomo. Da direttore del Tg1 gli affidai gli editoriali durante la guerra a Saddam del '91". Nato a Modena nel luglio del 1926, Levi appartiene a una famiglia della comunità ebraica. Il padre era un noto avvocato, la madre discendeva dalla famiglia dei Donati, i primi che avrebbero portato in Italia il grano saraceno nel diciassettesimo secolo. A causa delle leggi razziali del ’42, Arrigo Levi si trasferisce in Argentina e lì comincia la sua carriera da giornalista come collaboratore de L’Italia Libera. Dopo la fine del conflitto torna in Italia. Termina gli studi universitari e si laurea in Filosofia. Poi comincia a lavorare su Unità Democratica, diventando il corrispondente per il conflitto in Negev, partecipando alla guerra arabo-israeliana. È negli anni ’60 che si consacra volto noto del giornalismo. Arriva a Mosca e da qui, per due anni, diventa il corrispondente del Corriere della Sera. Nel ’66 per la Rai conduce il tg per due anni. Torna poi alla carta stampata come direttore de La Stampa e, nel corso degli anni ’70, cura anche una rubrica per il Times in cui discute dei "problemi del mondo". Nel 1998 diventa capo editorialista del Corriere della Sera e negli anni 2000 lavora attivamente anche sul fronte politico. Il nome di Arrigo Levi è legato anche e soprattutto al mondo della tv, dato che lui è stato un vero e proprio innovatore dell’informazione per il piccolo schermo. È stato celebre per Tam Tam, Punto Sette e Emozioni in tv, dividendosi tra Rai e Mediaset. Oltre che giornalista è stato anche scrittore, pubblicando saggi critici e memoriali che spaziavano su temi di politica e società. Se ne contano più di 20. È Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana ed è vincitore del Premio Arturo-Elsa Morante. Come ha sempre dichiaratato in molte interviste la sua è stata una vita "dedicata al giornalismo".
Arrigo Levi, muore a 94 anni il grande giornalista: ha diretto la Stampa ed è stato consigliere di Ciampi e Napolitano. Libero Quotidiano il 24 agosto 2020. È morto stanotte a Roma Arrigo Levi, giornalista, scrittore, conduttore televisivo, aveva 94 anni. Era nato a Modena il 17 luglio 1926. Era a casa dopo un lungo ricovero dovuto all'età: in ospedale quando poco prima di spirare ha cantato l'inno d'Israele e una filastrocca modenese. Tra i tanti incarichi prestigiosi è stato è stato anche consigliere per le relazioni esterne del Quirinale sotto la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. I funerali saranno in forma privata a Modena nei prossimi giorni. La sua famiglia fu costretta alla fuga in Argentina dopo l'emanazione delle leggi razziali da parte del regime fascista, così la lunga carriera giornalistica di Arrigo Levi inizia nel paese sudamericano: a Buenos Aires è direttore di "Italia Libera", organo antifascista dell'emigrazione italiana. Rientrato in Italia, dal 1946 al 1948 è direttore della "Gazzetta di Modena"; dal 1951 al 1953 è corrispondente da Londra per la "Gazzetta del Popolo"; dal 1953 al 1959 è corrispondente da Roma per il "Corriere di Informazione". Dal 1960 al 1966 è a Mosca come corrispondente prima del "Corriere della sera" e in seguito di "Il Giorno". Dal 1966 al 1968 è conduttore del telegiornale Rai. Dopo essere stato inviato speciale dal 1969 al 1973 per "La Stampa", dal 1973 al 1978 è redattore capo sempre a "La Stampa", quotidiano che poi ha anche diretto e "Stampa sera". Dal 1979 al 1983 cura la rubrica dei problemi internazionale del "Times". Nel 1988 diviene capo editorialista del "Corriere della sera". Numerosi e di successo i programmi televisivi della Rai che lo vedono protagonista in veste di conduttore o giornalista: "Tam tam" (1981), "Punto sette", "Punto sette, una vita" e "Tivù tivù" (1982-1987). E ancora, il programma settimanale Rai "I giorni dell'infanzia" (1993), "Emozioni Tv" (1995) e "Gli archivi del Cremlino" (1997) di cui è anche autore con Raffaello Uboldi. Nel 1999 conduce su RaiUno "C'era una volta la Russia".
Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 25 agosto 2020. Era un leone, dietro quell'arietta mite e quel modo di parlare garbato e lievemente nasale per cui lo chiamavamo giocosamente Topo Gigio, mentre era stato uno degli eroi della prima guerra d'indipendenza dello Stato di Israele che aveva combattuto con il fucile e la macchina da scrivere. Era un uomo di stirpe. Certamente ebraica, ma più che altro piemontese, torinese per la precisione malgrado le origini emiliane e le peregrinazioni. Quella di una borghesia gentile, decisa, che ha dato tanto al giornalismo e alla letteratura, da Primo Levi e Carlo Casalegno, per dire i primi che vengono in mente. Era spiritoso, aveva un senso dell'umorismo sottocutaneo come quello di Woody Allen (vaghissima somiglianza anche gestuale) ed era sempre serio quando sorrideva senza contentarsi mai dell'aspetto superficiale di fatti e notizie. Come i migliori italiani ebrei del Piemonte (malgrado la lunga interruzione in Argentina per difendersi dalle persecuzioni) si può solo ricordare, per ceppo, il Primo Levi scrittore della Chiave a stella (prima di Se questo è un uomo) e Natalia Ginzburg (il cui padre in Lessico familiare definiva «negritudine» qualsiasi cosa incivile, parola che oggi non sarebbe permessa) anche Arrigo era due volte patriota: come italiano e come ebreo israeliano. Le note di agenzia riferiscono che in ospedale sentendosi alla fine ha fischiettato le note dell'inno di Israele. Non si tratta di una persona di genere frequente. E meno che mai con un atteggiamento che senza essere mite era rassicurante, liberale, tollerante, ma non per questo accomodante. Anzi, era elasticamente intransigente. Famoso e glorioso il suo conflitto negli anni '70 con Gheddafi, quando la Libia acquistò provocando in Italia e in Europa molta preoccupazione e anzi scandalo una quota della Fiat. Il dittatore libico, benché fortemente sostenuto dall'Italia con cui ebbe sempre un rapporto sia privilegiato che conflittuale, cercò di ottenere il licenziamento di Arrigo Levi dalla direzione della Stampa per aver pubblicato nelle pagine di Cultura una presa in giro dello stesso Gheddafi firmata dalle due star dell'umorismo Fruttero e Lucentini. Il dittatore infuriato minacciò Gianni Agnelli di boicottare e far boicottare tutti i prodotti Fiat in Libia, provocando un danno aziendale di almeno venti miliardi di lire. Levi per non mettere in imbarazzo Agnelli gli offrì le sue dimissioni cui l'Avvocato rispose con una delle sue battute più folgoranti: «Complimenti, caro Levi: da oggi è il giornalista più costoso del mondo». Gheddafi abbassò le penne e dopo non molto il suo capitale uscì dalla Fiat che tirò un sospiro di sollievo. Il Comitato dei Paesi Arabi convocato da Gheddafi disse di no al boicottaggio. Fruttero&Lucentini si divertirono moltissimo e seguitarono nei loro scritti a punzecchiare il dittatore libico senza mai passare il segno della loro micidiale buona educazione. È morto a 94 anni, con tutti gli onori del rango e i riconoscimenti che ha incassato: fra gli ultimi, quelli dei presidenti Ciampi e Napolitano che lo hanno voluto nella loro cerchia di persone con le quali è istruttivo parlare. La televisione che lui faceva, specialmente all'inizio, era molto in bianco e nero, non solo perché ancora non c'era il colore, ma perché Arrigo non aveva mai paura del grigio, del campo in cui è la parola che prevale sul gesto, persino sul fotogramma o il fermo immagine. Finché non arrivò lui al Telegiornale, i notiziari erano stati letti da speaker professionisti impeccabili dalla voce calda e senza la minima inflessione nella Rai in cui non si tolleravano parolacce né accenti da suburra. La lingua della Rai equivaleva all'inglese della Bbc (presso la quale Arrigo lavorò per un lungo periodo) che è una delle forme della lingua ufficiale. Arrigo volle il microfono per parlare direttamente agli spettatori che si trovarono di fronte, nel piccolo schermo, un omino curioso, vivo, brillante, capace di concedersi pause, sorrisi, espressioni elaborate ed altre fulminanti. Aveva vissuto a Mosca come corrispondente per molti anni e conosceva molto bene quel mondo che sapeva narrare oltre che con la solita ironia, anche con una competenza impeccabile, aggiornata sui retroscena. Aveva la passione per gli «speciali» televisivi un genere oggi pressoché estinto nella rissa continua nei talk show durante i quali si riusciva a vedere, capire, ascoltare opinioni fra loro diverse e contrastanti, esposte da persone decise ma che sapevano rispettarsi e che comunque per la presenza di Levi sapevano bene quali fossero i limiti non tanto della disciplina, quanto dell'eleganza. Era davvero un liberale, parola oggi inquinata dai tentativo di imitazione senza senso. Il suo essere liberale era l'opposto dell'equidistanza: era ben schierato, dichiarava le carte che aveva in mano, consentiva a tutti di giocare le proprie e imponeva il rispetto, adottandolo lui per primo. Oggi i television maker dovrebbero pensare ad avere il coraggio di fare in tv cose del genere di quelle che faceva Arrigo Levi, anziché farsela sotto ogni minuto con gli ascolti drogati e scioccati dalla brutalità quando non dalla violenza. Sto cercando qualche difettaccio di Arrigo, giusto per non riempire la solita lapide di encomi, sempre dovuti al morto che se ne va. L'unica cosa che non aveva era la temerarietà: la sfrontatezza da faccia a faccia. Ma non era un difetto. Quando mise le sue dimissioni a disposizione di Agnelli, che le respinse dichiarandolo il giornalista più costoso d'Italia, agiva per coraggio e con coraggio. E ricordo bene nelle piccole chiacchierate dietro le quinte, quando mi invitava a qualche dibattito, il suo sarcasmo, la sua voce tagliente, la scaltrezza, il desiderio di essere ben accetto e ben capito, ma mai accomodante.
· E’ morto Sandro Mazzinghi, mito della Boxe.
Sandro Mazzinghi, addio al mito della boxe italiana: gli epici scontri con Benvenuti e Ki-Soon Kim. Libero Quotidiano il 22 agosto 2020. Lutto nel mondo della boxe italiana e mondiale: è morto Sandro Mazzinghi, campione degli anni Sessanta. Aveva 81 anni ed è stato stroncato da una malattia fulminante. Nato a Pontedera, Mazzinghi è stato con Primo Carnera e Nino Benvenuti il più grande pugile italiano. Fratello d'arte (Guido, più grande di 6 anni, era stato bronzo all’Olimpiade di Helsinki nel 1952), diventa professionista nel 1961 e un anno dopo diventa campione mondiale dei superwelter senza nemmeno aver combattuto per il titolo italiano, battendo il detentore Dupas. Negli anni in cui i match si disputano in grandi spazi, dal Vigorelli allo Stadio San Siro, Mazzinghi entra nell'immaginario degli italiani e non solo. A dicembre ribatte Dupas nella rivincita a Sidney, poi inizia l'epico derby con Benvenuti. Nel 1964 il dramma dell'incidente d'auto in cui Mazzinghi rimane ferito e perde la moglie Vera. Nel 1965 il primo storico match mondiale contro Benvenuti a San Siro, vinto da Nino. La rivincita al Palasport di Roma a dicembre è l'evento sportivo-mondano del decennio: vince ancora Benvenuti, con verdetto contestatissimo. Per 40 anni, dopo quello scontro, Benvenuti e Mazzinghi non si parleranno più. Campione europeo dal 1966 al 1968, Mazzinghi compie un'ultima impresa riportando in Italia il titolo mondiale: a maggio, sempre a San Siro, batte il coreano Ki-Soo Kim "giustiziere" di Benvenuti. In ottobre, a Roma, lo scontro con Freddie Little, finito con l'italiano ferito e privato del titolo da Wbc e Wba. Un addio da "combattente".
Boxe, è morto Sandro Mazzinghi, storica la sua rivalità con Benvenuti: "Era un guerriero". Pubblicato sabato, 22 agosto 2020 da La Repubblica.it. E' morto a Pontedera l'ex campione del mondo di pugilato Sandro Mazzinghi, che avrebbe compiuto 82 anni il 3 ottobre. Grande rivale di Nino Benvenuti nella categoria superwelter, aveva vinto 64 dei 69 incontri disputati, di cui 42 per ko.
L'annuncio della famiglia. Mazzinghi si è spento all'ospedale in cui ricoverato da alcuni giorni, ha riferito la famiglia. La salma verrà esposta nel Santuario del Santissimo Crocefisso di Pontedera e lunedì si celebreranno i funerali nella città toscana. "Per noi oggi è un giorno triste ma non possiamo che andare orgogliosi per l'uomo, l'atleta, il campione e il padre che è stato......Ciao Babbo non ti dimenticheremo mai resterai sempre con noi e con tutti quelli che ti hanno voluto bene. La tua famiglia, David Simone e Marisa". Così la famiglia di Sandro Mazzinghi, sull'account Facebook dell'ex campione del mondo di pugilato, a poche ore dalla sua scomparsa.
Il ricordo di Benvenuti. "Per parlare di Sandro Mazzinghi bisogna trovare le parole migliori. Ci siamo battuti, sono sempre state battaglie dure, ma l'ho sempre rispettato e ora lo ricordo con affetto. La nostra è stata una rivalità come quella fra Coppi e Bartali, abbiamo diviso l'Italia dello sport"., Così Nino Benvenuti ricorda, al telefono con l'Ansa, il grande rivale scomparso. "Sul ring Sandro era un guerriero - dice ancora -, ti metteva paura, lo guardavi negli occhi e capivi che per lui c'era solo il volerti sopraffare, voleva vincere a tutti i costi. E per batterlo dovevi dare veramente qualcosa in più".
La rivalità sul ring. Nel 1965 fu sconfitto per due volte da Benvenuti per la corona mondiale dei pesi medi junior, detti anche Superwelter, ma contestò i verdetti in entrambe le occasioni e solo due anni fa i due si erano riconciliati con una telefonata del toscano al rivale mentre era ricoverato a Roma per un intervento chirurgico per calcoli alla cistifellea. (AGI)
Boxe, è morto Sandro Mazzinghi, storica la sua rivalità con Benvenuti: "Era un guerriero". Si è spento a Pontedera. Avrebbe compiuto 82 anni a ottobre. Ex campione iridato dei superwelter. Epiche le sue battaglie con l'istriano, che lo ricorda così: "Con lui battaglie due, ma ci siamo rispettati". Luigi Panella il 22 agosto 2020 su La Repubblica. Sono stati 81 anni in cui dolore, vittorie, rabbia e riscatto si sono costantemente rincorsi, come avversari in una battaglia sul ring di quelle senza appello, come piacevano a lui. Sono stati ottantuno anni di rara intensità quelli vissuti da Sandro Mazzinghi, uno dei più grandi pugili italiani di tutti i tempi. Mazzinghi se ne è andato a Pontedera, in punta di piedi, senza quei riflettori che non aveva mai amato troppo. Riportare la sua figura pugilistica solo alla rivalità con Nino Benvenuti, sarebbe non rendere merito ad una vita ed una carriera che ha vissuto molto, molto altro. Però nell'immaginario collettivo di un'Italia amante dei dualismi, quei due erano perfetti. Sandro l'antidivo, schivo, toscanaccio, sempre pronto alla polemica. Nino il divo. Bello, mediatico, insieme a Gigi Riva probabilmente il massimo sex simbol dello sport italiano degli anni sessanta. Sandro e Nino: lontani che più lontano non si può. Era da poco finita l'era dei Coppi e Bartali, Mazzola e Rivera erano due giovani già affermati ma in nazionale non facevano ancora la staffetta. Toccava alla boxe colmare il vuoto. Mazzinghi era il campione del mondo dei superwelter, aveva dato due lezioni di boxe a Ralph Dupas: la prima al Vigorelli di Milano, la seconda allo stadio di Sydney. Benvenuti era il predestinato, l'oro olimpico che aveva messo in serie il titolo italiano ed europeo ed aspettava solo di arrivare in cima al mondo. Nessun punto di contatto? Sbagliato, ce ne sono almeno due. La passione per la musica: Mazzinghi scrive due brani di buon successo, Benvenuti si esibisce in tv con un altro grande avversario come Emil Griffith. E poi i libri: sia l'uno che l'altro ne scrivono, e con vite del genere gli spunti non gli mancano...Nel primo match, un montante destro di assoluta bellezza di Nino chiuse i giochi al sesto round. Niente però in confronto al colpo da ko che la vita aveva assestato a Mazzinghi: la prima moglie era morta in un incidente nel quale anch'egli era rimasto gravemente ferito. La rivincita si disputò a Roma a pochi giorni dal Natale del 1965. Intorno al ring, un po' come succede ancora oggi negli Stati Uniti, c'era tutto il mondo dello spettacolo. Walter Chiari, Mina, Delia Scala, Aldo Fabrizi e tanti altri. Vinse di nuovo Benvenuti, soffrendo, ai punti. Mazzinghi però quel verdetto non lo accetterà mai. Cinquanta anni di polemiche, poi la riappacificazione. Benvenuti a dire il vero più volte era stato 'tenero', con tanti messaggi di pace, ed alla fine, proprio quando Nino era ricoverato dopo un malore, arrivò la telefonata di Mazzighi. Prossimamente i due dovevano essere protagonisti di un documentario sulla loro rivalità, ma il destino non ha voluto. "Sul ring Sandro era un guerriero - dice ancora -, ti metteva paura, lo guardavi negli occhi e capivi che per lui c'era solo il volerti sopraffare, voleva vincere a tutti i costi. E per batterlo dovevi dare veramente qualcosa in più", ricorda Benvenuti. "Per parlare di Sandro Mazzinghi bisogna trovare le parole migliori. Ci siamo battuti, sono sempre state battaglie dure, ma l'ho sempre rispettato e ora lo ricordo con affetto. La nostra è stata una rivalità come quella fra Coppi e Bartali, abbiamo diviso l'Italia dello sport". Ma come abbiamo detto, Mazzinghi va oltre questo dualismo. La sofferenza in una infanzia in cui la guerra aveva minato fisico e coscienza, la capacità di reagire che ormai faceva parte del suo Dna, gli servirono per ricostruirsi una carriera. Dopo le due sconfitte ci mise tre anni, ma riuscìa tornare campione del mondo. Allo stadio San Siro, battendo davanti a quarantamila spettatori il coreano Ki Soo Kim, uno che in precedenza aveva battuto proprio Benvenuti. E' ancora oggi celebrati uno dei match più duri mai combattuti in Italia. Il titolo, una nuova famiglia, la testardaggine di voler tornare sul ring a quasi 40 anni tra il '77 e il '78 per tre match senza troppo valore tecnico che però lui vinse. Restava solo quel cruccio, quel Nino, quella sconfitta mai accettata. Poi una telefonata a chiudere il cerchio. Addio grande guerriero.
Federico Pistone per il “Corriere della Sera” il 23 agosto 2020. Il pugno più amaro della vita è essere dimenticato. È stata l'ossessione di Sandro Mazzinghi, fino a ieri mattina, quando all'ospedale della sua Pontedera, a 81 anni, si è arreso quasi senza preavviso, la sua seconda sconfitta prima del limite. L'altra, dentro una carriera leggendaria - 64 vittorie su 67 incontri con 43 k.o., campione mondiale ed europeo superwelter - l'aveva incassata il 18 giugno 1965 a San Siro, di fronte a Nino Benvenuti e a 40 mila spettatori (solo perché la Curva Nord, l'unica aperta, quelli conteneva). Mazzinghi si era preso la corona mondiale due anni prima al Vigorelli distruggendo Ralph Dupas, l'australiano che rifilava testate: «Mi ha spaccato mezzo - disse il Ciclone di Pontedera grondante sangue - ma ora il campione sono io e comunque resto sempre lo stesso», rivelando le sue disarmanti motivazioni che lo avevano spinto a tirare di boxe: la guerra, la fame («Avrei fatto il ciclista ma non potevamo permetterci la bici») e il fratello Guido che lo imbucava nella sua palestra di Cascina prima di diventarne l'ombra, fuori e dentro il ring. Mazzinghi contro Benvenuti era il Bartali contro Coppi, il Mazzola contro Rivera, il Gross contro Thoeni. «Lui - diceva di Benvenuti - era lo stilista, io picchiavo», ammetteva se costretto a dare la definizione a uno dei più drammatici duelli della storia italiana, non solo sportiva. «Ma anche quando pestavo ero generoso. Io ero cuore, cavalleria, ingenuità. Benvenuti era un birbante, che non è un'offesa, ma è un termine che gli sta bene addosso», dirà a mezzo secolo da quel memorabile match perso alla sesta ripresa. Con una tragica attenuante. L'anno prima, era il gennaio 1964, in un incidente d'auto era morta la moglie Vera, che Sandro aveva sposato da nemmeno due settimane, e lui stesso ne era uscito con il cranio fracassato. Il recupero psicofisico era stato tortuoso e, quando Benvenuti lo stese al sesto round, le sue condizioni erano traballanti. Il 17 dicembre 1965 la rivincita al Palazzetto dello Sport di Roma, con una vittoria concessa ai punti a Benvenuti per una «scivolata» di Mazzinghi considerata da un giudice conseguenza di un colpo dell'istriano. Fu uno dei momenti più feroci dello sport italiano raccontata dalla faccia di Mazzinghi ridisegnata dal sangue e le bombole d'ossigeno attaccate allo sfiancato Benvenuti dopo il match. Il toscano tornò «ciclone» - lui preferiva essere definito gladiatore o guerriero «perché indicano violenza ma anche passione e pazienza» - il 17 giugno 1966 quando a Roma strappò l'Europeo al francese Leveque e, soprattutto, il 26 maggio 1968, una delle date da circoletto rosso nell'epopea sportiva italiana. Era successo che il massiccio sudcoreano Ki-Soo Kim aveva sfilato il Mondiale a Benvenuti ed era disposto a rimetterlo in palio contro il vecchio proprietario, Mazzinghi. Il match era previsto per il sabato sera a San Siro, ma a Milano venne giù il diluvio così l'avvenimento fu spostato alla domenica pomeriggio con trentamila spettatori ombrello al braccio. Alla fine grandinarono solo pugni tra due dei pugili più potenti e incassatori del mondo, 15 riprese spaventose e appassionanti, con il verdetto che restituì a Mazzinghi il titolo. Una «vendetta» a distanza nei confronti di Benvenuti, con il quale non incrociò più né guantoni né parole. Solo un messaggio che il campione toscano affidò nell'aprile 2018 a Facebook in occasione degli ottant' anni dell'«amico» Nino: «Ci siamo arrivati Tra qualche mese saranno anche i miei, un'età importante dove possiamo ricordare il passato con un po' di nostalgia per i tanti momenti di gloria e non che ci hanno accomunato, ma sempre con l'amore e l'ardore per questo bellissimo sport». Commosso Benvenuti alla notizia della morte di Mazzinghi: «È come se morissi anch' io, sul ring Sandro era il massimo, l'avversario con la A maiuscola, aveva tutto ciò che ti metteva in difficoltà». Ieri l'ultimo abbraccio firmato dalla famiglia, la moglie Marisa e i figli David e Simone: «È un giorno triste, ma non possiamo che andare orgogliosi per l'uomo, l'atleta, il campione e il padre che è stato». Domani mattina i funerali al Duomo, quello di Pontedera.
· E’ morto il brigatista Mario Marano.
Milano, morto a 67 anni Mario Marano: sparò al giornalista Walter Tobagi, poi si pentì. Militante della Brigata 28 Marzo, vicina alle Br, fu condannato per quell'omicidio. Uscì dal carcere nel 1986, partecipò al percorso di riflessione con i parenti delle vittime con la mediazione del cardinale Carlo Maria Martini. Matteo Pucciarelli il 22 agosto 2020 su La Repubblica. Insieme a Marco Barbone fu uno dei due esecutori materiali dell'omicidio di Walter Tobagi, avvenuto 40 anni fa: è morto a 67 anni Mario Marano, militante poi pentito della Brigata 28 Marzo, gruppo vicino alle Brigate Rosse. Marano, denominato "il francese", venne poi scarcerato nel 1986, scontando il resto della sua pena agli arresti domiciliari. Ex di Lotta Continua, seguì un pezzo del movimento nella deriva armata, culminate con l'uccisione del giornalista del Corriere della Sera proprio a Milano. Ma esattamente 21 giorni prima il gruppo sparò alle gambe di Guido Passalacqua, all'epoca cronista di Repubblica. Quel commando, capitanato da Barbone - il primo a pentirsi, poi anni dopo lo ritroveremo in Comunione e Liberazione - era composto da sei persone, tra le quali Paolo Morandini, figlio del noto critico cinematografico, Morando. Negli anni seguenti, grazie alla mediazione del cardinale Carlo Maria Martini, terroristi dell'epoca (tra i quali Marano) insieme ai parenti delle vittime avevano tentato di seguire un percorso di riflessione su quegli anni, guidati dalla consulenza del criminologo Adolfo Ceretti.
· E’ morto il regista Augusto Caminito.
Caminito Marco Giusti per Dagospia il 24 agosto 2020. Difficile pensare che se ne sia andato per sempre il mitico Augusto Caminito, 81 anni, qualcosa in più di uno sceneggiatore, di un produttore, di un regista. Troppo furbo, troppo intelligente, troppo affascinante per farsi etichettare in un solo ruolo dentro il mondo del cinema. Era l’unico al mondo in grado di trattare con Klaus Kinski nella fase più pazza della sua vita, e di portare a termine un film come “Nosferatu a Venezia” dopo aver perso per strada qualcosa come tre-quattro registi, Maurizio Lucidi-Pasquale Squitieri-Mario Caiano, prima di subentrare lui stesso assieme a Luigi Cozzi e a Kinski per chiudere in qualche modo un set impossibile da gestire. E lo segue anche, da produttore, per l’ancora più sofferto e fuori di testa “Paganini”, che Klaus Kinski dirigerà lui stesso in preda a un delirio artistico, mentre mette in piedi un ultimo film kinskiano per Mediaset, che caccia i soldi, che passerà solo in tv a tarda notte, “Grandi cacciatori”. E’ l’unico al mondo anche in grado di passare dalle sceneggiature per gli 007 all’italiana scritte con Paolo Bianchini e per gli spaghetti western, scritte con Fernando Di Leo a quelle scritte con Rodolfo Sonego per Alberto Sordi (“Tutti dentro”, “Io so che tu sai che io so”, “Il testimone”), per Adriano Celentano e Monica Vitti (“L’altra metà del cielo”), e infine per Paolo Villaggio (“Superfantozzi”, Professor Kranz”, “Ragionier Arturo De Fanti”). Anche quando diventa produttore, con grandi film popolari, come “Tutti dentro”, “Troppo forte” con Carlo Verdone e Alberto Sordi, legandosi a Pasquale Squitieri, “Naso di cane”, a Sergio Corbucci, “Rimini Rimini”, non perde la capacità di muoversi velocemente nel mondo del cinema da un reparto all’altro, scrittura, produzione, regia, supervisionando tutto, costruendo una squadra di giovani sceneggiatori e gagman della quale fa parte pure Robert D’Agostino, che collabora infatti segretamente a qualche suo film (quelli targati Penta). Simpatico, positivo, pronto a tutto, Caminito fin dall’inizio ha lavorato a soggetti e sceneggiature insieme a altri sceneggiatori, mettendo su con Paolo Bianchini, Fernando Di Leo, Vincenzo Dell’Aquila, Adriano Bolzoni, una specie di squadra che produce copioni quando i produttori, piccoli e grandi ne volevano davvero un tanto al chilo. Difficile capire davvero i suoi primi film da sceneggiatore. Ufficialmente il suo primo film dovrebbe essere “Il gioco delle spie” diretto da Bianchini nel 1966, seguito dal western “I lunghi giorni della vendetta” di Florestano Vancini, che scrive assieme a Fernando Di Leo. Con Di Leo scrive anche “Un poker di pistole”, “L’ultimo killer”, “Il mio nome è Pecos” e il migliore di tutti, “Ognuno per sé”, diretto da Giorgio Capitani. Caminito ricordava in ogni riunione che l’intruso era sempre il regista. “In fondo li disprezzava tutti. Ma aveva le sue idee e quando non condivideva quelle degli altri, rimaneva zitto.” Con Di Leo scrivono spesso, anche anonimamente, per Palombi e Silvestri, produttori estremamente rapidi e di non grandi pretese, come “Un poker di pistole” diretto da Giuseppe Vari. Assieme a Augusto Finocchi scrivono un western per Maurizio Lucidi, “La più grande rapina del west”. Caminito non lo amava. “Era terribile. Mi sono sempre pentito di dargli le mie sceneggiature. Finocchi era un dopolavorista delle Ferrovie dello Stato con la passione della sceneggiatura”. Con Vincenzo Cerami scrive invece il secondo film dello Straniero di Tony Anthony, una follia ambientata in Giappone, “Lo Straniero di Silenzio”, diretto da Luigi Vanzi e in segreto da Cerami. Ricordava Caminito: “Il precedente film dello Straniero, che era costato quattro soldi, distribuito in un cineclub in America aveva fatto un successo clamoroso perché era stato scambiato per un film comico. Ci andavano tutti, messicani, cinesi. Così Tony Anthony chiese a Luigi Vanzi di occuparsi del film direttamente in America e lui chiamò noi a scriverlo per due mesi a New York. Venimmo un po’ abbandonati a noi stessi, ma ci divertimmo molto. Quando mi chiesero di andare in Giappone a seguire la lavorazione mi defilai e dissi a Vincenzo Cerami di andarci lui. Fu molto contento all’inizio. Poi mi scrisse dal Giappone questo messaggio: Ti accorgi dell’importanza della tua mano sinistra solo quando te l’hanno tagliata”. Con l’amico Bianchini firma il copione di “Ad ogni costo” di Giuliano Montaldo, che avrebbe dovuto essere il secondo film di Sergio Leone per la Jolly Film. Se ci sembra di vedere un Di Leo’s touch in questi western, non sappiamo quale sia il Caminito’s Touch. Ma in un lungo pomeriggio mi raccontò di aver dato una mano a Di Leo a sistemare anche il copione del suo film da regista più famoso, “Milano calibro 9”. Probabilmente era un grande tecnico più che un creativo. Del resto è difficile trovare un film che scriva da solo. Sembra più interessato alla macchina cinema che ai generi, ai film popolari o di qualità. Lo troviamo sceneggiatore di “Barbagia” per Carlo Lizzani e soggettista e sceneggiatore di un cult come “La vittima designata” di Maurizio Lucidi, che porta però anche le firme autorevoli di Carpi e Malerba oltre alla sua e a quella dello specialista Aldo Lado. Gira con Francesco Scardamaglia una sorta di falso documentario non bellissimo, “Maschi e femmine”, che non lascia grande traccia di sé, mentre è l’ideatore e lo sceneggiatore di “Blue Gang”, curioso western alla Butch Cassidy diretto da Luigi Bazzoni, al poliziottesco “La polizia sta a guardare” di Roberto Infascelli. E’ un mondo del cinema molto fluido. Sergio Leone, per la sceneggiatura di “Il mio nome è nessuno”, chiama chiunque. Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi. Anche Caminito. “Io stesso venni sequestrato da Leone con Elio Scardamaglia e Oreste Del Buono. Ci portò in quello che pensava fosse un posto tranquillo, l’Hotel Le Dune di Sabaudia. Non sapeva che per il weekend dovevano arrivare per il loro congresso annuale 200 parrucchieri. Abbiamo costruito soprattutto delle gag. Siamo rimasti chiusi con Sergio per tre o quattro giorni. Sergio era insofferente di tutto. Non si sapeva ancora chi sarebbe stato il regista. Oreste Del Buono era vestito da gangster e lo prendevamo in giro perché gli dicevamo che aveva sbagliato film, quello era adatto a C’era una volta in America”. Ma è la collaborazione con Rodolfo Sonego e con Franco Rossi per “Porgi l’altra guancia” con Bud e Terence e “L’altra metà del cielo”, sorta di remake di “Bello, onesto, emigrato in Australia…”, che gli aprono le porte del cinema più ricco e di successo. Scrive “Il gatto” per Luigi Comencini, “Il testimone” per Jean-Pierre Mocky. E contemporaneamente civetta col cinema popolare, “Professor Kranz tedesco di Germania”, non bellissimo, “L’anello matrimoniale” di Mauro Ivaldi, “Gardenia, il giustiziere della mala” di Domenico Paolella con Franco Califano. Si lega a Alberto Sordi, sia come sceneggiatore, assieme al fido Sonego, sia come produttore, e seguirà l’operazione “Troppo forte”. Con l’amico Vittorio Caprioli metterà in piedi lo sfortunato “Stangata napoletana” con Treat Williams e Margaret Lee, un film che nessuno purtroppo vide. Negli anni ’80 si lega a Silvio Berlusconi e a Fininvest per una serie di film di alterna fortuna. E’ allora che firma un contratto di tre film da girare con Klaus Kinski e inizierà il calvario di “Nosferatu a Venezia”, che dovrà firmare lui anche se non si più bene di chi siano le inquadrature. Lo stesso Kinski se ne partirà nella notte per girare chilometri di inutili albe e imporrà di cacciare la coprotagonista, Amanda Sandrelli, perché preferiva la bellissima fidanzata di Yorko Voyagis, Anne Knecht. Per fortuna arriverà un successo come “Rimini Romini” a salvargli la carriera. Seguirà ad alternare film del tutto diversi, “L’africana” di Margareth Von Trotta a “Parika” di Tinto Brass con Debora Caprioglio, “La casa del sorriso” di Marco Ferreri, film folle dove Ingrid Thulin, sdentata, si metterà una dentiera da vampiro, il mélo “Per sempre” diretto dal brasiliano Walter Hugo Khouri con Ben Gazzara e un cast di bellezze berlusconiane capitanato da Eva Grimaldi, Gioia Scola. In tutto questo riesce a trattare perfino con l’impossibile, al tempo, Abel Ferrara e produce prima il bellissimo “King of New York” e vent’anni dopo “Pasolini” con Willem Dafoe.
· È morto Ben Cross, l’attore di Momenti di Gloria.
È morto Ben Cross, fu l’Abrahams di «Momenti di Gloria». Il Corriere della Sera il 19/8/2020. È morto Ben Cross, attore inglese di 72 anni che se non molti ricordano per il nome, quasi tutti hanno in mente per il suo ruolo dell’atleta olimpico britannico Harold Abrahams in «Momenti di gloria», film del 1981 premiato con l’Oscar. Tra le sue interpretazioni, anche quella di Sarek nel reboot cinematografico del 2009 di «Star Trek».
La carriera. «Ben è deceduto improvvisamente, dopo una breve malattia», ha fatto sapere il suo agente da Los Angeles. Nato a Londra il 16 dicembre del 1947, Cross fece il suo debutto cinematografico a 30 anni nel film di guerra «Quell’ultimo ponte» al fianco di Sean Connery e Michael Caine. Notato nel musical «Chicago», fu scelto per interpretare nel 1981 in «Momenti di gloria» l’atleta ebreo Harold Abrahams, tormentato dall’antisemitismo nella sua ricerca dell’oro olimpico nel 1924. Ricordata per la celebre canzone di Vangelis, la pellicola vinse quattro premi Oscar incluso quello per il miglior film.
Addio a Ben Cross, l’attore di Momenti di Gloria: aveva 72 anni. Notizie.it il19/08/2020. Il mondo del cinema piange Ben Cross: l'attore di Momenti di Gloria è scomparso a Vienna a 72 anni. Il mondo del cinema piange l’attore britannico Ben Cross, scomparso a 72 anni a seguito di una breve malattia. Cross aveva raggiunto la popolarità a teatro per poi approdare al cinema: il film più famoso a cui ha preso parte è senza dubbio Momenti di Gloria, del 1981. Si è spento a 72 anni Ben Cross, attore britannico che aveva interpretato il ruolo di Harold Abrahams nel film premio Oscar Momenti di Gloria. Cross si è spento a Vienna, e fonti a lui vicine hanno fatto sapere che l’attore è scomparso in seguito a una breve malattia. L’ultimo film in cui aveva recitato è stato Hurricane – Allerta Uragano (nel 2018) mentre nel 2009 aveva vestito i panni di Sarek in Star Trek. Un altro dei ruoli per cui certamente Ben Cross è ricordato è quello di Malagant, nel film Il Primo Cavaliere (1995). Nel corso della sua carriera Ben Cross aveva recitato nel musical Chicago (1978) e aveva preso parte anche a numerose fiction e serie tv (tra le tante Ice, William e Kate – Una favola moderna e Icon – Sfida al potere). La famiglia (formata dalla moglie, due figli e i nipoti) ha annunciato con un comunicato stampa la scomparsa dell’attore, rivelando che sarebbe avvenuta a Vienna: “Era un uomo che ci ha insegnato ad abbracciare i nostri sentimenti, qualunque essi siano. Siamo grati per il tempo che abbiamo trascorso con lui. Il suo spirito vive nei nostri cuori attraverso le sue parole, la sua musica e l’amore che ancora proviamo”.
· Addio all'attrice barese Mariolina De Fano.
Addio all'attrice barese Mariolina De Fano: si è spenta a 79 anni. Il ricordo di Uccio De Santis e di Decaro. Ha lavorato nel mondo del cinema e della Tv al fianco anche di Sergio Rubini. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Agosto 2020. Si è spenta all'età di 79 anni l'attrice barese Mariolina De Fano. A darne l'annuncio i familiari. Classe 1940, è stata trovata senza vita nel suo appartamento di Bari, dopo un malore. Ad allertare il 118 il fratello dell'attrice, amatissima dal pubblico per le sue partecipazioni al Mudù di Uccio de Santis, apprezzatissima a livello nazionale grazie alla fiction Raccontami, trasmessa da Rai1. Volto noto del cinema e della tv a soli tre anni, esordì sul palco del dopolavoro ferroviario teatro con una poesia scritta dal padre, Vito De Fano. Negli anni a seguire recitò in svariati episodi tratti dal libro "Cuore". Sergio Rubini, nativo di Grumo Appula, le ha affidato ruoli in diversi suoi film: Prestazione straordinaria, Il viaggio della sposa, Tutto l'amore che c'è, L'anima gemella e L'uomo nero. Uccio De Santis l'ha voluta nel cast del film Non me lo dire. Ha preso parte a numerose commedie comiche, musicali e operette, in particolare nell'ambito della sua regione nativa, nonché a film e ad episodi della fiction televisiva. Ha recitato anche in ruoli drammatici. Ha lavorato con registi teatrali come Pasquale De Cristoforo, Aldo Reggiani, Patrick Rossi Gastaldi, Lorenzo Solvetti e Augusto Zucchi, senza tuttavia ricoprire mai ruoli da protagonista. Ha interpretato il ruolo di Pomerania nell'operetta Il paese dei campanelli con Sandro Massimini (1994) ed ha recitato in Don Giovanni, di Cosimo Cinieri (1978), in Aminué Amare (significa "mandorle amare"), di Michele Mirabella (1980), ne Il caffè antico di Vito Signorile (1995). Sostituì per una decina di repliche Regina Bianchi nel ruolo di donna Emilia in Assunta Spina, avendola soltanto ascoltata dietro le quinte. Nel campo cinematografico, ha lavorato in piccoli ruoli assieme a registi quali Giulio Base, Aurelio Grimaldi, Enrico Oldoini e in Il carabiniere di Silvio Amadio (1981), in L'ammiratrice di Romano Scandariato (1983), in Fuochi d'artificio di Leonardo Pieraccioni (1997). In televisione è stata presente in emittenti televisive regionali (Telenorba), nei programmi Catene con Dante Marmone nel ruolo di "Ghitana", Mudù con Uccio De Santis e Ninni Di Lauro, e nel ruolo di "Nonna Innocenza", con il tipico accento pugliese, nella fiction Raccontami di Riccardo Donna e Tiziana Aristarco in onda su Rai Uno (2006-2008). Ha lavorato inoltre in L'uomo che sognava con le aquile di Vittorio Sindoni e in Grandi domani di Vincenzo Terracciano (2005).
IL RICORDO DI UCCIO DE SANTIS - «La grande Mariolina De Fano non c'è più. Ha fatto la storia del Mudù. Ciao Mariolina grande attrice grande donna, mi hai dato tanto, ho cercato di starti vicino il più possibile. Ci sentivamo anche 10 volte al giorno, ieri l’ultima telefonata! Perché ci hai fatto questo scherzo?», scrive De Santis su facebook.
IL CORDOGLIO DI DECARO - «Oggi Bari piange una delle donne simbolo del teatro e della comicità della nostra città. Mariolina De Fano, artista sensibile che, fin dall'inizio della sua quarantennale carriera, ha saputo conquistare la simpatia e l'affetto dei baresi», così il sindaco Antonio Decaro su Facebook. «Il suo talento e la sua professionalità la proiettarono nel panorama della cinematografia nazionale. Oggi la nostra comunità perde una delle interpreti più amate della comicità popolare, capace di incarnare la baresità con tutte le sue contraddizioni. Ciao Mariolina, Bari non ti dimenticherà».
Mariolina De Fano rip. Marco Giusti per Dagospia il 20 agosto 2020. Bari perde la sua attrice comica più cara di sempre, Mariolina De Fano, 79 anni. Popolarissima a teatro, in tv, al cinema. Presenza fissa nei film di Sergio Rubini, da “Prestazione straordinaria” a “Il viaggio della sposa”, da “Tutto l’amore che c’è” a “L’anima gemella”, ma adorata anche da Leonardo Pieraccioni, “I laureati” e “Fuochi d’artificio”, Carlo Vanzina, “E adesso sesso”, Enrico Oldoini, Aurelio Grimaldi. In tv la ricordiamo come Nonna Innocenza nella sit-com “Raccontami”, ma anche nella lunga e popolarissima serie delle “Barzellette del Mudù” di Uccio De Santis. Dette vita, assieme a Nicola Pignataro, a Gianni Ciardo, a Carmela Vincenti, a Michele Mirabella, a una stagione importante dello spettacolo pugliese, che fonderà le basi per i successi prima di Toti e Tata e poi per quello incredibile di Checco Zalone, perché questo gruppo di attori era riuscito a riportare il dialetto barese alla sua purezza lontano dagli stereotipi usati nel cinema degli anni ’50 con Guglielmo Inglese e anche da quelli di Lino Banfi che parlava una lingua tutta sua più da avanspettacolo. Favolosa sulle scene e capace di passare dal comico al drammatico, Mariolina De Fano poteva vantare un lunghissimo percorso. Nata a Bari nel 1940., a soli tre anni recitava le poesie del padre, il drammaturgo e poeta Vito De Fano, ma è solo a metà degli anni ’70 facendo coppia sulle scene con Nicola Pignataro dando vita a una stagione gloriosa di teatro dialettale barese che li vide sulle scene del Teatro Purgatorio alle prese con commedie come “U matt fesciute de Viscegghie”, “U scarpare gedezziuse”, “U cazzarizz”, che lanciò un comico come Gianni Ciardo. Una stagione che andò avanti fino agli anni ’80 fino a quando, sempre assieme a Nicola Pignataro arrivarono al cinema con film di genere come “Il carabiniere” di Silvio Amadio, il barzelletta movie “Vigili e vigilesse” di Franco Prosperi, i musicarelli “Pover’ammore” firmato da Vincenzo Salvioni, ma in realtà diretto da Fernando Di Leo, e “L’ammiratrice” di Romano Scandariato con Nino d’Angelo. Leggo sulle cronache della “Gazzetta del Mezzogiorno” della lavorazione di un misterioso “Operazione sSan Nicola”, probabilmente mai finito. Ma Mariolina De Fano recitò anche da sola, alternando comico e drammatico, “Dove siete? Io sono qua” di Liliana Cavani, “I laureati” di Leonardo Poieraccioni, “Dove sei perduto amore?” di Gianni Minello, per poi arrivare alla serie di film diretti e interpretati da Sergio Rubini, da Vanzina, alle serie tv. Nella sua lunga carriera vediamo anche un “Don Giuan” in barese con Gianni Ciardo diretto da un attore di scuola beniana come Cosimo Cinieri, l’operetta con Sandro Massimini, “Il paese dei campanelli”, una “Assunta Spina” al posto di Regina Bianchi. Ma fu con la moda dei film girati in Puglia che Mariolina ebbe una nuova vitalità. La troviamo in film davvero diversi, da “Chi mi ha visto?” di Alessandro Pondi con Beppe Fiorello e Pier Francesco Favino a “Pane e burlesque” di Manuela Tempesta a “Non me lo dire” di Vito Crea con Uccio De Santis. Inutile dire che la presenza di Mariolina De Fano spesso illuminava questi film non sempre così rigorosi nell’uso del dialetto pugliese né spesso così divertenti.
· E’ morto il giornalista Stefano Malatesta.
Paolo Mauri per ''la Repubblica'' il 16 agosto 2020. Stefano Malatesta ci ha lasciato: aveva da poco compiuto gli ottant' anni, segnato da una lunga battaglia contro il Parkinson. Mi aveva ancora telefonato qualche settimana fa per propormi di andare insieme a visitare la casa di Giovanni Pascoli. Poi tutti e due avevamo aggiunto che forse era meglio aspettare che la pandemia si affievolisse un po' di più. Laureato in Scienze politiche, aveva scoperto presto d' essere nato per fare il giornalista, misurandosi con la cronaca nera e poi con gli scenari della politica internazionale: Panorama lo mandò a seguire il golpe di Pinochet in Cile. Quando approdò a Repubblica continuò per qualche tempo a fare l' inviato di Esteri (Iran e Iraq, tra le altre cose) passando poi al reportage culturale. «Sono il vendicatore! », annunciava ridendo quando entrava in redazione, alto e biondo, spesso con un foulard annodato al collo, e spiegava che lui, lavorando in modo piuttosto piacevole, vendicava, per così dire, i redattori costretti a un lungo orario d' ufficio. Quando era ancora molto giovane fece un viaggio da Roma alla Sicilia in Lambretta, con una ragazza, se non ricordo male, svedese. Avevano pochi soldi e dunque dormivano in spiaggia. Fu lei ad insegnargli che bisognava, la sera, accendere un fuoco e poi coprire i carboni con la sabbia che diventava così un letto caldo, molto confortevole. Malatesta aveva girato il mondo e lo aveva raccontato da grande inviato, ma ad un certo punto il centro dei suoi interessi divenne la Sicilia: un mondo pieno di storie e di personaggi. Era diventato molto amico di Camilleri, prima che, grazie a Montalbano, diventasse così popolare. Fu Stefano il primo a parlarmi di Gesualdo Bufalino che Sellerio stava per pubblicare. Era stato alle Eolie e aveva raccolto dalla viva voce dei pescatori mille storie poi raccolte in un libro, Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani . Fu, credo, il barone Borsellino a fargli comprare per poco un vecchio baglio in disarmo dalle parti di Sciacca e precisamente a Borgo Bonsignore, dove sfocia in mare il fiume Platani. Divenne la sua casa per le vacanze, e, soprattutto, un osservatorio privilegiato. Lo affascinava la Sicilia dei Gattopardi e ne cercava i segreti, magari chiacchierando con Sciascia o con Elvira Sellerio. Scovò a Enna un collezionista di monete antiche che aveva accumulato in casa una serie infinita di "pezzi" rari. E lo attirava il folclore siciliano. Una volta trovò, non so dove, un proverbio che suonava più o meno: futtiri in piedi e camminari dint' a rina conducono l' uomo alla rovina. Interpellato, Camilleri gli disse: «Malatè, certi proverbi li sai soltanto tu!». Col tempo e, complice la frequentazione del critico d' arte di Repubblica Giuliano Briganti, Stefano si era sempre più appassionato a quel mondo: tra l' altro si era anche messo a dipingere, con risultati niente male, testimoniati da diverse mostre. Faceva dunque volentieri le cronache d' arte, viaggiando non più per deserti o paesi in guerra, ma per gallerie e musei. E anche quel mondo era pieno di personaggi affascinanti. Uno, per esempio, era il restauratore Pico Cellini, cui Malatesta dedicò più di un pezzo nel quale raccontava le prodezze dei falsari che Cellini, diceva, gli aveva a sua volta narrato con ricchezza di particolari. Da una famiglia romana di falsari era uscita una perfetta biga "antica" che a Londra fu esposta in pompa magna. Cellini sapeva tutto dei materiali e una volta, in contrasto con Bianchi Bandinelli, dubitando di una stele di marmo che era stata in qualche modo "riscoperta", si era avvicinato durante l' inaugurazione della mostra e sfuggendo ai carabinieri in alta uniforme, aveva letteralmente leccato il marmo. Arrestato e quasi subito rilasciato, era poi stato invitato dal soprintendente Bianchi Bandinelli a casa sua perché spiegasse quel suo gesto inconsueto. E lui, che non aveva una laurea e nemmeno un diploma di scuola media, aveva disquisito davanti agli esperti degli acidi che i falsari usano per trattare il marmo. Acidi che però hanno il vizio di risalire in superficie: ed ecco il perché della lingua: si trattava proprio di "assaggiare" quel marmo. La stele, Bianchi Bandinelli si era alla fine convinto, fu accantonata. In realtà credo che quella storia, Stefano l' abbia saputa non da Cellini direttamente ma da altri testimoni, quando Cellini non c' era più, ma era troppo bella per lasciarla nella penna. Roma, la città in cui era nato e cresciuto, era stata l' altra grande passione di Malatesta e in un libro aveva ricordato una Roma paradiso, non ancora preda del turismo di massa e dei B&B. In questo incrociava volentieri i ricordi con quelli dell' amico poeta Valentino Zeichen, che in qualche modo aveva adottato Roma e, per così dire, pattugliava i luoghi storici come una sorta di sentinella volontaria. Neri Pozza ha oggi in catalogo diversi libri firmati da Malatesta. Il titolo di uno di questi, Il cammello battriano , che era dedicato alla Via della Seta sulle orme di Marco Polo, è anche diventato l' insegna di una collana da lui diretta e sempre destinata ai libri di viaggi. E ancora ai viaggi era dedicato un festival da lui diretto. Ma è stato, Stefano, anche un grande esperto di battaglie soprattutto antiche e ne aveva scritto a lungo (c' è un libro che raccoglie quei pezzi, uscito nel 2017). Diversi anni fa, tornando dal Mali, aveva accusato dei problemi di salute. Mi hanno stregato, diceva tra il serio e il faceto. Comunque fece i conti con un periodo di depressione e più in là pensò che il Parkinson avesse attinenza con quell' episodio. Ma non si è mai arreso alla malattia. E ha combattuto col sorriso sulle labbra e sempre con un nuovo progetto in mente. Addio, caro Stefano.
· L’attrice Linda Manz rip.
Linda Manz rip. Marco Giusti per Dagospia il 16 agosto 2020. “Meglio bruciare che svanire?” E’ la frase di una canzone di Neil Young che Linda Manz, protagonista ribelle di “Out of Blue” di Dennis Hopper si ripete come un mantra. Già bambina prodigio e narratrice ne “I giorni del cielo” di Terrence Malick, teenager ribelle alla James Dean in “Out of the Blue”, madre in “Gummo” di Harmony Korine, il cinema perde oggi a soli 58 anni Linda Manz, incredibile attrice di culto americana che da anni si era ritirata a vita privata. Lontana da Hollywood, da New York. Lontana da qualsiasi desiderio di cinema. Proprio l’anno scorso Chloë Sevigny, che stava girando nel veneto la nuova serie di Luca Guadagnino, “We Are Who We Are”, aveva presentato al Festival di Venezia di “Out of Blue” di Dennis Hopper, che lei stessa aveva contribuito a far restaurare iniziando una raccolta fondi che aveva rilanciato il film. "Per quanto riguarda la recitazione”, disse Chloë Sevigny, “mi piacerebbe fare una carriera come Linda Manz. È la mia attrice preferita. Ha fatto tre film e sono tutti capolavori, tranne The Wanderers. Adesso vive in un parcheggio per roulotte con tre o quattro bambini, credo. Ma preferisco fare tre capolavori piuttosto che fare dieci film tutti scandenti e guadagnare milioni di dollari". Nato come piccolo film giovanile canadese, “Out of Blue”, passato nelle mani di Dennis Hopper, interprete, regista e sceneggiatore, diventa ben altra cosa. Costruito su una canzone di Neil Young, offriva a Linda Manz il ruolo di Cebe, una ragazzina che deve affrontare il fatto che il padre, Dennis Hopper, appena uscito di prigione, abbia ucciso con una manovra sbagliata in auto molti bambini della loro città che stavano su un autobus. E deve affrontare il fatto che oltre a suo padre l’abbiano lasciata per sempre anche Johnny Rotten e Elvis. La Sevigny, pazza del film e del ruolo di Cebe, aveva addirittura comprato da Linda Manz la giacchetta blue con la scritta Elvis che aveva l’attrice nel film. Nata e cresciuta a New York, padre mai conosciuto, madre che lavorava nelle pulizie alle Twin Towers, Linda Manz aveva esordito nel cinema proprio con il ruolo della sorellina di Richard Gere, Linda, in “I giorni del cielo”. Malick la scelse tra centinaia di ragazzine. "Linda”, disse, “è il cuore del film. Era una sorta di bambina di strada che avevamo scoperto in una lavanderia a gettoni. Per il ruolo, avrebbe dovuto essere più giovane, ma non appena le ho parlato, ho trovato in lei la maturità di una donna di quarant'anni, non giudicante e lasciata alla propria immaginazione, aveva le sue idee che le davano l'impressione di aver realmente vissuto questa vita invece di dover inventare e giocare dentro un'altra”. Malick si era così innamorato di lei che, non riuscendo a fare una voce fuori campo credibile del film, la affidò a lei, che commentava a modo suo le immagini che vedeva e la storia. 60 ore di nastri registrati con la sua voce…. “Sono contento che sia la narratrice. La sua personalità traspare nel film. Ogni volta che le ho dato nuove battute, le ha interpretate a modo suo; quando si riferisce al paradiso e all'inferno, dice che tutti noi stiamo bruciando fra le fiamme. Questa è stata la sua risposta al film il giorno in cui ha visto le riprese. Quel suo commento è stato incluso nella versione finale. Linda ha detto così tante cose che temevo di non essere in grado di mantenerle tutte...". Anche se non era mai parsa davvero interessata a fare l’attrice, era più il desiderio della madre fargliela fare, grazie al successo del film di Malick, venne chiamata da altri registi. La troviamo due anni dopo in “The Wanderers” di Philip Kaufman come Peewee, assieme a Karen Allen e Ken Wahl, un film che andò anche in concorso a Venezia. La troviamo poi nella sitcom “Dorothy”, in un piccolo ruolo di gangster in “Boardwalk” di Stephen Verona con Ruth Gordon, Lee Strasberg e Janet Leigh, nel televisivo “Orphan’s Train”, prima di arrivare, nel 1980, a “Out of the Blue” di Dennis Hopper. La sua Cebe cerca di superare i disastri della sua famiglia, madre drogata, padre assassino irresponsabile, ascoltando Elvis e la musica punk (“Il solo adulto che ammira è Johnny Rotten” è la frase di lancio del film). Il film viene lanciato a Cannes nel 1980, dove come ricordava il celebre critico Roger Ebert "ha causato un notevole scalpore e [Linda] Manz è stata menzionata come una delle migliori attrici. Ma in Nord America, i produttori canadesi del film hanno avuto difficoltà a trovare una distribuzione, e il film è scivolato via nel nulla". Eppure il film ha presto un culto che nessuna distribuzione gli avrebbe dato. Il gruppo rock scozzese Primal Scream scrivono nel 2000 un pezzo, “Kill All Hippies”, ripreso dai dialoghi della Cebe di Linda Manz, "Destroy! Kill all hippies! Anarchy! Disco sucks! Subvert normality!". Anche se preferiva la disco alla musica punk, ha detto che il personaggio di Cebe era lei, “Credi che sono sempre una piccola ribelle. Una sopravvissuta, ecco potete chiamarmi così…” Il suo film successivo, “Longshots” di E. W. Swackhamer con Leif Garrett, è decisamente meno interessante. Finisce in un film d’arte ispano-tedesco, Mir reicht's - ich steig aus di Gustav Ehmck, poi in un episodio, “The Snow Queen”, diretto da Peter Medak, della curiosa serie tv di favole girate da registi importanti, “Faerie Tale Theatre”. Ma nel 1985 incontro un operatore alla macchina, Robert Guthrie, si sposano e tutti e due lasciano il cinema per vivere insieme con i loro tre figli. Perché? Una delle sue risposte a un giornale negli anni ’90 fu "C'erano un sacco di nuovi giovani attori là fuori, e mi stavo perdendo nel caos", ha detto. “Così mi sono rilassata e ho avuto tre figli. Ora mi piace stare a casa e cucinare la zuppa”. La vita sociale da star, del resto, non le era mai piaciuta. Ritornerà al cinema solo per due ruoli importanti, in “Gummo” di Harmony Korine, dove è la mamma di un ragazzino, Solomon, e dove incontra Chloe Sevigny, e in “The Game” di David Fincher, dove è la compagna di stanza della protagonista Deborah Kara Unger. Ma gli ultimi anni della sua vita, da madre e da nonna, non devono essere stati perfetti. E’ morta di polmonite e di tumore ai polmoni. “Meglio bruciare che svanire?”
· E' morto Cesare Romiti.
Cesare Romiti, è morto a 97 anni lo storico manager della Fiat: da Agnelli alla crisi, capolavori ed errori del "Dottore". Libero Quotidiano il 18 agosto 2020. Addio a Cesare Romiti, storico manager della Fiat di Gianni Agnelli. Malato da tempo, è scomparso a 97 anni. Era stato l'ex direttore di Lettera 43 Paolo Madron, sabato scorso, ad annunciare via Twitter la sua agonia. "Sta lottando come un leone ma si sta spegnendo", aveva scritto il giornalista, tra i massimi esperti del mondo Fiat. Romiti ha trascorso al Lingotto 25 anni pesantissimi, dal 1974 al 1998, diventando prima amministratore delegato e poi presidente. A lui l'Avvocato e la famiglia avevano lasciato le redini dell'azienda dal 1980, forte del sostegno di Enrico Cuccia, il grande vecchio della finanza italiana. Momento chiave della sua esperienza la famosa Marcia dei colletti bianchi, i quadri Fiat che scendono in piazza a Torino nel 1980 per protestare contro gli scioperi dei sindacati in un momento di grave crisi economica. Vincono gli impiegati, vince l'azienda, vince Romiti. E la Fiat con lui inizia a volare, ma il coinvolgimento in grandi affari finanziari estranei al mondo delle quattro ruote, per stessa opinione del "Dottore", è stata anche la causa del dissesto finanziario degli anni Duemila, pre-Marchionne. Un'altra storia.
Morto Cesare Romiti, il manager che ha fatto la storia dell’economia. Notizie.it il 18/08/2020. Uomo di assoluta fiducia e talvolta alter ego di Gianni Agnelli: è morto a 97 anni Cesare Romiti. Il grande manager romano aveva 97 anni. Storico amministratore delegato della Fiat e protagonista del capitalismo italiano, con lui se ne va un capitolo fondamentale della storia dell’economia del nostro Paese. È morto a 97 anni il grande manager Cesare Romiti. In Fiat, infatti, Cesare Romiti ha trascorso 25 anni. Dalla Capitale arriva a Torino in piena crisi petrolifera. Era il 1974. Abbandonerà gli stabilimenti Fiat solo ne 1998 dopo esserne stato amministratore delegato e presidente. Per lui nutriva grande stima Enrico Cuccia, patron di Mediobanca, che lo consiglia alla famiglia Agnelli. I due si erano conosciuti durante la fusione tra la Bomprini Parodi Delfino e la Snia Viscosa. Il manager romano vantava la piena fiducia di Gianni Agnelli, del quale era talvolta l’alter ego. Romiti arriva nel capoluogo piemontese dopo esperienze nella chimica e nel mondo delle Partecipazioni statali, dove guida le costruzioni Italstat e Alitalia, oggi al centro del dibattito pubblico. Romiti nel 1975 viene nominato amministratore delegato per al parte finanziaria della Fiat. Deve dividere la carica con Umberto Agnelli e con Carlo De Benedetti, il quale era in astio con il manager romano. Sarà De Benedetti a lasciare la Fiat, solo 100 giorni dopo la nomina di Romiti. Solo un anno dopo, nel 1976, conduce con Agnelli l’ingresso della Lafico nel capitale del gruppo automobilistico. Nel 1980 c’è Romiti dietro la Marcia dei quarantamila che il 14 ottobre invade piazze e corsi di Torino con i “quadri Fiat” per la prima volta in corteo, chiedendo di tornare a lavorare. Nel 1996 Gianni Agnelli passa la presidenza a Romiti, che la manterrà fino ai 75 anni, cioè fino al 1998. Coinvolto nelle indagini di Mani Pulite, nel 1993 viene interrogato dal pool di Milano e poi dai magistrati torinesi, fa ammissioni importanti, ma dichiara di essere all’oscuro di quanto accadeva sotto di lui. Nel 2000 la Cassazione conferma a Romiti una condanna per falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti e frode fiscale. Tuttavia, nel 2003, la condanna per falso in bilancio viene revocata dalla Corte d’Appello di Torino. Affiancato dai due figli nell’editoria e nelle costruzioni, i risultati non saranno brillanti. Romiti guarderà poi a Oriente, dedicandosi alla Associazione Italia-Cina. Non mancherà la nostalgia per gli anni trascorsi tra gli stabilimenti della Fiat. Da parte di Romiti non mancheranno giudizi a volte critici sull’operato dei successori, tra i quali Sergio Marchionne, morto all’età di 66 anni.
Addio a Cesare Romiti, manager Fiat: 25 anni alla guida dell'azienda. Cesare Romiti, l'uomo che ha guidato la Fiat per quasi 25 anni, è morto oggi all'età di 97 anni. Francesco Curridori, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale. È morto l’uomo che ha amministrato la Fiat per 25 anni. Cesare Romiti, l’uomo scelto dalla famiglia Agnelli per guidare la principale casa automobilistica italiana, è stato molto di più di un semplice dirigente d’azienda.
La difficile infanzia di Cesare Romiti. Romiti nasce a Roma nel ’23 in una famiglia di umili origini. Il padre, Camillo, impiegato alle Poste, muore nel ‘41 mentre la madre, che non lavorava, cresce tre figli con la sola pensione da vedova. “Un giorno arrivò la voce che in stazione c’era un treno abbandonato carico di farina. Corsi più veloce che potei, da san Giovanni alla Tiburtina. Era vero. La farina che portai a casa fu accolta come manna. Per vivere ho fatto ogni sorta di lavoro, anche i più umili”, racconterà Romiti che non ha mai mostrato rimpianto per quel periodo della sua vita. “Ero pieno di progetti. Ero indeciso fra tre idee. Il primo sogno era quello di fare il segretario comunale in un paese piccolissimo, il più piccolo possibile. Il secondo di fare il direttore d’orchestra: in realtà non sapevo molto di musica ma mi affascinava questa figura con la bacchetta che riesce a dirigere tanti uomini. Il terzo era fare il farista. Guardiano del faro. Vado matto per i fari. Ecco, questi erano i sogni. Non son riuscito a realizzarne uno”, confesserà parecchi anni più tardi.
La carriera “pre-Fiat” e l'incontro con Enrico Cuccia. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali lavora prima come impiegato di banca e, poi, viene assunto dalla Bombrini Parodi Delfino, una società di Colleferro, in provincia di Roma di cui diventa direttore generale. Qui, nel 1968, si occupa della fusione di questa azienda attiva nel settore chimico-tessile con la Snia Viscosa e assume l’incarico di direttore generale finanziario della nuova società. In questa occasione conosce Enrico Cuccia che lo aiuterà a entrare nel gotha della finanza italiana. Romiti lo descriverà come un: “personaggio affascinante. Unico. Apertissimo. Un azionista antifascista che aveva la moglie che si chiamava Idea Socialista e una cognata di nome Vittoria Proletaria. Un uomo intellettualmente interessato a tutto, che trattava coi grandi della finanza ma era pieno anche di amici di sinistra”. Nei primi anni ’70 arriva la nomina ad amministratore delegato dell’Alitalia da parte dell’Iri.
I 25 anni di Romiti alla Fiat. Nel 1974 entra in Fiat e due anni dopo ne diventa amministratore delegato insieme a Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti con il quale Romiti non ebbe mai un buon rapporto tanto che, dopo soli tre mesi, l’ingegnere se ne andò. “Quando entrò al Lingotto pensò di poterla fare da padrone assoluto. In cento giorni voleva cambiare tutto, comandare. Ma mi accorsi che certe sue operazioni non mi convincevano”, rivelerà Romiti. Sono “gli anni di piombo” in cui chi lavorava in Fiat rischiava di essere gambizzato e i conflitti con i sindacati erano all’ordine del giorno ma, sotto la sua guida, la Fiat cresce sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Nel 1980 Gianni e Umberto Agnelli lasciano a Romiti tutta la responsabilità operativa dell’azienda che, in seguito, ammetterà: "In Fiat ho avuto praticamente carta bianca per venticinque anni". Nello stesso anno lo stabilimento di Mirafiori subisce uno stop di 35 giorni di scioperi che si interrompe solo dopo la cosiddetta “marcia dei 40mila”, ossia quella dei colletti bianchi che costringono i sindacati a chiudere la vertenza. Gli anni ’80 sono contrassegnati da un grande sviluppo economico sia per l’Italia sia per la Fiat dove Romiti instaura un ottimo rapporto con ‘l’ Avvocato’. “Quando ho lavorato con Giovanni Agnelli – ricorderà Romiti – non ci siamo mai dati del tu, in tutti i 25 anni e ci vedevamo praticamente tutti i giorni. Un giorno ce lo siamo detti. In Fiat tutti si davano del lei era anomalo darsi del tu, a Torino. Mi disse ‘veda Romiti, lei se ne è accorto che continuiamo a darci del lei, io penso che sia più intimo e affettuoso del tu’. Volevo bene ad Agnelli, eravamo amici ma non ce lo siamo mai detti”. Con lo scoppio di Tangentopoli anche Romiti finisce nel tritacarne della magistratura proprio nel biennio (’96-’98) in cui assume la presidenza della Fiat. “Quando i giudici di Torino vollero indagare anche loro” su Tangentopoli, “erano un po’ invidiosi dei risultati raggiunti perché i giudici di Milano erano arrivati prima”, dirà Romiti con una punta di malizia. E aggiungerà: “L’episodio dell’accusa di Tangentopoli per me si è risolto con assoluzione completa. Io sono stato processato a Torino, perché avevo collaborato con i giudici di Milano che erano i più famosi, come Di Pietro, Borrelli e Davigo”.
Gli ultimi anni di vita. Nel ’98 lascia la Fiat ricevendo una liquidazione da 196 miliardi di lire e rifiuta l’offerta di Berlusconi di lavorare per le sue aziende. Nel libro-intervista, Storia segreta del capitalismo italiano, scritto da Paolo Madron, Romiti spiega così il suo no al Cavaliere: “Non credo che con un padrone accentratore come Berlusconi avrei avuto grandi margini di manovra”. Romiti, poi, come liquidazione, chiede ad Agnelli la possibilità di acquistare una quota della società finanziaria Gemina che controllava Rizzoli-Corriere della Sera e, in seguito, nel biennio 2005-2007 assume la presidenza della società di costruzioni Impregilo. Romiti, dopo il suo addio ha sempre evitato di parlare della Fiat. “Non è più un’azienda italiana”, si limiterà a contestare la scelta di nominare soltanto dirigenti stranieri per il dopo Marchionne.
A lungo fu uno degli uomini più potenti del Paese. Morto Cesare Romiti, braccio destro di Agnelli e storico manager di Fiat. Redazione su Il Riformista il 18 Agosto 2020. La sua carriera da manager resterà per sempre legata ai 25 anni passati in Fiat, dal 1974 al 1998, dove è stato amministratore delegato e presidente, vero “braccio destro” di Gianni Agnelli. Cesare Romiti è morto oggi a 97 anni, compiuti lo scorso 24 giugno, dopo aver fatto la storia dell’economia italiana. Nato a Roma nel 1923, Romiti si laurea in Economia nel 1945 e arriva a Torino nel 1974, dopo anni trascorsi tra incarichi presso istituti bancari italiani e stranieri e diverse esperienze in aziende a partecipazione statale, dall’Alitalia a Italstat. Il suo nome in Fiat resterà legato a tre grandi operazioni: l’ingresso nel capitale di Lafico (1976), finanziaria del governo libico allora guidato dal dittatore Muammar Gheddafi, e alla marcia dei 40mila. Il 14 ottobre 1980 c’è lui infatti dietro il corteo che invade Torino e che vede per la prima volta i “quadri” dell’azienda, uniti nel protestare contro i picchetti dei sindacati che impediscono l’accesso alle fabbriche e quindi di poter lavorare. Il braccio di ferro riguarda infatti la decisione della Fiat di mettere in cassa integrazione 23 mila dipendenti, con la marcia che segnerà una svolta storica nelle relazioni sindacali. Infine nel 1988 la Fiat compre dall’Iri, all’epoca guidata da Romano Prodi, l’Alfa Romeo. Nel 1990 Romiti cercherà di compiere una operazioni simile anche con l’americana Chrysler, la più piccola delle “Big Three” di Detroit, ma l’affare sfuma per i dubbi degli azionisti. Dal 1996 al 1998 Romiti assumerà la carica di presidente di Fiat, mentre dopo la sua uscita dal gruppo automobilistico passerà in RCS, di cui sarà presidente fino al 2004. L’anno seguente assume per un anno l’incarico di presidente di Impregilo, principale gruppo italiano nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria, mentre dal 2006 al 2013 è stato presidente dell’Accademia di Belle Arti di Roma.
Addio a Cesare Romiti, una vita per la Fiat. Il Dubbio il 18 agosto 2020. Aveva 97 anni. Nel ’74 Enrico Cuccia lo portò da Gianni Agnelli e il connubbio durò fino al ’97. Quando l’avvocato morì, Cesare Romiti assistette al funerale in piedi: “Fu il mio modo per rendergli omaggio”, spiegò anni dopo. Al funerale di Gianni Agnelli il 26 gennaio 2003, Cesare Romiti rimase in piedi. L’unico in tutto l’affollatissimo Duomo di Torino. “Perchè lui in chiesa faceva così, era il suo modo per dimostrare se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al funerale dell’Avvocato è stato il modo di rendergli omaggio”, raccontò qualche anno dopo, illustrando, anche, la sua visione del mondo. Uomo di rapporti, attentissimo alla politica e ai fatti romani, l’Italia è stata sempre al centro delle sue strategie. Nato a Roma il 24 giugno 1923, il nome di Romiti è indissolubilmente legato a Mediobanca e alla Fiat. Entra in contatto con la banca gestita da Enrico Cuccia negli anni Sessanta, quando da giovane manager gestisce la fusione tra Bombrini Parodi Delfini e la Snia Viscosa. Passa per altre aziende prima di entrare in Fiat nel 1974 da cui uscirà il 22 giugno 1998. Lui è l’uomo della finanza, si occupa poco del prodotto che delega a manager che sceglie e gestisce personalmente. Pur non lasciando grandi libertà gestionali alle consociate del gruppo, chiedeva sempre a fine anno grandi utili da mettere in bilancio. Sono anni difficili per l’economia italiana, taglieggiata dall’inflazione e da un contesto sociale complesso. L’auto ne risente, dal 1972 gli occupati in Italia iniziano a calare. Nel 1976 diventa uno dei tre amministratori delegati del gruppo, insieme a Carlo De Benedetti che segue il prodotto, e Umberto Agnelli che funge da trait d’union. Proprio il fratello dell’Avvocato lascerà qualche mese dopo, eletto in Parlamento, ma con Romiti lo scontro sarà continuo. De Benedetti esce di scena dopo appena cento giorni. A quel punto comincia il regno di Romiti , che promuove a un ruolo di primo piano un manager arrivato con De Benedetti, ovvero Giorgio Garuzzo, che tiene in Fiat e a cui delegherà la gestione di una galassia di partecipazioni, tra cui Iveco. Per garantire liquidità al gruppo però serve altro, e qui arriva in soccorso di Romiti su indicazione di Mediobanca, Gheddafi che tramite la Lybian Arab Foreign Bank acquisisce il 10% di Fiat in cambio di 360 miliardi di lire. Non basta, nel 1980 arriva l’annuncio di 14.000 licenziamenti. Mirafiori viene bloccata ed Enrico Berlinguer parlando davanti ai cancelli, arriva a dare la disponibilità del Pci per un’occupazione, che però non ci sarà. A sbloccare l’impasse i 40 mila colletti bianchi che sfileranno in città nella celebre marcia, chiedono di poter tornare a lavorare, e decretano la sconfitta del sindacato e la fine di un’era. Nel frattempo, dal 1978 in Fiat è entrato Vittorio Ghidella, che risolleverà il comparto auto lanciando modelli di grande successo come Panda, Uno, Prisma, Thema ma che dopo dieci anni sarà mandato via. A frustrarne le ambizioni il contrasto con Romiti. E’ il picco dell’era del manager romano, Fiat nel 1989 fattura 40.000 miliardi di lire, solo l’Iri è più grande in Italia. Segue un decennio di sofferenze per il gruppo. Romiti però non si ferma, apre e sviluppa stabilimenti del gruppo in tutt’Italia e all’estero senza mai chiuderne, nel 1994 l’ultimo esempio è la Sata di Melfi. Fiat con Romiti è diventata una conglomerata, c’è dentro un po’ di tutto. Una visione ampia, che con gli anni però diventa sempre più complesso rendere profittevole. Nel 1998 l’addio, gli subentra Paolo Fresco che arriva dagli Stati Uniti dove in General Electrics ha ottenuto risultati ottimi, che colpiscono anche Gianni Agnelli, che prova a blindare il gruppo alleandosi con GM poco dopo. Tutto naufragherà, e servirà Sergio Marchionne a risollevare il gruppo dal 2004 in poi. Romiti negli ultimi anni di Fiat è passato anche per un condanna definitiva a 11 mesi e 10 giorni per falso in bilancio, finanziamento illecito ai partiti e frode fiscale. Condanna nata dall’indagini di Tangentopoli, e poi cancellata nel 2003, quando questi reati saranno depenalizzati. Con i figli Maurizio e Piergiorgio entra in Gemina e Impregilo per poi uscirne dopo anni di gestione controversa. Nel 2003 fonda e dirige fino al 2018 la Fondazione Italia Cina, sua ultima grande passione. E’ stato anche presidente di Rcs, di cui aveva guidato il salvataggio nel 1984 tramite Gemina. “Io sono ambizioso. Vedo molta gente che vuole essere assunta, e cerco di capire proprio se sono ambiziosi, perchè senza ambizione non si costruisce nulla. Ma devo anche verificare che non siano troppo ambiziosi, perchè così si rovina tutto”, confessò a Mixer in storica intervista di Gianni Minoli nel 1983, tratteggiando la complessità del suo agire, e la solidità delle sue idee.
1923-2020. Romiti e quell’errore che non si perdonò mai: il «No» a Wojtyla non ancora Papa. Ferruccio de Bortoli il 18 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Cesare Romiti ha segnato la storia del Paese più volte. Vi ha impresso un suo sigillo personale. Lo ha fatto con la durezza del manager determinato, coraggioso, spregiudicato se necessario, ma anche con il tratto gentile di un uomo aperto, curioso, che non aveva mai accettato l’idea di poter invecchiare. Se n’è andato a 97 anni. Indro Montanelli, che fu suo amico, diceva che si comincia a morire dai piedi o dalla testa. «Costretto, preferirei la prima ipotesi» commentava il celebre giornalista alzando lo sguardo al cielo. Montanelli scrisse persino, nell’ultima notte, il suo necrologio. Romiti negli ultimi giorni era come una candela che si spegneva, dilatandosi. Era come se fosse tornato bambino, chiedendo della mamma e del papà. Lui che aveva fatto della sua imponenza fisica quasi la rappresentazione teatrale della managerialità, il marchio di una risolutezza rocciosa, non si piegava all’idea che le gambe non potessero più sorreggerlo, che il corpo non rispondesse più ai suoi comandi. «Ormai, dovrebbe andare in giro appoggiandosi sempre a un bastone — diceva già qualche anno fa il figlio Maurizio — ma non lo accetterà mai, sai com’è fatto». Cesare, il «Dottore» negli anni della Fiat, aveva una presenza statuaria che imprimeva di per sé soggezione. Lui era quello. Forte, duro. Ben piantato per terra.
I funerali dell’Avvocato. Quando morì l’avvocato Agnelli — con il quale condivise la lunga stagione alla guida di un gruppo un tempo glorioso e torinese — rimase in piedi per tutta la cerimonia funebre suscitando anche la garbata protesta della signora che era seduta dietro di lui. Non una signora qualsiasi. Era la moglie di Paolo Fresco, il manager della General Electric che lo aveva sostituito come presidente del Lingotto al compimento dei 75 anni. Un limite di età che lui, Romiti, avrebbe voluto cancellare con un tratto di penna se solo ne avesse avuto il potere. Diceva, con una punta di malizia, del suo elegante (e provvidenziale per le sorti dell’azienda) successore venuto dagli Stati Uniti: «Ha fatto una carriera eccezionale fino ad arrivare ad essere il numero due della General Electric». L’immagine nel Duomo di Torino gremito e silenzioso per l’ultimo omaggio al suo sovrano repubblicano mi è rimasta impressa come fosse l’ultima scena di una storia, quella della Fiat, ma non solo, che inesorabilmente si avviava all’epilogo. Romiti, solitario e altero, se ne stava in piedi. Instancabile. Tutti lo guardavano chiedendosi il perché di quel gesto («Era una consuetudine militare che condividevo con l’Avvocato» dirà in seguito). Era il 2003.
L’addio. Romiti non si rassegnò mai al ruolo del sopravvissuto, del testimone che vive solo di ricordi, ingigantendoli magari. O di rimpianti e rancori. All’epoca dell’addio all’Avvocato, era ancora presidente della Rcs, mio editore. Rimarrà alla guida della fondazione Italia-Cina, da lui fortemente voluta con l’intuizione di quale sarebbe stato il ruolo di Pechino anche quando la globalizzazione era agli albori, fin oltre i 90 anni. Ha continuato a dividersi tra Roma e Milano fino a qualche mese fa. A leggere, chiedere, informarsi con una curiosità quasi infantile. Ad aiutare chi ne aveva bisogno. Ma dei suoi gesti di beneficenza non voleva che se ne parlasse. L’ultima volta che andai a trovarlo, nella sua casa milanese, era imprigionato su una sedia a rotelle, della quale avrebbe voluto sbarazzarsi subito con un gesto dei suoi. Di solito mi accompagnava alla porta, passetto dopo passetto. Con militare senso della disciplina, grande fatica e un certo mio imbarazzo. Mi congedò restando seduto. Rassegnato all’immobilità. E mi sembrò un addio.
La Fiat. Romiti arrivò alla Fiat negli anni della crisi economica successiva allo choc petrolifero, del crollo del mercato dell’auto. E la risollevò. Veniva dalle partecipazioni statali, ovvero dall’impresa pubblica che poi avrebbe (anche ingiustamente) avversato. La Mediobanca di Enrico Cuccia ne impose il nome agli Agnelli. Con l’Avvocato si formò un sodalizio fondato sul reciproco rispetto e una doverosa distanza (si diedero sempre del lei). Tra i tanti ricordi dei primi anni da amministratore delegato di Corso Marconi (il trasferimento al Lingotto fu successivo) ne peschiamo uno solo. Il viaggio da Torino a Milano per chiedere l’aiuto delle banche. E un collaboratore con accento torinese che mostra tutta la sua sorpresa e una punta di vergogna. «Dottore, non l’abbiamo mai fatto». Piccolo o grande mondo antico. Se Agnelli distillava il suo pensiero su tutto, dalla politica al calcio, con arguzia e classe, Romiti interpretava con la massima determinazione il suo ruolo di capo azienda. All’occorrenza rude, prepotente. Conosceva la politica, i mille intrighi della Capitale nella quale era nato e della quale si sentiva orgogliosamente figlio (gli chiesero più volte di fare il sindaco). Una leadership naturale. Il numero uno della Fiat divenne presto il punto di riferimento — e successivamente l’ariete — di una imprenditoria intimidita dal potere del sindacato e dall’invadenza della politica (e pronta a a finanziarla se necessario) che verrà portata alla luce da Mani Pulite. Un’inchiesta che non risparmiò Torino. E lo coinvolse. Un capitalismo senza capitali, con famiglie imprenditoriali troppo deboli — e troppo a lungo protette da Mediobanca — si contrapponeva allo Stato imprenditore di cui erano azionisti i partiti. Ma ne reclamava le commesse, ne pietiva persino i favori. Romiti fu il capitano di ventura di questo esercito, a volte disperso e impaurito, al quale restituì, è il caso di dirlo, un po’ di carattere e dignità, pur continuando a coltivare tutte le relazioni di sottogoverno che servivano.
Il terrorismo. Negli anni Settanta e Ottanta, il terrorismo seminava morti quotidiane. Sembrava imbattibile. I brigatisti agivano nelle fabbriche, negli uffici, persino negli ospedali. Il sindacato non era ancora in grado di isolarli. La Fiat di Romiti prese il coraggio di fare 61 licenziamenti. In un clima da guerra civile altri voltarono lo sguardo. Temevano rappresaglie, che ci furono. Nell’ottobre del 1980, al culmine della lunga vertenza Fiat che paralizzò gli stabilimenti per oltre un mese, inflisse ai sindacati la più cocente delle sconfitte. E l’Italia cambiò. La marcia dei quarantamila (ma erano di meno) che chiedevano di tornare al lavoro, scosse il Paese. L’autorità tornava in fabbrica. Romiti raccontò poi che Pierre Carniti, segretario della Cisl, indispettito, gli disse: «Va bene, l’accordo lo scriva lei». Una manifestazione che il sindacato e il Partito comunista (Enrico Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori non escluse l’occupazione) mai avrebbero immaginato sarebbe sfilata silenziosa per le vie di Torino. Spontanea? «Diciamo spintanea» mi confidò anni dopo. Governò il gruppo Fiat incontrastato. Opponendosi a Umberto Agnelli, che cordialmente detestava, cacciando Vittorio Ghidella, che di auto ne capiva più di lui. Per lunghi anni Confindustria (la Fiat ne uscì nell’era Marchionne) fu dominata da Torino. E Romiti ne decise le sorti anche quando non era più al Lingotto. Per esempio quando si produsse in una campagna a favore di Antonio D’Amato e contro Carlo Callieri che a Torino collaborò con lui per lunghi anni, soprattutto sul fronte del contrasto alle infiltrazioni terroristiche.
Via Solferino. Come editore della Rizzoli-Corriere della Sera fu rispettoso dell’autonomia del giornale. Era orgoglioso di esserne il presidente. Non condivise alcune posizioni del giornale e mie personali. L’euro non gli piaceva, per esempio. Con Silvio Berlusconi giocò di fioretto non trascurando di blandirlo quando serviva. Felice però che qualcuno ne contenesse l’esuberanza caratteriale e la smania di potere. La politica gli sarebbe piaciuta. Molto. Un po’ di invidia per il Cavaliere — che lo considerò sempre solo un manager seppur grande — veniva celata con una certa fatica. Del resto Berlusconi confessò che sul comodino teneva solo la foto dell’Avvocato. Un sottile derby di fioretto tra primedonne con una grande e ostentata passione comune per l’altro sesso. Errori ne commise. Con la generosa buonuscita della Fiat tentò di creare una sua dinastia industriale, portando a lavorare con sé i figli Maurizio e Piergiorgio. Non andò bene. Dovette lasciare Torino a 75 anni. Una scelta dolorosa. L’avvocato diceva che se anche la Chiesa, nella sua storia millenaria, si era data delle regole ferree sull’età, l’industria non poteva fare eccezioni. Romiti ebbe numerosi amici tra gli uomini di Chiesa. Ne coglieva il fascino (Gianfranco Ravasi e Carlo Maria Martini) ma confessava di non capirne le dinamiche di potere. Una volta, trovandosi in Polonia, chiese di vedere il primate. Il cardinale Wyszynski però non c’era. Gli dissero: «Se vuole incontrare il suo sostituto, un certo Wojtyla»? Romiti disse di no, non voleva perdere tempo. Non se lo perdonò mai.
1923-2020. Addio a Cesare Romiti, una vita per la Fiat. di Dario Di Vico il 18 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Sarebbe interessante poter consultare una ricerca sulle origini familiari dei grandi manager italiani per capire se nell’Italia degli anni Duemila ci sono stati casi di mobilità verticale, come quello che ha visto negli anni Cinquanta del secolo scorso Cesare Romiti partire da una modesta famiglia romana e arrivare ai vertici dell’imprenditoria italiana e più in generale del sistema delle élite del Paese. È un tratto della ricca biografia di Romiti che spesso è rimasto in secondo piano ma che oggi nell’epoca delle Disuguaglianze (con la maiuscola) vale la pena riproporre. Assieme a un altro elemento identitario: la capacità di un manager romano che non ha mai rinunciato al suo Dna capitolino — fino all’uso delle cadenze dialettali — di dare l’assalto ai cieli di Torino e Milano, le capitali dell’industria e della finanza. Le cronache ci raccontano che quest’avanzata non è stata quella di un uomo solitario, ma è stata resa possibile da almeno due amicizie strategiche che Romiti stabilirà sin dal suo primo incarico di rilievo (la Bombrini Parodi Delfino di Colleferro) ovvero Mario Schimberni ed Enrico Cuccia. In queste relazioni, sicuramente decisive per la sua carriera, però Romiti apporta del valore. Non si limita a sfruttare la scia o come si dice oggi a fare networking. Il valore creato dal manager romano lo si può sintetizzare attorno a due materie molto delicate da maneggiare e perciò pregiate, la politica e la comunicazione. Due materie che le élite del Nord di allora trattavano con estrema cura ma anche con qualche ingenuità e un eccessivo timore reverenziale. Romiti della politica invece conosce tutti i meccanismi, sa pesare i leader che incontra (a cominciare da Ciriaco De Mita e Bettino Craxi) ma è perfettamente in grado di intuirne le strategie invisibili, di illuminarne i dark side, persino di sfruttarne le debolezze. E questo indubbiamente ha finito per assegnargli una marcia in più, come quando nei primi anni Novanta davanti alla chiamata del professor Giuliano Urbani, che vuole organizzare la riscossa borghese dopo la fine della Prima Repubblica, evita il coinvolgimento diretto della Real Casa di Torino e suggerisce al politologo l’indirizzo giusto, quello di Silvio Berlusconi. Prima di Cesare Romiti anche la comunicazione degli industriali era ingessata, molto tradizionale e comunque limitata a influenzare il perimetro dei circoli e dei giornali amici. Con lui invece si comincia a giocare a tutto campo: il Manifesto di Valentino Parlato non è un nemico di classe ma un giornale con il quale dialogare per far passare messaggi sofisticati, Liberal di Ferdinando Adornato una piattaforma dalla quale tentare di costruire nuovi equilibri. Ma comunicazione è anche gesto, oggi diremmo linguaggio del corpo: i presenti non hanno mai dimenticato come ai funerali di Gianni Agnelli la sagoma di Romiti, dritto come un fuso, in piedi per tutta la funzione religiosa avesse calamitato su di sé sguardi e commenti. Di lui si può dire certamente che non avesse paura dei conflitti, anzi in qualche modo li cercasse. Per dirla con il linguaggio calcistico, il gioco di rimessa non gli piaceva ma amava togliere la palla agli avversari già in fase di costruzione. E in fondo la mossa della marcia dei 40mila rientra in questo schema. Beniamino Andreatta dirà che è stato l’unico fatto vero degli anni ‘80, Romiti lo prepara e lo vuole perché non è schiavo delle mediazioni fine a se stesse. Non gioca mai per il pareggio. Tanto che persino a un moderato come Luciano Lama capitò di definirlo «un estremista dell’impresa». Più di altri Romiti capì anche come i giornali (di allora) fossero decisivi nei conflitti tra le élite, amava la carta stampata e sapeva benissimo quale formidabile spada potesse essere per mettere al muro gli avversari. Infine, l’asse con Enrico Cuccia ha sicuramente rappresentato per Romiti una stella polare fino alla morte del banchiere (anno 2000), l’accusa di aver commissariato Torino e la dinastia Agnelli per conto di Mediobanca non lo smosse nemmeno un po’ e, anzi, negli anni successivi riuscirà in un altro piccolo capolavoro: far dialogare due cavalli di razza come Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, che avevano frequentato opposte barricate. Romiti è di fatto uscito di scena prima che il populismo conquistasse la scena, sarebbe stato interessante però vedere come il piglio imprenditoriale e la leadership borghese che ha incarnato meglio di tanti altri avrebbero trovato il modo di reagire alla politica del capro espiatorio, all’ostentato disprezzo delle élite. Come avrebbero sfidato il populismo.
Morto Cesare Romiti, una vita per la Fiat: fu il braccio destro di Agnelli. Aldo Cazzullo il 18/8/2020 su Il Corriere della Sera. Il lutto. Cesare Romiti, storico dirigente della Fiat e braccio destro dell’Avvocato Gianni Agnelli, è morto all’età di 97 anni. Ha segnato la storia della casa automobilistica torinese, e una lunghissima stagione dell’industria italiana. Dopo l’uscita dalla Fiat, Romiti fu impegnato in Rcs, gruppo che guidò in qualità di presidente dal 1998 al 2004. Nato a Roma nel 1923, Romiti si era laureato in economia nel 1945. Dopo aver ricoperto numerosi incarichi di rilievo presso istituti bancari italiani e stranieri e in diverse aziende italiane, l’ingresso in Fiat come amministratore delegato nel 1976, di cui divenne presidente dal 1996 al 1998, succedendo nell’incarico a Giovanni Agnelli. Terminata quell’esperienza fu la volta della presidenza della RCS Editori fino al 2004. L’anno seguente poi assunse l’incarico per un anno di presidente di Impregilo S.p.A., il principale gruppo italiano nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria. Dal 2004 è stato anche il presidente della Fondazione Italia-Cina. Dal terrazzo della sua casa romana la vista sulla Galleria Borghese, gli alberi del parco e la città a perdita d’occhio era impressionante. Fu davanti a quello spettacolo - quasi per farsi perdonare - che confidò: «Guardi che io ho fatto la fame. La fame vera. E per fame ho rubato. Non è che mi mancavano la carne e il pesce; mi mancavano il pane e la pasta. Papà era morto nel 1941, mamma dovette crescere da sola me, mio fratello e mia sorella. Roma era piena di soldati tedeschi. Arrivò la voce che alla stazione Tiburtina c’era un carico di farina incustodito. Me la feci di corsa da San Giovanni. Riempii un sacco, contendendolo ad altri affamati come me. A casa quella farina fu accolta come manna». Cesare Romiti era un duro. Di quelli che campano novantasette anni perché interpretano la vita come un combattimento, tutti i giorni. Ma non era uno forte con i deboli e debole con i forti. Piegò la classe operaia di Mirafiori, che aveva dietro la Cgil e il partito comunista, al tempo in cui i terroristi rossi azzoppavano un caporeparto alla settimana. Ma prese a male parole pure Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, che voleva vendere l’Alfa alla Ford: gli entrò nello studio e lo riempì di improperi. L’Alfa finì alla Fiat. Come manager, salvò il più grande gruppo industriale italiano, che all’epoca aveva oltre 200 mila lavoratori. Come imprenditore, fallì (non solo per colpa sua) nell’ambizione di fondare una dinastia. Per due volte gli chiesi – quella volta a Roma, e prima ancora a Cetona, nel giorno del suo novantesimo compleanno - quale fosse la causa di quel fallimento. Lui rispose sempre con le stesse parole: “Come capo azienda non guardavo in faccia a nessuno. Come imprenditore ho commesso errori di ingenuità. Avrei dovuto essere più duro. Lo sono stato quando i denari non erano miei; quando erano i miei non ho saputo esserlo. Un tempo negli affari contava più il cuore della mente, più l’istinto dei calcoli; ora non più. Il mio mondo era quello. Oggi è diverso”. Di Gianni Agnelli parlava sempre benissimo, anche in privato. Lo descriveva come uomo di grande intelligenza, sia pure poco interessato alla gestione: “L’Avvocato era molto diverso da come è stato descritto. Era considerato un principe; in realtà aveva avuto una vita molto dura. Quasi non conobbe suo padre. Perse da giovane pure la madre, che adorava. Certo, fece la dolce vita. Ma poi ebbe il coraggio di andare da Valletta, l’uomo che aveva reso grande la Fiat, a dirgli: ora tocca a me”. Eppure – proprio com’era accaduto prima a Vittorio Valletta, e come sarebbe accaduto dopo a Sergio Marchionne - ci fu un momento in cui Romiti si sentì un po’ il padrone della Fiat, grazie anche al rapporto fortissimo con Enrico Cuccia. Ma anche lui, come gli altri (in circostanze non paragonabili), aveva dovuto cedere il passo alla famiglia, sia pure al prezzo di una liquidazione leggendaria, che comprendeva anche il Corriere; di cui fu un buon editore, negli anni della prima direzione di Ferruccio de Bortoli e di quella di Stefano Folli. Con l’Avvocato strinse un rapporto anche di confidenza personale, pur dandogli sempre del lei. Ne era forse un po’ geloso, nel senso che ebbe relazioni difficili con tutti gli uomini che gli erano vicini; o forse erano loro a essere un po’ gelosi di Romiti. Fatto sta che cacciò Vittorio Ghidella (e prima ancora aveva gioito per l’estromissione di Carlo De Benedetti), mal sopportò Luca di Montezemolo, si scontrò con Umberto Agnelli e non amava neppure un uomo amabile come Gianluigi Gabetti. Se prendeva un caffè al bar con Agnelli, era Romiti a pagare; l’Avvocato spesso non aveva soldi in tasca. Ma se Agnelli prendeva l’ascensore con un’altra persona, le cedeva il passo; Romiti saliva e usciva per primo. Ovviamente, gli obbediva. Ma talora faceva di testa sua. L’Avvocato ad esempio gli aveva suggerito di evitare il salotto torinese di Gustavo Rol, il sensitivo: ne era terrorizzato da quando a Venezia aveva sentito Rol raccomandare a un amico comune di non prendere l’aereo per Roma; l’aereo cadde, l’amico morì. Da Rol, però, Romiti andava: “Mi fece scegliere un foglio bianco tra tanti, su cui apparve un testo pieno di informazioni riservate e di consigli sulla Fiat. Conoscevo la grafia di Valletta. Era senza dubbio la sua”. Alla memoria di Valletta, Romiti era devoto, mentre non amava Marchionne: “Ha avuto in mente fin dall’inizio di portare la Fiat in America, ed è stato molto abile a farlo”. Da romanista accompagnava volentieri Agnelli agli allenamenti della Juve a Villar Perosa. “Una volta avvertirono Trapattoni che un calciatore si era fatto male e stava piangendo. Il Trap si infuriò: “Che vergogna! Un giocatore della Juve non piange!””. Per aver organizzato la marcia dei 40 mila, che risolse la battaglia della Fiat e chiuse gli anni Settanta, l’Avvocato non gli disse mai grazie. Il suo modo di dimostrargli apprezzamento fu telefonargli dal Quirinale e passargli l’ex presidente Giuseppe Saragat, che parlando con Romiti si commosse: “Finalmente ho rivisto per strada i volti degli operai e dei quadri Fiat che conosco!”. Quando Edoardo Agnelli si suicidò, lui chiamò l’Avvocato dalla Cina, dove andava spesso. La conversazione fu breve. “Avvocato, che dire a un padre che ha perso un figlio?”. “Appunto, Romiti. Mi dica piuttosto cosa è andato a fare in Cina”. Dei politici non aveva grande stima. Craxi e Martelli - che chiamava “quell’altro, quello bello” - li trovava arroganti. Berlusconi non gli è mai piaciuto molto. Salvini non gli piaceva per niente. Aveva simpatia per la Meloni: “Le ho parlato l’altro giorno, in sottofondo sentivo la sua bambina che piangeva…”. Renzi? “Ha talento e ambizione. Troppa, l’ambizione”. Però non giudicava male i grillini: “Sono una forza di cambiamento, all’evidenza il Paese ne sentiva il bisogno”. Da ragazzo per mantenersi aveva fatto lavori umili, di cui non parlava volentieri. “Un giorno dovetti ricopiare centinaia di documenti, tutti uguali. Non avevano ancora inventato la fotocopiatrice. La fotocopiatrice ero io”. Il padre era stato cacciato dalle Poste, in quanto ostile al regime. Lui fu balilla e avanguardista: “Quando sei ragazzo e ti annunciano che siamo entrati ad Addis Abeba, non capisci che tutto finirà nel disastro”. A differenza di Franca Valeri, inorridì davanti a piazzale Loreto. Ma raccontava il dopoguerra con la stessa identica frase della grande attrice: “Era un’Italia in cui tutto pareva possibile”. Non a caso negli ultimi tempi diceva che il Paese andava ricostruito, proprio come dopo il conflitto mondiale. La sua ossessione era il lavoro. “Dobbiamo mettere al lavoro i nostri giovani, in modo che possano costruirsi una famiglia e una vita. Ma dobbiamo anche trovare lavoro ai cinquantenni. Non possono mica passare quarant’anni da esodati!”. Adorava le donne, spesso ricambiato. Un po’ impettito, tanto da sembrare a volte tronfio, in alcune circostanze si inteneriva. Ammirava la regina Elisabetta e da ragazzo era amico della sora Lella Fabrizi, la sorella di Aldo. L’Avvocato si divertiva a punzecchiarlo sull’argomento. Una volta gli passò una lettera anonima: “Gliela faccio leggere solo perché la riguarda, ma non le dia importanza, sapesse quante me ne arrivano”. La lettera parlava appunto di storie d’amore. A chiedergli, rispondeva: “Guardi fuori (eravamo a Cetona). Vede gli alberi, le colline, le torri? Ecco, la cosa più bella di tutte queste, la meraviglia del Creato, è la donna. Io ho avuto una moglie perfetta, che purtroppo è mancata e di cui ho molta nostalgia. Ma le donne mi sono sempre piaciute. Perché sono migliori di noi. Sanno ascoltare. Non ti tradiscono. E se proprio ti tradiscono, porterai comunque sempre dentro di te la dolcezza che ti hanno dato”.
Cesare romiti, 1923-2020. L'intervista dall'archivio. Romiti: «Cuccia, l'Avvocato, Berlusconi, la marcia dei 40mila. E la fame, da bambini: ecco la mia Italia». Aldo Cazzullo il 18 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Cesare Romiti, uno dei più grandi manager dell'industria italiana, è morto all'età di 97 anni. Ripubblichiamo l'intervista apparsa sul Corriere della Sera il 23 giugno 2013, quando Romiti compì 90 anni.
CETONA (Siena) — Il terrazzo si apre sugli ulivi, i cipressi e le mura medievali di Cetona. Qui Cesare Romiti trova pace dopo una vita da battaglia. Domani compie 90 anni.
Qual è il suo primo ricordo pubblico?
«L'ingresso degli americani a Roma. Da giorni tuonava il cannone da Sud. Ero a messa con mia mamma. Si videro le prime camionette. Poi l'afflusso crebbe come un'onda».
Ma lei aveva già vent'anni. Del fascismo cosa ricorda?
«Mio padre era contro. Gli tolsero la tessera, lo mandarono via dalle Poste. Io sono stato balilla e avanguardista. Quando sei giovane e ti annunciano che siamo entrati ad Addis Abeba, non capisci che tutto finirà nel disastro».
Ha fatto la guerra?
«Feci il corso allievi ufficiali a Viterbo. No, non scelsi tra partigiani e Salò. Ero disilluso. Non mi piacque il modo in cui il Duce fu ucciso: capii che il Paese si imbarbariva».
Come ricorda l'Italia della ricostruzione?
«Affamata. Guardi che io la fame l'ho provata. Fame vera: niente pasta, niente pane, niente farina. Mio padre morì nel '41, mia madre riuscì a far studiare me, mio fratello e mia sorella, ma dovetti cominciare a lavorare molto presto. Per fortuna il lavoro si trovava. In poco tempo ne cambiai quattro o cinque».
Quali lavori?
«Le prime cose me le affidò un geometra. Poi divenni amministratore del principe Boncompagni Ludovisi. La Roma liberata era stupenda, piena di umanità: la Roma della sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi, che era mia amica. Nel '46 scoppiò la febbre delle prime elezioni. Alla compagna del principe, la duchessa Salviati, non arrivava la tessera elettorale. Mi impegnai: se non gliel'avessi procurata, avrei votato come mi diceva lei».
Come finì?
«La duchessa ebbe la sua tessera. Io votai Repubblica, dopo lunghi ripensamenti. Come partito, la Dc».
Qual è il politico che ha stimato di più?
«Ugo La Malfa. Me lo presentò Cuccia, che l'aveva in grande considerazione».
Ma tra i presidenti del Consiglio?
«Uno era Spadolini. Mi piacevano il suo patriottismo, la sua dirittura morale e la sua ingenuità».
Quale giudizio storico darebbe oggi di Cuccia? Non fu troppo accentratore?
«Cuccia era un uomo dall'intelligenza fuori dall'ordinario. Uno capace di imporre il disegno di Mediobanca a Raffaele Mattioli, di cui era un dipendente. Grazie a Cuccia si salvarono imprese come l'Ansaldo, la Montedison, la stessa Fiat».
La Montedison alla fine però fu smembrata. Che ricordo ha di Gardini?
«Ottimo. Era uno dei miei più cari amici. Nei giorni drammatici di Tangentopoli fu tradito dalla famiglia, che non gli fece avere i documenti di cui aveva bisogno. E un romagnolo vero come Gardini non avrebbe mai passato una notte in carcere».
Il suo giudizio sull'Avvocato Agnelli?
«L'Avvocato era molto diverso da come è stato raccontato. Era considerato un principe; in realtà aveva avuto una vita molto dura. Quasi non conobbe suo padre. Perse da giovane pure la madre, che adorava. Fece anche la dolce vita. Ma poi ebbe il coraggio di andare da Valletta, l'uomo che aveva reso grande la Fiat, a dirgli: ora tocca a me. Diceva che avrebbe fatto fallire l'edicola all'angolo di corso Marconi in due giorni, ma aveva una straordinaria visione, antevedeva i grandi fatti».
Valletta l'ha conosciuto?
«Sì. Mi aspettavo un carismatico, uno come Agostino Rocca. Valletta invece appariva un professorino piccolo e magro. In realtà era d'acciaio. Una sera Rol, il sensitivo torinese, mi fece scegliere un foglio bianco tra tanti, su cui apparve un testo pieno di informazioni riservate e di consigli sulla Fiat. Conoscevo la grafia di Valletta. Era senza dubbio la sua».
Un trucco o un mistero?
«Me lo chiedo ancora adesso».
Fu Cuccia a mandarla in Fiat?
«Questa è un'altra cosa che si sente dire ed è totalmente falsa. Da tempo Agnelli mi chiedeva: "Perché non viene da noi?". Io esitavo perché mi dicevano che la Fiat era una caserma, dove gli impiegati portavano le mezze maniche e le donne il grembiule nero, e in effetti era così. Agnelli chiese di me a Cuccia, e lui rispose: troppo tardi, Romiti è andato all'Alitalia. Arrivai poi a Torino nel 1972».
E cominciò a scontrarsi con Umberto Agnelli.
«All'inizio avevamo buoni rapporti. Ma lui aveva in azienda amici che se ne approfittavano. Io li misi fuori, e lui non me lo perdonò. Quando Suni Agnelli divenne ministro degli Esteri, ci vedemmo e mi chiese di fare pace con Umberto. Risposi che non potevo tenere in Fiat gente che lo tradiva. Suni non replicò».
Seguì lo scontro con Carlo De Benedetti.
«De Benedetti piaceva all'Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici. Diceva in giro di essere il primo azionista individuale della Fiat: cosa vera, perché gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi disse che bisognava cacciare i dirigenti e lasciare a casa 50 mila persone, l'Avvocato rispose: "Mi spiace, non si può fare". "Allora me ne vado". "Va bene, se ne vada" fu la risposta».
Non crederà che De Benedetti pensasse davvero di scalare la Fiat?
«Carlo mi ha sempre detto di no. Certo non era facile. Non escludo però che ci pensasse».
Lei ha polemizzato anche con Marchionne.
«Marchionne è in gamba. Però ha avuto in mente fin dall'inizio di portare la Fiat in America. È stato molto abile a farlo. La sede potrà anche restare simbolicamente a Torino, gli stabilimenti italiani rimarranno, ma ormai la gestione della Fiat è americana».
La famiglia però c'è ancora.
«È vero, John Elkann poteva fare il rentier , invece si occupa dell'azienda. L'Avvocato ha ricreato con lui il rapporto che aveva con il nonno. Umberto puntava sul figlio Andrea, che porta il cognome Agnelli, ma l'Avvocato scelse John. Nell'accomandita in cui si decise di farlo entrare nel consiglio d'amministrazione, Umberto disse al fratello: "Sia chiaro che è una tua decisione". Gabetti e io precisammo che eravamo d'accordo anche noi. Umberto ripeté: "No, è una decisione dell'Avvocato"».
Berlusconi l'ha delusa?
«Sì. Come imprenditore è stato bravissimo. Ma non doveva fare politica».
Non la fece anche per salvare le aziende?
«No, aveva il gusto per la politica, e per il potere. Commise subito un grave errore, cacciando Montanelli. Indro non gli obbediva; ma non ci si priva di un uomo come lui. Negli ultimi anni siamo stati molto vicini. Un grande italiano».
Craxi com'era?
«A volte lo vedevo da Caterina Caselli. Sapeva essere simpatico. Però lui e quell'altro, quello bello...».
Martelli?
«Lui e Craxi erano molto arroganti. Craxi si occupava delle finanze del partito, lo considerava roba sua».
Anche Monti l'ha delusa?
«Sì, e gliel'ho detto, quando ci siamo trovati a Ballarò : "Perché ti sei candidato?". Mi ha risposto mostrando i politici presenti: "Perché altrimenti ti saresti ritrovato da solo con loro"».
Renzi come lo trova?
«Mi ha invitato a pranzo a Firenze, e io gli ho rimproverato di essere stato ad Arcore. Abbiamo bisogno di uno come lui, che piace alla gente. È intelligente, ma forse fin troppo ambizioso».
Chi le piace ora in politica?
«Ci sono diversi uomini di qualità. Uno è Enrico Letta. È molto educato e questo può far sembrare che non abbia caratteristiche da leader. Credo invece che dimostrerà di esserlo».
Squinzi è un leader?
«Squinzi è soprattutto un bravissimo industriale, con la moglie ha creato una straordinaria impresa mondiale».
Sarebbe stato meglio Bombassei?
«Bombassei doveva farsi avanti prima. Gliel'ho detto. Mi ha risposto che toccava a Montezemolo. Mah...».
Anche con Prodi lei è sempre stato critico. Pensare che vi diede l'Alfa Romeo.
«L'Alfa, che perdeva un sacco di soldi, ce la vendette Viezzoli di Finmeccanica, che peraltro era un dipendente di Prodi. Lui stava per venderla alla Ford, dopo che Ghidella e Tramontana, l'ad dell'Alfa, da tempo trattavano un'alleanza. Andai nell'ufficio di Prodi all'Iri e mi lamentai pesantemente. Non sapeva più dove girarsi».
E il Prodi politico?
«Ho qualche perplessità. L'euro si doveva fare, ma non così, senza un governo comune europeo. La sfida delle nuove generazioni è costruire gli Stati Uniti d'Europa».
Come vede il futuro dell'Italia?
«Con grandi potenzialità. Nei Paesi che rappresentano il futuro del mondo, come la Cina, l'Italia è molto ben vista. A cominciare da Milano, che con la moda e il design può trainare la ripresa. La prima cosa da fare è dare lavoro ai cinquantenni che l'hanno perso e ai giovani che non l'hanno mai avuto. C'è un Paese da ricostruire, i fiumi esondano, le scuole cadono a pezzi: mettiamo i cassintegrati e i disoccupati al lavoro».
Quando toccò a lei, lasciare la gente a casa, come si sentiva?
«Ma noi avevamo un programma. La Fiat mandò via 25 mila persone, e negli anni successivi ne assunse 60 mila. Noi volevamo fare un'azienda più grande e più forte, non più piccola».
Lei però non ha avuto lo stesso successo come imprenditore. Rimpianti?
«Qualcuno sì. Il mio capolavoro è stata la marcia dei 40 mila. Allora non feci tanti ragionamenti: gettai il cuore oltre l'ostacolo. Un tempo negli affari contava più il cuore della mente, più l'istinto dei calcoli; ora non più. Il mio mondo era quello. Oggi è diverso».
Come vede il futuro del «Corriere»?
«Dovrebbe appartenere a una Fondazione».
La considera una situazione praticabile?
«Sì. Certo bisognerebbe esercitare una moral suasion sugli azionisti».
È vero che a Fiumicino ha dato uno schiaffo a un cameriere?
«Ma no! Ero con una mia amica che ora sta venendo qui, glielo confermerà».
Quanto hanno contato le donne nella sua vita?
«Guardi fuori. Vede gli alberi, le colline, le torri? Ecco, la cosa più bella di tutte queste, la meraviglia del Creato, è la donna. Io ho avuto una moglie perfetta, di cui ho tanta nostalgia. Ma le donne mi sono sempre piaciute. Perché sono migliori di noi. Sanno ascoltare. Non ti tradiscono. E se proprio ti tradiscono, porterai comunque sempre dentro di te la dolcezza che ti hanno dato».
Morto Cesare Romiti, manager duro e quasi brutale (ma vero fino in fondo). Paolo Bricco per ilsole24ore.com il 18 agosto 2020. È morto Cesare Romiti. Aveva compiuto 97 anni il 24 giugno. Romiti è stato uno degli archetipi della storia italiana. Per il percorso professionale, che ha avuto il suo cuore nella Fiat, la principale Impresa-Stato che l’Italia abbia avuto nel Novecento. E per il suo essersi trasformato – nella rappresentazione della vita pubblica del nostro Paese – in una personalità paradigmatica grazie alla caratura, all’intensità e alla forza del suo potere.
L’uomo dell’eccezione italiana. Romiti si è trovato – mille volte – ai crocevia di un Paese in cui appunto il potere non è mai univoco, ma esiste in dimensioni mutevoli e molteplici ed è sempre all’intersezione fra differenti dimensioni, ai confini fra tanti mondi: l’industria e la finanza, la politica e l’editoria, la geopolitica e i circoli internazionali riservati. In questo, lui ha rappresentato la norma italiana. Ma Romiti ha costituito anche l’eccezione italiana. In un Paese in cui il potere spesso si trasmette e non si conquista e le carriere sovente si ereditano e non si costruiscono, è infatti partito da condizioni molto umili. È di Roma. È il secondo di tre fratelli. È figlio di un impiegato delle Poste che muore all’improvviso a 47 anni lasciando la famiglia in condizioni finanziarie non semplici. Si diploma in ragioneria e si laurea in economia, nell’università della sua città, studiando la sera e lavorando di giorno.
L’apprendistato in Bombrini Parodi Delfino. Il primo passaggio fondamentale è nel 1947, quando all’età di 24 anni viene assunto al Gruppo Bombrini Parodi Delfino. L’azienda di Colleferro, nella campagna laziale, ha due caratteristiche. La prima è la specializzazione in produzioni militari. La seconda è connessa alla prima: per la sua natura strategica, è sotto l’ala protettrice e sotto l'occhio vigile dei servizi e delle strutture di sicurezza occidentali, non solo italiane, ma soprattutto americane. La miscela di specializzazione industriale avanzata e di cifra politica atlantica rende questa impresa una fucina della classe dirigente industriale e finanziaria, formata oltre che alle logiche della fabbrica e del mercato anche al senso della diplomazia e degli equilibri, visibili e invisibili. Romiti, a Colleferro, diventa direttore finanziario e lavora a fianco di Mario Schimberni: il futuro presidente della Montedison è responsabile dell’amministrazione e del controllo di gestione. Dopo la fusione con la Snia Viscosa, nel 1968, Romiti diventa direttore generale e inizia a costruire il rapporto di fiducia personale con Cuccia, che segnerà la sua ascesa definitiva.
La fiducia di Cuccia, Alitalia e poi la Fiat. Nel 1970 è prima direttore generale e poi amministratore delegato dell’Alitalia, confermandosi uno dei manager di Stato più determinati e influenti. Nel 1973 è all’Italstat. Nel 1974, nel pieno della crisi petrolifera che sta dissestando i conti della Fiat, su richiesta di Gianni Agnelli Cuccia lo segnala come direttore centrale di finanza, amministrazione e controllo del gruppo. La sua posizione è quella di uomo dei conti. Nel 1976 diventa amministratore delegato, insieme a Umberto Agnelli – anche vicepresidente e poi in politica con la Dc – e a Carlo De Benedetti, che ha una posizione di preminenza, ma che lascia l’incarico dopo cento giorni.
Quell’autunno caldo del 1980. Da allora, l’ascesa di Romiti dentro alla Fiat e dentro l’economia e la società italiane è formidabile. Un passaggio importante avviene nel 1980. Gradualmente ma con determinazione espelle la violenza e annichilisce l’anarchia dentro alle fabbriche. La sinistra radicale ha, in alcuni casi, subito una metastasi nella lotta politica armata, in tutta Italia e, anche, a Torino. Il sindacato ha quasi perduto il controllo di se stesso. Nessuno riesce a ristabilire l’ordine negli impianti. L'azienda è fuori mercato. Il 5 settembre 1980 la Fiat mette in cassintegrazione per 18 mesi 24mila dipendenti (quasi tutti operai). L’11 settembre – dopo una settimana di trattative con i sindacati, dure al limite del parossismo – la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti. A questa decisione – in una Fiat in cui ha in mano ogni leva strategica, gestionale e «disciplinare» Romiti – corrispondono lo sciopero e i picchettaggi ai cancelli. Il 26 settembre Enrico Berlinguer è a Torino e esprime ai lavoratori l'appoggio del Partito Comunista.
La marcia dei quarantamila. I giorni diventano folli. I sindacati non cedono. Non lo fa nemmeno la Fiat che, nella persona di Romiti, definisce i licenziamenti essenziali per non fare fallire l’azienda. Da allora si susseguono degli scontri feroci e si verifica il congelamento di ogni attività industriale. Il 14 ottobre 1980 si svolge la cosiddetta marcia dei quarantamila che porta in strada i quadri della Fiat – come venivano chiamati i funzionari appena un gradino al di sotto della dirigenza – e con loro i dirigenti di Corso Marconi. Romiti non è il fautore della marcia, che viene organizzata dal capo dei quadri aziendali Luigi Arisio, fino ad allora sconosciuto all’opinione pubblica, e che ha l'appoggio tecnico – nella prima linea manageriale della Fiat - in particolare di Carlo Callieri e di Cesare Annibaldi. Ma dà il suo placet, sovraintende a tutta l’operazione ed è pronto a trasformarla in risultato politico.
Un gradino sotto l’Avvocato. Tre giorni dopo la marcia dei quarantamila, la dirigenza della Fiat trova – da una posizione di forza - un punto di equilibrio con i sindacati confederali, che riconoscono l’insostenibilità della situazione: ritira i licenziamenti, per quanto confermi la cassintegrazione a zero ore per 22mila dipendenti. Da allora, Romiti costruisce una posizione senza pari all’interno del gruppo torinese, in un rapporto strettissimo con la Mediobanca di Cuccia che in più passaggi, dall’esterno, gli conferisce sempre più peso specifico e lo «introna» come numero uno, anche al posto di Umberto Agnelli. Nel 1988, dopo uno scontro di potere cruento, gli Agnelli rinunciano alla ipotesi di nominare numero uno di tutto il gruppo Vittorio Ghidella. Ghidella è l’uomo della Fiat Uno. L’ultimo ingegnere ad avere costruito la leadership della Fiat sull’auto europea. Uscito Ghidella, Romiti è il dominus. Prevale spesso sugli Agnelli grazie al rapporto privilegiato con Mediobanca, che appunto lo colloca appena un gradino sotto l’Avvocato e comunque sopra suo fratello Umberto, ormai nelle finanziarie di famiglia. Determina la strategia degli anni Novanta: la conglomerata che investe in altri settori rispetto all’auto. Una scelta che impedirà alla Fiat di effettuare gli imponenti cicli di investimenti che, invece, in quel decennio faranno i produttori tedeschi e asiatici.
Dopo la Fiat, tra Rcs e Impregilo. La centralità di Cesare Romiti è sintetizzata dal valore della sua buonuscita che, fra soldi e partecipazioni, ammonta nel 1998 a 105 miliardi di lire per i 24 anni di attività e a 99 miliardi di lire per il patto di non concorrenza. Dopo l’uscita da Fiat, guida Gemina (una sua quota fa parte della liquidazione) che controlla Rizzoli Corriere della Sera e la società di costruzioni Impregilo. Romiti è presidente di Rcs dal 1998 al 2004, diventando poi presidente onorario. Nel 2005 entra nel patto di sindacato degli Aeroporti di Roma. Poco alla volta Romiti perde presa sul capitalismo italiano. La sua famiglia – oltre a lui, i due figli Maurizio e Piergiorgio – è estromessa prima da Gemina, poi da Impregilo e quindi da Aeroporti di Roma. Nel 2003 Romiti costituisce la Fondazione Italia Cina.
In piedi a messa ai funerali di Agnelli. La forza di Romiti – anche nella sua dimensione psicologicamente egemonica e fisicamente rocciosa – è rappresentata dall’immagine di lui che, il giorno della sepoltura di Gianni Agnelli (il 27 gennaio 2003), trascorre nel duomo di Torino tutta la messa in piedi - dritto come un fuso e imponente come una colonna - mentre tutti sono seduti sulle panche. A dieci anni dalla morte di Gianni Agnelli ha detto al Corriere della Sera: «In chiesa lui faceva così. Ricordo una domenica in cui andai a trovarlo a Villar Perosa. Mi portò a messa. La moglie con i figli erano davanti. Lui era in fondo, e rimase in piedi per l’intera funzione: “Romiti, rimanga in piedi con me”. Gliene chiesi il motivo. Rispose che aveva avuto un’educazione cattolica e quello era il modo per dimostrare, se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al suo funerale era il mio modo di rendergli omaggio». Sulla sua ascesa e sul suo declino, rimangono le parole dette al Sole 24 Ore il 15 febbraio 2009: «Può darsi che un bravo manager non sia anche un bravo padrone. Può darsi. Ben vengano tutte le critiche. Ma io non ho mai accettato quello che i cosiddetti padroni hanno accettato in tanti anni di vita industriale del Paese. L’essere accomodanti, cosa che ha portato gente di qualità mediocre a occupare posti importanti. Ma ha anche portato il Paese nelle condizioni disperate in cui si trova ora». Cesare Romiti: duro e quasi brutale, efficace ma vero, fino in fondo.
E' morto Cesare Romiti, manager che ha fatto la storia dell'economia italiana. Pubblicato martedì, 18 agosto 2020 su La Repubblica.it da Francesco Manacorda. Cesare Romiti se n’è andato a un passo dal secolo di vita – aveva compiuto 97 anni il 24 giugno – e con lui scompare un uomo pienamente radicato nel secolo scorso. Grande manager, e poi imprenditore in proprio con minore successo, la sua storia resterà legata indissolubilmente ai venticinque anni passati in Fiat, dove arriva nel 1974 e che lascia nel 1998 dopo esserne stato amministratore delegato e presidente. Si dice Romiti e si pensa ovviamente Gianni Agnelli. Dell’Avvocato il manager romano, arrivato a Torino dopo esperienze nella chimica e nel mondo delle Partecipazioni statali, dove guida tra l’altro Alitalia e le costruzioni di Italstat, è stato uomo di assoluta fiducia e talvolta alter ego, sebbene sempre in un rapporto segnato dalla consapevolezza comune di una profonda distinzione di ruoli. Romiti arriva a Torino nel 1974, in piena crisi petrolifera, spinto dalla stima che ha per lui Enrico Cuccia. Il patron di Mediobanca lo ha conosciuto durante la fusione tra la Bomprini Parodi Delfino e la Snia Viscosa ed è rimasto colpito da quel manager che parla chiaro, a volte perfino troppo. Per questo, da eterno tessitore delle vicende del capitalismo italiano, Cuccia lo consiglia alla famiglia Agnelli, che vede in quel momento la Fiat fare i conti con la crisi petrolifera, come uomo adatto a riportare i conti a posto. A Corso Marconi un Romiti già manager affermato e più che cinquantenne, si trova in un coinquilinato tutt’altro che tranquillo. Quando nel 1975 viene nominato amministratore delegato per al parte finanziaria deve dividere la carica con Umberto Agnelli e soprattutto con Carlo De Benedetti, che da proprietario del fornitore Fiat Gilardini cede le sue azioni e prende in cambio una quota dell’azienda automobilistica. Le personalità spigolose di Romiti e De Benedetti non sono fatte per andare a lungo d’accordo e infatti dopo solo cento giorni di triumvirato il secondo lascia la Fiat cedendo le sue azioni e aprendo un conflitto in fondo mai sanato con gli Agnelli. Sull’interpretazione autentica di quell’uscita tra i due rimarrà sempre una diatriba aperta: per Romiti De Benedetti pagò il desiderio di essere l’uomo solo al comando, venendo in sostanza esautorato dalla proprietà; nella ricostruzione più volte offerta da De Benedetti – al contrario – al scelta di lasciare la Fiat fu solo sua, specie dopo che lo stesso Avvocato aveva respinto la sua richiesta di tagliare circa 20 mila posti di lavoro per far fronte al periodo di crisi. De Benedetti è fuori, Romiti resta a Corso Marconi, dove il suo potere aumenta in modo esponenziale nel corso di cinque anni. Un primo passo è nel 1976, quando conduce assieme ad Agnelli l’ingresso della Lafico – la finanziaria del governo libico guidato dal dittatore Muammar Gheddafi – nel capitale del gruppo automobilistico. La Fiat ha bisogno di soldi e la Libia ricca di petrolio ne ha; quel che è più difficile è far passare l’ingresso come socio finanziario di un governo inviso in primo luogo agli Stati Uniti. Ma l’operazione riesce, i soldi servono per il rilancio e quando i libici escono nel 1986 con il loro investimento sostanziosamente rivalutato la soddisfazione è reciproca. Il secondo passo avviene nel 1980. La crisi petrolifera continua, la Fiat nella sua relazione di bilancio agli azionisti punta il dito sulle politiche economiche del governo e sugli scioperi nelle fabbriche. Mediobanca, ancora impegnata in un compito di ingombrante tutela del sistema industriale italiano, convince gli Agnelli che è il momento che Umberto lasci la carica di amministratore delegato. Romiti è un uomo solo al comando. Vince in azienda, e vince anche lo scontro di idee che da anni – sostiene - paralizza la Fiat. C’è infatti Romiti dietro la Marcia dei quarantamila che il 14 ottobre di quell’anno invade piazze e corsi di Torino con i “quadri Fiat” per la prima volta in corteo: chiedono di tornare a lavorare, protestano contro i picchetti sindacali che impediscono l’accesso alle fabbriche in un braccio di ferro durissimo con l’azienda che vuole mettere in cassa integrazione 23 mila dipendenti. E’ uno snodo non solo nelle relazioni industriali, ma nella storia della fabbrica più grande d’Italia e dell’Italia stessa, che scopre quel giorno la sua maggioranza silenziosa. E uno snodo al quale lo stesso Romiti, intervistato da Paolo Griseri trent’anni dopo su questo giornale, parla di un “esito che fu quello di riportare i sindacati di allora a una situazione di normalità, superando le infiltrazioni terroristiche che stavano nella loro base>, ripetendo una tesi a lui cara che aveva già espresso in un celebre libro-intervista con Gianpaolo Pansa. Il decennio degli ’80 è quello che pare destinato a una crescita inarrestabile. Nel 1988, reduce da quattro anni di bilanci record e a quel punto maggiore e più redditizio produttore europeo, la Fiat compra anche l’Alfa Romeo dall’Iri - guidato da Romano Prodi – che avrebbe però preferito venderla alla Ford. Meno fortunata l’espansione internazionale di Torino: nel 1990 le carte sono pronte per un merger con l’americana Chrysler, la più piccola delle “Big Three” di Detroit. Al Dottore, come lo chiamao a Torino, l’affare sembra buono, ma gli azionisti – in particolare Umberto Agnelli – sono dubbiosi di fronte a un mercato che rischia presto di virare al brutto. L’affare sfuma. La tensione con Umberto Agnelli si acuisce. Quando nel ’92 l’Avvocato fa sapere che l’anno successivo cederà la carica di presidente al fratello, interviene un altro aumento di capitale suggerito da Mediobanca e la coppia di vertice rimane immutata fino al 1996, quando Gianni Agnelli passa la presidenza proprio a Romiti, che la manterrà fino ai 75 anni, ossia al 1998. Nel frattempo il manager si è trovato anche a fare i conti con Mani Pulite: nel 1993 viene interrogato a lungo dal pool di Milano e poi dai magistrati torinesi, fa ammissioni importanti, ma riferisce anche di non aver saputo nulla di quanto accadeva sotto di lui. Il manager Fiat Francesco Paolo Mattioli viene arrestato e condannato per tangenti. Nel 2000 la Cassazione conferma a Romiti una condanna per falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti e frode fiscale. La condanna per falso in bilancio viene poi revocata dalla Corte d’Appello di Torino tre anni dopo. Gli errori di Romiti? Nelle tante interviste concesse in un decennio e più in cui è stato interpellato come Grande Vecchio del capitalismo italiano, lui stesso ha avuto modo di farne una disamina esaustiva, accanto alla rivendicazione di molti successi. I principali che ha riconosciuto a fine carriera sono stati il desiderio di trasformare la Fiat in un conglomerato che non si occupasse solo di auto, ma si espandesse anche in settori come l’aerospazio o i trasporti ferroviari, indebolendo probabilmente il focus sul mestiere dell’auto; e poi la stessa ambizione replicata quando, uscito da Torino, Romiti viene liquidato con una quota della Gemina che controlla tra l’altro Impregilo e la Rcs editrice del Corriere della Sera. Affiancato dai due figli nell’editoria e nelle costruzioni i risultati sono tutt’altro che brillanti, la parabola del manager che si fa padrone tende a sbiadire. Romiti guarda a Oriente, si dedica con impegno alla Associazione Italia-Cina e guarda con qualche rammarico anche a quella Fiat che non sente più sua, dando giudizi non sempre sereni sull’operato dei successori, Sergio Marchionne compreso.
Romiti, il "manager di ferro" leader della linea dura antisindacale. Pubblicato martedì, 18 agosto 2020 da La Repubblica.it. Ventincinque anni in Fiat, "manager di ferro", leader della linea dura antisindacale durante gli anni più difficili della vita in fabbrica, culminati nella Marcia dei Quarantamila. Poi l'ingresso in Gemina e la presidenza di Rcs. Ecco le tappe di una vita professionale intrecciata con la storia del capitalismo italiano.
Gli studi - Figlio di un impiegato delle Poste, Cesare Romiti nasce a Roma il 24 giugno del 1923, secondo di tre fratelli. Si diploma ragioniere. Poi si laurea a pieni voti in scienze economiche e commerciali, studiando e lavorando a un tempo dopo la morte del padre a soli 47 anni.
Gli esordi a Colleferro - Muove i suoi primi passi da manager nel 1947 a Colleferro nel Gruppo Bombrini Parodi Delfino, azienda di cui assumerà la carica di direttore finanziario affiancando il suo ex compagno di classe Mario Schimberni. Nel 1948 sposa una sua coetanea, Luigia Gastaldi, morta nel 2001. Due i figli: Maurizio (1949) e Piergiorgio (1951). Nel 1968 diventa direttore generale della Snia Viscosa, dopo la fusione con la sua ex azienda.
Gli anni '70 e l'approdo alla Fiat - Nel 1970 l'Iri lo chiama in Alitalia: direttore generale, poi amministratore delegato. Nel 1973 è all'Italstat. Dal 1974 in Fiat: vive gli anni del potere sindacale, delle fabbriche ingovernabili, del terrorismo. Nel 1976 ne diventa amministratore delegato in un triumvirato con Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti. De Benedetti lascia dopo soli 150 giorni, ma il dualismo tra i due si trascinerà per anni.
La marcia dei 40 mila e gli anni '80 - Il 14 ottobre 1980, dopo 35 giorni di scioperi, 40 mila quadri della Fiat scendono in piazza contro il sindacato. Romiti, rimasto solo al comando di Fiat, arriva a un accordo che prevede una pesante riorganizzazione. Il 1980 è anche l'anno della Fiat Uno, lanciata in anteprima a Cape Canaveral. Nel 1987 la Fiat ha un fatturato proiettato ai 40 mila miliardi di lire, secondo gruppo italiano dietro l'Iri. Il merito è anche di Vittorio Ghidella, il responsabile del settore auto. Diversi i modelli lanciati in questo periodo: Uno, Thema, Y10, Croma. Nel 1989 gli utili netti toccano i 3.300 miliardi di lire, per l'85% dal settore auto.
Gli anni '90 e Tangentopoli - Poi scoppia la guerra del Golfo e le vendite di auto calano. Nel 1990 il marchio Fiat scende sotto il 40% In Italia, al 10% in Europa. "La festa è finita", dirà Gianni Agnelli. Nel 1991 Romiti è vicino all'acquisto di Chrysler. Anni dopo spiegò: "Io e Gianni Agnelli avevamo concluso l'operazione, ma Umberto Agnelli si mise di traverso". Sono anche gli anni di Tangentopoli. Nel 1997 Romiti viene condannato, insieme ad altri manager, per falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti e frode fiscale. Nel 2000 la Cassazione conferma la condanna a 11 mesi e 10 giorni di reclusione. Nel 2003 la Corte di Appello di Torino revoca la condanna perché il falso in bilancio non è più reato. Quando nel 1996 l'Avvocato lascia la Fiat a 75 anni, il testimone passa proprio a Romiti che resta presidente fino al 1998, al compimento dei 75 anni. Lascia la Fiat con una buonuscita da record: 105 miliardi di vecchie lire per i suoi 25 anni di attività, 147 milioni di euro di oggi. Subito dopo aver lasciato il Lingotto, entra nella finanziaria Gemina che controlla Rcs.
Gli anni 2000 tra Gemina e Rcs - Fino al 2005 è azionista di Impregilo. Poi entra nel business delle infrastrutture con la privatizzazione degli Aeroporti di Roma. Romiti è stato presidente di Rcs dal 1998 al 2004. Esce da Gemina nel 2004. Nel 2003 crea la Fondazione Italia-Cina che presiede dal 2004. Dal 2006 al 2013 è presidente dell'Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 2007 Romiti e i figli sono progressivamente estromessi prima da Gemina, quindi da Impregilo, infine da Aeroporti di Roma.
Benvenuto: “Io, avversario di Romiti dico: era duro ma leale”. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 18 agosto 2020. I due furono avversari nella celebre trattativa che portò alla marcia dei 40mila e alla fine della battaglia tra Fiat e sindacati. Il ricordo che Giorgio Benvenuto, storico leader della Uil negli anni più duri dello scontro tra aziende e sindacati, fa di Cesare Romiti, dirigente della Fiat per 24 anni e scomparso ieri all’età di 97 anni, è quello di un uomo “duro ma affezionato al dialogo, che non amava la retorica e difendeva i suoi interessi come d’altronde facevamo noi”.
Qual è il suo ricordo di Romiti?
«Era un interlocutore molto fermo, molto duro ma con cui si facevano gli accordi, e questa è la prima cosa importante. Le posizioni erano nette ma era duro perché rappresentava gli interessi dell’azienda. Io in particolare l’ho conosciuto quando lui era dirigente della Fiat e io ero segretario dei metalmeccanici quando c’erano anche Carniti e Trentin e poi sono stato segretario della confederazione insieme a Lama e allo stesso Carniti. Sono stati trent’anni in cui il sindacato ha svolto un ruolo predominante nel Paese, ma come sappiamo era un Italia molto diversa».
Cosa apprezzava del su modo di gestire le trattative?
«Io credo che sia sempre meglio aver un interlocutore chiaro nelle sue posizioni piuttosto che uno che ondeggia e non prende mai posizione. Ma anche noi difendevamo i diritti dei lavoratori con forza e quindi sapevamo che bisognava trovare un punto di accordo. A volte la bilancia ha pesato di più dalla parte nostra, altre volte dalla loro. Ma Romiti era una persona competente, capace, che non giocava alla divisione degli interlocutori, anche perchè allora il sindacato aveva un forte rapporto unitario e un dirigente che trattava con noi doveva fare i conti con la realtà».
Quando ha iniziato a interagire con Romiti?
«Il periodo di conoscenza reciproca è stato lunghissimo. Io ho iniziato a fare il sindacalista quando avevo 17 anni e già allora entrai nello staff del segretario generale della Uil. Ero l’ultima ruota del carro e dovevo imparare, ma da semplice apprendista ricordo l’impressione che mi dette quest’uomo giovane e molto abile nell’esporre le posizioni. Poi ho trattato con lui in qualità di segretario dei metalmeccanici e ho mantenuto un rapporto forte con lui quando ero parlamentare, eletto nel collegio di Mirafiori a Torino, così come da presidente della commissione Finanze. Negli ultimi anni ho avuto occasione di partecipare a molti “amarcord” nel ricordare i tempi che furono. Con lui erano difficili le guerre per errore, perchè anche quando c’erano opinioni diverse le discussioni erano molto chiare. Apprezzavo il suo modo deciso e questa sua visione generale dei problemi, non domestica, mi piaceva. Allora si guardava ai problemi di strategia, non al particolare».
La battaglia più importante, che tutti ricordano, finì con la celebre marcia dei 40mila. Cosa ricorda di quel periodo?
«Era il 1980 e uscimmo sconfitti dal contrasto che la Fiat aprì perché era con l’acqua alla gola e aveva bisogno di ristrutturare l’azienda. La marcia dei 40mila avvenne in un contesto completamente nuovo perché era finito il compromesso storico e il Pci era finito all’opposizione. In Polonia c’erano Solidarnosc e Lech Walesa e il momento era di forte dissenso tra sindacato e Pci. Noi, consapevoli che la situazione economica traballava, facemmo con il governo Cossiga un accordo per un fondo di solidarietà che doveva prevedere investimenti, infrastrutture e la modernizzazione dell’Italia meridionale. L’accordo fu combattuto aspramente dal Pci. Quindi il sindacato si trovò ad affrontare il problema della Fiat in un contesto politico debole. Berlinguer invitò a trattare come Walesa, con gli altoparlanti, a Torino e non a Roma. Per la prima volta i rapporti con il Pci furono davvero difficili e la forza veniva dalle avanguardie della Fiat con le quali non potevamo rompere. Eravamo forti come consenso e come delegati alle elezioni ma deboli come iscritti. In quella vicenda il sindacato giocò tutte le sue carte per arrivare all’intesa e avevamo quasi un accordo in tasca, poi avvenne la marcia dei 40mila e la Fiat seppe fare una politica molto abile nei mass media, con un grande impatto sull’opinione pubblica. L’azienda fece anche una mossa abilissima: mentre prima parlava di licenziamenti, con la caduta del governo Cossiga li trasformò in cassa integrazione guadagni. Noi non cogliemmo l’occasione per sospendere il blocco dei cancelli ma continuammo come sempre cercando di discutere sulle modalità della Cig. Romiti allora fece attaccare alle entrate degli stabilimenti l’elenco delle persone che andavano in Cig guadagni e questa abile mossa spaccò il sindacato, perché chi era nell’elenco voleva la lotta dura e chi non c’era voleva una soluzione. Ma Romiti non volle stravincere. Riuscimmo a fare un accordo, perché la nostra posizione è sempre stata quella di compromesso e non di rivoluzione».
Ma la storia che lega il sindacato e Romiti non fu segnata solo dalla marcia dei 40mila…
«Facemmo con lui altri accordi, come quello per trattenere l’Alfa Romeo nella Fiat. A quell’epoca eravamo tutti d’accordo anche se qualcuno poi si pentì. Molti videro nella Fiat il capitalismo da battere ma secondo me il sindacato, nato come forza antagonista, nel mondo di oggi della globalizzazione deve essere protagonista e avere spazi conflittuali ma anche costruire spazi di dialogo. L’interesse del sindacato è quello che l’azienda sia competitiva, perché se l’azienda va bene si può discutere con maggiore forza, ad esempio, sulla ripartizione dei profitti. Con l’Italtel, invece, fu diverso. In Italia c’è sempre stato un po’ di maschilismo e astio per le donne e l’ho visto nel sindacato, dove eravamo tutti uomini. Marisa Belisario era grande imprenditrice e avevamo fatto accordi d’avanguardia con contratti di solidarietà perché Telettra, una fabbrica della fiat, si accordasse con Italtel. Ma Romiti si oppose perché penso che tra i tanti pregi, avesse anche un grande difetto, quello di essere un po’ maschilista come tanti imprenditori e politici dell’epoca».
Erano, quelli, anche gli anni del terrorismo e degli omicidi in fabbrica. Come giudica quel periodo?
«Furono anni di forte tensione ma ricordo che Romiti aveva spinto il sindacato a prendere misure più ferme sul terrorismo e il sindacato non è caduto nella provocazione come sempre avviene di strafare, considerando terroristi anche sindacalisti un po’ rompiscatole. Ma i problemi esistevano alla Fiat come all’Alfa Romeo e devo riconoscere che la lotta al terrorismo vide impegnati i tre sindacati in maniera molto forte, così come il partito comunista».
Cosa ricorda del Cesare Romiti uomo, al di fuori delle sale dove discutevate gli accordi tra sindacato e azienda?
«Era persona molto simpatica, potevamo dialogare con lui, in tanti momenti difficili trovavamo l’occasioni per scambiare opinioni e valutazioni con lui, anche negli anni della vecchiaia. Non amava la retorica, era un uomo concreto. Oggi ci sono i monologhi, mentre lui era un uomo del dialogo. Aveva anche una grande attenzione, io gli dicevo sempre che aveva fatto un po’ come Nenni, aveva capito l’importanza della Cina. Nel mondo bipolare che ha caratterizzato la prima repubblica la Cina era un fattore interessante nel campo degli scambi commerciali. É stato un presidente molto rispettato dell’associazione Italia Cina ed è stata una persona molto attenta alla cultura, alla conoscenza, alla città di Torino. Aveva una visione larga dei problemi. A me viene da sorridere quando sento dire che era un duro, perché ho sempre preferito quelli come lui che rappresentavano i suoi interessi conto il sindacato che rappresentava in modo determinato i propri. Il ruolo del sindacato è quello di trovare compromessi e con Romiti si riusciva. Ci preavvertiva anche dei grandi progetti della Fiat, come l’accordo con Iacocca per la Chrysler, poi fatto da Marchionne ma di cui si parlava già alla fine degli anni ’80. Ormai fuori dai riflettori, durante le tavole rotonde era come una rimpatriata. Avevamo dimenticato la durezza degli incontri e dopo venti o trent’anni ragionavamo di come questo filo non si era mai interrotto. Sono molto dispiaciuto per la sua morte…»
Cesare Romiti: "C'è un clima becero, non importa chi vince, il problema sarà ricostruire il Paese". Parla l'uomo che dirige tuttora la Fondazione Italia-Cina. Approdato in Fiat nel 1976 ha rivestito le cariche di direttore generale, amministratore delegato e presidente della casa automobilistica: "Abbiamo difficoltà gravi e una classe dirigente modesta. A Roma ho votato M5S, era il cambiamento". Alessandro Longo il 27 novembre 2016 su La Repubblica. "Vede questo disegno? L'ha fatto Asia, una bimba di due anni e mezzo, la stessa età di una mia pronipote. Mi ha chiesto un pennarello. Io parlavo con sua mamma, una ragazza madre, e lei si è ritratta sdraiata sul letto mentre la sua casa veniva giù con il terremoto. "Sai, il mio letto è caduto", mi ha detto". Cesare Romiti, 93 anni, ancora attivissimo con la presidenza della fondazione Italia-Cina, siede alla scrivania della sua bella casa di via Pinciana a Roma e tiene in mano quel foglietto. L'età ne ha addolcito il carattere (quando non parla di politica): "Aiuto personalmente un certo numero di famiglie che hanno perso tutto. Sono andato da solo ad Amatrice ed Accumoli. Non ho voluto incontrare nessuno, solo una preside. Le scuole: bisogna occuparsi delle scuole e delle persone. Questa dovrebbe essere la priorità della politica".
Dottor Romiti, come vede questo Paese?
"Respiro un clima pessimo, c'è gente che urla, c'è acredine, malessere".
Si riferisce agli ultimi giorni di battaglia sul referendum?
"Anche. Mai vista una campagna così becera nemmeno ai tempi di Monarchia/Repubblica. Non sono preoccupato per l'esito. Comunque vada, il problema sarà ricucire le lacerazioni".
Ha deciso per chi votare?
"Quasi, ma non glielo dico. C'è tempo fino all'ingresso in cabina per prendere una decisione. Il voto non va ostentato. Prodi fa benissimo a non divulgare la sua scelta".
Si poteva evitare lo scontro frontale fra le due posizioni?
"Si doveva evitare. Anche se gli italiani si son sempre divisi tra guelfi e ghibellini. La litigiosità è nel loro Dna. Però non bisognava portarli fino a questo punto".
Colpa del premier?
"Non voglio prendermela con lui. Avrà pure personalizzato ma gli altri gli sono andati dietro. L'ho conosciuto quando era sindaco, ho pranzato a Palazzo Vecchio. Mi era sembrato un giovane brillante anche se non ho mai condiviso la parola rottamazione, la trovo offensiva".
Come si fa a ricomporre il quadro di una comunità?
"Io amo l'Italia, è proprio questa la mia preoccupazione. Guardi che cosa succede intorno a noi, i borghi distrutti dal terremoto, fiumi che esondano, scuole e ospedali che non sono sicuri, c'è un Paese da ricostruire e bisogna chiedere agli italiani di contribuire. Se hai la neve davanti a casa, e ti chiedono di spalarla, lo fai, però ci deve essere un clima di solidarietà, un orizzonte comune da condividere. È stato così dopo la guerra. Dalle macerie siamo risorti diventando forti a livello mondiale. Oggi purtroppo non c'è un piano Marshall, ci dobbiamo arrangiare da soli. E allora i politici non dovrebbero fare la politica per la politica ma agire con i fatti".
La classe dirigente nel suo complesso non le sembra all'altezza?
"Mi sembra molto modesta".
Come si spiega la fascinazione di certa sinistra per Marchionne e la grande apertura di Marchionne nei confronti del premier?
"Avrei una risposta cattiva, ma non gliela dico. Non parlo di Fiat".
C'è tanta rabbia in giro, nessuna mobilità sociale. Lei racconta sempre di aver fatto la fame e molti lavori dopo la guerra, però poi è diventato Romiti. Oggi per i giovani è dura. "Infatti lo squilibrio è troppo forte. La disoccupazione giovanile in Italia, rispetto alla Germania, è ancora a livelli inaccettabili. E non bastano i voucher, non basta lavorare un'ora alla settimana. Io sento quello che dice la gente".
In America hanno preferito Trump.
"È il ceto medio impoverito che ha decretato la bocciatura della Clinton e ha scelto Trump con i suoi modi che noi definiremmo da cafone. Dovrebbe essere una lezione anche per noi".
Non mi vuol dire che cosa voterà al referendum ma mi può dire chi ha votato a Roma.
"Virginia Raggi. È giovane, rappresenta un cambio di mentalità. Ha avuto inizi stentati ma bisogna darle tempo".
Il centrodestra come lo vede?
"Sono stato - e sono - amico di Berlusconi ma non si può rimanere in prima linea a qualunque età. Si tiri indietro! Stefano Parisi a me sembra in gamba. Doveva aiutarlo, non buttarlo giù".
Se dovesse dare un consiglio a Renzi?
"Non lo accetterebbe. È sicuro di sé, beato lui".
Dottor Romiti, che cosa succederà il 5 dicembre?
"Niente, che cosa deve succedere? Le ripeto la frase di Obama: "Il sole sorgerà come tutti gli altri giorni"".
Romiti: "Marchionne ottimo negoziatore ma bisogna vedere chi ha salvato chi". L'ex numero uno di Fiat: nel 1990 ci tirammo indietro per i troppi debiti di Iacocca. Ettore Livini (04 gennaio 2014) su La Repubblica. "Fiat-Chrysler? Faccio i miei auguri al Lingotto. Quando trattammo l'avvocato Agnelli e io per comprare Detroit da Lee Iacocca nel 1990 ci tirammo indietro perché i debiti della società Usa rischiavano di trascinare a fondo noi. Mi auguro che oggi i conti di Chrysler siano diversi... Ma, è ovvio, spero che tutto vada bene". Cesare Romiti è rimasto al volante della Fiat per 22 anni, dal 1976 fino al 1998. Il blitz americano di Marchionne - per lui che trent'anni fa fu a un passo dalla stessa acquisizione a stelle e strisce - è un deja-vu senza troppi rimpianti. E soprattutto - assicura - è un'operazione vitale per il gruppo torinese colpevole negli ultimi anni di "mancanza di coraggio sugli investimenti".
Come giudica l'operazione Dottor Romiti?
"È indubbio che Marchionne sia stato un ottimo negoziatore. Ma non saprei dire chi ha salvato chi tra le due società. L'avvocato Agnelli e io siamo stati accusati anche negli ultimi giorni di esserci lasciati sfuggire la Chrysler negli anni '90. Non è vero. Rinunciammo noi ad acquistarla, dopo molte riunioni e con dispiacere. Ma allora i conti non tornavano. Noi eravamo perplessi e Umberto Agnelli era addirittura profondamente contrario: i guai di Detroit rischiavano di affondare la Fiat. Spero ora abbiano fatto bene i conti e che i numeri siano cambiati. Se non fosse così, faccio i miei auguri...".
Non crede che oggi come oggi la Fiat senza Chrysler avrebbe rischiato di andare a fondo lo stesso?
"Non lo so. Di sicuro io imputo al Lingotto la mancanza di coraggio sugli investimenti degli ultimi anni. Da molto tempo non si vedono nuovi modelli e gli investimenti sulla produzione e nei paesi emergenti sono fatti con il contagocce. Facendo così si sono persi molti treni".
Non rischiavano di essere soldi buttati dalla finestra?
"No, è stato un errore. Noi nei periodi di crisi ne approfittavamo per investire di più. Buttavamo sul mercato nuove autovetture all'avanguardia, puntavamo sulla progettazione. Nel 1974 dopo la crisi petrolifera di soldi ce n'erano pochi. Ma abbiamo avuto il coraggio di costruire lo stabilimento di Belo Horizonte in Brasile che - me lo lasci dire con soddisfazione oggi - ha tenuto in piedi per tanti anni i conti della Fiat".
Il sindacato teme che ora Fiat trasferisca la produzione verso gli Usa a danno degli stabilimenti italiani. C'è davvero questo rischio?
"Non voglio entrare in campi che non mi competono. Qualche dubbio ce l'ho, ma preferisco tenerlo per me...".
Come giudica il ruolo della politica nella partita Fiat e più in generale della difesa del sistema manifatturiero tricolore?
"La politica non è intervenuta né ha chiesto garanzie al Lingotto. Ormai scende in campo solo a cose fatte, quando c'è da sistemare le questioni sindacali. Per carità, anche quello è necessario. Ma i risultati di questalatitanza si vedono. Qualche anno fa l'Italia aveva cinque o sei grandi aziende di respiro mondiale. Oggi non ce ne sono più. Colpa di tutti, maggioranze e opposizioni. E ora rischiamo pure di perdere Telecom Italia".
Colpa solo della politica o c'è anche lo zampino di un'imprenditoria inadeguata alla sfida della globalizzazione?
"Di tutte e due. Di sicuro l'imprenditoria di casa nostra si è seduta sugli allori e non si è rinnovata in tempo. Ha fatto la scelta provinciale di non scommettere sull'estero preferendo la sicurezza del mercato domestico. E oggi paghiamo il conto ".
Nostalgia della sua Mediobanca? Molti dicono che proprio il sistema un po' asfittico dei salotti buoni e dei patti di sindacato sia una della cause principali del declino dell'Italia Spa...
"Mediobanca ha fatto un lavoro eccezionale. Ha rimesso in piedi il sistema nel dopoguerra e creato gruppi di dimensioni globali. Ma i tempi cambiano. Oggi non ci sono più un Raffaele Mattioli, una Banca Commerciale e un Enrico Cuccia, artefici di questo processo. E l'addio ai patti sindacato e al capitalismo di relazioni, in un mondo del tutto differente, è un fatto del tutto fisiologico".
Paolo Madron per il Sole 24 Ore - 15 feb 2009 - ESTRATTO. A giugno compirà 86 anni, ma non li dimostra. Per la verità Cesare Romiti i suoi anni non li ha mai dimostrati. È sempre stato un esempio eclatante di come, felice eccezione, l'età anagrafica non renda giustizia a quella fisica, e ciò senza l'ausilio di creme, bisturi e tinture. Una longevità che si spiega forse col fatto che sulla ribalta ci è arrivato tardi, visto che in Fiat, l'inizio della sua rutilante vita pubblica, è approdato che aveva già passato i cinquanta.
Carriera inarrestabile, la sua. Fatta di potere, successo, fortuna, qualche smacco e molta mondanità…Non è di sinistra. Ma almeno le piace il Pd di cui un suo arcirivale prese la tessera numero uno?
«Io non ho mai preso una tessera di partito. L'unica volta che ho pensato alla politica fu quando Silvio Berlusconi mi chiese di candidarmi a sindaco di Roma contro Walter Veltroni».
E lei?
«Da bambino avrei voluto fare il segretario comunale di un piccolo paese, il guardiano di un faro o il direttore d'orchestra. Da grande mi sarebbe piaciuto lavorare per la mia città».
Ma Roma non è un piccolo paese...
«Lo so, però mi sarebbe piaciuto lo stesso occuparmene. Comunque non se ne fece niente. Era prima di Natale, Berlusconi poi partì per le vacanze e qualche giorno dopo lessi sui giornali che aveva candidato Antonio Tajani».
Ci restò male?
«Un po', ma mi consolai pensando a quel che mi diceva ogni tanto Enrico Cuccia quando mi lamentavo di qualcosa che non ero riuscito a fare. «Romiti, probabilmente la Provvidenza le ha messo una mano sulla testa»».
La sua vita professionale si divide in due: un lunghissimo periodo in Fiat, e un breve dopo Fiat. Abbastanza per farsi molti amici e altrettanti nemici. Il primo fu Carlo De Benedetti. Si dice che fu lei a mettere la pulce nell'orecchio dell'Avvocato insinuando che stava scalando la Fiat.
«Più che nemico l'Ingegnere è stato un mio rivale. Dirigeva la Gilardini che poi noi comprammo in cambio di azioni Fiat. La trattativa la fece con Gianni e Umberto Agnelli, spuntando una cifra che io certo non gli avrei mai dato. Quando entrò al Lingotto pensò di poterla fare da padrone assoluto».
Se fu così lo fece per poco...
«Cento giorni in cui voleva cambiare tutto, comandare. Ma mi accorsi che certe sue operazioni non mi convincevano».
Nel '91 stava per comprare la Chrysler. Che cosa non funzionò?
«Io e Gianni Agnelli avevamo concluso l'operazione con Lee Iacocca, ma Umberto Agnelli si mise di traverso. E l'Avvocato mi disse che non poteva andare contro suo fratello».
Uno dei tanti episodi dell'antagonismo tra romitiani e umbertiani. Da dove nacque la mitica rivalità?
«Quando arrivai nel 1974 la Fiat era in gravissima crisi. Poco dopo sembrò che l'Avvocato entrasse in politica, anche se qualcuno lo voleva ambasciatore negli Stati Uniti nel caso in Italia i comunisti avessero preso il potere. Poi Umberto si candidò con la Dc, creando un pasticcio infinito. Ci furono molti contrasti, e io ero rimasto il solo a pensare all'azienda».
Umberto aveva anche una concezione diversa della gestione.
«Umberto sosteneva la tesi che dovevamo tenere un profilo basso, fin quasi alla rassegnazione. Mentre i sindacati erano fortissimi e le Brigate rosse ammazzavano i nostri uomini. Io invece dicevo che bisognava parlare, reagire e agire».
Come finì?
«Venne Enrico Cuccia in Fiat per dire all'Avvocato che il timone doveva tenerlo uno solo, cioè io. Umberto fu molto dispiaciuto».
Quando si è incrinato il feeling con Gianni Agnelli?
«Nel '93, quando l'Avvocato aveva promesso a Umberto che avrebbe preso il suo posto, e che anch'io sarei uscito: qualcuno della famiglia aveva messo Agnelli sul chi vive dicendo che avendo io in mano l'azienda prima o poi non avrei resistito a diventarne il padrone. E lì si raffreddarono temporaneamente i rapporti».
A pensar male si fa peccato ma quasi sempre...
In effetti era successo con De Benedetti, poi più di recente con Giuseppe Morchio. Ma io non ci pensavo proprio».
Agnelli la visse come un'imposizione di Cuccia, e lì si guastarono i rapporti anche con Mediobanca.
«No, successe quando io me ne andai e la famiglia volle trasformare il patto parasociale con gli altri soci in patto di consultazione. Alcuni pensavano che fosse stata espropriata loro l'azienda e che era venuto il momento di riprendere il comando».
Si racconta che nel '93, quando Agnelli andò a Milano per informare Cuccia del suo cambio con Umberto, il banchiere si rifiutò di riceverlo.
«Vero. Gli disse al telefono che se il motivo della visita era quello si poteva risparmiare il viaggio».
Un giorno ho chiesto a Vincenzo Maranghi di spiegare il legame tra lei e Cuccia. Lui allargò le braccia, poi parlò di attrazione degli opposti.
«Ha sbagliato interlocutore, perché Maranghi è sempre stato molto geloso del mio rapporto con Cuccia».
Per forza, era convinto che lei potesse insidiargli il ruolo di erede designato.
«Lo so, ma Cuccia voleva bene a Maranghi come a un figlio. Non ha mai avuto dubbi su chi dovesse essere il suo erede. E io, conoscendo il suo pensiero, non avrei mai violato il desiderio di vederlo suo successore».
Poi ci fu Tangentopoli, altro capitolo triste per la Fiat.
«Fu una bruttissima storia».
Ne uscì perché i magistrati dissero che lei poteva non sapere.
«Trovo che il capo di un gruppo delle dimensioni di Fiat poteva non sapere quel che succedeva in qualche sua controllata. Ma la cosa fu minata da un'accesa rivalità tra le Procure di Milano e Torino. M'interrogò Antonio Di Pietro e mi lasciò andare concludendo che non c'erano motivi per proseguire. Torino disse no, dobbiamo indagare anche noi. E lì successe una cosa molto grave che nessuno mai disse».
La dica adesso.
«A un certo punto la Procura di Torino mandò a chiamare Enzo Gandini, l'avvocato della Fiat, e gli disse: «Non possiamo andare avanti con documenti che ci arrivano dagli avversari interni di Romiti»».
A chi alludeva?
«All'entourage di Umberto Agnelli. Mi fiondai dall'Avvocato che era in Svizzera e gli comunicai che se le cose stavano così me ne sarei andato. Allora Agnelli, a seguito dell'incontro di Gandini con gli inquirenti, ebbe un colloquio personale riservato in Prefettura. Subito dopo mi pregò di continuare il mio lavoro».
Nel '98 arriva a Milano in Rizzoli. Mi ricordo una copertina di «Panorama» con una foto di lei in Galleria, posa statuaria, e sotto un titolo: «Il ciclone». Invece fu solo un venticello.
«Fui frenato dalle molte raccomandazioni dell'Avvocato di andarci cauto con i giornali. Lo diceva perché aveva un debole per la stampa, gli piacevano i giornalisti».
Me lo raccontò suo cognato Carlo Caracciolo. Disse però che gli rifiutò i soldi quando l'«Espresso» era in difficoltà.
«La trattativa la feci io. Dissi a Caracciolo che gli avremmo dato i soldi della Fiat se lui ci dava in garanzia le azioni dell'«Espresso ». «Mai e poi mai», mi rispose. E allora non ne facemmo nulla».
Stavamo parlando di Rizzoli.
«Sa di che cosa mi vanto del periodo in cui sono stato presidente? Di aver impedito qualunque interferenza dei politici nell'ambito dell'azienda. E sapesse quanti sono stati i tentativi che io ho stoppato violentemente».
Da parte di chi?
«Di molti: destra, centro e sinistra. Ma anche gli azionisti ci si mettevano d'impegno. Una volta un consigliere ce l'aveva perché il Corriere aveva scritto un paio di articoli sulla Banca d'Italia che non erano piaciuti a qualcuno. Mi chiese per lettera la testa del direttore, che era Ferruccio de Bortoli. Io gli dissi: «Benissimo, porto la sua richiesta in consiglio d\'amministrazione». Lui allora si riprese la lettera e la stracciò».
A un certo punto lei se la prese anche con i giornalisti invitandoli a tenere la schiena dritta.
«Fu a un convegno a Venezia. C'era anche Eugenio Scalfari. I giornalisti denunciavano che la categoria pativa troppe pressioni. Io dissi: «Vergognatevi, se avete coraggio tiratevi su i pantaloni e andate avanti senza lamentarvi»».
Perché da noi il Corriere della sera è l'ombelico del mondo?
«Mah, è il giornale in cui s'identificava la borghesia. Tutti ci volevano mettere un piede dentro. Una volta, alla scadenza del patto di sindacato, io sostenni che di azionisti ce n'erano già troppi. Ma Giovanni Bazoli disse che l'Avvocato, già malato, gli aveva chiesto di farne entrare un altro paio».
Lei punzecchiava Agnelli persino sul suo diritto di nomina del direttore.
«L'Avvocato aveva due passioni...»
I giornali e le donne...
«Allora facciamo tre: giornali, diplomazia e donne. I giornali lo capisco bene, hanno tanto intrigato e divertito anche me».
Anche le donne se è per questo, ma ne parliamo dopo. Agnelli aveva stretto un gran rapporto con Paolo Mieli.
«Vero, lo divertiva e sapeva intrattenerlo. Ma sa come definiva Mieli? «È come la saponetta che uno tiene mentre si fa la doccia. Ti sfugge sempre di mano».
Lei è sempre stato uno di età anagrafica molto superiore a quella che dimostra...
«Sa a quanti anni sono entrato in Fiat?»
Se non sbaglio a 51. Un giorno il procuratore Sandrelli di Torino disse di lei ammirato: «L'ho interrogato per otto ore e non mi ha mai chiesto di andare a far pipì».
«Magari invece pensava che fossi malato...»
La bontà della sua prostata introduce un tema privato, ma vorrei che ne parlasse lo stesso. Lei è sempre stato un uomo molto esuberante, che viveva le sue storie sentimentali non certo di nascosto.
«Ci crede se le dico che il è più grande dolore della mia vita è stato quando ho perso mia moglie?»
Ci credo. Ma uno potrebbe chiederle conto di questa sua doppia morale.
«Non era una doppia morale. Lei c'era, era un punto di riferimento fondamentale. Poi è vero, anche nei sentimenti uno dovrebbe essere coerente. Ma io sapevo che la mia casa era là, che sarei sempre tornato. Anche se mia moglie Gina ne ha sofferto molto».
E i suoi figli?
«I miei figli li ha sempre curati lei. Però a diciotto anni mi hanno regalato una targa che tengo appesa dove hanno riconosciuto che l'esempio è la più alta forma di autorità da me esercitata».
L'Avvocato che cosa diceva di questo suo attivismo sentimentale?
«Lo divertiva. Una volta mi consegnò una lettera anonima che gli era arrivata. Mi disse: «Senta Romiti, mi sembra giusto dargliela. Ma sapesse quante ne ha date Valletta a me...». Invece la cosa più bella in materia me la disse Enzo Ferrari».
Che cosa le disse?
«Pranzando una volta a Fiorano mi disse: «Io so che lei sta facendo carriera e sarà un uomo di grande successo. Ma si ricordi che accanto a un uomo di successo ci deve essere sempre una donna». Io lo guardai, lui si fermò un attimo e poi aggiunse: «Naturalmente cambiandola ogni tanto»».
Conosco donne che si innamorarono follemente di lei e soffrirono molto quando le lasciò.
«Ah sì? La prego, non mi dica i nomi...»
Io non le dico i nomi, ma lei mi dica se ha rimpianti.
«Forse per certi interessi che non ho potuto coltivare. In Fiat lavoravo dodici ore al giorno e mi rimaneva poco tempo per il resto».
DAGOREPORT, 13 gen 2010 - ESTRATTO. Paolo Mieli ne avrebbe di cose da raccontare. Ad esempio, da chi e in quali stanze di via Solferino sarebbe stato scritto il memoriale - ufficialmente "uscito" dal carcere di S.Vittore, del manager Fiat Enzo Papi. Confessioni che il Corrierone pubblicò in cultura con una prefazione del filosofo ex marxista, Lucio Colletti. Memoriale, va spiegato, venuto alla luce negli stessi drammatici giorni in cui i giudici di Milano tenevano recluso Francesco Paolo Mattioli. Il numero tre della Fiat scomparso l'altro giorno, tenuto in gabbia al solo scopo di potergli estorcere il nome (meglio offrigli la testa) di Cesarone Romiti. Dicevamo, neppure la scomparsa prematura di Francesco Paolo Mattioli, per vent'anni braccio destro di Cesare Romiti alla Fiat, l'altro giorno ha solleticato la casta dei mandarini dei media a una riflessione meno volgare e sempliciotta della stagione di Mani Pulite. Con i suoi tanti morti e feriti. Eppure Paolo Mattioli (38 giorni di carcere nella stessa cella di S.Vittore già occupata da don Salvatore Ligresti) è stato uno dei pesci più grossi finiti nella rete della procura di Milano.
Cosa accadde quel 22 febbraio del '93. Quando i carabinieri fecero irruzione ai piani alti di Corso Marconi (l'ottavo per l'esattezza) perquisendo gli uffici dell'Avvocato, di Romiti e di Mattioli. Il commento che nel giorno della profanazione del tempio Fiat diede alle stampe il suo giornale. Allora guidato dal tosto Ezio Mauro. Un giornalista, Mauro, impegnato a sostenere i pm di Mani pulite fino a quando Di Pietro non è andato a bussare con i piedi l'uscio dei suoi padroni di casa: l'intoccabile famiglia Agnelli. Il gruppo che fino a quel momento, a dare ascolto all'Avvocato e a Romiti in processione dal card. Martini, aveva sempre negato di aver elargito tangenti a qualunque titolo. Anzi, a un certo punto, sostennero addirittura di essere stati concussi. Ed è lo o stesso Mauro-Tarzan che oggi, sbarcato alla Repubblica di paron De Benedetti, ha riabbandonato la liana garantista per tornare a spalleggiare (e incoraggiare) i giudici inquirenti in ogni loro iniziativa contro Berlusconi, il Pdl e, ovviamente, gli ex socialisti (da oltre dieci anni considerati come carne da macello). Così, il giorno dopo l'incursione della Benemerita in corso Marconi, l'Enzino di Dronero scoprì che il pool di Mani pulite stava esagerando. Ma senza scendere personalmente in campo. Il commento (o pezza d'appoggio) come per il caso Papi di cui si è detto al Corriere (prefazione al memoriale di Colletti) fu affidato a un altro filosofo, sia pure del pensiero debole, Gianni Vattimo. Vale la pena rileggere la sua prosa stupefacente: "Specialmente a Torino, arresti come quelli di Mattioli e Mosconi fanno un'impressione profonda, abissalmente diversa da quella che pure si è provata per gli avvisi di garanzia a politici di primissimo piano come Craxi...". Capito, cosa può produrre il pensiero filosofale debole (o Lebole)? Nell'elenco degli intellettuali organici, allineati alle direttive del potere da Pigi Battista nel suo saggio i "Conformisti", ovviamente non figurano né il filosofo Vattimo, né il politologo Panebianco né l'ex collaboratore del socialista Claudio Martelli, Ernesto Galli della Loggia. Tutti autoassolti i compagnucci della parrocchietta di Paolino Mieli.
PS - La foto di Mattioli, apparsa sul Corriere, che usciva dalla galera con la faccia spettinata, disfatto e mesto, costò il posto da direttore all'allora vice-direttore Giulio Anselmi (Romiti furioso).
DAGOREPORT - 13 gen 2010. Salvo Montezemolo in prima fila, erano pochi gli esponenti della vecchia guardia Fiat che ieri mattina alle 10 nella chiesa di Santa Maria del Carmine hanno partecipato ai funerali di Francesco Paolo Mattioli, l'uomo che per due decenni ha lavorato alla corte di Giovanni Agnelli e ha guidato la finanza della Casa torinese. Era assente Sergio Marpionne, il manager che dal Salone dell'Automobile di Detroit continua a ribadire la volontà di chiudere Termini Imerese con toni così aspri che nemmeno Romiti ha usato quando era al vertice della Fiat. La distanza tra il "nuovo corso" del Lingotto e l'epoca in cui il tandem Romiti-Mattioli ha guidato l'azienda non è soltanto fisica, ma profondamente simbolica, quasi a segnare il solco tra due mondi lontani di cui il 70enne finanziere appena scomparso rappresentava una delle ultime appendici. Va detto subito che a molti esponenti della vecchia guardia Fiat, nella quale oltre a Romiti bisogna aggiungere i nomi di Cantarella, Garuzzo, Annibaldi e Paolo Fresco, non deve essere piaciuto il modo con cui i giornali hanno liquidato il profilo del "ragazzo Mattioli". All'Avvocato piaceva definire "ragazzo" questo romano elegante e dall'inglese fluente che solo dopo l'uscita da San Vittore dove fu rinchiuso per 38 giorni sfogava la sua rabbia concedendosi qualche raro turpiloquio. In particolare, alla vecchia guardia Fiat non deve essere piaciuta l'insistenza con cui il "Sole 24 Ore" di ieri ha ricordato la penosa vicenda di Tangentopoli con aneddoti che hanno messo in ombra la storia e il valore di questo manager. Eppure di Francesco Paolo Mattioli si potevano ricordare non solo il curriculum che inizia a 22 anni con l'attività di Procuratore alla Borsa di Roma e arriva in Fiat nel maggio '75 dopo cinque anni di lavoro al fianco di Romiti in Alitalia, ma le vicende che l'hanno visto al centro dei più importanti avvenimenti che hanno segnato la storia della Fiat negli anni ‘90. Fu Romiti, romano d'origine, a formare nel 1985 la "squadra dei romani" in contrapposizione ai top manager torinesi che già nel '78, quando Cesarone approdò in Fiat per volontà di Cuccia, storsero la bocca di fronte all'invasione dei "capitolini". Qualcuno dovrebbe cercare tra le vecchie annate del settimanale economico "Espansione", la mappa disegnata dal giornalista Roberto Ceredi, in cui le due "squadre" erano definite nei dettagli con estrema precisione e grande realismo. Appena il giornale uscì nelle edicole, Alberto Nicolello, l'uomo che dirigeva l'ufficio stampa e poi fu destinato a seguire l'editoria del Gruppo torinese, piombò a Segrate per ordine di Romiti mostrando una finta sorpresa. In realtà il tandem dei romani Romiti-Mattioli dava fastidio soprattutto a Umberto Agnelli e agli uomini dell'Ifil, la cassaforte della Sacra Famiglia guidata da Gianluigi Gabetti. E Mattioli si trovò in mezzo nel '92 allo scontro furibondo che portò Umberto a scrivere nel gennaio di quell'anno una lettera al fratello Gianni in cui sfiduciava Cesarone Romiti. Il fratello dell'Avvocato puntava alla successione, ma l'impresa era difficile in un momento in cui la Fiat aveva debiti per 3.849 miliardi e 1.800 miliardi di perdite. Fu Enrico Cuccia, lo sponsor di Romiti e di Mattioli a chiedere all'Avvocato di tenere a bada il fratello e così avvenne anche se Giovanni Agnelli negli anni non si stancò mai di ripetere che Umberto sarebbe stato il suo successore. Resta il fatto che nel novembre del '92 la guerra tra "romitiani" e "umbertini" finisce e si apre la strada al salvataggio della Fiat sotto la regia di Cuccia e delle banche. Francesco Mattioli diventa a pieno titolo il principe della finanza e siede al vertice dell'azienda accanto a Garuzzo, Cantarella, Quadrino, Callieri, e all'ambasciatore Renato Ruggiero al quale vengono affidati i rapporti internazionali. Il vincitore della battaglia torinese è il supermanager dal medagliere pesante, Cesarone Romiti, che tiene a bada il "clan dei torinesi" e si ripropone come nel 1980 con la "marcia dei 40mila" salvatore della Fiat. Accanto a lui c'è Mattioli, ma nei primi mesi del '93 si abbatte su Torino il ciclone di Tangentopoli. Tutto ebbe inizio nel maggio dell'anno precedente quando a San Vittore finì Enzo Papi, l'uomo che guidava Cogefar Impresit, l'azienda di costruzioni del Gruppo, e che fu accusato di aver distribuito mazzette per il passante ferroviario di Milano. Nel febbraio del '93 Mattioli, che di Cogefar era presidente, viene arrestato insieme al manager Antonio Mosconi e un ordine di custodia cautelare viene emesso anche per il direttore generale della Fiat, Giorgio Garuzzo, inquisito per una tangente di 1 miliardo e 400 milioni che l'Iveco avrebbe pagato nel 1986 alla Dc e al Psi per un'altra commessa pubblica. La storia di quei giorni è una storia drammatica che scuote la Sacra Famiglia degli Agnelli dove si comincia a pensare che il pool di Mani Pulite voglia abbattere l'impero torinese e il suo imperatore. Chi ha voglia di ricostruire quelle giornate non ha che da leggere le 2.094 pagine della "Storia della Fiat" curata dallo storico Valerio Castronovo, un libro che a Cesarone Romiti ha dato molto fastidio per il rigore e l'obiettività. In quel testo si legge che l'arresto di Mattioli nel febbraio ‘93 fu un colpo durissimo. In aprile Gianni Agnelli durante un convegno della Confindustria Venezia ammise che la Fiat aveva sbagliato ("si sono verificati alcuni episodi di commistione con il sistema politico non corretti. Però il cuore della Fiat resta sano"). Poi Romiti si fiondò davanti a Borrelli e gli consegnò un memoriale che era un vero atto di contrizione, del tutto simile a quello pronunciato pochi mesi prima in un incontro con l'arcivescovo di Milano, cardinal Martini. Fu l'inizio della collaborazione con Mani Pulite, un atto dovuto perché il cerchio si stava stringendo intorno a lui e rischiava di arrivare al tesoretto di fondi neri che l'Impresit aveva costituito per pagare le tangenti. La cronaca di quei giorni dice che nei 38 giorni a San Vittore, Mattioli non aprì bocca e non fornì alcuna conferma agli zelanti collaboratori di Saverio Borrelli. E c'è ancora qualcuno a Torino che ricorda le malignità dell'epoca, quando nei corridoi di Corso Marconi e del Lingotto si diceva che il silenzio di Mattioli era stato pagato profumatamente con 1 miliardo per ogni giorno di detenzione. Ecco, il Mattioli manager e finanziere è l'uomo che ha vissuto queste vicende trascinate fino al giugno '94 quando Romiti fu sottoposto dalla Procura torinese a un interrogatorio-fiume di 8 ore in cui disse che non poteva sapere tutto su un Gruppo come la Fiat con 1.000 società e 300mila dipendenti. La storia è andata così, ed è una storia che è arrivata a sfiorare i Savoia dell'automobile e si può tranquillamente aggiungere al capitolo dei misteri italiani. Ma a chi ha conosciuto Mattioli da vicino non piace ricordare gli aneddoti di San Vittore (come ha fatto ieri il giornale di Confindustria) quanto piuttosto il ruolo che il nipote del grande banchiere Mattioli, ha avuto nell'establishment bancario, creditizio e finanziario. Nella holding di Corso Marconi era l'interfaccia e l'interlocutore di Gabetti, e nell'azienda il secondo pilastro della politica romitiana che ha portato a dilatare le attività finanziarie fino al punto di sminuire le strategie industriali. E accanto a questi ricordi bisogna aggiungere quello del Mattioli che seguiva ai tempi di Gemina le attività editoriali della Rizzoli di cui la Fiat era primo azionista. Era lui che ogni mercoledì si spostava da Torino ed entrava in via Turati a Milano per fare il punto della situazione con il direttore generale Felice Vitali. Lo faceva con quella discrezione che nei necrologi gli è stata da tutti riconosciuta, ma dopo i 38 giorni di Tangentopoli non c'è dubbio che la sua personalità fu sconvolta. Anche se Romiti lo reintegrò subito e completamente gli strascichi psicologici non lo hanno mai abbandonato e chi l'ha visto negli anni successivi ha trovato un uomo ripiegato sugli affetti. La "nuova" Fiat, quella che sta spostando il baricentro a Detroit e che crede di nuovo nell'automobile, ieri non c'era nella chiesa romana, ma a ricordare il romano principe della finanza ci ha pensato l'86enne Cesarone Romiti con parole sobrie e struggenti.
Il più importante dirigente d’azienda. Ritratto di Cesare Romiti, padrone d’Italia che sconfisse Berlinguer e si inchinò a Di Pietro. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Agosto 2020. È morto Cesare Romiti, aveva 97 anni, è stato di certo il più importante dirigente d’azienda della storia italiana, ha guidato la Fiat, da sovrano, per 25 anni, dal 1976 fino alla fine del secolo, ha ottenuto risultati clamorosi, ha sconfitto tanti avversari interni, ha tenuto sotto il suo potere anche Gianni Agnelli, ha battuto i sindacati e ha pareggiato coi Pm. Ha una storia ricca davvero di intuizioni, di decisioni e di successi. Ha imposto all’Italia due svolte: quella del 1980, quando ha posto fine al compromesso storico, dando scacco a Berlinguer, alla Dc, e alla potenza del sindacato; e poi quella del 1992-1993, quando ha dato il via libera al pool dei Pm di Milano e all’annientamento della Prima repubblica. Romiti ha cambiato l’Italia, in modo netto, radicale. In meglio? Può darsi. Più probabilmente in peggio. Romiti è nato a Roma nel 1923. Il padre era povero e morì giovane, a 47 anni. Cesare lavorava la sera come garzone, per portare qualche soldino a casa, e poi di giorno andava a scuola. In classe, al banco vicino al suo, c’era un ragazzino con gli occhi celesti che si chiamava Mario Schimberni. Erano due secchioni, primo e secondo della classe. Mario era secondo. Si persero di vista, con la guerra. Poi, negli anni ’50 si ritrovarono e Mario lavorò con Cesare alla Bomprini Parodi Delfino, fabbricone chimico a Colleferro, due passi da Roma. Inizio di una bella carriera: negli anni Settanta diventò presidente di Montedison e poi di Ferrovie. Un trionfo, ma sempre un passo indietro a Cesare. Cesare si laurea in economia, subito dopo la guerra, inizia la corsa a Colleferro, poi conosce Enrico Cuccia, il re di Mediobanca e della Finanza italiana, che lo prova e lo riprova al vertice di varie aziende. Entra in Fiat, spinto sempre da Cuccia, che lo impone a Gianni Agnelli, nel 1974, a 50 anni e da quel momento diventa imperatore. Nel ‘76 Agnelli gli assegna l’incarico di amministratore delegato ma in comproprietà con Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti. A far fuori De Benedetti, che gli sta parecchio antipatico, Cesare ci mette tre mesi. Un record. Per liberarsi di Umberto, che è anche proprietario, ci mette un po’ di più: un anno. Poi è Cuccia che parla con Gianni e glielo dice senza perdersi in diplomazie: “Leva tuo fratello di lì, sennò le banche non ti daranno più soldi. Nessuno si fida di Umberto: dai le chiavi a Romiti”. Siamo alla vigilia degli anni ’80 e Romiti inizia ad indovinarle tutte sul piano finanziario e sul piano della produzione. La Fiat è in crisi, le auto vanno male, ci sono i debiti, c’è Gheddafi tra gli azionisti, c’è la crisi petrolifera, c’è la ricerca e l’innovazione che balbettano, c’è il potere degli operai che negli ultimi 12 anni è cresciuto in modo esponenziale. Romiti, però, è un tipo che ha una certa fortuna. Agnelli gli dà un compagno di banco che forse è un genio. Romiti lo odia, non lo sopporta, però è lui, il compagno di banco quello che si intende di macchine. Si chiama Vittorio Ghidella e inventa modello dopo modello la risalita della Fiat sul mercato. La Tipo, la Uno, la Thema, la Croma, poi la 164 dell’Alfa Romeo: era dai tempi della 600 e della 1100 che la Fiat non indovinava tanti modelli e non dava tanti punti di distacco ai concorrenti stranieri. Ghidella è convinto che il futuro dell’azienda sia tutto nelle automobili. Romiti pensa in grande, pensa alla holding, pensa al mercato internazionale, alla finanza, alle alleanze, pensa a imbrigliare la politica e poi – lui più di chiunque altro nel dopoguerra – pensa a come si fa a ridurre i costi. Per guadagnare, pensa, la cosa migliore è tenere alta la qualità e basso il costo del lavoro: meno operai, meno pagati, con meno diritti. Qualcosa si frappone tra Romiti e la sua strategia? Sì, Ghidella e i sindacati. Eliminare questi due ostacoli è più dura di quanto sia stata l’impresa di liberarsi di De Benedetti e di Umberto, ma Romiti ce la fa anche stavolta. I sindacati li abbatte nel braccio di ferro del 1980, Ghidella invece se lo tiene qualche anno, perché gli serve, poi quando pensa di poterne fare a meno lo licenzia. Difficile però risolvere la storia del 1980 in due righe. Succede di tutto in quell’anno. In Italia, e nelle relazioni industriali, e in quelle sociali, e nella struttura dell’economia e della società. Fino al 1980, a partire da metà degli anni Sessanta, i salari erano in continuo aumento e i profitti si riducevano. Dal 1980 la tendenza si inverte. E tutto avviene attorno ai mesi di settembre e ottobre. Il 5 settembre Romiti annuncia il licenziamento di 14 mila operai. I sindacati reagiscono con furia. ¡No pasarán! Si arriva allo sciopero ad oltranza. Il partito comunista, che fino a qualche mese prima aveva più o meno guidato una coalizione di governo riformista, con la Dc e il Psi, e che aveva spinto per una linea di rigore economico, anche chiedendo sacrifici agli operai e ai lavoratori (sacrifici economici in cambio di potere e uguaglianza) cambia bruscamente linea. La svolta la guida personalmente Berlinguer, ed è proprio lui che va davanti ai cancelli della Fiat, da leader descamisado, prende in mano un microfono, sale su un palchetto e proclama: il partito comunista è con voi, se volete occupare la fabbrica sapete che siamo al vostro fianco. Muro contro muro. Trema il palazzo, trema l’Italia, tremano le borse. I sindacati e il Pci hanno in mano tante leve. La Dc barcolla, si fa da parte. Romiti non si impressiona: linea dura. E il 14 ottobre le strade di Torino si riempiono di migliaia di impiegati e quadri Fiat che, per la prima volta forse da sempre, sfilano contro gli operai. Basta picchetti. Vogliamo trattare con l’azienda. Ha vinto lui. Il mitico sindacato di Lama, Benvenuto e Carniti è costretto a piegarsi e a avviare un negoziato. Col coltello dalla parte della lama. Per il Pci è una sconfitta storica dalla quale non si riprenderà più. La strategia del compromesso storico è in soffitta. Romiti la rivendicherà questa vittoria. Dirà che è stato lui a riportare alla luce parole come concorrenza, merito, produttività, efficienza. In tre anni, da quel 1980, ottiene una riduzione del personale di un terzo: da 300 mila a 200 mila. La Fiat vola. Con le macchine e l’ingegno di Ghidella e coi muscoli e le idee chiare di Romiti. Agnelli è contento, Cuccia è contento. Tutto merito di Romiti? Beh, non è proprio così. Se scorrete meglio gli annali della storia scoprite che due mesi dopo la vittoria della Fiat si vota in America. Ronald Reagan sconfigge Jimmy Carter con un risultato clamoroso: 44 milioni di voti contro 35 milioni. 489 grandi elettori contro 49. Una disfatta per i democratici. È il 4 novembre. Beh, il 4 novembre del 1980 finisce il lungo periodo della “nuova frontiera” e del new deal, iniziato prima ancora di Kennedy, con Roosevelt negli anni Trenta e durato mezzo secolo anche durante gli anni repubblicani, con Eisenhower, Nixon e Ford. La grande borghesia americana ne ha abbastanza di welfare e di diritti dei “negri”. Di sindacati e di assistenza. Stop: concorrenza e nuovo liberismo. E si affida a Reagan. In agosto il primo colpo ad effetto: dalla mattina alla sera 13 mila assistenti di volo licenziati perché scioperavano. Altro che Romiti. È iniziato il reaganismo e nessuno può credere che il reaganismo si ferma sulla battigia dell’oceano. Si espande, travolge l’Europa, sottomette l’Italia. Romiti ha gioco facile. Il declino della Fiat inizia sei o sette anni dopo. Proprio con il licenziamento di Ghidella e la fine della pacchia. Agnelli dirà: la festa è finita. Iniziano le lotte di potere, le randellate. Romiti è il più bravo in queste cose. Tiene in pugno anche la politica. L’unico che gli sfugge è Craxi. Craxi va per conto suo. Non ci sono grandi dissensi ideologici, con Romiti, ci sono due idee di fondo che collidono. Craxi è l’ultimo politico rimasto sulla scena che crede davvero all’autonomia della politica. Vuole tenerla sul trono. Romiti vuole fare a pezzi quel trono, e prenderlo lui quello scettro. È convinto che il comando spetti a chi dirige la produzione, non a chi fa chiacchiere e blatera di Proudhon. Sapete chi vince? Si, lo sapete. Arriva il 1992 e i magistrati provano l’assalto al Palazzo. Li manda qualcuno? Non credo. Non so. Immagino di no, penso che partano da soli. Però da soli non possono farcela. Borrelli, Di Pietro, Colombo. Possono quei tre o quattro magistrati rompiballe fronteggiare la politica e il potere economico e i giornali e gli intellettuali e tutto il resto? No, ma c’è una via d’uscita. Il 17 ottobre molti giornalisti raccolgono la notizia che è imminente l’arresto di Romiti. Molti industriali sono già in prigione. Alcuni si sono suicidati. Ci sono stati una quindicina di suicidi tra politici e imprenditori. I più famosi sono quelli del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e quello di Raul Gardini. In prigione ci sono anche dirigenti Fiat. Altri sono latitanti, in fuga. Il 24 febbraio Romiti, forse dopo trattative che noi non conosciamo, firma la resa. Una lettera pubblicata sul Corriere della Sera nella quale invita tutti a collaborare coi Pm. Diciamo pure a sottomettersi. La Fiat esce immediatamente dal raggio delle indagini. Quasi tutti i giornali italiani, guidati dal Corriere, sono messi al servizio del pool dei Pm. È la seconda svolta protetta o guidata da Romiti dopo quella di 13 anni prima. Rasi al suolo la Dc, il Psi, danneggiato l’ex Pci, ridotta alla schiavitù la libera stampa. Poi arriva Berlusconi. E per Romiti inizia un lento tramonto. Berlusconi toglie il comando della borghesia al gruppo torinese. Molti sono convinti che la sua fu una svolta a destra. Non è vero. La vecchia borghesia radunata attorno a Agnelli e Romiti era molto più feroce, reazionaria. Per questo, anche, non accettò mai Berlusconi come nuova guida e gli scagliò contro tutto quello che poteva. A partire dai Girotondi.
Cesare Romiti raccontato da Piero Fassino: “Un capitano d’industria che guidò la ristrutturazione”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 19 Agosto 2020. Il suo è ricordo prezioso, che intreccia riflessione storico-politica e la testimonianza personale di un rapporto protrattosi nel tempo. Cesare Romiti “raccontato” da Piero Fassino, dai giorni della lotta alla Fiat ad oggi. Una storia italiana fatta di rispetto reciproco, di avversari che non si consideravano nemici, di scontri di idee e di visioni con al centro una questione che oggi come allora, ha una valenza centrale: il lavoro.
Cosa ha rappresentato Cesare Romiti per la storia dell’imprenditoria italiana e più in generale per il Paese?
«Romiti è stato il capitano d’industria che ha gestito la più grande ristrutturazione industriale che il Paese abbia conosciuto nel dopoguerra: quella che investì la Fiat negli anni ’80 e che rappresentò, in qualche modo, uno spartiacque. Quella fu l’ultima lotta sindacale di un lungo ciclo iniziato alla metà degli anni 60, e Romiti fu il capitano d’industria che obbligò il sindacato a fare i conti con la globalizzazione e le sue conseguenze sul sistema industriale italiano».
È utile riandare a quel momento. Tra qualche settimana, si celebrano i quarant’anni dai 35 giorni di lotta alla Fiat nel 1980. Come si arrivò a quella lotta così aspra?
«Alla fine degli anni 70, la Fiat è, tra i grandi produttori automobilistici, quello in condizioni di maggiore debolezza e fragilità, con minore livello di produttività, con un minore livello di utilizzo degli impianti, con una riduzione delle quote di mercato, e con costi di produzione più alti, unitamente a una linea di prodotto vecchia e non competitiva. Tutto questo precipita tra la fine del 1979 e il 1980, fino al punto che nei primi mesi del 1980, Umberto Agnelli che in quel momento ha la guida dell’azienda, chiede al governo di svalutare la lira per facilitare le esportazioni e così superare una crisi di mercato che la Fiat sta conoscendo, e al tempo stesso annuncia provvedimenti di cassa integrazione molto pesanti per oltre 78.000 lavoratori. A quel punto, di fronte a una crisi così acuta, anche su sollecitazione di Cuccia, l’avvocato Agnelli prende una decisione radicale, e cioè chiede a Umberto Agnelli di farsi da parte e affida l’azienda a Romiti, il quale mette in campo una ristrutturazione molto pesante, che passa per una consistente riduzione di manodopera, riorganizzazione degli stabilimenti, riorganizzazione della produzione. A fronte di questa strategia, il sindacato ha una reazione puramente difensiva: denuncia, in modo politico, l’attacco dell’azienda ai diritti dei lavoratori, ma si rifiuta di vedere che, in realtà, quella in atto è una crisi strutturale e non congiunturale. E una crisi strutturale chiede di essere affrontata con una ristrutturazione vera e profonda dell’azienda. Di fronte al rifiuto del sindacato di misurarsi con la necessità della ristrutturazione, Romiti prende una decisione radicale: il 5 settembre del 1980, annuncia 14mila licenziamenti, che sono uno shock tremendo. Torino era stata fino a quel momento il simbolo del lavoro, una delle grandi capitali industriali del Nord verso cui si emigrava perché lì c’era lavoro. Una città nella quale la piena occupazione era un dato strutturale ormai acquisito. E l’azienda che di quella certezza di lavoro è più di ogni altro l’espressione, annuncia improvvisamente 14mila licenziamenti. Una misura radicale, molto dura e aspra, che suscita naturalmente una fortissima reazione, non solo sindacale, ma anche della società italiana e dell’intera città che vive i licenziamenti come uno sfregio. La reazione del sindacati e dei lavoratori è di passare immediatamente a una forma di lotta molto dura, il blocco di tutti gli stabilimenti. Romiti confesserà in scritti successivi, che di fronte ad una reazione così dura del sindacato e così ampiamente sostenuta, ebbe un momento d’incertezza, chiedendosi se il passo che aveva fatto non fosse troppo lungo. E probabilmente, fu quella incertezza a convincere lui e l’avvocato Agnelli a prendere la decisione di ritirare i 14mila licenziamenti, sostituendoli con la cassa integrazione a zero ore per 23mila lavoratori. Di fronte a questo cambiamento, che avviene peraltro all’indomani della visita di Berlinguer agli stabilimenti della Fiat, il sindacato compie un errore tragico…»
Quale?
«Non capisce che passare dai licenziamenti alla cassa integrazione rappresenta un cambiamento di fase. Perché una cassa integrazione, anche a zero ore, non è un licenziamento; un lavoratore in cassa integrazione rimane dipendente dell’azienda, il licenziato no. E di fronte a questo cambiamento, dal vertice nazionale dei sindacati, da Lama, da Trentin, da Garavini, da Carniti, da Benvenuto, viene la sollecitazione a cambiare le forme di lotta, interrompere il blocco ad oltranza della produzione e passare ad una lotta più articolata, con l’obiettivo di convincere l’azienda a trasformare la cassa integrazione a zero in una cassa integrazione a rotazione, in modo tale che non siano sempre gli stessi lavoratori a esserne colpiti. Quel cambiamento di passo, il sindacato non lo fa. L’Flm e il sindacato torinese confermano il blocco della produzione e degli stabilimenti. Questo determina un mutamento di clima: quella solidarietà corale della città s’incrina, la solidarietà ampia che nel Paese aveva raccolto la lotta alla Fiat vacilla, la lotta s’indebolisce, e Romiti e il gruppo dirigente Fiat colgono che nel mutamento c’è uno spazio. E lo spazio è quello di assecondare l’emergere di un movimento di protesta, formato soprattutto dai quadri intermedi, ma anche da un pezzo dei lavoratori, che non hanno condiviso il blocco degli stabilimenti ad oltranza, e cominciano a manifestare questa avversità convocando una grande assemblea, il 14 di ottobre, al Teatro Nuovo. La partecipazione a questa assemblea è così grande – il teatro contiene 1400 persone e se ne presentano 30-40mila – che anziché fare l’assemblea, la manifestazione si traduce in una grande marcia per le strade di Torino, ed è quella che poi passerà alla storia come la “Marcia dei 40mila”, che segna la fine di quella lotta. A quel punto la dirigenza sindacale nazionale, Lama in primo luogo, capisce che bisogna prendere in mano la cosa e con la mediazione del governo si avvia un negoziato che si conclude con un accordo che prevede la cassa integrazione a zero ore per i 23mila dipendenti, e per questa ragione viene vissuta dal movimento come una sconfitta e dalla Fiat e da Romiti come una vittoria. Quel passaggio permette negli anni successivi alla Fiat di rilanciarsi e di uscire dalla crisi acuta che l’aveva investita in quegli anni. Ci sono stati invece altri passaggi “meno felici” della esperienza di Romiti alla guida della Fiat, in particolare lo scontro con Ghidella, con l’allontanamento di quest’ultimo, scelta che rappresentò un vulnus significativo per la Fiat, perché Ghidella aveva rinnovato tutta la gamma di prodotto, rilanciando così sul mercato la competitività dei prodotti Fiat. Era l’uomo della produzione, mentre Romiti, uomo più di finanza, non aveva la stessa sensibilità sui temi della produzione. L’altro passaggio “meno felice”, connesso a questo, è che Romiti coltiva e persegue un disegno di diversificazione del profilo della Fiat, investendo in altri settori come la finanza, le assicurazioni, i servizi, l’alimentare ed altri ancora. Questa scelta alla lunga non si rivelerà felice perché le conseguenze saranno che si indebolirà la capacità della Fiat di investire fortemente sull’auto per rinnovare la propria produzione e quindi restare al passo con gli altri produttori, e contemporaneamente negli altri settori in cui investe, la Fiat non diventa in ogni caso leader, ma vi si aggiunge. In ogni caso, non c’è dubbio che Romiti abbia rappresentato un pezzo fondamentale della Fiat e dell’impresa italiana e ha segnato con il suo modo di essere, molto rude, molto rigoroso, molto rigido quando era necessario, il profilo dell’azienda e dell’impresa italiana. Non va dimenticato mai che tutto questo avviene negli anni di piombo, in un contesto cge rende tutto molto più complesso e più difficile, perché prima della lotta dell’80, c’è dal 1976-77 fino al 1980, un quinquennio in cui al Fiat è uno degli epicentri dell’offensiva terroristica, con attentati, minacce, intimidazioni, ferimenti e uccisioni in una sequenza impressionante, che culmina nell’ottobre del ’79 con l’assassinio dell’ingegner Ghiglieno, quando Romiti decide, come reazione, di licenziare 61 lavoratori considerati estremisti e potenzialmente corrivi del terrorismo. Nel comportamento e nella rigidità di Romiti c’è anche questo, la reazione a un’offensiva che mette in discussione l’azienda, la sua gerarchia, il suo funzionamento».
Dal punto di vista dei rapporti con la sinistra, e in essa con la sua principale forza, il Pci, che ricordi ha di Romiti?
«Il nostro primo incontro fu all’inizio del 1978. Annibaldi mi disse che Romiti voleva conoscermi, io a quel tempo ero il responsabile fabbriche del Pci torinese. Ci incontrammo nel suo ufficio in Corso Marconi. Mi ricordo che entrai e lui mi disse, diretto: “l’avvocato mi ha detto che se voglio capire cosa pensano i comunisti di Torino devo parlar con lei”. Ci fu una lunga conversazione, il cui tema centrale fu, visto il momento, l’offensiva terroristica, come contrastarla, come rispondere. Poi da lì è iniziato un rapporto di interlocuzione tra noi, naturalmente in collocazioni opposte, che è continuato nel tempo. Era una interlocuzione che era fondata su una empatia umana e al tempo stesso su una curiosità reciproca, perché a me interessava molto cosa pensasse l’uomo che stava guidando la Fiat, e a lui cosa pensavamo noi, cosa pensava il principale partito che rappresentava i suoi lavoratori. Anche durante la lotta dell’80, in cui io ero tra quelli che sostenevano, in una posizione minoritaria, insieme a Gerardo Chiaromonte, al Pci torinese, a Lama, a Trentin, che bisogna fare i conti con la ristrutturazione della Fiat e che la linea della sua negazione, che aveva intrapreso il sindacato, era una linea difensiva che ci avrebbe portato a sbattere, come in effetti avvenne. Tanto è vero che, avendo contezza che la crisi stava maturando, tra la fine del ’79 e l’inizio dell’80 organizzammo una grandissima conferenza nazionale del Pci sulla Fiat che venne conclusa da Lama e Berlinguer. La preparammo io e Napoleone Colaianni, con un documento molto analitico che dimostrava, dati alla mano, la profondità della crisi della Fiat, e che dunque rendeva evidente l’ineludibilità della ristrutturazione dell’azienda. Quella nostra analisi, che tra l’altro Romiti apprezzò molto – me lo disse anche personalmente – contribuì a far sì che la nostra interlocuzione continuasse anche nelle settimane della lotta. Cercammo anche di capire se c’era uno spazio di mediazione che potesse essere ragionevolmente accolto sia dall’azienda che dai sindacati, ma l’intransigenza e l’asprezza dello scontro furono tali che quel tentativo non riuscì. Di alcuni di questi colloqui e incontri, lui dette poi testimonianza in alcuni libri che ha pubblicato, nell’intervista che fece con Pansa ci sono numerosi passaggi in cui Romiti cita i nostri incontri. Politicamente non era certo un uomo di sinistra, però Romiti era un uomo molto pragmatico, non aveva pregiudizi ideologici, guardava con attenzione a tutti, e al Pci per la forza che in quel momento aveva, stimava Berlinguer, anche se la vicenda della sua presenza ai cancelli della Fiat portò qualche mese dopo a un urto pubblico tra i due: nella Conferenza della Confindustria a Firenze, a cui Berlinguer era stato invitato, Romiti che era lì, nel corso del suo intervento, polemizzò esplicitamente contro la presenza di Berlinguer ai cancelli della Fiat. Romiti aveva rapporti con Chiaromonte, con Lama… Ovviamente un grande capitano d’industria che dirige la più grande azienda del Paese, ha interesse e coltiva relazioni e rapporti pur nell’assoluta distinzione delle funzioni e delle opinioni».
Giorgio Cremaschi: “Per la linea dura di Romiti molti operai si uccisero”. Angela Stella su Il Riformista il 19 Agosto 2020. Giorgio Cremaschi, già presidente del Comitato centrale della Fiom, e attualmente portavoce di Potere al Popolo non accetta la narrazione elogiativa di Cesare Romiti. Quaranta anni fa fu direttamente partecipe del più duro conflitto del sindacato dei metalmeccanici alla Fiat di Mirafiori: la fabbrica e gli altri stabilimenti furono bloccati per 35 giorni. La Fiat non mollò e il sindacato andò incontro a una sconfitta “storica”: non seppe fronteggiare la “marcia di crumiri organizzata dal padrone”, ci racconta Cremaschi. Molti lavoratori si suicidarono negli anni successivi. Lei su twitter ha scritto: “Riposi in pace Cesare Romiti. Ma se nell’ottobre 1980 avessimo vinto noi e non lui e Agnelli oggi l’ Italia sarebbe un paese migliore”. Vogliamo ampliare il discorso? Insieme a Romiti voglio ricordare le centinaia di lavoratori che purtroppo si sono suicidati durante gli anni 80 per le discriminazioni e la cassa integrazione. La nostra sconfitta e la vittoria di Romiti hanno rappresentato il punto di svolta affinché l’Italia divenisse quella che è oggi: un Paese liberista dove vige il dominio totale del mercato e delle imprese, dove il lavoratore è continuamente schiacciato in nome del profitto. Il successo di Romiti è stato un passaggio di restaurazione come quello della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Usa».
Ricordiamo meglio cosa accadde nel 1980 e dopo?
«Lo scontro vero era sul potere: la Fiat scelse di fare lo scontro per avere il controllo totale della forza lavoro e per distruggere le libertà che avevano i lavoratori. Lo scontro sindacale di merito era sulla cassa integrazione. Noi non negavamo la necessità della cassa integrazione ma volevamo che non fosse l’anticamera del licenziamento. Noi volevamo quella a rotazione, suddivisa tra tutti i lavoratori. La Fiat invece fece una lista di proscrizione di 23mila persone, che voleva discriminare o perché non sufficientemente produttivi o perché sufficientemente sindacalizzati, che furono messe in cassa integrazione a zero ore. Noi perdemmo la lotta e molti di questi rimasero per sempre in cassa integrazione: tra di loro tanti, non vivendo con gioia la cassa integrazione, a differenza di quello che si può pensare, si suicidarono per disperazione ed emarginazione. In una intervista del 2010 a Repubblica, Romiti disse: “L’esito di quella vicenda fu quello di riportare i sindacati di allora a una situazione di normalità, superando le infiltrazioni terroristiche che stavano nella loro base. Al tempo stesso la conclusione di quella vicenda consentì all’azienda di riprendere il suo cammino evitando il fallimento. Ma fu una vittoria che non venne per una mia volontà di umiliare il sindacato ma venne perché i capi del sindacato non ebbero la forza di mettere nell’angolo le forze estremiste che avevano al loro interno”».
Cosa contesta di questa ricostruzione?
Praticamente tutto: è una ricostruzione ex-post, è la favola del vincitore. Il terrorismo era un fenomeno italiano su cui occorre ancora riflettere ma non c’entra nulla con lo scontro alla Fiat: Romiti voleva ripristinare il potere, il comando dell’azienda sui lavoratori, lo stesso che c’è oggi. Certo poi ci sono voluti 40 anni per arrivare allo schiavismo odierno ma tutto parte da lì. In realtà c’è un elemento di verità nella ricostruzione di Romiti: lui non è mai stato un uomo di destra. Era un uomo del potere delle élite di centro sinistra. La svolta liberista sia nei gruppi dirigenti dei sindacati sia in quelli della sinistra ha avuto in lui un suo artefice. Prodi, D’Alema e compagnia sono discepoli e non nemici di Romiti. Negli Usa e in Gran Bretagna fu la destra classica a fare la restaurazione liberista, da noi nacque anche all’interno di una parte della sinistra invece, quella che veniva chiamata riformista o migliorista».
La marcia dei quarantamila riuscì poi a fratturare l’unità tra i salariati del ceto medio e quelli della catena di montaggio.
«La marcia dei 40mila fu in realtà una marcia dei 10mila: si è trattato di una delle prime grandi operazioni mediatiche di amplificazione di un processo. Furono precettate dalla Fiat da tutta Italia, organizzate politicamente. Io ero nella Fiom di Brescia e sapevamo che avevano organizzato i pullman di tutti i capo reparto e dei responsabili e dipendenti delle concessionarie. Fu una marcia di crumiri organizzata dal padrone che fu presentata come un grande evento. Lì si misurò l’incapacità del gruppo dirigente del sindacato di allora di reggere il confronto. Infatti finì in un dramma anche perché l’accordo fu respinto dalla grande maggioranza dei lavoratori Fiat e si aprì una di quelle grandi fratture che Romiti voleva, e non tra area estremista e vertici moderati, ma tra alto e basso, tra la base e i vertici. Con quella sconfitta si perse una idea di democrazia che era quella della democrazia partecipata e non si è più ricostituita».
Che epigramma scriverebbe per Romiti?
«Credeva nella lotta di classe più dei vertici di coloro che stavano dalla parte opposta alla sua».
Dagospia il 19 agosto 2020. Tratto dal libro di Cesare Romiti con Paolo Madron “Storia segreta del capitalismo italiano” (Longanesi). Sulla designazione di John Elkann a erede, Umberto Agnelli si risentì molto col fratello anche per la nomina a erede di John Elkann. L'erede designato, Giovannino, il primogenito di Umberto, fu tragicamente portato via da una crudele malattia. John Elkann, il figlio di Margherita, allora era già in azienda. La regola era che per entrare nel consiglio d'amministrazione della Fiat ci dovesse essere l'approvazione dei soci dell'Accomandita, la cassaforte di famiglia. Ma l'Avvocato poteva prendere le decisioni anche senza tenerne conto. Come poi in effetti fece. Inizialmente Agnelli non voleva usare questo suo potere. E io spingevo perché convocasse il consiglio dell'Accomandita, cosa che fece, ricordo, una domenica. Di questo consiglio anche io facevo parte. Umberto arrivò in ritardo e parlò per ultimo. « Gianni », disse, « tu ci hai convocato oggi per decidere della designazione di John. In realtà voglio venga messo agli atti che è esclusivamente una tua decisione. » Io dissi che era una convinzione di tutti i presenti. Umberto replicò: « No, caro Romiti, questa è una decisione dell'Avvocato ». Umberto voleva che la designazione toccasse all'altro suo figlio Andrea, che di tutta la famiglia è l'unico maschio rimasto a portare il nome Agnelli. E' per questo che l'Avvocato voleva adottare John, per dargli il suo nome. Ci voleva il benestare della moglie e dei figli, ma Edoardo si oppose.
Andreotti, ovvero il cinismo al potere travestito da democristiana santità. Che idea si era fatto di lui?
«All'epoca proteggeva Sindona, e questo basta a far capire perchè i suoi rapporti con Cuccia siano stati pessimi. Vorrei raccontarle un episodio. Una volta Andreotti da presidente del Consiglio mandò a chiamare Cuccia, che come è noto non andava mai da nessun politico».
Ma se negli ultimi anni andò persino a prendere il tè da D'Alema, allora presidente del Consiglio.
«Sì, lo so. Di solito usava sempre intermediari. Si vede che in quell'occasione la sua presenza diretta era indispensabile, non bastava quella di Alfio Marchini, che organizzò l'incontro».
Cosa voleva Andreotti da Cuccia?
«Cuccia mi raccontò che parlarono del più e del meno, e che a un certo punto Andreotti lo tempestò di domande sull'economia, l'industria, il Paese. Poi, a bruciapelo, gli chiese: «Ma lei crede veramente che io sia corresponsabile dell'uccisione di Ambrosoli? » E Cuccia cosa rispose? Diciamo che dopo la risposta di Cuccia il colloquio terminò».
E di Cesare Geronzi cosa pensava Cuccia?
«Al tempo in cui si affacciò l'ipotesi di unire Comit e Banca di Roma io avevo un ottimo rapporto con Geronzi. Cuccia, che lo sapeva, mi disse: « D'accordo, proviamo anche a metterli insieme. Ma cosa troveremo dentro Banca di Roma?»».
Uno dei grandi oppositori delle nozze fu Diego Della Valle.
«Della Valle un giorno mi venne a trovare. Mi disse che aveva un po' di soldi da parte e che gli sarebbe piaciuto investirli. Ne parlai con Cuccia, che volle subito vederlo. Gli propose di investire il suo denaro nella Comit, cosa che accadde consentendo all'imprenditore di entrare anche nel consiglio d'amministrazione. Furono soldi che poi si riprese con grandi guadagni. Il giorno in cui fu portato al consiglio di Comit il progetto del matrimonio con la Banca di Roma, Della Valle fece una scena madre. Non solo. Vi si oppose a mezzo stampa rilasciando un paio di interviste violentissime contro Cuccia e Maranghi. Cuccia ci rimase molto male, e pure io, che Della Valle gliel'avevo presentato. Fu allora che rompemmo i rapporti».
Se non ricordo male lo insultò pubblicamente.
«Eravamo con un gruppo di imprenditori e gli dissi: «Come scarparo sei un imprenditore che desta ammirazione, ma come uomo fai solo schifo ». Da allora non ci siamo più parlati, fino a un anno fa, quando è morta sua madre e gli ho scritto dicendo che conosco il dolore di chi perde un genitore. Lui mi ha telefonato e mi ha detto che mai avrebbe immaginato il mio gesto».
Da dove nasce questo suo astio verso Montezemolo?
«Nessun astio. Perchè se è vero che una volta dovette uscire dalla Fiat, non fui io a licenziarlo.
Chi fu a licenziarlo?
«Fu Agnelli che volle allontanarlo dalla Fiat».
Se è vero quello che mi dice, perchè mai, dopo la parentesi a Italia 90, Montezemolo fu riassunto in Rcs, casa editrice di cui Fiat era il primo azionista?
«Fu sempre Agnelli a chiedermelo. Mi chiamò e mi disse: «Senta Romiti, vorrei ricuperare Montezemolo. Perchè non ne parla con Cuccia?» La reazione del banchiere fu stizzita, quasi mi mandò al diavolo. Allora gli dissi che ero imbarazzato, ma ero latore di una richiesta dell'Avvocato. Morale, lo prendemmo in Rcs, dove curò la parte cinema e video insieme a Paolo Glisenti. Fu un grande insuccesso, tanto che dopo solo un anno lasciò. Craxi fu anche determinante per l'ascesa imprenditoriale di Berlusconi, fu quello che riaccese i ripetitori delle sue televisioni che i pretori avevano spento. Berlusconi riuscì quasi subito a entrare nelle grazie di Craxi. Le racconto un episodio. Bettino era molto amico della cantante, poi discografica, Caterina Caselli, donna intelligente e molto simpatica. Una volta lei e il marito, l'industriale discografico Piero Sugar, ci invitarono a casa loro. C'eravamo io, Craxi, Berlusconi e Montezemolo. Craxi era già potente e mi ricordo che Berlusconi, allora completamente fuori dalla politica, aveva appena ultimato Milano 2 e iniziava ad avere qualche timido interesse per la televisione. Il segretario socialista, che aveva voglia di scherzare, a un certo punto rivolgendosi a me, ma indicando il Cavaliere e Montezemolo, disse: « Senta Romiti, lei mi deve dire una cosa: ma tra questi due chi è il più bugiardo? Perchè che siano bugiardi si sa, ma lei che li conosce meglio di me forse può aiutarmi a risolvere il dubbio»».
Per lei un dubbio amletico.
«Mi colse di sorpresa, poi me la cavai con una battuta: «Concordo con lei che sono due grandi bugiardi, ma se proviamo a tirare una moneta in aria, sono sicuro che cadendo rimarrebbe dritta»».
(askanews il 20 agosto 2020) - "Ho conosciuto Cesare Romiti molto bene ai tempi in cui Rutelli mi affidò la responsabilità della costruzione dell`Auditorium. Sconsigliato da molti, ma appoggiato incondizionatamente dal sindaco, scissi il vecchio contratto che il Comune aveva stipulato con una serie di imprese che praticamente avevano abbandonato il cantiere a se stesso. Dopo la rocambolesca rottura, si indì una nuova gara. Nessuno volle partecipare. Perché l`opera era ad alto rischio e metterci le mani un'impresa quasi impossibile. Venne avanti Romiti perché oltre ad essere un grande imprenditore amava Roma e soprattutto la cultura e la musica". Così Goffredo Bettini, membro della direzione nazionale del Pd, commenta con un post su Facebook la scomparsa di Cesare Romiti. "Ricordo il suo splendido rapporto anche con Gianni Borgna. Diventammo amici e con una stretta di mano, solo una stretta di mano, ci fidammo reciprocamente: nessuno avrebbe fatto prepotenze o speculazioni. Romiti era un capitalista, non di rado duro; ma era anche un galantuomo, intelligente, attivissimo e nei giudizi libero e franco. Non era un funzionario della Confindustria, o un portaborse illuso di poter far politica. Dopo l`Auditorium lo rividi numerose volte, con il caro figlio Piergiorgio. Amava molto la "creatura" di Renzo Piano che aveva contribuito in modo decisivo a realizzare. E fino all`ultimo l'ha voluta frequentare, sempre pronto a ribadire i complimenti verso chi la stava dirigendo. Un borghese di altri tempi, che nella vita partendo da condizioni difficili, ha saputo lasciare un segno che difficilmente potrà essere dimenticato. Anche dalla parte, la mia, che non di rado lo combatté nel periodo tormentoso della crisi della Fiat. Quando Berlinguer andò davanti alla fabbrica occupata per difendere i lavoratori", conclude Bettini.
Gigi Moncalvo per “la Verità” il 19 agosto 2020. - estratto. Mentre alla memoria di Valletta, Romiti era devoto, non aveva mai amato Marchionne, proprio perché nell'immaginario collettivo era stato lui a soppiantarlo come il vero «uomo della provvidenza» del Lingotto: All'Avvocato diede sempre del lei ed ebbe relazioni difficili con gli uomini che gli erano vicini: cacciò un incolpevole Vittorio Ghidella infangandone l'immagine, non amava Gianluigi Gabetti e lo considerava «un Richelieu della provincia di Cuneo», aveva con Franzo Grande Stevens solo i contatti indispensabili e non lo ha mai considerato «l'avvocato dell'Avvocato» poiché preferiva e stimava di più quello vero, Vittorio Chiusano. Non sopportò mai Luca Montezemolo e una delle poche sconfitte di Romiti fu di non riuscire a ottenerne il licenziamento quando «Libera& Bella» confessò ai magistrati torinesi di aver chiesto e incassato due tangenti da 20 milioni di lire ciascuna per inserire nell'agenda dell'Avvocato un paio di incontri con un imprenditore torinese vicino al Psi. Cesarone riuscì «solo» a ottenere l'allontanamento del reo confesso da corso Marconi per il «confino» alla Cinzano a Santa Vittoria d'Alba.
Giorgio Ursicino per “il Messaggero” il 19 agosto 2020. - estratto. Negli anni Ottanta il grande successo, l'attuazione della sua strategia di diversificazione, i risultati finanziari record e il braccio di ferro con il mago dell'auto Ghidella che segnò l'inizio della fine. L'ingegnere che aveva voluto e fatto la Uno, la Panda, la Tipo, la Thema, la Ypsilon, la Croma e la 164. Una cavalcata trionfale che toccò il suo apice con il tentativo di acquisto della Chrysler nel 1990, bloccata da Umberto che faceva valere il suo potere in Ifil. I successi delle macchine del gruppo si fermarono all'uscita di Ghidella che aveva osato mettersi contro Cesare. I prodotti iniziano ad avere meno seguito anche perché Romiti (secondo Ghidella) dirottava gli investimenti indispensabili per l'auto in altri settori. Corsi e ricorsi, la nuova crisi, un po' per motivi ciclici, un po' per errori di visione. La Fiat è costretta al maggior aumento di capitale della sua storia e, quando nel 1996 Agnelli gli lascia la presidenza, i due non hanno una grande voglia di festeggiare.
Paolo Griseri per “la Stampa” il 19 agosto 2020 - Estratto. Il successo del modello Romiti coincise con il decennio degli Ottanta. Con il lancio di modelli come la Uno, la Tipo, la Thema. Con il settore auto guidato da un ingegnere come Vittorio Ghidella. Lo scontro di Romiti con il padre della Uno fu durissimo: «Convinse l'Avvocato che volevo vendere la Fiat alla Ford», ricorderà anni dopo lo stesso Ghidella. Che perse, fu costretto ad abbandonare l'azienda lasciando dietro di sé una scia di rimpianti in una parte del gruppo dirigente. E con l'impressione che con Ghidella si sarebbe accelerato quel processo di internazionalizzazione che la Fiat sarebbe stata costretta ad imboccare qualche anno dopo
Gigi Moncalvo per La Verità il 19 agosto 2020. – estratto. Romiti era l'uomo che, al culmine del potere e anche dopo, sussurrava (anzi, abbaiava) ai politici, al punto che riuscì a farsi «regalare» - per un miliardo di lire pagabile in dieci rate - l'Alfa Romeo da Romano Prodi che preferì non venderla alla Ford a un prezzo maggiore e «dimenticò» perfino di chiedere il pagamento delle rate successive alla prima. Ai tempi di Mani pulite, pur essendo il plenipotenziario degli affari Fiat diceva di «non sapere» nulla delle tangenti pagate dall'industria torinese ai politici. Non venne creduto e fu condannato nel 1997 per falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti e frode fiscale: nonostante la conferma della condanna in Cassazione tre anni dopo (a 11 mesi e 10 giorni di reclusione), grazie a una legge del governo Berlusconi nel 2003 la Corte di appello di Torino revocò la condanna perché il falso in bilancio non era più reato.
forse, gli sarebbe personalmente convenuta una deroga.
12 giugno 2009 - Ettore Boffano e Paolo Griseri per "la Repubblica" - estratto. I fondi neri. Durante il periodo in cui ha avviato la causa, Margherita (Agnelli) ha anche deciso di sostenere le spese legali di un ex alto dirigente Fiat incaricato per anni di gestire la sicurezza interna, Luigi Pagella. Quest´ultimo, un anno fa, si è presentato alla procura di Torino affermando di essere stato costretto a una falsa testimonianza nel processo del 1995 contro Cesare Romiti per i falsi in bilancio della Fiat. Pagella, in particolare, sostiene di aver accreditato la versione dell´azienda sulla necessità di costituire una disponibilità "antiterrorismo" per celare invece la formazione di fondi neri all´estero. Un mese fa, la procura ha chiesto l´archiviazione per prescrizione dei reati, ma ha scritto parole molto gravi: «La versione offerta da Romiti e confermata allora da Pagella era davvero falsa». Nell´indagine è stato sentito come teste Carlo Callieri, ex direttore del personale di Fiat Auto, che ha confermato: «Le dichiarazioni di Pagella del 1995 sono del tutto inattendibili».
Frank Cimini per “il Riformista” il 19 agosto 2020. È morto Cesare Romiti, uno degli uomini simbolo dei due pesi-due misure di Mani pulite. Per dirla con Piercamillo Davigo, Romiti “la fece franca”. La fece franca però con la complicità del mitico pool. Il top manager si presentò un bel pomeriggio davanti al dottor Di Pietro, che nel lontano 1993 per la stragrande maggioranza degli italiani era purtroppo una sorta di Gesù Cristo tornato sulla terra, e presentò un elenco di tangenti pagate dalla Fiat. Era per dimostrare la volontà di collaborazione con la magistratura da parte del colosso dell’auto. Quell’elenco di mazzette però si rivelò nel giro di un batter d’occhio estremamente lacunoso. Insomma, c’era un rischio di inquinamento delle prove grande quanto un palazzo. Romiti avrebbe potuto fare la fine di tanti altri comuni mortali e finire in carcere. Non finì a San Vittore ma l’anomalia non fu tanto questa, perché in linea di massima meno si usa la custodia cautelare e meglio è. Il problema sta in quello che accadde dopo. Ci fu una riunione nell’ufficio del procuratore capo Francesco Saverio Borrelli con la partecipazione dei magistrati del pool e la Fiat rappresentata dal legale storico, Vittorio Cassiotti di Chiusano, e dal professor Giandomenico Pisapia, assoldato per l’occasione con tutto il suo prestigio. Il risultato fu che sulle tangenti della Fiat in pratica non si indagò più. Davanti a quel tipo di potere chi diceva di voler rivoltare l’Italia come un calzino si fermò. Romiti non fu l’unico a farla franca. Anche Carlo De Benedetti aveva presentato una lista di tangenti pagate con diverse “dimenticanze”. Pure con lui tarallucci e vino. Per capire le ragioni delle scelte del pool bastava sfogliare i giornali con i quali sia Romiti sia De Benedetti qualcosa da spartire avevano. I giornaloni erano tutti a favore dell’inchiesta. Un enorme do ut des: nel pieno della rivoluzione una finta rivoluzione. Non c’erano spazi per dissentire. Chi scrive queste righe fu portato in Tribunale, primo giornalista al mondo, per aver scritto di un manager Fiat invitato “a ripassare domani” nel timore che mettesse a verbale chiamate di correità. Insomma, i grandi imprenditori prima si erano messi d’accordo con i politici per fare i soldi e poi con i giudici per non andare in galera vendendo “l’indipendenza” dei loro giornali. Passato il 1993, vero e proprio “anno nero” di Mani pulite caratterizzato dall’entrata e uscita dall’inchiesta come una meteora del banchiere sbancato Pacini Battaglia, arrivò il 1994. E lì comparve il grande imprenditore da indagare fino in fondo senza sconti. Era “disceso in campo”. Chissà se si è mai pentito di aver appoggiato Mani pulite con le sue tv per due anni spiegando che quello era “il nuovo”.
Gigi Moncalvo per “la Verità” il 19 agosto 2020 - estratto. Gli sono state attribuite relazioni con numerose e famose signore anche del mondo della tv e del cinema. L'unica che sia stata resa pubblica, dalla diretta interessata, riguarda Michi Gioia, una signora «bene» di Torino, regina dei salotti, figlia del direttore generale della Fiat di Valletta, Nicolò Gioia, cresciuta alla corte di Agnelli e diventata famosa ai tempi della Torino socialista, del «celodurismo» romitiano.
Terry Marocco, Panorama 22/8/2013 - estratto. Nella Torino degli anni Ottanta, quando l’uomo più potente della città era «il Dottore», ossia Cesare Romiti, i salotti della buona borghesia si trovavano davanti a un dilemma di bon ton al momento di invitarlo a cena: pregarlo di venire con la moglie Gina, storica compagna di tutta la vita, o con Michi Gioia, storica amante? La capitale del perbenismo risolveva l’impasse con sabauda eleganza: una volta toccava all’una e una volta all’altra. Perché allora «l’amica» (come si chiamava con soave ipocrisia) aveva lo stesso status della moglie e spesso molto potere, quasi come ai tempi di Luigi XV e di Madame de Pompadour. Era ascoltata, omaggiata e soprattutto accolta in società: l’amante per un uomo di potere era una necessità.
Clara Caroli per La Repubblica il 19 agosto 2020 - estratto. Che si parta per Alassio o per l' Honduras, prima di tutto il parrucchiere. "Non sono una rossa naturale, cerco di rimediare alla ricrescita. La valigia non sarà un problema, metto dentro quattro cose. Solo tre saranno veramente necessarie laggiù: l' adrenalina, l' intelligenza e la curiosità. E io ne ho da vendere". Si può dire tutto di Michaela (o Michi) Gioia tranne che non sia una donna coraggiosa e di spirito….questa signora "bene" torinese, regina dei salotti, figlia del direttore generale della Fiat di Valletta, Nicolò Gioia, cresciuta alla corte di Agnelli e diventata famosa ai tempi della Torino socialista, della Torino da bere, ai tempi di Cesare Romiti e del "celodurismo" romitiano. Lei di quegli anni e di "quelle persone" non vuole più parlare né sentir parlare: "Non ho nessuna nostalgia. Che ancora adesso, l' unica cosa che si ricorda di me è la mia relazione con quella persona, è un'offesa alla mia intelligenza. Di me si citano sempre solo tre cose: che mio padre era direttore della Fiat, che sono stata l'amante di Romiti e che mi sono fatta il lifting con il botulino. Dopo quarant' anni di ferite e di lotte penso di meritarmi qualcosa di più". Signora Gioia, e la storia con Romiti? «E' stata l' unica relazione della mia vita con un uomo sposato». Com' era l' amore ai tempi del terrorismo? Niente di speciale, c' eravamo abituati. Anche mio padre girava con la scorta».
Lettera a “Oggi” - 8 maggio 2012. Cara Michi Gioia, Cesare Romiti deve tutto a sua moglie Gina. So bene che certi articoli non meritano né di essere letti né di essere commentati, ma credo sia doveroso intervenire riguardo un’affermazione di Micaela Gioia dove parla delle conquiste del Dott. Romiti. Lei vorrebbe sovvertire il concetto che dietro un grande uomo ci sia una grande donna… Sbaglia. Mi dispiace, ma sbaglia di grosso e sgarbatamente! Dietro, ma anche di fianco, al Dott. Romiti c’è stata la Signora Gina Romiti: una grande donna, una grande moglie e una grande mamma (concetti forse un po’ difficili da capire per chi non li conosce). Certo i suoi interessi non erano il chirurgo plastico o la festa “cafonal” (come vede ho seguito i consigli!!!), aveva la stessa età di suo marito e non aveva bisogno di rendersi ridicola per piacere: era simpatica, dolce, bella ed elegante. E’ sicuramente vero che il Dott. Romiti ha avuto tante donnine davanti a sé, ma è altrettanto vero che è sempre tornato da lei. Lo aspettava a casa, magari con i musi lunghi e tre sigarette accese contemporaneamente, ma pronta a stargli vicino quando ne aveva bisogno, pronta a tenergli la mano quando le chiedeva di sedersi accanto a lui sul divano, sempre uniti in famiglia; poi lasciava alle donnine, quelle davanti, il compito di farsi vedere in piazza… Non aveva paura di loro. Il grande uomo Romiti ha avuto una grande donna dietro, e si chiamava Gina. E se mi permette, Direttore, certi articoli non meritano neppure di essere pubblicati! Cordialmente. Gloria Muzzarelli
Di Carlo De Benedetti - dal Corriere della Sera il 20 agosto 2020. Il brano che segue è un estratto di un testo (mai pubblicato) che Carlo De Benedetti, come spiega, aveva preparato per il libro autobiografico di Cesare Romiti (scritto con Paolo Madron). Un giorno di gennaio di quest'anno mi dicono che c'è Romiti al telefono che ha urgenza di parlarmi. Prendo la chiamata e, con molta cordialità, Cesare mi dice che sta completando una sua autobiografia e che desidererebbe che io facessi una prefazione. Confesso che rimango sorpreso, ma piacevolmente, e gli rispondo di getto: «volentieri, se mi mandi il libro, lo leggo e poi ti richiamo». Lo leggo. Richiamo Romiti e gli dico: «Ma come faccio a farti la prefazione del libro quando su molte, troppe cose non sono d'accordo con te e in particolare non sono e non sono mai stato d'accordo con te su molti passaggi del capitolo "Io e Carlo De Benedetti: due nemici necessari?". A cominciare proprio dal titolo di quel capitolo. Che cosa significa "due nemici necessari?"». Risposta pronta di Romiti: «Tu sai che noi ci siamo sempre, pur nelle differenze delle nostre opinioni, reciprocamente stimati. Scrivi quello che vuoi, compreso che non sei d'accordo». Ebbene, la mia reazione è: a un gesto di eleganza che francamente mi sorprende, non posso che accettare. Ricordo l'arrivo di Romiti in Fiat, come direttore amministrativo e finanziario. Io in quel momento ero presidente dell'Unione Industriale di Torino. Era il 1974. Di lui ho in mente quanto mi disse Cuccia: «I conti della Fiat non ci convincono e abbiamo deciso di mandare una persona di cui ci fidiamo per cercare di capire la vera situazione economica e finanziaria». Quella di Cuccia fu certamente una decisione giusta, perché nella mia ormai lunga esperienza di aziende non ho mai incontrato una persona che in questo specifico settore avesse la competenza, l'autorevolezza e la determinazione che aveva Cesare Romiti. Attraverso gli anni gli ho sempre riconosciuto queste caratteristiche e anche la rapidità e la professionalità con cui in pochi minuti era capace di analizzare bilanci e di memorizzarne i dati essenziali. Lo dimostrò anche alla Fiat, pur in un ambiente che era estremamente ostile alle immissioni dall'esterno di persone con alte responsabilità e deleghe. Aggiungo un'altra caratteristica peculiare di Romiti: la straordinaria capacità di gestire il potere che dimostrò in tutta la sua carriera in Fiat, tenuto anche conto che allora la Fiat era l'incontrastata e dominante potenza industriale del Paese. Ma su Romiti capo-azienda il mio è un giudizio critico. In mancanza di conoscenza del prodotto e di visione sul futuro di quella industria, Romiti si è concentrato sulle diversificazioni finanziarie della Fiat, trascurando Fiat Auto e facendo l'errore di privarsi di Ghidella, l'unica persona che conosceva bene il prodotto auto. Anche sul piano internazionale, prima dell'arrivo di Marchionne, le uniche alleanze della Fiat furono intuizione e realizzazione di Umberto Agnelli: sia quella che si concretizzò insieme alla Peugeot nella creazione di Sevel, sia nella non riuscita iniziativa con Hitachi nelle macchine movimento terra. A Romiti certo bisogna riconoscere un ruolo importante nel capitalismo italiano degli anni 80 e 90, gli anni che portarono peraltro al disastro del debito pubblico e ai colossali benefici che la Fiat ottenne dallo Stato e cioè dal contribuente italiano. Il caso Alfa Romeo-Ford che Romiti ricorda è solo un episodio, peraltro certamente non trascurabile, delle contropartite che la Fiat ottenne in quegli anni e molto per merito di Romiti che interpretò nei rapporti con la politica in modo mirabile l'insegnamento che l'Avvocato Agnelli mi diceva avere ricevuto dal nonno e cioè che la Fiat deve essere governativa. E sempre lo fu, col fascismo, con la Democrazia cristiana, con Craxi. Ma questa è storia. Veniamo al mio impegno in Fiat, necessario per completare il quadro. Premetto che su questo punto Romiti, qualche anno fa, volle darmi atto in una conversazione a tre con un importante interlocutore che ero stato io in totale autonomia a decidere di lasciare la Fiat. Ebbene, negli ultimi mesi del 1975 Umberto Agnelli mi invitò a una colazione (erano frequenti i nostri incontri) nella sua villa nella tenuta di La Mandria e mi chiese improvvisamente, mentre parlavamo di Fiat: «Ma tu te la sentiresti di fare l'amministratore delegato della Fiat?». Io ne rimasi sorpreso e lusingato. Dopo molte riflessioni e incontri con Umberto e con l'Avvocato, accettai la proposta, a due condizioni:
1) di vendere alla Fiat le mie azioni della Gilardini in quanto non volevo trovarmi in conflitto di interesse come fornitore della Fiat;
2) di avere in pagamento azioni Fiat perché non ho mai lavorato da manager puro, ma sempre da «padrone».
Ci accordammo su questi due punti, dopodiché Umberto e l'Avvocato mi chiesero di gratificare il management interno con la nomina ad amministratore delegato anche di Romiti, con delega all'amministrazione e alla finanza. Accettai di buon grado perché Romiti aveva competenze superiori alle mie in quel settore. L'assetto di comando al mio ingresso in Fiat era: Avvocato Agnelli, presidente; Umberto Agnelli, vice presidente e amministratore delegato; io e Cesare Romiti, amministratori delegati; un comitato esecutivo presieduto da Umberto Agnelli a cui partecipavano, oltre a lui, io e Romiti, Nicola Tufarelli, allora capo dell'Auto. È assolutamente vero che dopo qualche settimana in Fiat, siccome i bilanci li sapevo leggere anch'io ma anche le comparazioni tra le produttività nostre e quelle dei nostri concorrenti, andai dall'Avvocato e gli dissi: «bisogna mandare via 20.000 persone e 500/700 dirigenti». L'Avvocato mi chiese: «ma dove sono questi operai che lei vede in eccesso? Sono nei corridoi?». La mia risposta fu: «Sono nei numeri». Si preoccupò. Mi disse che doveva parlarne a Roma. Erano gli anni delle Brigate rosse. Tornò da Roma e mi disse: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile una operazione di questo genere». Da quel momento capii che la mia presenza in Fiat sarebbe stata del tutto frustrante, inutile all'azienda e lesiva del mio grande investimento in Fiat e decisi di andarmene. Lo dissi a Romiti, come giustamente lui ricorda; lo dissi a uno sbalordito Avvocato Agnelli che incontrai durante le vacanze di agosto a St. Moritz e lo dissi anche a Umberto anche se in quel momento lui non lavorava in Fiat e faceva il senatore. Quindi, nonostante le insistenze dell'Avvocato e di Umberto che vennero ripetutamente a casa mia a Torino per convincermi di non farlo, lasciai la Fiat e accettai, per fair play ma anche per senso di equità, di rivendere le mie azioni Fiat all'Ifi al prezzo che avevo pagato più gli interessi maturati, nonostante sapessi che nei mesi successivi le azioni si sarebbero ampiamente rivalutate per effetto del maxi prezzo pagato dai libici per entrare nel capitale della Fiat. La Fiat, che non poteva tollerare l'idea che questa fosse, come è e come Romiti ha riconosciuto, l'unica causa della mia uscita dall'azienda, si inventò fantasiose ipotesi di una mia «scalata» alla società con l'appoggio di non so quale solidarietà della finanza internazionale. Una «palla» totale anche perché: primo, non ho mai fatto parte di alcuna «consorteria» nazionale o internazionale; secondo, perché, ancor più dopo l'ingresso dei libici di cui ero al corrente, non avevo neanche lontanamente a quell'epoca i mezzi per un'operazione che non ho mai pensato neppure per un attimo di fare. Certo, Romiti e io abbiamo avuto idee diverse in Confindustria, in Mediobanca, in Olivetti, in infinite circostanze. Ma non credo che fosse necessario che fossimo avversari. Avremmo potuto benissimo convivere nelle nostre differenze a beneficio di un contributo incisivo che insieme avremmo potuto dare al Paese come rappresentanti di due importantissime realtà industriali. Peccato! La storia la si racconta, non la si cambia.
Ezio Mauro per “la Repubblica” il 20 agosto 2020. Qual era il segreto del potere di Cesare Romiti? Esercitato per vent' anni alla Fiat, coltivato prima nel settore pubblico all'Alitalia e all'Italstat, prorogato infine con la guida della Rcs come editore, è stato soprattutto comando, più che leadership. Questa è stata la scelta vincente, dettata dall'istinto, che ha sempre spinto Romiti ad assicurarsi il ruolo di capo azienda - con la totale responsabilità delle scelte però riconoscendo nello stesso tempo due autorità di riferimento che lo hanno guidato come due stelle fisse nel cielo mutevole del capitalismo d'impresa italiano: Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia. In questo difficile esercizio d'equilibrio tra l'autonomia e la soggezione si muove tutta la chimica misteriosa della sovranità romitiana, un manager delegato che ha operato per un periodo lunghissimo come plenipotenziario della più grande impresa privata italiana. Le dimensioni della Fiat, la sua attitudine al comando, l'investitura permanente dell'Avvocato e del patron di Mediobanca che lo hanno sempre accompagnato nella sua avventura lo hanno via via proiettato in un ruolo pubblico da protagonista, dopo che per anni aveva preferito gestire il potere dal suo ufficio all'ottavo piano di corso Marconi: dove il sabato mattina (almeno una volta al mese) era previsto un colloquio a tu per tu con Agnelli, nel silenzio dei corridoi vuoti e delle stanze senza segretarie: nemmeno Margherita, la sua fedelissima. Così sono nate la sfida al terrorismo che lambiva le fabbriche, coi 61 licenziamenti, il braccio di ferro con il sindacato con il lungo sciopero di Mirafiori, la marcia del 40 mila che porta in piazza per la prima volta i quadri Fiat e segna un cambio di stagione all'interno del mondo del lavoro. Luciano Lama, in quei giorni, battezzerà in Romiti «un estremista dell'impresa», Giampaolo Pansa lo presenterà in un libro-intervista come «un cartesiano rozzo», Schimberni che lo conosceva da ragazzo lo definirà «uno sfrontato pieno di grinta». In realtà era ancora una volta l'istinto che lo guidava più che la teoria, da uomo di mano, mentre la strategia veniva messa a fuoco dai suoi collaboratori di primo piano come Cesare Annibaldi e Carlo Callieri. La capacità di scegliere, l'azzardo nel decidere, l'esposizione in prima persona lo trasformano pubblicamente in un "falco" industriale. Ma la vera metamorfosi è già avvenuta, trasformandolo da uomo dei conti a capitano d'impresa, attraverso una serie di battaglie interne ovattate dalla mistica prudente dell'azienda, dissimulate nel perimetro squadrato di Torino con le strade che sembrano un gioco di specchi, che mentre riflette nasconde. Prima c'è la rottura del triumvirato con Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, che uscirà dalla Fiat dopo soli tre mesi, con una lunghissima coda di frizioni pubbliche. Dopo trent' anni, proprio Romiti cercherà una riconciliazione personale siglata da un pranzo romano e da un brindisi: «Litigavamo costantemente, e non sapevamo neanche più perché». Più di lunga durata e mai sanata l'inimicizia con Umberto, che era anche la contesa tra due ambienti, due anime Fiat, due filiere di uomini, combattuta a colpi di epurazioni, innesti, vendette e persino dossier, con l'Avvocato arbitro riluttante. Infine la partita per il dopo, giocata direttamente faccia a faccia con Agnelli a cui Romiti al momento dell'uscita dalla Fiat aveva chiesto la guida di Rcs, che ottenne soltanto al termine di un lungo braccio di ferro. Ma il vero punto di contrasto tra la famiglia e il suo manager è nel 1993, quando Cuccia fa saltare il piano di successione previsto dall'Avvocato, che intende ritirarsi insieme con Romiti per lasciare la presidenza a Umberto. «Noi siamo una coppia - assicurava in quei mesi Romiti - , insieme abbiamo lavorato, insieme ce ne andiamo». Ma Mediobanca ha altri piani: sfruttando le difficoltà dell'azienda, lancia un mega aumento di capitale che su richiesta delle banche creditrici proroga gli incarichi dell'Avvocato e di Romiti per tre anni. Ufficialmente è un'operazione finanziaria che congela il vertice Fiat: in realtà è una manovra di potere che lo terremota. Un vero e proprio golpe bianco che spezza la linea di successione tra l'Avvocato e suo fratello, incrinando il diritto naturale di esercizio del potere da parte della famiglia, con un'amputazione dinastica che consegna a Mediobanca il futuro dell'azienda. E l'uomo di Mediobanca è Romiti che senza cambiare poltrona da manager scelto dalla famiglia diventa amministratore delegato per rappresentanza diretta del nuovo potere, di cui è in realtà il fiduciario. Praticamente gli Agnelli regnavano, ma non governavano più. Avevano perso la Fiat, con l'Avvocato che subì il diktat di Milano come un'umiliazione a Torino, convinto di essere lo strumento necessitato di un'ingiustizia che sbarrava la strada all'ascesa di Umberto. Contò a voce alta, a casa, facendo chiudere le porte della sala, gli uomini del vertice su cui poteva davvero contare e non arrivò a finire le dita di una mano. Allora paragonò Cuccia a Totò Riina. Con Romiti che intanto non perdeva tempo e telefonava ai dirigenti della galassia aziendale: «Avete capito bene cos' è successo? Da oggi nessuno potrà più dire che la Fiat è del signor Giovanni Agnelli». E tuttavia la coppia non arrivò alla rottura. Romiti si accontentò dei dividendi mondani del nuovo potere che esercitava, recuperando i salotti romani dopo anni di torinesità mimetica, in cui si trovava a suo agio. E l'Avvocato aveva un solo scopo, quello di riconquistare l'azienda alla famiglia, usando l'unica dote che nessuno gli riconosceva: la pazienza. Aspettò, catturato e attratto come sempre dall'esercizio della forza che Romiti sprigionava e che lui non cercava in se stesso: ma che aveva conosciuto da vicino in Valletta, e che giudicava indispensabile per guidare un gigante come la Fiat. Questa fascinazione per la forza altrui lo portò a scusare o sottovalutare metodi di gestione disinvolti e sbagliati, che infine costarono a Romiti la condanna per finanziamento illecito ai partiti, trascinando la Fiat nella bufera di Tangentopoli. La ragnatela romitiana si stava sciogliendo. Quando l'Avvocato lasciò la presidenza ai 75 anni, al momento di andarsene chiese che quel limite fosse fissato per statuto, dopo di lui. E infatti anche Romiti, arrivato il momento, lasciò la presidenza a Paolo Fresco, scelto dalla famiglia. Quel giorno Agnelli, giunto a Roma, presentò il nuovo chairman, poi tornò a parlare dell'uscita di Romiti con due ospiti: «Dite la verità - concluse - non credevate che sarebbe successo». «È vero, Avvocato - fu la risposta -: ma anche lei stamattina prima di partire ha aperto la porta dell'ufficio di Romiti e ha guardato dentro, per sincerarsi che fosse vuoto...
Cesare Romiti, i funerali a Cetona: sepolto accanto alla moglie Gina. Danilo Taino per corriere.it il 21 agosto 2020. Nemmeno un politico al funerale del top manager italiano forse più «politico» degli scorsi decenni. Nella parrocchia di San Michele Arcangelo, a Cetona, ieri si sono raccolti la famiglia di Cesare Romiti, parecchi amici di una vita, romani, milanesi, torinesi, toscani, un drappello di giornalisti. Doveva essere una cerimonia privata e così è stato. Probabilmente all'ex amministratore delegato della Fiat ed ex presidente del Corriere della Sera , morto martedì a 97 anni, sarebbe piaciuto questo addio: commosso, senza rumore, nella cittadina del senese dove amava il suo podere, La Taragna, e dove aveva scelto di essere sepolto. E ai politici di oggi, piuttosto lontani dal suo mondo e dalla sua idea di vita pubblica, avrebbe avuto poco da dire. I figli, Maurizio e Piergiorgio, erano decisamente provati mentre ascoltavano le parole dei due sacerdoti - entrambi Don Piero, uno parroco di Cetona e l'altro una conoscenza di vecchia data - che salutavano loro padre. Don Piero, l'amico, ha raccontato di avere conosciuto Romiti nel 1979, in Argentina, anni bui di dittatura, e di avere beneficiato del suo aiuto (una chiesa nelle favelas). Tra gli amici, un saluto commosso lo ha pronunciato Toni Concina, comunicatore e già sindaco di Orvieto, il quale ha raccontato di avere pranzato a casa di Romiti, lo scorso 14 luglio, e di avere trovato il grande manager, temuto da sindacati e politici quando era potente, indebolito fino alle lacrime. E un saluto pubblico non meno commosso lo hanno rivolto Paolo, a nome di tutti i nipoti, e Thea Navarro, amica delle giornate trascorse a Cetona. Sul sagrato, per qualche minuto, c'è stata la bandieradella Fiat. In chiesa, l'ex presidente della Confindustria Giorgio Fossa e l'ex banchiere, anch'egli un tempo uomo Fiat, Davide Croff. Ma Romiti non è stato solo il manager che ha segnato un'epoca. Giocava a carte, si è ricordato ieri: per vincere. Frequentava i salotti: a salutarlo c'erano Marisela Federici e Sandra Carraro. Ed era interessato alle nuove generazioni: l'Osservatorio Permanente Giovani Editori, che Romiti aveva contribuito a fondare e poi aveva sempre sostenuto, era presente con il suo presidente Andrea Ceccherini. Nessun politico: i leader di partito Romiti li aveva frequentati quando doveva, ci aveva litigato e fatto accordi. Ma il suo era un mondo diverso da quello d'oggi. E' giusto così.
Morto Cesare Romiti, le 10 frasi con cui ricordarlo. Massimiliano Jattoni Dall’Asén il 18 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Un protagonista del nostro tempo. Cesare Romiti, protagonista del capitalismo italiano e storico dirigente della Fiat è morto a 97 anni, il 18 agosto 2020. Braccio destro dell’Avvocato Gianni Agnelli, ha segnato la storia della casa automobilistica torinese, ma anche una lunghissima stagione dell’industria e delle vicende italiane, come testimoniano alcune sue frasi, alcune diventate veri e propri aforismi.
Italia, terra di guelfi e ghibellini. «Restiamo la terra dei guelfi e dei ghibellini. Ma neppure nel 1948 ci siamo lacerati così». [Da un’intervista al Corriere, 10 ottobre 2016]
L’amicizia con Agnelli. “Quando ho lavorato con Giovanni Agnelli non ci siamo mai dati del tu, in tutti i 25 anni e ci vedevamo praticamente tutti i giorni. Un giorno ce lo siamo detti. In Fiat tutti si davano del lei era anomalo darsi del tu, a Torino. Mi disse ‘veda Romiti, lei se ne è accorto che continuiamo a darci del lei, io penso che sia più intimo e affettuoso del tu’. Volevo bene ad Agnelli, eravamo amici ma non ce lo siamo mai detti”. [Da un’intervista a Soul, programma di Tv2000, 21 gennaio 2017]
L’Italia da ricostruire. «Oggi l’Italia è da ricostruire. Come dopo la guerra. Sono molto angosciato per il mio Paese, in particolare per il debito pubblico e la disoccupazione. Manca il lavoro, quindi manca tutto: prospettive, dignità, fiducia. Fortunati i centomila che sono potuti andare all’estero». [Da un’intervista a Corriere.it, 9 ottobre 2016]
Di Fiat non parlo, mi fa male...«Ho sempre detto che di Fiat non parlo, mi fa troppo male vedere quello che capita oggi. Allora la Fiat era considerata quasi una compagnia di bandiera, ma all’inizio Agnelli non era nessuno». [Da un’intervista a Soul, programma di Tv2000, 21 gennaio 2017]
Gli italiani e il senso per lo Stato. «Se chiedi agli italiani uno sforzo per lo Stato, si chiamano fuori. Ma se chiedi uno sforzo per il loro ospedale, il loro parco, la loro strada, allora rispondono». [Da un’intervista a Corriere, 9 ottobre 2016]
Su Enrico Cuccia. Enrico Cuccia «resta il migliore esempio della differenza fra autorevolezza e autoritarismo». [Dal libro intervista Storia segreta del capitalismo italiano di Paolo Madron]
La vita mi ha costretto a essere duro. «La vita mi ha costretto a essere duro. La Fiat stava morendo. Sparavano a un caposquadra ogni settimana. Bisognava mettere i violenti fuori dalla fabbrica, tagliare il personale, chiamare i torinesi perbene a salvare l’azienda. E i torinesi risposero. Se non l’avessero fatto, oggi la Fiat non ci sarebbe, come non ci sono l’Olivetti e la Montedison. In circostanze eccezionali, gli italiani rispondono». [Da un’intervista a Corriere, 9 ottobre 2016]
Sento insulti e toni che nel 1948 non si sentivano. «De Gasperi e Togliatti, al di là di qualche eccesso verbale, si rispettavano. Avevano scritto insieme la Costituzione. Oggi un referendum sulla riforma della Costituzione viene presentato come il giudizio universale, o un derby calcistico. Sento insulti e toni che nel 1948 non si sentivano. Sono tutti ossessionati, prescindono dai contenuti. Invece dobbiamo restare uniti». [Da un’intervista a Corriere, 9 ottobre 2016]
La prepotenza dei governi. «Ho fatto l’editore con un governo di sinistra, lo faccio con uno di destra. La tentazione di fare i prepotenti è troppo forte. Poi, certo, c’è chi ha più potere e chi meno, però la tentazione... Insomma, ci provano. Li ascolto. Se esagerano li mando a quel paese». [Da un’intervista a Corriere, 22 giugno 2003]
Contro gli anglicismi. «Basta con l’espressione “Jobs Act”. È una legge italiana; diamole un nome italiano. Chiamiamola riforma del lavoro. Il governo ha avuto un approccio tutto politico; ma è come comprare una bellissima cornice e non metterci dentro il quadro. Tu puoi fare la legge migliore del mondo, e ho qualche dubbio che questa lo sia, però non sarà una legge a creare lavoro. La legge può creare le condizioni; ma poi servono investimenti, pubblici e privati». [Da un’intervista a Corriere.it, 9 ottobre 2016]
Morto Luigi Arisio il leader della marcia dei 40 mila che nel 1980 chiuse lo sciopero dei 35 giorni alla Fiat. Diego Longhin il 29 settembre 2020 su La Repubblica. Proprio a pochi giorni da l quarantesimo anniversario della marcia dei Quarantamila è mancato improvvisamente Luigi Arisio, il promotore della manifestazione che fece sospendere lo sciopero dell'autunno 1980, i 35 giorni, a Mirafiori. Una sfilata silenziosa nelle strade di Torino, il 14 ottobre del 1980: impiegati e quadri della Fiat protestarono nei confronti delle pratiche di picchettaggio violento che da settimane bloccavano l'accesso alle fabbriche per protesta contro i licenziamenti collettivi e la messa in cassa integrazione che erano stati annunciati a settembre dall'amministratore delegato della società, Cesare Romiti, scomparso anche lui poche settimana fa. La marcia dei quarantamila è considerata come uno dei punti di svolta della vertenza dell’80, primo sintomo della progressiva perdita di influenza dei sindacati metalmeccanici che escono ridimensionati dal confronto con Fiat. Arisio, nato il 25 marzo del 1926, figlio di un operaio specializzato e di una casalinga, negli anni ’40 frequenta la scuola allievi della Lancia. poi passa in Fiat, dove diventa capo delle sellerie di Mirafiori con 250 sottoposti. Fu il fondatore dell’Associazione Capi Quadri Fiat, il sindacato dei funzionari del gruppo automobilistico. Nel 1983 fu candidato alla Camera dei Deputati per il Pri in lista con Susanna Agnelli e fu eletto.
· Addio a Trini Lopez, il musicista e attore.
Da adnkronos.com il 12 agosto 2020. Addio a Trini Lopez, il musicista e attore diventato famoso grazie al ruolo di Pedro Jiminez in "Quella sporca dozzina", il film del 1967 diretto da Robert Aldrich. La notizia della sua morte è stata diffusa su Instagram dal “Palm Spring Life”, il magazine di Palm Springs dove l'attore viveva fin dagli anni '60. Lopez, al secolo Trinidad Lopez III, si è spento ieri all'età di 83 anni per complicazioni dovute al Covid-19. Era nato a Dallas il 15 maggio del 1937 e come musicista fu una star del latin rock. Tra i suoi brani più celebri, "America" dal musical West Side Story, e "If I Had a Hammer", canzone di Pete Seeger lanciata in Italia da Rita Pavone con il titolo "Datemi un martello". recentemente Lopez è stato protagonista di un documentario sulla sua vita diretto da P. David Ebersole e Todd Hughes.
· E’ morto Stefano Pernigotti.
Morto il cavalier Pernigotti, nipote del fondatore dell'azienda dolciaria. Pubblicato martedì, 11 agosto 2020 da La Repubblica.it. E' morto a Milano il cavalier Stefano Pernigotti, nipote del fondatore della storica fabbrica dolciaria di Novi Ligure (Alessandria). Aveva 98 anni. A darne notizia è il sindaco di Novi, Gian Paolo Cabella. "Come amministrazione non possiamo che unirci al cordoglio e al dolore della città che era molto molto affezionata al Cavaliere. Ha segnato un'epoca con la generazione dei nostri genitori e con quelle precedenti - afferma il primo cittadino - Tutti ricordano come nel bombardamento dell'8 luglio 1944 avesse offerto rifugio ai novesi nelle cantine dello stabilimento". Dopo la scomparsa negli anni Ottanta dei due figli, in un incidente in Uruguay, si era avvertito un cambiamento del metodo di vita, arrivando successivamente alla cessione agli "Averna". "Mi faccio interprete del passato e del futuro: forse, ci fossero stati gli eredi, il destino dello stabilimento avrebbe potuto essere diverso. C'era l'attaccamento familiare di una volta". Il primo cittadino sarà domani al cimitero per accogliere la salma.
Muore Pernigotti, portò i gianduiotti nel mondo 1922-2020. Rita Querzé il 12 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. È morto ieri a 98 anni a Milano Stefano Pernigotti. Il suo nome è legato alla storica azienda di famiglia, la Pernigotti di Novi Ligure. Il marchio che ha fatto la storia dell’impresa italiana oggi è di proprietà della turca Toksoz. Di recente non sono mancate le difficoltà. I turchi nel novembre 2018 avevano prospettato la chiusura dello stabilimento. Nel giugno scorso l’annuncio di un piano di rilancio dell’attività. Stefano Pernigotti aveva seguito a distanza la crisi di questi ultimi anni. Mentre molti a Novi Ligure ricordavano con nostalgia quegli anni ‘70 in cui l’azienda macinava ancora risultati, portando i suoi gianduiotti in giro per il mondo. Senza trascurare di investire in quello che oggi chiamiamo welfare di territorio. C’era proprio Stefano Pernigotti, a quei tempi, alla guida dell’azienda. E forse la storia di questo marchio italiano sarebbe stata diversa se il patron dell’azienda non fosse stato colpito nel 1980 da una tragedia immane e irreparabile: la morte di entrambi i due figli, Paolo e Lorenzo, in un incidente stradale mentre la famiglia era in Uruguay per visitare uno stabilimento. I ragazzi avevano 13 e 17 anni. Rimasto senza eredi, Pernigotti cedette nel 1995 la società alla famiglia Averna. Che a sua volta nel 2013 la vendette al gruppo turco Toksoz. La storia della Pernigotti iniziò nel 1860, quando l’omonimo Stefano Pernigotti aprì una drogheria nella piazza del Mercato, a Novi Ligure. Il marchio diventò presto fornitore ufficiale della famiglia Reale. Tanto che il Re Umberto I concedette all’azienda la facoltà di innalzare lo stemma reale sull’insegna della fabbrica. Stemma che accompagnerà il logo fino al 2004. A dare ieri la notizia della morte di Pernigotti è stato il sindaco di Novi Ligure, Gian Paolo Cabella. «Come amministrazione non possiamo che unirci al cordoglio e al dolore della città che era molto affezionata al Cavaliere. Ha segnato un’epoca con la generazione dei nostri genitori e con quelle precedenti - ha sottolineato il sindaco -. Tutti ricordano come nel bombardamento dell’8 luglio 1944 avesse offerto rifugio ai novesi nelle cantine dello stabilimento». Tornando ad oggi, dal 3 agosto i lavoratori della Pernigotti sono in cassa integrazione straordinaria per riorganizzazione aziendale della durata di un anno. I turchi di Toksoz hanno presentato un piano industriale che prevede investimenti fino a 5 milioni di euro tra luglio 2020 e luglio 2021, per ammodernare gli impianti e consentire il trasferimento a Novi Ligure della produzione di crema spalmabile e di tavolette di cioccolato con due nuove linee da affiancare a quelle di torrone e cioccolatini. Buona notizia, se si tiene conto che fino a pochi mesi fa era concreto il rischio che il marchio rimanesse sul mercato ma con i cioccolatini prodotti all’estero. Questa volta a vigilare sul futuro dell’azienda non ci sarà più Stefano Pernigotti. I suoi funerali sono previsti a Milano, mentre la salma sarà portata a Novi Ligure. Nella tomba di famiglia, con la moglie Attilia e i figli Paolo e Lorenzo.
· E’ morto Alberto Bauli.
Da huffingtonpost.it l'11 agosto 2020. Si è spento oggi a Verona Alberto Bauli. L’ingegner Bauli avrebbe compiuto 80 anni il 5 settembre e per oltre 25 anni è stato presidente del gruppo dolciario fondato nel 1922 dal padre Ruggero, ora con sede a Castel d’Azzano (Verona) ed ora leader italiano nella produzione di pandori e dolci da ricorrenza. L’azienda sotto la sua guida nel 2006 ha acquisito il biscottificio trevigiano Doria, nel 2009 ha rilevato da Nestè i prodotti da forni commercializzati con i marchi Motta e Alemagna nel sito di San Martino Buon Albergo (Verona) e nel 2013 la Bistefani di Casale Monferrato (Alessandria). Alberto Bauli è stato per alcuni anni anche consigliere del Banco Popolare, ricoprendo la carica di presidente della Banca Popolare di Verona.
Morto Alberto Bauli, re del pandoro. Pubblicato martedì, 11 agosto 2020 da La Repubblica.it. E’ stato il re del Pandoro per 25 anni. Ma anche il manager che ha trasformato l’azienda di famiglia – la Bauli di Verona fondata dal padre Ruggero – in uno dei leader dei “dolci” italiani, strappandola alla stagionalità dei prodotti da ricorrenza come panettoni e pandori e regalandole – a colpi di acquisizioni – un portafoglio di prodotti presente sugli scaffali della distribuzione tutto l’anno. Alberto Bauli, presidente da 25 anni della società veneta, è morto ieri a 79 anni lasciando la moglie Zina e tre figli ma anche un’azienda che con quasi 500 milioni di ricavi e 11 milioni di profitti nell’esercizio al 30 giugno 2019, è una delle realtà più solide del settore alimentare italiano. Il manager veronese ha guidato negli ultimi cinque lustri l’ambiziosa strategia di crescita che ha raccolto alcuni dei brand più noti e storici della tavola italiana. Uno alla volta sono finiti sotto il controllo del gruppo marchi come Motta e Alemagna, gli ex-panettoni di Stato dell’Iri che erano finiti nell’orbita di Nestlè ma anche la Bistefani – quella dei biscotti Krumiri, e la Doria. Una scelta che ha consentito di rafforzare il core-business fatto di pandori, panettoni e colombe vendute nelle classiche confezioni lillà – tipici prodotti che vivono il picco di produzione sotto le feste di Natale e Pasqua – ma che ha pilotato la Bauli verso nicchie di mercato che generano affari tutto l’anno come i biscotti, le merendine, le brioches e i crackers. Bauli – che ha ricoperto per molti anni anche la carica di consigliere e presidente nella Banca Popolare di Verona, poi Banco Popolare – è riuscito così a supportare la crescita di pandoro & C. senza caricare di debiti l‘azienda e dribblando i problemi di altri marchi del veronese come Melegatti.
Addio Bauli, re del pandoro e simbolo del Natale italiano. Alberto da 25 anni guidava l'azienda veronese di famiglia. Zaia: "Messaggero delle nostre tradizioni". Nino Materi, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale. Se alla vigilia di Natale, incontri un bambino - sotto la neve sarebbe l'ideale - e gli chiedi: «Scusa piccolo, qual è il tuo pandoro preferito?», lui ti risponderà: «Ba-ba-ba-Bauli». Nessun problema di balbuzie, ma tutto merito di uno degli spot più romanticamente riusciti nella storia dell'advertising dolciario. Una delle tante idee vincenti dell'ingegner Alberto Bauli, per oltre 25 anni alla presidenza del gruppo dolciario leader nella produzione dei pandori, ora con sede a Castel d'Azzano (Verona). Il 5 settembre avrebbe compiuto 80 anni, ma ieri il «re del pandoro» ha dato il suo addio al mondo. Lo ha fatto con lo stile e la discrezione tipica di un signore d'altri tempi, eppure sempre modernamente proiettato nel futuro. Un capitano d'impresa a volte rude, se pur avvolto idealmente da una perenne nuvola di zucchero a velo, lo stesso che impreziosiva il «suo» pandoro: forse meno chicchetoso di tanti concorrenti «artigianali» (o presunti tali) ma che, nel rapporto qualità-prezzo, è sempre rimasto il numero uno. Alberto Bauli non era un industriale da economia «di nicchia», aveva al contrario un imprinting da grandi numeri, con una produzione di modello «espansivo». Una carriera a rincorre marchi-leader. Nel 2006 l'azienda ha acquisito i biscottifici Doria e Bistefani, mentre nel 2009 ha rilevato da Nestlè i prodotti da forno commercializzati con i marchi Motta e Alemagna. Scalate degne di un manager esperto e preparato. Non a caso l'ingegner Bauli è stato per alcuni anni anche consigliere del Banco Popolare, ricoprendo la carica di presidente della Banca Popolare di Verona. Ha così portato griffe Bauli tra i giganti in Italia ed Europa nel settore «dolci da ricorrenza»: pandoro, panettone e colombe; senza dimenticare i «dolci continuativi»: biscotti, merendine, brioches e crackers. «Bauli significa immediatamente Pandoro, un dolce che ogni anno porta la tradizione natalizia veronese in tutto il mondo. Con la scomparsa dell'ingegner Alberto, il Veneto ha perso oggi un messaggero delle nostre tradizioni e del valore della nostra imprenditoria», il ricorso di Luca Zaia, presidente della Regione del Veneto. Il vero miracolo imprenditoriale di Alberto Bauli? «Aver liberare l'azienda di famiglia dalla dipendenza dalle ricorrenze comandate e regalarle - a colpi di acquisizioni azzeccate - un portafoglio di prodotti in grado di vivere tutto l'anno sugli scaffali dei supermercati», spiega chi lo ha conosciuto bene. E chi si intende di fatturati aggiunge: «In un contesto economico di crisi internazionale, lui aveva portato il bilancio a un passo dai 500 milioni con un attivo di 11 milioni. Alberto aveva raccolto nel 1995 il testimone dell'azienda fondata da papà Ruggero, partito per il Sud America a cercare fortuna nel 1927 e scampato per miracolo dal naufragio della nave «Principessa Mafalda» in cui ha perse tutte le sue macchine da pasticceria. «Un disastro - narra la leggenda - da cui si riscattò mettendo su un negozio di dolci a Buenos Aires e trovando in dieci anni i soldi necessari per tornare a Verona con le tasche piene e aprire il primo negozio Bauli in città». Colpi da campione che Alberto è riuscito perfino a migliorare, dimostrano la validità del detto «Buon sangue non mente...». «Oggi Verona ha perso un capace capitano d'industria e un banchiere illuminato. Con lui, l'azienda fondata dal padre è diventata un colosso, portando il nome di Verona nelle case di milioni di consumatori. La società è una delle eccellenze cittadine per creazione di valore e occupazione», le parole del sindaco di Verona, Federico Sboarina. Intanto la dinastia continua: nel Gruppo Bauli il ricambio generazionale è garanzia di solidità e ora l'azienda è guidata dal nipote, Michele Bauli, presidente di Confindustria Verona. Il 25 dicembre è ancora lontano, ma di sicuro la famiglia Bauli saprà onorarlo con una grande festa che accomunerà la città di Verona al marchio che meglio la rappresenta nel mondo. «A Natale puoi».
· E’ morto il wrestler James Harris, conosciuto come Kamala.
Wrestling in lutto, è morto Kamala di coronavirus. Notizie.it il 10/08/2020. James Harris, conosciuto come Kamala, è morto a 70 anni per coronavirus. James Harris, conosciuto come Kamala, è morto di coronavirus all’età di 70 anni, dopo cinque giorni di ricovero in ospedale. Il mondo del wrestling è in lutto per la scomparsa di un volto storico di questo sport, uno degli storici avversari di Hulk Hogan. Le cure sono state del tutto inutili e il suo spirito combattente non è riuscito a fargli vincere questa battaglia. Da tempo era accompagnato dal dolore e dalla sofferenza, per via della sua malattia, ma il Covid-19 è stato un ulteriore ostacolo per la sua salute. Il famoso wrestler ha scoperto di aver contratto il coronavirus durante un normale controllo medico effettuato prima di sottoporsi alla dialisi. Nel 2011 era stato costretto a subire l’amputazione di un piede a causa di una forma molto grave di diabete. L’uomo è stato ricoverato, ma dopo cinque giorni si è spento. Il mondo del wrestling è in lutto perché se ne è andato uno dei protagonisti delle telecronache degli Anni Novanta. Era stato chiamato il “panzone dell’Uganda” e il suo personaggio era davvero spettacolare. L’uomo aveva il viso dipinto con disegni tribali, indossava una collana simile a una corona propiziatoria di uno stregone africano e sul petto aveva due stelle disegnate, mentre sull’addome la luna. Il suo abbigliamento scenico era molto eccentrico, con il pantaloncino leopardato. Era un vero gigante, con i suoi due metri di altezza e i suoi 150 kg. Ha iniziato la carriere di wrestler a 25 anni, dopo un’infanzia molto tormentata. Da giovane aveva svolto molti lavori, prima di diventare un campione leggendario.
Da gazzetta.it il 10 agosto 2020. “Kamala, il panzone dell’Uganda”: tutti lo ricorderanno così, con le telecronache degli anni 90 che ne annunciavano l’enorme mole (2 metri per 150 chili) e il personaggio che interpretava. Kamala però in realtà si chiamava James Harris, veniva dal Mississippi e da oggi ha lasciato il mondo del wrestling in lutto, andandosene a 70 anni in seguito alle complicazioni del coronavirus. Già nel 2011 il diabete e una complicazione dovuta all’ipertensione lo costrinsero all’amputazione di un piede, ora il virus, il ricovero in ospedale 5 giorni fa e un arresto cardiaco contro cui non si è potuto fare nulla. Dopo un’infanzia difficile in cui ha fatto il pastore, il ladro e il camionista, Harris cominciò con il wrestling a 25 anni, spinto dall’amico Bobo Brazil. Dopo sei anni di lotta in federazioni minori dove si faceva chiamare “Sugar bear” o “Mississippi bomber”, l’idea sua e del suo manager di interpretare un wrestler africano proveniente da una qualche tribù cannibale. Idea che lui rendeva alla grande, con la luna e le stelle dipinte sul corpaccione, rifiutando di parlare in inglese in pubblico e inscenando schiaffoni e morsi imponendo la mole eccezionale. Nel 1984 entrò nella WWF e il suo personaggio divenne leggenda, e combatté contro tutti i big. Nei primi anni 90 poi iniziò la carriera parallela di cantautore.
· E’ morta Franca Valeri.
Franca Valeri: cent'anni di vita in un solo racconto. L’infanzia. I genitori. I nonni. L'amore per i gatti e l'avversione per le bambole. E poi le leggi razziali. L’odio per il fascismo. La gioia per la morte di Mussolini. La carriera teatrale. Tutto nelle pagine della "Sedia del nonno”, ultimo scritto della grande attrice scomparsa due mesi fa. Franca Valeri su L'espresso l'8 ottobre 2020. Il ricordo ha la valenza di una fotografia. Vedo la prima casa che ho abitato a Milano. Incredibile che me la ricordi così bene, ricordo tutto o quasi di quella casa, persino i pavimenti, le scale. E ricordo che sono in terrazzo, c’è una persona che passeggia su quello di fronte. È bella quella terrazza, proprio di fronte a noi. E si sentono le voci di chi ci sta. So chi sono, c’è una bambina della mia età che si chiama Ester. Non è stata a lungo mia amica, ha lasciato presto quella casa perché alla sua mamma non piaceva. Peccato perché era grande e comoda. Anche il nostro terrazzo è bello, contornato di pietre. Ma mi fa impressione stare lì, la mamma è vestita di nero e sento papà.
Ciao Franca Valeri, il prodigio di farsi amare da critica e pubblico. Errico Novi su Il Dubbio il 9 agosto 2020. È morta stamattina nella sua casa di Roma una delle più straordinarie attrici italiane del dopoguerra. Aveva compiuto 100 anni lo scorso 31 luglio. Conquistare la critica, farsi amare dal pubblico. Non riesce a tutti. Ma a Franca Valeri sì. Perciò ora che se n’è andata, una buona parte degli italiani ha gli occhi lucidi. È stata una delle più straordinarie attrici di teatro del dopoguerra, è morta oggi a Roma, nella sua casa, con attorno i familiari, alle 7.40 dopo cento di vita inimitabile, compiuti proprio il 31 luglio e spesi soprattutto sul palcoscenico, ma pieni di regali fatti al grande pubblico attraverso gli schermi della televisione. Ci sono personaggi come la Sora Necioni e la Signorina Snob che restano indimenticabili per molte generazioni. Lei (al secolo Franca Maria Norsa, milanese di nascita) li ha portati sul piccolo schermo, dai varietà degli anni Sessanta con Antonello Falqui fino alla sit-com con Gino Bramieri “Norma e Felice” ancora nel 2000, e un po’ ci ha lasciato se stessa, perché in troppi l’hanno inevitabilmente associata solo a quei caratteri. Ma restano indimenticabili alcune sue prove cinematografiche, a partire dai film come “Parigi o cara”, di Vittorio Caprioli, che sarà suo marito. Fino alla magistrale interpretazione ne “Il vedovo”, del 1960, con Alberto Sordi. A teatro in quegli stessi anni lasciò il segno con “Gin Game’” di Coburn e “Fiori di pisello” di Bourdet. Sono solo flash: «Una vita per il teatro», come lei stessa l’ha descritta nelle interviste e in libri come “Bugiarda no, reticente”, non può essere racchiusa in un breve cenno. In cui non può non prevalere la commozione per una donna che ci lascia e si è portata via un secolo di ricordi.
Stefano Balassone per “la Repubblica” il 18 agosto 2020. Franca Valeri di distinse anche in cucina gareggiando nel 1974 in A tavola alle 7 , condotto da Ave Ninchi, oggi recuperabile sulla piattaforma RaiPlay. Risolutiva, per concezione e risultato, fu la sua ricetta delle "penne alla carbonara". Munitevi di 500 gg di penne (rigate o meno non fu specificato; gli spaghetti sono comunque esclusi perché sarebbero banali), 4 rossi d'uovo, 100 gg di guanciale (non di pancetta, che non scrocchia sotto il dente), 30 gg di grana ed altrettanti di romano pecorino. Tenete le penne per 15' nell'acqua quando bolle, nel mentre che in padella sfrigola il guanciale nello strutto (ma anche l'olio è ammesso), sbattete le uova con metà del formaggio e otterrete la tipica pastella. Al che la pasta va in padella a unirsi ai condimenti, e cosparsa col formaggio residuato, finisce a tavola in piatti ben scaldati. Trattandosi di Valeri, anche l'occhio e la mente hanno di che godere con le penne, a partire dall'effetto tricolore del bianco, giallo e rosa che pare tale, almeno per quei tempi, da rendere "il piatto d'alta moda". Si sa del resto che il bello non è nelle cose, ma in chi le osserva, sicché, per farla corta, non scovi il bello fuori se dentro di te manca la Franca. La quale giunse a chiarire lo stesso profilo esistenziale di quel piatto che, per i più e da sempre, attiene al "dissidio che sovrasta la nostra vita" in cui "siamo tutti amici della pasta, ma è anche forte la paura d'ingrassare". Messa in tal modo spalle al muro, la Rai dovette spingersi a prospettare ben due, seppure opposte, formule per conciliare piacere della bocca e pancia piatta. L'una, del dietologo da video, che scommette sulla temperanza del mangiare pasta, ma senza mai finirne sazi. L'altra, proposta da Valeri, punta invece sul gusto dell'abuso, dedicando alla pasta giorni rari, ma dedicati a divorarne ogni quantità che giunga a estinguerne la brama. A ognuno resta da scegliere se conformarsi ai saggi consigli del dietologo o al piglio vitale della Franca, peraltro centenaria.
Gabriele Niola per badtaste.it il 16 agosto 2020. Sarà nel 1962 che Franca Valeri interpreterà l’unico film da lei scritto di cui è protagonista assoluta, Parigi o cara. L’apice di una carriera che poi proseguirà in televisione e la renderà un simbolo, la prima donna a fare qualsiasi cosa nello spettacolo italiano, come giustamente recitava il titolo di un documentario (non eccezionale) che le ha dedicato Sabina Guzzanti, Franca, la prima. Quella carriera televisiva fatta di personaggi e che è proseguita anche al cinema nasce però al cinema (caso raro) con una gavetta non lunghissima tra il 1950 e il 1955 e soprattutto nei successivi 5 anni, con 13 film grazie ai quali il paese impara a conoscerla, in cui diventa un simbolo di umorismo e una maschera in anni in cui il nostro cinema sembrava sfornare solo quello, maschere, e con esse era capace di fare tutto. Non tutti quei 13 film sono fondamentali, anzi. Ma è in quelli che passa da comprimaria a caratterista, cioè è in quei film che le viene appiccicato un personaggio, uno che lei ovviamente contribuisce (e come!) a creare, e che fa la sua fortuna perché la rende unica nel panorama italiano. Già in Questi fantasmi e Le signorine dello 04 (entrambi del 1954) ci sono delle avvisaglie ma è con Il Segno di Venere che si può dire nasca Franca Valeri come la conosciamo, per opposizione a Sophia Loren. Curiosamente infatti è anche il momento in cui sta nascendo Sophia Loren, anche lei dopo circa 5 anni di gavetta (di nuovo curiosamente iniziata assieme, in Luci del varietà) in ruoli sempre maggiori, culminata nel 1954 quando è protagonista di un segmento di L’Oro di Napoli. Il Segno di Venere doveva chiamarsi La Chiromante ed era pensato tutto intorno a Franca Valeri prima che la produzione non decidesse di farne un film corale con tanti attori più noti di lei. Tuttavia anche il titolo definitivo continua a fare riferimento alla sua storia, che è quella portante, ovvero quella di una donna entrata nel “periodo di Venere” in cui può trovare l’amore e che di conseguenza si trova a confrontarsi con diversi uomini. Il selling point di tutto il film era (oltre al nutrito cast) il fatto che Franca Valeri fosse la cugina di Sophia Loren. Viene così creato per opposizione il suo personaggio. Le attrici italiane erano tutte delle proto-Sophia Loren, modelli di donne di cui lei sarà l’apice, modelli da ricostruzione che parlavano di felicità, benessere, opulenza, grandezza e magnificenza (l’esatto contrario del modello Vitti che si imporrà negli anni ‘60). Erano donne da sognare senza limiti che non portavano mai problemi ma sempre risposte e tutte con il loro corpo. Franca Valeri era l’opposto e come tale si posizionò. Creò un modello di donna alternativo, un atto in sé politico e potentissimo, un modello di donna non omologato che non intendeva omologarsi e non inseguiva le “cugine” sul loro terreno di caccia ma anzi cercava il proprio, senza risultati, nell’Italia di quell’epoca. Di quella ragazza tutto sommato infelice, circondata da predatori che su di lei ripiegano, si innamora il pubblico. Solo nel 1955 Franca Valeri lavorerà altre 2 volte con Sordi (Piccola Posta e Un eroe dei nostri tempi). Era l’unica in quegli anni per lui formidabili capace davvero di tenergli testa, con lei Sordi dà il meglio, con lei corre molto più veloce che con gli altri e viceversa. Con Sordi Franca Valeri diventa Franca Valeri. In Un eroe dei nostri tempi è una comprimaria e lavora al contrario rispetto a Il Segno Di Venere: invece che essere Sordi una delle figure maschili con cui lei si confronta, è lei una delle donne con cui il suo personaggio si relaziona. Quello è un film pazzesco scritto da Monicelli e Sonego e diretto con piglio ultramoderno dallo stesso Monicelli (come apre e come chiude sono stacchi netti che ancora oggi non si tentano), che racconta un uomo vigliacchissimo coccolato dalle zie e cresciuto nella paura di tutto, l’italiano qualunquista e vigliacco capace di ogni assurdità per salvarsi e cauto in tutto, anche nelle relazioni con le donne. Franca Valeri è la capoufficio e di nuovo si contrappone a modelli più frivoli, emerge prepotente, con lei ci sono gli scambi migliori e suoi sono gli unici momenti in cui si ha l’impressione che il film non sia un one man show. Piccola Posta invece è una collaborazione diversa, è un film più piccolo ma un gioiello ingiustamente poco celebrato. Scritto senza freni e senza limiti da Steno e Lucio Fulci, racconta le falsità epistolari di un personaggio finalmente non ordinario per Franca Valeri, una finta nobile dal nome d’arte altisonante, Lady Eva, che tiene una rubrica su un rotocalco sostenendo di vivere in modi lussuosi quando ha la più ordinaria delle abitazioni e delle esistenze. I suoi lettissimi consigli sono alla base di altri episodi del film con protagonisti Sordi (geniale direttore meschino di un ospizio in cui si maltrattano vecchine, roba da Ben Stiller e Adam Sandler degli anni ‘90) e Peppino De Filippo. Franca Valeri mostra finalmente la sua capacità trasformista, quella che poi emergerà in tv negli anni ‘60, la capacità di osservare la società come faceva sempre il cinema di quegli anni ma guardando in un’altra direzione, quella della società delle donne. Nello scambio che ha con Sordi entrambi interpretano quello che non sono. E lei non è assolutamente da meno della stupidissima r moscia di Sordi che recita tre registri sopra lei che invece, con il suo consueto minimalismo, fa tantissimo con pochissimo e si rimpallano battute senza pietà, una dice “Desidera latte di tigre?” e l’altro “Due gocce” e poi dopo averlo bevuto “Cattivissimo. Divertentissimo però. Schifoso“. Chiuderanno questi 5 anni pazzeschi fatti collaborazioni, ripetizioni di questi ruoli e consolidamento di un’immagine così originale e così necessaria da proiettarla immediatamente nell’affollato stardom italiano, altri due film con Sordi, il primo dei quali è il più noto della coppia: Il Vedovo. Franca Valeri è in scena sì e no per il 20% di un film che vede Sordi in scena nel 99% del tempo, ma tutti ricordano le scene in cui compare lei. La moglie acida e industriale, stereotipo nordico e sostanzialmente unico esempio valido di donna manager nel cinema italiano del boom, che di manager e imprenditori di successo traboccava, è un capolavoro di umorismo senza sorriso. Non ride mai ma fa ridere tutti, ha un’ironia pungente che non ha nulla a che vedere con l’immagine di donna o remissiva o aggressiva che il cinema italiano proponeva a maschi in costante necessità di conferme. Quel film arriva due anni prima di Il Boom ma già lo contiene, racconta già di un uomo pronto a tutto per avere successo e prendere parte anch’egli alla nuova Italia, per potersi dire pari a chi gli è intorno. È così capace di creare un senso incombente e potente Franca Valeri che quando il protagonista progetta di ucciderla buttandola nella tromba dell’ascensore è subito evidente a tutti che non ci riuscirà mai perché troppo inetto di fronte a lei. Il film che chiude il quinquennio propulsivo di Franca Valeri è invece di Mario Camerini (il regista di punta dell’era dei telefoni bianchi, per questo poco studiato e invece incredibilmente tecnico, sofisticato, inventivo) di nuovo un film con molte star, uno come Il Segno Di Venere in cui il cast collettivo è quel che conta, e anche stavolta il personaggio memorabile, assieme al consueto matto da legare, folle a briglia sciolta che Sordi interpretava negli anni ‘50 (il gioco è il suo tarlo in questo caso), è quello suo, della Valeri. Non a caso è lei a pronunciare la battuta più nota (perché la più significativa) in uno scambio a tre da urlo Sordi/Valeri/Manfredi con tempi incredibili e una fotografia di ombre e neri che all’epoca si vedeva solo nei film di Fellini (non a caso il direttore della fotografia è Gianni Di Venanzo, lo stesso che tre anni dopo lavorerà a 8 e mezzo).
– “Ma chi comanda qui lei o sua moglie?”
– “Comanda lui ma decido io. Fa quello che dico io”
– “È comodo eh…”
– “Beh per me era troppa responsabilità…”
Cento anni di Franca Valeri, addio all’attrice icona di ironia e simbolo femminile. Redazione su Il Riformista il 9 Agosto 2020. Pochi giorni fa, il 31 luglio, aveva compiuto 100 anni. L’attrice Franca Valeri è morta oggi a Roma circondata dall’affetto della sua famiglia. Domani dalle 17 alle 20 al teatro Argentina di Roma ci sarà la camera ardente. I funerali si svolgeranno in forma privata. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato ai familiari un messaggio di cordoglio per la scomparsa di Franca Valeri, attrice versatile e popolare, che rimarrà nel cuore degli italiani per la sua grande bravura e la sua straordinaria simpatia. Tantissimi i ruoli indimenticabili della grande artista: dalla sofisticata “Signorina Snob” alla “Sora Cecioni”, pigra e di cattivo gusto. Vasto il repertorio di personaggi teatrali, radiofonici, cinematrografici e poi televisivi: quasi delle “maschere” impersonificate durante le rappresentazioni. Unico lo stile del suo humor: intelligente, graffiante, critico. Nata nel 1920 a Milano da una famiglia borghese, padre ebreo e madre cattolica, sopravvive alle leggi razziali del 1938 e alla deportazione nei campi di sterminio nazifascisti grazie a un impiegato dell’anagrafe. Nel corso della carriera Franca Valeri si fa conoscere anche come scrittrice, autrice di libri e commedie, come “Lina e il cavaliere”, “Meno storie”, “Tosca e altre due” (portata anche sul grande schermo nel 2003) e “Le Catacombe”. Si avvicina alla comicità già prima della guerra, adolescente, recitando delle caricature insieme alle amiche. Nel 1947 esordisce in un lavoro teatrale con il personaggio di Lea Lebowitz.
Lanciata dal Teatro Gobbi, parte alla volta di Parigi, dove continua ad esibirsi in una serie di sketch satirici sulla società contemporanea senza ausilio di scene e costumi. Negli anni ’50 arriva il momento del cinema. Lavora con Federico Fellini: in “Luci del varietà” interpreta la piccola parte della coreografa ungherese. Prosegue con una serie di commedie al fianco di Alberto Sordi e Totò. Anche in tempi più recenti Franca Valeri va in scena, continuando a contagiare il pubblico con la sua simpatia. Nel 2000 prende parte alla miniserie tv “Come quanto fuori piove” con la regia di Mario Monicelli. Ricompare in televisione nel settembre 2009 a “I migliori anni” su Rai1 con il tributo di lunghi applausi. Negli ultimi anni si dedica alla grande passione: la musica lirica. Organizza concorsi e sceglie come figlia adottiva la soprano Stefania Bonfadelli.
È morta Franca Valeri, aveva appena compiuto 100 anni. Pubblicato domenica, 09 agosto 2020 sa Rodolfo Di Giammarco. La Repubblica.it L'attrice si è spenta nella sua casa di Roma. Il suo motto era "La comicità non è un dono di natura, è un lavoro del cervello". Lunedì 10 agosto, dalle 17, la camera ardente al Teatro Argentina di Roma. I funerali si svolgeranno in forma privata. E' morta Franca Valeri, una delle più grandi attrici italiane di teatro e televisione. L'attrice è deceduta nella sua casa romana: aveva 100 anni. "La morte non ci deve impressionare. È una componente della vita, e se ne può sorridere, a costo di accentuarne le conseguenze, le paranoie e i riti. E poi io ho avuto sempre la fortuna d’avere il teatro che mi parlava in tasca, e quando ho perso per strada gli affetti, ho potuto far affidamento su nuovi giovani amici, e sui miei amati animali". È così che Franca Valeri s'esprimeva, un tempo, riservando ad alcuni il privilegio della confidenza, dell’astrazione, e di un certo quieto e surreale distacco. Associando il compensarsi umano dei cicli della vita a un’armonica staffetta di partner, di personaggi, di colleghi, di adorate creature domestiche. Ora che non c’è più, abbiamo perso un’infinità di cose: la portavoce acuta di prototipi, l’osservatrice di fenomeni di costume, la ritrattista storica di generazioni, l’autrice che ha declinato sorti individuali in contesti politici, l’attrice anticonformista produttrice di risate dedicandosi solo all’opacità dei destini conformisti, la letterata con raffinata padronanza della lingua al servizio di spettacoli e libri di gran diffusione, la professionista il cui motto era "La comicità non è un dono di natura, è un lavoro del cervello". Abbiamo perso la sua voce, che s’era formata con Sergio Tofano e con Giorgio Strehler, voce che era più indipendentemente nata nella gavetta favolosa e libertaria del Teatro dei Gobbi, la pratica di cabaret intellettuale anche francese condivisa negli anni Cinquanta col futuro marito Vittorio Caprioli e con Alberto Bonucci poi sostituito da Luciano Salce, ai tempi del “Carnet de Notes 1”. Una voce che radiofonicamente, e in seguito alla tv, avrebbe poi partorito le signorine della borghesia e della gente comune, piacendo a Missiroli, Patroni Griffi e a De Lullo che l’abbinò ai toni robusti di Paolo Stoppa in un indimenticabile “Gin Game”. Ora ha preso il commiato da noi l'autrice che all’inizio era nata, diremmo, con gli stili suggeriti dalle tecniche di Irene Brin e Camilla Cederna, ma che presto avrebbe svelato somiglianze di forza parodistica affine (con eleganza tutta sua, ben inteso) ai profili di un Paolo Poli o di una Franca Rame, mentre dagli anni Novanta, a cominciare da Tosca e altre due in tandem con Adriana Asti, subentra un racconto di Franca Valeri più attento all’intimità dei soggetti, come dimostreranno poi i testi più maturi imperniati su una vecchia signora come Non tutto è risolto del 2011 e Il cambio dei cavalli del 2014, sempre concepiti per riservare un bel ruolo filiale a Urbano Barberini. Verrebbe voglia di dire, a proposito della coscienza d’artista in età che in palcoscenico si misura con figure molto vissute, che uno dei confronti seriamente ispiratori di questa nostra amata autrice-interprete risale al suo calarsi, nel 2001, nei panni di un'anziana genitrice che prima della casa di riposo pensa a come ripartire i suoi oggetti non smarribili, in “Possesso” di Yehoshua. "I miei averi? Quadri, libri, una coperta, un tavolo Impero" confessò Franca, parlandomi di sé. Ci ha lasciati un genio della dissertazione, dello humour di gran classe, dell’apologo, del cammeo metafisico, del sarcasmo platonico. Si divertì da pazzi a fare la sorella Solange, accanto ad Anna Maria Guarnieri, e a Patrizia Zappa Mulas, ne Le serve di Genet diretto da Giuseppe Marini. "Io molti anni fa ho mangiato assieme a Genet e al suo fidanzato in un ristorante di Roma: era cordiale, polemico e ironico". Tantissimi hanno voluto conoscerla, nei suoi cent'anni: Luchino Visconti la sbirciava da dietro le quinte, e già ai tempi dei Gobbi quando era in scena a Parigi si trovava in platea Sartre, Piaf, de Beauvoir, Claudel. Ha preso commiato da noi un talento assoluto dell’arte divagatoria, che andava a sei anni alla Scala con la madre: "Lei era attentissima, e a insegnarmi fin da piccola l’amore per la lirica fu un amico di famiglia che mi educò suonandomi le arie al pianoforte". La vocazione fruttò anche la responsabilità d’un concorso per giovani cantanti d’opera, il Premio Mattia Battistini, che Franca condivise dal 1980 al 1995 col secondo compagno (dopo il marito Vittorio Caprioli) della sua vita, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi. "Quando coi Gobbi demmo vita a un inedito varietà da camera - le piaceva ricordare - s’è costituito un precedente: da lì ho ripreso la traccia per Carnet de Notes 2008 inserendo una tessitura di Verdi, Mozart, Rossini, Donizetti e Puccini". Il vuoto che ora s’è creato ci priva anche d’una protagonista di tanto cinema clamoroso, adorato dal pubblico italiano, e qui, citando un solo film dei suoi oltre 50, la pellicola che più resta impressa per l’apporto di cui lei è stata capace è sicuramente Il vedovo di Risi, con favolosa intesa tra Valeri e Alberto Sordi. Non ammessa all’Accademia, valorizzata ma mai premiata dai produttori del grande schermo, lei è stata d’altronde un impeccabile mostro sacro del palcoscenico. "Il teatro è più forte dell’amore" amava sostenere. Dovremmo anche dire che oggi non possiamo più contare su certa letteratura di Franca Valeri, sulle sue squisite pagine autobiografiche che ci regalò, per i tipi di Einaudi, in Bugiarda no, reticente del 2010, e nel libricino La stanza dei gatti del 2017, quest’ultimo con la meravigliosa quarta di copertina che recita "Ogni volta che mi illudo d’incontrare quel signore che ritengo sia il teatro, mi rendo conto di vivere la più bella illusione della mia vita". Ma come non avere anche nostalgia di quel volume intitolato Animali e altri attori. Storie di cani, gatti e altri personaggi? E come non collezionare, freschi d’uscita, l’attuale (inedito) La Ferrarina - Taverna sempre di Einaudi, e Tutte le commedie di Baldini+Castoldi - La nave di Teseo? Leggiamola, questa drammaturga-scrittrice, la cui donna di servizio Renata fu, tanto tempo fa, la figura-tipo da cui nacque la Sora Cecioni, "Una che quando entrava in casa, per me entrava il teatro". E quando diciamo ‘francamente’, d’ora in poi facciamo omaggio anche a Franca.
Franca Valeri: funerale privato e camera ardente all’Argentina di Roma. Notizie.it il 10/08/2020. La camera ardente di Franca Valeri è stata allestita in un teatro romano, mentre il suo funerale si svolgerà in forma privata. Sarà il teatro Argentina di Roma a ospitare la camera ardente di Franca Valeri, icona italiana del teatro, del cinema e della televisione deceduta domenica 9 agosto all’età di 100 anni: il funerale si svolgerà invece in forma privata. La camera ardente per dare l’ultimo saluto alla donna sarà allestita lunedì 10 agosto dalle 17 alle 21 proprio nel luogo in cui l’attrice aveva tenuto il suo ultimo grande spettacolo, motivo per cui i familiari lo hanno scelto. Alla messa in scena aveva partecipato anche l’attore Urbano Barberini, che ha condiviso il palco con lei gli ultimi 20 anni e ha ricordato che “è stato lì che abbiamo fatto il nostro ultimo spettacolo e ci sembrava il posto più adeguato“. Stefania Bonfadelli, la figlia, ha chiesto a chiunque volesse portare dei fiori per omaggiare la madre di optare sulle donazioni al rifugio per cani abbandonati Franca Valeri Onlus. La donna era infatti talmente amante degli animali da aver istituito un’associazione a suo nome a cui teneva moltissimo.
I messaggi di cordoglio. Dalla politica allo spettacolo, sono moltissimi i volti che hanno condiviso un messaggio per omaggiare la grande artista. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha definita un’attrice versatile e popolare che rimarrà nel cuore degli italiani per la sua grande bravura e la sua straordinaria simpatia. Il Premier Giuseppe Conte, dopo aver espresso profonda tristezza per la sua scomparsa, ha parlato di lei come di un’icona del teatro, della cultura e dello spettacolo italiani. “Ci ha regalato indimenticabili momenti di comicità e di pensiero, di eleganza e di arguzia. Le siamo grati per tutti questi doni“, ha aggiunto. Alessandro Gassman l’ha salutata con un semplice “Ciao Franca” mentre Mariasole Tognazzi ha ringraziato la “donna meravigliosa” ammettendo che avrebbe voluto averla per altri cento anni. Anna Foglietta ha poi affermato che l’attrice sarà sempre oltre il tempo e che il compito è ora quello di onorarne la memoria raccontando ai giovani chi era e cosa ha rappresentato per le donne, per il teatro, per la cultura e per la vita. Rita Pavone ha infine ricordato come il tributo ad una grande artista sia avvenuto mentre era ancora in vita e non dopo la morte come spesso avviene: “Ciò ti ha permesso di vedere quanta gente ti amasse e ti stimasse”.
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 10 agosto 2020. «Il varietà in tv è decaduto, così buttano lì quello che hanno in archivio, come a mascherare la pochezza del nuovo e rendendo evidente come quei programmi fossero intelligenti e divertenti... Ora vedi due che parlano, una scenetta comica, e ti rendi conto che non c'è quasi nulla di preparato, mentre ai nostri tempi i testi si consegnavano una settimana prima e poi ci si lavorava sopra». Così Franca Valeri dichiarava qualche anno fa, impossibile non darle ragione. Eppure, nel 1959, quando fu protagonista anche lei di un varietà, Le divine , scritto con Vittorio Caprioli, Enrico Medioli, Oreste Biancoli, subì l'onta di una critica di Achille Campanile, guarda caso, per la presunta fragilità dei testi: «Anche in questa puntata delle Divine , nessun intento e nessun risultato ironico o comico salvo che non ci si voglia far ridere (macabramente) all'idea barocca della mamma campionessa di pugilato, o sulla Valeri che mette knock ou t la vecchia signora, o su Caprioli papà della Valeri, il quale cuce a macchina e parla come uno scimunito». Altri tempi, altri parametri di giudizio! Le divine , con la partecipazione di Monica Vitti, proponeva una passerella di diversi tipi di vedette, protagoniste del divismo della prima metà del secolo, ironizzando sulla sacralità delle star attraverso scenette, sketch e gag nello stile tipico dei Gobbi. E con il Teatro dei Gobbi, la Valeri ha debuttato nel 1954 alla tv, consacrando il personaggio della Signorina Snob e più tardi della Signora Cecioni (nel programma La regina ed io , 1960). Ha partecipato a numerose serate di Studio Uno , adorata da una grande regista come Antonello Falqui (e bastavano poche battute per capire tutta la grandezza della Valeri, la più intelligente e raffinata delle nostre attrici) e ai varietà Le donne balorde (1970), Sì vendetta (1974), Vino, whisky e chewing-gum (1974), A modo mio (1976) e Studio '80 (1980). Nel 1993, dopo una lunga assenza dalla tv, vi è tornata nella trasmissione di Raitre, Magazine 3 ; nel 1995 duettò con Gino Bramieri della sitcom di Canale 5 Norma e Felice , e l'anno seguente fu bidella in Caro maestro su Canale 5. Nel 2000 ha fatto parte del cast di Linda, il brigadiere e e di Come quando fuori piove, su Raiuno. Il lato tv meno conosciuto della Valeri riguarda il teatro, anche se non era portata per ruoli drammatici. Quando le Teche Rai propongono qualche suo monologo, si capisce come dietro ogni parola di sfrenata leggerezza, la Valeri nasconda le sue punte acuminate, in una festa dell'intelligenza e dello humour.
Paolo Isotta per “Libero Quotidiano” l'11 agosto 2020. Franca Valeri si chiamava in realtà Norsa. Era ebrea, come Medea Norsa, la sventurata papirologa che alla morte del suo maestro Girolamo Vitelli venne perseguitata e morì sola e miserabile. Il nome d'arte Valeri le viene dalla sua ammirazione per Paul Valéry, il sommo poeta e saggista autore del Cimetière marin: e ciò basta a dare idea dell'altezza della sua cifra. Franca era nata nel 1920; il trentun luglio ha compiuto cento anni; e pochi giorni dopo, il 9 agosto, ci ha lasciato. Una cosa commoventissima che si è appresa dalla figlia adottiva è la seguente: ella ha disposto un forte lascito a favore di un ospizio per cani abbandonati. Come Totò, che ne aveva creato e coltivato uno. Con Totò il rapporto più intenso è Totò a colori. In questo film Franca campeggia: nell'episodio caprese interpreta la Signorina Snob e il suo Teatro dell'Assurdo trapassa nel surrealismo e nella metafisica: solo Ionesco ha fatto di meglio. Il diario della Signorina Snob, ripubblicato da Lindau nel 2003, è del 1951: primo libro della Franca, è illustrato da Colette Rosselli, la moglie di Indro Montanelli di origine napoletana, donna d'intelligenza ed eleganza straordinarie, in uno stile arieggiante Novello, il più grande caricaturista italiano: tra lui e Grosz non c'è che un passo. Una reincarnazione, pur essa milanese, della Signorina Snob, che non riesce nemmeno a far ridere, è Ilaria Borletti Buitoni, degno sottosegretario di Franceschini. La Signorina snob è una silloge di tutte le sciocchezze, le fissazioni, le ridicolaggini, le prepotenze, della borghesia milanese in particolare e italiana in generale. Quanto più Totò si manifesta ridicolo, tanto più le piace; porta un cagnolino di pezza attaccato al braccio destro e quando lei lo contraria lui esclama: «Ti faccio moddere, sai!» Lei dà l'accenno a un canto corale blues e Totò ne assume la guida, piange e fa piangere suonando una campanella e invocando «Babbo! Babbo!» come a un'esequia. La Valeri ha creato altre inimitabili macchiette, delle quali le più importanti sono la Sora Cecioni e Cesira la manicure. Queste sono invece un emblema di uno strato fra il proletario e l'infimo borghese, il quale pure possiede fisime e illusioni, e di fronte a se stesso si identifica meglio, il pallone essendo meno gonfiato. Le sue espressioni e maschere facciali, i suoi toni di voce, sono irraggiungibili. Sono certo che nessuno abbia interpretato meglio di lei La voix humaine di Cocteau: il dramma della donna abbandonata, sia tragico che ridicolo, risuona nelle sue corde. Di Franca Einaudi ha pubblicato l'aforistico La vacanza dei superstiti (e la chiamano vecchiaia), pur esso concentrato d'intelligenza. Dal Diario: «Ieri mentre scrivevo giacendomi annoiatissima mi telefona un'ignota di mia conoscenza: "Senti, vieni assolutamente, siamo tutti in casa di una ragazza balcanica, facciamo una seduta spiritica". Mi sono precipitata lingua a terra; cos' è stato di bello, da torcersi. () Ci siamo piazzati tutti intorno a un tavolino al buio, facendo sforzi orrendi per farlo ballare». È sempre la Signorina snob che torna; sto accorgendomi che io in primis, e forse tutti noi, più o meno, siamo Signorine snob. Chi non se ne accorge è un cretino. Di questa donna coltissima, che negli Anni Cinquanta fece anche del cabaret di eccelso livello insieme con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, il cretino sembra essere un nemico: ella ha come un imperativo teologico a combatterlo. Insomma: è stata un genio, e il mondo con la sua morte è diminuito di valore.
Altro che Sora Ciocioni, Franca Valeri fu una grande scrittrice. Fulvio Abbate su Il Riformista l'11 Agosto 2020. Ora che Franca Nosca, in arte Franca Valeri, se n’è andata davvero, centenaria, anni compiuti pochi giorni fa, non ci saranno “coccodrilli”, posto che li ha avuti in vita, anticipati, al di là dell’affetto, nelle scorse settimane, proprio a lei, con la grazia che si concede a un monumento vivente alla longevità, a ciò che sopravvive alla fine di un tempo eroico spettacolare, forse anche all’intelligenza. Tra onori e onorificenze, insieme ancora alla ripubblicazione di “tutte” le sue commedie da parte de La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, con prefazione di Lella Costa. Nessun birignao, in lei. Franca Valeri non lascia infatti eredi cartificati, calchi, doppioni, all’orizzonte, semmai, appaiono piccine epigoni manierate, caricature; e soprattutto non si citi la Littizzetto. Fra molto altro, scriveva, e bene, Franca Valeri, aveva il dono dei narratori in possesso di acume chirurgico per gli abissi, ora meschini ora penosi, sentimentali e condominiali, comprese le piccinerie da talamo. Anni addietro, in attesa dal dentista, tra riviste mediche e Autosprint, mi sono imbattuto in un suo tomo, Le donne, il titolo esemplare, è bastata la veloce lettura delle pagine introduttive, una lettera all’amante di un ipotetico marito, di più, del “coniuge”, per intuire che la signora Valeri aveva assai più corde, fiati, ottoni, coro, organo, insomma, talento letterario di un celebrato Alberto Arbasino, perfetto il suo spirito da “controra” e “narcisata” borghese sia capitolina sia padana, tra Montenapo e Babuino, forse perfino capace di lambire la periferica Val Melaina, residenza di poveri gabbati da ladri di biciclette e inermi struggenti commesse, così da restare incollati alla pagina, altro che spigolature per accompagnare nuove attese pettegole nel salone delle pettinatrici munite di completini e occhiali optical sotto la messa in piega, pardon, la cotonatura, già, siamo ormai negli anni Sessanta, tra Mina Mazzini e le sue bolle blu e le Orsomando dall’acconciatura sumerica. Si chiama verve, cioè saper trovare nel proprio catasto comico le parole adatte a raccontare il mondo, deriderlo, sottoporlo agli acidi del sarcasmo misurato, forse anche le dirimpettaie, attraverso lo strumento della comicità, ecco la “signorina snob”, la signora Cecioni, il proverbiale “pronto mammà”, il grembiule della centralinista o della cassiera dell’Upim, tra echi dei “telefoni bianchi” e un tardo neorealismo più o meno rosa approdato in via Teulada, tutti “medaglioni”, volti che ora, nella fuga del tempo, ci parlano e si mostrano dagli oblò della memoria nostra televisiva; giungono fino a noi dall’Italia al mattino del suo servizio pubblico spettacolare, tra Studio Uno e il resto. E Franca Valeri lì, comunque costretta a contenersi tra le parentesi quadre del protocollo democristiano di uno schermo dal quale era sconveniente pronunciare parole quali “membro” riferendosi ai gruppi parlamentari, mica al pacco del maschio bellimbusto, convinto d’essere “gajardo”, certo che no. Il peso e la volatilità dell’intelligenza, poi sempre lei, la Valeri, convocata, scritturata per essere il contraltare pensante e nel contempo sfigata in amore di Sophia Loren, insieme in Il segno di Venere di Dino Risi, lei lì anche in veste di sceneggiatrice: la procace e la cugina striminzita, forse anche un po’ “cozza”, comunque costretta a farsi largo tra i fusti che vogliono circuire la più bella della festa. A proposito di “Upim” a Milano, oggi sostituito dal colosso cinese a basso costo “Aumai”, meglio, di piazzale Loreto, le dobbiamo ancora, pronunciata di recente, una frase esemplare, che fa giustizia delle carte false nascoste nelle maniche del qualunquismo endemico nazionale per legittimare comunque – già, si stava poi così male con il duce! – il fascismo, denunciando la “macelleria messicana” (la definizione è di Ferruccio Parri, comandante partigiano “Maurizio”, lo si sappia) proprio di piazzale Loreto. La ragazza Franca si recò a osservare i cadaveri di Mussolini, Petacci, Pavolini, Starace e degli altri gerarchi legati a testa in giù alla pensilina di un distributore “Esso” all’angolo con corso Buenos Aires: «Mia mamma era disperata a sapermi in giro da sola. In quei giorni a Milano si sparava ancora per strada. Ma io volevo vedere se il duce era davvero morto. E vuol sapere se ho provato pietà? No. Nessuna pietà. Ora è comodo giudicare a distanza. Bisogna averle vissute, le cose. E noi avevamo sofferto troppo». Così dicendo, Alma Franca Maria Norsa, alias Franca Valeri, nata a Milano da una famiglia ebraica dell’ottima borghesia lombarda il 31 luglio 1920 rende implicitamente omaggio ai rimossi 15 partigiani martiri trucidati il 10 agosto 1944, proprio nel medesimo luogo, dai fascisti della Legione “Muti”, i loro cadaveri restarono esposti agli sguardi dei passanti per un giorno intero. «Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo a caro prezzo», sia detto per precisione storica, Mussolini ebbe a pronunciare. Passati gli anni del liceo classico, causa le leggi razziali, le sarà negato di accedere all’università. Dopo la guerra reciterà a Parigi e a Londra con la compagnia del Teatro dei Gobbi insieme ad Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, suo futuro marito, in seguito sarà legata al direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi, scomparso nel 1995, adotterà poi la cantante lirica Stefania Bonfadelli, e in Italia troverà la celebrità radiofonica proprio con “la Signorina Snob”, verrà poi Cesira, la manicure alla Sora Cecioni. Farina dorata del suo estro, del suo sguardo da interprete di se stessa, commediografa, scrittrice, regista di prosa e di lirica, sceneggiatrice, tra cinema, teatro, televisione e loggione. Rassicura, nel peana da “venerata maestra”, per dirla proprio con l’allievo Arbasino, che non tutti si siano uniti all’osanna, la poetessa meneghina-nibelungica Patrizia Valduga, per esempio, ha spezzato l’incanto: «Si amino pure le caricature imbarazzanti di Franca Valeri, si pensi pure che siano grandi, magari lo sono nel loro genere, ma ricordiamoci che il loro genere è piccolo». Sia salva la laicità, fuori d’ogni retorica “in articulo mortis”. Un nostro amico, Alessandro Busiri Vici, avido di cinema per dettato familiare, in rete, ha invece voluto ricordarla evocandone il ritorno da ogni possibile Ade: «La mia Elvira non c’è più…». Ciò che pronuncia il “vedovo” Alberto Sordi sapendola, sperandola deceduta in un disastro aereo nel film che ha reso un culto perfino il suo cappellino a bombetta, così con tono di strazio studiatamente affranto. Quel Sordi cui, così è stato precisato, lei, così minuta, aveva saputo tenere testa, assai più di una comprimaria del “cretinetti” che aveva già incontrato da contessa polacca Eva Bolasky, cioè Lady Eva, suggeritrice di soluzioni amorose in “Piccola posta” di Steno. Anche questo un oblò al quale accostarsi per intuirne il talento, la meccanica comica celeste, la perdita.
Cara Valduga, su Franca Valeri ti sbagli! Filippo La Porta su Il Riformista il 23 Agosto 2020. Vale la pena fare qualche considerazione sul commento (polemico e, come si dice, fuori dal coro) di Patrizia Valduga a proposito di Franca Valeri, il giorno dopo la sua morte. Lo riassumo velocemente: «Franca Valeri e Alberto Sordi sono stati grandi, nel loro genere, ma il genere è piccolo». Quasi un aforisma, scandito con icastica perfezione, e non del tutto privo di fondamento. Però – attenzione! – potrebbe legittimamente essere usato contro chiunque, con fini svalutativi. Prendiamo proprio la Valduga: certamente è grande – per me una delle maggiori voci poetiche di oggi – ma all’interno di un “genere” (la poesia italiana contemporanea) che fatalmente resta piccolo. E anzi, per giocare un po’, si potrebbe spingere all’estremo lo stesso ragionamento, e approdare a un relativismo assoluto, per certi aspetti paradossale. De Gasperi e Togliatti sono stati “grandi”? Certo, chi potrebbe affermare il contrario, ma all’interno di un “genere” (la Storia stessa) che ad esempio per Simone Weil (e in parte per Manzoni: nella Storia non si può che “far torto o patirlo”) era da considerarsi piccolo, rispetto a un agire caritatevole personale e rispetto alla vita segreta delle anime. Torniamo a Sordi e Valeri, tra i quali occorre pur fare una distinzione. Per limitarci al cinema (dunque tralasciando la drammaturgia, le regie di prosa e di opera, i soggetti e le riduzioni della Valeri) Alberto Sordi è stato indubitabilmente più grande, sia dal punto di vista della qualità dei film che ha interpretato e sia come impatto sull’immaginario collettivo (di fronte al suo personaggio di arcitaliano in versione romanesca i “caratteri” portati in scena dalla Valeri restano confinati in un ambito ristretto, quasi solo televisivo). Però la sua comicità – straripante, irresistibile (personalmente lui e Totò mi fanno ridere più di qualsiasi altro!) – ha un grave limite, su cui una volta si soffermò Pasolini. È noto che Sordi non ha mai fatto ridere al di fuori dei confini nazionali. Attore immenso, non è stato però un comico universale. E anzi risulta intraducibile. Per quale ragione? Secondo Pasolini il suo infantilismo non produce mai bontà e candore, mentre tutti i grandi comici, da Chaplin e Keaton a Tati (potrei aggiungere Jerry Lewis), hanno mantenuto una relazione con questa dimensione della bontà legata all’infanzia: sono bambini, magari allampanati, ma bambini, disadattati e in urto con la società (con il suo “tacito galateo di ipocrisie”). In essi c’è una “profonda rivolta morale”, legata alla bontà e all’ingenuità dell’infanzia. In fondo anche la “cattiveria” di Groucho Marx ha bisogno, simmetricamente, della “bontà” di Harpo. Perciò sono universali: hanno fatto ridere tutto il mondo perché sono buoni. Non così Sordi, che ci fa ridere, a noi italiani, perché – cito sempre Pasolini – conosciamo il nostro pollo, «ridiamo vergognandoci di aver riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo». In questo senso si potrebbe concludere che il suo “genere” – quel tipo di commedia cinematografica all’italiana specchio fin troppo divertito e spesso complice dei vizi nazionali – è piccolo, letteralmente provinciale. Non così la Valeri, che pure, come ho detto, non ha fissato dei “caratteri” entrati così a fondo e prepotentemente nel senso comune dei nostri connazionali. Ho l’impressione che le sue maschere – Signorina Snob (che andando all’Opera raccomanda all’amica di vestire scuro, anche “nei gioielli”), Cesira la Manicure (che diffida dei meridionali), Sora Cecioni (che riduce il mondo alle sue chiacchiere con mammà) – lungi dall’essere mere caricature ci offrano il ritratto dell’eterna piccola borghesia italiana, ipocrita e velleitaria, gozzaniana e perbenista, solo nella sua versione moderna, e direi appena un attimo prima di incarognirsi sul serio. Le sue sono profezie del costume, come sottolinea in Franca. Un’incompresa di successo (Sem) Patrizia Zappa Mulas, di prossima uscita. Si possono leggere come una critica beffarda, di assoluta precisione antropologica, alla classe media squillante e incolta, cinica e sentimentale, sbracata e smaniosa di “distinguersi” (e di fingere di accedere a qualche salotto Verdurin), che venne alla ribalta negli anni della modernizzazione. La differenza con i personaggi di Sordi? La perfidia e accuratezza ritrattistica è uguale, però qui non c’è mai autocompiacimento, richiesta più o meno tacita di complicità. Inoltre: sentiamo anche un alone di pietas, la presenza di una qualche cechoviana comprensione non tanto per i vizi stigmatizzati quanto per la loro umanissima radice. In questo senso il suo genere non è per niente piccolo, poiché viene niente meno che da Molière e dal genio comico italiano della commedia.
Gloria Satta per "Il Messaggero" il 10 agosto 2020. «Ironia, cultura, talento, carisma: Franca Valeri è stata un'artista straordinaria, ma il cinema non le ha reso giustizia», dice Carlo Verdone, che conosceva e frequentava la grande attrice scomparsa ieri a 100 anni.
È stata sottovalutata dal cinema?
«Avrebbe meritato una carriera molto più importante, invece veniva considerata una caratterista sia pure di altissimo livello. Ma non era solo la moglie di Cretinetti: al di là della geniale alchimia che aveva creato con Alberto Sordi poteva fare anche altro. In Francia o in America sarebbe stata una superstar. Il teatro per fortuna l'ha risarcita, esaltando a 360 gradi il suo talento».
Quando conobbe Franca Valeri?
«Nel 1980, quando venne a vedermi al Piccolo Eliseo con il marito Vittorio Caprioli. Io rappresentavo Senti chi parla e in platea, alla prima, c'era tutto lo spettacolo italiano: Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Franco Zeffirelli, le gemelle Kessler, Pippo Baudo, Sara Ferrati. Ero nervosissimo, ma il giudizio che temevo di più era quello della coppia Valeri-Caprioli».
E quale fu?
«Alla fine dello spettacolo vennero in camerino e si trattennero a lungo, facendomi molti complimenti. Lei mi disse: Verdone, farà molta strada. In seguito la vedevo al ristorante Settimio e rimanevo per ore ipnotizzato a parlare con lei. Era una donna coltissima, intelligente, una gran signora. E ha saputo affermarsi come attrice comica nello spettacolo italiano maschile e maschilista».
Ha dato qualche insegnamento a un protagonista della commedia come lei?«Mi ha fatto capire che il talento è innato, ma bisogna coltivarlo. E lei lo faceva frequentando la vita, osservando le persone. La sora Cecioni, la signorina Snob, la manicure Cesira erano tipi che lei aveva conosciuto, studiato, perdinato. È un po' il lavoro che da 40 anni cerco di fare anch' io per creare i miei personaggi».
Cos' altro apprezzava di lei?
«La sua lucidità, durata fino alla fine, il suo orgoglio di provenire da una famiglia ebraica, il suo talento di regista lirica e di scrittrice. Non ricordo nemmeno a quante amiche ho regalato la sua autobiografia Bugiarda no, reticente».
Perché?
«È un testo geniale, divertente e profondo, che dovrebbero leggere tutte le donne».
Masolino D'Amico per "La Stampa" il 10 agosto 2020. Che cosa si può scrivere su Franca Valeri? Tanto per cominciare, è difficile parlare di lei come di qualcuno che «è stato». A cento anni sembrerebbe legittimo essere sopravvissuti a se stessi, ma questo caso è diverso. Nessuno ha mai considerato Franca Valeri come una pensionata che ha esaurito gli argomenti e quindi se ne sta serenamente in disparte. Oddio, non sgomitava certo - non lo aveva mai fatto nemmeno quando era al massimo dell'auge - ma chi la cercava non tornava a casa a mani vuote. Anche negli ultimissimi tempi, quando il Parkinson le rendeva difficile farsi capire, soprattutto al telefono, le frasi che pronunciava con fatica erano sempre, nella loro essenzialità, fulminanti; basterebbe recuperare il discorsetto che fece non più di due estati fa alla Casa del Cinema di Roma, in occasione di una serata a lei dedicata. Così, anche se le sue manifestazioni erano diventate rare, non c'è bisogno di descriverla troppo a coloro che tanto giovani non sono. Regine della moderna comicità femminile - Marchesini, Guzzanti, Littizzetto, Cortellesi... - le hanno dato atto della strada da lei loro aperta ormai tantissimi anni fa. E a qualcuno avranno fatto effetto le dimensioni dell'accoglienza che le riservò un Festival di Sanremo ancora nel 2014. Agli imberbi, a coloro che non l'hanno vista proprio mai, suggerirei di cominciare con due film in bianco e nero degli Anni 50, entrambi diretti dal suo concittadino Dino Risi, in cui la Franca interpreta due personaggi diametralmente opposti, una perdente e una vincente. La vincente è la prepotente imprenditrice milanese che infierisce sull'infingardo marito romano, un Alberto Sordi al suo più caratteristico (Il vedovo, 1959: capolavoro della commedia all'italiana). La perdente è la sorella bruttina di Sophia Loren ne Il segno di Venere (1955). Si tratta di una zitella che vive di illusioni, e si ride di lei, ma il sottofondo è amaro. Donnine così, decise a ignorare una società che calpesta i loro sogni, sono descritte in chiave drammatica da un Tennessee Williams. Ma anche nell'arte di Franca Valeri c'è una nota di disperazione, sempre camuffata sotto l'ironia. Fu come attrice tragica, dopotutto, che si era proposta quando tentò di entrare, invano, all'Accademia di arte drammatica. Come ognun sa, quella delusione, unita a qualche prima esperienza sul palco, la stimolò a trovare la sua vocazione nell'umorismo, fondando coi complici Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci (poi sostituito da Luciano Salce) e col regista Luciano Mondolfo i cosiddetti Gobbi, specializzati in sketch da camera, senza scene e senza costumi, da recitarsi in piccoli teatri. Erano irresistibilmente spiritosi e furono subito esportati e ammirati a Parigi dove si stavano imponendo, anch' essi in locali da pochi posti, i rivoluzionatori della scena Beckett e Ionesco. Naturalmente nell'adottare il tono faceto i nostri si adeguavano allo stato d'animo prevalente nella miglior parte dello spettacolo italiano affrancato dalla retorica del ventennio. Lo stesso neorealismo cinematografico durò solo a costo di trasformarsi nella surricordata commedia all'italiana, dove si scherza su situazioni molto serie. Anche la Franca, come tutta la nazione, era uscita da un periodo tutt' altro che lieto. La sua famiglia, di origini e tradizioni ebraiche, era stata duramente colpita dalle leggi razziali; molti componenti si erano rifugiati all'estero, lei stessa aveva dovuto girare con documenti falsi. In seguito dichiarò di non aver provato nessuna pietà per il Duce quando lo vide morto a Piazzale Loreto. Nel suo adottare la comicità non vi fu mai peraltro un abbandono alla buffoneria. I suoi impagabili ritratti di femmine ridicole - la signorina snob che tanto piacque alla radio, la pigra signora Cecioni sempre al telefono con mammà - non erano satira, ma realtà osservata e riprodotta col sorriso, con un'indulgenza che veniva dal profondo. Tout comprendere c'est tout pardonner. La Franca osservava le sue creature, e le capiva; faceva ridere di loro, ma un po' come si ride di noi stessi. Non condannava. Del resto, la dimostrazione della sua serietà di fondo è nell'amore sviscerato che coltivò per l'opera lirica, cui per un decennio dedicò la miglior parte delle sue energie, proteggendo e allevando cantanti e anche dirigendo allestimenti. E l'opera lirica come si sa è l'opposto dell'ironia. Qui non ci sono sfumature, ma passioni - odio, amore, gelosia, vendetta. È il regno dell'assoluto, è il mondo ideale senza compromessi. A questo punto bisognerebbe tracciare un bilancio dell'attività della nostra, ma ci vorrebbe un'enciclopedia. Dell'attrice, nella sua gamma ristretta grandissima, si è detto qualcosa. Cominciò in teatro con piccole invenzioni, incoraggiando il cinema a utilizzarla prima in parti di contorno, sopra le righe (la coreografa ungherese di Luci del varietà di Fellini e Lattuada), quindi in personaggi di spessore, specie quando dimostrò di poter tener testa perfino al mostro Alberto Sordi. Ancora al cinema, prima di essere costretta dall'età a caratterizzazioni marginali, fu coautrice e interprete di tre notevoli, originali pellicole di suo marito Caprioli. Il teatro lo frequentò per tutta la vita, e non solo in testi scritti da lei stessa, tra cui commedie musicali al tempo del sodalizio con Caprioli. Dopo la radio, la tv le diede la popolarità, senza minimamente chiederle di snaturare il suo appello all'intelligenza degli spettatori - specie nei varietà con regie di Antonello Falqui, quasi ininterrottamente dal 1956 all'84; nel 1993 vi fu un ritorno, in Magazine 3. Per i suoi libri, dove si ammirano la sua precisione ed economia, non rimane più spazio. Leggeteli tutti, magari cominciando con la sintetica autobiografia Bugiarda no, reticente (2010).
Masolino D'Amico per "La Stampa" il 10 agosto 2020. Una volta domandai a Mario Monicelli quali fossero, degli attori che aveva diretto, i più bravi. Senza riflettere, rispose subito, Vittorio Gassman e Franca Valeri. Poi precisò, «ovviamente stiamo parlando di bravura tecnica. Quei due potevano fare qualunque cosa gli si chiedesse, a volte mi divertivo a inventare un percorso complicato, solo per vedere come se la cavavano». La cosa mi è rimasta impressa perché non mi ero mai reso conto che la Franca fosse «anche», nel mestiere di attore, bravissima. L’immagine di lei è piuttosto quella di una attrice-scrittrice, creatrice di personaggi - una osservatrice diabolicamente penetrante e spiritosa nel cogliere debolezze, prosopopee, ipocrisie degli italiani, o meglio delle italiane, borghesi ma anche popolane, degli anni in bianco e nero. Quasi un pendant femminile, radiofonico, teatrale, poi televisivo, di Alberto Sordi, rivelazione del periodo; e non per nulla nei vecchi meravigliosi film che non ci stanchiamo di recuperare (un titolo per tutti, Il vedovo di Dino Risi) lei è tra i pochissimi in grado di tenere testa a quell’incontenibile genio. Come dissero di Ginger Rogers? Faceva tutto quello che faceva Fred Astaire, ma camminando all’indietro e coi tacchi alti. In quel cinema Franca Valeri correva con l’handicap di non esservi prevista, solo le cosiddette maggiorate erano delle star. Bisognava scrivere parti apposta per lei. Chi lo fece non se ne pentì. Penso al cinema perché è lì, e nelle teche dove si conservano tante mirabili apparizioni in tv, che la Franca continuerà a deliziare chi se la ricorda, nonché a incantare le nuove generazioni. Il suo teatro sopravvive in maniera diversa, meno vistosa, anche se nel teatro il suo talento si rivelò agli inizi insieme a quello dei complici, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci poi rimpiazzato da Luciano Salce: i cosiddetti Gobbi, che nel 1950 si esibirono a lungo addirittura a Parigi, al tempo delle piccole sale alternative che accanto a loro rivelarono Beckett e Ionesco. Erano specializzati in brevi sketches senza costumi di scena, spesso parodie (La baia al nonno, sui riboboli toscani; o la lezione su come interpretare un testo russo, facendo capire al pubblico che fa un gran freddo). Li vidi allora, quando li ripresero nei primi Anni 50. Li ricordavo irresistibilmente divertenti e tali sono rimasti, qualche loro registrazione si vide di recente nella mostra che commemorava Salce. La chimica di quel terzetto era notevole, specie tra la Franca, milanese e intellettuale, e Caprioli, napoletano e istintivo; qualcosa ne sopravvive anche nelle pellicole - Leoni al sole, Parigi o cara - dirette da Caprioli . Seguono molti episodi, anche un musical, Lina e il cavaliere, musiche di Fiorenzo Carpi (potrei cantarne ancora qualche motivo). Poi i grandi successi con le sue macchiette in una tv che diventava un po’ più spregiudicata; tornò a recitare in teatro in propri testi; scrisse libri sempre brevi e arguti (mai annoiare! è un principio che pochi esibizionisti per mestiere coltivano); firmò anche parecchie regie di opera. Di lavorare non ha smesso mai. Ogni volta che apre bocca è perché ha qualcosa da dire, e lo stile per dirlo: con quella ironia che rimane il principale strumento di salvezza del secolo che la Franca ha percorso, e di cui, senza mai ignorarne la tragicità, ci aiuta a sorridere.
È morta Franca Valeri, aveva compiuto 100 anni pochi giorni fa. L'attrice si è spenta nella sua casa di Roma. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2020. È morta Franca Valeri. L’attrice, nata a Milano nel 1920, aveva appena compiuto 100 anni il 31 luglio. Si è spenta questa mattina nella sua casa di Roma intorno alle 7.40, circondata dall’affetto della famiglia. «Ogni volta che mi illudo d’incontrare quel signore che ritengo sia il teatro, mi rendo conto di vivere la più bella illusione della mia vita», ha sempre dichiarato Franca Valeri ed in questa illusione, in questo incontro è stato il segreto della sua vitalità e della sua longevità, senza mai perdere il contatto col mondo e le sue trasformazioni. L’attrice è morta oggi a Roma, circondata dall’affetto della famiglia, a pochi giorni dal centesimo compleanno, il 31 luglio. Era nata a nel 1920 a Milano, di buona famiglia di origine ebraica. Facile dire, di un’artista che ha interpretato da subito dopo la guerra i vizi, i mutamenti, le debolezze di una società in grande trasformazione e poi decadenza, ricordando che questa signora, colta, ironica, di gusto, è stata la prima vera voce femminile autonoma della scena italiana, sin dal suo debutto nel 1948. In «Bugiarda no, reticente» poco prima dei 90 anni, aveva scritto «La nostra generazione era preparata. La preparazione non è solo forza fisica, ed è indubbio che noi siamo più robusti dei giovani, l’esercizio è soprattutto di genere morale». Allora ancora saliva in scena e stava per debuttare con una nuova commedia, «Non tutto risolto», mentre si batteva pubblicamente e riusciva a far cancellare il progetto di una discarica vicino a Villa Adriana. E mentre tutti la ricordavano ancora come la Signorina Snob o la Sora Cecioni, figure divenute icone popolari di strepitoso successo e di cui a lungo si è sentita prigioniera, amava sottolineare come a un certo punto avessero «riconosciuto Franca Valeri come scrittrice e autrice di vari libri e commedie» e non più solo come attrice comica tv, tra l’altro tradita sulle sue origini culturali dal proprio nome d’arte, derivato dal raffinato poeta francese Paul Valery, «perché mio padre non voleva facessi teatro», al posto dell’originale Franca Maria Norsa. E infatti la sua grandezza è stata proprio nella raffinatezza del suo umorismo, come della sua satira, capace di sedurre gli intellettuali e assieme di conquistare il pubblico pi popolare, in un percorso che nasce nel dopoguerra e dal suo sodalizio con Vittorio Caprioli (poi diventato suo marito) e Valerio Bonucci con cui diede vita nel 1951 ai «Gobbi», creatori di una rivista da camera intitolata «Carnet des notes», un nuovo modo di fare cabaret con mordente satira della società italiana, che fu lanciata anche dal travolgente successo ottenuto a Parigi. La sua carriera si divide agli inizi, prima che arrivi l'impegno con la musica e la lirica, tra teatro e cinema, che la rende nota con i vari film di Caprioli (da 'Leoni al solè a 'Parigi o carà) e in particolare con 'Il segno di Venerè del 1955 di Dino Risi, in cui sfoggia tutta la sua grinta teatrale, duettando con l’antagonista Sordi e senza farsi mettere in ombra da Sophia Loren. Ma a farle guadagnare un posto nell’antologia dei caratteristi italiani è la straordinaria prova al fianco sempre di Sordi ne 'Il vedovò (1959) come poi «Crimen' di Camerini nel 1960, anno in cui in teatro l Piccolo nella 'Maria Brascà di Testori, e via via sarà anche in spettacoli d’autore come 'Fior di pisellò di Bourdet, diretto da Giuseppe Patroni Griffi, e 'Gin Gamè di Coburn con Paolo Stoppa. Presso il grande pubblico comunque lei resta legata ai suoi personaggi femminili, maschere se si vuole ma non macchiette e dotate di una loro sincera umanità. La popolarità arriva con la radio e poi la tv dove divenne una delle attrazioni dei varietà firmati da Antonello Falqui. E’ l’epoca della romana Sora Cecioni, pigra e di cattivo gusto nella sua irruenza, lanciata da Studio Uno e diventata un piccolo classico, assieme alla più sofisticata e milanese Signorina Snob, che per la sua creatrice ''non era la figurina di uno sketch, ma qualcosa di vero e vissuto in cui traspare anche la tragedia dello snob, quella di non riuscire a adeguarsi alla realtà che lo circonda». In tv, più avanti, prenderà anche parte ad alcune fiction, dalla sit-com con Bramieri 'Norma e Felicè sino ancora nel 2000, ottantenne, accanto a Nino Manfredi in "Linda, il brigadiere e..." su Rai1. Il suo sguardo ironico di interprete e testimone partecipe dei cambiamenti della società italiana nella seconda metà del secolo scorso troverà un momento alto di espressione quando, dopo un esordio nel 1961 con «Le catacombe», pochade che inverte i ruoli e rende sciocco e vanesio protagonista un uomo, negli anni '70 comincia a scrivere e interpretare commedie proprie cui tiene moltissimo, da "Lina e il cavaliere" a "Meno storie" o 'Tosca e altre duè (divenuta anche film nel 2003) e 'La vedova Socratè sino a «Non tutto risolto» del 2011 e «Il cambio dei cavalli» del 2014 sulle illusioni e ambiguità della vita indagando il rapporto e il passaggio tra generazioni, che la vedono in scena sino a 94 anni a Spoleto col partner sodale Urbano Barberini e il regista Giuseppe Marini, per il quale ha preso parte alle impegnative 'Servè di Genet con la Guarneri nel 2007, nonostante la lotta col male, il morbo di Parkinson, che già la affliggeva. Nel frattempo, con la solita vitalità e curiosità, aveva iniziato seriamente a darsi alla musica appoggiata dal suo nuovo compagno, il musicista Maurizio Rinaldi, sia come regista lirica, sia dando vita al concorso "Battistini" per giovani cantanti. Del resto ricordava sempre che la mamma le aveva insegnato a non festeggiare i compleanni e a guardare invece sempre avanti, per lei sempre con la voglia e la nostalgia del palcoscenico: ''Oggi sto qui a casa e non nella mia casa naturale, il teatro. Non recito più e non capisco quasi nemmeno il perché. Vorrei ancora ripagare l’affetto della gente continuando a lavorare», aveva detto non molto tempo fa, rifiutando di autocelebrarsi, davanti al pubblico o in un’intervista, con la sua eterna ottica autoironica.
Franca Valeri, un monumento: addio all’attrice che aveva appena compiuto 100 anni. Il primo successo alla radio. Con «Zig-Zag» nel ‘49. Il nome? Era ispirato al poeta Paul Valery. Applaudita a Bari al Piccinni, all’Abeliano e al Royal. Pasquale Bellini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2020. E diciamo addio ad un monumento del teatro e della cultura nazionale. Un monumento eretto sul piedistallo di un’ intelligenza sopraffina e di un talento immenso. Da vera signorina snob, Franca Valeri se n'è andata nel bel mezzo degli omaggi per i suoi 100 anni. Un'uscita di scena, per la grande milanese «nata bene», venuta al mondo il 31 luglio del 1920, col vero cognome Norsa, figlia di un ingegnere e industriale di famiglia ebraica. C’ è chi ha collegato il suo umorismo di attrice (e autrice quasi sempre dei testi) proprio a questa radice ebraica, quasi una Woody Allen italiana. Le leggi razziali del ‘38 interferirono con vacanze e soggiorni fra Riccione, Venezia, la Svizzera, ma non le impedirono di iscriversi alla Facoltà di Lettere e di frequentare i teatri milanesi (in primis la Scala) nonché i salotti e gli intellettuali meneghini del tempo. Già dal ‘42 attrice dilettante universitaria, nel ‘48 recita in Caterina di Dio, di Giovanni Testori, per approdare all’ appena fondato Piccolo Teatro nel ‘49 in Questa sera si recita a soggetto di Pirandello e in La parigina di Becque, regia di Strelher. Ma il vero successo è con la radio: nelle trasmissioni Zig-Zag del ‘49 poi Rosso e Nero del ‘51 e ‘52 (ai microfoni con Mario Carotenuto e Corrado) la Valeri lancia il personaggio immortale della Signorina Snob. Intanto assume il nome d’arte Valeri, dal poeta francese Paul Valery. Sul palcoscenico del Piccolo conosce Vittorio Caprioli: resteranno insieme più di vent’ anni, sposandosi anche (nel 1960), poi separandosi, ma non sul piano artistico, tanti sono gli spettacoli e i film cui questi grandi e intelligentissimi attori hanno dato vita insieme. A cominciare dalla mitica formazione dei Gobbi (insieme alla Valeri e Caprioli anche Alberto Bonucci) che nel ‘51 e ‘52 con Carnet de notes n.1 e Carnet de notes n.2 dà inizio alla stagione del cabaret o teatro da camera italiano. Il Carnet n. 2 fu anche a Bari, al Piccinni, nel 1954. Spettacoli-cabaret che hanno successo addirittura a Parigi, in un teatrino sulla rive gauche! Fra i tanti personaggi della Franca, oltre alla Snob, memorabili restano quelli romaneschi della Sora Cecioni e della sua antagonista Sora Cesira: in radio, poi in Tv, quindi a teatro la Valeri ha dato spazio alla sua vena caustica e un po’ velenosa, da vera Snob della scena italiana. Chi poi non ricorda i suo personaggi cinematografici? Presente in Luci del varietà di Fellini-Lattuada (1950) e in Totò a colori (1952) la Valeri resta indimenticabile nel Segno di Venere del ‘55 (regia di Dino Risi) dove è la cugina bruttina di Sofia Loren accanto ad Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Peppino De Filippo. Altro exploit ne Il vedovo del 1959, con Sordi. In Parigi o cara (1962) è protagonista, diretta dal marito Caprioli. Franca Valeri e l’ opera lirica: più che una passione. Suo compagno fu, dopo Caprioli, il direttore d’ orchestra Maurizio Rinaldi, morto nel ‘95. Testimoniano tale amore per il melodramma le numerose regie liriche, anche un testo brillante Tosca e le altre due che interpreterà insieme ad Adriana Asti nel 1986, lo stesso anno in cui dirige altre due «mostre» quali Rossella Falk e Monica Vitti in una Strana coppia al femminile, da Neil Simon: spettacolo che passò anche a Bari, al Petruzzelli. Valeri nei teatri pugliesi. Ricordo che nel 1999 fu all’ Abeliano di Bari in Alcool, una commedia della Asti, nel 2003 la si è vista (circuito regionale) ne Il possesso di Abraham Yeoshua, poi al Piccinni di Bari nel 2007 ne Les Bonnes di Genet, infine nel 2013, sempre a Bari sul palco del Royal in Non tutto è risolto una sua commedia, accanto a Licia Maglietta e Urbano Barberini. In quest’ ultima occasione barese ricordo qualche suo impaccio dovuto al Parkinson, morbo che l’ ha colpita negli ultimi anni. Ma che non l’ ha fatta demordere dal teatro e dalla scena, visto che ancora nel 2014 si è esibita, a Roma al Teatro Valle, in La vedova Socrate, sua versione «brillante» da La morte di Socrate di Durrenmatt. Chi beve teatro (al gusto frizzante di musica, cultura e sense of humor) campa cent’ anni! E Franca resta eterna.
Malcom Pagani per il Messaggero il 9 agosto 2020. Un qualsiasi risveglio di primavera, a un passo dai 97 anni: «Appena apro gli occhi mi dico oddio, dove sono i miei amici?, poi capisco dove mi trovo e partecipo di nuovo al gioco della vita». Da qualche mese, Franca Valeri combatte nuovamente per la propria libertà come quando era ragazza e a Milano, le bombe cadevano dal cielo: «Sono inciampata in casa e precipitando su uno spigolo, mi sono rotta 6 costole. Ora mi sento bene, ma vivo con rabbia il dramma di non camminare: star fermi è una tale noia». Tra fisioterapisti in camice azzurro, elettrodi e gatti che passeggiano sul tavolo, la grande randagia del teatro italiano guarda il mondo dalle sbarre della sua finestra: «Quelle vere e quelle metaforiche le ho sempre superate con l' ironia. Saper ridere è stato importante, mi ha permesso di vedere il bello anche nel brutto e ribaltare la realtà in un amen. Il mondo in cui sono diventata adulta era un luogo senza barriere. Uscivamo dalla guerra, ci riunivamo con una sorta di febbre addosso: Ho un copione, ti va di leggerlo? e d' incanto da due diventavamo tre, cinque, una compagnia. Oggi non succede più e per i giovani che non conoscono la vera amicizia e forse non la conosceranno mai deve essere terribile. Come abbia potuto prevalere l' estraneità verso gli altri non si sa, però è accaduto. La gente ormai più che a vivere è incline a sopravvivere, ma per salvarsi è necessario un grande sforzo di coraggio e fantasia. Ieri respiravi solidarietà, oggi nella consapevolezza che ad aiutarti non verrà nessuno, dipende solo da te».
Chi la aiutava da ragazza?
«Molte persone hanno contato tanto. Se ci ripenso mi pare di averle qui davanti».
Chi le viene in mente?
«I miei genitori. Gente favolosa. Sono stati importantissimi».
Perché?
«Mi hanno dato un' educazione, mi hanno fatto conoscere le cose, anche a mio padre -che pure era un industriale molto occupato- il tempo per stare con me non mancava».
Giocavate insieme?
«Per giocare, giocavamo poco. Parlavamo. Lui mi leggeva Salgari e mi raccontava del Corsaro Nero, io andavo verso altre oscurità. Divoravo favole tremende che in violazione del precetto promettevano punizioni atroci. In Pierino Porcospino di Hoffmann, disubbidendo agli ordini materni, ai bambini succedono cose terribili. Nella prima filastrocca, Paolinetta viene lasciata sola dalla mamma che si raccomanda di non accendere i fiammiferi, pena il rischio di mandare tutto a fuoco».
E come finisce la filastrocca?
«In maniera drammatica, come tutta la letteratura per bambini che non è triste, ma tragica. Paolinetta accende gli zolfanelli e arde con tende e mobilio. Ahimè! la fiamma la bimba investe/Ardon le trecce, arde la veste/ Corre la misera di loco in loco/ Non c' è più scampo, è tutta in foco».
Lei ha buona memoria.
«Sono giovane, cosa crede? Pensi a Dorfles. Ha appena compiuto 107 anni e ragiona ancora benissimo. L' ho conosciuto che ero una ragazzina e Gillo era già adulto».
Da giovane aveva idee chiare?
«Ho sempre saputo che volevo stare in teatro e che sarei finità lì, in pedana, a guardare le ombre tra le luci soffuse. Ero attratta dalle letture, dalla ripetizione dei testi, dalla recitazione. Ero sicura del mio avvenire».
Il teatro è una vocazione?
«Indubbiamente. Una volta che sei rapito dal meccanismo è difficile desiderare di fare un altro mestiere. Il teatro elimina dall' orizzonte qualsiasi altro orizzonte».
Memorie degli inizi?
«La bocciatura in Accademia. I miei compagni già ammessi al corso erano turbati, io invece ero così contenta. Oddio che gioia- pensavo- non sarò costretta a essere prigioniera, a farmi insegnare il mestiere da questi signori».
Lei per l' autonomia ha avuto un debole.
`«In Emilia, con Vittorio Caprioli, mio marito, ricevetti una telefonata di Paolo Grassi che ci offriva un ingaggio. Vittorio titubava, accampava scuse, temporeggiava. Gli strappai la cornetta dalle mani: Paolo, Vittorio si permette il lusso del dubbio, io no. Domani ti raggiungo e arrivo da sola».
La sua esigenza di libertà era figlia di un Ventennio difficile?
«Anche durante il conflitto che fu terribile, non ho mai smarrito l' ottimismo. Volevo che l' Italia perdesse la Guerra, ne ero sicura e così è andata».
Di Mussolini cosa pensava?
«Che sarebbe finito male. Lui e il suo amico tedesco con i baffi. L'avevo incontrato da giovane, il Duce, su una spiaggia della riviera romagnola. Remava in uno specchio d' acqua per una di quelle ridicole dimostrazioni di virilità a uso e consumo del popolo a cui ci aveva abituati. Andai a vederlo poi un' ultima volta a Piazzale Loreto. Davanti a tutto il male che aveva provocato, l' unica consolazione era sapere che se ne sarebbe andato nel peggiore dei modi».
La calca, le mosche, lo scempio dei cadaveri nel caos della Liberazione. Quella giustizia sommaria non era barbarie?
«La Guerra elimina la pietà. In Guerra vale solo la legge del taglione. Capisco che ad ascoltare certi discorsi si possa restare sconvolti, ma è disonesto affrontare la Storia retrospettivamente. Certe cose per giudicarle devi viverle e noi nella speranza di liberarci, durante il Fascismo, avevamo subìto molte nefandezze».
A 96 anni cosa può dirmi del carattere degli italiani?
«Che è un mistero. Come reagiranno inglesi o tedeschi, a spanne, puoi prevederlo. Con gli italiani no. C' è sempre un sapore di inattendibilità negli italiani».
Il regista più importante nella sua formazione?
«Strehler. Non sembrava che avrebbe ogni volta toccato il punto giusto e però, poi, magicamente lo toccava. Paradossalmente gli attori dubitavano di lui: da un lato riconoscevano la sua capacità di mettere in scena spettacoli bellissimi, dall' altro non ci credevano fino in fondo. E sì che Giorgio era il migliore».
Migliore di Visconti?
«Come regista sì. Visconti era un fenomeno. Dispiegava il suo mondo meraviglioso, sempre uguale e immutabile, ma Strehler riproduceva la realtà con una vivezza di dettagli francamente stupefacente e i suoi spettacoli avevano qualcosa di più».
Visconti era perfido?
«Con me era squisito, ma in assoluto era un uomo difficile e perfido, con chi non considerava al suo livello intellettuale, sapeva essere. Renato Salvatori vide due borse con le iniziali Louis Vuitton a casa sua e si lanciò: Ahò, Luchì, te sei comprato le borse personalizzate?. Visconti lo raccontò a tutta Roma, con toni di scherno, niente affatto indulgenti.
Mentre preparava Ballo in maschera poi, lo vidi tormentare un bambino siciliano solo perché si divertiva ad ascoltarlo storpiare la parola rosa.
Quello non riusciva a pronunciarla bene, arrotava la erre e Luchino ne godeva fino alle lacrime. Gliela fece ripetere 15 volte, la creatura era atterrita, totalmente ignara di essere lo zimbello momentaneo del regista di grido».
Pasolini era l' antiVisconti?
«Non direi, a meno di non volerli affiancare perché entrambi vestivano la loro identità sessuale di grazia e verità o perché erano tormentati. Pier Paolo però, così a disagio in un certo microcosmo, a me faceva simpatia».
L' omosessualità era un tema dibattuto?
«Nessuno dei due aveva il problema di celare la propria inclinazione e infatti non la celavano. Vedevamo andare a venire i loro eletti a seconda della stagioni. Una sera, uno dei favoriti di Luchino, Helmut Berger, me lo ritrovai a dormire in casa. Aveva un modo di fare preoccupante, una profonda infelicità dipinta sul volto e un po', a dire il vero, mi inquietai. È strano perché da uomini e donne con personalità sono stata sempre attratta».
E da chi altri?
«Dagli anomali, dagli spiritosi, dai cretinetti. Era pieno di deliziosi cretinetti il mio piccolo mondo antico».
Facciamo qualche nome?
«Ho adorato De Sica, come attore, come regista e come persona. Non posso negare che con lui si ridesse sempre di qualcun altro, ma insomma non si può sempre essere ieratici. Cattiverie e pettegolezzi più o meno innocenti fanno parte della quotidianità».
Altri modelli?
«Mi piaceva Tognazzi. Bravissimo, simpatico, misterioso. Lavorò in Splendori e miserie di Madame Royal, uno dei pochi e bellissimi film di Vittorio Caprioli. Lì Ugo fu sublime».
C' è una ragione per la sottovalutazione critica del lavoro di Caprioli?
«La ragione era Vittorio stesso. Non si imponeva, non esercitava nessuna forma di comando, la sola ipotesi di guidare la troupe con lo scudiscio lo atterriva. Alla gestione del potere anteponeva umorismo e intelligenza».
Vi sposaste in Liguria.
«Al confine con la Francia. Vittorio si era dimenticato di comprare l' anello. Entrò in chiesa e ne uscì di corsa per acquistare il primo che capitava. Mia madre era tra il perplesso e l' indignato: Ma il matrimonio sarà valido?».
In altre vesti, un matrimonio di fatto lei lo ebbe con Sordi.
«Viveva per fare l' attore, ma va anche detto che non aveva nessuna difficoltà a farlo bene. Il Sordi del grande schermo somigliava da vicino al vero Alberto».
Tra Moretti che diceva Ve lo meritate Alberto Sordi e Mario Monicelli che ne difendeva tratto fondante e interpretazioni, da che parte sarebbe stata?
«Anche se immagino che la domanda di Moretti se la siano fatta in molti, senz' altro dalla parte di Monicelli. Un antipatico così trincerato nella sua supposta antipatia, dall' apparirmi fin dal primo istante adorabile. I registi, come gli attori, appartengono a una genìa curiosa, a un recinto molto vario».
E dentro al recinto che varietà si incontrano?
«Uomini molto apprezzabili, gente meno apprezzabile, persone che come Steno- al quale mi legava la stessa passione che mi affratellava a Totò, quella per i cani- pensavano di essere registi mediocri senza esserlo affatto perché avevano la leggerezza di non prendersi sul serio. E poi, professionisti che a forza di sentirsi trattare come divinità, un po' divini, alla fine, finivano per considerarsi».
Un nome?
«Sicuramente Fellini. Non era solo colpa sua, ma a forza di sentirsi chiamare genio aveva finito per sentirsi tale».
Dice davvero?
«Mi dispiace dirlo, ma penso che Fellini sia stato sopravvalutato. Aveva, è vero, qualità enormi prima tra tutte la curiosità. Ma quando andammo a vedere La strada con De Feo ed Ercole Patti ci annoiammo mortalmente.
Per tacere di quello che si diceva di Giulietta Masina. Nora Ricci l' aveva vista vezzeggiarsi da ragazzina incinta a 60 anni e si era scatenata nei lazzi. Io mi chiedevo solamente: Perché Federico non le ha impedito di partecipare?.
Pensa mai alla morte?
«Provo a evitare, ma se ci proprio ci devo pensare mi dico sempre: siete certi che se ne debba parlare? Come farete senza di me?»
E cosa si risponde?
«Che è troppo presto per perdere tempo con la cosiddetta morte. E io di tempo come saprà non ne ho poi molto».
Franca Valeri, un secolo in avanti. Penna pungente e inarrivabile è riuscita a raccontare la nostra società semplicemente accostando una mano all'orecchio. Beatrice Dondi il 27 luglio 2020 su L'Espresso. Franca Valeri si nasce. E lei, modestamente lo nacque. In un secolo in cui dimostrarsi portatrici sane di acume ed eleganza non veniva visto con accondiscendenza. Eppure Franca Maria Norsa non lo ha mai fatto pesare. Una scrittura precisa come il suo taglio Vergottini, un pensiero lucido e cinico che sparpaglia con generosità, la Valeri incrocia col suo passo scandito praticamente chiunque, Zavattini, Flaiano, Fellini, Totò. Ma la strada è la sua e non ha paura di perdersi. Milanese nell’anima ancor prima che nel corpo, la signora Valeri crea i suoi personaggi scrutando il mondo che percorre con facilità, dall’alto dei suoi tacchi bassi, immersa nel suo tempo ma anche ostinatamente protesa sul domani. E capace di convivere con un’indomabile attitudine a guardare avanti. Senza dire del gargantuesco lavoro da grande schermo e da palcoscenico, il suo naturale approdo televisivo, dopo i successi radiofonici la fa entrare nelle case con un semplice gesto della mano destra. Che porta all’orecchio, mimando una cornetta del telefono. Basta quello per aprire il suo sipario, sfacciato specchio della società che le gira intorno, sempre un passo più lenta del suo stesso sguardo. Franca Valeri, gigante in un mondo piccino, non riesce a smettere di inventare, avvolta dal mantello dell’invisibilità proprio delle figure femminili dello spettacolo, che riesce a togliersi con una qualifica che appartiene a lei, e solo a lei: autrice. Franca scrive e pensa e scrive ancora, correndo lontano. Al punto che il suo nome nel lontano 1959 campeggia prima di quello del suo Vittorio Caprioli nel varietà ”Le divine”. Poca cosa in apparenza ma ieri come oggi una signora apre i titoli di testa più o meno soltanto nei lanci del tg, possibilmente nei titoli di cronaca nera. La signora Franca invece, coi suoi accenti, le sue labbra strette e i suoi monologhi con spalle fantasma dall’altro capo del filo, riesce a provocare uno squarcio mai più imitato, ma sempre evocato per un intero secolo. In televisione si mostra con parsimonia e puntualità, senza cedere di un passo alla sua arte costruita con cura, in cui l’insulto peggiore che rivolge agli astanti è «Ordinario». Dagli atti unici al varietà, dalle serie alla sit com, dal “Pronto mammà” alle piume delle vedette, dalla manicure alle pellicce dritte, giusto con una cinturina di pelo. Sempre diretta, sempre scorretta, analitica, impietosa. Come una sfilata di radiografie sociali. Perché a Franca Valeri di descrivere un mondo buono e dolciastro non è mai importato un fico secco. Meglio andare dritta al punto e raccontarci una società, la nostra, di personaggi egoisti, sciocchi, vendicativi e teneramente infelici. Senza mentire. Anzi, guardandoci tutti, per salutarci uno a uno: «Ciao cretinetti».
Franca Valeri, 100 anni di un'artista fuori dagli schemi. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Anna Bandettini su La Repubblica.it. Attrice, scrittrice, intrattenitrice, regista di teatro e di opera, ha marciato nel Novecento con ironia e indipendenza. Un secolo di vita che per lei non è un traguardo straordinario: "È un fatto di cervello". Per regalo la figlia ha curato la regia della sua commedia "La vedova Socrate" interpretata da Lella Costa: nel giorno del compleanno sarà in scena al Piccolo di Milano e poi in tournée. Servirebbe una casella postale dedicata per raccogliere gli auguri, i saluti, gli abbracci ideali, le attestazioni di stima e simpatia che tanti, tantissimi vorrebbero tributarle nel giorno di un compleanno così straordinario, quasi marziano nell'immaginazione delle persone, persino delle più anziane. Il 31 luglio Franca Valeri compie un secolo ed è la sola a non preoccuparsene. Originale come sempre. "Sa che è il suo compleanno, ma non ne parla", racconta sorridendo Stefania Bonfadelli, la figlia, il tramite di Franca con il mondo da quando non può più uscire di casa. E Stefania le ha fatto anche il regalo forse più desiderato: ha curato la regia di La vedova Socrate, una delle commedie più divertenti e conosciute della madre che aveva espresso il desiderio di rivederla in scena, affidando la parte della protagonista che era stata sua, la scatenata moglie del filosofo greco, a Lella Costa. E così è stato: lo spettacolo ha debuttato al Teatro Greco di Siracusa per la stagione dell'Inda e il 31, il giorno esatto del compleanno, sarà nel chiostro del Piccolo Teatro di Milano e poi in una lunga tournée. "Per il compleanno saremo a Roma, a casa - spiega Stefania - Una festa discreta, in famiglia. Lei non vive questi cento anni come una tappa così straordinaria. Ricorda che sua mamma è arrivata a 94 anni, suo padre se ne è andato prima, dunque è una longevità non ereditaria. È un fatto di cervello, dice". E come darle torto, ripercorrendo l'allegra intelligenza, l'audacia culturale di questa splendida artista, attrice, scrittrice, intrattenitrice, regista di teatro e di opera, che ha marciato nel Novecento con ironia e indipendenza, incarnando molte cose belle di quel secolo. Avida lettrice, fin da ragazza, di Proust, Stendhal, Valéry (da qui il suo nome d'arte, su suggerimento dell'amica, anch'essa un'intellettuale, Silvana Ottieri, visto che quello vero è Norsa, buona borghesia milanese), sfollata da Milano con la madre verso la Brianza durante la guerra, lontane dal padre, ebreo, e dal fratello costretti a fuggire in Svizzera per le leggi razziali ("Vidi Mussolini in piazzale Loreto, non mi fece pena. Da ebrea ho sofferto"), Franca Valeri esce dagli schemi molto presto, inizialmente quelli più altezzosi del teatro, poi quelli popolari del cinema e della tv. Nel dopoguerra contro il volere della famiglia comincia a scrivere delle "cose sue" e nel '42 già fa l'attrice dilettante universitaria, poi piccole parti perfino nel neonato Piccolo Teatro con gli spettacoli di Strehler. Inizia anche a fare la radio, Zig-Zag nel '49, Rosso e Nero nel '51 e '52 dove nascono i suoi primi racconti, brevi sketch di costume, sapidi, ironici e i primi abbozzi dei suoi personaggi, "le donne" della sua lunga carriera, a cominciare dalla imperitura "signorina snob", maschera di una milanese doc che ostenta distinzione e ricchezza dietro una grande infelicità, esatto pendant della "Sora Cecioni" che esordirà di lì a poco in tv, casalinga "disperata" eternamente al telefono con mammà: due figure di donne, forti e sole, rimaste scolpite nell'immaginario femminile, ancora oggi cliccatissime su YouTube. Sempre a teatro con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli (che diventerà il suo primo marito, il secondo è Maurizio Rinaldi morto nel '95) fondano il Teatro dei Gobbi, scelgono Parigi come ribalta e, nel '51 e '52 con Carnet de notes n.1 e Carnet de notes n.2 , danno vita a un genere di teatro da camera innovativo, dove Franca sviluppa le "sue donne" in sketch fulminanti, molto moderni. Ma moderna lo è sempre stata anche al cinema, dove porta di suo intelligenza e comica crudeltà, giustamente premiata col David 2020 (e il suo commento è stato "che lusso"): Luci del varietà di Fellini-Lattuada (1950), Totò a colori (1952), Il Segno di Venere di Dino Risi (1955), Il Vedovo (1959) il più famoso dei film girati con Alberto Sordi, Parigi o cara (1962) diretta dal marito Caprioli. La critica la giudica splendida e con le carte in regola anche se non è il modello di maggiorata in voga, e presto diventa un volto popolare dei varietà televisivi per tutti gli anni Sessanta, che fino al Novanta alternerà con il teatro dove si è esibita ancora intorno al 2009 sostenendo anche gli occupanti del Teatro Valle di Roma nel 2011. La sua specialità restano i personaggi femminili, le donne, "perché le conosco", ha dichiarato. Alle donne Valeri riserva uno sguardo affettuoso ma anche satira e autocritica, tanto che con lei succede quello che accade con pochi grandi scrittori: di rispecchiarci in quelle signorine ansiose, in quelle mogli sole, nelle amiche isteriche, un universo di donne coi loro peccati veniali viste sotto la sua intelligenza, impudenza, allegria. Franca Valeri è stata un fenomeno unico e il suo più vero talento, prima ancora che la recitazione, è la scrittura. E anche per questo si apprezza La Nave di Teseo/La Tartaruga che ha pubblicato all'inizio del mese Tutte le commedie in un libro che ora fa mostra orgogliosamente di sé sul comodino della camera da letto di Franca. Le catacombe, Meno storie, La cosiddetta fidanzata, La cocca rapita, Tosca e altre due, Sorelle, ma solo due, La vedova Socrate, Non tutto è risolto, Il cambio dei cavalli storie di uomini e donne con la prefazione di Lella Costa e la postfazione di Patrizia Zappa Mulas e una dedica fatta da lei che è tutto un programma: "A me stessa. A chi altri?". Il libro è un'occasione molto bella per ritrovare le sue battute, certi pensieri arditi, perfino spietati nella loro profonda, eterna verità che bisognerebbe continuare ad ascoltare in scena, sia pur con altre interpreti, perché Franca è troppo brava per finirla qui. Buon compleanno.
La sora Cecioni oggi avrebbe un blog. Roberto Marino il 2 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. A rivederla oggi, in bianco e nero, attaccata al telefono, a sproloquiare con mammà, con le babbucce e i bigodini, sul divanetto, il primo pensiero va a un’antenata. La sora Cecioni è la nonna di tutti noi, che oggi ciondoliamo con il telefonino in mano, senza staccarci un attimo. Per noia, solitudine, insoddisfazione. Franca Valeri, 100 candeline appena spente, ha preceduto tutti, come spesso le è capitato nella sua brillante vita artistica, sotto il segno dell’ironia e dell’intelligenza. Oggi, la sora Cecioni terrebbe banco sui social, avrebbe un blog, non si tirerebbe indietro davanti a una ricetta, a un pettegolezzo, a una di quelle battute che lasciano il segno. Ne avrebbe per tutti. Come è stata lei, Franca, nel secolo di quotidianità che l’ha accompagnata, tra tristezze, depressioni, intuizioni e interpretazioni epiche. Con quella voce ficcante, stridula si è presa gioco dei vizi e dei difetti dell’Italietta, addolcendo con un sorriso sarcastico i limiti di un Paese semplice, provincialotto. Le telefonate a mammà, in quegli studi televisivi di una Rai ricca di talenti soffocati dal perbenismo, in quelle trasmissioni senza interruzioni di pubblicità, sono state una trasgressione contro il nuovo conformismo che si andava a affermando fuori, nelle piazze, vestito di eskimi e minigonne. Proprio quando le ragazze iniziavano la loro marcia di emancipazione, la pillola, la libertà sessuale, le battaglie per l’aborto, il divorzio, la sora Cecioni aveva il filo diretto con mammà, sulle piccole cose di tutti i giorni, senza una parola su quello che davvero accadeva nelle famiglie immerse nella bufera della contestazione. In un solo colpo, Franca metteva a nudo due mondi: quello rimasto legato al passato e quello che sgomitava, urlava, protestava per dare più spazio ai diritti. Un femminismo intelligente, senza eccessi e fanatismi. Franca è l’emblema di queste nuove donne. Nel Vedovo con Alberto Sordi, anno 1959, firmato da Dino Risi, c’è l’apoteosi di come si ridicolizza un marito incapace, richiuso sulle sue pochezze esistenziali. Quel sopranome cretinetti farà epoca: sta a significare l’esclusione dal nuovo mondo, quello del boom, antivigilia del riscatto femminile, il senso di inadeguatezza degli uomini, non in grado di cogliere gli effetti del cambiamento. Quel personaggio di Sordi (proverà a uccidere la moglie) è anticipatore degli uomini imbecilli e sanguinari che oggi si macchiano di femminicidi. Il nuovo odio che alimenta una strage senza precedenti. Una vergogna.
Cavalier Valeri e l’arma della parola. “La Franca” compie cento anni e ancora è impossibile imbrigliarla in una definizione. Edvige Vitaliano Roberto Marino il 2 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Per carità non mi chieda, i compleanni sono un’opinione e mai li ho festeggiati…”. Ironica, pungente, dissacrante, Franca Valeri è difficile da imbrigliare in una definizione. Persino ora che le candeline fanno cifra tonda: cento anni il 31 luglio. Del resto, a lei bastava un telefono di quelli di una volta con la rotella per fare i numeri e la cornetta gracchiante per tirar fuori uno dei suoi memorabili personaggi femminili. In vista dell’importante compleanno gli omaggi alla signora sono già cominciati da un po’ e tra questi c’è anche la pubblicazione di “Franca Valeri. Tutte le commedie” (La Tartaruga, La Nave di Teseo, Milano 2020); prefazione di Lella Costa e una nota critica finale di Patrizia Zappa Mulas. Le parole di Franca aprono il libro: “Ogni volta che mi illudo d’incontrare quel signore che ritengo sia il teatro, mi rendo conto di vivere la più bella illusione della mia vita”. Nell’antologia sono state raccolte per la prima volta tutte le commedie alcune mai pubblicate nonché esilaranti e sorprendenti sketches. Pagina dopo pagina prende forma il racconto del teatro di Franca Valeri a partire dagli albori degli anni Sessanta con Le catacombe o Le Donne Confuse del 1962 che lei presenta così: “Dedico questa commedia, come tutta la mia passata attività di autrice-attrice, alle donne che conosco. È chiaro il motivo, esse mi hanno ispirato. Lungi dal sentirmi un avvoltoio, confesserò che mi pare un tratto di buona educazione e di affettuoso interesse ricordarsi i difetti della gente almeno quanto la data dei loro compleanni […] ”. Poi, via via gli altri lavori: Questa qui, quello là, Meno storie, La cosiddetta fidanzata, La cocca rapita, Tosca e altre due, Sorelle, ma solo due ossia Come voleva nostra madre, La vedova di Socrate, Non tutto è risolto e non solo fino ad arrivare nel 2014 alla commedia Il cambio di cavalli. Quest’ultimo lavoro nell’antologia viene introdotto dalla Franca così: “Molti attori di teatro sono stati anche autori. Inutile citarli. È su di loro che si concentra la mia curiosità. Non è roba solo da leggere, è anche da recitare, e la scelta delle parole è certamente una cosa difficile. Io non so fare altro, credo”. Un teatro fatto per divertire ma anche per riflettere quello di Franca Norsa, in arte Franca Valeri. “Cosa significa la parola triste non l’ha scoperto nemmeno Valery, il mio poeta preferito quando, tanti anni fa, mi impadronii del suo cognome per nascondere Norsa, il mio di cognome che, agli inizi, mi regalò il flop più tragico della mia carriera”, spiegò candidamente in un’intervista di qualche anno fa. Franca nasce a Milano da una famiglia ebraica della buona borghesia lombarda. Il padre ingegnere insiste perché impari bene le lingue straniere come l’inglese e soprattutto il francese. Ultimato il liceo classico, a causa delle leggi razziali non può accedere all’università. Dopo la guerra recita a Parigi e a Londra con la compagnia del Teatro dei Gobbi con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli e in Italia diventa famosa alla radio con la signorina snob, il primo tra i personaggi femminili – da Cesira la manicure alla sora Cecioni – nati dal suo raffinato genio creativo. Attrice, autrice dei suoi testi, commediografa, scrittrice, regista di prosa e di lirica, sceneggiatrice, Franca Valeri ha dalla sua una pluriennale carriera cinematografica, teatrale e televisiva. I suoi testi teatrali sono rappresentati e tradotti in tutto il mondo. Da sempre amante dell’opera lirica, la poliedrica Franca si è anche cimentata come regista di melodrammi. Tra i riconoscimenti ricevuti figurano anche due lauree honoris causa e i titoli di Chevalier des Arts et des Lettres dal ministro della Cultura francese e Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana. “Una cosa bella, decisamente, ma anche sacrosanta e forse persino doverosa, no? Come peraltro il David di Donatello alla carriera che ha ricevuto nel maggio scorso” — scrive Lella Costa nella prefazione — “E dunque non me ne vogliano le compagne di tante battaglie a favore della desinenza in -a (con buona pace di Carlo Dossi) se mi ritrovo ad affermare con decisione che la signora Valeri è, appunto, Cavaliere, o meglio ancora Cavalièr, con l’accento sull’ultima sillaba, a metà tra Ariosto e Goldoni e con una strizzata d’occhio a tutti i Roro della sua vita; ma Cavaliera proprio no, non se ne parla ”. Anche semplicemente scrivere di Franca Valeri richiede un’immersione senza rete tra i flutti dell’ironia più intelligente, priva di retorica e in certi casi persino feroce. Lella Costa — che dichiara apertamente di venerare “la Franca” (con l’articolo alla milanese) — offre un ritratto vibrante della signora Valeri. “[…] Dire che le armi di Franca Valeri sono le parole rischia di essere un’atroce banalità, me ne rendo conto. Però è vero. E come accade ai grandi condottieri, e a volte anche alle pulzelle francofone, coraggiose e un filo incoscienti, quelle armi hanno conquistato territori fino a quel momento inesplorati, almeno dalle donne. Prima di Franca sono certo esistite altre attrici comiche, o brillanti (perlopiù caratteriste, ma insomma qualcuna ce n’era): ma nessuna era mai riuscita a essere anche autrice e regista, oltre che interprete. La rivoluzione (che non sarà un pranzo di gala ma può essere una commedia, o meglio ancora una tragedia da ridere) lei l’ha fatta senza proclami, senza bollettini di guerra, senza spargimenti di sangue o di detersivo (questa è di De André, ma ci sta bene, no?): l’ha fatta dando voce e corpo a quelle parole contundenti, usando qualunque mezzo, dalla radio al cosiddetto cabaret, dalla televisione al cinema, dal teatro all’opera lirica. L’ha fatta col sorriso appena accennato, con la vertigine della comicità più pura, con la sapienza delle trame, con la pietas travestita da ironia. Se non è una guerriera lei, non ne conosco nessuna”. Franca la guerriera, dunque, sempre pronta a sfidare ogni stereotipo e a sfoderare implacabilmente le armi di una comicità capace di mettere all’angolo e restare nel tempo. A guardare le foto che la ritraggono non puoi fare a meno di notarne lo sguardo divertente e divertito. Sempre e comunque, uno sguardo che va oltre, fin dagli esordi. Non si può non concordare con la Zappa Mulas quando nella postfazione dell’antologia teatrale conclude: “Il vero scrittore, diceva Colette, non scrive il passato ma il futuro e Franca Valeri è una conferma. Nel suo teatro dal Cinquanta al Duemila si scopre come quell’Italia proterva e impreparata che ci sta alle spalle minacciava decisamente di diventare l’Italia che ci sta davanti”.
Mariarosa Mancuso per Il Foglio il 30 luglio 2020. Racconta Alberto Arbasino che Franca Valeri chiese a Carlo Emilio Gadda di scriverle "una commedia con un personaggio come l'Adalgisa". Detta così pare una richiesta ufficiale, con richiamo alla milanesissima e tosta fanciulla che nasce povera, riesce a calcare i palcoscenici (non di prima categoria) e per matrimonio diventa finalmente una signora. "Al cento per cento", lei crede - ma continuano a guardarla con sospetto, cantava per i militari. L' incontro avvenne al ristorante. Gadda era già conquistato alla causa, con la fedele governante ascoltava l' attrice alla radio. La richiesta di un testo lo trasformò - racconta sempre Arbasino, che c'era e prese nota delle maiuscole - "nella parodia di un paroliere deferente di fronte alla committenza". E dunque: "Come la desiderebbe, Ella? In prosa, in versi ritmati o liberi, forse alessandrini o in metri eventualmente barbari? Ma scusi, vero, questa commedia se la scriverebbe meglio da sé". Con il beneplacito di Carlo Emilio Gadda affrontiamo Tutte le commedie di Franca Valeri (esce da La Tartaruga). Andando subito a pagina 601 (su 676), dove cominciano i testi degli sketch. Senza nulla togliere ai copioni teatrali, leggerli è un mestiere da professionisti: se volete provarci, il monologo "La vedova Socrate" è perfetto per cominciare. Negli sketch, ci sono il diario della Signorina Snob e la signora Cecioni, Cesira la manicure e la sarta romana ("quasi quasi ce metto un rinforzino Assunta! Me porti un inbottiturina Lollo? che è sempre quella che ce l'ha mejo de tutte"). La signora che strapazza l'architetto, l'altra seccata con la commessa distratta, e una serie di madri in vario grado di tormentosità verso i figli (e se capita le loro fidanzate). Segni particolari: crudeltà e precisione di linguaggio. La voce inconfondibile, gli accenti, le pause che Arturo Benedetti Michelangeli dava ai suoi allievi come esempio da studiare, vengono dopo. Prima c'è la scrittura. E prima ancora la capacità di ascolto e di osservazione, in materia di debolezze femminili. Domani Franca Valeri festeggia i cento anni (Norsa era il cognome vero, il genitore non voleva vederlo sui manifesti teatrali, per una ragazza il primo passo verso la perdizione). Come lei non c' è nessuna, non solo perché sapeva rubare la scena a Alberto Sordi. "Il vedovo" è lì per dimostrarlo, da guardarsi - anche per l' ennesima volta - con "Progetto Elvira" di Tommaso Labranca a portata di mano (non pare vero che abbiano avuto il coraggio di un remake, qualche anno fa: "Aspirante vedovo" con Luciana Littizzetto nella parte dell' inimitabile). Molti saranno gli omaggi, e molte le parole in lode del genio. Inutili - e ipocrite - se non serviranno a liberarci da certe scritture femminili con il cuore in mano e la lacrima in tasca. Cercasi una Signorina Snob che provochi: "Riscaldo a bracieri, fa tanto suicidio". O una Cesira vestita per uscire (con un meridionale, già non si fida): "Un modellino molto semplice ma perspicace un fucsia quel colore che alle altre ci sbatte e a me mi dona".
Osvaldo Guerrieri per la Stampa il 30 luglio 2020. Nel 1970 Franca Valeri scrisse e interpretò per la Rai con la regia di Giacomo Colli quattro atti unici accomunati dal titolo Le donne balorde. Ma se almeno due di questi lavori entrarono nel volume mondadoriano Toh, quante donne! (1992), un quarto pezzo, forse il più imprevedibile, è rimasto fino ad oggi inedito. Che Einaudi lo stampi per i cent' anni dell'artista sembra un dono elargito alle schiere dei fan sempre adoranti e insieme un gesto colmo di devozione e gratitudine. La commedia si intitola La Ferrarina - Taverna (37 pagine, 8 euro). E' ambientata in un ristorante rustico ma di pretese gestito dalla proprietaria, Lide. Ad un tavolo siedono due soli avventori, un uomo e una donna. Non si sa chi siano, quasi non parlano, ma tra loro corrono occhiate minacciose e gesti che covano violenza. Alle prese con questa coppia, Lide fa ciecamente ciò che deve. Rimprovera il maître per i bicchieri mal puliti, illustra il menu, millanta la genuinità dei cibi. Lide parla e parla, ma non vuol vedere che la corrente tra i due è sempre più esplosiva. Non si accorge che, finiti sotto il tavolo, i due si stanno picchiando. Quando rientra in cucina per lo champagne, finge di non sentire il grido che ha agghiacciato le lavoranti. E solo all'ultimo vede la donna scivolare a terra con un coltello piantato nel cuore. Ascoltare il suono della propria voce ignorando quella altrui è il tratto forte di una commedia virata sul "noir" che conferma l'originalità di una Valeri al suo vertice ruggente. Da notare le frasi che, pur stampate, rendono conto della tenuta del fiato, del numero di parole che si possono pronunciare di filato prima di prendere nuovamente il respiro. Ma questo è il teatro ben scritto, bellezza. Anzi, è la Valeri.
Masolino D' Amico per “la Stampa” il 21 luglio 2020. Una volta domandai a Mario Monicelli quali fossero, degli attori che aveva diretto, i più bravi. Senza riflettere, rispose subito, Vittorio Gassman e Franca Valeri. Poi precisò, «ovviamente stiamo parlando di bravura tecnica. Quei due potevano fare qualunque cosa gli si chiedesse, a volte mi divertivo a inventare un percorso complicato, solo per vedere come se la cavavano». La cosa mi è rimasta impressa perché non mi ero mai reso conto che la Franca fosse «anche», nel mestiere di attore, bravissima. L' immagine di lei è piuttosto quella di una attrice-scrittrice, creatrice di personaggi - una osservatrice diabolicamente penetrante e spiritosa nel cogliere debolezze, prosopopee, ipocrisie degli italiani, o meglio delle italiane, borghesi ma anche popolane, degli anni in bianco e nero. Quasi un pendant femminile, radiofonico, teatrale, poi televisivo, di Alberto Sordi, rivelazione del periodo; e non per nulla nei vecchi meravigliosi film che non ci stanchiamo di recuperare (un titolo per tutti, Il vedovo di Dino Risi) lei è tra i pochissimi in grado di tenere testa a quell' incontenibile genio. Come dissero di Ginger Rogers? Faceva tutto quello che faceva Fred Astaire, ma camminando all' indietro e coi tacchi alti. In quel cinema Franca Valeri correva con l' handicap di non esservi prevista, solo le cosiddette maggiorate erano delle star. Bisognava scrivere parti apposta per lei. Chi lo fece non se ne pentì. Penso al cinema perché è lì, e nelle teche dove si conservano tante mirabili apparizioni in tv, che la Franca continuerà a deliziare chi se la ricorda, nonché a incantare le nuove generazioni. Il suo teatro sopravvive in maniera diversa, meno vistosa, anche se nel teatro il suo talento si rivelò agli inizi insieme a quello dei complici, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci poi rimpiazzato da Luciano Salce: i cosiddetti Gobbi, che nel 1950 si esibirono a lungo addirittura a Parigi, al tempo delle piccole sale alternative che accanto a loro rivelarono Beckett e Ionesco. Erano specializzati in brevi sketches senza costumi di scena, spesso parodie (La baia al nonno, sui riboboli toscani; o la lezione su come interpretare un testo russo, facendo capire al pubblico che fa un gran freddo). Li vidi allora, quando li ripresero nei primi Anni 50. Li ricordavo irresistibilmente divertenti e tali sono rimasti, qualche loro registrazione si vide di recente nella mostra che commemorava Salce. La chimica di quel terzetto era notevole, specie tra la Franca, milanese e intellettuale, e Caprioli, napoletano e istintivo; qualcosa ne sopravvive anche nelle pellicole - Leoni al sole, Parigi o cara - dirette da Caprioli. Seguono molti episodi, anche un musical , Lina e il cavaliere, musiche di Fiorenzo Carpi (potrei cantarne ancora qualche motivo). Poi i grandi successi con le sue macchiette in una tv che diventava un po' più spregiudicata; tornò a recitare in teatro in propri testi; scrisse libri sempre brevi e arguti (mai annoiare! è un principio che pochi esibizionisti per mestiere coltivano); firmò anche parecchie regie di opera. Di lavorare non ha smesso mai. Ogni volta che apre bocca è perché ha qualcosa da dire, e lo stile per dirlo: con quella ironia che rimane il principale strumento di salvezza del secolo che la Franca ha percorso, e di cui, senza mai ignorarne la tragicità, ci aiuta a sorridere.
Franca Valeri: «Vidi Mussolini in piazzale Loreto, non mi fece pena. Da ebrea ho sofferto». L’attrice sta per compiere 100 anni: «Il momento più brutto della mia vita fu assistere al pianto di mio padre quando seppe delle leggi razziali. Alla morte non penso, ma sono curiosa di sapere che cosa c’è di là». Aldo Cazzullo il 28 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Franca Valeri abita a Roma, in campagna. Non è una contraddizione: la sua casa è l’ultima di una traversa della via Flaminia antica; dopo cominciano i prati. Alle sue spalle, le foto di un secolo italiano: Franca bambina, e Franca novantenne abbracciata a Sophia Loren; «scrissi un film su due sorelle, e lo portai a Carlo Ponti. Rispose: “Bella trama, perfetta per Sophia, ma tu e lei siete troppo diverse per fare le sorelle. Diventerete cugine. Una cugina napoletana e una milanese: si può fare”. Nacque così Il segno di Venere». La pelle è fresca, quasi senza rughe. «I denti sono tutti miei. Merito di papà: era ossessionato dai denti, temeva che avessi la bocca troppo larga, e mi mandava ogni mese dal dentista, che lo tranquillizzava: «La gh’ha i orecc che la ferma». Sul tavolo, accanto al pianoforte che suonava fino a poco tempo fa, ha la copertina de La Ferrarina-Taverna, la sua commedia inedita in uscita da Einaudi, e le bozze del libro che La Tartaruga pubblica per il suo centenario, e raccoglie tutte le sue opere teatrali: un pezzo di storia del nostro Paese. C’è «La vedova Socrate», che Lella Costa porterà al festival di Siracusa e — il 31 luglio, la sera del centesimo compleanno di Franca — al Piccolo di Milano. E c’è «Non tutto è risolto», dove la protagonista torna nella vecchia casa, rivede la stufa, simbolo del passato, ritrova un figlio che forse non è davvero suo, presagisce qualcosa di irrisolto, finché non spunta una sedia a rotelle...Oggi Franca Valeri è davvero sulla sedia a rotelle. Tre anni fa è caduta, si è rotta otto costole, e da allora non si alza più. È sempre lucida, ma le parole non sgorgano più spontanee; vanno distillate una a una. La aiuta a ricordare la figlia adottiva, Stefania Bonfadelli: la cantante lirica che a 17 anni vinse il concorso inventato da Franca insieme con il compagno di allora, il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi.
Signora Valeri, qual è il suo primo ricordo?
«Mio nonno Giulio che mi porta una torta. Ma io detestavo le torte. Continuavano a regalarmi dolci che non mi piacevano. Nonna Francesca invece mi regalava le bambole. Ma non mi piacevano neppure le bambole. Le chiudevo tutte in un cassettone».
Stamattina la Valeri ha uno scialle rosso sulle spalle, nonostante faccia caldo, e una piccola stella di David al collo. Stefania gliel’ha portata da Gerusalemme e da dieci anni non la toglie più. «Papà era ebreo. Ricordo quando lesse sul giornale la notizia delle leggi razziali e pianse. Fu il momento più brutto della mia vita». Non poter più andare a scuola, non poter più andare a teatro.
«Preparai l’esame a casa, da privatista. Prima andavo al Parini. Provai a dare l’esame al Manzoni, sperando che non se ne accorgessero. Non se ne accorsero. L’Italia è sempre stata un po’ inefficiente».
Qualche giorno prima della guerra il padre di Franca — Luigi Norsa, ingegnere alla Breda — e il fratello Giulio fuggono in Svizzera, con i gioielli di famiglia cuciti nel cappotto: li avrebbero venduti per sopravvivere. Lei resta con la madre, che è cattolica: il padre pensa che non correrà pericoli. Ma quando arrivano i nazisti, Franca si deve nascondere. «Per passare il tempo leggevo la Recherche di Proust. Senza la guerra forse non sarei mai riuscita a finirla».
Un funzionario dell’anagrafe le procura una carta di identità con il cognome della madre, Pernetta. Per qualche tempo vive in una casa di via Mozart bombardata, dove trovano rifugio altre persone braccate. Tra loro c’è una ragazza che si è appena sposata. Poi Franca cerca riparo in casa di amici; «in via Mozart avevo lasciato i gatti. Così ogni tanto andavo a trovarli. Uno era nero e l’altro tigrato, si chiamavano Mignina e Milù». Di solito il cancello era chiuso; ma quel giorno è aperto. Franca ha un’intuizione, non entra, si nasconde, e assiste alla scena: dalla casa di via Mozart escono i tedeschi, trascinando dietro i prigionieri, tra cui la sposina ebrea.
È una storia che le costa molto dolore ricordare. Dalla gola le esce come un gemito: «Poverinaaaa!». Perché la giovane sposa fu portata ad Auschwitz, e non è mai tornata. Anche per questo Franca Valeri andò a guardare i cadaveri del Duce e della Petacci appesi a testa in giù a piazzale Loreto. «Mia mamma era disperata a sapermi in giro da sola. In quei giorni a Milano si sparava ancora per strada. Ma io volevo vedere se il Duce era davvero morto. E vuol sapere se ho provato pietà? No. Nessuna pietà. Ora è comodo giudicare a distanza. Bisogna averle vissute, le cose. E noi avevamo sofferto troppo».
«Per me la giovinezza incominciò il 25 aprile: una giovinezza tardiva. Ma è stata bella. In quell’Italia tutto pareva possibile». Il padre le aveva fatto studiare francese e inglese; cosi va a lavorare al comando americano, come interprete. Il ricordo più bello è il ritorno del papà dalla Svizzera: il citofono che suona, il trambusto sulle scale, la corsa gli uni incontro agli altri, le due donne che scendono, i due uomini che salgono, il volto del fratello Giulio, poi quello del padre.
«Non vedevo l’ora che tornasse per dirgli che volevo fare l’attrice. Ovviamente, papà era contrario. Sperava che passassi la vita a dipingere». Lei parte lo stesso per Roma. Si impegna ancor di più, per convincere il padre, che adora. Siccome lui non vuol saperne di vedere il proprio cognome sulle locandine dei teatri, lo cambia: non sarà Franca Norsa ma Franca Valeri, come il poeta francese. All’Accademia di arte drammatica non è ammessa; in compenso alla stazione Termini conosce il futuro marito, Vittorio Caprioli. Ma quando lui parte per Parigi, con il suo amico Luciano Salce, lei deve rimanere a casa. Si rifarà più tardi, recitando a teatro in francese, e inventando il personaggio della signorina snob. Nelle vecchie interviste Franca racconta di non essere mai stata gelosa. Ora fa capire che non è andata proprio così. È che i rapporti tra i sessi un tempo erano diversi: «Non sono mai stata femminista, semmai maschilista» sorride. Però poche hanno fatto quanto lei per la causa delle donne. È stata attrice, regista, sceneggiatrice, commediografa, scrittrice. «Sono anche diventata un’icona gay, anche se non ho mai capito perché. Ma sono fiera di esserlo».
Ogni tanto qualcuno mette in rete una sua imitazione della Valeri, con parrucche e tutto. Lei li considera omaggi. Il teatro, il cinema, la radio, la tv sono stati una grande avventura, che l’hanno portata accanto ai talenti dello spettacolo italiano: Giorgio Strehler — «un genio» —, Federico Fellini — «quanto l’ho fatto ridere con il personaggio della coreografa ungherese!» —, Eduardo — «tutti ne parlavano male ma con me era molto gentile» —, Alberto Sordi: «Siamo diventati amici girando Il vedovo. Sul set stavamo benissimo; nella vita normale non ci sentivamo mai, se non per gli auguri di compleanno: era nato un mese e mezzo prima di me. Non è vero che fosse tirchio, con lui non ho mai dovuto mettere mano alla borsetta... Ricordo quando firmai la regia de La strana coppia, con Monica Vitti e Rossella Falck; Alberto venne alla prima, ci abbracciammo».
Un rapporto speciale si era creato con altri due grandi. Tra gli attori, «Vittorio De Sica era l’amico più caro». Ma anche con Totò, notoriamente un carattere non facile, Franca aveva un punto di contatto: «I cani. Parlavamo di cani. Li ho sempre amati tanto. Lui ne aveva moltissimi, forse duecento...». Per casa oggi gironzola Aroldo IV, detto Rorò: è il quarto King Charles della dinastia, nome scelto non in onore di Aroldo Tieri ma dell’opera di Verdi. Convive senza screzi con una gatta, Cocò. Nella villa di campagna, a Trevignano romano, ci sono cinque cani. Altri quattordici, accuditi da volontari, vivono nel rifugio aperto dalla Valeri con la figlia. Una grande amica, racconta, è stata Maria Callas. «L’ho incontrata a Ischia. Era ancora sposata con Meneghini, prima dell’incontro con Onassis. Ma era già magra: mangiava pochissimo, solo carne cruda e insalata scondita. Stava studiando Anna Bolena che doveva portare alla Scala, era molto preoccupata di non sfigurare. Insieme abbiamo fatto la giuria di un concorso di bellezza... Poi preparò la Traviata con Visconti. Era una donna di grande volontà».
La musica leggera l’ha amata meno: una volta a Bologna Lucio Dalla gli si prostrò davanti, ma la Valeri non lo riconobbe: «Chi è quel tipo in pigiama?». A Parigi però aveva conosciuto Edith Piaf: Franca andò a un suo concerto, Edith venne a vedere lei alla Comédie Française. I giorni della pandemia sono scivolati lievi nella sua vita. Le abitudini non sono cambiate. I telegiornali non li ha visti: da anni in tv guarda solo la prima della Scala. «Vorrei tanto tornare un’ultima volta all’opera. Il mio sogno sarebbe rivedere ancora la Bohème».
Le notizie sono arrivate attutite: una brutta influenza, che ha colpito soprattutto la sua Lombardia. «È dal dopoguerra che abito a Roma, ma non ho mai perso l’accento milanese»; ora il volto di Franca si apre in un abbozzo di sorriso: «Milano è sempre stata meravigliosa».
Ha anche una nipotina, Lavinia, figlia di Stefania, che protegge dalle sgridate della madre. Una vita così lunga, spiega, è stata una sorta di risarcimento, per quello che ha sofferto da ragazza. Spunta una lacrima dagli occhi acquosi di Franca Valeri. È il segno che l’incontro è finito. E questa casa costruita dove finisce la grande città sembra il luogo appropriato per una persona giunta — con serenità — ad affacciarsi sull’orlo dello spavento supremo, del grande mistero. La Valeri non crede in Dio, ma ogni tanto recita una preghiera ebraica. Alla morte cerca di non pensare; ma a cent’anni è difficile non farlo. Qualche volta prevale la paura, qualche altra la curiosità. Perché «voglio proprio vedere cosa c’è dall’altra parte».
Franca Valeri, 100 anni a luglio: “Adoravo Totò, ci univa l’amore per i cani”. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2020. “Totò lo adoravo. Ci accomunava l’amore per gli animali. Parlavamo sempre di cani. Lui aveva creato un posto per proteggerli. Poi l’ho fatto anch’io: ho un rifugio per cani abbandonati a Trevignano Romano”. Franca Valeri, 100 anni il prossimo 31 luglio, recentemente ha ricevuto un David di Donatello alla carriera, che ha ricevuto nella sua casa di Roma, dove rispetta il lockdown insieme ai suoi animali. In un’intervista a Tv, Sorrisi e Canzoni racconta la sua vita e i ricordi della sua lunga carriera. Cresciuta a Milano, nel quadrilatero della moda, l’attrice ricorda: ”Sono stata felice in via della Spiga, prima che arrivassero il fascismo e le leggi razziali”. Di quel periodo fu vittima, poiché il padre era ebreo: ”Mio fratello e mio padre fuggirono in Svizzera, mentre io e mamma restammo in campagna, nascoste in casa di amici. Un amico di mio padre lavorava all’anagrafe e mi fece avere una carta d’identità falsa. Ancora mi chiedo come sia riuscita a salvarmi. Fortuna”, ha raccontato la Valeri. Su Alberto Sordi: ”Meraviglioso. Sembrava svagato ma era molto professionale e dedito al lavoro. Un grande compagna di scena”. Un’altra grande compagna di scena è stata Mina in varietà come Studio Uno. E sulle voci che circolavano sul fatto che non erano amiche la Valeri ha precisato: ”Non è vero. Era bellissima e ha una voce incredibile. Mi ricordo che in quegli anni della televisione non mangiava quasi nulla per restare magra. Che grande forza di volontà”.
Paolo Fiorelli per sorrisi.com il 29 maggio 2020. In tempi di giuste rivendicazioni di pari opportunità, Franca Valeri meriterebbe un monumento, perché è stata un’apripista. Già nell’Italia appena uscita dalla guerra, ai tempi delle soubrette e delle “maggiorate”, lei era non solo una comica che puntava tutto su una pungente ironia, ma soprattutto l’autrice e sceneggiatrice di se stessa: «Praticamente tutto quello che ho recitato me lo sono scritto da me». E la sua graffiante sincerità la contraddistingue anche adesso, quando confessa «oggi c’è ben poco che mi diverta», incurante del grande evento che si avvicina: il 31 luglio compirà 100 anni. Un traguardo che ha convinto anche la giuria del David di Donatello a onorarla con una statuetta alla carriera, che ha ricevuto nella sua casa a Roma, dove osserva l’isolamento con un gatto e un cane («Ma ne ho altri 14 nel mio rifugio»). Anche se lei, naturalmente, è originaria di Milano.
Franca Valeri, lei è cresciuta in via della Spiga, nel quadrilatero della moda. Com’era allora la città? Come l’ha vista cambiare?
«Non vado più in via della Spiga da molto tempo ormai, ma so che Milano si conserva bene. Però più che essere cambiate le vie è cambiato proprio il mondo. Ricordo che da bambina mio padre doveva partire per l’America e si discuteva della grande novità: ormai bastavano solo sei giorni di transatlantico! E l’educazione dei figli? Mia mamma mi diceva che avrebbe voluto un maschio ma “la donna che porta i bambini aveva solo te e disse: «Me la prenda, sia buona... facciamo così, invece di 100 lire gliela do per 50»”. Sono stata felice in via della Spiga, prima che arrivassero il fascismo e le leggi razziali».
Lei ne è stata vittima, suo padre era ebreo. Cosa ricorda di quel periodo?
«È un periodo che ho sempre cercato di rimuovere e credo che continuerò a farlo. Mio fratello e mio padre fuggirono in Svizzera mentre io e mamma restammo a Milano e poi in campagna, nascoste in casa di amici. Un amico di mio padre lavorava all’anagrafe e mi fece avere una carta d’identità falsa. Ancora mi chiedo come sia riuscita a salvarmi. Fortuna».
È vero che suo papà non voleva facesse l’attrice?
«Sì, papà aveva paura di un mio fallimento. Mise anche il veto sull’utilizzo del cognome di famiglia, Norsa. Io dopo la guerra andai a Roma per frequentare l’Accademia d’arte drammatica, ma fui bocciata all’esame di ammissione. Allora mentii ai miei genitori e dissi loro, con la complicità di una parente che mi ospitava a Roma, che ero stata presa. Dopo i primi successi, però, papà diventò un mio grande sostenitore».
Dalla Signorina Snob alla popolana Sora Cecioni... come sono nati i suoi personaggi più famosi?
«Dall’osservazione di particolari tipi di donne, che poi ho arricchito e un po’ deformato. Da bambina imitavo le amiche di mia madre: la Signorina Snob è nata così. Vivendo poi a Roma ho incontrato molte Cecioni...».
Lei è stata la prima a capire che il telefono permetteva di costruire scene comiche. Come sono nati quei celebri sketch?
«Per far parlare con qualcuno la mia Signorina Snob. Che dire, un’intuizione felice».
I telefonini moderni le piacciono o no? E le videochiamate?
«Sicuramente possono dare tanti spunti comici. Ma consiglio di non abusarne».
Lei ha lavorato con tanti giganti del cinema. Ci regala un ricordo personale?
«Adoravo Totò. Ci accomunava l’amore per gli animali. Parlavamo sempre di cani. Lui aveva creato un posto per proteggerli. Poi l’ho fatto anch’io: ho un rifugio per cani abbandonati a Trevignano Romano».
E Alberto Sordi? La coppia che formavate nel film “Il vedovo” era strepitosa.
«Meraviglioso. Sembrava svagato ma era molto professionale e dedito al lavoro. Un grande compagno di scena».
Un’altra grande compagna di scena è stata Mina, in varietà come “Studio Uno”. Ma dicono che non foste proprio amiche...
«Non è vero. Mina era bellissima e ha una voce incredibile. Mi ricordo che in quegli anni della televisione non mangiava quasi nulla per restare magra. Che grande forza di volontà».
A chi deve di più?
«Vittorio De Sica era un vero signore e mi voleva bene. Fu lui ad aiutarmi a portare la sceneggiatura di “Il segno di Venere”, dove poi recitai con Sophia Loren, a Carlo Ponti. Con Ennio Flaiano, che era un genio, passavamo intere nottate a ridere insieme in via Veneto. Poi naturalmente mio marito Vittorio Caprioli: con lui ho scritto “Parigi o cara”, il film che amo di più e che lui ha anche diretto. Vittorio era irresistibile sul palcoscenico e nella vita, un talento incredibile. Trovo che sia ingiustamente dimenticato».
In tv ha recitato anche con Nino Manfredi...
«Con lui ho fatto prima un film delizioso che si chiamava “Crimen” e poi negli Anni 90 “Linda e il brigadiere” in tv. Era un uomo molto simpatico e un bravissimo attore. Anche Gino Bramieri era di una comicità irresistibile, quando lo vedevo nei suoi sketch travestito da donna non la smettevo più di ridere. Con lui ho fatto “Norma e Felice” in tv».
E Luciana Littizzetto?
«Mi piace la sua ironia. Abbiamo anche scritto un piccolo libro insieme, “L’educazione delle fanciulle”».
L’attore o attrice che l’ha fatta ridere di più?
«Charlie Chaplin, che ho conosciuto quando mi esibivo in teatro a Parigi, molti anni fa. Credo che sia stato un artista inarrivabile».
Guardando indietro c’è qualcosa che le fa dire: «Non me lo sarei mai aspettato»? In altre parole, mi dice cosa la stupisce di più dei cambiamenti che ha visto?
«Onestamente non mi aspettavo questa agonia dell’educazione e dei costumi. Il mondo di oggi mi sembra pieno di brutture e noia».
Non c’è proprio nulla che la fa ancora ridere?
«Oggi purtroppo la mia vita è poco divertente. Il divertimento ha ceduto il passo alla noia soprattutto da quando non posso più leggere, perché ci vedo molto poco. Mi resta la passione per gli animali e per la lirica. Fin da bambina ho frequentato i teatri d’opera e ho conosciuto grandi cantanti, sono stata anche amica di Maria Callas. Quando questa emergenza finirà, vorrei tanto tornare a Milano e vedere un’opera alla Scala».
Anche sua figlia Stefania, che ha adottato, è una cantante lirica. Come l’ha incontrata?
«Stefania Bonfadelli ha vinto un concorso per giovani cantanti d’opera che avevo creato anni fa. Aveva appena 18 anni, ora è un famoso soprano e anche una regista d’opera. È la figlia che avrei sempre voluto avere perché è una persona brava e di talento; lei e sua figlia Lavinia sono diventate la mia nuova famiglia. Io non ho avuto figli naturali e alla mia età non si può stare da soli perciò ho fatto un’adozione da adulti, che non lede i diritti dei genitori di Stefania, a cui sono grata. Diciamo che sono una parente in più».
Porta da sempre lo stesso taglio di capelli. Perché?
«Perché mi piace. Credo che cambiare spesso colore e taglio di capelli sia un segno di insicurezza e quindi di inaffidabilità. Caratteristiche che non mi appartengono. Del resto non mi piacciono i cambiamenti. Sono quasi sempre funesti».
Masolino D' Amico per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Una volta domandai a Mario Monicelli quali fossero, degli attori che aveva diretto, i più bravi. Senza riflettere, rispose subito, Vittorio Gassman e Franca Valeri. Poi precisò, «ovviamente stiamo parlando di bravura tecnica. Quei due potevano fare qualunque cosa gli si chiedesse, a volte mi divertivo a inventare un percorso complicato, solo per vedere come se la cavavano». La cosa mi è rimasta impressa perché non mi ero mai reso conto che la Franca fosse «anche», nel mestiere di attore, bravissima. L' immagine di lei è piuttosto quella di una attrice-scrittrice, creatrice di personaggi - una osservatrice diabolicamente penetrante e spiritosa nel cogliere debolezze, prosopopee, ipocrisie degli italiani, o meglio delle italiane, borghesi ma anche popolane, degli anni in bianco e nero. Quasi un pendant femminile, radiofonico, teatrale, poi televisivo, di Alberto Sordi, rivelazione del periodo; e non per nulla nei vecchi meravigliosi film che non ci stanchiamo di recuperare (un titolo per tutti, Il vedovo di Dino Risi) lei è tra i pochissimi in grado di tenere testa a quell' incontenibile genio. Come dissero di Ginger Rogers? Faceva tutto quello che faceva Fred Astaire, ma camminando all' indietro e coi tacchi alti. In quel cinema Franca Valeri correva con l' handicap di non esservi prevista, solo le cosiddette maggiorate erano delle star. Bisognava scrivere parti apposta per lei. Chi lo fece non se ne pentì. Penso al cinema perché è lì, e nelle teche dove si conservano tante mirabili apparizioni in tv, che la Franca continuerà a deliziare chi se la ricorda, nonché a incantare le nuove generazioni. Il suo teatro sopravvive in maniera diversa, meno vistosa, anche se nel teatro il suo talento si rivelò agli inizi insieme a quello dei complici, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci poi rimpiazzato da Luciano Salce: i cosiddetti Gobbi, che nel 1950 si esibirono a lungo addirittura a Parigi, al tempo delle piccole sale alternative che accanto a loro rivelarono Beckett e Ionesco. Erano specializzati in brevi sketches senza costumi di scena, spesso parodie (La baia al nonno, sui riboboli toscani; o la lezione su come interpretare un testo russo, facendo capire al pubblico che fa un gran freddo). Li vidi allora, quando li ripresero nei primi Anni 50. Li ricordavo irresistibilmente divertenti e tali sono rimasti, qualche loro registrazione si vide di recente nella mostra che commemorava Salce. La chimica di quel terzetto era notevole, specie tra la Franca, milanese e intellettuale, e Caprioli, napoletano e istintivo; qualcosa ne sopravvive anche nelle pellicole - Leoni al sole, Parigi o cara - dirette da Caprioli. Seguono molti episodi, anche un musical , Lina e il cavaliere, musiche di Fiorenzo Carpi (potrei cantarne ancora qualche motivo). Poi i grandi successi con le sue macchiette in una tv che diventava un po' più spregiudicata; tornò a recitare in teatro in propri testi; scrisse libri sempre brevi e arguti (mai annoiare! è un principio che pochi esibizionisti per mestiere coltivano); firmò anche parecchie regie di opera. Di lavorare non ha smesso mai. Ogni volta che apre bocca è perché ha qualcosa da dire, e lo stile per dirlo: con quella ironia che rimane il principale strumento di salvezza del secolo che la Franca ha percorso, e di cui, senza mai ignorarne la tragicità, ci aiuta a sorridere.
Franca Valeri, un "David" a cento anni. L’attrice simbolo che fu criticata dalle femministe. Uno «speciale» Donatello per l’attrice che il 31 luglio compirà un secolo di vita. Paolo Giordano, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. Ovvio che finalmente toccasse a lei. Il David di Donatello alla carriera dopodomani sarà consegnato a Franca Valeri, praticamente centenaria, attrice di se stessa per oltre settant’anni, autentica perla rara del nostro spettacolo. Lo ha annunciato ieri Piera Detassis presidente dei premi che sono gli Oscar del cinema italiano. Ed è difficile immaginare qualcuna che si meriti questa statuetta più di Franca Maria Norsa, detta Franca Valeri in onore di Paul Valery, nata a Milano il 31 luglio 1920 ma mai soltanto milanese perché ha recitato in tutti i dialetti, dal romano della Sora Cecioni, quella che stava sempre al telefono con mammà, al torinese dell’«ex fidanzata di Gianni Agnelli» che, tra un piemontesissimo «né» e l’altro, coniò la copiatissima battuta: «Loro si chiamano Agnelli ma poi l’animale è un altro...». Ma c’è una scena che la riassume perfettamente ancora oggi, lei malandata ma lucida, ferocemente lucida come ogni vero attore brillante riesce a essere fino alla fine. È quando spunta alle spalle di Alberto Sordi nel Vedovo di Dino Risi e sibila un meraviglioso «cosa fai cretinetti, parli da solo?». Sono trascorsi 61 anni ma quel cretinetti rimbomba ancora. Franca Valeri è stata la prima delle femministe e, non a caso, è stata ferocemente contestata dalle femministe. I suoi personaggi, in tv al cinema in teatro, erano parodie surreali di donne. Erano, e sono, esasperazioni di tratti femminili che solo una donna colta avrebbe potuto cogliere. «Le femministe mi contestano? - disse lei una volta in tv - Forse non si rendono conto che una donna che prende in giro le donne è la miglior femminista». Basterebbe questa frase, pronunciata tra gli anni 70 e 80 in pieno femminismo talebano, a regalare l’eternità a un’attrice. Ma non c’è solo questo, figurarsi. Franca Valeri è la negazione del luogo comune. Dopo l’esordio a teatro nel 1947 come Lea Lebowitz, ebrea innamorata del rabbino, lei, che è di origini ebraiche, si è confermata decennio dopo decennio la picconatrice della femminilità spuria, posticcia, imposta dal manierismo borghese. Quando provò a passare il provino all’Accademia Nazionale d’Arte, che era frequentata da futuri giganti come Nino Manfredi, recitò alcuni sketch ma fu respinta con perdite. Di più. L’allora direttore Silvio D’Amico suggellò la bocciatura con un «certo il fisico lascia a desiderare» che oggi scatenerebbe anche il più pacato degli haters. Forse il suo essere minuta e il non avere «un naso piccolo ma un signor naso» l’hanno aiutata a distinguersi dal cliché «maggiorata» regalandole un orizzonte artistico pressoché infinito. Di fianco a Totò era un tipo di caratterista. Con Alberto Sordi un’altra. In tv con la regia di Antonello Falqui è stata il punto di rottura tra la vamp e il presentatore. E su questa medietà tra le gemelle Kessler e il modello Alberto Lupo ha costruito i suoi cento personaggi in cerca d’autore che ancora oggi spuntano qui e là al cinema o in tv. Sandra Mondaini, per esempio, le doveva molto. E Luciana Littizzetto pure, non a caso la volle sul palco dell’Ariston al Sanremo di Fazio del 2014 dopo aver scritto insieme il libro L’educazione delle fanciulle. A proposito di libri, ce n’è uno che rende bene la Franca Valeri che ancora oggi, pedinata da morbo di Parkison, si fa vedere in teatro o in televisione: «Bugiarda? No, reticente». In quasi settant’anni di spettacolo, proprio adesso alla vigilia del David alla carriera, conferma di essere stata reticente per educazione ma sincera per vocazione. Ha sempre detto tutto quello che voleva, anche quando nessuno voleva o tutti speravano stesse zitta. Ed è ancora adesso l’inossidabile «Signorina Snob» perché le signorine snob ci sono ancora e sono identiche a quando le ha immaginate al Liceo Parini di Milano con le sue compagne di classe prima ancora che iniziasse la Seconda Guerra Mondiale. Fanno i selfie e mettono cuoricini, ma hanno gli stessi tic, le stesse pose, le stesse banalità di allora: «La signorina esisterà sempre - diceva lei in un programma tv di decenni fa - perché certe ubbie degli snob cambiano, ma il concetto rimane lo stesso». Parola di una signora attrice che da settant’anni dà del cretinetti a tutti i luoghi comuni e difatti prende il David alla carriera quando sta per compiere cento anni. Più alternativa di così.
"Io no che non mi annoio". La mitica Franca Valeri sta per compiere 99 anni ma ha ancora molto da dire. L'attrice comica più importante del Novecento italiano in esclusiva per Elle. Guia Soncini il 21/07/2019 su elle.com.it. Franca Valeri stabilisce i ruoli prima ancora ch’io mi sieda. Chiede per che giornale scriva, glielo dico, domanda: «Quindi parla di donne?», cerco di farla ridere dicendo: «Purtroppo sì», e lei mi rammenta che le battute le fa da professionista: «Mi piace quel “purtroppo”, potrebbe essere mio». È un pomeriggio caldo nel suo salotto gozzaniano, pieno di ninnoli, porcellane sotto vetro, ricordi del nonno sul quale la signora Valeri, 99 anni il 31 luglio, sta scrivendo un libro. Saremmo qui per parlare di quello appena uscito, Il secolo della noia (Einaudi), ma è difficile star dietro alla produttività della signora. È difficile per me, generazione inetta; lei ha chiarissimi gli obiettivi promozionali e aggancia il titolo in libreria ai miei dubbi che l’aggeggio elettronico che ho con me sia affidabile nel registrare la nostra conversazione: «È quello che volevo dire in quel mio titolo: ogni bellezza che ci viene proposta, dopo un momento si guasta. Non tutto quello che ci viene promesso funziona. Tutto è possibile e niente è sicuro». Le ricordo che nel suo libro scrive: «Più lenta è la storia, più sono i geni che la occupano; diminuiscono come per incanto quando conoscerli è cosa immediata», e nella sua risposta c’è la più efficace comica del Novecento italiano, una che non fa della teoria, ma t’illustra un mondo con un’immagine minuscola e precisissima: «La vita antica mi sembrava più interessante, adesso si sa tutto, si sa dove comprare le mutande: ti arrivano per posta». Le dico che il titolo Il secolo della noia mi ha ricordato una battuta di Paolo Poli, «Credevo che fosse il secolo del sesso, e invece è il secolo della cucina». Sorride: «Tipico suo. Paolo era un grande umorista, e un grande amico». È morto tre anni fa, decido di usarlo come pretesto per farle una domanda difficile: come ci si sente ad aver vissuto e lavorato in mezzo ai giganti e ad averli visti morire tutti, a essere l’ultima rimasta? La risposta è secca: «Ci si sente in pericolo». Uno dei personaggi inventati dalla Valeri nei suoi decenni di teatro e tv fu la Cesira, manicure milanese. La definizione che ne ha dato l’autrice mi sembra rispecchi la tipica partecipante a un reality televisivo in questo secolo: «Donne che hanno dei sentimenti in testa al posto dei pensieri». Cerco di illustrarle un ecosistema di concorrenti che ripetono «Io sono sempre me stessa»; lei sgrana gli occhi e nota: «Potrebbe anche essere un difetto» – che è un concetto semplice ma impossibile da spiegare alle nuove generazioni. Un altro personaggio è La signorina snob. Scorrendo il libro che scrisse nel 1951, mi viene il sospetto che oggi la pagina in cui racconta la sua vacanza in montagna – «Economico da morire, ho spaccato alcuni piatti simpaticissimi dell’albergo, tipo vecchiotto, e ho vuotato un piumino da letto nel bagno per dare al commendatore padre la soddisfazione di pagare un conto che avesse del normale» – non si potrebbe pubblicare senza ricevere commenti indignati che lamentino che la gente non arrivi a fine mese e la signorina butti i soldi. Il personaggio di Martina Dell’Ombra, evidente omaggio alla Signorina snob, non viene riconosciuto come io narrante in un’epoca che ha smarrito il senso del tono. Franca Valeri trasecola che ci sia qualcuno, là fuori, che non riconosce un’iperbole: «Ma è un personaggio comico». Al collo ha una stella di David. E nei sei memoir che ha scritto dal 2012 a oggi parla spesso delle leggi razziali che fecero fuggire all’estero il padre e interrompere le scuole a lei (un impiegato dell’anagrafe le falsificò un documento, visse con la madre sotto falso nome fino alla fine della guerra). Ne Il secolo della noia c’è buttata lì questa frase: «Forse soltanto andando a piazzale Loreto l’ho in parte superato». Chiedo: ma quindi andò a vedere il cadavere di Mussolini? «Non è una cosa molto approvata dai più, ma io non vedevo l’ora di vederlo ammazzato, perché avevo sofferto troppo. Sai com’era brutta la vita in quel periodo? La guerra era presente, anche con le sue menzogne, non facevano altro che dire balle. Io però ho avuto una fortuna: siccome intendevo che la guerra finisse com’è finita, sono sempre stata sicura, tranquilla, anche nei momenti di pericolo, che avremmo vinto noi, quindi perdendo. Una sicurezza che mi ha accompagnata durante cinque anni: sono felice di aver avuto questa sicurezza, sennò sarei morta di dolore, se avessi pensato che vincevano loro. La mia generazione ha avuto degli anni pazzeschi: di paure, di dubbi, di ogni sorta di torture. Ma questa sicurezza di vincere perdendo mi rendeva felice, perché pensavo che poi avrei avuto una vita ancora molto lunghetta». Le chiedo come ci fosse arrivata, a piazzale Loreto, chi gliel’avesse detto, senza tv, senza cellulari. «Si è saputo tutto: era una supernotizia. “Detto” proprio, non me l’ha detto nessuno: c’era una fiumana di gente che andava verso una direzione, e dicevano “È appeso, l’hanno ammazzato”. Non è che fossero tutti contenti come me, sembrava di no ma forse c’erano anche dei dispiaciuti. Certo era una fiumana». Lei si dispiace per un istante solo ripensando al cadavere di Claretta Petacci: «Faceva impressione, quella poveretta». Si chiede a voce alta «Cosa mi ha dato questa forza, non sono mai stata una malatina»; parliamo del cappotto di cammello di Paolo Stoppa che tanto la colpì da aspirante attrice, e scuote la testa sull’eleganza maschile venuta meno, «Uomini come adesso, malandati, non ce n’erano»; e dice che le piaceva essere bocciata. Al provino all’Accademia d’arte drammatica, la Valeri – che si chiamava ancora Franca Maria Norsa – propose un’Elettra riscritta da Sartre; tra gli altri allievi c’era Tino Buazzelli che si offrì come sua spalla; quando la bocciarono, «si è precipitato a inseguire il presidente D’Amico, “Guardi che questa ragazza è bravissima”, e lui sollevandosi dal suo caffè mi ha guardata, ero una ragazzina con un cappotto blu, e ha detto: “Certo, non è Olga Villi”», attrice dell’epoca alta e magra e bella, «Non come me, piccolotta». Erano gli anni 40, e Silvio D’Amico, poverino, non poteva sapere che la Norsa stava già prendendo appunti per il repertorio della Valeri.
Franca Valeri, la Signora dell’ironia non feroce. Paolo Bricco ilsole24ore.com il 18 marzo 2018. «Gli italiani esistono. Anche se ci tengono poco ad esistere». Franca Valeri ha esercitato il suo sguardo ironico ma non sarcastico, dolceamaro ma non velenoso su un popolo che non di rado appare dedito alla religione della noncuranza. «Il nostro Paese è pieno di Storia e di Bellezza. Anche se è così trascurato...». Ha il volto tondo e privo di rughe, gli occhiali blu e viola, un maglione bianco candido e unghie perfette, con una limatura precisa e uno smalto di colore rosso elegante. Le mani sono appoggiate sulla tavola del suo appartamento romano nel quartiere Flaminio, che un tempo è stato un quartiere elegantemente residenziale e che oggi – fra le buche nelle strade e la pioggia che forma piccoli fiumi, la spazzatura non portata via alle tre del pomeriggio e gli escrementi dei cani su ogni marciapiede – sembra la versione moderna della Roma settecentesca di Giovanni Battista Piranesi, senza però la magnificenza delle sue rovine. L’acqua, il caffè con la moka di metà pomeriggio e lo zucchero di canna vengono disposti con amorevole cura dall’assistente Simone.
«La nostra Italia, nonostante tutto». A 97 anni, lei è esattamente quella che è stata per tutta la vita. Una borghese lombarda che ha amato follemente l’opera lirica – la Scala è stata il cuore e l’anima di un pezzo d’Italia del Novecento – e che ha avuto come perno della sua esistenza l’amicizia con gli uomini e con le donne. Una autrice di testi e una attrice di teatro, cinema e televisione che ha dimostrato come – anche nell’Italia del Novecento segnata dalla spaccatura verticale fra cultura elitaria e cultura popolare – la vera arte – fra Dante e Mina, Boccaccio e Adriano Celentano – sia quella di miscelare e amalgamare, rispettare e unire, tenere distinto e dare una coerenza complessiva all’alto e al basso. La Signorina Snob («Pronto, ciao stellin sono io, sì, senti, no ti prego, ma gioia non posso...stamattina ho fatto una levataccia pregallica...alle nove e mezza in punto...») e la Sora Cecioni («Pronto mammà, ma che te sei scordata qualcosa sulla tomba de’ nonno? Ah, l’ombrello? Lo sai che s’arabbia se je famo disordine attorno...»). Con la capacità di passare dal micro al macro, di ricostruire per induzione una intera classe sociale – la borghesia di Milano o il popolo di Roma – di provocare prima il sorriso e, poi, l’identificazione e la riflessione. Fuori piove ed è quasi buio. Tutti i movimenti sembrano rallentati. Prima si fa versare un bicchiere di acqua minerale e poi cambia idea. «Una cosa che mi piace molto – racconta – è avere degli estimatori giovani che mi trovano simpatica e che apprezzano il mio lavoro. Mi danno grande emozione e stupore quando li incontro. Alcuni sanno a memoria pezzi di miei film come «Parigi o cara» e «Il vedovo». Il vedovo è una commedia del 1959 diretta da Dino Risi e interpretata da lei e da Alberto Sordi. Parigi o cara è una commedia del 1962 diretta da Vittorio Caprioli, suo marito, e interpretata con lo stesso Caprioli. Franca Valeri ricorda con vividezza e passione l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. «Gli anni migliori della nostra vita – racconta – sono stati quelli del secondo dopoguerra. Non soltanto perché io ho lavorato con successo e soddisfazione. Ma perché abbiamo vissuto la dimensione morale della libertà, dopo il periodo nero del fascismo». Il cane Aroldo – detto Rorò – prima si struscia contro le mie gambe, poi si avvicina alla sua padrona, quindi sale sul divano e – tempo un minuto – inizia a dormire emettendo un sibilo di soddisfazione, come se sognasse: «A Trevignano, sul lago di Bracciano, dove ho la casa di campagna dal 1970, ho cinque cani. Il mio terreno ospita un canile municipale dove si trovano diciassette cuccioli trovatelli», dice. «È stato brutto vivere l’adolescenza durante il fascismo. In casa il regime non era gradito. La quotidianità era irrigimentata. Io ho frequentato il liceo Parini di Milano. Studiavamo molto. Avevo un docente di italiano, il professor Fermi, che veniva arrestato, in maniera preventiva, tutte le volte che Mussolini veniva a Milano. Negli anni prima del 1939 e del 1940 si sentiva nell’aria arrivare la guerra. Una forma di timore guadagnava i giovani borghesi e i giovani popolani. Avevi la sensazione che stessero per verificarsi il dramma e la tragedia». La costruzione di una personalità avviene nel nido della famiglia. «Io ho preso da mia mamma Cecilia lo spirito comico e da mio padre Luigi lo spirito satirico. Devo a mia mamma il titolo della mia autobiografia «Bugiarda no, reticente». Nell’Italia di oggi, che ha appena vissuto il travaglio di una lunga campagna elettorale terminata con il giorno delle consultazioni politiche nazionali domenica 4 marzo, in molti tendono a considerare una cosa naturale e scontata l’esercizio del diritto di voto. «Io non ricordo più i dettagli del 2 giugno 1946, il giorno del referendum con cui scegliemmo la repubblica invece della monarchia. Non ricordo dove ero, non ricordo come ero vestita, non ricordo con chi ero. Ma ricordo la sensazione di quel giorno. I Savoia ci avevano molto disgustato con la loro fuga da Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Noi italiani non abbiamo mai avuto una monarchia strutturata e colta, forte e amata dal popolo come hanno avuto gli inglesi e i francesi». Gli italiani e il loro carattere nazionale. Conosciuto e sperimentato, amato e non svillaneggiato da una donna puntutamente divertita, ma senza sottili violenze moralistiche. «Siamo un poco balenghi. In fondo, non siamo mai stati in pace con noi stessi. Tendiamo a dividerci. Siamo ancora ai Guelfi e ai Ghibellini. Anche negli anni Cinquanta e Sessanta. Gli anni della democrazia e della prosperità. Gli anni di una grande classe dirigente. La Dc e il Pci. Tutti i partiti avevano personalità di primo piano. Gli anni delle donne. Di noi donne, che siamo state coscienti e libere di natura, quasi all’improvviso. Anche allora, noi italiani non siamo stati pienamente in pace. Fino agli anni Settanta, quando è tornata la violenza». L’Italia, gli italiani e le italiane. L’amore. Per esempio per il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi, morto nel 1995. Un rapporto cementato più dalla quotidianità che non dalla esclusività, come racconta lei stessa in Bugiarda no, reticente: «Faceva sempre un bagno caldo prima di dirigere. Mentre lo insaponavo vedevo dalle sue labbra che ripassava la partitura. Poi uno scatto: “Basta. Mica so’ sporco”. Era un bagno terapeutico. Penso, chissà se è giusto, che quando si ama qualcuno è più affascinante possederlo con i gesti della tua vita che con quelli del sesso, ché con quelli sono capaci tutti, tutte in questo caso. Che una stesse nel suo letto mezz’ora prima di incontrarlo certo non mi faceva piacere, ma se gli avesse lavato i capelli l’avrei uccisa». Gli uomini e le donne del secolo scorso e gli uomini e le donne del secolo attuale. Una comunione di generi complicata e difficile per tutto il mondo occidentale, di cui il caso Weinstein ha rappresentato soltanto il fenomeno più apparente e visibile. «In realtà – dice Franca Valeri – io credo che, almeno in Italia, i rapporti fra uomini e donne siano migliorati. In particolare, grazie a una migliore comprensione reciproca. La cultura e l’educazione, in questo, sono stati e sono fondamentali. Quando mancano la cultura e l’educazione, l’uomo continua a sentirsi più forte, più sicuro e più prepotente. E tornano l’antico predominio maschile basato sul sesso e l’antica debolezza femminile basata anche sulla necessità. Gli uomini e le donne sono creature che condividono la stessa natura umana. Le donne hanno il potere di fare i figli e gli uomini di farli insieme a loro». Il potere e la facoltà di fare figli. «Se mi è dispiaciuto non avere figli? Ma io una figlia ce l’ho. Si tratta della mia figlia adottiva, la cantante lirica Stefania Bonfadelli. Sono stata circondata e molto amata dai figli di mio fratello Giulio, Claudia, Francesca e Tommaso, che abitano con le loro famiglie a Milano. E adoro la figlia della mia figlia adottiva: Lavinia, una bimba meravigliosa. Lavinia ha 9 anni ed è nata nello stesso anno e nello stesso mese del mio cane Rorò». Gli uomini e le donne. La famiglia e gli amori. E il senso di un popolo così difficile da sintetizzare in un concetto e in una idea. L’antropologia italiana è segnata dalla complessità della cultura popolare e dalla qualità individuale dei suoi artisti, che sembrano quasi essere astratti dal loro tempo. «Mi ha sempre colpito – osserva – l’assenza della tradizione come fondamento della nostra cultura popolare. In Francia, in Inghilterra e in Germania non è così. Noi non abbiamo il culto della tradizione. In una realtà tanto particolare, esiste una distanza dal genio italiano. Ricordo Arturo Toscanini. Mia madre Cecilia portò me e mio fratello Giulio al suo ultimo concerto alla Scala, era l’Aida di Verdi, prima che lasciasse l’Italia e andasse negli Stati Uniti, in contrapposizione al regime fascista. Quella volta mia mamma acquistò i biglietti in platea». L’11 maggio 1946 Toscanini tornò alla Scala, ricostruita dopo essere stata distrutta dai bombardamenti che avevano colpito Milano fra il 7 e il 15 agosto 1943. Toscanini diresse l’ouverture della «Gazza ladra», il coro dell’«Imeneo», il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal «Guglielmo Tell», la preghiera dal «Mosè in Egitto», l’ouverture e il coro degli ebrei dal «Nabucco», l’ouverture dei «Vespri Siciliani», il «Te Deum» di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dal terzo atto della «Manon Lescaut», il prologo ed alcune arie dal «Mefistofele». «Quella volta alla Scala – rammenta Franca Valeri – io e i miei amici eravamo in un palco. Fu bellissimo». Gli amici e l’amicizia. Mentre il cane Aroldo continua a dormire placido, le parole più pronunciate nella nostra conversazione sono queste. «Io non sono mai sola. Ho molti amici. Il vero privilegio della vita è l’amicizia, che è una cosa scelta e costruita. Anche se molti amici scompaiono prima di te. E questo è un grande dolore. Non mi va di ricordare i loro nomi, perché mi sembrerebbe quasi di dimenticarne qualcuno», spiega senza alcuna forma di sentimentalismo. Anche se, a un certo punto, mentre i capelli neri le vanno quasi sugli occhi, tre nomi li pronuncia: «Nora Ricci, Giuseppe Patroni Griffi e Silvana Ottieri, che per me è stata una sorella». A Silvana Ottieri si deve il nome d’arte di Franca Valeri, il cui cognome alla nascita è Norsa, inventato leggendo le poesie di Paul Valéry, pubblicate in Italia da suo zio Valentino Bompiani. Quando il cane Rorò si risveglia uggiolando, Franca Valeri dice: «Se non le dispiace, mi fermerei qui, vorrei ritirarmi, mi sento un poco stanchina». E, a quel punto, intanto che fuori sul piccolo giardino della sua abitazione ha smesso di piovere, mi viene in mente la poesia dedicata da Valéry alle ballerine. Una poesia che sembra scritta proprio per lei, ballerina sotto il cielo del nostro tempo e della nostra storia: «Quelle che sono fiori leggeri son venute, figurine d’oro, bellezze minute dove iride diviene, debole luna...Eccole fuggire melodiose nel bosco rischiarato. Di malva e d’iris e di notturne rose le grazie nella notte, sotto la loro danza, schiuse. Che velati profumi, da quelle dita d’oro!».
Mirella Serri per TuttiLibri della Stampa il 24 settembre 2012. Dai nemici mi guardo io ma dalle amiche mi guardi iddio: la Ghitta che si trova al Forte riceve una letterina dalla sua più intima confidente rimasta sola soletta in città ad agosto. Quest'ultima ringrazia la Ghitta, improvvisata baby sitter che in Versilia si sta prendendo cura non solo dei suoi figli ma pure della sua bambina. La informa pure che nel deserto capoluogo lombardo ha incontrato il coniuge della Ghitta e...sono finiti sotto le lenzuola. Il mondo gira in maniera assai speciale per la pungente Norsa, in arte Valeri con il nome rubato a Paul Valery ("un giorno, dopo uno spettacolo, a Parigi, i figli del poeta mi chiesero se eravamo parenti", racconta la Franca). In barba a ogni tentazione politically correct, che vuole signore e signorine inclini alla solidarietà e al mutuo soccorso, la Valeri - ex Cesira, manicure che sbeffeggiava l'insulsaggine della borghesia milanese, ex signorina Snob ed ex sora Cecioni, popolana romana - da sempre si diverte a fustigare ipocrisie, falsità, cinismo e corbellerie varie declinate al femminile. Lo fa anche nell'ultimo libro, spumeggiante come un calice di Dom Pérignon, bevanda assai gradita alle protagoniste de "Le donne". La 92enne gran protagonista dello spettacolo italiano è in procinto di cominciare le prove della pièce, che presenterà all'Eliseo, "Non tutto è risolto" mentre fa la sua riapparizione l'ironica autobiografia "Bugiarda no, reticente" (i suoi libri sono editi da Einaudi). Il suo sguardo è ancora puntato su pecche e magagne del gentil sesso. "Però sono molto cambiate le signorine e pure le stagionatelle, dagli anni Sessanta in poi, quando le sciure milanesi facevano a gara a rubarsi il marito. Allora c'era la necessità di occultare i tradimenti. Adesso le ragazze, coniugate o meno, le scappatelle se le concedono senza sensi di colpa. Anche se la vita è diventata più difficile e devono fare i conti con maschi sempre più preoccupati, meno attraenti e prede di cui è sempre più difficile impadronirsi", commenta la Valeri. L'attrice-scrittrice abita nei pressi della collina Fleming, il quartiere dove di donne-bersaglio della Sora Cecioni ne girano parecchie con borsoni, cinture d'oro e zatteroni borchiati pure per andare a fare ginnastica. Cosa consiglia dunque di leggere alle fanciulle e alle donne mature?
"Per carità! Non faccio distinzione di genere maschile o femminile. Una delle mie ultime letture è stata La scena perduta di Abraham Yehoshua che ha al centro la vicenda di un regista quasi settantenne, Yair Moses. Troppo cupo, deprimente: così mi sono detta basta! Non mi ha catturato come mi era capitato invece con il suo bellissimo Possesso che misi in scena all'Argentina di Roma", afferma. "Ho preso in mano un vecchio libro di mio padre, tutto consumato, di Anatole France. Che divertimento, le battute giuste, la trama perfetta!", osserva ancora la Valeri mentre accarezza le orecchie vellutate del suo Cavalier King, che si chiama Roro IV, diminutivo di Aroldo in omaggio all'opera di Verdi. "Le mie ‘Donne' nascono dall'osservazione. Per abitudine ho sempre parlato poco e ascoltato molto. E' stata la mia forza. Fin da quando ero una ragazza".
Era una grande lettrice?
"Dostoevskij, Proust, Tolstoj, i classici non mi sono mai mancati. Ma avevo bisogno di muovermi, di uscire, di aprirmi al mondo. Non erano i tempi adatti. Frequentavo il liceo Parini quando mi colpì come una mazzata la legislazione antisemita. Facevo disperare mia madre. Mio padre, a seguito delle famigerate leggi, si rifugiò in Svizzera con suo fratello. A Milano abitavamo prima a via della Spiga e poi in via Mozart ma, per timore di essere intercettate dalla polizia fascista, cambiavamo continuamente alloggio. Non riuscivo a star sempre chiusa tra quattro mura. Per cui uscivo, andavo nei bar, nei ristoranti, mi esponevo alle perquisizioni dei tedeschi". Momenti difficili? "Quando la polizia fascista mi chiese i documenti. Però alcune soddisfazioni me le sono tolte: ero tra la folla minacciosa che sostava davanti al famigerato Hotel Regina che le SS avevano eletto a quartiere generale. Protetti da mezzi corazzati statunitensi, e sotto le armi puntate dei partigiani, gli ufficiali della Wehrmacht e delle SS, abbandonarono l'albergo. Tra quella gente inferocita vidi i tedeschi uscire a testa bassa, mentre gli americani sparavano raffiche di mitra in aria per dissuadere dal linciaggio. Mi stupisco anche di essere riuscita a farmi largo tra la calca di piazzale Loreto per arrivare a pochi metri da Mussolini, la Petacci e i gerarchi a testa in giù. Non posso dire che mi dispiacesse vederli così".
La sua vocazione teatrale? "Ho capito, fin da quando ero molto giovane, che volevo dedicarmi a qualcosa di mia invenzione. Dai primi esperimenti teatrali, sollecitata da letture appassionanti, come Cechov, Turgenev, Shakespeare, Marlowe, i grandi tragici greci, sono passata alla Signorina snob".
Nel dopoguerra si aprono nuovi scenari?
"Ai libri ho sempre chiesto quel che non mi può dare la realtà che mi circonda. Negli anni Sessanta ecco la straordinaria sorpresa rappresentata dall'ironia di Arbasino, oppure ecco il magnifico estro di Carlo Emilio Gadda la cui prosa così difficile ha un ritmo tutto suo. E poi le opere di François-René de Chateaubriand che non mi abbandonano mai. Con la compagnia del Teatro dei Gobbi ottenemmo un grande successo a Parigi, che allora era come andare dall'altra parte del globo, una meta lontanissima. Quando tornammo a Roma e andammo da Silvio d'Amico, direttore dell'accademia d'arte drammatica per chiedergli se ci concedeva il teatrino Eleonora Duse, non gli ricordai che ero stata bocciata all'esame di ammissione. Ma lo capivo. E' facilissimo sbagliarsi su un esaminando. Verdi non fu ammesso al conservatorio che oggi si chiama Giuseppe Verdi".
Il mondo degli artisti in quegli anni era misogino?
"Per nulla. De Sica, per esempio, era straordinario nello stimolare le qualità di recitazione delle sue attrici; Visconti, aristocratico e omosessuale, aveva il culto delle bellissime. Ennio Flaiano era il più caustico verso i difetti femminili ma era fondamentalmente triste e tutta la sua ironia non generava amore per la vita. Strehler, poi, era un genio. Forse la più misogina era Elsa Morante, coltivava soprattutto le amicizie gay e non era ben disposta verso il suo stesso sesso. Ma a una con la sua personalità si perdonava tutto". E i libri in cosa l'hanno aiutata? "Mi hanno sempre dato un senso di libertà e sono stati una spinta a riflettere su di me. Non ho mai conosciuto l'insuccesso perché non ho mai peccato di presunzione e rischiato su qualcosa che non potevo sostenere. Mi piace anche leggere le biografie dei grandi personaggi. Ovviamente sono storie molto diverse, che vanno dalla salute cagionevole di Proust all'esuberanza vitale di Balzac, dalla longevità di Verdi, che continua a produrre capolavori anche in tarda età, alla morte precoce di Vincenzo Bellini a soli 34 anni. In ogni caso nel loro destino c'è una forte spinta che ti incoraggia ad andare avanti. Studiare l'esistenza degli artisti è una scuola di vita".
· E’ morto Ivo Galletti, il papà della mortadella.
Bologna piange Ivo Galletti, il papà della mortadella. Pubblicato venerdì, 07 agosto 2020 da La Repubblica.it. BOLOGNA - È morto ieri, a cento anni festeggiati a marzo scorso, Ivo Galletti, il papà del colosso della mortadella Alcisa di Bologna. Una figura storica per Bologna e per l'Emilia, che ha segnato un'epoca. Industriale del settore agroalimentare, Galletti ha iniziato la sua attività nel settore della macellazione e del commercio della carni. Nel 1946, nel Dopoguerra, ha fondato con il fratello e un socio l'Alcisa il colosso degli insaccati leader per la mortadella di Bologna. Erano gli anni della ricostruzione dalle macerie, l'Alcisa fu per decenni la sua casa, la sua creatura: lui l'imprenditore che si era fatto da solo cominciando a 16 anni nella bottega del salumificio di Ulisse Colombini. La mortadella, che nell'89 ottenne il riconoscimento europeo Igp, divenne il simbolo di Bologna. Nel 2011 disse no agli americani, quel colosso degli insaccati che aveva creato lo cedette ai Grandi salumifici italiani. Negli anni Galletti aveva aggiunto anche il prosciuttificio Alfriuli con sede a San Daniele del Friuli e il Salumificio di Langhirano in provincia di Parma. Non solo, negli anni '50 creò il centro balneare di Principina al mare, in provincia di Grosseto. Costruì un impero allargandolo alla ristorazione, al turismo agli immobili. "Gran Prevosto" della Dotta Confraternita del Tortellino di Bologna, è stato tra i promotori principali del Monumento al Tortellino di Castelfranco Emilia. "Oltre che persona squisita e disponibile in privato, è stato un disinteressato benefattore. Le nostre sincere condoglianze, ciao Ivo", scrive La San Nicola di Castelfranco Emilia dove non mancava alla sagra del tortellino, che aveva fondato, con la sua mortadella da cento chili. Mentre all'Antoniano di Bologna tenne a battesimo il Matterello d’Oro, la gara delle sfogline, le donne che "tirano" la pasta fatta in casa. E lì, alla mensa dei poveri mandava i suoi prodotti. Senza comparire. Nel 1973 ha acquistato il Diana, celebre ristorante di Bologna. Grande amico dell'ex sindaco che espugnò Bologna la rossa, Giorgio Guazzaloca, non amava parlare di sé, essere protagonista delle tante opere di beneficienza a cui era dedito, anche nella sua Piumazzo dove a ristrutturato l'asilo parrocchiale. Dedicò al fratello Gino, scomparso nel 1993, la Fondazione Galletti per lo studio dell’Alzheimer e del morbo di Parkinson. Il 2 giugno 1993 Galletti è stato nominato dall'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro Cavaliere del Lavoro. Nel 2001 il Comune di Bologna gli conferì il premio Nettuno d'oro per avere onorato con la propria attività professionale e pubblica la città. I funerali si terranno sabato 8 agosto alle 10.30 nella chiesa San Giacomo di Piumazzo.
· E’ morto Sergio Zavoli.
Biografia di Sergio Zavoli. Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti".
Ravenna 21 settembre 1923. Giornalista. Politico. Eletto al Senato nel 2001, 2006, 2008 (Ds, Pd). «Vorrei avere una striscia di 15 minuti tutte le sere attorno a mezzanotte per approfondire un tema, un personaggio, un fatto di cronaca... Ma poi penso che sia ormai una cosa fuori dal mio tempo e che a mezzanotte mi convenga andare a dormire».
Inizi nel 1947 al Giornale Radio diretto da Antonio Piccone Stella, prima notorietà con i documentari Scartamento ridotto, Notturno a Cnosso (premio Italia 1954), Clausura (premio Italia 1957, tradotto in sei lingue). Tra i suoi programmi più noti Processo alla tappa (1962-1969), Nascita di una dittatura (1972), La notte della Repubblica (1989). Dal 1976 all’80 fu direttore del Gr1, dall’80 all’86 presidente della Rai.
«Ho fatto, per 50 anni, il mestiere di chiedere. Migliaia e migliaia di domande, ma ricordo un centinaio di risposte. Per esempio, quelle di Paolo VI, Schweitzer, Rostand, Camus, Braque, l’allora sacerdote Ratzinger, Toynbee, Braudel, Abbagnano, Galbraith, Eliot, Borges, Silone, Bobbio, Severino, Luzi, Fellini, cito in disordine. Ogni generazione si rifà, per questo motivo, le stesse domande. Bertrand Russell disse che “il destino dell’uomo è quello di rinnegarsi continuamente”. C’era dell’enfasi, ma non credo fosse molto lontano dalla realtà. Anche se la vita ha in sé il segno di un ostinato ottimismo» (da un’intervista di Luigi Vaccari).
«Dice che le lezioni più convincenti le deve al ciclismo, “una passione, nata non per gli aspetti tecnici né per i risvolti immaginifici, ma frutto di un’esperienza umana, reale e completa”. E dice che “le storie più ricche e sorprendenti le ho sempre sapute dai gregari, che mi parlavano della vita in generale, e mai dai campioni, che invece mi parlavano della loro vita in particolare”» (Marco Pastonesi).
Fu direttore del Mattino di Napoli prima dell’arrivo di Caltagirone.
Sposato, un figlio.
Addio a Sergio Zavoli, l'intellettuale della televisione. Giornalista, scrittore e politico, autore de "La notte della Repubblica", fu presidente della Vigilanza Rai. Si è spento a 96 anni. Alessandra Longo il 05 agosto 2020 su La Repubblica. Quasi ogni giorno, alle 7.30, arrivava la telefonata. Federico Fellini chiamava il suo amico Sergio Zavoli, riminese come lui, sia pur d'adozione e, insieme, facevano il bilancio del mondo: "Ci raccontavamo le cose più diverse anche i sogni", confessava il giornalista che si è spento ieri a Roma a 96 anni. Levità, ironia, immaginazione, talento. Molto li univa. Anche i sogni, per l'appunto. Quei sogni che, sin da piccolo, popolavano la notte di Zavoli. Erano a colori, tanto che i genitori si preoccuparono: "Mi portarono dal medico. All'epoca, gli altri vedevano in bianco e nero...". Lui no. Il futuro radiocronista, condirettore del telegiornale, direttore del Gr, presidente della Rai (dall'80 all'86), narratore e inchiestista tra i più raffinati, scrittore e persino poeta, aveva già una mente che straripava di suggestioni e immagini. La televisione nel suo destino: una missione culturale iniziata nel 1948 (complice Vittorio Veltroni, il padre di Walter), un amore mai tradito, anche nell'ultimo periodo, quello della presidenza alla Commissione vigilanza Rai, quando l'amarezza per il degrado dell'ente pubblico e del Paese era tanta ma sempre sussurrata. Durante l'avvilente tira e molla con Riccardo Villari, avvinghiato alla poltrona, Zavoli si sfogava con gli amici: "Sono tentato di rinunciare, non voglio essere coinvolto in una vicenda che ha preso una piega così misera ma non posso tornare indietro, danneggerei il Pd, le persone che hanno riposto fiducia in me anche a destra, e l'azienda". Senso di responsabilità, spirito di servizio e un'idea etica dell'informazione che nulla ha a che fare con il panorama sguaiato di questo nuovo millennio. Per Zavoli, pur consapevole delle logiche di mercato, la televisione pubblica era, e sarebbe ancora dovuta essere, "uno straordinario mezzo di promozione della crescita culturale e civile della società". "Far conoscere i fatti - diceva - è già un modo di risvegliare le coscienze". Proprio alla sua presidenza Rai toccò una difficile e inedita navigazione, con la fine del monopolio televisivo e la nascita dell'emittenza privata. "Fu un'occasione storica mancata", ripeteva sempre. La Rai avrebbe dovuto accettare la sfida, competere, "distinguersi" per qualità e impegno. Ma così non è stato. Hanno vinto l'appiattimento, la sirena populista, la tentazione al ribasso. Zavoli, il cattosocialista, il "socialista di Dio", come lo chiamavano, prendendo spunto dal titolo di un suo libro, Zavoli capace di rapportarsi al potere e alla politica senza esserne scalfito ("Non sarò stato un campione di intransigenza ma non ho granché di cui arrossire"). Zavoli e tutti i suoi dubbi, le sue angosce, rappresentati nella lectio magistralis per la laurea honoris causa ricevuta nel 2007 all'università Tor Vergata di Roma: "Come trasmettere il senso delle cose comunicate se, per garantirsi il consenso del pubblico, si è fatto largo il costume di privilegiare l'effimero e l'inusuale, il suggestivo e il violento strumentalizzando e banalizzando persino la sacralità della vita e della morte?". Detestava l'informazione "enfatica, ammiccante, strumentale". Non ne ha mai fatta, sin da quella straordinaria innovazione che fu, negli Anni Sessanta, "Processo alla tappa", storica trasmissione di commento al Giro d'Italia. Un viaggio "nel ventre della corsa", come diceva lui, nelle piccole storie umane, sociali, dei gregari dell'Italia di allora. Ecco la corsa di Lucillo Lievore, vicentino di Breganze, 17 minuti di vantaggio dal gruppo. "Non voltarti, tieni duro", gli urlava Zavoli dalla moto, sapendo che, davanti al ciclista in fuga, c'era "un altro corridore, più in fuga di lui". Metafora della vita: "Il mondo non è fatto di primi, vincitori e vincenti, ma di secondi, terzi, ultimi, di gente che arriva fuori tempo massimo pur sputando sangue". Era il suo approccio, il suo modo di fare informazione e avvicinarsi alla verità. Così è nato Tv7, così sono nati i reportage televisivi più belli, "Viaggio intorno all'uomo", "Nascita di una dittatura" e, sopra tutti, "La notte della Repubblica". 50 ore sulla "rivoluzione impossibile del terrorismo".50 ore di domande e risposte, di vedove, di padri delle vittime, di lacrime brigatiste davanti alla telecamera. Un "gioco delle parti", tra lui e i terroristi, "fondato sulla più cruda e persino crudele lealtà". Un faccia a faccia condotto con quella sua voce profonda, piana, non aggressiva, tuttavia severa fino a intimidire, destabilizzare l'interlocutore. Grandi successi (spezzati dall'infelice esperienza della direzione de "Il Mattino di Napoli" nel '94), due Prix Italia, la laurea honoris causa, i libri, e poi la svolta "naturale" in politica, "in ossequio a quell'impegno civico ereditato da mio padre": tre volte senatore con i Ds, con l'Ulivo, con il Pd. Per autorevolezza e carattere, non sarà mai una comparsa, pur lasciando il primo piano ad altri. Lo arruolano improvvisamente nel febbraio 2015 quando si tratta di trovare un nome per la presidenza alla Commissione di vigilanza Rai che metta d'accordo tutti e risolva la grana Villari. Glielo chiede Walter Veltroni, figlio di Vittorio, e Zavoli non sa dire di no. La salute già lo tradisce, la Rai, nell'orbita berlusconiana, è più che mai un contenitore di veleni e colpi bassi. Il gioco si fa duro, forse troppo per un intellettuale della televisione, pur non ingenuo nella navigazione della vita. Sempre più spesso interviene con delle note scritte, quasi a voler amministrare le parole in un'ansia minimalista provocata dall'overdose di voci e polemiche. E' con una lettera che informa Dario Franceschini di averlo scelto tra i candidati alla leadership nel Pd, in nome di quel "riformismo che è la più declamata e disattesa tra le promesse storiche del centrosinistra": Anche sulla morte ragiona da giornalista: "Non vorrei andarmene senza essere presente al congedo. Dopo l'evento della mia nascita, vorrei non perdermi quello, conclusivo, del congedo".
È morto il giornalista Sergio Zavoli. Giornalista, scrittore e politico, lavorò in Rai dal 1947 e ne fu presidente dal 1980 al 1986. Autore di numerosi programmi tv di successo, nonché di libri, entrò in politica e fu parlamentare dal 2001 al 2018. Raffaello Binelli, Mercoledì 05/08/2020 su Il Giornale. Considerato un maestro nel suo campo (Montanelli lo definì "principe del giornalismo televisivo") Sergio Zavoli è morto a 96 anni. Nella sua lunghissima carriera si occupò di tutto: cronaca, sport, terrorismo, politica, cultura.
Narratore e poeta fece il processo al ciclismo. Fu anche presidente della Rai e senatore della Repubblica per quattro legislature.
Nato a Ravenna il 21 settembre 1923, debuttò nel giornalismo ai tempi dell'università, nel 1943, su un giornale dei Gruppi universitari fascisti riminesi. Il grande salto subito dopo la guerra: notato per il suo timbro di voce mentre raccontava, alla radio, il derby Rimini-Ravenna, nel 1947 iniziò a a lavorare per la Rai. Passato alla tv nel 1962 ideò un programma sportivo di grandissimo successo, "Processo alla tappa", in cui ogni giorno si analizzavano i fatti salienti del Giro d'Italia. Un'altra pietra miliare sul piccolo schermo fu "La notte della Repubblica", una lunga inchiesta sugli anni di piombo in diciotto puntate.
Conduttore e autore di altri programmi di successo, come "Nascita di una dittatura", dal 1980 al 1986 fu presidente della Rai. Scrisse vari saggi, come "Viaggio intorno all'uomo" (1969), "Nascita di una dittatura" (1973), "La notte della Repubblica" (1992), legati a sue trasmissioni televisive. Pubblicò anche altri libri: "Dieci anni della nostra vita: 1935-1945" (1960); "Altri vent'anni della nostra vita: 1945-65" (1965); "Figli del labirinto" (1974); "Socialista di Dio" (1981); "Romanza" (1987); "Di questo passo" (1993); "Un cauto guardare" (1995); "Dossier cancro" (1999); "Il dolore inutile" (2002); "Diario di un cronista" (2002); "La questione: eclissi di Dio e della storia" (2007). Nel 2011 uscì il suo libro autobiografico "Il ragazzo che io fui", un viaggio nella memoria dell'Italia.
Eletto al Senato nelle liste dei Democratici di sinistra nel 2001, nelle liste dell'Ulivo nel 2006 e nel Partito democratico nel 2008 e nel 2013. È stato presidente della commissione di Vigilanza Rai dal 2009 al 2013.
L'ultimo desiderio di Zavoli è di "essere riportato a Rimini e riposare accanto a Federico Fellini". Lo ha fatto sapere la famiglia del giornalista al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi, che ha reso nota la volontà. "Tanti anni fa - ricorda il sindaco - in un racconto Zavoli aveva scritto che a Rimini un giorno sarebbe tornato "per stare, perché bisogna morire a casa, sentendo i rumori della tua strada, sapendo che da quella finestra entra odore di mare, contando le ore sui suoni e le luci che sono trascorse intorno a te dall'infanzia, quasi udendo le voci che stagnano nel bar, essendo vivo fino alla fine, insomma sino a quando non senti che queste cose ti lasciano amichevolmente morire". "Lo aveva scritto tanti anni fa. E lo ha fatto - aggiunge il primo cittadino di Rimini -. Ci ha chiesto di potere riposare per sempre accanto all'amico Federico. Per proseguire insieme il viaggio. Per ridere, scherzare. Per raccontare. Per dare suono comprensibile all'anima, anzi alle anime dei grandi e degli umili, dei potenti e degli indifesi, di chi aspetta solo che gli si dia voce uscendo per un giorno dall'anonimato. Tutti trattati allo stesso modo, con rigore e allo stesso tempo facendo prevalere la curiosità per l'essere umano e i suoi misteri, la sua impronta allo stesso unica e esemplare. Ma, prima di tutto, ascoltando".
In una nota Viale Mazzini scrive che la scomparsa di Zavoli "rappresenta una perdita incolmabile non solo per la Rai, con la quale la sua storia professionale e personale è profondamente intrecciata, ma per tutto il Paese. dopo aver esordito in radio ed aver dato anche in quei primi anni il suo insostituibile contributo, Sergio Zavoli, successivamente impegnato con spessore e intelligenza nel giornalismo sportivo, ha firmato inchieste articolate e penetranti che hanno segnato in profondità la storia civile del paese: approfondimenti come 'Nascita di una dittatura' e 'La notte della Repubblica' hanno ripercorso in forma problematica pagine drammatiche di storia nazionale mettendo in luce elementi di debolezza e anche capacità di riscatto della società italiana in quei cruciali passaggi".
"Una perdita enorme per la cultura italiana - afferma Dario Franceschini, ministro per i beni e le attività culturali -un fortissimo dolore personale. Zavoli è stato un riferimento e un maestro per intere generazioni di giornalisti, ma è stato anche narratore, uomo di cinema, poeta, parlamentare. Io ho potuto diventarne amico e mi mancheranno la forza tranquilla della sua saggezza, la quiete della sue parole, la saldezza dei suoi valori".
"È stato un maestro di giornalismo e di cultura", dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. "Ha raccontato l'Italia con originalità, saggezza e competenza. Si è occupato di storia, di politica, di sport. E qualsiasi argomento abbia affrontato lo ha analizzato con sapienza e con grande capacità narrativa. Una solida cultura di base gli ha consentito di svolgere al meglio la sua attività di giornalista e di storico. Dopo un intenso impegno nell'ambito della Rai e al vertice stesso del servizio pubblico radiotelevisivo ho avuto modo di confrontarmi con lui nella sua attività parlamentare e in particolare durante la fase di presidenza della Commissione di vigilanza della Rai. Da Zavoli c'era sempre qualcosa da apprendere. Un episodio da analizzare con maggiore attenzione. Voglio rendere omaggio alla sua figura con sincera commozione e memore di tanti scambi di idee che abbiamo avuto a Palazzo Madama e a San Macuto dove ha sede la Commissione di vigilanza della Rai".
Addio Sergio Zavoli, onore al cronista. Quando Berselli lo definiva giornalista al quadrato.
Scompare a 96 anni un uomo che ha fatto la storia della televisione. Da "La notte della Repubblica" alle trasmissioni sul ciclismo, dai racconti sul Vietnam agli incontri con i grandi della terra. Ripubblichiamo il ritratto che Berselli ne fece in occasione della laurea honoris causa in giornalismo. L'Espresso il 5 agosto 2020. È morto ieri sera a Roma Sergio Zavoli, maestro del giornalismo televisivo. Aveva 96 anni. Padre di programmi storici come La notte della Repubblica, è stato radiocronista, condirettore del telegiornale, direttore del Gr, presidente della Rai dal 1980 al 1986, autore di inchieste che hanno segnato la storia. Ripubblichiamo qui un articolo del nostro compianto Edmondo Berselli, scritto nel 2007 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giornalismo .
Onore al cronista . Una laurea honoris causa in giornalismo a Sergio Zavoli assomiglia a una tautologia. Laureare in giornalismo il più noto giornalista televisivo italiano: laurea e giornalismo al quadrato. Ma il fatto che lunedì scorso l'Università di Roma Tor Vergata abbia assegnato questa onorificenza a Zavoli consente non soltanto di ripercorrere una carriera ricchissima. Perché è vero che il curriculum di Zavoli, oggi senatore della Repubblica, è impressionante. Si potrebbero citare programmi come "La notte della Repubblica" o "Nascita di una dittatura", ma anche una foltissima serie di pubblicazioni, da cronista, da narratore e anche da poeta. Eppure alla fine, di Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923 ma riminese di fatto come il suo amico Federico Fellini, rimane soprattutto il cronista. Cioè il giornalista che ha reinventato il ciclismo con il "Processo alla tappa", e che ha raccontato il Vietnam, l'Algeria, la Somalia; che ha incontrato i grandi della terra, da Schweitzer a Von Braun. Ma soprattutto che ha sempre iscritto la cronaca in un contesto: storico, naturalmente, ma anche politico e in fondo morale. Sicché a ripensare ai suoi grandi reportage viene da chiedersi se esista ancora una traccia di questa forma di giornalismo: vale a dire se il lungo viaggio di Zavoli abbia lasciato il solco di una tradizione, oppure se il suo lavoro appartenga ormai a un'altra epoca, a un'altra televisione. O a un'altra cultura. Se lo è chiesto anche lo stesso Zavoli, nella sua “lectio magistralis”: "Come trasmettere anche il senso delle cose comunicate se, per garantirsi il consenso del pubblico, si è fatto largo il costume di privilegiare l'effimero e l'inusuale, il suggestivo e il violento, strumentalizzando e banalizzando persino la sacralità della vita e della morte? Di questo passo, dovremo arrenderci alla spettacolarità del reale con la discolpa del disordine che lo governa?". Si tratta di una domanda a suo modo decisiva. Che presuppone un'etica del giornalismo in un'epoca che sembra rifiutare codici e sistemi di riferimento. La potenza della televisione contemporanea implica proprio la possibilità di esaltare il frammentario, lo scandaloso, il mutevole capriccio della realtà. Ritrovare nella principesca (come diceva Indro Montanelli) lezione di Zavoli i principi di un giornalismo di livello altissimo può essere anche l'occasione per domandarsi se un'altra televisione sia ancora possibile.
Sergio Zavoli, l’uomo che riusciva a interpretare persino i sogni di Fellini. Il ricordo di Ugo Intini su Il Dubbio il 5 agosto 2020. Ugo Intini ricorda il giornalista scomparso oggi all’età di 96 anni. L’intellettuale che sapeva raccontare la vita, lo sport, la storia con cuore e rigore. Sergio Zavoli era un vecchio socialista umanitario: con il cuore prima che con la testa. E infatti siamo stati amici per decenni. Era un grande lavoratore , concreto e professionale, ma con imprevedibili tratti di poesia e fantasia. Mi vengono alla mente due flash. Come si sa, era per Federico Fellini come un fratello. Li legava la fanciullezza nella loro Rimini immortalata da Amarcord. Oggi molti scrivono delle loro telefonate mattutine. Ma anni fa (e mi impressionò) Zavoli mi raccontò un giorno soprattutto dei sogni. Fellini sognava moltissimo (e non c’è da stupirsi se sipensa alle scene oniriche dei suoi film). Al mattino presto, poiché lo considerava un saggio e affidato interprete, gli raccontava l’ultimo sogno nei minimi particolari. Non gli dava tregua sino a che il povero Sergio forniva una spiegazione convincente e condivisa. Un altro flash si riferisce a un episodio del quale a Zavoli non ho mai parlato, perché per me imbarazzante. Non so in quale mattina d’estate, c’era urgenza di designare il presidente della Biennale di Venezia. Craxi, che conosceva i miei rapporti con Zavoli, mi chiese di telefonargli e proporgli l’incarico. A quei tempi, non si usavano i cellulari. Telefonai a casa e la moglie mi rispose. “No, è impossibile raggiungere Sergio: è andato in Toscana nei roseti, a scegliere i fiori da piantare“. Non le precisai l’argomento, la candidatura fu poi lestamente sostituita da altre. E non dissi più niente a Zavoli. Sergio era l’esempio di come grandi intellettuali e giornalisti non debbano necessariamente chiudersi nelle specializzazioni. Resterà sempre famoso per le sue mitiche cronache sul ciclismo e il giro d’Italia, che entusiasmavano i papà e facevano piangere me, da bambino, quando il mio campione perdeva. Ma resterà famoso anche per le trasmissioni sulla “Notte della Repubblica“, nelle quali ricostruì gli anni del terrorismo con efficacia ed equilibrio mai più superato (trasmissioni riproposte ancora nelle ultime settimane da Rai3). A proposito di Rai, al di là degli aspetti personali, la storia di Zavoli la dice lunga su quanto la retorica“ antipartitocratica“ abbia deformato l’immagine della prima Repubblica. Sì. I partiti interpretavano le diverse tendenze della società italiana che pertanto tutte venivano rappresentate ai vertici della Rai. A parte le degenerazioni e forzature, questa era la logica della “lottizzazione“, oggi diventata lotta di potere fine a se stessa. I partiti avevano giornali con collaboratori di livello culturale e professionale altissimo: tutti, dall’estrema destra sino all’estrema sinistra. E infatti, quando dirigevo l’Avanti! telefonavo a Zavoli e in due ore mi mandava l’articolo. Quando i socialisti ebbero la possibilità di designarlo, portarono alla presidenza della Rai prima Paolo Grassi e poi-appunto-Sergio Zavoli. Grassi era il più grande uomo di teatro forse del mondo. Uno che parlava da pari a pari con Bertold Brecht e Laurence Olivier. Uno che il ministro della cultura francese Jack Lang definiva pubblicamente il suo maestro. Di Sergio Zavoli, che gli succedette, leggeremo ampiamente sui giornali di oggi. Quando lui era presidente della Rai, io ero il responsabile per l’informazione del partito socialista e tenevo pertanto i rapporti con giornali e televisione. Qualcuno pensa che volessi o potessi dargli ordini? Se ancora oggi si dice che la Rai è “la più grande azienda culturale del Paese“ (e una delle più grandi d’Europa) lo si dice perché ancora si campa temo immeritatamente sul prestigio costruito da personalità come Paolo Grassi e Sergio Zavoli (non per caso, grandi amici tra loro).
Addio a Sergio Zavoli, “Treccani” televisiva: riposerà accanto a Fellini. Fulvio Abbate su Il Riformista il 6 Agosto 2020. Sergio Zavoli era nella sua voce, in quel timbro, l’incedere, la tessitura, il tono che mostrava e infine si incideva sul nastro magnetico dei supporti audio e infine video, con la stessa assolutezza, mai sgranata, di una “voce” enciclopedica, altrove destinata alla “Treccani”. Meglio, a suo modo, con la sua cifra stilistica, Zavoli è stato la nostra “Treccani” televisiva, il suo canone principale, tradizionale, comunque irripetibile, per asciuttezza, tenuta nel tempo; ancora adesso, riascoltandolo, mai potremmo assimilarlo alle voci dell’ormai oltretomba radiofonica dei telecronisti, i Carosio, i Filogamo, dello stesso Corrado Mantoni che annuncia la fine della seconda guerra mondiale, no, nessuna formalina del tempo a opacizzarne la voce, nel suo caso. Zavoli, qualunque argomento o oggetto prendesse per mano e microfono, “Il Giro d’Italia”, con il patema d’ogni sua tappa, con il “Processo”, una sua invenzione; o piuttosto i misteri della Repubblica, la “notte” di questa, resta intatta nella cifra della modernità. Ora che se n’è andato saremo costretti, tutti, ancora una volta, la definitiva, a riconoscere che nel suo lavoro, il giornalista, il cronista, l’uomo, l’intellettuale, custodiva la meticolosa grazia dello studio, attitudine propria d’ogni storico. Accade sia quando, golfino blu, segue, e sono i primi anni 60, le “emissioni” televisive dedicate, appunto, all’epos primo-pomeridiano del Giro d’Italia, il suo “processo alla tappa”, il microfono da porgere, anche in piena corsa, a un Gimondi, un Merckx in lacrime perché trovato positivo al doping, un Adorni, un gregario portatore di borracce, ora trafelati ora sorridenti accanto alle miss che donano loro sorrisi e gladioli, sia quando nei primi anni 70 concepisce e vara un progetto televisivo, narrativo monumentale, “Nascita di una dittatura”. Lì si tratta, avvalendosi dei testimoni diretti ancora in vita, di restituire la genesi e i germi del fascismo; alle spalle dell’ospite, una scenografia scarna, immersa nel bianco e nero, lo schermo e una poltrona da studio, e intanto i volti e le voci di Parri, Terracini, Rachele Guidi a sciogliere il filo delle vicende: esatto, una semplice poltrona “Mim” ad accogliere i racconti altrui, e ancora, Amadeo Bordiga, il fondatore del Pcd’I, già colpito da ictus, che consegna alle teche a venire un documento irripetibile. E ancora c’è da ricordarlo mentre, affacciato al suo balcone, nel cortile di un comprensorio popolare di Imola, nel 1964, intervista Augusto Masetti, il soldato che nel 1910 aveva sparato al colonnello inneggiando all’anarchia e contro la guerra di Libia, durante i giorni della “Settimana Rossa” del 1914: Masetti, simbolo dell’antimilitarismo, anche lì la sua voce ci consegna un racconto, lo accoglie. Definirla garbata parrebbe improprio, così come accennare all’autorevolezza, perché Zavoli in verità sta al tema, al discorso, al giornalismo, con la precisione che gli è propria, mai un picco, un aggettivo in eccesso, nel suo mestiere di cronista l’uomo deve aver compreso a fondo la regola logico-filosofica della ridondanza, che si apprende usando lo stile essenziale, icastico, del telegramma. Verrà anche, per lui e per noi, i suoi spettatori, il racconto ulteriore di “La notte della Repubblica” (1989-1990), così da restituire e indagare, come in un basso continuo, in 18 puntate, la “strategia della tensione”: dalla strage di piazza Fontana alla rivolta del ’68, poi la nascita delle Brigate Rosse, il movimento del ’77, il rapimento e il delitto Moro, la strage di Bologna, un bouquet di ospiti preziosi per la filologia e la cronologia dei fatti, da Corrado Stajano a Pietro Valpreda, da Mambro e Fioravanti a Patrizio Peci. Socialista, Zavoli sarà presidente della Rai dal 1980 al 1986, infine senatore della Repubblica sotto le insegne dei Democratici di sinistra e ancora con il Partito democratico, infine anche il presidente della commissione di vigilanza Rai dal 2009 al 2013. Una vita da senatore, appunto, in senso assai ampio, con onori meritati e onorificenze, Sergio Wolmar Zavoli era nato a Ravenna il 21 settembre del 1923, l’esordio nel 1943 in un giornale dei Guf di Rimini, verrà poi la radio, il cominciamento di tutto, della cifra Zavoli. Nel 2007 una laurea honoris causa dalla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. Era amico di Federico Fellini, conterranei, compagni di condivisioni, forse anche di avventure, certamente di pensieri, la famiglia infatti ha trasmesso al sindaco il desiderio di Sergio di «essere riportato a Rimini e riposare accanto a Federico». Di quest’ultimo, Zavoli diceva: «Aveva avuto i suoi sortilegi: donne come capodogli, fughe di Bach e marcette di clown, mari e cieli sempre azzurri. E, su tutto, un vento carezzevole: la vita». La compostezza rigorosa dell’uno accanto alla volatilità onirica dell’altro. Nel 1969 porterà Pasolini al processo alla tappa, a raccontare a Vittorio Adorni il suo amore per il ciclismo, a confessare che il volto di Vito Taccone sarebbe stato perfetto in un suo film, e intanto Zavoli, sigaretta in bocca, ad ascoltare assorto.
Marco Giusti per ''il manifesto'' il 7 agosto 2020. Taccone, Pasolini, Adorni, Bitossi, Zilioli, Motta, Gimondi, Anquetil, Merckx… Me li ricordo tutti perfettamente avvolti in quel meraviglioso bianco e nero della Rai anni ’60. Per chi non si è persa una sola puntata del “Processo alla tappa”, storica trasmissione che ragionava in termini appunto di processo, alternando un linguaggio colto a quello più popolare per giudicare chi veramente aveva vinto e chi avrebbe meritato di vincere, Sergio Zavoli, scomparso oggi a 96 anni, era un personaggio amato ma anche un po’ odiato. Amato perché quel tipo di programma, partito con sei anni alla radio e poi sette in tv (1962-69), era davvero un’idea sua e un modello di tv sua, quasi sempre più forte della gara che vedevamo prima con l’immagine che spesso strappava e gli arrivi commentati dal grande De Zan. Odiato, e lo ricordo bene, perché nei suoi interventi, nelle sue interviste ai ciclisti meno istruiti c’era sempre una vena tra il mieloso, il patetico, che mascherava una qualche superiorità paternalistica. Senza essere ancora coscientemente rosselliniani, la presenza così realistica al Processo di un Pasolini o di un Taccone, forse il ciclista più sanguigno che avessimo mai visto al tempo, mostrava la strada popolare e, per noi, comunista, del fare televisione e magari di parlare di sport. Ma non ci rendevamo conto che il teatrino, che prevedeva la parte realistico-rosselliniana e quella più lacrimosa zavoliana era stato imbandito e preparato con cura dallo stesso Zavoli. Faceva cioè parte dello stesso gioco. Come l’offrire a tutti, ma proprio a tutti, l’occasione di sganciare una bomba in diretta tv, perché allora quello era il programma seguito d’Italia… Ancora oggi il Processo alla tappa” rimane una delle punte più alte e meravigliose di tutta la nostra esperienza televisiva di spettatori. Certo, Zavoli è stato anche un grande documentarista e un grande giornalista. Per la rubrica “Incontri”, a cura di Pio De Berti Gambini, dette vita a programmi leggendari. “Un’ora e mezzo con Federico Fellini”, ad esempio, dove, oltre a intervistare tutti, da Giulietta Masina a Leopoldo Trieste, da Sergio Amidei a Nino Rota, da Anouk Aimée a Yvonne Forneaux, oltre a parlare con Fellini sapendo tutto di lui, poteva chiedere una battuta sul regista a Jean-Paul Sartre, Evtushenko, Arthur Miller. Che non sono due domande marzulliane, con tutto il rispetto, a Walter Veltroni o a Goffredo Fofi o alle star di oggi, da Favino a Cortellesi. Altri tempi, si dirà, e altra televisione. Sempre per “Incontri” realizzò un celebre programma sul Dottor Schweitzer, un altro su Werner Von Braun, l’inventore dei V-2 poi a capo della Nasa pronto a partire per lo sbarco sulla luna, un altro su Martin Luther King. Intervistò anche personaggi meno noti, come il comandante della nave Raffaello, Oscar Libari, o il direttore tecnico della Nazionale Edmondo Fabbri. Anche lì ci fu chi arricciò il naso di fronte al metodo Zavoli. Alle interviste fatte, come si scrisse allora “con sotto un braccio Cuore e sotto l’altro De Sade”. Così c’è chi trovava un po’ fuori luogo l’ironia di certe sue domande a Fabbri, odiatissimo in Italia dopo la sconfitta epocale con la Corea, Altre volte, leggo su un vecchio “Corriere della Sera”, “la crudeltà di Zavoli ha avuto la raffinatezza dei silenzi, lunghi minuti di vuoto della colonna sonora, la telecamera che scruta il volto del vecchio uomo di mare…”. Al punto che “c’è il sospetto che da queste interviste non esca il vero personaggio, ma il personaggio che Zavoli vorrebbe fosse e che cerca di ottenere con forzature a parer nostro inopportune”. Ma non è questo, alla fine, fare televisione? Per Tv7, altro storica testate del TG, realizza un celebre reportage in Congo che prese il posto di un dramma di Dessì che avrebbe potuto dispiacere parecchio al Ministro Gonella. Ma il suo lavoro in Congo era notevole, come lo era il suo programma sulla guerra d’Algeria nel 1962, che gli procurò parecchie inimicizie in Italia fra i sostenitori dell’O.A.S. Leggo che nel 1966, in un sondaggio fatto dalla “Domenica del Corriere” Sergio Zavoli è settimo come popolarità fra i “televisivi”, dopo Gino Cervi, Corrado, Alberto Lupo, Johnny Dorelli, Enzo Tortora e Pippo Baudo. Ma è anche l’unico giornalista e l’unico che faccia programmi importanti. Firma, assieme a Enzo Biagi, i testi di un film sul Duce nel 1962, “Benito Mussolini”, diretto da Pasquale Prunas. In un mondo che tendeva a dividere ieri più che oggi ciò che è tv dal cinema, i testi di Biagi e Zavoli non piacciono ai critici. Troppo invadenti. Con il cinema non ha mai avuto buoni rapporti, anche se è uno stagista alla regia su Il grido di Michelangelo Antonioni e è davvero amico fraterno di Fellini. Ma i suoi programmi migliori, quelli che vincono i premi del tempo, sono un documentario sulle monache di clausura del 1957, Clausura, uno sulla casa di Alfredo Panzini, un servizio sulla divisione di due gemelle siamesi. Pura televisione. E in televisione, a parte le parentesi dirigenziali, direttore del Tg1 nel 1969, del Gr1 nel 1976, addirittura Presidente della Rai dal 1980 al 1986, realizzerà programmi storici che Paolo Mieli, francamente, si sogna. “Nascita di una dittatura” del 1972, “Viaggio intorno all’uomo”, e “La notte della repubblica” del 1989, che è forse il programma più ricco, documentato e completo che si sia mai fatto sul periodo della lotta armata in Italia con interviste memorabili. Mi ricordo che a “Blob” non era facile inserire le interviste di Zavoli tratte da “La notte della repubblica”, troppo drammatiche. Ma avevano una forza di verità, di documento che mi fecero tornare ai tempi del “Processo alla tappa”. Qui però c’era uno Zavoli ormai vecchio che non giudicava, che non indicava, che non si sentiva superiore. Grande televisione.
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' l'8 agosto 2020. Sul Forum «TeleVisioni» del Corriere (come social sarà un po' antiquato, ma per me è una formidabile palestra di idee) una lettrice si lamenta: «Tutti allievi di Zavoli, da cui si deduce che è stato un grande ma non un bravo maestro». Già, ma quanto di indebito c' è nell' appropriarsi del magistero di Zavoli? Nei molti omaggi che la Rai ha reso al grande giornalista, lasciando perdere la vanità e i personalismi («Quella volta che Zavoli mi ha detto», «Io e Sergio eravamo», «Ho iniziato perché lui mi ha incoraggiato», «Mi stimava molto»), il numero di chi ha dichiarato di considerare Zavoli come maestro è esorbitante. Tanto lui non può più smentire. Restano solo i programmi, del maestro e dei presunti allievi, che parlano, eccome se parlano! «Senza i servizi di Zavoli non avrei mai imparato il mestiere», dichiara un conduttore la cui tv mi sembra mille miglia lontana dal modello aureo. «Un grande amico, prima ancora che un grande maestro», lo definisce un altro sul cui modo di fare tv il magistero zavoliano sembrerebbe non aver lasciato grandi segni. «Noi giornalisti che proviamo a fare una televisione di cui non vergognarci troppo», si eleva un altro in cerca di eredità. Impudico continua: «Quelli come me hanno un debito verso questo grande maestro fatto tutto di televisione, di stile, di linguaggio, di parola, di rigore e rispetto profondo verso il mestiere di cronista che in qualche caso può farsi storia». «Un maestro fatto tutto di televisione?», si sarebbe chiesto Achille Campanile. Nella retorica funeraria l' arte di sottrarsi non viene mai presa in considerazione, l' io delle prefiche è così debordante che l' elogio funebre si tramuta in un' autocelebrazione. È il modello della corte. Descritto da Elias Canetti in Massa e potere : gli uomini che la formano «sono tutti uguali proprio in quanto cortigiani, e formano un' unità da cui irraggia un' uniforme norma di vita». Sopravvivere è già potere.
Carlo Freccero per “la Stampa” il 6 agosto 2020. Viviamo una strana epoca. Si buttano giù i monumenti e contemporaneamente si celebra, in tv, la morte di un monumento Rai. Ma, proprio a causa delle celebrazioni, sorge spontanea la domanda: chi oggi conosce Zavoli? Chi è Zavoli, per i giovani di oggi o semplicemente per quella fascia media di ascoltatori e lettori a cui la celebrazione si indirizza? Penso che molti se non tutti, si chiedano di chi stiamo parlando. Perché viviamo in un'epoca di perdita della memoria, di rimozione del passato. Zavoli è celebrato come intellettuale. Un intellettuale è il contrario di un influencer. Un intellettuale deve instillare il dubbio e combattere le certezze. L'influencer frequenta solo certezze e fa suoi i miti di oggi: visibilità e successo. Zavoli rimane invece un punto di riferimento critico. Però, sul piano della comunicazione, bisogna ammettere che se Zavoli è diventato quello che è diventato, ha potuto farlo perché, a sua volta, aveva costruito una sua credibilità di massa e popolare, attraverso la sua carriera precedente di commentatore. Anche Zavoli, l'intellettuale, ha una preistoria di influencer, costruita su quello che era allora lo sport nazionalpopolare per eccellenza: non il calcio, ma il ciclismo. Il ciclismo era allora uno sport non globalizzato, ma limitato ad una serie ristretta di paesi: Italia, Francia, Belgio e pochi altri. Zavoli esordisce con il processo alla Tappa e mostra subito un taglio originale e inedito nei suoi reportage. Non si limita a centrare l'obiettivo sulle star assolute della tappa. Con un taglio originale e inedito comincia a conferire la parola ai gregari, alle figure di contorno, all'umanità che ruota intorno a quello che era allora lo star system dello sport, riportandolo alla condizione umana e quotidiana dei suoi ascoltatori. In particolare, pur essendo in tv e non in radio, riesce a fare della sua voce una specie di «icona» dotata di autorevolezza. Si accredita come narratore «l'Omero» del ciclismo, sport povero, ma epico e condiviso (chiunque andava allora in bicicletta). Quella stessa voce pacata e autorevole, farà da filo conduttore a quello che rimane per me il suo capolavoro: l'inchiesta La notte della Repubblica. E prima di questo all'inchiesta sul fascismo Nascita di una dittatura. Con queste benemerenze sportive, non ci aspetteremmo gli sviluppi successivi della carriera di Zavoli. Dall’80 all’86 diventa presidente della Rai. Vorrei fare presente la funzione di Zavoli che ritengo fondamentale per la storia della tv italiana. Nel 79, con la nascita di Canale 5, la Rai è obbligata ad uscire dal suo ruolo puro di servizio pubblico per misurarsi con l'audience. Il servizio pubblico è passato alla storia per la sua funzione pedagogica «pura» che ha avuto nella figura di Bernabei il suo maggior artefice. E' una tv «sussidiario» atta a insegnare agli italiani la cultura generale e a promuovere l'unificazione linguistica del paese. Zavoli interviene dopo, quando la funzione pedagogica non può più funzionare e prima che, il servizio pubblico stesso, passi alla tv industriale e poi all'appiattimento odierno in cui le tv generaliste non sono più distinguibili tra loro. Negli anni d'oro della tv commerciale, Zavoli conferisce al servizio pubblico una nuova identità per molti versi più autorevole della precedente: traghetta la Rai dalla pedagogia all'informazione, dal sussidiario all'inchiesta. Se non può più fare pedagogia, la Rai farà informazione. Se non può più insegnare, farà ricerca sulle radici storiche del paese, sul suo passato recente e sui misteri che sono alla base della sua identità di ieri e sono oggi ancora attuali. Ieri era l'anniversario della strage di Bologna. Le stragi sono ancora oggi irrisolte e nello stesso tempo percepite dall'opinione pubblica come essenziali per comprendere il presente. Si capisce quindi quanto rivoluzionaria sia stata La notte della Repubblica. Dubito che con la censura di oggi un programma così potrebbe ancora andare in onda. Si dava la parola a tutti, vittime e carnefici, osservatori ma anche artefici del terrorismo, non «politicamente corretti». Eppure, per capire quella stagione disperata anche la voce dei terroristi era essenziale: a posteriori, scoprivano di essere stati manipolati e usati, da un disegno di cui, loro stessi, non avevano avuto il controllo. A titolo di storiografia vorrei citare il dibattito finale della trasmissione come matrice di tanti talk show successivi. Da lì inizia una nuova tv partecipata che si incrocia ed interseca con la tv verità di Guglielmi e Santoro. Per chi l'ha vissuta è stata un'epoca mitica di resistenza televisiva.
Mattia Feltri per “la Stampa”il 6 agosto 2020. Ho conosciuto Sergio Zavoli in treno, un remoto pomeriggio. Stavo leggendo un saggio di antropologia del Guangxi di Huang Xianfan, quando mi apparve di fronte. Aveva trovato interessanti alcune cose scritte da me, e sperava di discuterne. In particolare voleva approfondire una mia interpretazione sul ruolo del generale Pisudski nella nascita delle dittature nazionaliste, a mio modo di vedere ispirato alla teoria del diritto privato in Haller. Mi ascoltava silente, talvolta prendeva appunti con una grafia fitta e febbrile. Nel suo sguardo teso lessi la grandezza. Prendemmo una bottiglia di Pommery alla carrozza bar e brindammo in flüte di plastica alla nuova amicizia. Mi chiese se amassi Rainer Maria Rilke. Perdutamente, risposi. Cominciò a recitarne una poesia (« la vita ha vincoli d'oro / più forte la vogliamo afferrare»), e a sentirmi proseguire in tedesco (« wir haben Stille und Sturm / die bauen und bilden us beide») si abbandonò allo stupore e alla commozione. All'altezza di Orte, il capotreno ci portò ostriche e birra d'abbazia. Il cibo viene meno nel momento che ristora, disse citando Sant' Agostino. La mia filosofia del nutrirsi, risposi, è crociana: Cotica e Politica. Rise molto dell'arguzia. L'arrivo a Roma ci sorprese nel vivo di una discussione sulla sacrificabilità di tutto Tolstoj in cambio di un perfetto passo di minuetto. La sua cultura mi aveva avvinto. Ci abbracciammo, ripromettendoci di arricchire di prossimi incontri il sodalizio. Pochi minuti dopo mi squillò il telefono. Era lui: «Caro Mattia, tu sei». Vabbè, confesso, è tutto inventato. È che sembro l'unico scemo che non è stato il miglior amico di Zavoli.
Frank Cimini per “il Riformista” il 6 agosto 2020. Sergio Zavoli è stato un grande del giornalismo. Tutti lo ricordano come ideatore del “Processo alla tappa” e per la “Notte della Repubblica”. Tutti, me compreso. Ma non ho certo un bel ricordo di Zavoli come direttore de “Il Mattino” di Napoli negli anni dell’inchiesta Mani pulite. Era arrivato al posto di Pasquale Nonno, che aveva avuto una posizione critica sull’operazione politico-giudiziaria, da garantista. Con Zavoli io al palazzo di corso di Porta Vittoria passai dal giorno alla notte. Zavoli era schierato dalla parte del pool. Non c’era verso di scrivere sulle carcerazioni preventive fatte con lo scopo di ottenere confessioni, sui mille pesi mille misure dell’inchiesta. Una delle pochissime volte in cui riuscii a far passare un pezzo critico, Zavoli si infuriò con un caposervizio per il titolo “La memoria corta di De Benedetti”. L’Ingegnere aveva “collaborato” presentando un elenco di tangenti pagate che però si rivelò lacunoso. Il titolo non fu apprezzato e da allora il mio lavoro venne guardato dal direttore con sempre maggiore sospetto. Prese la via del cestino un pezzo sul coinvolgimento del Pci-Pds nell’inchiesta Enimont perché quel fine settimana si votava a Napoli, scontro tra la Mussolini e Bassolino. Uguale sorte ebbe un altro articolo relativo ad accertamenti su Fininvest, che aveva pagato per uno stand alla Festa dell’Unita’. E il problema non era certo la Fininvest. Intendiamoci, tutti i giornali erano schierati col mitico pool e fino al 1994 anche le tv di Berlusconi, il quale fece a fatica a capire che il “nuovo” puntava proprio diritto su di lui. Zavoli era parte integrante dell’establishment, i padroni dei giornali a causa dei loro affari erano sotto lo schiaffo del pool. Le linee editoriali furono il frutto di un do ut des proprio nel pieno della “lotta alla corruzione”. Zavoli non se ne accorse. Venne usato dall’azienda, che gli permise di spendere un sacco di soldi ipotizzando anche una sontuosa redazione a Milano che in verità non vide mai la luce. Poi, una volta cacciato lui, al “Mattino” parti’ uno dei primi stati di crisi: uno di una lunga serie che continua ancora oggi nei giornali italiani, con costi esorbitanti scaricati sui contribuenti e sull’Inpgi. Ne stiamo pagando ancora le conseguenze. Pure in questo Zavoli fu un precursore, come per il “Processo alla tappa”.
· È morto l’attore Reni Santoni.
È morto Reni Santoni, volto di cinema e tv. Accanto a Eastwood e Stallone. Pubblicato martedì, 04 agosto 2020 da La Repubblica.it. L'attore statunitense Reni Santoni, apparso con Clint Eastwood e Sylvester Stallone in film di successo e volto popolare di tanti telefilm, è morto sabato scorso in una casa di riposo di Los Angeles all'età di 81 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla produttrice e sceneggiatrice televisiva Tracy Newman a The Hollywood Reporter, precisando che Santoni era da diversi anni malato di un tumore. Nato a New York il 21 aprile 1939 da una famiglia di origini córse e spagnole, Reni Santoni iniziò la carriera artistica nei teatri di Off Broadway e debuttò sul grande schermo nel 1964 con una piccola parte nel film L'uomo del banco dei pegni diretto da Sidney Lumet e interpretato da Rod Steiger. A cinema Santoni ha vestito i panni di una lunga serie di personaggi ispanici quali l'ispettore Chico Gonzalez nel poliziesco Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (1971) di Don Siegel con Clint Eastwood, il capitano Carlos Rodríguez in Il mistero del cadavere scomparso (1982) di Carl Reiner, la guardia carceraria Ramon Herrera in Bad Boy (1983) e il detective Tony Gonzales in Cobra (1986) con Sylvester Stallone. Tra gli altri film è apparso anche in Le pistole dei magnifici sette (1969), Uccidete la colomba bianca (1989) e Weekend senza il morto (1992). Santoni ha recitato anche in numerose serie televisive fin dagli anni Settanta ed era noto per il ruolo di Poppie nella sitcom Seinfeld. Sul piccolo schermo l'attore è stato una presenza familiare in episodi di Difesa a oltranza, Barnaby Jones, Lou Grant, Hill Street giorno e notte, La signora in giallo, Agenzia Rockford, Miami Vice.
· Addio a John Hume, il Nobel che portò la pace in Irlanda del Nord.
Addio a John Hume, il Nobel che portò la pace in Irlanda del Nord. L'ex leader del Social Democratic and Labour Party è morto a 83 anni. Insignito del premio nel 1998 per il suo ruolo nei negoziati che condussero all'accordo del Venerdì Santo che mise fine ai "Troubles". Pubblicato lunedì, 03 agosto 2020 da Enrico Francechini su La Repubblica.it. È morto a 83 anni uno degli architetti della pace in Irlanda del Nord: John Hume, ex leader del Social Democratic and Labour Party (SDLP) nord-irlandese, insignito del premio Nobel per la pace per il suo ruolo nei negoziati che nel 1998 condussero all'accordo del Venerdì Santo fra cattolici indipendentisti e protestanti filo-britannici mettendo fine ai "Troubles", come sono ricordati i trent'anni di guerra civile nella regione in cui hanno perso la vita più di 3 mila persone. Venuto alla ribalta nelle lotte per i diritti civili del 1968, Hume ha guidato lo SDLP per più di vent'anni dal 1979 al 2001, è stato membro del Parlamento del Regno Unito e anche parlamentare europeo. Ma è per la sua capacità di mediare con la controparte unionista fedele a Londra, e al tempo stesso di rappresentare al tavolo della trattativa l'ala più radicale degli indipendentisti, lo Sinn Fein, braccio politico dell'Ira (Irish Republican Army, l'esercito clandestino repubblicano), che ha ricevuto il Nobel insieme a David Trimble, l'allora capo dell'Ulster Unionist Party, il partito fedele alla Gran Bretagna.
La pace del 1998 mise le basi per la creazione a Belfast di un Parlamento e di un governo autonomo in cui indipendentisti e unionisti, oggi rappresentati dallo Sinn Fein e dal Dup, governano insieme. La questione del possibile ricongiungimento dell'Irlanda del Nord con la Repubblica d'Irlanda è stata rinviata a un imprecisato futuro, sebbene la Brexit l'abbia resa di nuovo attuale, minacciando di ricreare un confine tra la parte indipendente e quella britannica dell'isola. "Non è esagerato dire che ora viviamo tutti nell'Irlanda immaginata da Hume", afferma Colum Eastwood, suo successore alla testa del partito socialdemocratico e laburista nord-irlandese, "un'isola in pace e libera di decidere il proprio destino". È indubbiamente questo il suo lascito più importante. "John è stato un gigante della politica, un leader visionario che si è rifiutato di credere che il futuro debba per forza ripetere il passato", commenta Tony Blair, che come primo ministro britannico mediò il negoziato a lungo segreto fra le due parti. "Ha dato un contributo epico alla pace in Irlanda del Nord e verrà perciò giustamente sempre ricordato". Anche lord Trimble, che era il suo avversario ufficiale nelle trattative e ha condiviso con lui il Nobel, ne riconosce i meriti, con una stoccata allo Sinn Fein: "Per tutta la vita John Hume ha esortato la gente a cercare di raggiungere i propri obiettivi pacificamente". Ovvero non con la violenza. Oltre al premio Nobel, ha ricevuto il premio Gandhi e il premio Martin Luther King, unico al mondo ad essere stato insignito dei tre più importanti riconoscimenti degli sforzi per la pace.
· E’ morto l’ingegnere William "Bill" English, l'inventore del mouse.
Da adnkronos.com il 2 agosto 2020. L'ingegnere statunitense William "Bill" English, passato alla storia dell'informatica come l'inventore del mouse per il personal computer insieme a Douglas Engelbart (1925-2013), è morto all'età di 91 anni in una clinica di San Rafael, in California. L'annuncio della scomparsa, avvenuta sabato 26 luglio a causa di un'insufficienza respiratoria, è stato dato oggi dalla seconda moglie Roberta Mercer al "New York Times", ricordando come William English sia stato l'artefice di un'elaborata dimostrazione della tecnologia che predisse i computer, i tablet e gli smartphone. Come ingegnere informatico English ha contribuito allo sviluppo del mouse mentre lavorava allo Stanford Research Institute, collaborando all'epoca alla costruzione del California Digital Computer. Nel 1964 English, ricercatore capo dello Stanford Research Institute, progettò il primo prototipo funzionante di mouse nell'ambito del progetto "Augmentation Research Center", di cui Engelbart era direttore. Affinato e presentato nel 1967, il brevetto del mouse fu registrato nel 1970, definendo il nuovo strumento per "il controllo con la mano di un indicatore di posizione su una qualsiasi superficie che gestisce un cursore su uno schermo a tubo catodico". Nel frattempo English e Engelbart avevano creato anche il poliedrico computer sperimentale oNLine System, o Nls, che venne presentato ufficialmente il 9 dicembre 1968 durante un evento a San Francisco e che divenne noto come "La madre di tutte le demo". English lasciò il centro di ricerche nel 1971 e andò alla Xerox Parc, dove gestiva l'Office Systems Research Group. Alla Xerox Parc sviluppò la sfera del mouse, sostituendola al set originale di rotelline. Nel 1998 English è andato a lavorare per la Sun Microsystems, dove ha concluso la brillante carriera nel mondo dei computer.
Informatica, addio a William English: costruì il primo mouse da computer. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da La Repubblica.it. È morto a 91 anni a San Rafael, in California, William English, l'ingegnere informatico che nel 1963 costruì il primo mouse da computer sulla base del progetto del collega Douglas Engelbart, scomparso nel 2013. Il decesso, dovuto a insufficienza respiratoria, risale allo scorso 26 luglio, ma è stato reso noto solo ora dalla moglie. L'incontro con Engelbart risale alla fine degli Anni '50, quando English, figlio di un ingegnere elettrico, rinunciò a una carriera nella marina militare per entrare in un laboratorio di ricerca californiano, lo Stanford Research Institute, attuale Sri International. In un'epoca in cui solo gli specialisti utilizzavano computer, fatti di carte punzonate e tastiere da macchina da scrivere, Engelbart progettava di costruire una macchina che chiunque potesse usare semplicemente manipolando un'immagine sullo schermo. L'idea alla base dei personal computer all'epoca appariva però bizzarra nella comunità informatica. English fu uno dei pochi che la comprese e mise le sue capacità al servizio di un'illuminazione che avrebbe cambiato il mondo. Engelbart immaginò un dispositivo che potesse muovere un cursore su uno schermo e svolgere compiti selezionando particolari simboli e immagini (altra idea rivoluzionaria: le icone). English seppe mettere tale intuizione in pratica. Il primo mouse era un'ingombrante scatoletta con involucro in legno e un pulsante rosso in un angolo. Il suo debutto fu la presentazione del computer sperimentale Nls, avvenuta a San Francisco il dicembre 1968 e passata alla storia come "la madre di tutte le dimostrazioni". Engelbart sul palco mostrava quello che, proiettato su uno schermo, English compiva con quella macchina rivoluzionaria: i primi programmi per l'impaginazione di testi, la prima videoconferenza, i primi "ipertesti", ovvero i link, altra illuminazione. "Si vide come l'interfaccia di un computeravrebbe potuto - e dovuto - apparire", spiega al New York TimesDoug Fairbairn, direttore del Museo di Storia del Computer di Mountain View e collaboratore di English negli Anni '70. La cassetta di legno di pino manovrata da English conteneva due potenziometri che tracciavano i movimenti delle due piccole ruote alla base del dispositivo. Fu chiamato "mouse", topo, perché il cursore sullo schermo - la cui sigla era Cat, gatto - sembrava dargli la caccia con i suoi movimenti. Un colpo di genio che potrebbe essere stato agevolato dall'assunzione di Lsd. Sia English che Engelbart facevano infatti parte di un programma di test governativi che intendevano verificare quanto l'acido lisergico potesse "aprire la mente" e stimolare la creatività in cervelli già brillanti.
· E’ morta l’attrice hard Alessandra Bregoli in arte Alexy Brey.
Da notizieaudaci.it l'1 agosto 2020. Il mondo del cinema per adulti in lutto per la scomparsa di Alessandra Bregoli in arte Alexy Brey. L’attrice aveva 46 anni e ha lottato come una leonessa contro un terribile male (le era stato diagnosticato un cancro). Alexy Brey viveva a Ferrara e da qualche anno si era ritirata dal mondo della trasgressione ed a pochi fidati amici aveva confidato le sue sofferenze e i suoi timori per quel terribile male che la stava consumando giorno dopo giorno. Negli anni aveva creato un bel legame di amicizia con Baby Marylin.
La ribalta televisiva con Maurizia Paradiso. Non solo pellicole hard con svariati produzioni per l’audace artista che in carriera si è esibita in diversi club privè in giro per l’Italia. Alessandra aveva conquistato la ribalta televisiva nel 2015/16 con la partecipazione a Vizi Privati come ospite fissa, programma erotico notturno condotto da Maurizia Paradiso con la partecipazione di Sonia Eyes.
Protagonista a Vizi Privati con un ruolo provocatorio. Alexy Brey si era fatta apprezzare per la sua coinvolgente simpatia nel corso delle sue performance nella trasmissione in onda sull’emittente televisiva RTB Network Retebrescia dove vestiva ironicamente i panni della “ninfomane pericolosa” sopra le righe. Da rilevare che le ceneri dell’attrice sono state cosparse in uno dei luoghi più suggestivi della Certosa di Ferrara.
· E’ morto l’attore Wilford Brimley reso celebre da «Cocoon».
Morto Wilford Brimley, l’attore coi mustacchi reso celebre da «Cocoon». Tra le apparizioni cinematografiche del divo americano anche «Il migliore» con Robert Redford e l’horror di culto di John Carpenter, «La cosa». Lascia moglie e tre figli. Laura Zangarini il 2 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. È morto Wilford Brimley, l’attore dai celebri mustacchi apparso sul grande schermo, in serie e spot televisivi. Aveva 85 anni. Il decesso risale a sabato 1 agosto, nell’ospedale a St. George, nello Utah, dove Brimley era ricoverato. Lo ha riferito alla CNN la sua manager Lynda Bensky. L’attore era in terapia intensiva, stava ricevendo cure per problemi medici ed era in dialisi. «Wilford Brimley era un uomo di cui ti potevi fidare — ha ricordato Bensky —. Aveva un aspetto duro e un cuore tenero. Non potrò più ascoltare le storie meravigliose che raccontava, e questo mi rattrista profondamente. Era unico nel suo genere». Le apparizioni cinematografiche di Brimley risalgono agli anni ‘70 e includono «Cocoon» (1985), in cui interpretava Ben, uno dei tre uomini di mezza età protagonisti del film, «Il migliore» (1984), diretto da Barry Levinson con Robert Redford e l’horror «La cosa» (1982) di John Carpenter. Aveva anche recitato in diversi programmi televisivi, tra cui la serie della NBC «Vita col nonno», dove incarnava un burbero vedovo che chiede a nuora e nipoti di andare a vivere con lui. Era apparso anche in diversi spot pubblicitari per l’Associazione Americana Diabetici, dove aveva usato la suo voce baritonale per esortare le persone a controllare spesso la glicemia. Nel corso degli anni, aveva guadagnato una nuova legione di fan — molti dei quali nati decenni dopo le sue apparizioni cinematografiche — attratti dai «meme» che rendono omaggio ai suoi enormi baffi. «RIP Wilford Brimley — tante esibizioni fantastiche, ma non dimenticherò mai quando l’ho visto cantare una versione sorprendentemente tenera di “It’s Not Easy Being Green” (la canzone scritta da Joe Raposo, originariamente eseguita dal muppet Kermit la Rana nel programma «Sesamo apriti», e poi da Frank Sinatra e altri artisti, ndr), ha twittato il comico Stephen Colbert. Brimley lascia la moglie Beverly e tre figli.
Wilford Brimley rip. Marco Giusti per Dagospia il 3 agosto 2020. Attore, ma anche cowboy, ranchero, fabbro, bodyguard di un personaggio stravagante come Howard Hughes e marine. Il cinema americano “importante” degli anni ’80, quello di John Carpenter, Sideny Pollack, Ron Howard, Paul Newman, perde uno dei suoi caratteristi più amati, il grosso, baffuto Wilford Brimley, 85 anni, ultimo dei vecchi rimasti del cast originale di “Cocoon”, a fianco di Jane Fonda in “Sindrome cinese”, di Paul Newman in Harry & Son”, di Robert Redford in “Brubaker” e Il migliore”, di Charles Bronson in “10 minuti a mezzanotte”, di Tom Cruise in “Il socio”. Sembrava già vecchio quando praticamente esordì tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ma in “Cocoon”, dove deve fare il vecchio, ha solo 49 anni e in “In&Out”, dove ha il ruolo del padre di Kevin Kline e di poco più vecchio di lui. Col tempo, diciamo, era ingrossato e sembrava molto più vecchio di quel che realmente aveva. Ma per il cinema era perfetto. Nato a Salt Lake City, in Utah, a sei anni arriva con la famiglia in California e parte presto con i marines per la guerra in Corea. Quando torna inizia a fare il ranchero e il cowboy, poi il fabbro, il bodyguard di Howard Hughes, che ha sempre definito “una brava persona”. E infine l’attore. Prima come stuntman e extra nei film western degli anni ’60, come “Bandolero” con James Stewart, “Il grinta” con John Wayne, “Io sono la legge” con Burt Lancaster, la serie “Kung Fu” con David Carradine. Piccoli ruoli, ma niente di serio, anche se aveva un fisico particolare e un talento naturale per recitare. Fu Robert Duvall a spingerlo a fare l’attore, anche se con lui fece solo “Tender Mercies” di Bruce Beresford. Lo trobiamo così nel cast fisso di “Una famiglia americana” (1974-77) in tv, poi, nel 1979 in “Sindrome cinese” di James Bridges con Jane Fonda, subito seguito da “Il cavaliere elettrico” di Sidney Pollack, “Brubaker” e “Diritto di cronaca” di Sidney Pollack con Paul Newman e Sally Field. Da rozzo cowboy era diventato uno dei principali caratteristi dei film di denuncia del tempo. Poi lo chiamò John Carpenter per il ruolo del Dr. Blair nel terrificante “La cosa”. Ieri sera su twitter proprio Carpenter ha scritto che “Wilford Brimley era la cosa vero: un vero cowboy, un grande attore, una persona meravigliosa. Mi mancherà tantissimo”. Proprio per la sua presenza reale, per la sua recitazione naturale, diventa un attore molto richiesto negli anni ’80, alternando film di genere, i thriller con Charles Bronson ad esempio, “L’uomo del confine” e “10 minuti a mezzanotte”, o con Van Damme, “Senza tregua” diretto dal maestro John Woo, a opere considerati più alti, come “Hotel New Hampshire” di Tony Richardson con Jodie Foster e Rob Lowe. Ma i ruoli migliori sono legati a successi internazionali come “Cocoon” di Ron Howard, del quale farà anche il sequel, “Il migliore” di Barry Levinson con Robert Redford, “Il socio” di Sidney Pollack. Ha tempo anche per diventare una star della saga di Star Wars grazie al ruolo di Noa Briqualon nel film sugli Ewok nel 1985. In tutto questo resta anche una star della tv per i suoi spot sui cerali Quaker Oats e negli ultimi anni sul diabete. Malato da tempo, diventa lui stesso testimonial degli studi medici sulla malattia. Personaggio del tutto fuori del comune ha lottato contro il politicamente corretto per proteggere le scommesse su qualsiasi corsa di cavalla e battaglia fra galli da combattimento, i “ockfightings” che si fanno regolarmente tra Messico e Usa. Se ne è andato a St. George, in Utah, a causa del diabete che aveva cercato per anni di ridicolizzare storpiandone il nome in tv.
· E’ Morta la principessa Giorgiana Corsini.
Morta la principessa Giorgiana Corsini: malore in mare all’Argentario. Carlotta De Leo e Marco Gasperetti il 2 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. La moglie del principe Filippo, 80 anni,soccorsa a Orbetello e trasportata in ospedale: vani i tentativi di rianimazione. «Perdiamo una grande fiorentina» ha detto il sindaco Nardelli. Un malore mentre nuotava in mare: è morta così Giorgiana Corsini, moglie del principe Filippo, conosciuta a Firenze e in Toscana come insuperabile animatrice di iniziative culturali e artistiche tra le quali la mostra Artigianato e Palazzo che si svolge nel Giardino di Palazzo Corsini, la dimora fiorentina della famiglia. La principessa Corsini, che lunedì avrebbe festeggiato il suo 81esimo compleanno, si è sentita male sabato mattina mentre nuotava nel mare della Giannella a Monte Argentario (nel comune di Orbetello), uno dei posti che amava di più dopo Firenze. Soccorsa, la nobildonna è stata trasportata in codice rosso con l’elisoccorso all’ospedale di Grosseto ma i tentativi di rianimarla sono stati inutili. Cordoglio è stato espresso dal sindaco di Firenze Dario Nardella «profondamente addolorato» per «l'improvvisa morte di Giorgiana Corsini» che ricorda «entusiasta, leale, piena di idee e pragmatismo»: ha «animato Firenze con la sua energia. La sua scomparsa è una grave perdita per tutta la città e avviene in un momento molto difficile per il mondo dell'artigianato, che lei ha sempre cercato di valorizzare puntando sulle eccellenze della tradizione e proiettandole nel futuro». «Giorgiana Corsini - ha proseguito Nardella - è stata protagonista della vita culturale fiorentina, facendo nascere molte iniziative volte a mantenere vive le tradizioni degli artigiani e a promuovere l'arte e dal 1995 ha curato la realizzazione della mostra Artigianato e Palazzo, nel Giardino di Palazzo Corsini, diventata appuntamento tradizionale e molto seguito. Ad Artigianato e Palazzo abbiamo voluto conferire lo scorso anno il Fiorino d'Oro per l'impegno nel recupero del concetto di bottega rinascimentale e per la grande apertura verso i giovani». «Oggi perdiamo una grande fiorentina» ha concluso il sindaco. Nata a Varese il 3 agosto 1939 come Giorgiana Avogadro di Valdengo e Collobiano, sposò nel 1963 il principe Filippo Corsini, 83 anni, dal quale ha avuto quattro figli: Duccio, Elena Sabina, Nencia ed Elisabetta Fiona. Filippo Corsini è l’erede di uno delle famiglie più antiche d’Italia. Come raccontano i libri di storia della nobiltà toscana, i Corsini di Firenze sono banchieri e commercianti, giunti da Poggibonsi intorno al 1100 e citati nella «Cronica» di Giovanni Villani. Nel 1989, alla morte dei suoceri, Donna Giorgiana e Don Filippo lasciano Barberino con la famiglia e si trasferiscono a Firenze, a Palazzo Corsini. Ed è qui che la principessa Giorgiana organizza le prime iniziative. Affitta ville di lusso in Toscana per inglesi, crea un’agenzia di viaggi che la porta in giro per il mondo e si impegna per salvare le dimore di famiglia come il Castello di Marsiliana, all’Argentario, e Palazzo Corsini sul Prato a Firenze, con il suo giardino secentesco. «Detesto vedere andare le cose a rotoli. È una questione di rispetto. Il denaro è un dono, si è privilegiati se lo si ha ed è un obbligo usarlo per il bene e il bello al servizio di tutti», ripeteva la nobildonna.
Malore in mare all'Argentario: è morta la principessa Giorgiana Corsini. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da La Repubblica.it. E' stata colta da un malore mentre era al mare, all'Argentario, nella sua tenuta alla Marsiliana, la principessa Giorgiana Corsini. Aveva 80 anni e con lei scompare una animatrice della vita culturale e artistica di Firenze. Era nata a Varese il 3 agosto 1939 come Giorgiana Avogadro di Valdengo e Collobiano, era sposata con il principe Filippo Corsini, 83 anni, da cui ha avuto quattro figli: Duccio, Elena Sabina, Nencia ed Elisabetta Fiona. Si è sentita male questa mattina mentre faceva il bagno vicino alla spiaggia della Giannella ed è stata trasportata d'urgenza all'ospedale di Grosseto in codice rosso con l'elisoccorso, inutili sono stati tuttavia i tentativi di salvarla. Probabilmente è stata colpita da un infarto. Giorgiana Corsini si trovava in vacanza nella tenuta agricola di famiglia nella Maremma del sud, "La Marsiliana", tra Albinia e Manciano (Grosseto), dove lunedì prossimo avrebbe festeggiato il suo compleanno. Aveva studiato a Torino dove si era laureata alla Scuola di Interpreti a Ginevra nel 1962. L'anno successivo si era sposata con Filippo Corsini. Dopo il matrimonio la coppia si era trasferita a Barberino Val d'Elsa (Fi) e aveva preso in gestione dai suoceri l'azienda agricola e dove ha fatto crescere i quattro figli. Nel 1989 tutta la famiglia si trasferisce a Firenze, a Palazzo Corsini sul Prato. L'energia, il dinamismo e la passione della principessa Giorgiana per la cultura e per l'arte, la portano negli anni a ideare svariate iniziative: una in particolare a cui è molto legata, "Artigianato e Palazzo". Appuntamento annuale, ospitato proprio dei giardini di Palazzo Corsini e slittato quest'anno per l'emergenza covid. Ma lei non si era arresa e aveva già fissato la data per settembre ricominciando subito a lavorare alla nuova edizione.
· E’ morto Giulio Maceratini, esponente storico del Msi e di An.
La destra in lutto: è morto Giulio Maceratini, esponente storico del Msi e di An. Paolo Sturaro sabato 25 luglio 2020 su Il Secolo d'Italia. È morto Giulio Maceratini, uno degli esponenti storici del Msi e di An. Aveva 82 anni. Uomo di grandi capacità politiche e culturali, è stato uno dei punti di riferimento del mondo della destra. I funerali si terranno domani 27 luglio, alle ore 15, a San Francesco a Ripa. Romano di origini marchigiane, sua nonna materna era di Campobasso, città cui era molto legato. Spesso amava ricordare l’episodio di una sfida lanciata dalla famiglia a un generale francese. Laureato in giurisprudenza, avvocato patrocinante in Cassazione, conosceva benissimo le lingue francese e inglese. Deputato dal 1983, senatore dal 1992 nel collegio di Roma centro, ha fatto parte a lungo della Commissione Bilancio ed è stato presidente del gruppo di Alleanza Nazionale del Senato. Maceratini è stato parlamentare per diverse legislature. È stato deputato nella IX, X, XI legislatura (1983–1994) e, dopo due mandati al Senato (XII e XIII legislatura), di nuovo alla Camera nella XIV Legislatura (2001–2006). Nel corso della sua lunga attività di parlamentare, ha presentato complessivamente 375 proposte di legge. Da tempo aveva seri problemi di salute e donna Lucia lo ha assistito fino all’ultimo momento nella loro casa di Trastevere. Ci ha lasciato Giulio Maceratini, indimenticato protagonista della destra politica italiana ed esempio di coerenza e grande umanità». È quanto affermato da Giorgia Meloni. «Da me e da Fratelli d’Italia cordoglio e vicinanza alla sua famiglia». «Ricordiamo con commozione Giulio Maceratini, protagonista assoluto della destra politica italiana», dice il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. «È stato riferimento per tanti nella militanza politica e nell’azione parlamentare che lo ha visto protagonista alla Camera e al Senato, dove fu capogruppo di An, Contribuì alle svolte per la modernizzazione della destra. Anche come avvocato fu protagonista nel mondo forense e negli organismi dell’Avvocatura. Giulio Maceratini è stato un uomo saggio e generoso, sempre pronto a trovare soluzioni politiche, aperto all’ascolto e prodigo di consigli. Un amico per tanti, un esempio per tutti». «Non trovo le parole per descrivere questa grande perdita», ha detto il senatore Claudio Barbaro. «Padre putativo dell’Asi e di tanti di noi. Le bandiere del nostro Ente si inchinano mestamente, con dolore e immenso rispetto. È veramente una brutta notizia . Riposa in pace Giulio».
· E’ morta Luisa Mandelli, moglie di Guido Crepax.
Silvia Morosi per corriere.it il 3 novembre 2020. È morta domenica all’Ospedale Policlinico di Milano Luisa Mandelli, moglie di Guido Crepax, il creatore di «Valentina». Nata il 25 dicembre 1937 a Trieste, avrebbe compiuto 83 anni il prossimo Natale. Pochi giorni fa era stata colpita dal Covid-19 e ricoverata al Policlinico con una grave polmonite interstiziale. Lascia i tre figli Antonio, Caterina e Giacomo, che dalla morte del padre (31 luglio 2003) ne hanno raccolto l’eredità culturale e come Archivio Crepax tutelano e ripropongono il patrimonio di immagini del fumettista milanese. «La mamma è sempre stata il nostro punto di riferimento nella vita di tutti i giorni» — ricordano Antonio, Caterina e Giacomo — «molto presente negli studi come nei problemi personali, mentre papà era una fonte inesauribile d’ispirazione e un perfetto compagno di giochi». Sempre vestita alla moda, i capelli tagliati a caschetto dal parrucchiere Vergottini, era una Valentina in carne e ossa, pur non condividendone la vita spregiudicata e avventurosa del personaggio del rivoluzionario fumetto. Musa privata dell’autore, aveva accettato di incarnare «Valentina», regalandole la data di nascita, gli abiti e, anche, i suoi sogni che il marito rielaborava nelle sue storie. Come da copione, le avventure si generavano interamente nella vita quotidiana che essi condussero per oltre 40 nella loro casa di via De Amicis a Milano. Ma i tratti somatici del fumetto erano ispirati a Louise Brooks, attrice americana nei Roaring Twenties. Il personaggio esordì — infatti —nel 1965 sulla rivista Linus: inizialmente destinata al ruolo di personaggio secondario, presto diviene protagonista. Ma chi è, insomma? Valentina Rosselli è una fotografa, spesso raffigurata nuda e sensuale, che vive diverse avventure con Philip, il suo fidanzato.
Maria Luisa Agnese per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2020. Se ne va Luisa Mandelli, la donna che ha vissuto due vite, che ha avuto il singolare destino di essere, insieme, lei e l' altra, arrivando qualche volta addirittura a essere gelosa dell' altra, che era una gran rivale anche se di carta. E il paradosso è che in fondo era sempre lei in entrambi i casi, in quanto musa ispiratrice di quella Valentina che negli anni Sessanta ha popolato potentemente il mondo immaginario degli Italiani: con quel caschetto nero sospeso sulle labbra eternamente socchiuse, un corpo lungo e flessuoso che mostrava generosamente, aperta al cambiamento e a una vita nuova. Il marito di Luisa, il disegnatore Guido Crepax (all' anagrafe Crepas) per dare vita alla sua Valentina si era ispirato a quella moglie intensamente amata: stessa data di nascita, il giorno di Natale, stesso indirizzo, via De Amicis 45 a Milano, cognome appena diverso, Rosselli, che in fondo evoca il Mandelli di Luisa. È questa la carta di identità della Valentina dei fumetti, e anche se Guido per quel caschetto che sarebbe diventato iconico aveva pensato all' attrice Louise Brooks, sua grande passione letteraria, Luisa si sarebbe prontamente e coraggiosamente adeguata tagliando frangia e capelli dai Vergottini, parrucchieri del tempo, come ha raccontato più volte la figlia Caterina, oggi scenografa e curatrice dell' archivio paterno. E Luisa è diventata per tutti anche Valentina, anche se poi nel privato era molto diversa, più misteriosa e umbratile della solare rivale, ma sempre radiante luce interiore, un personaggio alla Silvana Mangano. Intanto l' altra Valentina si era insediata nella routine casalinga: «Tutti i giorni vivevamo questa realtà di famiglia parallela in carne e ossa e di famiglia disegnata nei fumetti. Una vita serenamente schizofrenica. Nostro padre ha disegnato e usato per le storie di Valentina non solo tutte le cose che possedevamo ma anche quello che ci succedeva. Valentina da adolescente si ammala di anoressia. La storia della mamma. La casa di Valentina è la nostra, con tutte le nostre cose. Valentina va ai Ronchi nella nostra casa di vacanza. Guida un maggiolone bianco con la capote nera, che era il nostro. Valentina ha la sua carta di identità con il nostro indirizzo». Tutto ciò lo ha raccontato la stessa Caterina alla cugina Valentina (figlia del fratello di Guido, Franco, discografico degli anni d' oro), a sua volta derubata del nome: «Sua nipote aveva quel bel nome così moderno, non ha resistito, e ha cominciato a "rubare" anche dalla famiglia di origine». E in omaggio a questa famiglia singolare e allargata Valentina Crepax, quella derubata del nome, giornalista spiritosa e acuta critica di costume, girovagando nei ricordi e nelle storie di casa, poco prima di morire aveva pubblicato per Bompiani Io e l' asino mio, dove si racconta di quel clan privilegiato che ha vissuto anni irripetibili. Un clan diviso per cognome in due filoni, i Crepas di Guido e i Crepax di Franco (pare che la confusione derivi dall' avarizia di Guido che non pagò per sanare un disguido burocratico), ma unito da legami affettivi anche se non comportamentali: allegri e chiassosi i Crepax, severi i Crepas. Luisa del resto veniva da un' austera famiglia triestina, «nonno Antonio generale dei carabinieri con due campi di concentramento sulle spalle e nonna Hagar, cresciuta tra dottrine spiritistiche di Swedenborg e sedute medianiche». A causa della prigionia del padre Luisa cresce con molti traumi, si ammala di anoressia e poi guarisce, anche se il frigorifero di casa rimarrà spesso vuoto. E i ragazzi crescono spartani, «vestiti di beige e marrone», mentre Luisa lavorava a maglia con intensa concentrazione su aumenti e scali o scalfi alla Raglan e spesso Guido smetteva di disegnare per prestare le braccia allo sgomitolamento. Donna inquieta, Luisa Mandelli Crepas, elegante (persino i suoi vestiti sono «prestati» a Valentina), «troppo fatata» ha scritto Natalia Aspesi nella postfazione di Io e l' asino mio : musa di una vita che forse ha rinunciato a un percorso pubblico in proprio, ma ha composto con Guido una coppia solidale e super unita. E ne è stata, finora, anche la musa postuma.
· E' morta Valentina Crepax, nipote di Guido.
E' morta Valentina Crepax, la scrittrice e giornalista milanese nipote di Guido.
Pubblicato venerdì, 31 luglio 2020 da La Repubblica.it. Aveva 68 anni ed era malata da tempo, ma la notizia della sua morte ha colto di sorpresa tantissimi suoi amici, visto che fino alla fine aveva continuato a lavorare e a fare progetti, compreso un libro in uscita a settembre. E' morta a Milano Valentina Crepax, giornalista e scrittrice. Era figlia del discografico Franco, morto a marzo, e nipote di Guido, il creatore dell'immortale personaggio a fumetti Valentina. Un anno fa era morto suo marito, il giornalista Gigi Zazzeri. Con il regista Marco Tullio Giordana ha avuto una figlia, Alice, artista e disegnatrice. Valentina Crepax ha lavorato a lungo nei giornali, aveva iniziato proprio con Repubblica, e ha scritto molti libri, come "Gli uomini: istruzioni per l'uso" (Mondadori, 1986) e "Tipi metropolitani" (Mondadori, 1988), entrambi illustrati con le tavole tavole in bianco nero a piena pagina di Guido Crepax. A settembre, per Bompiani, esce postumo il suo ultimo libro: "Io e l'asino mio. Storie di Crepax raccontate da Valentina".
· Addio a Tataw, capitano del Camerun a Italia '90.
Addio a Tataw, capitano del Camerun a Italia '90. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da La Repubblica.it. Al Mondiale di Italia '90 non si era fermato mai. Lui, capitano del Camerun, non aveva saltato un minuto nella cavalcata che portò i Leoni d'Africa fino ai quarti di finale, dall'esordio travolgente a Milano con la vittoria sull'Argentina di Maradona campione in carica. Una corsa meravigliosa spezzata solo dalla sconfitta ai supplementari contro l'Inghilterra (3-2). Stephen Tataw è morto all'età di 57 anni nella sua casa di Yaounde, la notizia è stata annunciata da alcuni ex giocatori e confermata dalla federcalcio camerunense. Tataw, classe 1963, ha indossato per 43 volte la maglia della nazionale, ha vinto la Coppa d'Africa nel 1988 e ha preso parte anche alla spedizione mondiale del 1994, meno fortunata per il Camerun che fu eliminato al primo turno. Tezino destro, cominciò a giocare nelle giovanili del Cammack di Kumba, poi a 15 anni passò al Tonnere di Yaounde, per tre anni, un club di prima fascia che tuttavia aveva ancora il campo in erba battuta e spogliatoi senza docce. Nell'ottobre del '90, dopo il Mondiale, sostenne un provino al Queens Park Rangers, senza fortuna. Poi passò all'Olympic Mvolyé per altre due stagioni, dal 1992 al 1994. Nel '92, pochi giorni prima della finale di coppa nazionale, fu fermato da quattro uomini armati che lo trascinarono fuori dalla sua macchina e lo aggredirono. Giocò lo stesso e vinse. Chiuse la carriera in Giappone, dove sbarcò nel 1997 al Tosu Futures, primo calciatore africano del campionato.
· È morto a 76 anni il regista Alan Parker.
Da ansa.it il 31 luglio 2020. È morto a 76 anni il regista britannico Alan Parker, autore di film come Fuga di mezzanotte, Mississippi Burning, Saranno famosi ed Evita. Lo ha annunciato il dal British Film Institute, spiegando che il cineasta si è spento dopo una "lunga malattia". Nato a Islington il 14 febbraio del 1944, nella sua carriera Parker ha collezionato due nomination agli Oscar come miglior regista per Fuga di mezzanotte (che vinse due statuette) e per Mississippi Burning.
Morto il regista Alan Parker. Pubblicato venerdì, 31 luglio 2020 da La Repubblica.it. E' morto a 76 anni il regista inglese Alan Parker, autore di film di successo come Evita, Fuga di mezzanotte, Saranno famosi, Mississippi Burning, Piccoli gangster e The Wall. Nato a Islington il 14 febbraio del 1944, Parker ha combattuto a lungo con la malattia. Due volte nominato agli Oscar, ha avuto una carriera molto importante e i suoi film hanno raccolto dieci Golden Globes e dieci Oscar. Parker aveva iniziato lavorando nella pubblicità, dapprima come copywriter e poi come regista: alla fine degli anni Sessanta fu tra i registi inglesi, tra i quali Ridley Scott, Hugh Hudson e Adrian Lyne, che rivoluzionarono l'estetica degli spot commerciali inserendo in essi elementi spiccatamente cinematografici. Il debutto sul grande schermo avvenne nel 1975 quando Parker scrisse e diresse Bugsy Malone, tipico gangester movie hollywoodiano in stile anni Trenta con la particlarità di essere interpretato da un cast di ragazzini, tra i quali la rivelazione Jodie Foster in una delle sue interpretazioni più sorprendenti. I)l film venne premiato con 5 BAFTA, gli Oscar inglesi. Il suo secondo film fu nel 1977 il controverso Fuga di mezzanotte che vinse due Oscar e che valse a Parker la sua prima nomination agli Academy Award come Miglior regia.
La musica, gli spot, i diritti civili, i giovani. Morto Alan Parker, grande regista inglese. Da "Fuga di mezzanotte" a "The Wall", i suoi film hanno vinto dieci Oscar. Cinzia Romani, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. Difficile non ricordare neanche un film di Alan Parker, il versatile regista inglese che ha segnato gli anni Ottanta e Novanta con i suoi film di culto, da Fame. Saranno famosi a Evita, passando per Fuga di mezzanotte e Mississippi Burning, recentemente riproposto nelle sale. Un personaggio molto significativo per l'industria cinematografica inglese e internazionale, anche nominato, in Francia, «Officier des Arts set des Lettres». Morto ieri all'età di 76 anni, dopo una lunga malattia, Parker aveva lavorato nell'agenzia di pubblicità londinese Collet Dickinson Pearce (CDP) prima di approdare al cinema. È qui che scrive i suoi primi soggetti, tra i quali quello di Melody, adattato per il grande schermo da Waris Hussein, nel 1971. Nel 1974 compie il grande passo, realizzando due cortometraggi, Our Cissy e Footsteps. Ma è nel 1976 che uscirà il suo primo lungometraggio, Piccoli gangsters, parodia musicale dei film di gangster stile anni Venti, interpretato da un cast di ragazzini che comprendeva anche Jodie Foster: cinque BAFTA, gli Oscar britannici. Il suo secondo film, Fuga di mezzanotte (1978), dramma carcerario assai discusso, vince due Oscar (per la Migliore musica e il Miglior soggetto). Nel 1980 arriva un importante cambio di passo con Fame, vero inno alla gioventù e allo spettacolo, anch'esso baciato da due Oscar: Miglior musica e Migliore canzone. È evidente che l'ambito musicale sarà preferito dal regista, che firma Pink Floyd, the Wall nel 1982, portando al cinema il doppio album rock del famoso gruppo. Interpretato da Bob Geldof, The Wall resta una pietra miliare, nel suo genere. Otto anni dopo, riecco Alan sulle tracce d'un gruppo «soul» irlandese, con The Committments (1990), per poi concretizzare il suo sogno d'una commedia musicale in grande stile, dirigendo Madonna in Evita (1988). E il successo gli arriderà ancora nel 1984 con Birdy. Le ali della libertà, dove ha l'occasione di lavorare con Matthew Modine e Nicolas Cage: tale dramma sulla malattia mentale e sull'amicizia otterrà il Grand Prix Spécial della giuria del festival di Cannes, nel 1985. Il suo film successivo, Angel Heart. Ascensore per il patibolo (1986), con soggetto suo proprio e interpretato da un'altra coppia d'assi, Mickey Rourke e Robert De Niro, suscita diverse polemiche negli Stati Uniti, dove l'associazione americana Motion Picture affibbia una bella «R» al thriller, per vietarlo ai minori. Fervente sostenitore dei diritti civili, sir Alan Parker, nato a Islington (Londra) il 14 febbraio 1944, si è dedicato al tema della segregazione razziale con Mississippi burning (1988), mentre in Benvenuti in paradiso (1989) descrive l'internamento abusivo dei giapponesi, durante la Seconda guerra mondiale, da parte degli americani. Né poteva mancare, nel suo curriculum di attivista un film contro la pena di morte: Vita di David Gale (2003), con lo scomparso (dai radar) Kevin Spacey. Nei tardi anni Sessanta fu uno dei registi britannici più influenti, che insieme a Ridley Scott e Adrian Lyne, rivoluzionò il look e la qualità degli spot pubblicitari televisivi, combinando racconto e estetica cinematografica. Membro della prestigiosa Directors Guild of Great Britain, associazione che riunisce i più influenti registi del cinema inglese, Parker era sposato, in seconde nozze, con Lisa Moran. Dieci Golden Globes e dieci Oscar, totalizzati dai suoi film, parlano d'una carriera formidabile, scritta a caratteri d'oro nel British Film Institute, che il regista contribuì a fondare. Eclettico e prolifico, nel 2015 aveva annunciato il suo ritiro con queste parole: «Ho girato film da quando avevo 24 anni e ogni giorno era una battaglia, ogni giorno era difficile, sia perché dovevi combattere contro il produttore che aveva idee diverse dalle tue, sia perché gli Studios ti davano il tormento. Chiunque ha lavorato con me sa che ho sempre battagliato per avere il diritto di fare il film che avevo in mente».
Marco Giusti per Dagospia l'1 agosto 2020. Basterebbero i suoi grandi successi internazionali, dal drammatico “Midnight Express” con Brad Davis e John Hurt, all’horror con tanto di diavolo a New Orleans “Angel Heart” con Mickey Rourke, Lisa Bonet e Robert De Niro come Satanasso, i tanti musical da “Bugsy Malone”, suo film d’esordio coi bambini che facevano i gangster negli anni ’30, a “Saranno famosi-Fame” con Irene Cara, da “The Wall” versione animata del disco capolavoro dei Pink Floyd a “Evita” con Madonna a “The Commitments”, tratto da un romanzo di Roddy Doyle, i suoi film civili, da “Mississipi Burning” con Gene Hackman, Willem Dafoe e Frances McDormand a “Le ceneri di Angela” con Emily Watson e Robert Carlisle, senza pensare a un film generazionale come “Birdy” con Matthew Modine e Nicholas Cage o al meno noto “Morti di salute” con Anthony Hopkins e Bridget Fonda o al superdrammatico familiare “Spara alla luna” con Albert Finney che lascia Diane Keaton e i loro quattro figli per una donna più giovane. Alan Parker, scomparso a Londra dove era nato a 76 anni, qualsiasi film avesse diretto, in Inghilterra o in America, musical o dramma, aveva sempre messo davanti a tutto, come giustamente fa notare Peter Bradshaw su “The Guardian”, la narrazione. Era un grande story-teller. E aveva un grande talento per trattare la musica al cinema e le sue star. Fra gli uomini di cinema inglesi nati nella pubblicità che cambiarono per sempre il cinema dai primissimi anni ’80, come furono lui, il suo socio David Puttnam e, ovviamente i fratelli Tony e Ridley Scott, che furono proprio una generazione nuova e diversa rispetto ai pur grandissimi Richard Lester, Ken Russell o Tony Richardson che li avevano preceduti sulla strada di Hollywood, la sua preoccupazione fu sempre quella di essere soprattutto uno story-teller. Non fai film difficili come “Midnight Express” o “Mississipi Burnings” se non sei un grande story-teller. E, curiosamente, questo Parker lo aveva imparato proprio facendo il copywriter e poi il regista nella pubblicità, dove era un personaggio leggendario già negli anni ’70. Ma se Ridley e Tony Scott si specializzano più sul racconto visivo delle loro storie, cambiando proprio il modo di raccontare, a Parker interessa proprio la costruzione del racconto e l’impatto che ha con lo spettatore. “Fare un film”, ha detto “è così difficile che se non hai i tuoi protagonisti che stanno dalla tua parte con il resto della troupe, può renderti la vita molto difficile. Soprattutto all'interno della macchina di Hollywood. Hanno permesso a più stelle di prendere il controllo e questo può rendere la vita di tutti gli altri una miseria. Ma la verità è che gli attori stanno facendo il loro lavoro esattamente come l'assistente alla macchina da presa, il costumista e tutti gli altri”. E pochi come Parker sono stati così attenti a far funzionare gli attori, soprattutto grandi star bizzarre come Madonna, Mickey Rourke, a costruire nuovi talenti, come Irene Cara o Jodie Foster. E’ proprio l’attenzione al testo e alla direzione degli attori che fa anche dei suoi film americani dei successi e dei film praticamente perfetti. Nato pubblicitario con la CDP, e poi socio assieme a David Puttnam e Charles Saatchi per la produzione di una serie fortunata di spot negli anni ’60 e ’70, inizia il cinema scrivendo soggetto e sceneggiatura di una piccola commedia con bambini con sette canzoni dei Bee Gees che verrà poi diretta da Warris Hussein, “Melody”, con Mark Lester, Tracy Hide e Jack Wild, operazione che lo porterà poi alla regia di “Bugsy Malone-Piccoli gangster” cinque anni dopo. Ma sarà il successo internazionale di un film allora importante come “Midnight Express”, prodotto da Puttnam, scritto da un giovane Oliver Stone, con le musiche al sintetizzatore di Giorgio Moroder che vinsero l’Oscar che gli aprirà le porte di Hollywood. I successivi “Fame”, “The Wall” e “Birdy” faranni il resto. Peter Bradshw dice di rivedere “Spara alla luna”, che credo fosse un po’ la sua storia, visto che anche Parker lasciò una moglie e quattro figli per un’altra donna. Confesso che vedrei volentieri anche il suo ultimo film, che mi era sfuggito, “The Life of David Gale”, girato nel 2003 e mai arrivato in Italia, con Kevin Spacey, attivista contro la pena di morte che si ritrova incolpato di omicidio e rischia quindi di perdere la vita. Parker muore al termine di una lunga malattia che lo aveva escluso dal cinema per quasi vent’anni.
· E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio.
E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da La Repubblica.it. Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l'invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita - ma da lei coniato già a metà degli anni Settanta. Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all'Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l'apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un'associazione che sostiene le vittime dell'incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia. E' stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l'uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza “politica” della parola che voleva attirare l'attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all'interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E' del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing". Su Facebook e Twitter sono tanti i gruppi femministi e le singole donne a ricordare il suo impegno civile. La ricorda su Facebook anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio: "Diana E. H. Russell, la sociologa femminista che ha coniato la parola "femminicidio", ci ha lasciati martedì all'età di 81 anni, dopo aver dedicato la sua vita intera allo studio dei crimini contro le donne. E' stata la prima donna a identificare un termine preciso per un fenomeno che era (ed è) così radicato nella nostra società, da essere quasi irriconoscibile. Dare un nome, ha significato riconoscerne l'esistenza. È stato il punto di partenza per iniziare a lottare. E noi, anche con la Commissione di inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, continueremo la nostra battaglia. Grazie Diana E. H. Russell. Che la terra ti sia lieve".
· E’ morto Maurizio Calvesi, Storico dell’Arte.
E’ morto Maurizio Calvesi, l’amico e collega Storico dell’Arte, intellettuale di prim’ordine, che amava farsi anche chiamare “allievo di Argan”. Carlo Franza il 30 luglio 2020 su Il Giornale. I lutti in questi ultimi mesi mi hanno colpito in prima persona, ad iniziare dalla morte del mio unico fratello Antonio Franza (Lecce), commercialista e collezionista di arte contemporanea di chiara fama; di mio cugino Francesco Damiani (Alessano-Le) e poi di una serie di amici ( tra cui Giuseppe Colazzo presidente dell’Associazione Vito Raeli di Tricase- Le) e di colleghi di insegnamento alla Sapienza a Roma con i quali ho vissuto anni intensi e carichi di ricordi ( ne ho fatto memoria anche su Il Giornale del Prof. Mario Ursino); fra questi ultimi il professor Maurizio Calvesi. È morto a Roma a 92 anni Maurizio Calvesi, tra i più autorevoli e influenti storici e critici d’arte del Novecento, attivo sulla scena internazionale da oltre sessant’anni, e maestro e mentore di generazioni di storici e critici a lui successive. Oggi confesso ai più che Calvesi ha avuto per me sempre grande stima e venerazione provenendo dalla Scuola Arganiana, stima per i miei studi e le mie ricerche sul contemporaneo e soprattutto sul fiuto che ho avuto intorno ai nuovi percorsi dell’arte internazionale. Calvesi è stato infatti collega e docente universitario, autore di saggi ancora oggi considerati fondamentali per lo studio della storia e della critica d’arte (tra tutti, quelli su Piero della Francesca, Dürer, la Cappella Sistina, Caravaggio, Piranesi, Boccioni e il Futurismo, de Chirico e Duchamp), curatore di due edizioni della Biennale di Venezia (1984 e 1986). A dare la notizia della scomparsa di Maurizio Calvesi è stato, su Facebook, il suo allievo e critico Alberto Dambruoso, che così ha scritto: “oggi(24 luglio 2020) è un giorno molto triste per l’arte italiana che perde uno dei più importanti storici dell’arte, se non il più importante di tutto il Novecento. È venuto a mancare stamattina il mio mentore Maurizio Calvesi. A lui devo praticamente tutto della mia carriera. Tra le cose più importanti che mi ha lasciato l’archivio di Umberto Boccioni… Buon viaggio Maurizio e che tu possa vedere ora da vicino gli angeli del Mantegna, di Raffaello, Michelangelo e del Caravaggio descritti come pochi altri hanno saputo fare in oltre 60 anni di studi”. “Maurizio Calvesi affrontava agevolmente tutti i repertori come un grande pianista: non solo i suoi saggi fondamentali su Caravaggio o su Dürer ma anche quel suo coraggioso aver fatto giustizia sulle avanguardie del Novecento, sottraendo il Futurismo ai luoghi comuni della storiografia per la sua vicinanza al fascismo”, così lo ricorda Claudio Strinati che propone una rapida istantanea di Maurizio Calvesi dopo una densissima vita di studioso, ricercatore, divulgatore, docente universitario. Il suo multiforme impegno in diversi capitoli storico-artistici rende impossibile ricostruirne in un unico schema la personalità, l’opera e il grande lascito. Calvesi nasce a Roma il 18 settembre 1927. Da bambino frequenta lo studio romano di Giacomo Balla, al piano superiore di casa Calvesi in via Oslavia 39/b. E Balla padre, nel 1934, interviene nel ritratto a pastello di Calvesi a sette anni realizzato dalla figlia Elica. Grazie a Balla conosce Filippo Tommaso Marinetti nel 1941 ed entra a far parte del gruppo Aeropoeti Sant’Elia. Due amicizie adolescenziali che gli suggeriranno future riletture. Calvesi si laurea con lode in Lettere e Filosofia nell’Università La Sapienza di Roma nel 1949 con Lionello Venturi con una bellissima tesi su Simone Peterzano, il maestro di Caravaggio; “tutti dicono che fu Longhi a riscoprirlo ma non è vero, proprio Venturi cominciò a studiarlo nel 1909”, aveva detto nel luglio 2001 al «Corriere della Sera» (per il quale scrisse dal 1972 al 1978). Il futuro critico d’arte, durante l’adolescenza, si dedica alla scrittura di poesie futuriste, firmate insieme a Sergio Piccioni, che oggi sono custodite all’Università di Yale nel Centro di Documentazione Futurista. Oltre a Venturi, suo maestro e mentore è anche Giulio Carlo Argan, oltre a Francesco Arcangeli, che conoscerà a Bologna. Con quella di Venturi, la sua formazione porta l’impronta di Giulio Carlo Argan, mio maestro e mentore di cui sono stato allievo e assistente; ebbene Argan è stato una sorta di suo padre culturale (anche da maturo lo definiranno “allievo di Argan” anche se in realtà non è mai stato così). Molte esperienze ministeriali (la Soprintendenza di Bologna, la direzione della Pinacoteca di Ferrara e della Calcografia nazionale, la Galleria nazionale di arte moderna come vice di Palma Bucarelli) quindi le cattedre di Storia dell’arte moderna a Palermo, tra il 1970 e il 1976, poi l’approdo a Roma, tra il 1976 e il 2002 dove è prima direttore dell’Istituto e, infine, direttore del Dipartimento. Questo per quel che riguarda le date e la sua capacità di creare una scuola che ha in Alessandro Zuccari il suo prestigioso erede. E poi si dovrebbe sintetizzare senza pericolo di trascuratezze gli studi in Italia e in campo internazionale. Carriera intensa, interessi sterminati – dall’età moderna alla contemporaneità – , studioso raffinato, che aveva esordito negli anni Cinquanta occupandosi di Alberto Burri e di altri maestri, ma anche delle incisioni dei Carracci e del Futurismo. È del 1966 la prima edizione di un libro che è diventato sacro nel mondo della ricerca storico-artistica: “Le due avanguardie. Dal futurismo alla Pop Art”; sono anni intensi per il critico d’arte, d’altronde Roma in quel momento è al centro del dibattito internazionale e molti dei protagonisti di quella temperie culturale sono suoi amici e compagni di strada. Tra tutti Mario Schifano – magnifica, nella sua casa romana, la parete con i paesaggi anemici degli anni Sessanta, alcuni con dediche affettuose, fraterne – e Mario Ceroli, che l’ha ritratto insieme alla moglie, la studiosa Augusta Monferini. E poi Fabio Sargentini, gallerista che lo coinvolge in tante occasioni come autore di testi critici sugli artisti de L’Attico, tra cui Pino Pascali. E poi Umberto Boccioni ( è recente il catalogo generale curato con il suo allievo Alberto Dambruoso) , Giorgio De Chirico e Duchamp: sono numerosi gli artisti che ha approfondito con saggi fondamentali. E naturalmente Caravaggio, altro suo riferimento primario. Tra le pubblicazioni recenti, il volume sulla Collezione Burri (con Bruno Corà) e sulla collezione della Farnesina, curato con il suo allievo Lorenzo Canova. Non vanno dimenticati il “Piero della Francesca” del 1998, le ricerche sul Futurismo alla fine degli Anni 60 e i primi 70, la rinnovata visione di De Chirico. Ancora Claudio Strinati: “In La metafisica schiarita/ Da De Chirico a Carrà. Da Morandi a Savinio c’è tutta la capacità sintetica e scientifica di Calvesi, a partire dal geniale titolo. Lui “chiariva”. Ovviamente vanno ricordati i suoi scritti su Caravaggio, punto di partenza per qualsiasi studioso nella seconda metà del Novecento (anche nella divulgazione, basti pensare a Le realtà di Caravaggio, Einaudi). Sempre Strinati ricorda l’attaccamento di Calvesi per la rivista «Storia dell’arte», prima diretta dal mio indimenticabile maestro Giulio Carlo Argan e poi da lui affidata nel 1969 a Calvesi che si concentra nel far emergere i nuovi studiosi: proprio Claudio Strinati, Michele Cordaro, futuro direttore dell’Istituto centrale del restauro, Enzo Bilardello, Carlo Franza e Maria Andaloro. Tale è il legame con la rivista che, quando emergono difficoltà economiche, Calvesi con sua moglie Augusta Monferini (a sua volta storica dell’arte e già direttrice della Galleria nazionale di arte moderna) fonda la casa editrice CAM (Calvesi Augusta Monferini) e la rileva. E così la rivista è a tutt’oggi viva (ma Calvesi dirigerà anche “Art e dossier” e “Ars”). Gli incarichi pubblici non mancano: il Consiglio nazionale dei Beni culturali, la curatela della Biennale d’arte di Venezia nel 1984 e nel 1986, socio dei Lincei e dell’Accademia di San Luca. Altri interessi, in ordine necessariamente sparso: Duchamp, la Pop Art, Piranesi, la Cappella Sistina, la passione per Burri (presiederà la sua Fondazione) per Umberto Mastroianni e Marino Marini, le amicizie personali: Fabio Mauri, Pino Pascali, Franco Angeli, Mario Schifano, lo scultore Mario Ceroli che realizza la monumentale (e celebre) libreria lignea «Calvesi-Monferini» in pino di Russia, per trentamila volumi, con cento ritratti in silhouette dei due padroni di casa. Il volume più amato era una copia lisa di Psicologia e alchimia, di Carl Gustav Jung, edita nel 1951 dall’Astrolabio: “Capii che La melanconia di Dürer era l’ allegoria della prima fase della nerezza alchemica”. Fu il punto di partenza che lo portò al suo folgorante saggio Einaudi La melanconia di Albrecht Dürer. Biografia. Nato a Roma nel 1927, Maurizio Calvesi fin dall’infanzia frequenta lo studio di Giacomo Balla, che lo sollecita nell’entrare in contatto con Filippo Tommaso Marinetti: ciò avviene nel 1941, e Calvesi entra così a far parte del gruppo “Aeropoeti Sant’Elia”. Il futuro critico d’arte, durante l’adolescenza, si dedica alla scrittura di poesie futuriste, firmate insieme a Sergio Piccioni, che oggi sono custodite all’Università di Yale nel Centro di Documentazione Futurista. Nel 1949 Calvesi si laurea con lode in Lettere e Filosofia nell’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi su “Simone Peterzano” assegnatagli da Lionello Venturi, iniziando così a intraprendere i suoi primi studi su Caravaggio. Oltre a Venturi, suo maestro e mentore è anche Giulio Carlo Argan, oltre a Francesco Arcangeli, che conoscerà a Bologna. Qui, nel 1955, presta servizio alla Soprintendenza, per poi dirigere la Pinacoteca nazionale di Ferrara e, a Roma, la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea e la Calcografia Nazionale. Dal 1967 insegna nelle Accademie di Carrara e di Roma, e nel 1969 vince il concorso universitario come ordinario di Storia dell’Arte e svolge il suo ruolo di docente nella Facoltà di Lettere di Palermo dal 1970 al 1977, per poi ricoprire prima la terza e poi la prima cattedra di Storia dell’Arte Moderna della Facoltà di Lettere de “La Sapienza” a Roma, in cui è stato prima Direttore dell’Istituto e poi del Dipartimento di Storia dell’Arte fino all’ottobre del 2002. Nel 2003 è nominato Professore Emerito presso la Facoltà di Lettere della “Sapienza”. Dal 1983 al 1988 e dal 1992 al 2001 è dapprima Vicepresidente, poi Presidente del Comitato per i Beni Artistici e Storici nell’ambito del Consiglio Nazionale per i Beni Culturali, dal 1983 è stato socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, e dal 1988 socio nazionale. È stato inoltre socio dell’Accademia di San Luca, dell’Istituto di Studi Romani e dell’Accademia Clementina di Bologna. Calvesi ha presieduto la Fondazione Burri (“Fondazione Albizzini-Collezione Burri”) di Città di Castello, è stato consulente della Fondazione Marino Marini a Pistoia e dal 1969 al gennaio 1992 è stato redattore della rivista quadrimestrale “Storia dell’Arte” fondata e diretta da G.C. Argan, per poi dal 1992 diventarne direttore. Nel 1984 Calvesi fonda la rivista mensile “Art e Dossier” e ne è direttore scientifico fino al 1995. Muore a Roma nel 2020 a 92 anni. Carlo Franza
· Addio al rapper Malik B, tra i fondatori dei The Roots.
Addio al rapper Malik B, tra i fondatori dei The Roots: aveva 47 anni. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da La Repubblica.it. Si è spento a 47 anni Malik B, rapper e fondatore dei The Roots. Ad annunciarlo è stato lo stesso gruppo di Filadelfia, attraverso un post sui social media. Il suo vero nome era Malik Abdul Basit ed è stato uno dei principali animatori della band, assieme a Ahmir "Questlove" Thompson e a Tariq "Black Thought" Trotter, con cui ha inciso i primi quattro dischi dei The Roots, prima di uscirne nel 1999. Un anno più tardi il gruppo, celebre per la sua capacità di miscelare l'hip hop e il suono degli strumenti dal vivo, avrebbe vinto il suo primo Grammy Award, prima di diventare celebre anche in Italia grazie al singolo "The Seed 2.0". "Dobbiamo a malincuore informarvi della scomparsa del nostro amato fratello e compagno nei The Roots Malik Badul Basit", ha scritto la band su Twitter. "Possa lui essere ricordato per la sua devizione all'Islam e per la sua capacità di innovare come uno dei più talentuosi MCs di tutti i tempi. Vi chiediamo di rispettare la sua famiglia in questo momento di lutto". Malik B era tornato nel gruppo per alcune partecipazioni nei dischi "Game Theory" (2006) e "Rising down" (2008). Come solista ha inciso in studio due dischi, "Street Assault" e "Unpredictable". Le cause della sua morte non sono state rese note.
· E’ Morto Kansai Yamamoto, lo stilista che ha vestito il rock.
Addio a Yamamoto. Il re dei colori che ha vestito il rock. La leucemia stronca lo stilista giapponese che vestì anche lo "Ziggy" di David Bowie. Valeria Braghieri, Martedì 28/07/2020 su Il Giornale. Ricordando il loro flirt, Amanda Lear diceva di lui: «È stata l'unica volta in vita mia, in cui sono uscita con un tipo più truccato di me». Non sappiamo chi truccasse David Bowie, ma di certo sappiamo chi l'ha vestito. Lo stilista Kansai Yamamoto, un folletto giapponese, energico e avanguardista, che il 21 luglio, a 76 anni, «ha lasciato questa vita in pace», come ha fatto sapere la figlia Mirai, attrice, salutandolo in un post. La leucemia aveva iniziato ad avvelenargli il sangue lo scorso febbraio e ieri ha finito di consumarlo. Cinque mesi per sfogliare la propria vita e scegliere i ricordi. C'era di sicuro David Bowie, tra i suoi, del quale aveva sposato con entusiasmo l'estetica e quel trascendere i confini di genere. Una delle sfide migliori della sua vita, una delle più adatte al suo vibrare, al suo sperimentare, al suo sentirsi a proprio agio in compagnia dei colori. Si sbizzarrì con Ziggy Stardust, il personaggio del cantante inglese: quella tuta nera a gamba larga tipica dei samurai e ispirata ad una leggenda giapponese che descriveva il rapporto tra una divinità e un coniglio dal colore bianco intenso. La «Tokyo Pop» realizzata in vinile nel 1973 per l'Aladdin Sane Tour di Bowie, indossata durante il concerto del 10 marzo 1973 alla Long Beach Arena di Los Angeles e poi di nuovo nel 1989 per un servizio fotografico di Herb Ritts. Inserì allora il primo tocco androgino alla mise, e poi conservò la caratteristica nelle altre sue creazioni. E poi gli abiti per Elton John, John Lennon e Stevie Wonder, e spettacolari show e performance in tutto il mondo, come «Hello! Russia» del 1993, nella Piazza Rossa di Mosca, che richiamò 120mila spettatori, e negli ultimi anni anche una collaborazione con Louis Vuitton, per la quale attinse al teatro Kabuki. E poi Parigi, e New York...Fu il primo artista nipponico a presentare una collezione personale a Londra, nel 1971, a soli 27 anni. Di lui, la figlia Mirai, scrive ancora: «Ai miei occhi, mio padre non era solo l'anima eclettica ed energica che il mondo conosceva, ma anche una persona premurosa, gentile e affettuosa. Mi ha inondato di amore per tutta la vita. Mi ha anche insegnato a persistere dopo i fallimenti e a non lasciar andare mai via la mentalità positiva e lungimirante. Considerava le sfide come opportunità di auto-sviluppo e credeva sempre nei giorni più luminosi a venire». Un visionario colorato, coloratissimo, dall'estetica audace. Aveva una passione per i signori della guerra medievale giapponesi e a loro, in qualche modo, continuava ad ispirarsi. Oro, fucsia e materiali sperimentali. Bowie aveva trovato il connubio perfetto e di lui diceva: «Ha una faccia insolita, non credi? Non sembra né uomo né donna. Capisci cosa intendo? Come stilista rappresenta il mio ideale, perché la maggior parte dei miei vestiti sono per entrambi i sessi. Amo la sua musica e ovviamente questo ha influenzato i miei progetti ma soprattutto c'è un'aura di fantasia che lo circonda. Ha fascino». Se n'è andato in pace dopo aver vissuto e aver misurato se stesso. Dopo essersi trovato: «Uno come me è destinato a distinguersi in Giappone», ha detto in un'intervista del 2017 al gruppo Nikkei. E la vita gli ha dato ragione. Anche mentre la sua faccia stropicciata moriva nell'ospedale di Tokyo in cui era ricoverato, «circondato dalle persone care». Ce ne si può andare tranquilli, quando si sa di aver colorato il mondo. Imbrigliato il genio più recalcitrante e inafferrabile della storia del pop e del rock mondiali. Yamamoto ha capito, e vestito, tutti i David che c'erano in Bowie. Un moderno guerriero visionario che, con i tessuti, ha cucito la sua colorata, morbida rivoluzione.
Morto Kansai Yamamoto, lo stilista che ha creato Ziggy Stardust di David Bowie. Redazione su Il Riformista il 27 Luglio 2020. Kansai Yamamoto, uno dei pionieri della moda giapponese e il primo artista nipponico a presentare una collezione personale a Londra, nel 1971, è scomparso lo scorso 21 luglio all’età di 76 anni. Il celebre stilista era malato di leucemia e si trovava in cura dall’inizio di questo anno in un ospedale di Tokyo. Conosciuto per uno stile audace e a tratti sfacciato, durante le sfilate il famoso stilista si ispirava alle arti tradizionali giapponesi del Kabuki, ed era particolarmente ammirato dalle generazioni più giovani. A darne la notizia con qualche giorno di ritardo ci ha pensato la figlia Mirai Yamamoto, famosa attrice del Sol Levante che il 27 luglio ha pubblicato un post su Instagram rendendo pubblica la morte del padre: “Ha lasciato questo mondo in pace, circondato dalle persone care. Ai miei occhi, mio padre non era solo l’anima eclettica ed energica che il mondo conosceva, ma anche una persona premurosa, gentile e affettuosa. Mi ha inondato di amore per tutta la vita. Mi ha anche insegnato a persistere dopo i fallimenti e a non lasciar andare mai via la mentalità positiva e lungimirante. Considerava le sfide come opportunità di auto-sviluppo e credeva sempre nei giorni più luminosi a venire”.
LA CARRIERA – Dopo aver lavorato con la connazionale Junko Koshino, nel corso dei suoi lavori tra Parigi e New York lo stilista giapponese aveva sviluppato stretti legami con musicisti del calibro di David Bowie, John Lennon e Stevie Wonder. Uno dei lavori più iconici di Yamamoto fu proprio la collaborazione con il Duca Bianco per la creazione del personaggio Ziggy Stardust, ispirato ad una leggenda giapponese che descriveva il rapporto tra una divinità e un coniglio dal colore bianco intenso. Tra le altre celebri creazioni che ha disegnato per David Bowie c’è anche la celebre tuta nera a gamba larga, ovvero la cosiddetta suit Tokyo Pop realizzata in vinile nel 1973 per l’Aladdin Sane Tour del cantante, indossata durante il concerto del 10 marzo 1973 alla Long Beach Arena di Los Angeles e poi di nuovo nel 1989 per un servizio fotografico di Herb Ritts. Lo stilista ha contribuito a mantenere lineare lo stile giapponese di David Bowie con un look ispirato ai pantaloni larghi dei samurai che ancora oggi si impiegano per praticare alcune arti marziali, aggiungendo anche un tocco androgino. Caratteristica con cui il celebre cantante ha giocato per tutta la sua carriera cucendosi addosso un personaggio fatto di trasformazioni e metamorfosi ma sempre fedele al suo stile camaleontico.
· E’ morto l’attore Gianrico Tedeschi.
Paolo Petroni per ANSA il 28 luglio 2020. Aveva festeggiato 100 anni lo scorso 20 aprile, ricevendo gli auguri del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: Gianrico Tedeschi, decano del teatro italiano, volto caro al grande pubblico grazie al varietà e alla pubblicità in tv con Carosello, è morto la notte scorsa nella sua casa di Crabbia di Pettenasco, sul lago d'Orta. Nato a Milano nel 1920, Tedeschi ha trascorso 70 anni in scena - ancora quattro anni fa recitava ''Dipartita finale'' con la regia di Branciaroli - attraversando il Novecento e rappresentandolo nel bene e nel male, grazie alla sua fedeltà a principi etici e civili oltre che artistici, alla sua ironia e soprattutto alla sua umanità. Diplomato a vent'anni, Tedeschi parte poi per la guerra, sottotenente in Grecia, e dopo l'8 settembre, rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, finisce in un lager nazista in Germania dove recita con i compagni di prigionia (da Giovanni Guareschi a Enzo Paci); dopo la Liberazione riesce a entrare in Accademia a Roma e nel 1947 debutta, scelto e diretto da Strehler. Inizia così una carriera di successo, che lo vede lavorare con registi che vanno da Visconti a Ronconi, passando per Garinei e Giovannini per un celeberrimo ''My fair lady'', come lo porterà a partecipare agli storici sceneggiati tv, a diventare amato personaggio di un Carosello di dolciumi, a essere in radio con Raffaella Carrà, a far cinema con, tra i tanti, Bragaglia, Steno, Dessin e Rossellini. Recita con Ruggero Ruggeri e Salvo Randone, passando per Anna Magnani, Marcello Mastroianni, Romolo Valli e tantissimi altri, ma anche Renato Rascel e Domenico Modugno, per arrivare oggi ad avere accanto giovani come Massimo Popolizio, Sergio Rubini o Marina Massironi. Testimone e protagonista di un secolo quindi, tra vita e teatro, sempre ad essere impegnato dalla parte e nella parte giusta, con grande professionalità, tanto che la sua recitazione curata e sapiente, la sua dizione sempre chiara, la sua vena ironica, sembrano un dono naturale di chi sa sempre cosa deve fare col sorriso sulle labbra. Così, una delle ultime volte in cui è salito su un palcoscenico a 96 anni, a chi gli chiedeva se non gli costasse fatica, rispondeva: ''Al contrario, la scena dà forza'', e doveva essere sincero se ancora oggi, come diceva la moglie, l'attrice Marianella Laszlo, si capiva che il teatro gli mancava...Del resto è stata una sua passione fin da ragazzino, quando il padre lo portò a vedere Ermete Zacconi che recitava in ''Spettri'' di Henrik Ibsen e, come ha detto tante volte, rimase colpito dalla forza della verità, dal realismo di ciò cui aveva assistito. Poi era però l'imprevedibilità e la follia di Benassi che lo affascinava, essendo quasi il suo opposto. Ciò non vuol dire che il teatro non sia anche logorante e ai giovani diceva che se volevano farlo dovevano essere pronti a combattere per realizzare quello in cui credevano, a impegnarsi sempre affrontando tutte le inevitabili fatiche e delusioni. E Tedeschi non si è mai tirato indietro, passando dai classici all'amato Pirandello, da Goldoni a Ionesco, lasciandosi alle spalle il loro valore letterario per viverne e rendere le emozioni dei loro personaggi. Lui, capace di recitare le sue battute con evidente, serio divertimento, come di mostrare una specie di impassibilità alla Buster Keaton che rende vitalmente disperato quel che dice con le parole e lo sguardo. Con Strehler è passato da ''Arlecchino servitore di due padroni'' (un Pantalone con un pizzico di dolce follia) all'''Opera da tre soldi'' (amplificando, mai sopra le righe, l'ironia di un personaggio come Peachum), poi ''La locandiera'' e ''Tre sorelle'' con Visconti, i lavori di Testori con Ruth Shammah, il Bernhard del ''Riformatore del mondo'' regia di Maccarinelli, sino all'impietoso Oldfiel in ''la compagnia degli uomini buoni'' di Bond con Ronconi, che gli valse l'ultimo premio come miglior attore dell'anno nel 2011, quando aveva 91 anni. Senza dimenticare un eccezionale ''Cardinal Lambertini" di Testoni che ne dimostra la vitalità e curiosità di artista, quindi pronto assieme a misurarsi anche col varietà e la commedia leggera, capace di cantare e muoversi danzando accanto a Delia Scala in ''My fair lady'' o a Ornella Vanoni in ''Amori miei''. L'importante è non perdere mai la misura, sapere che ''il teatro è un grande gioco, magari tragico'' e conservare quel recitare ''semplice, buttato via, moderno'' che dà il sottotitolo al libro intervista biografico ''Teatro per la vita'', realizzato anni fa con Enrica, una delle sue due figlie.
Addio all’artista Gianrico Tedeschi: divenne attore di teatro in un lager. Milanese, aveva compiuto 100 anni in aprile. Una lunghissima carriera, dai testi brillanti a quelli impegnati, iniziata con l’Enrico IV di Pirandello nel campo di prigionia dove lo avevano spedito i fascisti perché non aveva aderito alla repubblica di Salò. Maurizio Porro il 28 luglio 2020 su La Repubblica. Non si può ricordare Gianrico Tedeschi, il grande attore nato a Milano in via san Gregorio e morto il 27 luglio dopo aver superato la soglia dei cent’anni, senza un sorriso, senza dire sottovoce grazie. Non perché Tedeschi, nel corso di una lunghissima carriera iniziata pirandellianamente con Enrico IV in un campo di prigionia, spedito dai fascisti per non aver aderito alla repubblica di Salò, abbia recitato solo cose divertenti. Ne ha fatte molte, con grande classe. Ma il suo segreto era recitare testi brillanti e musical con l’impegno di un attore «serio» e di affrontare invece i copioni più impegnati con il piacere del gioco che è poi il segreto stesso del recitare. In poche parole, Tedeschi era capace di lottare con le angosce esistenziali di Bernhard, mettendo un pizzico di cinico umorismo, mentre era anche, in omaggio a Shaw, un magnifico prof. Higgins nella storica My fair lady nel ’63 con Delia Scala e Carotenuto.
Gli inizi. Gli inizi sono da capogiro: lo voleva Strehler e lo voleva anche Visconti. Col primo debutta nel ‘47 in Sotto i ponti di New York di Maxwell Anderson, neo realismo americano; col secondo entra dalla porta goldoniana della Locandiera e delle Tre sorelle cecoviane. Diplomato all’Accademia a Roma, il brizzolato Tedeschi è un attore disponibile, di forte empatia col pubblico, dotato di umorismo understatement (sotto traccia), quindi ideale per iniziare, con grandi partner Cervi e la Pagnani, tournèes di successi del dopoguerra come Harvey e Quel signore che venne a pranzo, entrambi noti al cinema. Qui c’è l’incontro col Goldoni speciale di Strehler (La vedova scaltra) ed è Pantalone nello storico Arlecchino in giro per Urss e Usa. Non gli sono sconosciuti Shakespeare (La dodicesima notte) e i francesi, da Giraudoux di Ondine a De Musset a Ionesco e diventa una colonna allo Stabile di Genova.
I testi impegnati. Due grandi talent scout, Garinei e Giovannini, lo intercettano in occasione celebrativa in Enrico ‘61accanto a Rascel: una coppia irresistibile, la vera unità d’Italia. Tanto che non c’è dubbio che nel musical dei record My fair lady ci dovrà essere lui con Delia Scala e Carotenuto, quattro mesi al Nuovo a Milano, dove sarà anche con Tognazzi e Masiero in Uno scandalo per Lili. Ma non si slegano i suoi contatti col teatro impegnato, tanto che affronta la censurata Governante di Brancati, diretto da Patroni Griffi cui segue l’Eduardo di Io, l’erede. È attore dialettico, pronto a cambiar regione e ragione, latitudine, filosofia, morale, disponibile a registi che ne apprezzano le rigorose qualità: nel ’73 la memorabile prova brechtiana strehleriana di Peachum in L’opera da tre soldi, cui segue un felice periodo in cui accasa il suo talento con Luigi Squarzina che lo dirige in Shaw, lo fa acclamare in Cardinale Lambertini, Timone d’Atene scespiriano con un pensiero moderno a Pirandello e Svevo, cui alterna sempre la brillantissima voglia di sorridere e far sorridere come accade, con qualche malinconia, in Plaza suite di Neil Simon e Luv di Murray Schisgal con Walter Chiari e l’amica coeva Franca Valeri.
A 91 anni sul palco del Piccolo. L’ultima parte della carriera, cui mette fine al Parenti nel 2015 con Dipartita finale, stravaganza beckettiana voluta da Branciaroli con altri tre attori in là con gli anni, lo vede sempre perfetto e a suo agio al centro di spettacoli belli, utili, attuali, che parlano di noi: Farà giorno diretto da Maccarinelli, sulla necessità della memoria storica, poi sul ring del pessimismo global di Berhard di cui recita Riformatore del mondo e Minetti; fa sue le Ultime lune di Bordon, sostituendo l’amico Mastroianni, commedia sulla vecchiaia, i rimpianti e le nostalgie. Ma, sorpresa, nel 2011 a 91 anni lo sceglie il grande Ronconi per La compagnia degli uomini nella casa del Piccolo, è un altro momento storico. Questo gran percorso teatrale di Giovanni Enrico Tedeschi è intervallato da presenze in film non memorabili, molta prosa quando la tv conosceva la parola, i memorabili sceneggiati anni 60 (Delitto e castigo e Demetrio Pianelli il top), vari, arguti e popolari Caroselli (Sperlari, Philadelphia) e il varietà sul piccolo schermo con La padrona di raggio di Luna, Eva ed io, Bambole non c’è una lira. Per ultimo il doppiaggio con cui fece parlare, regalando nel timbro della voce un pezzo del suo essere grande attore, Walter Matthau, Boyer, Michel Simon e chissà quanti altri.
Teatro, addio a Gianrico Tedeschi: aveva 100 anni, esordì in un campo di prigonia. Pubblicato martedì, 28 luglio 2020 da Anna Bandettini su La Repubblica.it. Chi ha l'età per aver visto Carosello ha legato la sua immagine in maniera indissolubile alla pubblicità delle caramelle Sperlari ma Gianrico Tedeschi, morto ieri sera a Pettenago, era molto di più: attore teatrale e televisivo insieme raffinato e popolare e apprezzatissimo intrattenitore negli anni dei grandi varietà. Aveva compiuto 100 anni il 20 aprile scorso, ricevendo per l'occasione un messaggio di auguri dal presidente della Repubblica Sergo Mattarella. Da molti anni viveva a Crabbia sul lago d'Orta, nella casa dove aveva festeggiato anche il suo centesimo compleanno insieme alla moglie Marianella Laszlo, anche lei attrice, e alle due figlie: Sveva, che ha seguito le sue orme diventando attrice, ed Enrica, docente universitaria di sociologia, avuta dal primo matrimonio. Studente alla facoltà di Magistero della Cattolica di Milano, durante la seconda guerra mondiale fu chiamato alle armi come ufficiale e partecipò alla campagna di Grecia; fatto prigioniero dopo l'armistizio, venne internato nei campi di Beniaminovo, Sandbostel e Wietzendorf. Nella prigionia conobbe un altro internato destinato a diventare celebre, Giovannino Guareschi. A Sandbostel recitò per la prima volta nella parte di Enrico IV nell'omonima opera di Pirandello. Nel 1947, mentre si diplomava all'Accademia nazionale d'arte drammatica di Roma, ebbe anche il suo debutto teatrale sotto la guida di Giorgio Strehler. Negli anni successivi recitò in varie compagnie e in diversi teatri, tra i quali lo Stabile di Roma, cimentandosi anche nella rivista e nella commedia musicale (nel 1961 Enrico '61 e nel 1964 My Fair Lady, di Garinei e Giovannini). Nel 1950 è Feste ne La dodicesima notte di William Shakespeare, per la regia di Orazio Costa, con attori come Giorgio De Lullo, Camillo Pilotto, Salvo Randone, Nino Manfredi, Rossella Falk e Anna Proclemer, al Castello di San Giusto per il Teatro Verdi (Trieste). Attore di grande versatilità e di peculiare umorismo, fu uno dei protagonisti della prosa televisiva (I giocatori, Tredici a tavola e La professione della signora Warren, per citare solo alcuni titoli), ma offrì prove brillanti anche nello spettacolo leggero: nel 1961 affiancò Bice Valori e Lina Volonghi nel varietà di Falqui "Eva ed io" e nel 1977 partecipò a "Bambole, non c'è una lira". Prese parte anche ai grandi sceneggiati della Rai, interpretando, tra gli altri, personaggi come Marmelßdov in "Delitto e castigo" (1963), Sorin ne "Il gabbiano" (1969) e Paolino in 'Demetrio Pianelli' (1963). Protagonista assiduo della trasmissione pubblicitaria Carosello, al quale prestò più volte il suo volto buffo e arguto, Tedeschi è ricordato soprattutto come testimonial delle caramelle Sperlari, in scenette trasmesse dal 1974. Sempre negli anni settanta interpretò inoltre, a teatro, Il cardinale Lambertini. Nella stagione 1972-73 partecipò anche alla trasmissione radiofonica Gran varietà, condotta da Raffaella Carrà, nel ruolo del Conversevole della Domenica, un oratore che si esprime in un linguaggio ricercato per un pubblico che lo comprende solo a tratti. Nel 2000 rinnovò il suo successo teatrale interpretando la malinconica pièce 'Le ultime lune' di Furio Bordon (precedentemente affidato a Marcello Mastroianni, alla sua ultima apparizione teatrale), che portò in scena per dieci stagioni (fino al 2010). Nel 2011 fu l'industriale Oldfield ne 'La compagnia degli uomini' di Edward Bond, una produzione del Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Luca Ronconi. Per questa interpretazione ha vinto anche il Premio Ubu come migliore attore.
Gianrico Tedeschi, 100 anni di vita e di teatro. L'attore compie gli anni il 20 aprile: grande testimone del Novecento, da un palco all'altro, è stato uno dei nostri grandi protagonisti in scena per oltre settant'anni. Anna Bandettini il 20 aprile 2020 su La Repubblica. Tra le tante cose per cui essere grati a Gianrico Tedeschi c'è una frase: "Sono diventato attore perché sono stato in campo di concentramento". E non ci sarebbe altro da aggiungere per raccontare questo protagonista della scena italiana che con umanità, ironia, simpatia, valori etici oltre che artistici ha attraversato onori e orrori, il teatro e la Seconda Guerra Mondiale, il successo e i lager, in un cammino secolare non ancora terminato. "Secolare" letteralmente, perché Gianrico Tedeschi compie 100 anni il 20 aprile, qualche mese prima di Franca Valeri anche lei classe 1920, ma del 31 luglio, entrambi testimoni del Novecento, di una storia, una cultura, un mondo che sono le radici del nostro. Di quel secolo di vita Gianrico Tedeschi, ne ha vissuto tre quarti, quasi settant'anni, in scena, con senso dell'umorismo, del rigore e della semplicità: stralunato Pantalone nell'Arlecchino servitore dei due padroni edizione del'74 di Giorgio Strehler, ironico Peachum nell'Opera da tre soldi sempre di Strehler, e poi negli spettacoli di Visconti, Squarzina, nella commedia musicale di Garinei e Giovannini My Fair Lady del '64, negli sceneggiati, nel varietà tv, nel cinema.... Un arco che va dal '47 al 2016 quando con Franco Branciaroli, Ugo Pagliai, Massimo Popolizio ha recitato l'ultimo spettacolo, Dipartita finale. Da lì, Tedeschi si è ritirato nella sua bella casa, un'ex canonica della chiesa, vicino a Pettenasco, sul Lago d'Orta, con la moglie, l'attrice Marianella Laszlo che incontrò nel '68 quando recitavano Le Nuvole di Aristofane. Vive sereno, anche se come in un suo tempo sospeso e inconsapevole, a parte qualche momento - e proprio Marianella tempo fa raccontava che vedendo sempre Salvini in tv, una sera Gianrico le chiede chi fosse; lei glielo spiega e Gianrico: 'L'è un bel pistola". Per il compleanno, si è fatto promettere, nessun festeggiamento, tanto più che le due figlie e i nipoti sono obbligatoriamente lontani per l'emergenza Covid. "Vedremo quando passerà la buriana", confessa Marianella. Ma i cent'anni sono la straordinaria occasione per ritrovare una storia di valori civili, artistici, umani come è quella di Tedeschi una storia che il suo vasto pubblico ha conosciuto poco a poco, con discrezione. Milanese di via San Gregorio al 3, Gianrico Tedeschi dice di essere diventato un sognatore lì, in quella casa di ringhiera con bagno esterno, due stanze per i genitori e tre figli, "dove si studiava e si mangiava tutto nello stesso tavolo". Si diploma ma ventenne va sottotenente in guerra, viene catturato in Grecia, si rifiuta di andare a Salò e tra il 1943 e il 1945 è internato nei campi di concentramento di Beniaminovo e Sandbostel in Polonia e Wietzendorf in Germania. È durissimo. "Il nostro modo di resistere era metter su spettacolini", ha raccontato. Recitava l'Enrico IV di Pirandello ai compagni di lager che sono, oltre a Enzo de Bernard, il fratello della futura prima moglie Laura, intellettuali come Enzo Paci, Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Novello e Roberto Rebora che gli dice: "Sei un attore nato". Fare teatro? "Mio papà era appassionato di teatro ci portava tutte le domeniche e io, che avevo sei anni, mi annoiavo da morire. Poi una volta mi ha portato al Teatro Dal Verme a vedere Ermete Zacconi in Spettri di Ibsen. La sua recitazione mi ha talmente impressionato che da lì ho cominciato ad andare volentieri a teatro". Questi e altri ricordi li racconta ampiamente la figlia di Tedeschi, la sociologa Enrica - la sorella minore è Sveva, avuta da Marianella- in un dialogo-biografia uscito tre anni fa da Viella, molto ricco e sapiente nell'intreccio di vita personale e sociale, teatro e storia. Si intitola Semplice, buttato via, moderno. Il 'teatro per la vità di Gianrico Tedeschi, cioè proprio come lui intende il lavoro dell'attore: non aulico, ridondante e coi birignao sia convenzionali che sperimentali, ma "semplice, buttato via, moderno", scivolando talvolta nello stupore, nell'inquietudine, nella diffidenza verso l'eccesso di emozioni, nello straniamento comico. E così che Tedeschi entra nell'antologia dei grandi attori del teatro italiano: dopo l'Accademia inizia con un grande attore come Ruggero Ruggeri, poi col teatro di Strehler, di Visconti - Tre sorelle, La Locandiera accanto a Mastroianni- di Luigi Squarzina, via via fino a Luca Ronconi per cui nel 2011 è il cinico industriale Oldfield in La compagnia degli uomini di Edward Bond al Piccolo, passando per successi come Il cardinale Lambertini di Testoni, un sardonico Sior Todero Brontolon con la regia di Andrée Ruth Shammah che lo ha diretto in tanti spettacoli, Noblesse Oblige, I promessi Sposi alla prova...Moderno, anzi quasi postmoderno, Tedeschi lo è anche nel mescolare alto e basso, classico e pop, Thomas Bernhard nell'indimenticabile Il riformatore del mondo regia di Maccarinelli e Carosello, lo show pubblicitario degli anni Settanta, Goldoni e i varietà tv, Jules Dessin con Steno e Monicelli al cinema dove ha girato oltre quaranta film, fino a Viva l'Italia di Roberto Andò in una incessante e divertita voglia di fare, come succede a tanti altri grandi vecchi che forse per non perdere tempo moltiplicano forza e emozioni dentro l'involucro del personaggio. "L'attore è qualcuno che vede il mondo come un grande gioco. Magari tragico, ma gioco", ha ripetuto nel 2013 quando interpretava Farà giorno con la regia di Maccarinelli, dove è un ex partigiano che incontra un giovane di destra, una storia che rispecchia temi che erano anche suoi. E ancora: "Ho 96 anni e mi diverto ancora a recitare", ha confessato nel 2016 quando era in scena con Dipartita finale. E l'amico Ugo Pagliai che era in scena con lui lo raccontava così: "Ha ancora una voce squillante, e indubbiamente è quello che si muove più di tutti in scena. È la tipica espressione beckettiana di un essere umano, dice delle frasi astratte con uno sguardo così disperato e così pieno di vita che è una cosa meravigliosa. È piegato su se stesso, però nonostante questo c'è una fiamma dentro di lui che è difficilissimo spegnere. È un'energia pazzesca, e io me la godo un po' ogni sera".
Gianrico Tedeschi rip. Marco Giusti per Dagospia il 28 luglio 2020. Era impossibile non ammirare la grazia, l’eleganza, l’intelligenza, la leggerezza di Gianrico Tedeschi, scomparso oggi alla tenera età di cento anni, qualsiasi cosa facesse. Fosse teatro con Luca Ronconi e Giorgio Strehler, fosse un grande spettacolo musicale alla Garinei e Giovannini, o fosse cinema con Mario Mattoli o Streno o Pasquale Festa Campanile o fosse solo uno dei suoi celebri caroselli della Sperlari, quelli dove arrivava con la scatoletta delle caramelle e l’aria da zio matto ma simpatico. Quel tipo di leggerezza, di recitazione da teatro leggero che però lui adattava perfettamente a qualsiasi tipo di testo e di personaggio, se lo portava dietro fin da quando lo abbiamo notato al cinema, assieme ai grandi nomi del varietà del tempo, Walter Chairi, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi. Eccolo nei primissimi anni ’50 ne “Il padrone del vapore” di Mario Mattoli, il suo primo vero film, “Noi due soli” di Marino girolami, “Bravissimo” di Luigi Filippo D’Amico, dove gareggia in bravura con Alberto Sordi, “Caporale di giornata” di Bragaglia con Nino Manfredi o “”Non perdiamo la testa” di Mattoli con Ugo Tognazzi. Lombardo come Tognazzi, agli inizi ha una vena surreale abbastanza particolare che si stempererà negli anni, ma che era perfetta per la commedia “minore” degli anni ’50 come lo sarà per i suoi primi caroselli, sarà anche, proprio a Carosello, il secondo Signor Veneranda, il celebre personaggio di Carletto Manzoni. Certo, al cinema, con un fisico già nel dopoguerra da non giovane, coi capelli bianchi spettinati e un perfetto italiano da persona istruita, non poteva avere ruoli da protagonista, ma era piuttosto il pittore bizzarro, come ne “I pappagalli” di Bruno Paolinelli con Sordi, l’amico di Fred Buscaglione nel bellissimo “la cento chilometri” di Giulio Petroni, il superiore antipatico ne “L’impiegato” di Gianni Puccini con Manfredi, Arcangelo Bardacci ne “Il federale” di Luciano Salce con Ugo Tognazzi. Malgrado la grande attività teatrale di quegli anni, la sua presenza al cinema è quasi interamente dedicata alla commedia se non al cinema puramente comico di Mattoli&co. Fa qualche rara apparizioni in film “seri”, come ne “La legge” di Jules Dassin, o in “Cartagine in fiamme” di Carmine Gallone o in “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli, ma funziona meglio nel bianco e nero della commedia all’italiana. Grazie alle sue eccezionali doti di adattamento, fa moltissima tv, sia negli sceneggiati, penso a “Scaramouche” con Domenico Modugno o “Demtrio Pianelli”, sia nel teatro filmato del tempo, “Processo a Gesù”, “Il gabbiano”, “L’acqua cheta”, con qualche stravaganza puramente televisiva, “Il gran simpatico” o “I proverbi per tutti”. Ma è anche un magistrale Shylok ne “Il mercante di Venezia” in versione televisiva senza pensare a successi come “My Fair Lady” o “Bambole non c’è una lira”. Torna al cinema grazie a registi amici e intelligenti, come Steno o Pasquale Festa Campanile o Mario Monicelli, che hanno bisogno di attori veri da unire ai comici del momento o ai mattatori. Lo troviamo così in film anche molto diversi, “Brancaleone alle crociate” dove è Pantaleo, “Il merlo maschio” e “L’uccello migratore” con Lando Buzzanca, “La presidentessa” con Mariangela Melato, “Il mostro” con Johnny Dorelli, fino a film strampalati come “Ettore lo fusto” di Enzo G. Castellari o “Dottor Jekyll e gentile signora” con Paolo Villaggio e Edwige Fenech o “Frankenstein all’italiana” dove è il Dottor Frankenstein. Dopo gli anni ’80, a parte qualche rara apparizioni cinematografica, “Prestazione occasionale” di Sergio Rubini e “Viva l’Italia” di Roberto Andò, si rifugia completamente nel teatro, che proseguirà da vero maestro fino a “La compagnia degli uomini” nel 2011 diretto da Luca Ronconi, dove venne giustamente celebrato da tutto il mondo dello spettacolo.
· E’ morto l’attore John Saxon.
È morto John Saxon, attore di horror e western tra Hollywood e Cinecittà. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da La Repubblica.it. È morto a 83 anni John Saxon, attore di origini italiane noto per i suoi ruoli in diversi spaghetti western e poliziotteschi girati a Cinecittà negli anni 70 e per gli horror, tra cui la saga Nightmare. È stato anche lo scrittore protagonista di Tenebre (1982) di Dario Argento. Ad annunciare la scomparsa è stata la moglie Gloria: è morto per le complicazioni di una polmonite a Murfreesboro, nel Tennessee. Nome d'arte di Carmine Orrico, John Saxon ha recitato in molti film italiani, a partire da La ragazza che sapeva troppo (1963) di Mario Bava (1963), I tre che sconvolsero il West (Vado, vedo e sparo) (1968) di Enzo G. Castellari, La legge violenta della squadra anticrimine (1976) di Stelvio Massi (1976), Italia a mano armata (1976) di Franco Martinelli, Napoli violenta (1976), Il cinico, l'infame, il violento (1977), entrambi di Umberto Lenzi. Negli anni 70 Saxon ha recitato accanto a Bruce Lee in I tre dell'operazione Drago e anche in film horror, come Un Natale rosso sangue (1974) di Bob Clark, nel ruolo del capo della polizia; Uccidete Mister Mitchell (1975), nel ruolo dell'avvocato Walter Deaney, Apocalypse domani (1980) di Antonio Margheriti, nel ruolo di un reduce dal Vietnam, Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven e Nightmare 3 - I guerrieri del sogno (1987), nel ruolo del tenente Donald Thompson, il padre di Nancy, ritornando anche in Nightmare - Nuovo incubo (1994). Saxon ha vinto un Golden Globe come miglior attore non protagonista per la sua interpretazione di un bandito messicano nel film A sud-ovest di Sonora (1966). Nato a New York, nel quartiere di Brooklyn, il 5 agosto 1936, da genitori di origine italiana, Antonio Orrico e Anna Protettore, provenienti dalla provincia di Salerno, Carmine Orrico studiò recitazione con la celebre insegnante Stella Adler ed entrò nel mondo del cinema alla metà degli anni 50 interpretando ruoli di teenager. Secondo la biografia di Robert Hofler (The man who invented Rock Hudson: The pretty boys and dirty deals of Henry Willson), quando il "talent agent" Henry Willson vide la foto del 16enne Orrico sulla copertina di un detective magazine, immediatamente contattò la famiglia e condusse il ragazzo con sé a Hollywood, dove gli fece acquisire il nome d'arte di John Saxon. Nei suoi primi anni da attore, Saxon lavorò con molti registi noti, tra cui Vincente Minnelli in Come sposare una figlia (1958), Blake Edwards in La tentazione del signor Smith (1958), Frank Borzage in Il grande pescatore (1959), John Huston in Gli inesorabili (1960) e Otto Preminger in Il cardinale (1963). Saxon ha lavorato molto anche in tv. Nel 1975 partecipò a diversi episodi della serie televisiva L'uomo da sei milioni di dollari, interpretando il ruolo del maggiore Frederick Sloan (il primo a essere rapito e sostituito da un robot, poi affrontato e distrutto dal colonnello Steve Austin), nonché quello del capo degli alieni ribelli che contrapporrà Sasquatch sia a Steve che a Jaime. Quest'ultimo ruolo venne esteso anche a un'altra serie, La donna bionica. Partecipò anche come guest star al telefilm Starsky & Hutch. Negli anni novanta e 2000 ha partecipato a numerosi film indipendenti ed è apparso in diverse serie televisive, tra cui Csi - Scena del crimine e Masters of Horror.
Marco Giusti per Dagospia il 26 luglio 2020. Avrebbe potuto essere un Marlon Brando o un Clint Eastwood, del resto aveva studiato come il primo con Stella Adler e aveva fatto come il secondo la scuola da attore della Universal. Ma John Saxon, nato a Brooklyn del 1935 come Carmine Orrico, di discendenza napoletana, e scomparso oggi a 84 di polmonite a Murfreesboro nel Tennesse, verrà ricordato soprattutto come uno dei grandi attori del cinema di genere degli anni d’oro. Capace di passare dai set di John Huston e Otto Preminger a quelli di Mario Bava, Dario Argento, da quelli di Bruce Lee e Wes Craven a quelli di Umberto Lenzi e Enzo G. Castellari. Chiudendo poi qualsiasi triangolazione con Roberto Rodriguez e Quentin Tarantino. “Personalmente, mi sento di un altro mondo”, mi disse nella sua villa a Hollywood quando lo intervistai una decina d’anni fa per “Stracult”. Pensando come altro mondo la vecchia grande Hollyood dei primi anni ’60 che aveva frequentato da giovane promessa a fianco di tutti i più celebri attori del tempo. Simpatico, schivo, divertente, rovinato dalle troppe mogli e dai troppi divorzi. “Quentin Tarantino può raccontare della mia carriera molto più di quello che ti possa dire io”, mi disse anche. Non a caso Tarantino, che lo aveva già avuto sul set di “Dal tramonto all’alba” di Rodriguez e scritto da lui, lo volle come coprotagonista dell’episodio da lui diretto di CSI, “Grave Danger” nel 2008. Ma non credo che John Saxon amasse davvero tutti i suoi film di culto e straculto che fece negli anni, sia in Italia, wester, thriller, polizieschi, che in America, dove grazie al successo di “Nightmare” e di “Black Christmas” venne chiamato per anni a ripetere il ruolo del tenente di polizia. Una carriera infinita, composta di 200 titoli tra film, film tv, serie. Le maggiori soddisfazioni gliele dette proprio Marlon Brando, col quale divise un incredibile braccio di ferro fra gli scorpioni velenosi in “A sud ovest di Sonora - The Apaloosa” di Sidney J. Furie con una stravagante fotografia di Russel Metty. Nel ruolo del bandito Chuy Madera, Saxon sfida a questo particolare braccio di ferro con morso il gringo Marlon Brando. L’idea e i dialoghi erano proprio opera di Saxon e di Brando, che alla fine delle riprese gli disse “Nessuno saprà mai quello che hai fatto per questo film”. Ma pochi anni dopo lo chiamò il vecchio amico Clint Eastwood per ripetere un po’ lo stesso ruolo in “Joe Kidd” diretti da John Sturges. Purtroppo, Carmine Orrico alias John Saxon non aveva un volto abbastanza americano per poter fare l’americano nei film italiani, cioè il vero e proprio protagonsita. Darà il suo meglio quindi nel poliziesco, sia come poliziotto nei vari “Mark colpisce ancora”, “Napoli violenta”, “Il cinico, l’infame, il violento”. E aveva una faccia troppo italiana o meridionale per Hollyood. Al punto che, dopo aver fatto il messicano, il portoricano, cosa oggi scorrettissima, finirà per specializzarsi come poliziotto anche lì. Nato a Broklyn da due genitori campani, Carmine Orrico studia con Stella Adler proprio negli anni di Brando. Viene notato da Henry Willson, celebre agente di Rock Hudson, che gli cambia nome in John Saxon e decide di lanciarlo a Hollywood. Fa il suo esordio nel 1954 fra tv, la serie “Medic” con Richard Boone e il cinema, piccoli ruoli in “La ragazza del secolo” e “E’ nata una stella” di George Cukor. Fa già il gangster italo-americano già in “Ladri di automobili” nel 1955, mentre si mette in luce in “Mister X, l’uomo nell’ombra” con Esther Williams. Dopo altri piccoli ruoli e un bel contratto con la Universal, si mette davvero in luce nel bellissimo western di John Huston “Gli inesorabili” a fianco di Burt Lancaster, Audie Murphy, Lillian Gish e Audrey Hepburn. Ha il ruolo di Johnny Portugal, un mezzosangue che viene cacciato brutalmente perché potrebbe far capire a Audrey Hepburn che anche lei è un mezzosangue indiano. Aveva molte più battute, ricordava Saxon, Huston aveva fatto crescere molto il suo personaggio, ma volendo un film più d’avventure che sociale, Burt Lancaster, star e produttore, fece tagliare molto la sua parte. Fu comunque il ruolo che ce lo fece conoscere e che, assieme a quello del cardinal Quarenghi nel kolossal di Otto preminger “Il cardinale” lo lanciò all’attenzione internazionale, Nei primi anni ’60 lo troviamo così in “Il portoricano”, mentre il cinema italiano lo chiama per film importanti, come “Agostino” di Mauro Bolognino a fianco di Ingrid Thulin tratto dal romanzo di Alberto Moravia riscritto per lo schermo da Goffredo Parise. Un passo falso, in realtà. Meglio il thriller di Mario Bava in bianco e nero “La ragazza che sapeva troppo”, dove venne invitato sul set da Letitia Roman, figlia dello scenografo e sceneggiatore Nino Novarese. Fu un passo falso anche l’incasinato film di guerra diretto e prodotto in Italia da Edgar G. Ulmer, “Sette contro la morte”, dove recita con Rosanna Schiaffino. Mesi buttati per un film che ebbe mille intoppi produttivi. John Saxon si riprende grazie proprio a Brando e a “A sud ovest di Sonora”, malgrado il difficile rapporto tra il protagonista e il regista, l’inglese Sidney J. Furie, che non si apprezzavano affatto. Ma il film rimane un ottimo western e loro due memorabili. Nello stesso anno gira pure il suo primo horror, “Queen of Blood” di Curtis Harrington, mentre due anni dopo torna in Italia per il suo primo e unico spaghetti western, “Vado, vedo, sparo” di Enzo G. Castellari con Antonio Sabato e Frank Wolff. Dovrebbe anche interpretare con James Caan protagonista e Maria Grazia Buccella “Casanova nel West”, western bizzarro di Romolo Guerrieri che rimarrà allo stato di progetto. Ma in Italia funzionerà meglio nel poliziesco, che inizierà col violentissivo mafia movie “Baciamo le mani” di Vittorio Schiraldi, dove fa un boss spietato. Nel poliziesco e nell’action il cinema italiano lo riscopre. Anche se lo faceva un po’ ridere la regia un po’ troppo semplicista dei registi italiani coi boss obbligati a non abbassare gli occhi e a avere sempre la mascella in alta. Grazie al successo da noi di “Tenebre” di Dario Argento e in tutto il mondo di “I tre dell’operazione Drago”, “Nightmare”, “Black Christmas” diventa un attore di culto adorato da tutti i nuovi fan del genere. In pratica, ha lavorato fino adesso, con film che ancora devono uscire. Ma a casa sua, ricordo, era orgoglioso delle fotografie che ancora aveva del set de “Gli inesorabili” di John Huston. E della star di Hollywood che, in qualche modo, non fu.
· È morta Olivia de Havilland, diva di Hollywood.
Olivia de Havilland, muore a 104 anni l'ultima protagonista di Via col Vento: aveva vinto due Oscar. Libero Quotidiano il 26 luglio 2020. È morta all'età di 104 anni Olivia de Havilland, che era ultima star ancora in vita di Via col vento. L'attrice è morta nella sua casa di Parigi, dove aveva scelto di vivere fin dal 1960. Vincitrice di due premi Oscar come migliore attrice, nel 1947 e nel 1950, De Havilland ha avuto una carriera di oltre 50 anni. Il film 'Via col vento', del 1939, le era valso una delle sue cinque nomination agli Oscar, in quel caso come attrice non protagonista: quella volta non aveva vinto. Nel grande classico del cinema aveva interpretato il ruolo di Melanie Hamilton Wilkes. Aveva invece vinto le prestigiose statuette per A ciascuno il suo destino e L'ereditiera. Oltre che per la recitazione, De Havilland era nota per il suo carattere: nel 1943 fece causa alla Warner Bros quando lo studio cinematografico provò a mantenerla sotto contratto nonostante fosse scaduto, sostenendo che potesse essere esteso di altri sei mesi perché l'attrice aveva rifiutato alcuni ruoli ritenendoli non adatti a lei; e nel 1945 le Corti d'appello della California stabilirono che nessuno studio poteva estendere un accordo senza il consenso dell'artista, una decisione che fu soprannominata 'la legge De Havilland'. De Havilland è poi famosa per il travagliato rapporto con la sorella Joan Fontaine, anche lei vincitrice di Oscar.
Morta Olivia De Havilland, ultima superstite del cast di Via col vento, aveva 104 anni. A 104 anni si è spenta Olivia De Havilland, ultima attrice rimasta in vita del cast di Via col vento, vincitrice di due premi Oscar come miglior attrice protagonista. Francesca Galici, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Si è spenta a 104 anni Olivia De Havilland, l'attrice interprete di Melania in Via col vento. Era l'ultima supertiste del kolossal holliwoodiano del 1939, che ha perso l'ultima testimone dei segreti di un film che con la sua trama, per quanto da sempre al centro della polemica, ha scritto la storia del cinema. Ricoprì uno dei ruoli principali nella pellicola, quello della cugina di Rossella O'Hara che, alle sue spalle, cercava di avvicinarsi a suo marito. La carriera cinematografica di Olivia De Havilland, nata a Tokio il 1 luglio 1916, è ricordata soprattutto per quell'interpretazione tanto che per tutti, dopo Via col vento, lei è sempre stata semplicemente Melania. Eppure la sua carriera è stata costellata di lavori e di film, anche di successo, nonostante nessuno sia mai riuscito a equiparare il capolavoro di Victor Fleming. Sebbene Olivia De Havilland sia stata resa celebre da Via col vento. non è con questo film che ha vinto due Oscar come migliore attrice protagonista nel 1947 e nel 1950. Le statuette più ambite da ogni attore le sono state assegnate per le magistrali interpretazioni in A ciascuno il suo destino e L'ereditiera, capolavori del secondo dopoguerra che non hanno fatto altro che suggellare una carriera straordinaria.
Il kolossal Via Col Vento compie 80 anni. Ma non li dimostra. La sua carriera inizia prima di Via col vento, nel 1934 ad appena 18 anni, quando Max Reinhardt le affida il ruolo di Hermia in Sogno di una notte di mezza estate all'Hollywood Bowl. La sua interpetazione ha convinto a tal punto che l'anno successivo venne confermata per la trasposizione cinematografica della Warner. Sono anni difficili per il cinema, chedeve sottostare al Codice Hays, una serie di regole morali che poco dopo la contruattualizzazione di Olivia De Havilland con la casa di produzione Warner hanno dettato legge nel cinema, almeno fino al 1967. La sua carriera è stata segnata dalle beghe contrattuali con la casa di produzione Warner ma anche con le altre colleghe, con le quali non ha mai avuto un buon rapporto. Warner le ha spesso impedito di partecipare ad altre produzioni cinematografiche, e l'ha punita per alcune intemperanze che le costarono settimane di sospensione dal set e che lo studio avrebbe voluto farle recuperare al termine del contratto. Olivia De Havilland non solo si rifiutò ma citò in giudizio Warner e vinse la causa, cambiando il volto del mondo di Hollywood di quegli anni.
"Via col vento", il bestseller che non si potrebbe scrivere. Sua sorella era Joan Fontaine, alla quale venne affidato un ruolo in un film di Hitchcock che sarebbe dovuto essere il suo. Da quel momento tra le due i rapporti si fecero sempre più complicati e tesi finché non si ruppero definitivamente quando morì la loro madre. Era il 1975, le due erano in disaccordo sull'organizzazione delle esequie e da quel momento Olivia De Havilland non parlò più con sua sorella. Olivia De Havilland si è spenta a pochi mesi dall'anniversario dell'80esimo anno di Via col vento e poche settimane dopo la polemica "Via col vento" rimosso dal catalogo Hbo: "È un film razzista" che ha portato HBO a togliere la pellicola dal catalogo perché ritenuta razzista. Ora Via col vento è tornato in catalogo ma con un video iniziale che ne contestualizza il periodo storico, per offrire gli strumenti di comprensione al pubblico attuale.
È morta Olivia de Havilland, diva di Hollywood: aveva 104 anni. L'attrice, star di "Via col vento", nella sua carriera aveva vinto due Oscar. Silvia Fumarola su La Repubblica il 26 luglio 2020. Olivia de Havilland è morta a a Parigi a 104 anni (aveva compiuto gli anni il primo luglio). L'attrice, star di Via col vento nel ruolo di Melania, nella sua lunghissima carriera aveva vinto due Oscar. Ma quel film kolossal che la rese popolarissima, proprio di recente è finito al centro delle polemiche per i contenuti razzisti, al punto che Hbo Max lo ha rimosso temporaneamente. Elegante, bellezza delicata, de Havilland venne scritturata dalla Warner Bros. per sette anni (quando non aveva ancora venti anni) e fu protagonista di una lunga e serie di film d’avventura – tra cui Capitan Blood (1935), La carica dei seicento (1936), La leggenda di Robin Hood (1938), Gli avventurieri (1939), I pascoli dell’odio (1940), La storia del generale Custer (1941) – ben otto dei quali al fianco del divo Errol Flynn. A Hollywood fiorirono le voci sui flirt con James Stewart, col miliardario e produttore Howard Hughes, col regista John Huston, con Clark Gable. La grande popolarità arriva col ruolo di Melania Hamilton in Via col vento, ma quella di Olivia de Havilland - nata a Tokyo dove il padre lavorava come avvocato - è una storia da romanzo per la rivalità con la sorella Joan (più piccola di quindici mesi), che scelse il nome d'arte di Fontaine. Fin dall'infanzia e per tutta la vita ebbero rapporti difficili e furono rivali. Nel 1942 Joan Fontaine la spuntò sulla sorella maggiore nella conquista dell'Oscar come miglior attrice protagonista, al quale quell'anno erano entrambe candidate: vinse per Il sospetto di Hitchcock, mentre Olivia de Havilland era in corsa per La porta d'oro di Mitchell Leisen. Il rapporto fra le due negli anni fu segnato da dispetti reciproci e riconciliazioni. Nel 1975 la rottura definitiva. Fontaine dichiarò a People nel 1978: "Sono stata la prima a sposarmi, la prima a vincere l’Oscar, la prima a diventare madre. Se morirò prima di lei la farò infuriare perché l’avrò battuta anche in quello". Morì in effetti prima della sorella, nel 2013, a 96 anni. De Havilland si dichiarò "sconvolta e profondamente addolorata" per la scomparsa di Joan. Sono le uniche due sorelle nella storia del cinema ad aver vinto entrambe un Oscar come miglior attrice protagonista. Fu lei la modella che posò, brandendo una fiaccola, per il logo della Columbia; ha legato il suo nome agli anni d'oro di Hollywood anche se si allontanò dalle major che le offrivano solo ruoli da brava ragazza. Tra i suoi film Lo specchio scuro, La fossa dei serpenti (in cui aveva il ruolo di una donna vittima di un crollo psichico), miglior interpretazione femminile alla Mostra di Venezia del 1949; Nessuno resta solo di Stanley Kramer (1955); Luce nella piazza di Guy Green (1962), Piano… piano, dolce Carlotta di Robert Aldrich (1964), in cui recita l'amica Bette Davis. Tra le ultime apparizioni il catastrofico Airport 77 (1977) accanto a Jack Lemmon. Nel 1987 aveva lavorato per la televisione, aggiudicandosi un Golden Globe per Anastasia: The mystery of Anna sulla storia dei Romanov. Britannica naturalizzata statunitense, Olivia de Havilland era la più longeva star premio Oscar vivente. Si era aggiudicata la statuetta nel 1947 per A ciascuno il suo destino e nel 1950 con L'ereditiera, adattamento dal romanzo di Henry James diretto da William Wyler. Nel 2017 la regina Elisabetta, in occasione del suo 101° compleanno. le aveva conferito l'onorificenza di Dama dell’Impero Britannico. Nel 2010 la Francia le aveva reso omaggio con l'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine della Legion d'Onore. Si era trasferita a Parigi nel 1955 e aveva sposato il giornalista e scrittore francese Pierre Galante, da cui avrebbe divorziato nel 1979 (dal 1946 al 1953 era stata sposata con lo scrittore e attore statunitense Marcus Goodrich). Nel 1962 pubblicò l'autobiografia Every Frenchman has one (Random House), in cui ironizzava sulle difficoltà di adattarsi alla vita, alle buone maniere e ai costumi francesi.
Ritratto di Olivia de Havilland, la Melania di Via col vento. Susanna Schimperna su Il Riformista il 28 Luglio 2020. Se fino ai suoi settanta, ottant’anni, i primati che le riconoscevano avevano a che fare con la sua bravura – unica attrice che ha il proprio nome inscritto nella Hollywood World of Fame insieme a quello della sorella, che è stata candidata all’Oscar come protagonista nello stesso anno, che l’ha spuntata facendo causa al colosso Warner Bros – con il passare del tempo l’accento si era spostato tutto sull’età, e accanto al nome di Olivia de Havilland venivano citati, immancabilmente, questi nuovi record: «l’unica sopravvissuta dei quattro protagonisti di Via col Vento», «la più anziana vincitrice dell’Oscar ancora in vita», «l’attrice più longeva di tutti i tempi». Fosse riuscita ad arrivare poco oltre i 120 anni, avrebbe battuto la mitica Jeanne Calment e conquistato anche un altro titolo, entrando nel Guiness dei Primati. Col suo carattere tutt’altro che remissivo, viene il sospetto che a non superare Madame Calment l’abbia fatto apposta. Non ha voluto dargliela vinta, ai giornalisti che ormai la trattavano come un caso clinico, un bizzarro esemplare per cui tifare. Che parlavano solo della sua età e della sua ostinazione a voler restare in vita. Che la ricordavano solo per Via col vento. Che al suo compleanno, il 1° luglio, le avevano fatto gli auguri osannandola perché aveva battuto Kirk, ovviamente Kirk Douglas, morto a febbraio prima di arrivare ai 104. Olivia Mary de Havilland, nata in una famiglia importante (padre avvocato cosmopolita specializzato in brevetti, madre attrice, zio baronetto pioniere dell’aviazione e fondatore della “De Havilland Aircraft Co”) e sorella della famosa Joan Fontaine, era tutt’altro che quella donna dall’espressione supplice che abbiamo visto nei suoi film più importanti. Nelle tante storie d’avventura, amata da Errol Flynn, era sempre lì con l’aria adorante, remissiva, un po’ piagnucolosa. Decisamente irritante, eppure alle donne degli anni Trenta e Quaranta piaceva tanto proprio per questo: non era provocante, non era sexy, non era libera, non era aggressiva. Trovava dentro di sé la forza dell’eroina solo quando si trattava di difendere il suo uomo, il suo idolo. Perfetto modello di ciò che si chiedeva alle donne – soprattutto americane – di allora. Il ruolo che l’ha consacrata non è dissimile: in Via col vento, 1939, di Victor Fleming, la sua Melania è esattamente quella del libro, quanto a melensaggine, modestia, straripante bontà e generosità, ingenuità che è più tontaggine che candore. Non si può immaginare nessuna che più di Olivia possa far credere l’incredibile, cioè che davvero ama e ammira Rossella, la terribile Rossella disposta a qualunque cosa pur di soffiarle il marito. Il primo Oscar arriva con A ciascuno il suo destino, 1946 per la regia di Mitchell Leisen, il secondo per L’ereditiera di William Wyler, 1949, in cui ancora, proprio come in Via col vento, continua a non vedere, a non capire, a spalancare gli occhi già grandi di loro in uno sguardo da vittima sacrificale, ma questa volta non rivolto a uomo che perlomeno è bravo e le vuole bene, come era Ashley-Leslie Howard, ma rivolto a un grande farabutto che ambisce solo alla sua eredità. Però, alla fine, la ricca insignificante ragazza tira fuori unghie e carattere. Quando si rende conto della realtà, sceglie la linea dura e sbeffeggia l’aspirante approfittatore nel modo più doloroso. E nel cambiamento di espressione, gestualità, sguardo, Olivia è meravigliosa. Il suo carattere, appunto. Una che sconsigliata da tutti si imbarca in una causa contro la Warner Bros dopo che persino Joan Crawford, la terribile Joan, contro la Warner in tribunale era stata pesantemente sconfitta. Ma Olivia procede, sicura di sé e delle proprie ragioni, e sopporta due anni di fermo pur di andare fino in fondo. La causa non solo la vince: la sentenza crea un importante precedente, per cui la Warner non potrà più obbligare nessuno a lavorare per riempire il buco creato dalle sue stesse sospensioni date come punizione, o dai periodi in cui l’attore sotto contratto ha prestato servizio sotto le armi. Il fatto che Olivia sia stata molto amica sia di Joan Crawford sia di Bette Davis fa riflettere su quanto poco debba essere stata capace di ipocrita dolcezza. Le due “belve di Hollywood” non si sarebbero lasciate di sicuro imbrogliare. In Piano, piano… dolce Carlotta, film di Robert Aldrich del 1964, non si sa chi sia più brava. Il triangolo è completo: la parte di Olivia avrebbe dovuto essere di Joan Crawford, lei non poté accettare, Bette Davis fece pesare il proprio potere e impose Olivia. Due polemiche hanno accompagnato de Havilland. Una, ormai dimenticata dai più, sul suo rapporto conflittuale con la sorella Joan Fontaine, forse più per motivi personali che per rivalità professionale. L’altra, recentissima, sul blocco da parte di Hbo Max e di altre piattaforme di Via col vento, giudicato non trasmettibile perché non denuncia lo schiavismo e per la romanticizzazione e semplificazione delle figure dei personaggi di colore. La decisione, presa in seguito ai movimenti di protesta per la morte di George Floyd, era stata accompagnata da un comunicato di HBO molto paternalistico: «Mantenerlo così, senza spiegare e denunciare il razzismo, sarebbe irresponsabile. Tornerà quando sarà contestualizzato e risituato nel suo periodo storico». Infatti ora è tornato con due video-preambolo, che spiegano, prendono le distanze, parlano al pubblico come se nessuno fosse in grado di andare a darsi un’occhiata a un libro o semplicemente a Google per capire cosa sia stata la Guerra di secessione americana, e cosa fu e in molti Paesi ancora è lo schiavismo.
Marco Giusti per Dagospia il 27 luglio 2020. Alla fine anche Melania se ne è andata. Non deve essere stato facile per Olivia de Havilland, scomparsa a Parigi a 104 anni, né sopravvivere per così tanto tempo ai suoi meravigliosi partner di “Via col vento”, a Vivien Leigh, a Clark Gable, a Leslie Howard, né portarsi dietro per tutta la vita l’immagine della dolce Melania che tutti nel film, a parte gli spettatori, sono obbligati a amare ma che forse nella vita proprio così non era mai stata. Indipendente, dura, fiera, combattiva, per nulla arrendevole né con gli odiosi boss della Warner Bros che gliela avevano giurata quando si impuntò per il loro contratto capestro di sette anni con sei mesi in più di sospensione e iniziò una celebre causa, che vinse alla faccia di Hollywood, né con la sorella Joan Fontaine che le aveva tolto quello che avrebbe potuto essere il suo primo Oscar da protagonista nel 1941. La sua prima nomination, per “Via col vento”, era da non protagonista. Ed anche lì era stata battuta da Hattie McDaniel, la cameriera nera di Rossella. Si sarebbe potuta rifare con “La porta d’oro” di Mitchell Leisen, per il quale era candidata da protagonista. Ma “Il sospetto” di Alfred Hitchcock, per il quale era candidata sua sorella minore Joan, beh, era un capolavoro. Così perse. Certo, poi ne vinse ben due di Oscar, con l’ormai dimenticato “A ciascuno il suo destino” di Mitchell Leisen nel 1946 e il meraviglioso “L’ereditiera” di William Wyler nel 1950, ma intanto Joan l’aveva battuta sul tempo di fronte a tutta Hollywood. Un affronto. Per anni non le parlò. E Joan non la volle al funerale di loro madre. Scrisse che da bambine, come sorella maggiore, le aveva fatto qualsiasi tipo di angheria, l’aveva bullizzata. Volarono battute e ogni genere di cattiverie. Poi nel 1962 passarono il Natale insieme coi mariti per far pace. E in un’intervista Joan se ne uscì che non era vero niente, che si sentivano spesso. Che la loro rivalità era un’invenzione della stampa (“Due belle ragazze che si vogliono bene non fa notizia”). Crederci? Mah… Però quando nella recente miniserie “Feud”, Olivia fece causa ai produttori perché Catherina Zeta Jones, interpretandola, dava della “bitch” a Joan, intervenne pesantemente per togliere la battuta. No. Non aveva nulla della Melania Hamilton di “Via col vento”. Negli anni ’30 aveva avuto amanti celebri: James Stewart, Howard Hughes, perfino John Huston, che l’avrebbe voluta sposare. Ma il suo vero amore, ahimé non corrisposto, era stato Errol Flynn, che aveva amato pazzamente sullo schermo in otto meravigliosi film della Warner diretti da Michael Curtiz che tutto il mondo aveva visto e che definirono per sempre la sua carriera. “La leggenda di Robin Hood”, “Capitan Blood”, “La carica dei 600”, “Gli avventurieri”, “Il conte di Essex”, “La storia del generale Custer”… Siamo cresciuti con quei film, con il sorriso spavaldo di Errol Flynn che sparava, tirava frecce, duellava di spada con perfido Basil Rathbone e alla fine stringeva a sé la palpitante Olivia de Havilland. Lei aveva una cotta per lui. Ma forse ce l’avevamo tutti una cotta per Errol Flynn. Alla fine non fu fortunatissima con gli uomini. Si sposò due volte, con lo sceneggiatore Marcus Goodrich nel 1946, dal quale divorziò nel 1953, e con Pierre Galante, un altro sceneggiatore, che sposò nel 1955 dal quale divorziò nel 1979. Ebbe due figli. Benjamin Goodrich, esperto di analisi statistiche, che morì a 42 anni per un linfoma Hotchkins che gli era stato diagnosticato a 19 anni, e Giselle Galante, nata dal secondo matrimonio. Da tanti anni era una leggenda di Hollywood che aveva accuratamente scelto però di non vivere più in America. Del resto tutti i suoi amici erano morti, a cominciare dall’amica del cuore, Bette Davis, con la quale aveva interpretato “Piano, piano dolce Carlotta” di Robert Aldrich prendendo il posto di Joan Crawford. E poi l’America non era mai davvero stato il suo paese. Figlia di inglesi, Walter de Havilland, professore, avvocato di brevetti, autore del primo libro inglese sul gioco del Go, e di Lilian, attrice, era nata a Tokyo nel 1916, solo un anno prima di Joan. Ma il padre aveva lasciato la madre nel 1919. Così Lilian decise di trasferirsi con le due bambine a Saratoga, in California. E’ lì che crescono e diventano attrici seguendo le orme della mamma. In una recita scolastica a Oakland Max Reinhardt si innamora di Olivia e la sceglie per “Sogno di una notte di meza estate” di Shakespeare. Sia per la versione teatrale che per quella cinematografica del 1935. E’ allora che la Warner Bros le fa firmare un contratto di ben sette anni in esclusiva. Gira i suoi primi film, “Alibi Mike”, “Colpo proibito”, poi esplode cone Arabella Bishop in “Capitan Blood” di Michael Curtiz con Errol Flynn, presto seguito da “Avorio nero” di Mervyn Le Roy (e Curtiz) con Fredric March, da “Avventura a mezzanotte” di Archie Mayo con Leslie Howard e Bette Davis. E poi arriva “La leggenda di Robin Hood” di Michael Curtiz con Errol Flynn dove è la più incantevole Lady Larian che si potesse desiderare. In due-tre anni è una delle più grandi star della Warner, al pari di Bette Davis. Ma l’alchimia che hanno con Errol Flynn è qualcosa di impagabile. Se Curtiz è descritto da Olivia de Havilland come “un tiranno, prepotente, crudele, un vero villano, anche se era davvero bravo. Allora non lo credevamo, ma lo era”, con Flynn portano sullo schermo un’alchimia che solo Janet Gaynor e Charles Farrell avevano avuto dieci anni prima. Quando viene “prestata” dalla Warner a David O. Selznick per “Via col vento”, insomma, è la star di prima grandezza della Warner e ha solo 23 anni. Forte di una nomination e di un film visto e amato in tutto il mondo, torna alla Warner e si ritrova a interpretare i soliti ruoli. Chiede ruoli più interessanti e meno banali. Per tutta risposta la Warner la punisce mettendola in sospensione per sei mesi. Non farà nessun film. Non solo. I sei mesi verranno tolti dai sette anni di contratto. E’ un sopruso. Non ci sta e fa causa alla Warner. “Che tu vinca o perda, non farai più film a Hollwyood”, le dicono. Non è vero. Nel 1944 vince una battaglia epocale per sé e per tutti gli attori di Hollyood. Non solo. Ritenuta “difficile”, piantagrane, troppo perfezionista, quando torna al cinema nel 1946 con un contratto alla Paramount vince il suo primo Oscar con “A ciascuno il suo destino” di Mitchell Leisen scritto da Charles Brackett. Ma dei quattro film del 1946 vorrei ricordare anche il thriller di Robert Siodmak “lo specchio scuro”. Due anni dopo viene nuovamente nominata per “La fossa dei serpenti” di Anatole Litvak, dove interpreta il ruolo di una donna rinchiusa in un manicomio. La batte però Jane Wyman per “Johnny Belinda”. Si rifarà l’anno dopo vincendo il suo secondo Oscar con “L’ereditiera” di William Wyler con Montgomery Clift e Ralph Richardson tratto da “Washington Square” di Henry James. Non era un ruolo facile e Olivia de Havilland dimostra di aver vinto la sua battaglia per avere ruoli migliori per le attrici. Arriveranno così “Mia cugina Rachele” di Henry Koster, “Nessuno resta solo” di Stanley Kramer, “Luce nella piazza” di Guy Green con Rossano Brazzi, ambientato a Firenze. Probabilmente la sua grande stagione è finita all’inizio degli anni ’50, ma con Robert Aldrich e a fianco di Bette Davis dimostra cosa sa ancora fare in “Piano, piano dolce Carlotta”, 1964. Per convincerla a prendere il ruolo di Joan Crawford, a film iniziato, Aldrich dovette andare in Svizzera e parlarle per quattro giorni. Si porterà parte del suo ricco guardaroba, qualche abito di Dior della sua collezione personale, per interpretare il ruolo. Joan Crawford ci rimarrà malissimo. Farà altri film, “Airport 77”, “Swarm”, qualche serie tv, perfino “Radici”, ma alla fine rimarrà sempre legata alla sua prima grande stagione e alla Hollywood che già negli anni’50 era scomparsa.
· È morto Regis Philbin, leggendario conduttore della tv Usa.
È morto Regis Philbin, leggendario conduttore della tv Usa. Pubblicato domenica, 26 luglio 2020 da La Repubblica.it. Regis Philbin, leggenda del piccolo schermo detentore del record mondiale per il maggior numero ore di sulla televisione americana, è morto all'età di 88 anni. Personaggio eclettico, è stato anche attore, cantante, comico. Come conduttore ha portato al successo il gioco a premi Chi vuol essere un milionario?. "Era una persona dotata di un leggendario senso dello humor e aveva la rara capacità di rendere ogni giorno memorabile", ha affermato la famiglia nel comunicato con cui ha dato notizia della morte. "Uno dei grandi della storia televisiva" lo ricorda sui social il presidente Usa, Donald Trump, "Era una persona fantastica e un mio amico. Continuava a ripetermi di candidarmi alla presidenza". Nato a New York il 25 agosto del 1931, Philbin si è laureato all'università di Notre Dame prima di trascorrere due anni nella Marina americana. Finita l'esperienza militare Philbin si dedicò alla carriera dell'intrattenimento scontrandosi con i suoi genitori, profondamente contrari alla sua decisione. Una scelta che poi si è rivelata perfetta visto il successo ottenuto. Dopo aver trascorso anni conducendo show televisivi mattutini a Los Angeles, Philbin è tornato nella sua New York nel 1983 per condurre una trasmissione quasi sconosciuta per una rete locale di Abc. Nel 1985 le due donne che lo affiancavano nello show vennero sostituite da Kathie Lee Gifford, in un cambio che segnò la svolta. Tre anni dopo infatti il programma Live with Regis and Kathie Lee era conosciuto a livello nazionale. I due erano complementari. "Ogni tanto mi innervosisce, e io innervosisco lei", aveva confessato sorridendo Philbin. "Ma quello che odio di più sono due conduttori troppo civili, troppo gentili uno con l'altro", aveva aggiunto. Sul piccolo schermo infatti si punzecchiavano, battibeccavano ma si divertivano e facevano divertire. Nel 1999 Philbin iniziò a condurre su Abc lo show nel prime time Chi vuole essere un milionario?: inizialmente doveva durare solo due settimane ma si rivelò di tale successo che alla fine andava in onda tre volta alla settimana.
· E’ morto Peter Green: fondatore dei Fleetwood Mac.
Peter Green morto a 73 anni: addio al fondatore dei Fleetwood Mac. Notizia.it il 25/07/2020. Peter Green è morto a 73 anni: lo storico chitarrista aveva fondato i Fleetwood Mac insieme a Mc Vie, Fleetwood e Spencer. Addio al chitarrista Peter Green, cofondatore dei Fleetwood Mac e uno dei solisti più influenti tra gli anni Sessanta e Settanta, morto a 73 anni. A dare la notizia è stata la sa famiglia che ha fatto sapere che l’icona del rock si è spenta “pacificamente nel sonno“. Peter Allen Greenbaum, questo il suo vero nome, aveva esordito nel 1966 sostituendo Eric Clapton nei Bluesbreakers, la blues band inglese più celebre degli anni Sessanta. Insieme a Mick Fleetwood, John McVie e Jeremy Spencer, fondò i Fleetwood Mac resi celebri da successi Black magic woman e Albatross. Nel 1970 decise però di abbandonare sia la band che il genere musicale, iniziando una carriera da solista nell’ambito del rock. A causa di una schizofrenia diagnosticata, che lo costrinse anche ad un ricovero in un ospedale psichiatrico, per quasi un decennio sparì dalle scene e abbandonò la sua chitarra, poi acquistata da Gary Moore. Fu nel 1979 che ricomparve nel panorama musicale con l’album In the skies per poi sparire nuovamente fino al 1997. In tale anno tornò con una nuova band, The Splinter Group, formata tra gli altri da Nigel Watson e Cozy Powell, con cui pubblicò sette dischi fino al 2003. Peer Green ha influenzato generazioni di artisti rock ed è tuttora ritenuto uno tra i più influenti blues men britannici di ogni tempo. B.B.King, con cui collaborò all’incisione di un album nel 1971, lo aveva definito “l’unico chitarrista che mi fa sudare freddo”
Morto Peter Green, fondatore dei Fleetwood Mac. Pubblicato sabato, 25 luglio 2020 da Andrea Silenzi su La Repubblica.it. Il chitarrista si è spento nel sonno a 73 anni: resta una delle figure più leggendarie della storia del rock. E' stato uno dei chitarristi più influenti e amati del rock anni 60 e 70. Peter Green, co-fondatore dei Fleetwood Mac e poi leggendario solista, è morto a 73 anni: la notizia è stata data dalla sua famiglia, che ha fatto sapere che il musicista si è spento "pacificamente nel sonno". Green, il cui vero nome era Peter Allen Greenbaum, era nato a Londra nel 1946. Salì alla ribalta nel 1966, quando fu chiamato a sostituire (prima temporanemente, poi a titolo definitivo) Eric Clapton nei Bluesbreakers di John Mayall, la blues band inglese più celebre degli anni 60. Insieme a Mick Fleetwood e John McVie, anche loro nella band di Mayall, e al chitarrista Jeremy Spencer decise di formare un nuovo gruppo destinato a fare la storia. I Fleetwood Mac entrarono in scena imponendo uno stile fortemente legato al blues, ma nel giro di un paio d'anni Green decise di abbandonare la band per divergenze personali e artistiche: il 20 maggio del 1970 tenne il suo ultimo concerto con la band. Il chitarrista, alle prese con problemi di instabilità mentale (gli fu diagnosticata una forma di schizofrenia) decise di intraprendere una carriera solista e di abbandonare la strada del blues per dedicarsi a una forma musicale inedita e totalmente d'avanguardia: il suo esordio solista, The end of the game, resta uno dei dischi più coraggiosi e sperimentali dell'intera storia del rock. Una sorta di free rock lisergico, oscuro e inquietante ma estremamente moderno. In quella riuscita miscela sonora, Green aveva probabilmente proiettato i suoi fantasmi. Dopo quell'album, i suoi problemi mentali lo trascinarono in un vortice che lo portò a sparire dalle scene per tutto il decennio: anni in cui si liberò di tutti i suoi averi, perfino della sua chitarra (acquistata da Gary Moore, altro gigante del rock blues). Dopo ricoveri e degenze, che spinsero la stampa britannica a definirlo "il Syd Barrett del blues inglese", Green tornò sulle scene nel 1979 con l'album In the skies: un disco rilassato, godibile, ma lontano parente del frenetico e visionario suono di dieci anni prima. Dal suo rientro, arrivato dopo una sorta di eremitaggio misterioso, Green pubblicò una serie di dischi di morbido blues privi di grande ispirazione. Dopo una nuova pausa, durata più di dieci anni, Green si ripresentò sulle scene nel 1997 con una nuova band, The Splinter Group, che riuniva vecchie glorie della scena inglese come Nigel Watson e Cozy Powell. Dopo l'album omonimo, con gli Splinter pubblicò altri sette dischi, restando nel solco di un blues gradevole ma privo di grinta, in cui però il Robert Johnson Songbook restituì dignità a una stella che si è spenta troppo presto. Nel 1988 entrò a far parte della Rock And Roll Hall Of Fame insieme ai Fleetwood Mac. Di lui B.B.King aveva detto: "E' l'unico chitarrista che mi fa sudare freddo".
· Morto Paolo Finzi, l'avvocato anarchico della Milano degli Anni di Piombo.
Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 22 luglio 2020. La sera del 12 dicembre 1969 anche lui fu portato in questura, insieme a Giuseppe Pinelli e agli altri anarchici militanti dei circoli Ponte della Ghisolfa e Scaldasole. Paolo Finzi era il più giovane: studente di terza liceo classico, diciottenne da un mese e febbricitante. Anche per questo fu rilasciato dagli uffici in cui Pinelli morì tre giorni dopo. Paolo Finzi è morto lunedì pomeriggio, travolto da un treno poco lontano dalla stazione di Forlì. Il macchinista ha raccontato di aver visto un uomo lanciarsi verso i binari. Aveva 68 anni, quasi tutti vissuti nel segno dell' anarchia, soffriva di crisi depressive e agli amici aveva sempre detto: deciderò io come andarmene. «Maestro di anarchia e di etica, di dialogo e confronto. Uomo brillante, intelligente, sensibile e gentile - è il ricordo dei colleghi di A-Rivista anarchica, da lui fondata nel 1971 e mai abbandonata -. Ci ha insegnato il dubbio e la riflessione, l' ascolto e il rispetto profondo e sincero. Continueremo a navigare in direzione ostinata e contraria, portando avanti un progetto che era la sua casa e la sua vita, nel solco del suo impegno e dei suoi ideali di libertà e giustizia». E un ricordo arriva anche dal direttivo del Club Tenco («Figura rara di intellettuale appassionato, di inossidabile coerenza e di rara umanità»), perché Finzi era stato a lungo amico di Fabrizio De André e vicino a quel mondo di artisti. Al cantautore genovese ha dedicato moltissime iniziative di studio e racconto, così come alla stagione terribile delle stragi di Stato, inaugurata proprio quel 12 dicembre 1969. «Autorevole nel mondo anarchico ma mai supponente, sempre aperto al dialogo e convintamente non violento - lo ricorda Claudia Pinelli - proveniva da una famiglia ebrea e aveva sempre mantenuto vivo l' interesse verso la religione». In collaborazione con l' Anpi aveva condotto ricerche storiche sul ruolo degli anarchici nella Resistenza, ma al tempo stesso, in perfetta sintonia con l' amico De Andrè, si era impegnato per anni alla condizioni di rom e sinti, andando di persona nei campi della periferia milanese. Un impegno sfociato nella produzione di un documentario: «A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli zingari». Intanto ha continuato a reggere, tra mille difficoltà, le sorti della Rivista anarchica. Fino al momento in cui ha deciso altro per sé.
Morto Paolo Finzi, l'avvocato anarchico della Milano degli Anni di Piombo. Pubblicato martedì, 21 luglio 2020 da Massimo Pisa su La Repubblica.it. Fu tra i fermati con Pinelli all'indomani dell'attentato. Dalla fondazione della rivista A all'amicizia con De André. Ha scelto di andarsene dove e come ha voluto, libertario fino in fondo, anche nella decisione di farla finita dopo una lunga depressione e problemi di salute, anche in famiglia, che ne avevano fiaccato l'animo e piegato la sensibilità. Quest'ultima, e la memoria, sono sempre state la parte prevalente dell'agire e della produzione di Paolo Finzi, milanese 69enne, militante anarchico fin dall'adolescenza e poi tante altre cose: la Crocenera - la società di mutuo soccorso che aiutava anche gli attivisti in carcere - la fondazione di A/Rivista anarchica che ha diretto a lungo pur rifiutando l'etichetta e il concetto stesso di direttore, l'amicizia politica e musicale con Fabrizio De André di cui è stato promotore infaticabile, l'impegno con la Fondazione Gaber a Rosignano, la testimonianza di una stagione irripetibile. Finzi è morto lunedì pomeriggio, travolto da un treno a qualche chilometro dalla stazione di Forlì, dov'era andato per l'ennesima iniziativa culturale. Il macchinista ha raccontato alla Polfer di aver visto un uomo gettarsi volontariamente dalla massicciata sui binari, senza riuscire a frenare. Non ha lasciato messaggi. Il suo battesimo del fuoco lo aveva avuto, come tutta la sua generazione, la sera del 12 dicembre 1969. Finì fermato, come tanti anarchici, in questura, nello stanzone al quarto piano dell'Ufficio Politico insieme a Giuseppe Pinelli, a Sergio Ardau e a tanti altri militanti del Ponte della Ghisolfa e dello Scaldasole. Aveva 18 anni appena compiuti, Paolo Finzi, frequentava il terzo liceo al Carducci di Milano e quel giorno era a letto con l'influenza, come altri milioni di italiani in quel periodo. Per questo venne rilasciato, a differenza del 41enne ferroviere che tre notti dopo trovò la morte. Finzi comparve una settimana dopo davanti al giudice Ugo Paolillo, a rilasciare la sua testimonianza sulla fine di Pinelli. Tutte le altre - sull'innocenza del manovratore della stazione Garibaldi e su quella di Pietro Valpreda, sulla morte dell'anarchico pisano Franco Serantini (il "sovversivo" raccontato da Corrado Stajano) e sulla violenza politica di un decennio di morti di Stato - Paolo Finzi le urlò in piazza e le scrisse su carta. Su quel settimanale, "A", bonariamente descritta come "la prima delle riviste sull'alfabeto" che fu una trincea intellettuale per quell'universo anarchico che dovette difendersi dall'infamia dello stragismo. L'amicizia con "Faber" arrivò dopo, traeva i suoi semi dai sentimenti anarchici di De Andrè cantati soprattutto in Storia di un impiegato del 1973 ma crebbe come passione intellettuale, ludica, umana. Sul maestro della canzone genovese, Finzi ha curato speciali e documentari, raccolte e serate di divulgazione e racconto. Le stesse che, per decenni, ha tenuto sulle stragi di Stato e sulle ingiustizie subite dai compagni di militanza. Lo aveva fatto anche per il cinquantesimo anniversario di piazza Fontana, con qualche coda polemica che ha avvelenato il dibattito all'interno della stessa comunità anarchica. Poi la malattia. E la decisione di andarsene, pianta in tanti sul web, a cominciare da Silvia e Claudia Pinelli, le figlie del ferroviere, "18esima vittima della strage", che lo hanno avuto come amico e compagno di viaggio.
· Morto Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai.
Giornalismo: morto Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai. Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 da La Repubblica.it. E' morto ieri sera a Roma, all'età di 87 anni, Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai dove è stato vicedirettore dei Gr unificati, da sempre impegnato in prima linea negli istituti di categoria, dalla Federazione nazionale della stampa all'Ordine del Giornalisti, dall'Inpgi, di cui è stato vicepresidente, all'Unione giornalisti pensionati. Nato a Roma il 23 settembre 1932, giornalista professionista dal 1958, ha iniziato la sua carriera nella carta stampata, al Giornale d'Italia, per passare all'inizio degli anni '70 in Rai, alla radio, dove è diventato una delle voci storiche del Gr2 del mattino. Esperto e appassionato di auto, è stato un riferimento dei giornalisti del settore, autore di numerose rubriche in Rai e direttore del periodico "Strade e Motori". All'impegno professionale ha affiancato quello di rappresentanza della categoria come segretario dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio, Umbria, Abruzzo e Molise e vicepresidente dell'Inpgi. Cordoglio e vicinanza alla famiglia è stato espresso anche dalla Fnsi. Lascia i figli Fabio Massimo, coordinatore di Affari e Finanza di Repubblica, Filippo e Federico. I funerali si svolgeranno domani, martedì 21 luglio, a Roma alle 10, nella parrocchia di Santa Maria Stella Matutina, in via Lucilio 2 alla Balduina. A Fabio Massimo l'abbraccio di tutta la redazione di Repubblica.
· E' morto Oreste Casalini, artista e scultore.
E' morto Oreste Casalini, artista e scultore. Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 da La Repubblica.it. Oreste Casalini, artista, scultore, curatore alla Biennale, è morto ieri notte a Roma dove era ricoverato all'Idi. Da tempo Casalini lottava contro un tumore ai polmoni e sua moglie Ekaterina Pugach aveva anche lanciato una raccolta fondi per una terapia combinata molto costosa. Nato a Napoli nel 1962, ma da anni nella capitale, Casalini si era diplomato all'Accademia di Belle Arti di Roma e nel corso della sua carriera ha realizzato numerose installazioni permanenti in spazi privati e pubblici. Negli anni Casalini ha vissuto e lavorato a New York, Berlino, Dubai, Napoli e nel sud dell'India; nel 2010 ha realizzato installazioni permanenti a Milano e Berlino, ha partecipato alla 12/a Biennale di Architettura di Venezia nell'ambito del Progetto "E-picentro" come artista e curatore della sezione "In tenda". La sua ultima mostra, a dicembre scorso, "Per sempre" alla Kou Gallery di Roma.
· E’ morto a 104 anni Giuseppe Ottaviani: recordman tra i masters di atletica.
Atletica, morto a 104 anni Giuseppe Ottaviani: recordman tra i masters. Pubblicato domenica, 19 luglio 2020 da La Repubblica.it. Addio a Giuseppe Ottaviani. All'età di 104 anni si è spento serenamente il celebre atleta master a Sant'Ippolito (Pesaro e Urbino) dove era nato il 20 maggio 1916. Straordinario esempio di longevità attiva, è stato protagonista nelle ultime stagioni alle rassegne tricolori e internazionali, conquistando titoli e primati mondiali di categoria. Sarto da giovane e sportivo da anziano, per superare la noia della pensione, Ottaviani a 83 anni debuttò nella velocità e nei lanci, ottenendo il primo titolo italiano. A 95 anni esordì nel salto in lungo (superando i 2 metri) e in quello triplo, segnando con 4,46 il record mondiale, confermandosi anche al coperto con 4,37. Nel 2011 ha realizzato i suoi primi record mondiali M95 nel salto in lungo e nel triplo, mentre nel 2014 è diventato l'atleta italiano con il maggior numero di vittorie in un'unica manifestazione iridata (10 medaglie d'oro ai Mondiali master indoor di Budapest). Nel 2016 il portacolori del Gs Effebi Fossombrone è stato il primo italiano a gareggiare nella categoria M100 in una rassegna nazionale, e il più applaudito agli Europei Master indoor di Ancona, raccontati anche in due documentari a lui dedicati. Proprio nel 2016, poco prima di compiere 100 anni, è salito sul palco del Festival di Sanremo, come ospite nella serata inaugurale. L'anno scorso ha ricevuto il titolo di Commendatore dell'ordine al merito della Repubblica Italiana e due anni prima il Presidente Sergio Mattarella lo aveva accolto al Quirinale, apprezzandone la straordinaria vitalità. Sempre nel 2016 lo aveva accolto anche Papa Francesco, che si era a lungo complimentato con lui. Giomi: "Sua passione sarà un esempio". Nel palmares di Giuseppe Ottaviani ci sono 55 titoli italiani, 1 record mondiale, 8 record europei e 13 record italiani M95; 8 record mondiali, 4 record europei e 12 record italiani M100. Il ricordo di Alfio Fiomi, presidente della Fidal: "L'atletica italiana saluta Peppe Ottaviani, una persona bella, sorridente, capace di essere motivo di ispirazione per gli atleti di ogni età. La sua passione, quella che lo ha portato a correre, saltare e divertirsi con l'atletica fino a oltre cento anni, ci sarà per sempre di insegnamento".
· È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai.
È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai. La decana degli ambientalisti aveva 97 anni. E' riuscita a salvare una parte preziosa del paesaggio italiano oltre a ville, castelli e boschi. La Repubblica il 19 luglio 2020. È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai - il Fondo Ambiente Italiano. Decana degli ambientalisti che ha salvato una parte preziosa del paesaggio italiano oltre a ville, castelli e boschi. La signora del Fai aveva 97 anni. E da due mesi aveva perso il figlio Aldo Paravicini, 65 anni, in un incidente stradale dovuto probabilmente a un malore. Era nata a Merate nel 1923. Vedova del conte Marco Paravicini e di Guglielmo Mozzoni, nel 1962 entro nella proprietà del Corriere della Sera. imprimendo la sua forte personalità nella gestione editoriale del quotidiano: portò all'allontanamento dalla direzione di Giovanni Spadolini che venne sostituito da Piero Ottone e all’aperto contrasto con Indro Montanelli, che la definì “dispotica guatemalteca”. Nel 1973 Crespi cedette alcune quote della proprietà a Gianni Agnelli e Angelo Moratti per poi liquidare l’anno dopo la sua quota all'editore Andrea Rizzoli. Era nata in una delle più importanti famiglie industriali lombarde, cotonieri e cugini dei proprietari della fabbrica di Crespi d'Adda. Figlia unica, venne educata in casa dove ebbe come insegnante Fernanda Wittgens, la Soprintendente che fece risorgere la pinacoteca di Brera dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 2003 è stata insignita della carica di Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana e ricevette dall’Università di Bologna la laurea honoris causa in storia dell’arte. "E' un evento che segna un momento cruciale nella storia della Fondazione - dice Andrea Carandini, presidente dell'ente - e vena di infinita tristezza l'animo del Consiglio di amministrazione, del comitato dei garanti, della struttura operativa e delle delegazioni del Fai che a lei con unanime riconoscenza dedicano il più commosso tributo. La chiarezza del suo insegnamento, il solco tracciato, lo stile e l'entusiasmo infuso in qualsiasi cosa facesse indicano senza incertezze la strada che il Fai è chiamato a seguire per il Bene del Paese, fissata nella missione che lei stessa contribuì a definire".
Una vita per l'ambiente e la cultura. Nel 1975 con Renato Bazzoni fondò il Fondo ambientale italiano del quale fino all'ultimo è stata l'anima ispiratrice pur essendo stata affiancata, prima come presidente fino al 2009 e poi come presidente onoraria fino a oggi, da figure via via divenute fondamentali nello sviluppo della Fondazione, come dal 1985 Marco Magnifico, Ilaria Borletti Buitoni, Angelo Maramai e Andrea Carandini, oltreché da una struttura operativa e di volontariato che ha ormai raggiunto, per dimensioni e professionalità, il livello di una grande impresa culturale no-profit nazionale. Educata secondo i severi principi della borghesia lombarda in base ai quali "chi ha avuto molto, deve dare molto", frase che Giulia Maria amava ripetere, conosceva, apprezzava e stimolava - da sempre praticandolo in prima persona - il ruolo che il volontariato svolge nella società civile, sostenendo e incoraggiando l'importante azione che le delegazioni del Fai hanno svolto e svolgono, a fianco della struttura operativa, per la maturazione e la crescita della Fondazione. Pur essendo di carattere forte e imperativo Giulia Maria Crespi ha sempre fortissimamente creduto nel lavoro di squadra come unica possibilità per ottenere risultati seri e duraturi. Una creatività inesauribile, una riluttanza per i compromessi, una passione per il dialogo, una singolare unità di ideali e concretezza, una noncuranza per le difficoltà - tanto più stimolanti quanto ardue - e una mai incrinata perseveranza ne hanno fatto una figura impegnativa per chiunque avesse a che fare con lei, ma al tempo stesso un esempio inimitabile e senza sfumature di ideali civici e di passione per la vita, per la cultura e per l'ambiente. La cura e la salute della terra come fondamento per la salute dell'uomo, lo strenuo impegno per una agricoltura senza veleni, insegnata e praticata nella sua grande azienda agricola della Zelata sulle rive del Ticino (è stata tra i fondatori dell'Associazione per l'agricoltura biodinamica) e la passione per la tutela dell'ambiente, inteso nel suo inscindibile legame con la storia, sono stati i temi che, insieme alla grande attenzione per il mondo della scuola, hanno guidato la sua attività, come sempre instancabile e generosa, nell'ultimo decennio della sua vita. "Il Fai soffre per la scomparsa della fondatrice Giulia Maria Crespi. Rassicurata dallo sviluppo della Fondazione in tema di beni gestiti, paesaggio e patrimonio, si era riservata la delega per l'ambiente, preoccupata per la salute della natura e dell'uomo. Il Fai ha tradotto le sue indicazioni in pratiche virtuose nei beni e nell'educazione al costume della sostenibilità e sempre avvertirà ai suoi fianchi questo suo ultimo sprone".
Addio alla signora della Milano borghese che credeva nell'ambiente e nei giovani. Pubblicato domenica, 19 luglio 2020 da La Repubblica.it. Se n'è andata Giulia Maria Crespi. La chiamavano "La zarina", ma era una sorta di regina della Milano borghese. La sua casa bellissima, in corso Venezia, si apriva per pranzi e cene e per "convivi" dove arrivavano anche centinaia di invitati. Aveva superato malattie, dolori, perdite, lutti, ma da quando era morto per incidente stradale il figlio, a 65 anni, lei che ne aveva quasi trenta di più, non s'era ripresa. Mancherà a moltissime persone, perché era capace di mescolare grandi dolcezze e grandi ascolti a una sorta di "polso fermissimo". Le sue ultime battaglie erano green: contro il glisofato, per l'agricoltura biodinamica, contro le multinazionali del cibo. Minuta, con la vista quasi spenta, camminava eretta, scortata da amiche o da una sorta di dama di compagnia. E, sotto Natale, quando regalava un concerto agli amici, nel magnifico salone di casa sua, finiva spesso con un discorso. L'ultimo era stato a favore delle "Sardine", non in quanto tali, ma perché sentiva il bisogno di parole democratiche da parte dei giovani e sperava che riecheggiassero con maggiore forza in un mondo di "odiatori", di sovranisti che voltano le spalle ai bisogni e alle speranze del mondo. Il concerto aveva una "ripetizione" negli anni: l'inno alla Gioia, perché Giulia Maria Crespi, che con l'eredità avuta avrebbe potuto avere una vita agiata e serena, non aveva sepolto i talenti. Aveva preso il Corriere della Sera in una stagione difficile e con Piero Ottone direttore l'aveva cambiato. Era entrata poi nel consiglio d'amministrazione del Gruppo Espresso. E, quando c'era la semina alla Zelata, la sua cascina con terreni perfetti verso Pavia, era come se anche lei volesse rinascere. Giorgio Bocca le dedicò un articolo molto divertente, giocando su questa sua voglia di agricoltura, ma in fondo era solo bisogno che coltura e cultura in qualche modo andassero un po' più d'accordo. Quando venne aperto per pochi il Cenacolo - un'iniziativa del Piccolo teatro, con Sonia Bergamasco che recitava e il pubblico che ascoltava in cuffia la storia di come durante la seconda guerra mondiale l'opera di Leonardo venne protetta - era seduta davanti. Non perdeva questa occasioni, amava Milano e l'ha interpretata come pochi. Anzi, è probabilmente l'ultima persona gentile e potente, allegra e durissima, che rappresenta quell'epoca. Era rimasta solo lei, dopo la morte di Inge Feltrinelli, spesso sua ospite, a saper mischiare i molti ambienti che sono il vero nutrimento di una città meritocratica com'era e in fondo com'è ancora Milano. Una leggenda vuole che la regina d'Inghilterra volesse i suoi Canaletto, che campeggiano in una delle sale del solotto-labirinto, carico di poltrone, casi, tele, lampade. Ovviamente, la regina di Milano se li era tenuti.
Con la morte di Giulia Crespi è sparita anche la borghesia…Fausto Bertinotti su Il Riformista il 26 Luglio 2020. Dopo la morte di Giulia Maria Crespi, a legare la sua storia a quella di una classe sociale e al suo ruolo nella storia del Paese non è stato un saggio politico, né un impegnativo scritto sul peso delle famiglie della grande industria nella nostra storia, bensì un necrologio. Cosa curiosa e insieme un piccolo segno dei tempi. Giovanni e Elena Bazzoli hanno ricordato l’amica scomparsa e le sue doti personali, ma insieme hanno voluto connettere quella storia personale a un protagonista sociale e culturale, la borghesia lombarda. Hanno scritto infatti i Bazzoli: «La sua scomparsa priva l’Italia di una voce autorevole, rappresentativa della grande e illuminata borghesia lombarda, tenacemente impegnata a difendere i valori di un progresso civile e giusto». Che la Crespi abbia teso a perseguire questi ideali si può riconoscere, che questo sia stato l’impegno sia della borghesia nazionale che di quella lombarda non si può proprio dire. In realtà, i problemi sono due, anche ad assumere la scomparsa della Crespi come un passaggio storico del Paese. Il primo riguarda il giudizio sulla borghesia italiana in tutto il Novecento, il secondo se si possa parlare ancora di una borghesia nazionale. Non è questa la sede di un grande cimento interpretativo sulla storia del Paese e delle sue classi sociali, ma qualcosa si può incominciare a vedere proprio attraverso il rapporto tra una grande famiglia della borghesia industriale lombarda, i Crespi, e il giornale che ha voluto di quella borghesia essere la voce: Il Corriere della sera. I Crespi sono certo un filo che annoda una lunga storia, a partire da quando grandi produttori di cotoniere, fondano, sull’esempio inglese, uno dei primi villaggi operai, quello di Crespi d’Adda, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. In quegli stessi anni nasceva e si afferma Il Corriere della sera. Del rapporto tra la borghesia industriale e agraria e il fascismo parla la storia. Qui possiamo solo ricordare che a licenziare il mitico direttore del Corriere, Luigi Albertini, sull’esplicita richiesta del regime a cui Albertini resisteva, fu Il Corriere della sera di proprietà della famiglia Crespi. La lunga dipendenza complice con il fascismo si produsse fino alla fine della Seconda guerra mondiale. La discontinuità avvenne sulla spinta della grande rottura, la Liberazione, la vittoria dell’antifascismo, eppure essa durò lo spazio di un breve mattino. In quel breve mattino, la direzione di Mario Borsa, che era vicino al partito d’azione, schierò Il Corriere a favore della nascita della Repubblica, con cui la parentesi si chiuse. I Crespi, tornati alla proprietà del Corriere chiamarono alla sua direzione Missiroli. La piccola borghesia lombarda e nazionale trova così la sua voce più profonda, cinica, antioperaia e anticomunista. Gli “illuminati” sono rinchiusi in spazi minoritari e spesso silenti. Un lungo ciclo, così lungo da sembrare una vera e propria vocazione della borghesia italiana, quella conservatrice e reazionaria occupa tutti gli anni Cinquanta. Sempre usando il binomio Crespi-Corriere come cartina di tornasole, la rottura sociale, politica, culturale del Biennio rosso, il ‘68-‘69, provoca un sommovimento che non lascia nulla com’era prima. La borghesia, in particolare quella milanese, ne è scossa profondamente e una proficua divisione disloca, soprattutto a Milano, le sue forze importanti sul fronte del cambiamento. Il Corriere ne dà conto: Giulia Maria Crespi, assunta nel governo, ne vuole fare lo specchio di quella che si vorrebbe «la grande e illuminata borghesia lombarda», come diceva Bazzoli. In particolare, il Movimento studentesco e le grandi lotte operaie mettono in moto un processo che disloca, diversamente dal passato, una parte assai importante della borghesia milanese, portandola al dialogo con le forze della contestazione e del conflitto. Se ancora il 12 aprile del 1968, Il Corriere è oggetto di una manifestazione di contestazione come “simbolo borghese” e se ancora dopo Piazza Fontana, il giornale insegue incredibilmente la pista anarchica, il vento sta cambiando. Sul Corriere si possono leggere anche Herbert Marcuse, Jean Paul Sartre e persino Luigi Longo.L’affermazione di una borghesia dell’apertura porta la Crespi a dare al Corriere una nuova direzione, anche perché, dirà poi in un’intervista, «quella vecchia era troppo subalterna al potere». Il Corrierone nel 1973 cambia forma e sostanza, diventa direttore Piero Ottone, arrivano le assemblee e i comitati di redazione, nasce la loro vicinanza con i Consigli di fabbrica. Si possono leggere nelle sue pagine le inchieste sulle condizioni e la gravosità del lavoro, le inchieste sulla partecipazione operaia e studentesca e sulla prima pagina del “quotidiano borghese” appare, quasi a provocazione, Pier Paolo Paolini. Ancora una volta, accade l’imprevisto. Una rottura radicale nella società fa avanzare nella sfera della politica un’ipotesi riformista che attrae una parte rilevante della borghesia milanese. Lo scontro sociale e demonizzato delle culture radicali sembra così aprire nello spazio politico l’attualizzazione di quel famoso discorso di Filippo Turati del 1920 sulla necessità di un’intesa per un nuovo governo del Paese tra le forze illuminate della borghesia imprenditoriale e le forze riformiste del movimento operaio. Questa volta, però, apparve subito chiaro che, per esistere, quest’intesa doveva fare appello diretto alle forze motrici del conflitto sociale, dello scontro di classe. Non è un caso che proprio da quelle forze politiche riformiste milanesi venne l’appello al movimento “Aiutateci a cambiare la società”. La replica della borghesia conservatrice non tarderà, con la scissione dal Corriere guidata da Indro Montanelli, allusiva di un ben più grande conflitto, quello per l’egemonia: un conflitto che è durato tutto il Novecento. E ora? Ora gli avversari storici del ‘900, la borghesia e il proletariato, sono come cavalli scossi al palio di Siena. Senza ideologia essi perdono coscienza di sé, mentre i mutamenti organizzativi, tecnico-scientifici, geo-politici ne rendono incerta e opaca la visibilità. La buona sociologia ne scandaglia le nuove forme di organizzazione, cerca i punti di forza su cui poggiare l’innovazione, e però legge anche la continuità del lungo periodo, la forza della tradizione. Ieri in Italia, i distretti industriali avevano sostituito le grandi imprese private e pubbliche nel traino dell’economia, oggi e domani, forse, lo faranno le medie imprese innovatrici e le medie città di buona vivibilità. Ma chi guida lo sviluppo? Chi propone un diverso modello di società? Chi propone oggi a qualcuno di aiutarci a cambiare la società? E chi la può cambiare davvero? Credo proprio che bisognerebbe tornare a indagare il conflitto di classe, così come si produce su scala mondiale e nella realtà locale, e cosa esso annuncia. È ormai riconosciuto da diverse parti che la diseguaglianza è la cifra di questo capitalismo finanziario globale. La pandemia ne ha esaltato persino la percezione diffusa. Molti studiosi avevano avvertito sulla trasformazione del conflitto di classe, e anche Luciano Gallino aveva parlato di un vero e proprio rovesciamento del conflitto di classe medesimo. Il conflitto di classe c’è. Jeff Bezos, in questo periodo di pandemia, ha guadagnato, in un secondo, il doppio di quanto un lavoratore medio prende negli Usa in un’intera settimana, e la nuova popolazione lavorativa è stata risospinta a prima della nascita del Movimento operaio e a prima del costituirsi del diritto del lavoro. Ma si può ancora parlare di una borghesia (e di un proletariato come l’abbiamo inteso)? Cultura, ideologia e coscienza di sé indurrebbero a dire di no. Non bastano, infatti, le avversità economiche (lo sfruttamento, la spoliazione, l’alienazione prodotta a costituirla), c’è bisogno di una coscienza di sé per poterlo fare. La morte della Crespi allora può aiutarci a mettere a fuoco un passaggio nella storia del Paese. E vuoi vedere che ci aiuta ancora un passo assai celebre del Manifesto del partito comunista? «La storia di ogni società esistita fino a questo momento – scrivono Marx ed Engels – è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni. In breve, oppressori e oppressi furono continuamente in reciproco contrasto e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta, lotta che ogni volta è finita con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta». Nella citazione, come si vede, non appaiono quelle che sono già, quando la tesi viene formulata, i nuovi protagonisti sociali e politici del tempo: la borghesia e il proletariato. Quello che viene indicato è il processo e la sua lunga durata. Oggi, in questa contesa che si rinnova, come si chiamano i nuovi protagonisti di classe? Come ieri o diversamente da ieri? Nomen est omen.
Addio Giulia Maria Crespi, la zarina dell'ambiente. Ritratto della fondatrice del Fai, una vita tra editoria e recupero delle bellezze italiane. Francesco Erbani il 19 luglio 2020 su La Repubblica. Giulia Maria Crespi era chiamata "la zarina". Chi le attribuì il titolo non cercava certo la sua benevolenza - erano gli anni in cui lei ereditò la proprietà del Corriere della Sera. Ma a quel titolo c'è da credere sia rimasta affezionata e ne sia andata fiera perché è stato grazie a eccezionali doti, tipiche d'una caratura e d'una tenacia imperiali, che tante parti del paesaggio italiano non siano state sfregiate. La militanza ambientalista di Giulia Maria Crespi, che ieri si è spenta a 97 anni, inizia a Italia Nostra, nel 1965. Passa, dieci anni dopo, per la fondazione del Fai (Fondo ambiente italiano) e si sostanzia di tantissime iniziative per salvaguardare sia singoli edifici, singole opere d'arte, sia aree pregiate, boschi. Un ambientalismo a tutto campo, che si è manifestato anche nella diffusione in Italia dell'agricoltura biodinamica, rigorosamente da lei praticata nelle Cascine Orsine, nella campagna pavese. Nella difesa del patrimonio culturale ha portato una energia che derivava dal suo essere un'imprenditrice. È concreta e se crede nella bontà di una battaglia è difficile che torni indietro. Martella politici e giornalisti, imprenditori e banchieri. È persuasiva, caparbiamente insistente. Proprietaria del Corriere, si batte perché il giornale a metà degli anni Sessanta assuma Antonio Cederna, che aveva appena lasciato Il Mondo. E per la prima volta un grande quotidiano apre con costanza le proprie pagine ai temi della città, del territorio, occupandosi anche di inquinamento, una materia rischiosa, visto il radicamento del Corriere nel mondo imprenditoriale lombardo. È lei, come racconta in Il mio filo rosso (Einaudi), un'autobiografia pubblicata nel 2015, a insistere perché Indro Montanelli si occupi dei rischi che corrono Venezia e la Laguna (con Montanelli i rapporti diventeranno cattivi, fino a rompersi). In Italia Nostra Crespi matura l'idea di una grande mostra su "L'Italia da salvare". È il 1967. L'anno prima Venezia è finita allagata, i suoi tesori sono andati sott'acqua, e ad Agrigento è crollata una porzione della città nuova, sorta a disprezzo di ogni regola urbanistica. L'Italia si accorge della sua fragilità. Ma ha bisogno ancora di qualcosa che la scuota. Quella mostra porta in giro nella penisola e anche all'estero immagini che sconvolgono un Paese indifferente. Nel 1975, insieme all'architetto milanese Renato Bazzoni, Crespi compie una svolta nella sua concezione ambientalista. Salvaguardia e tutela, certo, ma anche azione concreta. Di qui l'idea del Fai, mutuata dal mondo anglosassone, un organismo che acquisisca la proprietà di beni in pericolo, in abbandono o degradati per metterli in sicurezza e renderli fruibili. La formula: convincere imprenditori, banche, aziende pubbliche a donare i beni oppure a rilevarli cedendoli al Fai. È lei la prima a metter mano al portafoglio. Con 500 milioni di lire acquista il monastero di Torba, in provincia di Varese. Del Fai Crespi è stata presidente fino al 2010, quando è subentrata Ilaria Borletti Buitoni. È rimasta presidente onoraria, ma il suo ruolo è rimasto centrale nell'indirizzare le scelte dell'associazione e soprattutto nel premere affinché nel mondo imprenditoriale maturasse una sincera e qualificata mentalità da mecenati. Come quella che l'ha sempre contraddistinta.
Da corriere.it il 19 luglio 2020. Giulia Maria Crespi, nata a Merate nel 1923, vedova Paravicini e Mozzoni, è morta domenica 19 luglio a 97 anni. Nel 1960 iniziò a occuparsi del Corriere della Sera, uscendo dal C.d.A. nel 1974. Dal 1965 al 1975 svolse una lunga attività in Italia Nostra. Nel 1975, lasciata la gestione editoriale del Corriere, con Renato Bazzoni fondò il Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano) del quale era presidente onoraria. Lo scorso maggio aveva tragicamente perso il figlio Aldo, morto in un incidente d’automobile. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in tutta Italia, tra cui dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine «al merito della Repubblica Italiana». Nel comunicare la scomparsa, il Consiglio di amministrazione, il Comitato dei Garanti, la struttura operativa e le delegazioni del Fai «con unanime riconoscenza» dedicano a Crespi «il più commosso tributo». «La chiarezza del suo insegnamento, il solco tracciato, lo stile e l’entusiasmo infuso in qualsiasi cosa facesse - si legge in una nota - indicano senza incertezze la strada che il Fai è chiamato a seguire per il bene del Paese, fissata nella missione che lei stessa contribuì a definire».
Giulia Maria Crespi: Quando metteva sull’attenti politici, banchieri e industriali. Non le piacevano i convenevoli. Impaziente di sentirsi dire di sì a ogni richiesta che riteneva giusta. Ferrucio de Bortoli il 20 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. A Giulia Maria non piacevano i convenevoli. Era diretta, schietta. Nella sua prepotente dolcezza poteva apparire persino scortese. Impaziente di sentirsi dire di sì a ogni sua richiesta che riteneva giusta, improrogabile, definitiva. Un modo di fare autoritario nella sua semplicità (era la «zarina» secondo i detrattori che non mancarono, viste le sue simpatie politiche). A volte trattava il potente di turno come fosse il suo domestico (che peraltro considerava affettuosamente di famiglia). Ho visto ministri, banchieri, industriali di fama abilmente messi sull’attenti da una donna minuta, gracile, ma innervata da una volontà di ferro. Erano spesso ospiti della sua meravigliosa casa di corso Venezia a Milano, forse intimoriti dai Canaletto che il padre aveva acquistato per poco (invidiati dalla regina Elisabetta), dalla preziosità degli arredi di una famiglia simbolo dell’imprenditoria tessile ed editoriale lombarda. Intimoriti, imbarazzati. Il cronista annotava, con sottile godimento e ammirazione per quella donna che era stata — fino al 1974 — il suo editore. Ma Giulia Maria Crespi (chi scrive fu tra gli ultimi giornalisti che assunse) si è sentita editore di fatto del Corriere, del suo Corriere, fino all’ultimo. Anche se aveva scelto di investire nel principale concorrente La Repubblica, cosa che a noi procurava un certo disagio. Quando si prospettò, in una stagione managerialmente sfortunata, di cedere l’area verde del centro sportivo nella periferia milanese, testimonianza d’antan della responsabilità sociale dei Crespi (che introdussero in busta paga anche il legnatico per il riscaldamento delle case dei dipendenti) i pensionati del Corriere scrissero a lei. Come ex proprietaria e come paladina del verde. Giulia Maria ha continuato a trattarci come i suoi ragazzi, spesso prendendoci metaforicamente a ceffoni. A chiedere, spronare, scrivere. Non per sé. Mai. Non per qualcuno che la pregava di intercedere per i suoi interessi, politici ed economici (per questi ultimi coltivava un regale disinteresse vicino al disprezzo). Mai. Per le sue battaglie a favore della natura, dell’agricoltura sostenibile e biodinamica, contro l’inquinamento, contro le speculazioni edilizie, contro le tante brutture italiche. E per il suo Fondo italiano per l’ambiente (Fai) che nel 1975, venduto il Corriere, volle sul modello del National Trust inglese. Quasi un figlio. Giulia Maria aveva due gemelli. Aldo Paravicini è morto in un incidente d’auto la scorsa primavera nella tenuta sul Ticino rinomata per i prodotti biologici. Come il padre Marco quando Giulia Maria era incinta di Aldo e Luca. E immaginiamo quale sia stato il suo dolore intimo. L’avrà certamente nascosto sotto la sua disciplina calvinista, austera e poco incline a svelare i sentimenti. Avrà forse accelerato i morsi di quel tumore che pensava di aver sconfitto nel 2014 (rifiutando la chemioterapia) e invece aveva ripreso, inesorabile, il suo corso. Nel 2015, su sollecitazione della famiglia ma anche per quel senso del dovere prettamente borghese e meneghino del «lasciare le cose in ordine, senza dimenticare nulla», Giulia Maria scrisse le sue memorie. Quel libro «Il mio filo rosso» (Einaudi) è una splendida cavalcata (uso questo termine e poi si capirà perché) nella vita di una «bambina irruente, libera e allegra», rimasta tale anche passati novant’anni. «Nella mia vita ho commesso un sacco di sbagli e ho molti difetti — dirà in una intervista sul libro ad Antonio Gnoli di Repubblica — ma ho sempre cercato la verità. Nel nostro Paese quasi tutti hanno paura della verità. C’è la necessità di raccontare i fatti come sono avvenuti. I valori morali mutano, il costume cambia. I fatti restano». Ecco i fatti restano. Questo dovrebbe dire un editore vero. Al netto del suo carattere, lei l’avrebbe fatto bene il mestiere di editore. Ma si trovò ad essere proprietaria del Corriere in un periodo in cui i bilanci facevano acqua da tutte le parti. «Ma se tu fossi stata il mio editore mi avresti cacciato presto come avvenne con Spadolini» le dissi una volta. Lei sorrise. Ma nel libro, Giulia Maria ammise di essersi sbagliata mandando via il primo presidente del Consiglio non democristiano, causa della sua rottura con Montanelli. Nelle sue memorie si affermano una coscienza ecologica e una cultura della bellezza che, senza questa donna ostinata e scorbutica, l’Italia non avrebbe mai avuto. Indimenticabili le pagine in cui in una Sardegna incontaminata e selvaggia — che contribuì a preservare — racconta la sua cavalcata con l’architetto Guglielmo Mozzoni e l’inizio della sua storia d’amore. Guglielmo aveva il suo bel carattere. Rimase turbato vedendo il film (Teorema) di Pier Paolo Pasolini, poi collaboratore del Corriere, che Giulia Maria consentì di girare alla Zelata. Troppe perversioni, minacciò di divorziare. Guglielmo inseguì i suoi progetti impossibili di una architettura fusa con la natura (con i suoi inevitabili inconvenienti e disagi). Quando, negli ultimi anni della sua vita, ormai sordo, alzava troppo la voce, Giulia Maria lo riprendeva con uno sguardo dolce e implorante. Un mondo che non c’è più, di cui avremo nostalgia. Sperando che Giulia Maria non ci senta perché non sarebbe d’accordo. C’è tanto da fare — direbbe — guardiamo avanti.
Giangiacomo Schiavi per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2020. «In questi giorni ho pensato alla storia», dice Giulia Maria Crespi, gran signora del Fai e dell' impegno civile. E la storia prima del coronavirus ha visto imperi crollare, devastazioni, guerre, epidemie, dalle quali è uscito un mondo in cerca di nuovi equilibri, attraversato da fermenti creativi nell' arte e nella cultura. La malattia che infetta l' Italia e il mondo è un grande allarme sanitario, ma per lei è anche un brusco avvertimento. «Ci fa capire come da un giorno all' altro tutto quello che avevamo può non esserci più. La nostra civiltà retta sul denaro e sulla finanza può crollare da un momento all' altro, le cose che avevano valore di colpo non ne hanno più e si comincia a dare un senso a quel che abbiamo trascurato». A 96 anni non è spaventata dalla vecchiaia ma dall' idea sbagliata che qualcuno ha della vecchiaia come vuoto a perdere, e trova che sia stato giusto chiudere la Scala, il Duomo, i cinema e i teatri perché la sicurezza delle persone vale più di ogni altra cosa. «Ricordo la guerra, le bombe su Milano, la Scala che riapre tra le macerie e la voglia di vivere nell'Italia liberata, ma non ho mai dimenticato la voce di Churchill alla radio che parla di lacrime, sudore e sangue...». Per lei siamo a un bivio della storia anche con il coronavirus. «Impone di seguire le regole sanitarie che ci vengono dettate, ma non possiamo ignorare il fallimento di un sistema che ha distrutto l' ambiente e i beni comuni, facendo prevalere l' effimero e l' arricchimento individuale. Tutto a scapito della scuola, della cultura e dei territori, lasciati senza piani regolatori, trascurati e depredati con il saccheggio e l' abusivismo». Altri virus che hanno impoverito la terra, drogata con pesticidi e glifosati per farla rendere. Ed è la febbre della terra, con il business del turismo usa e getta dei torpedoni e della navi a Venezia, la mancanza di mezzi alla scuola «che dimentica la musica, trascura la storia dell' arte, ignora la geografia», l' abbandono dei luoghi appenninici e la svalutazione delle soprintendenze che la preoccupa. «Non si può dire che ripartiremo e andrà tutto bene. Bisogna dire le cose come stanno, alla Churchill». E oggi le cose per il Pianeta vanno male. «Bisogna trovare le connessioni positive, ricreare un' armonia, che non sia solo distruttiva e finalizzata all' arricchimento. Penso alle piante e alla metafora del loro modello sociale, come scrive Stefano Mancuso, ai filapperi delle radici che cercano altri filapperi per tenersi uniti. Senza le piante saremmo un pianeta morto. E allora, o noi cambiamo la precarietà di questo nostro modo di vivere che ha deificato robot e WhatsApp, oppure ci dovremo rassegnare alla catastrofe. Io non sono pessimista, ho fiducia nei giovani, sono migliori di chi li ha preceduti, ma per il dopo serve uno spirito nuovo, capace di pensare al bene comune». È Goethe con il Faust che Giulia Maria Crespi cita a memoria, quasi per esorcizzare le paure mentre i tg raccontano che si allarga la zona dei contagi. «... Come tutto s' intesse nel gran tutto/ e ogni cosa nell' altra opera e vive/ Come, salendo e discendendo alterne/ le celesti energie vedo scambiarsi/ le secchie d' oro...». Dipende da noi, dice Giulia Maria Crespi, accendere scintille nel buio, capire questo brutale avvertimento come un altolà. «Dopo i 93 anni, mi sono sentita più sola, la mia casa è piu vuota, ma è come se avessi allargato la visione del mondo. Dobbiamo creare come le radici delle piante reticoli di fiducia e di speranza». Ripensa a Pasolini e all' invito a guardare il fiore di nocciolo durante l' inverno: fiorisce nel freddo per annunciare la speranza, le aveva detto. In inverno adesso fioriscono le viole. Ma non è un buon segno. Forse sono impazzite. Come questo mondo che davanti a un virus ha perduto le sue certezze.
Pino Corrias per ''la Repubblica'' il 27 ottobre 2019. A proposito di Greta Thunberg dice: «Gli uomini sciocchi, rancorosi e vecchi ne parlano male. La deridono. Io invece adorerei conoscerla questa magnifica ragazzina di 16 anni che sta scuotendo il mondo. Mi piacciono i suoi occhi, il suo tono, il suo calmissimo furore».
Che cosa le direbbe?
«Che è un seme del futuro. Che le sue parole daranno frutti. Che mi piacerebbe passare un pomeriggio con lei, magari sotto gli alberi della Zelata, ora che è autunno e tutto diventa così bello da scacciare persino la malinconia».
Giulia Maria Crespi, 96 anni, è seduta su un divano bianco. Beve una tisana fumante, ogni tanto mangia una mandorla salata. È la decana degli ambientalisti italiani. La signora del Fai, il Fondo per ambiente italiano che ha salvato ville, castelli, boschi, una parte preziosa del nostro paesaggio, magari piccola, ma con immensa risonanza, per restituirlo allo sguardo pubblico e fare della bellezza un dono. I saloni del suo palazzo di corso Venezia contengono il silenzio delle cattedrali. E le sue parole un pezzo della nostra storia. Si ricorda «quando Milano era più bella di Parigi», con l’acqua dei navigli che correva accanto alle magnolie. L’acustica perfetta della Scala, prima dei bombardamenti. Le istitutrici a casa che le insegnavano Storia dell’arte e il latino, le fabbriche tessili di famiglia, le estati con gli Agnelli e i Franchetti. Mussolini che minacciava suo padre, proprietario del Corriere della Sera. Mussolini appeso in piazzale Loreto. Il ritorno dei prati nel Dopoguerra. L’asfalto e il cemento, a soffocare i prati, durante il Miracolo economico: «Sala è un buon sindaco, ma anche lui ama un po’ troppo i grattacieli». Si ricorda della prima volta che entrò da proprietaria al Corriere, anno 1961, «tutti si inchinavano, mentre io tremavo perché sapevo di non sapere nulla». Si ricorda della bomba in piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, quando Spadolini direttore scese in Cronaca e disse che bisognava smontare le pagine che accusavano i fascisti e rimontarle «dicendo che erano stati gli anarchici». Di quando lei licenziò Spadolini per piazza Fontana «e perché stava sempre al telefono con i ministri». Dei litigi con Indro Montanelli. Di quando la accusavano di essere troppo ricca, troppo comunista e addirittura l’amante di Mario Capanna, «quello del Movimento studentesco che io neanche avevo mai visto».
Ascoltata oggi, è una storia persino divertente.
«Una mattina vennero i poliziotti a circondare la Zelata, perché questo Capanna era latitante dopo certi scontri di piazza e lo cercavano a casa nostra. Non sapevo se piangere o ridere. Fui processata. Mi difendeva Giandomenico Pisapia, uomo e avvocato magnifico, ma io gli dissi che volevo difendermi da sola. E finì che diventai amica del giudice».
Quella fu la stagione di Piero Ottone direttore.
«Ottone è stato il mio maestro di giornalismo. Ha svecchiato il Corriere con Pier Paolo Pasolini in terza pagina, le inchiesta ambientaliste di Antonio Cederna, i reportage di Corrado Stajano».
Giacomo Papi per ''Il Foglio'' il 24 luglio 2020. Sui quotidiani – che come si sa non sono più quelli di una volta, e vorrei anche vedere – sopravvivono anfratti dove il loro antico potere risplende. Tra questi fortini la sezione dei necrologi resiste con incomparabile eleganza all’assalto quotidiano dei funerali di massa dei social. Gli annunci funebri a pagamento sono ancora, per molti, il luogo dove pubblico e privato si incontrano nel momento più intimo, la morte, e dove la lingua si ribella alle mode cambiando con calma, ma anche il luogo in cui le tragedie epocali si manifestano incontrovertibili, come è accaduto il 13 marzo per le dieci pagine di necrologi dei morti per Covid sull’Eco di Bergamo o per la prima pagina che il 24 maggio il New York Times ha dedicato alle vittime dell’epidemia. I necrologi sono il luogo, infine, dove, almeno in Italia, si disegna la geografia del potere. La mappa attraverso cui, leggendo con un po’ di attenzione, si può ricostruire la rete di amicizie del defunto, le sue proprietà, partecipazioni e clientele. Sul Corriere della Sera la morte di donna Giulia Maria Crespi Paravicini Mozzoni – potente, prepotente, ambientalista, anticonformista, visionaria proprietaria del quotidiano fino al 1974 (oltre che di due immensi Canaletto con veduta del Canal Grande più grande del Canal Grande) e fondatrice del Fai nel 1975 – si è consumata in 194 necrologi distribuiti su tre pagine nell’arco di tre giorni (per un incasso totale che si può stimare intorno ai 40 mila euro). La sintassi dei necrologi, esattamente come quella dei funerali, prevede che l’importanza di chi partecipa al lutto non sia data solo dal fatto di esserci e dal grado di intimità che si può mostrare con l’estinto, ma soprattutto dalla visibilità del posto che si occupa. A dimostrare l’autorità ancora emanata da donna Giulia Maria, il fatto che intimi e famigliari abbiano occupato l’intera prima colonna, costringendo tutti gli altri ad accomodarsi dalla seconda fila in poi. Il primo degli altri – quello in cima alla seconda colonna – è il nuovo padrone, ovviamente: «Il presidente Urbano Cairo», che «sentitamente partecipa». Sfilano, poi, nomi e nomignoli – Pupa, Anty, Maly, Kitti e Klaus, Galeazzo, Lupo e Marie – e cognomi multipli (per gli aristocratici la spesa è maggiore: 6,5 euro a parola, quindi a cognome) e cognomi singoli che però spesso coincidono con marchi famosi: Ferrero, Borletti Buitoni, Armani, Zegna, Ferrè, Miuccia Prada, oltre a istituzioni e fondazioni, sindaci ed ex sindaci, primi ministri e signore. Nella terza colonna, malandrino, «Antonio Ricci e tutta Striscia la notizia» salutano «l’amata guatemalteca», in riferimento agli aggettivi «autoritario, violento e guatemalteco» con cui Indro Montanelli bollò la defenestrazione di Spadolini dalla direzione del Corriere nel 1972. Ah, a proposito: quando Montanelli lanciò il Giornale – cacciato proprio da Giulia Maria e dal direttore di allora Piero Ottone – fece leva anche e proprio sul fatto che mentre il Corriere lucrava sui morti attraverso i necrologi a pagamento, il Giornale avrebbe destinato tutto in beneficenza. (Ora si fa pagare, con il tempo i buoni propositi si annacquano). In Italia la pagina delle necrologie continua a essere centrale, al punto che la battuta di Walter Valdi si conserva attuale più per la morte che per il cinema: «Io del giornale leggo sempre i necrologi e i cinema. Se è morto qualcuno che conosco vado al funerale. Se no vado al cinema». Sapere chi è morto è ancora una delle più forti motivazioni d’acquisto e una delle ragioni di sopravvivenza dei quotidiani locali. Per questo, forse, sui giornali italiani – unica gloriosa eccezione italiana la rubrica «Se ne sono andati» di Diario della settimana – non si sono mai sviluppate rubriche di encomi funebri, che invece su quelli anglosassoni abbondano. Se sono a pagamento, in inglese i necrologi hanno addirittura un altro nome. Si chiamano «death notices», notizie di morte, annunci funebri, distinzione che in italiano non c’è. È una differenza che, forse, ha una ragione profonda: un diverso approccio alla morte, quindi alla vita, perché in Italia la relazione con il morto è individuale e famigliare, il dolore privato, mentre sembra meno importante riconoscersi tutti in un ritratto condiviso. Nelle canzoni italiane non c’è nessuna Eleanor Rigby a «raccogliere il riso ai matrimoni» e neppure Father McKenzie a «scrivere sermoni che nessuno ascolterà». Alden Whitman, il più celebre tra gli scrittori di necrologi del Times, inventore dell’intervista preventiva da pubblicare post mortem, era un signore che girava per New York con un cappello da poliziotto francese e una barbetta appuntita. Chi riceveva le sue visite sapeva che la sua ora era vicina. Dopo avere acconsentito a rilasciargli un’intervista, Alger Hiss, il funzionario americano che nel 1948 fu accusato di essere una spia comunista, disse: «Ho appena ricevuto la visita dell’angelo della morte». Nel mondo anglosassone l’obituary è un’abitudine, un rito quotidiano di appartenenza alla comunità. Scrisse il premio Pulitzer Russell Baker nella prefazione di The last word, antologia di necrologi del New York Times uscita nel 1999: «È meglio che gli obituaries stiano in fondo al giornale, subito dopo i fumetti. «Spesso forniscono l’unico piacere che oggi si può ricavare dalla lettura dei quotidiani e dovrebbero essere assaporati lentamente, tenuti da parte per l’ultima tazza di caffè della colazione». (Per inciso, è la stessa posizione della rubrica di Diario curata per anni da Andrea Jacchia). Gli obituaries in Gran Bretagna e negli Stati Uniti hanno un valore politico, in alcuni casi perfino legale. Come quando, dopo l’11 settembre, nell’impossibilità di recuperare i corpi, le compagnie di assicurazione americane decisero di accettare come certificati ufficiali di morte gli oltre 1.800 necrologi delle vittime pubblicati per mesi sul New York Times. O come negli anni Settanta, durante il lunghissimo sciopero dei tipografi del Times di Londra che bloccarono per lunghi mesi l’uscita del giornale. Quando lo sciopero finì e i giornalisti tornarono al lavoro si trovarono di fronte a una montagna di morti da smaltire. Per non irritare i lettori e farseli strappare dalla concorrenza dei quotidiani popolari, si decise di allegare al normale quotidiano un poderoso fascicolo speciale fitto dei necrologi arretrati. A Londra non eri morto se il tuo necrologio non usciva sul Times. Malcolm Rutherford, per lunghi anni responsabile della pagina, racconta che una sera giunse in redazione la telefonata del maggiordomo di lord Woodword. Il nobiluomo desiderava avvisare il direttore di non essere sicuro di sopravvivere alla notte. Morire è l’unico momento pubblico della vita della maggior parte degli umani, noti soltanto alla cerchia ristretta della propria famiglia e comunità. I necrologi pubblicati sui giornali rappresentano, cioè, una sterminata Antologia di Spoon River in frantumi dove si racconta il passaggio della storia, il mutare dei gusti e dei valori. Scrive Janice Hume, autrice del monumentale Obituaries in american culture, che raccoglie ottomila necrologi di ottomila sconosciuti morti tra il 1818 e il 1930 (un numero analogo a quello del Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion che regala un nome e una nota a tutti gli ebrei italiani uccisi nei campi di sterminio nazisti): «Nel necrologio di una donna normalmente si scriveva quanto pulita tenesse la casa. Nell’Ottocento si riferivano alla morte adoperando immagini vivide che oggi ci sembrano stupide: «Ella è stata strappata dall’angelo distruttore». I necrologi sono molto di più della notizia che qualcuno è morto: raccontano ciò che in un dato periodo era considerato di valore nella vita di una persona». Ma se l’obituary è un ritratto che, mettendo a distanza, definisce l’essenziale, il problema è che l’essenziale cambia nel tempo. Nella seconda metà del Novecento, lentamente, a importare non sono più i ruoli sociali, ma l’eccentricità delle esistenze narrate, come dimostrano i necrologi scelti per The last word dal curatore, Marvin Siegel: «Prima del 1960, le pagine degli obituaries sottolineavano l’importanza delle Colonne della comunità… All’inizio del secolo, i pronunciamenti morali e filosofici di un preside di college potevano essere notizie da prima pagina… Fino a non molto tempo fa, i parenti erano riluttanti a rivelare che i loro cari erano morti di cancro... Gli eufemismi di conseguenza fiorivano e le persone iniziarono a morire ‘dopo lunga malattia’… La stessa riluttanza si ebbe più recentemente con i malati di Aids». Siegel prosegue narrando di come, nel 1986, il suo quasi omonimo Allan M. Siegal, che aveva il compito di garantire gli standard di qualità del giornale, mise nero su bianco le regole guida per trattare i casi di Aids nei necrologi. Fu solo nel 1992 che fu deciso che il termine «survivors» (i sopravvissuti, i «cari») potesse essere applicato anche a chi aveva intrattenuto con l’estinto relazioni di tipo omosessuale. L’essenziale, trasformandosi, ridefinisce anche i confini del dicibile e dell’indicibile, cioè del pudore. Le frasi scritte in morte, come nell’epigrafia antica, rappresentano la traccia che resta della vita della maggior parte di noi. Scrive ancora Alden Whitman: «L’obituary non è una biografia completa, né un saggio scolastico, non è un tributo ed è solo in parte lo schizzo di una personalità. Un buon necrologio ha le qualità di un’istantanea messa bene a fuoco, dev’essere il più denso, misurato, il migliore possibile… Se l’istantanea è chiara, chi la osserva trae un veloce orientamento sul soggetto, sui suoi successi, sui suoi difetti e sui suoi tempi. Comporre l’istantanea… richiede tempo e pazienza, bisogna scavare e, infine, ci vuole una certa abilità con le parole». Abilità di cui, nella tradizione italiana, si può fare quasi a meno perché le necrologie a pagamento devono essere brevi (anche per questione di prezzo) e abbondare di formule di circostanza. Fino a pochi anni fa i morti italiani tornavano «alla casa del Padre», «strappati all’affetto dei cari», mentre i vivi «piangono inconsolabili la prematura scomparsa». In alcuni casi lo fanno ancora, qualche volta con involontario umorismo (di pochi giorni fa il rimpianto per «Franco Fido, valente studioso e amico fedele»), ma oggi lo stile si è fatto più asciutto, anche se ugualmente convenzionale. Niente di più lontano dalla letteratura, insomma. Niente di più prossimo alla pubblicità. In Italia, come detto, al centro della vita – e quindi della morte – ci sono le relazioni personali. Per questo, da noi, la funzione politica del necrologio è addirittura ovvia. Quando il capomafia Stefano Bontade fu ucciso, nel 1980, sul Giornale di Sicilia apparvero soltanto sette necrologi, nessuno dei quali firmato. E invece, quando nel gennaio del 2000 se ne andò Bettino Craxi, qualcuno ebbe coraggio e molti altri no: qualche segreteria della Uil, un paio di comici (Teo Teocoli e Massimo Boldi) e qualche pezzo del mondo della musica (Mario Lavezzi e Caterina Caselli), oltre a una manciata di vecchi compagni e compagne di partito. Ma si tratta di casi limite. La maggior parte dei morti, per fortuna, compattano la società, non la dividono. Quando se ne va una persona famosa, sulle pagine dei necrologi dei quotidiani italiani va in scena una lotta invisibile per esserci ed essere visibili, e accostare il proprio nome, o quello della propria ditta, al nome del morto. Il senso degli affari, naturalmente, non è una prerogativa nazionale. Si racconta che su una lapide nel cimitero di Brooklyn ci sia scritto, più o meno: «Qui giace Walt G. Fraser, marito e padre amorevole, nato nel 1910 e morto nel 1974. La sua celebre drogheria è ancora aperta, 24 hours a day».
Maria Corbi per la Stampa il 27 dicembre 2016. Casa Crespi, a corso Venezia, è uno degli indirizzi nella mappa ideale della buona società milanese, dove regna donna Giulia Maria, 93 anni, presidente onoraria del Fai, che ti accoglie nel salottino privato, pieno di rose e ciclamini. Sul tappeto, ai suoi piedi, Volpa, il suo cane lupo di 4 anni, che non la perde di vista. Quadri antichi alle pareti. Due Canaletto nella stanza accanto. Libri ovunque, impilati su tavolini bassi. In questo momento sto leggendo Tolstoj, "Resurrezione", straordinario. Ci sono denunce di cose identiche a quello che sta avvenendo oggi. Per esempio come i potenti si spalleggiano la responsabilità, oppure l' indifferenza dei benestanti. Eccola, la zarina (soprannome dato da Montanelli) che si indigna, ma anche la fanciullina, come la chiamava Spadolini ai tempi della direzione del Corriere della Sera, idealista, esile ed elegante con un carattere di ferro, idee chiare, nessun giro di parole nel dire quello che pensa. E che ha scritto nella sua autobiografia Il mio Filo Rosso pubblicata da Einaudi.
Tanti pensano che sarebbe bene che io non facessi più niente, dice. Ma io sarò sempre in cerca della verità, anche se l' ho sempre pagata molto, Il prezzo più alto?
«Il Corriere della Sera. Ci tenevo enormemente dal punto di vista etico, ma questa è acqua passata. Oggi mi occupo del Fai, di agricoltura biodinamica. Delle nostre città».
Ecco le città, Milano?
«Pisapia ha fatto delle cose buone, adesso spero molto in Sala, non ha certo una vita facile e mi auguro che prenda una certa direzione. La gente non sa come ci siano rifiuti di ogni genere che vengono interrati nelle campagne intorno a Milano. E poi sono angosciata per quello che sta avvenendo per gli scavi ferroviari. Grandi aree dismesse dove ci sono pressioni per costruire, ma quelle zone lì dovrebbero diventare verdi, con piste ciclabili. Spero che i milanesi si mobilitino per questo».
Le mobilitazioni in genere iniziano nelle piazze, spesso però anche nei salotti. Lei è stata chiamata zarina rossa, anche per questa vocazione alle battaglie.
«Io non è che frequento molto i salotti, vedo ogni tipo di gente. Molti giovani. Non so nemmeno se esistono ancora i salotti. Io nella vita ho sempre cercato le detto la verità».
E oggi quale è la verità?
«C'è una grande crisi sia nella borghesia sia nei padroni del vapore. Grande egoismo e c' è poco interesse tra i potenti per il bene in comune. E secondo me questo problema diventerà sempre più grave perché tante persone sono sotto il livello di sussistenza. E questo non porta mai niente di buono. E abbiamo iniziato a vederlo con il referendum».
Un atto di accusa alla borghesia?
«Io conosco dei borghesi straordinari, ma certo tanti figli di borghesi non sono più interessati al bene pubblico, emigrano, vanno all' estero. Mentre dobbiamo trattenerli perché veramente abbiamo un paese straordinario per la varietà del territorio, la ricchezza dell' arte.
Viene in mente la gaffe del ministro Poletti secondo cui a volte è meglio che qualcuno se ne vada.
«Mi rattrista che i ragazzi vadano all' estero, tanti di loro sarebbero pronti a dare una mano ma andrebbero incentivati. Anche nell' agricoltura che è un po' una mia fissazione. Continuiamo con questa mania della cementificazione, quando siamo pieni di locali vuoti che appartengono al pubblico. Si dice che si costruisce per dare occupazione ma si crea lavoro anche se si incentiva il ritorno alla terra, al sud dove le campagne sono spesso abbandonate. Perché non portiamo per esempio gli immigrati nella terra e li aiutiamo a coltivare? La superficie agricola non utilizzata è pari a 4,2 milioni di ettari».
Sono tempi in cui aumenta la paura dell' immigrazione...
«Paura o non paura è un dato di fatto. E facciamo finta di non rendercene conto. Renzi non s' è reso conto di quello che stava accadendo nel sud, della disoccupazione, dello sfruttamento dei braccianti, però alla fine tutto il sud gli ha votato contro. Stesso fenomeno di Brexit e America. I potenti hanno sempre la stessa soluzione: costruiamo. La cosa più semplice e comoda, mazzette a non finire, Roma come Milano, corruzione, E poi? Papa Francesco ha scritto un' enciclica dove condanna duramente quelli che lavorano solo per denaro e chi sta distruggendo la terra, nostra casa comune. Ma quando partecipo alle riunioni e chiedo chi ha letto l' enciclica si alzano 4 o 5 mani. Questi valori non sono viventi e la televisione non contribuisce a farlo».
Politico in cui ha fiducia?
«Una domanda tale. Forse Prodi. Mi piacerebbe Mario Draghi».
Renzi?
«Quello che sta avvenendo ha spiegato tutto. Comunque qualche debole riforma l' ha tentata. Ma per fare delle serie riforme si diventa spesso impopolari, perché la gente guarda all' immediato e l' Italia è andata avanti così fin dalla Democrazia cristiana e noi ne paghiamo le conseguenze».
Una donna premier?
«Io non sono una femminista perché secondo me una donna se ha figli piccoli è sbagliato che lavori. Io l' ho fatto ed ho sbagliato. Questa mania carrierista delle donne è eccessiva anche se ovviamente ce ne sono tante che hanno capacità per sedere in posti importanti. Anche a palazzo Chigi. Poi ci sono delle donne terribili che non mollano il loro posto neanche se dovrebbero. E sappiamo anche chi sono».
Chi?
«Inutile nominarle tutte».
Il ricordo di Giulia Maria Crespi del finanziere Francesco Micheli, pubblicato dal ''Sole 24 Ore'' il 21 luglio 2020. Giulia Maria è stata l' istituzione milanese per eccellenza, colta nel senso più ampio, radicata a un gusto da belle époque che Le stava a pennello. Guai se una signora si presentava in nero a un Suo ricevimento... voleva i bei colori, quelli giusti. L'"hotel particulier" di Corso Venezia a Milano con i quadri museali, il pendant dei Canaletto giganti come quelli della Regina d' Inghilterra sotto i quali riusciva a strappare il finanziamento per le Sue molteplici iniziative culturali e sociali. La grande sala da ballo era il cuore delle Sue feste assieme all' infilata di salotti e salottini zeppi di objet d' art d' ogni tipo, porcellane rare, grandi servizi vermeil, argenti e centritavola da favola. In uso quotidiano, nell' intimità come nei ricevimenti per centinaia di amici, in un clima che solo Luchino Visconti avrebbe potuto progettare per l' ambientazione di un capolavoro (con tutto autentico, ovviamente). Grandi vasi con fiori, sempre bianchi, sempre freschi posti un po' dappertutto, messi lì con nonchalance, come scelti per l' ospite. Amava la terra sopra ogni cosa. Alfredo Todisco, che era di casa, ricordava che in Sardegna, nella Sua dimora, pendant della mitica Zelata (sede dell' azienda agricola di famiglia, ndr) - con la petite maison progettata dall' indimenticabile Guglielmo, il sognatore della Città Ideale, immersa nella natura - quando mostrava la capanna delle capre si divertiva a rotolarsi nello strame come una divinità pagana. Grande visionaria e imprenditrice, da tempo predicava e supplicava che ci si muovesse per l' ambiente, prevedendo i disastri in corso e i rischi di una scienza mal applicata, con un' agricoltura da rapina. Per un paio delle sue grandi feste di Natale Le avevo proposto un bel recital col pianista Alessandro Taverna, della cui arte s' innamorò. Per il Natale scorso preparai un concerto a sorpresa - con la complicità organizzativa dell' adorata Vannozzina, sua nuora, ora affranta dalla tragedia del marito, Aldo - organizzando il concerto n.1 di Chopin per pianoforte e orchestra, ma eseguito nella trascrizione originale col quintetto d' archi. Come fu eseguito la prima volta dal ventenne Chopin nel 1830, a casa dei genitori, per gli amici. Con Gile Bae solista al pianoforte, accompagnata dalle prime parti della Filarmonica della Scala. Si commosse alle lacrime e rivolgendosi a tutti, in piedi dritta come un fuso, improvvisò un discorso lucidissimo, di precisione chirurgica. Lasciandoci tutti sbalorditi. Credeva appassionatamente nella capacità dei giovani di rimettere in piedi il Paese e farlo uscire dalla crisi di classe dirigente e dalle atrocità dell' epidemia. Suggerirei di non dimenticare la Sua lezione e tener acceso quel sacro fuoco che Le ha permesso di realizzare grandi iniziative quali il Fai o adottare il metodo steineriano dell' agricoltura biodinamica per cui si è battuta per tutta la vita.
Giuliano Pisapia ricorda Giulia Maria Crespi: “La mecenate che spostò a sinistra il Corsera”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Giulia Maria Crespi lascia un’eredità morale di cui oggi tutti le rendono merito. Fondatrice del Fondo Ambiente Italiano, autentica istituzione che impegna i privati per il patrimonio storico, artistico ed ambientale italiano, gestì dal 1965 al 1974 la proprietà del Corriere della Sera, spostandone la linea a sinistra. Fu lei a licenziare l’allora direttore Giovanni Spadolini e a provocare le dimissioni di Indro Montanelli. Con la sua vicenda biografica sono intrecciate cento storie di militanza politica, soprattutto a Milano. Il suo impegno costante nel mecenatismo sociale ne fanno un esempio di borghesia illuminata. Abbiamo chiesto di aiutarci nel farne il ritratto all’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, oggi parlamentare europeo nelle fila del Partito Democratico. «Era una persona molto forte, coraggiosa, con una interlocuzione delicata ma severa. Una donna appassionata e appassionante, che quando aveva un tema che condivideva ci metteva tutta la sua passione. Una sognatrice concreta», ci dice Pisapia.
Del vostro incontro cosa ricorda?
«I miei ricordi sono recenti: quando mi candidai a Sindaco di Milano, tramite amicizie comuni lei mi contattò e mi invitò a pranzo a casa sua. Una casa molto bella, con una bella galleria di dipinti. Ma che lei viveva con grande sobrietà nei modi, praticando quella custodia dell’arte semplice e concreta, senza spocchia, che poi ha messo a terra dando vita al Fai. Facemmo una bellissima chiacchierata. E alla fine del pranzo non mi diede alcun giudizio: dovetti aspettare due giorni e andare a leggere sul giornale una sua dichiarazione di apprezzamento nei miei confronti. A voce non aveva detto nulla: voleva soppesare, valutare le mie proposte una a una, senza pregiudiziali. Questo per dire che non aveva una posizione precostituita, era una donna che voleva guardare dentro alle cose, interloquire con le persone, capire tutti i risvolti. E che non ha fatto mai sconti a nessuno».
Di cosa parlaste?
«Mi ricordò di quando correva voce che potessero arrestare Mario Capanna, e i giornali ventilarono una ipotetica relazione tra loro. (Ci fu una perquisizione di polizia nella sua tenuta “La Zelata” sul Ticino alla ricerca di Capanna attinto da un mandato di cattura, ndr). Lei andò da mio padre per valutare delle querele a tutela della sua reputazione. Non so poi se le fece, ma quando mi ricevette a casa mi raccontò la storia di quell’incontro, dicendomi di aver conosciuto e stimato mio padre, avendolo scelto come avvocato».
Qual era la sua sensibilità sulla giustizia?
«Nella discussione sulla giustizia era una autentica garantista. Molto attenta a contrastare le prese di posizione che non condivideva, ed aveva come stella polare la sensibilità verso le garanzie per l’imputato, un tema sul quale ci siamo confrontati in conversazione più volte anche durante il mio mandato da sindaco».
Un approccio non ideologico, ma pragmatico.
«Il nostro compito, diceva, è quello di volere il bene della città, avere delle persone di cui fidarsi e avere il coraggio, su temi come quelli dell’ambiente e del patrimonio artistico, di unire all’impegno ideale una concretezza pratica. E prese a modello il National Fund britannico per dare vita al Fai, con il preciso proposito di mettere insieme pubblico e privato, a vantaggio della collettività».
Una imprenditrice in anticipo sui tempi.
«Era una vera viaggiatrice del tempo. Una precursora. Aveva capito di dover interrogare i giovani per capire il domani. E organizzò anche qualche incontro, durante la mia campagna elettorale, con i giovani. Ma non lo aveva inventato per me, quel format. Promuoveva ogni settimana un incontro con ragazzi e ragazze che sollecitava e ascoltava. Parlai poi con qualcuno di loro: mi dissero tutti di avere sviluppato con Giulia Maria un rapporto alla pari. Di sentirsi con lei come con un coetaneo».
Indice di una freschezza mentale non comune.
«Lo sentiva come una necessità per sé. Si sentiva responsabile per la collettività, attraverso il dialogo con i giovani cercava di trasmettere quei valori che avvertiva come fondamentali».
Giulia Maria Crespi lascia degli eredi altrettanto illuminati?
«Sicuramente ci sono a Milano, come in altre città, persone che rappresentano la borghesia progressista. Ma mentre prima c’erano dei circoli, dei gruppi di persone che si riunivano, oggi sono singoli individui».
Una polverizzazione senza più luoghi di raccordo?
«Esattamente. In passato c’erano luoghi – nella politica, nella cultura, nell’associazionismo – dove ci si confrontava, si discuteva, si concludeva con una decisione collegiale che muoveva all’unisono dei gruppi. Ci si impegnava, anche nella borghesia ricca, tra le famiglie industriali, per dare un contributo che non era solo un contributo economico ma di prospettiva. Adesso non esiste più, ciascuno assume la propria iniziativa individualmente».
Vengono meno i luoghi dell’impegno, ma non l’impegno in sé?
«Io credo che oggi ci sia una volontà di contribuire, ci sono tanti soggetti che danno assistenza, che lavorano nella solidarietà e nella lotta contro le disuguaglianze. Soggetti che trovano in queste persone, nei mecenati, un contributo che non è solo economico ma di idee e di progetti».
La cultura anglosassone propone un modello di mecenatismo diffuso. Da noi no.
«Da noi è meno visibile. Forse perché legato alla cultura solidaristica che molti legano alla religione, ma da noi se ne parla poco. Chi fa solidarietà si guarda bene dal dirlo. Ma quando andiamo a sondare le associazioni di volontariato sul territorio, scopriamo che vengono sostenute da decine di persone sul territorio, di cui però non si sa. Lo si viene a sapere quando un mecenate viene premiato, e allora suo malgrado deve esporsi».
C’è qualcosa che la politica dovrebbe fare per creare un ecosistema più accogliente verso il mecenatismo?
«In questi giorni si sta discutendo di somme ingenti che potrebbero – dico potrebbero: vediamo i risultati! – essere destinate al nostro Paese su progetti concreti e con tempi concreti. Bisogna cominciare a ragionare, a far sì che questo mondo del terzo settore non venga solo considerato come un mondo da aiutare, ma come un soggetto che può contribuire a trovare le soluzioni su temi fondamentali che vanno dalla giustizia, alla lotta alla povertà, alle disuguaglianze».
Crespi era impegnata per il patrimonio artistico ma, indistintamente da questo, per il patrimonio ambientale. Molto in anticipo sui tempi…
«Quando dicevo che aveva anticipato i tempi su tutto, mi riferivo soprattutto all’ambiente, su cui ha sempre sviluppato una sensibilità particolare, di grande attenzione alla biodiversità, all’agricoltura biologica, alla alimentazione sana. Era una sognatrice concreta, sapeva quanto fosse importante trasformare in realtà quegli ideali e quei valori in cui credeva. Un’utopista».
Che spazio c’è per l’utopia, oggi?
«L’utopia è qualcosa di molto positivo e in alcuni casi, necessario. Ma se l’utopia non si trasforma nella concretezza dell’agire, diventa addirittura controproducente. Creare sogni senza dare risposta ai bisogni diventa un boomerang».
Chi è in grado – e in dovere – di rispondere ai bisogni?
«La politica, in parte; il mondo del volontariato in maniera molto rilevante; il terzo settore, in generale. Un mondo che riesce a condividere e, lavorando insieme con la politica, creando una unità di intenti che prova a dare risposte alle difficoltà che vivremo».
Di tenuta sociale?
«Andiamo incontro a un periodo di crisi. Se non si trova la capacità di sognare ma anche di dare riscontro, con la concretezza dell’agire, il rischio di tensione è molto più forte che nel recente passato».
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 20 luglio 2020. «A te non è mai mancata la coda?», chiese un giorno a bruciapelo Giulia Maria Crespi a Marco Magnifico che sarebbe diventato uno dei suoi primi collaboratori e amici. E quello, scoppiando a ridere: «Perché? A te manca?» «Certe volte sì. Ogni tanto vorrei poter scodinzolare per mostrare che sono contenta». Raramente, si capisce. Perché nei suoi novantasette anni di vita intensissima finiti la scorsa notte tra le lacrime dei sette nipoti, la fondatrice del Fai tutto ha fatto meno che scodinzolare. Tanto più davanti agli uomini di potere. Nata a Merate, a sud di Lecco, nella primavera del 1923, destinata ad esser l'unica erede di una ricchissima famiglia di cotonieri proprietaria del Corriere della Sera , fu tirata su dal padre Aldo come una regina d'altri tempi. Solo tate, maestri, precettori privati. Di francese, tedesco, inglese. «Non andavo a scuola, agli inizi dovevo soltanto andarci a fine anno per gli esami e dopo le elementari non più...», avrebbe raccontato nel libro «Il mio filo rosso: Il "Corriere" e altre storie della mia vita», edito nel 2015 da Einaudi. La prima volta entrò col batticuore nella scuola di via Spiga «con un vestitino di seta rosa in netto contrasto con tutta la classe dal rituale grembiulino bianco! Ero morta di vergogna e venivo guardata come una bestia rara». Legatissima alla storica dell'arte Fernanda Wittgens («bionda, possente e bella come una Brunilde wagneriana») scelta come istitutrice dai genitori e destinata a diventare la prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera, appassionata lettrice e frequentatrice di musei, weekend indimenticabili nella tenuta sul Ticino della Zelata che via via negli anni farà diventare tra le prime aziende agricole biodinamiche d'Europa, estati a Forte dei Marmi e inverni sciistici sulle piste del Sestriere in compagnia dei rampolli di casa Agnelli, quella che dai nemici (parecchi) sarà soprannominata la Zarina del Corriere, ricorderà gli anni del fascismo e della rimozione di Luigi Albertini solo attraverso i racconti del padre: «A un certo punto ci arrivò un ultimatum di Farinacci che ci ingiungeva di allontanare Albertini dalla direzione del giornale entro otto giorni. Se ciò non fosse avvenuto Farinacci minacciava di intervenire con le sue milizie per lanciare due bombe su via Solferino e distruggere il Corriere». Impugnate le redini del quotidiano come accomandataria a metà degli anni Sessanta dopo la morte degli zii Mario e Vittorio e la malattia del padre, Giulia Maria aveva allora una quarantina di anni, era stata segnata dal dolore della morte in un incidente del primo marito Marco Paravicini dal quale ancora non sapeva di attendere due gemelli, Luca e Aldo (il quale morirà in un altro incidente stradale a metà maggio del 2020) e probabilmente non aveva l'esperienza necessaria per reggere un ruolo così difficile. Sostituito nel '68 Alfio Russo con Giovanni Spadolini («Colto, facondo, pieno di vita, svolazzava, malgrado il peso, come una libellula tra i pensieri e le cose», dirà ad Antonio Gnoli) cambiò presto opinione: «Scoprii improvvisamente il suo lato vanitoso, prolisso, ossequioso al potere». E fu così che nel 1972 decise di affidare la direzione a Pietro Ottone dando al Corriere, tra mille polemiche che avrebbe pagato carissime, una svolta culturale e politica che Indro Montanelli liquiderà come un episodio «autoritario, prepotente e guatemalteco». L'episodio scatenante fu un'intervista del Gran Toscano a Cesare Lanza: «Non esiste un contrasto personale fra Piero Ottone e me e siamo anzi in ottimi rapporti. C'è piuttosto un'impostazione del Corriere del tutto diversa da quella che è la tradizione del giornale...Non discuto la linea politica del Corriere attuale (anche perché non capisco di che linea si tratti: nella stessa pagina c'è tutto e il contrario di tutto). Non discuto la fattura, il giornale è tecnicamente buono, più sveglio di prima. Quello che discuto è lo stile. Disordinato, tumultuoso, terribilmente demagogico...» Seguiva una sorta di preavviso: avrebbe fondato un suo giornale. Troppo. Giulia Maria era allora in vacanza nel suo stupendo e poverissimo stazzo in Sardegna dove per scelta di vita (e per spirito d'adattamento del secondo marito, l'architetto Guglielmo Mozzoni) non aveva elettricità, caloriferi, telefono: «Una mattina dal centro telefonico di Palau venni avvertita di telefonare con estrema urgenza a Piero Ottone. Con estrema velocità mi recai al telefono pubblico di Palau. Ottone mi comunicò la sua decisione di licenziare Montanelli dopo aver letto quelle frasi secondo lui ingiustificabili. Io presi subito la nave e tornai a Milano. Personalmente ero dubitosa su questo provvedimento». Anni dopo avrebbe confidato che certo, era stato un peccato perdere uno come Montanelli. Quando diceva «nella mia vita ho commesso un sacco di sbagli» si riferiva anche a questo. Continuava tuttavia a ripetere di non aver mai capito bene perché fosse andata così. Certo i rapporti non si ricucirono mai più. Lo stesso Montanelli però, due mesi prima di morire, nel maggio 2001, ribadendo nella sua Stanza le accuse alla Crespi di aver voluto gestire la linea del giornale di persona orientandola «secondo i suoi gusti politici, che non erano precisamente quelli tradizionali, cioè d'ispirazione liberale. Essa s' ispirava invece al "nuovo corso" della contestazione sessantottina che incontrava larghe simpatie nei salotti della borghesia radical-chic milanese di cui ella stessa era esponente, anzi una bandiera», spiegava però a una lettrice, Alice Zanuso: «Questa, ti ripeto, è la vicenda vista dalla mia angolatura, di cui hai non il diritto, ma il dovere di diffidare». Certo è che quella rottura fu fatta pesare su Giulia Maria Crespi fino in fondo. Al punto di spingerla nel 1974 a cedere il Corriere («il "mio" Corriere ») prima a Gianni Agnelli e Angelo Moratti, poi ad Andrea e Angelo Rizzoli. Una vicenda vissuta come un tradimento del vecchio amico di Forte dei Marmi e del Sestriere: «In nome di questi ricordi gli chiedo di scrivermi una lettera autografa in cui mi promette di rimanere al Corriere , lui personalmente, per cinque anni e di versare subito i cinque miliardi di lire come nell'accordo pattuito. Vedo ancora Gianni sedersi senza battere ciglio a quella mia scrivania stile Luigi XVI, prendere un foglio e scrivere questa lettera: «Cara Giulia Maria ti do la mia parola di uomo d'onore...» Eppure, quell'uscita per lei così traumatica da un mondo che amava («La verità è che mi consideravano una pazza, una irresponsabile, una comunista. Misero in giro la falsa voce che fossi diventata l'amante di Mario Capanna!») fu per lei l'occasione di dare il meglio di sé stessa. Fondando nel 1975 con Renato Bazzoni quel Fondo Ambiente Italiano nel quale avrebbe riversato per oltre quarant' anni tutto l'entusiasmo e la forza di volontà dedicati alla salvaguardia del paesaggio, dell'ambiente, del patrimonio culturale dell'Italia.
Un amore totale. Appreso «in particolare da Antonio Cederna». E portato avanti, scrive oggi il presidente Andrea Carandini, con «una creatività inesauribile, una riluttanza per i compromessi, una passione per il dialogo, una singolare unità di ideali e concretezza». «Per lei niente era impossibile», ricorda Magnifico, «Quando si metteva in testa una cosa non c'era ostacolo capace di intimidirla». Tra gli innumerevoli aneddoti che ha lasciato (divertente l'incontro nel salotto di casa col leader sessantottino Mario Capanna che sbottò: «Oooh! Finalmente conosco la più celebre delle mie amanti!») almeno un paio resteranno indimenticabili. Come quando, non riuscendo a trovare uno spunto per la sua annuale commediola natalizia coi nipotini in costume, chiese un'idea a Pier Paolo Pasolini. E quello le rispose che era occupatissimo perché sommerso da mille impegni e che doveva partire per l'Africa e fare questo e quest' altro ma via via che si scansava buttò lì il canovaccio di una bellissima favola natalizia coi re Magi. Per non dire di quando, ospitati nel suo stazzo sardo di Cala di Trana una quarantina di ragazzi spartanamente ammucchiati su letti a castello, fece togliere i rubinetti ai due lavandini piazzando un cartello: «I limoni hanno bisogno di acqua più di voi. Se volete lavarvi lavatevi in mare».
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 20 luglio 2020. Vittorio Gassman era un uomo saggio. Affermò, scherzando ma non troppo, che Dio ha commesso due gravi errori. Primo: creare l'uomo, farlo crescere e poi costringerlo a morire, spesso tra mille sofferenze. Secondo: distribuire i talenti (intelligenza e ingegno) a cazzo. Ciò detto giungiamo alla mesta notizia: Giulia Maria Crespi è trapassata, non certo soffocata dalla balia, aveva 97 anni. È stata una donna importante, tra le sue proprietà c'era anche il Corriere della Sera, che cedette fra numerose tribolazioni nel 1974, ricavando naturalmente un monte di denaro che andò a rimpolpare in misura ciclopica un patrimonio imbarazzante. Beata lei, ricca sfondata senza meriti speciali se non quello di avere ereditato una fortuna. I suoi avi costruirono un impero industriale, edificarono addirittura un gioiello architettonico, il villaggio Crespi, nei pressi di Bergamo, considerato un valore dell'umanità. Si mormora che Giulia Maria non abbia mai lavorato. In effetti, con tutte le palanche che aveva non ne ha mai avvertito la necessità. Nonostante questo ella ha inciso parecchio nella vita specialmente culturale del nostro vituperato Paese. Tanto per cominciare era di sinistra negli anni caldi successivi al Sessantotto. Lo sappiamo che i ricchi sono così: si vergognano di esserlo e per farsi perdonare di avere le tasche piene di quattrini fingono di amare i proletari, che ricambiano la gentilezza sopportandone la spocchia. Il suo Corriere della Sera, nel quale entrai proprio nel 1974, anno in cui lo cedette, era stato per quasi un secolo il quotidiano della Borghesia non soltanto lombarda, una bandiera del conservatorismo illuminato, un giornale simbolo. Tuttavia la contessa, avendo pulsioni progressiste, tanto fece e tanto brigò riuscendo a imprimergli una piega progressista, obbligando il direttore a licenziare Indro Montanelli, il campione nazionale del moderatismo. Successe un casino. Indro fu costretto a fondare il Giornale provocando uno scossone in via Solferino, dove si persero copie per effetto della nuova concorrenza. Forse pure per questo motivo madame Crespi tagliò la corda, immagino senza soffrire. L'esistenza della ex padrona del vapore non mutò di una virgola, nel senso che continuò a fare la signora, guardandosi bene dal faticare. Eppure si dedicò anima e corpo all'ambientalismo, un suo pallino. Non era certo una sciura sciocca, si impegnava assai specialmente nelle cose inutili, che piacciono di norma agli abbienti. Io la conobbi alcuni anni orsono a una cena alla quale ero stato abusivamente invitato. Era seduta a tavola di fronte a me e la ascoltavo mentre discettava di smog e roba simile. A un determinato punto la mia maleducazione ebbe il sopravvento sui freni inibitori di cui in fondo dispongo, e osservai con un sorriso forzato: «Gentile contessa, non capisco come mai lei sia preoccupata dell'inquinamento, visto che ha superato brillantemente i novant' anni senza subire alcun danno. Spero di poterla imitare, cioè di raggiungere i suoi risultati». Nella sala da pranzo scese il gelo. A me veniva da ridere e anche qualcun altro trattenne a fatica un ghigno. La contessa si degnò di rispondermi e lo fece con garbo: «Non tutti sono fortunati quanto me». La mia replica fu: «Non ne ho mai dubitato». Non mi rivolse più la parola e nemmeno lo sguardo. Gli facevo orrore. Compresi il suo stato d'animo, però non trascurai neppure il mio. Al momento del commiato, ella si mi si avvicinò e pronunciò la seguente frase: «Lei è una persona simpatica». Ed io di rimando: «Anche lei». Va da sé che mentivo. Mentivamo entrambi.
Dagospia il 24 luglio 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Vittorio Feltri: Caro Dagospia, leggo sul tuo sito la critica al mio pezzo su Libero riguardante la Crespi. Capisco quasi tutto, ma non le bugie. Ignoro quali siano le opere di Giulia Maria destinate all’immortalità. Anche io non posso vantare di avere inciso nella storia patria, per carità. Ovvio che non abbia lavorato 40 anni in miniera, ma altrove sì, e per oltre 60 anni, non avendo ricevuto alcuna eredità che non fosse la voglia di sgobbare. Vittorio Feltri
Feltri si riferisce a questa lettera pubblicata nella rubrica della Posta: L'articolo di Feltri sulla Crespi è di una miseria assoluta. Ha fatto più la Crespi per la cultura e l'arte in Italia che quasi tutti i ministri della Repubblica e non a parole ma con i soldi. Feltri dice che la signora non ha mai lavorato. Feltri, invece, ha lavorato notoriamente 40 anni in miniera, oibò. Tra i delitti attribuiti alla nobildonna il massimo è quello di aver licenziato Montanelli. Se a licenziarlo è il Berlusca però va bene :-). Se possiedo un giornale, non posso licenziare una persona?
· E’ morta Zizi Jeanmaire. La regina del music-hall parigino.
La regina del music-hall parigino Zizi Jeanmaire morta a 96 anni. Notizie.it il 17/07/2020. (askanews) – La regina del music-hall parigino Zizi Jeanmaire è morta a 96 anni nella sua casa sulle rive del Lago di Ginevra in Svizzera. Ad annunciarlo a France Presse è stata la figlia Valentine. Ballerina, attrice e showgirl francese, divenne nota anche in Italia negli anni Sessanta, quando venne ingaggiata in Rai al fianco di Walter Chiari. Con il coreografo Roland Petit, morto nel 2011 e con cui era sposata, formava una “coppia di potere” nella vita culturale della Parigi anni Sessanta. È stato infatti il suo ruolo nella moderna interpretazione di Carmen di Petit nel 1949, che la vedeva con un taglio di capelli corto, ad avere lanciato il suo tratto distintivo, che l’ha poi resa celebre. Una produzione che con questo nuovo look fece scandalo quando andò in scena a Parigi, Londra e New York. Memorabile la performance al Paris’ Alhambra music hall nel 1961, durante “Mon Truc en Plumes” con il costume di grandi piume di struzzo rosa disegnato per lei da Saint Laurent, che l’ha vestita per 40 anni. Zizi ha recitato inoltre in film degli anni Cinquanta, tra cui il musical hollywoodiano “Hans Christian Andersen” (1952), e “Anything Goes” (1956), al fianco di Bing Crosby.
· È morto John Lewis, icona dei diritti civili negli Stati Uniti.
È morto John Lewis, icona dei diritti civili negli Stati Uniti. Notizie.it il 18/07/2020. La Camera Usa ha confermato che John Lewis è morto all'età di 80 anni: era un simbolo della non violenza. È morto all’età di 80 anni John Lewis, storico attività per la non violenza e i diritti civili negli Usa nonché attuale Camera dei Rappresentanti. Lewis marciò anche al fianco di Martin Luther King. Da tempo soffriva di cancro al pancreas. La notizia della sua morte è stata confermata anche dalla portavoce della Camera Nancy Pelosi: “L’America piange la morte di uno dei più grandi eroi della sua storia”. John Lewis, morto all’età di 80 anni, aveva annunciato il 29 dicembre scorso di essere malato di cancro al pancreas. Aveva promesso di combattere il tumore con la stessa passione con cui combatteva le ingiustizie: “Sono stato in una sorta di lotta, per la libertà, l’uguaglianza, i diritti umani fondamentali, per quasi tutta la mia vita”. Lewis è sempre stato in prima linea per combattere e mettere fine alle cosiddette “leggi di Jim Crow” promulgate negli Usa per mantenere la segregazione razziale. Tipico esempio di leggi del genere la separazione tra bianchi e neri nelle scuole pubbliche e sui mezzi di trasporto. Ultimamente John Lewis aveva anche commentato le manifestazioni in corso negli Stati Uniti dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia a Minneapolis. “È stato molto commovente – aveva dichiarato Lewis – vedere centinaia di migliaia di persone provenienti da tutta l’America scendere in strada. Questa volta non si potrà tornare indietro”.
· Addio a Mario Scotti Galletta, baffo d’oro della pallanuoto italiana.
Addio a Mario Scotti Galletta, baffo d’oro della pallanuoto italiana e professore di intere generazioni. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2020. Lutto nel mondo della pallanuoto. Dopo una lunga malattia è morto a Napoli l’ex portiere azzurro Mario Scotti Galletta che aveva compiuto 70 anni lo scorso 5 maggio. Con il Settebello conquistò la vittoria iridata a Berlino nel 1978 e il bronzo nel 1975 a Cali in Colombia. Negli anni Settanta col suo baffo caratteristico portò al massimo splendore la Canottieri Napoli vincendo quattro scudetti nel 1973, 1975, 1977, 1979. Nel 1978 invece il trofeo più prezioso, la Coppa dei Campioni battendo i campioni uscenti del CSK Mosca nel girone finale disputato a Palermo per l’inagibilità dell’impianto cittadino. Il rigore parato a Nanni Moretti/Michele Apicella in "Palombella Rossa", lo trasformò in una sorta di icona underground tra cinofili e appassionati di pallanuoto. È stato poi l’uomo che ha portato la pallanuoto femminile in Italia, invitò a Napoli la nazionale olandese e da lì partì il movimento. Proprio nel ’79, l’anno delle prime partite del suo Fuorigrotta, la prima squadra in rosa ufficiosamente campione d’Italia: ci giocava Barbara Damiani, la donna che lo ha accompagnato per tutta la vita, che gli ha dato altri due pallanotisti di valore come Andrea (ex nazionale ed attuale giocatore della RN Salerno) e Riccardo. Due anni fa ha ricevuto dal Coni il Collare d’Oro al Merito Sportivo: il massimo riconoscimento per un atleta. “Alla famiglia – si legge sul sito della Federnuoto – giunga il cordoglio del presidente della FIN Paolo Barelli, dei presidenti onorari Lorenzo Ravina e Salvatore Montella, dei vice presidenti Andrea Pieri, Francesco Postiglione e Teresa Frassinetti, del segretario generale Antonello Panza, del consiglio e degli uffici federali e dell’intero movimento pallanotistico azzurro”. Scotti Galletta era anche professore di educazione fisica a Napoli. Per decenni ha insegnato al Liceo Scientifico Niccolò Copernico nel quartiere Fuorigrotta. Ha conosciuto e formato intere generazioni di giovani studenti, trasmettendo loro i valori sani dello sport che lo hanno portato ad affermarsi a livello mondiale.
I funerali sono in programma domani, martedì 14 luglio, alle ore 11 nella chiesa dei Pallottini al Corso Europa a Napoli.
· E’ morta Naya Rivera, attrice di «Glee».
Da tgcom24.mediaset.it il 13 luglio 2020. Il cadavere dell'attrice di "Glee" Naya Rivera è stato ritrovato nel lago Piru della Southern California. Lo ha comunicato lo sceriffo della contea di Ventura che circa una settimana si occupa delle operazioni di ricerca. L'attrice era sparita l'8 luglio, dopo aver portato il figlio sul lago con una barca affittata. Il riconoscimento ufficiale non è ancora stato comunicato ma è stata convocata una conferenza stampa in serata per importanti comunicazioni. La svolta nella ricerca dell'attrice è arrivata qualche ora fa quando la polizia ha annunciato di avere un elemento fondamentale: si trattava di una foto che la stessa Naya Rivera aveva inviato alla famiglia. Nello scatto c'è il Josey, bimbo di quattro anni che si è salvato, e sullo sfondo si vedeva una insenatura che le autorità della Ventura County sono state in grado di localizzare. La foto era stata scattata al massimo un paio d'ore prima rispetto al ritrovamento del piccolo Josey che era solo sulla barca. Il bimbo disse alla polizia che sia lui che la mamma erano andati a nuotare ma che lei non era più risalita a bordo. Avendo perso ormai ogni speranza di ritrovare Naya viva, l'ufficio dello sceriffo aveva chiuso al pubblico il lago per impedire ai fan di condurre ricerche in proprio. Naya Rivera ha cominciato a recitare da bambina ed è diventata famosa con la parte di una cheerleader lesbica nella serie "Glee", in onda sulla Fox dal 2009 al 2015. La sua scomparsa ha suscitato vasto cordoglio sui social media, con quasi tutte le altre star dello show che hanno condiviso pensieri e preghiere per il destino della collega. Per questa ragione ha fatto scalpore il silenzio di un'altra protagonista della serie, Lea Michele. Non è un mistero che Lea e Naya fossero in cattivi rapporti, ed è così che quando la prima, senza dar spiegazioni, ha disattivato il suo account Twitter alcuni media hanno ipotizzato che lo abbia fatto dopo essere stata bombardata da insulti e minacce di vario genere per non aver detto nulla sulla scomparsa della sua collega.
È dell’attrice di «Glee» Naya Rivera il corpo ritrovato ieri nel lago Piru in California. Laura Zangarini il 14/7/2020 su Il Corriere della Sera. I sommozzatori impegnati nella ricerca dell’attrice Naya Rivera hanno trovato un corpo sul fondo del lago Piru, in California. Lo riferisce la Bbc. La 33enne star di «Glee» è dispersa da giovedì scorso, dopo essere uscita in barca sul lago con il figlio piccolo. È della star di «Glee» Naya Rivera, 33 anni, scomparsa la settimana scorsa, il corpo ritrovato ieri nel lago Piru, in California. Lo ha confermato lo sceriffo della contea di Ventura, Bill Ayub. La scoperta è avvenuta cinque giorni dopo che il figlio di Rivera, Josey Hollis Dorsey, 4 anni, è stato trovato da solo su una barca. Il ragazzino, ha riportato Ayub, ha riferito agli investigatori che sua madre lo aveva aiutato a tornare a bordo, prima di voltarsi indietro e di vederla andare sott’acqua. È la terza stella della celebre serie tv «Glee» a morire in circostanze tragiche. Rivera è deceduta per annegamento. La conferma della sua morte è arrivata esattamente sette anni dopo del co-protagonista Corey Monteith. «Deve aver raccolto abbastanza energia per riportare suo figlio sulla barca, ma non abbastanza per salvarsi», ha ipotizzato lo sceriffo Bill Ayub in una conferenza stampa. Il ragazzo, Josey Hollis Dorsey, era stato trovato solo e addormentato sulla barca che l’attrice aveva noleggiato, dando il via a una ricerca di cinque giorni che siè conclusa con la scoperta, nelle prime ore del mattino di lunedì 13 luglio, del corpo della star che galleggiava sulla superficie del lago. Madre e figlio erano andati a nuotare, che non era proibito in quella parte del lago, ha dichiarato Ayub. Rivera non indossava un giubbotto di salvataggio. Le autorità credono che Rivera sia annegata e che il suo corpo sia rimasto probabilmente intrappolato nella vegetazione sotto il lago per diversi giorni prima di tornare a galla. I sommozzatori avevano già perquisito accuratamente l’area in cui è stata trovata Rivera, ma la flora lacustre deve averla nascosta nell’acqua torbida. I familiari hanno chiacchierato con Rivera tramite FaceTime mentre la star di «Glee» era sulla barca, e le squadre di ricerca hanno guardato quei video per trovare indizi su dove Rivera sarebbe potuta andare. «È stato un momento estremamente difficile per la sua famiglia durante questo calvario — ha commentato lo sceriffo Ayub —. Condividiamo il loro dolore». Rivera ha interpretato la cheerleader Santana Lopez per sei stagioni, dal 2009 al 2015, nella serie tv «Glee». È il terzo membro del cast principale dello spettacolo a morire nei 30 anni di età. L’annuncio della sua morte arriva sette anni dopo il giorno in cui il co-protagonista Cory Monteith è morto a 31 anni per aver ingerito un cocktail di champagne ed eroina, facendo perdere alle serie, mentre era ancora in onda, uno dei suoi personaggi principali. Un altro co-protagonista, Mark Salling, che Rivera ha frequentato per qualche periodo, si è ucciso nel 2018 a 35 anni dopo essersi dichiarato colpevole delle accuse di pornografia infantile. Il cadavere di Rivera è stato trasportato in elicottero a 40 miglia (64 chilometri) nell’ufficio del coroner a Ventura, dove verrà condotta un’autopsia e sarà effettuata un’identificazione ufficiale. Rivera aveva già affrontato in barca il lago Piru, nella foresta nazionale di Los Padres, a un’ora di auto circa da Los Angeles. Il lago è stato chiuso e setacciato da dozzine di subacquei con l’aiuto di sonar e dispositivi robotici che hanno “pettinato” il fondo, mentre elicotteri e droni scandagliavano la superficie. Un video di sorveglianza ha mostrato madre e figlio mentre lasciano il parcheggio. La barca è stata noleggiata intorno alle 13 circa dell’8 luglio. L’uomo che ha affittato il barchino all’attrice è andato a cercarli quando non li ha visti rientrare in tempo, e ha trovato la barca alla deriva all’estremità settentrionale del lago, con il piccolo a bordo. Josey, il figlio di Rivera nato dal matrimonio con l’attore Ryan Dorsey, era sano e salvo e, dopo il ritrovamento, si è rapidamente ricongiunto con i familiari. I suoi genitori hanno divorziato nel 2018 dopo quasi quattro anni di matrimonio. Il giorno prima della sua morte, Rivera aveva twittato una foto di lei e Josey con la dedica: «Solo noi due».
"Naya Rivera è morta per salvare il figlio di 4 anni": parla lo sceriffo. "Ha usato tutte le sue forze per riportare il figlio sulla barca, ma non ne aveva più per mettersi lei in salvo". Il bambino è stato trovato addormentato sulla barca. Il giorno prima di morire, l'attrice aveva twittato una sua immagine con il piccolo: "Solo noi due". Sui social l'addio all'attrice. La Repubblica il 14 luglio 2020. L'attrice americana Naya Rivera, 33 anni, è morta per salvare suo figlio di quattro anni. Lo ha dichiarato lo sceriffo della contea di Ventura, in California, Bill Ayub, dopo che è stato ripescato nel Lago Piru il corpo di una donna poi identificata come l'ex protagonista della serie Glee. "Ha usato tutte le sue forze per riportare il figlio sulla barca, ma non ne aveva più per mettersi lei in salvo", ha spiegato Ayub, citato dalla Cnn. Per la definitiva certezza dell'identità il cadavere di Rivera sarà sottoposto ad autopsia. Il piccolo aveva raccontato ai soccorritori che lui e sua madre erano andati in acqua per nuotare, ma lei non era tornata sulla barca. L'aveva vista sparire sotto la superficie del lago, ha affermato Ayub. L'attrice e il figlio, a quanto pare, nuotavano in un'area caratterizzata dalla presenza di una fitta vegetazione sotto il livello dell'acqua. Il lago Piru è già stato in passato luogo di annegamenti. Qualche giorno fa l'ufficio dello sceriffo della Contea di Ventura aveva diffuso le ultime immagini della trentatreenne prima della sua scomparsa: si tratta del suo arrivo al lago Piru, in California, in compagnia del figlio Josey. Nel video, mamma e figlio scendono dall'auto e si dirigono al molo per noleggiare una barca. Il giorno prima, Naya aveva rilasciato un tweet con una tenera immagine di lei col suo bambino, nato dal matrimonio con l'attore Ryan Dorsey da cui si era separata dopo quattro anni. Il testo: "Solo noi due". Il cast di Glee ha già subito, negli anni, molte perdite. Nel luglio del 2013 Cory Montheit (che nella serie interpretava il quarterback Fin Hudson) è stato trovato morto, a causa di un mix di farmaci e alcol, in un albergo di Vancouver, mentre nel gennaio del 2018 Mark Salling si è suicidato dopo che erano state rinvenute immagini pedopornografiche nel suo computer. Ai tanti fan della serie non è sfuggito il fatto che ieri fosse il settimo anniversario della morte di Cory Montheit. Un'immagine di buona parte del cast che si tiene per mano al lago ha emozionato i tanti appassionati della serie, mentre l'attrice Lea Michele - che nei giorni scorsi era stata sommersa da critiche e insulti per non aver commentato sui social la scomparsa di Naya Rivera - ha postato su Instagram una serie di immagini in bianco e nero di Cory, Naya e il loro gruppo di amici. Anche altri membri del cast, come l'attrice Amber Patrice Riley si era sentita di intervenire per chiarire "nessuno è obbligato a mostrare il proprio dolore online". Il 3 luglio (6 giorni prima della sua scomparsa) l'attrice aveva postato una sua immagine con una frase che oggi suona come una sorta di testamento spirituale: "Non importa l'anno, la circostanza o le battaglie di tutti i giorni, essere vivi è una benedizione. Rendi oggi unico e così ogni giorno che ti è dato. Il domani non è certo".
· E’ Morta Kelly Preston, la moglie di John Travolta.
Morta di cancro Kelly Preston, la moglie di John Travolta. Aveva 57 anni, l'annuncio dell'attore su Istagram. La Repubblica il 13 luglio 2020. Lutto nel mondo del cinema: è morta di cancro a soli 57 anni l'attrice Kelly Preston. Era la moglie di John Travolta, che ne ha dato l'annuncio attraverso un post su Instagram: "Con il cuore pesante che vi informo che la mia bellissima moglie Kelly ha perso la sua battaglia di due anni con il cancro al seno. Ha combattuto una coraggiosa lotta con l'amore e il sostegno di tante persone. La mia famiglia e io saremo per sempre grati ai suoi dottori e infermieri del MD Anderson Cancer Center, tutti i centri medici che l'hanno aiutata, così come i suoi molti amici e le persone care che sono state al suo fianco. L'amore e la vita di Kelly saranno sempre ricordati. Mi prenderò un po' di tempo per stare con i miei figli che hanno perso la madre, quindi perdonatemi in anticipo se non ci sentiremo per un po'. Ma sappiate che sentirò il vostro amore nelle settimane e nei mesi a venir. Tutto il mio amore, JT". Kelly Preston era nata a Honolulu nel 1962 e aveva esordito come modella a soli 16 anni. Dopo alcuni ruoli in serie televisive, il debutto cinematografico con "Dieci minuti a mezzanotte". Prima del grande amore con il protagonista di "Saturday night fever" e "Grease", Kelly Preston era stata sposata con l'attore Kevin Gage. In seguito, era stata legata a Charlie Sheen. Il matrimonio con Travolta nel 1991: insieme hanno avuto tre figli, Jett, nato nel 1992 e morto giovanissimo, Ella Bleu (nata nel 2000) e Benjamin (2010).
Com’è morta Kelly Preston, l’attrice moglie di John Travolta. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2020. “È con il cuore colmo di dolore che vi informo che la mia bellissima moglie Kelly ha perso la sua battaglia lunga due anni contro il cancro al seno. Ha combattuto una lotta coraggiosa con l’amore e il sostegno di tanti”. E’ così che il celebre attore di Hollywood John Travolta annuncia sui social la morte della moglie Kelly Preston. Attrice e modella statunitense, Kelly ha lottato per due anni contro un cancro al seno ma non ce l’ha fatta. L’attore di pellicole storiche come ‘Grease’ e ‘Pulp Fiction’ ha continuato il suo breve ed intenso post su Facebook descrivendo lo stato d’animo suo e della sua famiglia: “Saremo sempre grati a medici e infermieri del MD Anderson Cancer Center, a tutti i centri che l’hanno aiutata, così come ai suoi molti amici e persone care che sono state al suo fianco. L’amore e la vita di Kelly saranno ricordati per sempre”. “Mi prenderò un po’ di tempo per stare qui con i miei figli che hanno perso la loro madre, quindi perdonatemi in anticipo se non sentirete di noi per un po’. Ma vi prego sappiate che io sentirò la vostra esplosione d’amore nelle prossime settimane e mesi in avanti, mentre ci riprendiamo. Con tutto il mio amore, JT”, conclude il post l’attore annunciando una pausa dal lavoro per elaborare il lutto.
LA BIOGRAFIA – Kelly Preston è nata a Honolulu, nelle Hawaii nel 1962. Figlia di un lavoratore agricolo, perse suo padre a soli 3 anni ma dopo poco sua madre Linda si risposò con Peter Palzis il quale prese in adozione Kelly. Dall’età di 16 anni inizia a muovere i primi passi nel settore della moda e della pubblicità, ricoprendo il ruolo di attrice e modella. Da allora la sua carriera è decollata tra film e video musicali, come quello dei Maroon 5 per la canzone She Will Be Loved del 2004. Inoltre, sia la Preston che il marito John Travolta sono adepti della chiesa di Scientology. Entrambi hanno recitato nel film del 2000 Battaglia per la Terra, basato proprio su una novella del fondatore dell’organizzazione. Kelly è stata sposata due volte. La prima con l’attore Kevin Gage, ma la loro relazione durò soltanto due anni. Mentre il suo grande amore fu con John Travolta. I due si sono sposati nel 1991 e hanno avuto tre figli: Jett, morto nel 2009, Ella Bleu e Benjamin. La Preston ha dedicato molto tempo al consiglio della CHEC, Children’s Health Environmental Coalition, ovvero la coalizione per la salute ambientale dei bambini, un’organizzazione non profit creata per educare i genitori ai rischi delle tossine ambientali che potrebbero far male ai bambini con allergie. Ha iniziato a far parte dell’associazione dopo aver scoperto che suo figlio Jett aveva la sindrome di Kawasaki, anche se a riguardo ci sono teorie controverse secondo cui le cause della morte sono ignote.
L’ultimo messaggio di Ella Travolta per la mamma Kelly Preston: “Hai reso il mondo un posto migliore”. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2020. “Non ho mai incontrato nessuno coraggioso, forte, bello e amorevole come te. Chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerti o di essere mai stato in tua presenza, concorderà sul fatto che hai un bagliore e una luce che non smette mai di brillare e che rende immediatamente felice chiunque ti circonda”. Così comincia il post che Ella Travolta ha dedicato alla madre Kelly Preston, morta dopo una lunga battaglia di due anni contro un cancro al seno. Dopo l’emozionante messaggio lasciato sui social dal padre, non tardano ad arrivare le parole della figlia. Oltre ad Ella Bleu, l’attrice e modella ha lasciato il figlio Benjamin e il marito John Travolta. La ragazza ha continuato il suo commovente messaggio con una struggente dedica: “Grazie per essere lì per me, non importa cosa. Grazie per il tuo amore. Grazie per il tuo aiuto e grazie per aver reso questo mondo un posto migliore. Hai reso la vita così bella e so che continuerai a farlo sempre. Ti voglio tanto bene mamma”.
L’ANNUNCIO – “È con il cuore colmo di dolore che vi informo che la mia bellissima moglie Kelly ha perso la sua battaglia lunga due anni contro il cancro al seno. Ha combattuto una lotta coraggiosa con l’amore e il sostegno di tanti”. E’ così che il celebre attore di Hollywood John Travolta ha annunciato sui social la morte della moglie Kelly Preston. Attrice e modella statunitense, Kelly ha lottato per due anni contro un cancro al seno ma non ce l’ha fatta. L’attore di pellicole storiche come ‘Grease’ e ‘Pulp Fiction’ ha continuato il suo breve ed intenso post su Facebook descrivendo lo stato d’animo suo e della sua famiglia: “Saremo sempre grati a medici e infermieri del MD Anderson Cancer Center, a tutti i centri che l’hanno aiutata, così come ai suoi molti amici e persone care che sono state al suo fianco. L’amore e la vita di Kelly saranno ricordati per sempre”. “Mi prenderò un po’ di tempo per stare qui con i miei figli che hanno perso la loro madre, quindi perdonatemi in anticipo se non sentirete di noi per un po’. Ma vi prego sappiate che io sentirò la vostra esplosione d’amore nelle prossime settimane e mesi in avanti, mentre ci riprendiamo. Con tutto il mio amore, JT”, conclude il post l’attore annunciando una pausa dal lavoro per elaborare il lutto.
CHI ERA KELLY PRESTON – Kelly Preston è nata a Honolulu, nelle Hawaii nel 1962. Figlia di un lavoratore agricolo, perse suo padre a soli 3 anni ma dopo poco sua madre Linda si risposò con Peter Palzis il quale prese in adozione Kelly. Dall’età di 16 anni inizia a muovere i primi passi nel settore della moda e della pubblicità, ricoprendo il ruolo di attrice e modella. Da allora la sua carriera è decollata tra film e video musicali, come quello dei Maroon 5 per la canzone She Will Be Loved del 2004. Inoltre, sia la Preston che il marito John Travolta sono adepti della chiesa di Scientology. Entrambi hanno recitato nel film del 2000 Battaglia per la Terra, basato proprio su una novella del fondatore dell’organizzazione. Kelly è stata sposata due volte. La prima con l’attore Kevin Gage, ma la loro relazione durò soltanto due anni. Mentre il suo grande amore fu con John Travolta. I due si sono sposati nel 1991 dopo essersi conosciuti sul set di Gli esperti americani nel 1988 e hanno avuto tre figli: Jett, morto nel 2009, Ella Bleu e Benjamin. La Preston ha dedicato molto tempo al consiglio della CHEC, Children’s Health Environmental Coalition, ovvero la coalizione per la salute ambientale dei bambini, un’organizzazione non profit creata per educare i genitori ai rischi delle tossine ambientali che potrebbero far male ai bambini con allergie. Ha iniziato a far parte dell’associazione dopo aver scoperto che suo figlio Jett aveva la sindrome di Kawasaki, anche se a riguardo ci sono teorie controverse secondo cui le cause della morte sono ignote.
L'eterno lutto di Travolta. Morta moglie-attrice: "Ho il cuore che pesa". Kelly Preston uccisa dal tumore come la prima compagna della star. Che ha perso pure un figlio. Gaia Cesare, Martedì 14/07/2020 su Il Giornale. Una moglie e una compagna uccise dal cancro, un figlio autistico morto a 16 anni per una crisi epilettica. È il Rovescio della medaglia di una vita da star apparentemente perfetta, per citare il titolo di uno dei suoi film. Ed è la prova, molto più ovvia, che anche i ricchi piangono. «Con il cuore pesante vi informo che la mia splendida moglie Kelly ha perso la lotta che ha combattuto per due anni contro il cancro al seno», scrive John Travolta in un post su Instagram. Kelly «ha combattuto una lotta coraggiosa con l'amore e il sostegno di così tanti - spiega l'attore, che annuncia un periodo di silenzio sui social network - Io e la mia famiglia saremo sempre grati ai dottori e alle infermiere dell'Md Anderson Cancer Center, così come a tutti gli amici e le persone care che sono state al suo fianco». All'età di 66 anni, il re de La Febbre del Sabato Sera e di Pulp Fiction, di Grease e di Senti chi parla, torna a fare i conti con i drammi e le miserie terrene che da sempre hanno costellato la sua vita privata. Con la morte della moglie, Kelly Preston, 57 anni, dopo una malattia lunga due e tenuta riservata, finisce un amore lungo trent'anni, una rarità nel mondo privilegiato ma sentimentalmente travagliato dei divi di Hollywood. I due, che vivevano in Florida, si sono conosciuti nel 1987 sul set del film Gli esperti americani. Galeotta è la pellicola in cui - ça va sans dire - si lanciano in un sexy ballo. Travolta è già un mito, anche per quell'impareggiabile scioltezza che ne fa una star completa, in grado di spaziare dalla recitazione, al canto al ballo. Lei è di una bellezza travolgente. In un'intervista racconterà: «Ho scoperto che un'amica di John, che frequentavo anch'io da poco, sapendo che lui doveva incontrarmi per la prima volta, gli disse: stai per conoscere una ragazza, perderai la testa per lei e la sposerai». Quell'anno Kelly divorzia dall'ex marito e nel '91 si sposano a Parigi, mentre lei aspetta il primo dei tre figi che avranno insieme, Jett. La cerimonia sarà ripetuta due volte perché la prima, officiata da un ministro della chiesa di Scientology, a cui i due appartengono, non è considerata valida legalmente. Travolta è già reduce da un successo travolgente ma anche da un duro colpo: la morte, per un cancro al seno, della ex compagna Diana Hyland, deceduta nel '77, quando l'attore ha appena 22 anni. Ma il peggio arriverà trent'anni dopo, nel 2009, quando il figlio Jett, autistico, muore a 16 anni mentre la famiglia è in vacanza alle Bahamas. Un colpo alla testa, causato da una crisi epilettica mentre si trovava nella vasca da bagno, gli è stato fatale. Un vuoto incolmabile, nonostante la presenza di altri due figli, Ella Bleu, che oggi ha vent'anni, e Benjamin, che ne ha dieci. Travolta, che insieme a Tom Cruise è la star di Hollywood più in vista di Scientology, racconta di aver superato lo choc grazie all'aiuto del movimento religioso, che negli Stati Uniti è riconosciuto come Chiesa. «Non ci hanno mai lasciato per due anni. Non so se ce l'avrei fatta senza il loro supporto», ha raccontato in un'intervista l'anno scorso, decennale della scomparsa del figlio.
Di John e Kelly restano gli scatti felici sul web, i film insieme, dove hanno vestito i panni di una coppia come in Gotti - il Primo Padrino, girato due anni fa e in cui lui interpretava il boss mafioso italo-statunitense e lei la fedele moglie Victoria. C'è anche un flop cinematografico, Battaglia per la Terra, un fallimento al botteghino e considerato uno dei peggiori film della storia. Hollywood si commuove. E i social network si riempiono di messaggi di calore a John Travolta e alla sua famiglia. Lui scrive: «Perdonatemi se non mi farò sentire per un po'».
John Travolta si sarebbe allontanato da Scientology dopo la morte della moglie. Pubblicato venerdì, 24 luglio 2020 da La Repubblica.it. Dopo la morte della moglie Kelly Preston John Travolta si sarebbe allontanato da Scientology. Lo sostiene l'inglese Daily Mail che cita un ex membro inglese Jeffrey Augustine che ha letto il messaggio di ringraziamento e lode ai medici che hanno curato la moglie come una presa di distanza dalla posizione della chiesa di Hubbard, sempre stato contrario alla chemioterapia. Era stato lo stesso attore a dare l'annuncio su Instagram della morte della moglie e in quel messaggio aveva scritto: "La mia famiglia e io saremo per sempre grati ai dottori e infermieri del Centro per la cura del cancro MD Anderson che l'hanno aiutata, così come i suoi molti amici e le persone care che sono state al suo fianco". Questa frase apparentemente scontata sarebbe secondo l'analisi del tabloid il segno dell'allontanamento della star da Scientology, di cui Travolta e la moglie avrebbero fatto parte per 45 anni. Il matrimonio con Travolta era stato da favola, celebrato a Parigi nel settembre del 1991 a mezzanotte da un membro di Scientology. La comune appartenenza li aveva portati anche a recitare insieme nel film manifesto Battaglia per la terra, tratto dal romanzo del fondatore L. Ron Hubbard. Poi però il rapporto tra la star e la chiesa o setta (a seconda dei punti di vista) avrebbe cominciato a scricchiolare con la morte del loro primogenito Jett, che - affetto da autismo (sidrome che Scientology nega) - aveva sbattuto la testa nella vasca da bagno a causa di una crisi epilettica durante una vacanza di famiglia. Allora si era ipotizzato che il ragazzo avesse smesso di prendere farmaci anticonvulsioni perché Scientology era contraria. In pubblico la coppia ne parlava raramente e se lei sosteneva che quei principi "ci aiutano a vivere una vita più felice e pacifica e a essere gentili con gli altri", lui a Roma l'autunno scorso non aveva risposto, lasciando che il produttore del suo ultimo film intervenisse: "Qui parliamo solo di cinema".
Travolta pronto a dire addio a Scientology? La morte della adorata moglie sembra aver creato una frattura incolmabile tra l’attore e l’organizzazione religiosa contraria alla chemio. Valentina Dardari, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. John Travolta, dopo la perdita dell’adorata moglie Kelly Preston, morta lo scorso 12 luglio per un tumore al seno, avrebbe detto addio a Scientology, l’organizzazione religiosa che seguiva da 45 anni. L’attore di Hollywood si era iscritto a Scientology nel lontano 1975, quando si trovava in Mexico, sul set di un film. Era stata una collega, Joan Prather, a parlargli del gruppo religioso e a somministrargli un assist, ovvero un gesto di guarigione. Subito il protagonista de “La febbre del sabato sera” ne aveva provato giovamento e, appena tornato a Los Angeles aveva contattato Scientology, fondata nel 1954 negli Stati Uniti da L. Ron Hubbard. La Chiesa è basata su un sistema di autoaiuto da lui teorizzato e chiamato Dianetics.
Il ringraziamento di Travolta ai medici. Anche Kelly, moglie dell’attore per 28 anni, credeva fermamente nella Chiesa ed era convinta che frequentarla li facesse stare meglio. Adesso che però è morta, dopo due lunghi anni di lotta con il tumore al seno, John sembra essersi allontanato definitivamente dall’organizzazione religiosa. E gli indizi ci sarebbero. Uno in particolare: subito dopo la morte della moglie, Travolta ha postato un messaggio su Instagram nel quale ringrazia i medici e non rivolge nemmeno una parola a Scientology: “La mia famiglia e io saremo per sempre grati a medici e infermieri del MD Anderson Cancer Center”. Secondo il Mail: “L’elogio ai medici è un chiaro segno che si sia allontanato da Scientology”. Un grazie al personale medico che ha avuto in cura la tanto amata moglie e non un accenno alla comunità religiosa, che tra l’altro, in maniera non ufficiale, sarebbe contraria alla chemioterapia e alle radiazioni. Alla luce del giorno la Chiesa direbbe ai suoi adepti di seguire le cure mediche convenzionali per curare malattie e ferite, e affiancare il culto per guarire i traumi spirituali. In realtà però sembra che il fondatore Ron Hubbard sia scettico nei riguardi dei farmaci, e in particolare della chemioterapia.
La morte del figlio adolescente. Già nel 2009, anno in cui era morto Jett, il figlio autistico della coppia, si era parlato di un divorzio imminente tra l’attore e Scientology. L'adolescente era morto dopo aver sbattuto violentemente la testa durante una crisi epilettica. Sembra che Travolta si sia sempre rifiutato di somministrare farmaci anticonvulsivanti al giovane, proprio perché la Chiesa sarebbe contraria all’uso di medicine per curare problemi neurologici. Precedentemente l’attore aveva sempre ringraziato Scientology perché lo aveva aiutato a superare i suoi lutti, restandogli accanto. Ma adesso niente, con la morte della moglie tutto sembra essere cambiato. Come raccontato dall’ex portavoce della chiesa Mike Rinder al Daily Beast, nella coppia era proprio la donna a essere maggiormente devota a Scientology e il marito non lasciava il culto solo per lei. Sembra invece che l’attore non se ne andasse perché sotto ricatto, al pari del collega Tom Cruise. L’organizzazione avrebbe in mano video intimi dei due attori, e di altri celebri adepti, pronti a essere dati in pasto ai media in caso di abbandono improvviso da parte dei protagonisti. Nessuno ha però mai confermato le voci. Tante però le celebrità che negli anni hanno deciso di rompere con l'organizzazione religiosa.
· Addio a Paolo Giovagnoli, Pm delle nuove Br e del caso Pantani.
Addio a Paolo Giovagnoli, Pm delle nuove Br e del caso Pantani. Victor Castaldi su Il Dubbio l'11 luglio 2020. Il capo della procura di Modena aveva 69 anni, è stato colpito da un malore. Ha lavorato decenni alla Dda, poi all’antiterrorismo. Giustizia in lutto, in Emilia-Romagna,per la scomparsa, la scorsa notte, del procuratore capo di Modena Paolo Giovagnoli. Aveva 69 anni. Giovagnoli era stato trasferito all’ospedale Sant’Orsola di Bologna nei giorni scorsi da Savigliano (Cuneo), dove era stato trasportato in seguito a un arresto cardiaco, avvenuto sabato scorso. Secondo quanto si apprende, Giovagnoli si trovava in vacanza e dopo una passeggiata era stato colto da un malore mentre si trovava in un rifugio. I funerali si svolgeranno a Bologna in forma privata. Una carriera di tutto rispetto quella di Giovagnoli che ha lavorato per decenni alla procura di Bologna poi alla Dda e all’Antiterrorismo. E’ spesso rimasto nell’ombra ma a volte le sue inchieste lo hanno proiettato sulla ribalta mediatica. Tra i casi più celebri ha diretto le indagini della procura sul delitto di Marco Biagi il professore di diritto del lavoro e consulente del governo ucciso dalle cosiddette nuove Br il 19 marzo 2002. Ma ha anche assunto la direzione della Procura di Rimini dove condusse le indagini sulla morte del ciclista Marco Pantani. Numerosi i messaggi di cordoglio giunti alla famiglia da parte di esponenti del mondo della giustizia e della politica.
· E’ morto Emanuele Ferrario, presidente di Radio Maria.
Andrea Camurani per corriere.it il 9 luglio 2020. Maria perde una delle sue «colonne»: è morto mercoledì Emanuele Ferrario, presidente dell’associazione Radio Maria, editrice della radio cattolica dedicata alla Madonna che trasmette in tutto il mondo. Ferrario, 90 anni, imprenditore varesino nel settore caseario, dopo la morte della moglie entrò nel campo radiofonico per quello che doveva essere un periodo limitato. Nel 1987 partecipò alla rilevazione di una radio parrocchiale nata cinque anni prima ad Arcellasco d’Erba, in provincia di Como, ad opera di don Mario Galbiati, e in tre anni divenne la trasformò in un’emittente diffusa in tutta Italia, con 900 ripetitori. Una copertura capillare che trasmette oggi anche via satellite, in 60 Paesi. La notizia della morte di Ferrario è stata resa nota dalla stessa emittente radiofonica su Facebook nella serata di mercoledì: «Fino all’ultimo ha lavorato per la radio. Grazie Emanuele per aver risposto alla chiamata, portando Radio Maria in Italia e nel mondo», un post che ha avuto centinaia di commenti in poche ore. Giovedì mattina la figura di Ferrario è stata ricordata dalla voce storica della radio, quella di padre Livio Fanzaga: «Emanuele ha conservato la presidenza dell’associazione fino a qualche anno fa, ma è sempre stato vicino alla radio. Pensate che fino alla fine ha lavorato alacremente per Radio Maria, ieri (mercoledì ndr) si è svegliato e ha chiesto di essere portato in sede nel suo ufficio, ma non è stato possibile». Viaggiatore, uomo dotato di grande spirito d’iniziativa, Ferrario ha saputo dare alla radio lo stampo organizzativo di un’impresa che è andata lontano: «La sua era una missione divina portata avanti con grande forza. Nell’ultimo periodo era impegnato a seguire i progetti di Radio Maria Africa», ha spiegato padre Livio. «Siamo vicini col dolore, con la gratitudine e con la preghiera. E siamo sicuri che sarà entrato con una standing ovation in Paradiso, fra tutti gli ascoltatori che sono in cielo e lo conoscono benissimo».
Morto Emanuele Ferrario, l'imprenditore che ha trasformato Radio Maria in una realtà mondiale. Pubblicato giovedì, 09 luglio 2020 da La Repubblica.it. C’è chi lo definisce “una persona straordinaria che ha saputo rendere concreto il progetto di evangelizzazione della nostra Madre celeste”, mentre per altri era “un uomo santo che ha compiuto un progetto di natura divina”: sono solo alcuni delle centinaia di messaggi con cui gli ascoltatori di Radio Maria hanno salutato Emanuele Ferrario, 90enne presidente dell’omonima associazione proprietaria dell’emittente radiofonica dedicata alla Madonna, scomparso a Varese nel pomeriggio di mercoledì 8 luglio. L’annuncio della sua morte è stato dato dalla pagina Facebook di Radio Maria, dove lo staff – a cominciare dal direttore, padre Livio Fanzaga – l’ha ricordato così: “Fino all’ultimo ha lavorato per la radio. Grazie Emanuele per aver risposto alla chiamata, portando Radio Maria in Italia e nel mondo”. L’emittente radiofonica, con sede a Erba (nel Comasco), era stata fondata nel 1982 e venne rilevata da Ferrario, all’epoca imprenditore nel settore caseario, nel 1987: avvicinatosi alla radio dopo la morte della moglie, vi si dedicò completamente, trasformandola da piccola realtà parrocchiale a radio diffusa in tutto il mondo. Oggi, si legge sul sito ufficiale, “Radio Maria è presente in 77 nazioni nei cinque continenti, con 84 reti, supportate da altre 22 stazioni radiofoniche in Africa che trasmettono nella lingua locale”. In queste ore si stanno moltiplicando i messaggi di cordoglio sui social network, provenienti da tutto il mondo: “La sua voce mi ha sempre ispirato tanta tenerezza e gratitudine” scrive un ascoltatore, ricordando anche l’attività di conduttore radiofonico di Emanuele Ferrario, mentre tanti altri si augurano che “la sua missione sia di esempio per tutti noi”.
· E’ morto il norvegese Jagge, sconfisse Tomba ad Albertville '92.
Sci: morto il norvegese Jagge, sconfisse Tomba ad Albertville '92. Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Il mondo dello sci piange la prematura scomparsa di Finn Christian Jagge. Il norvegese, campione olimpico di slalom ai Giochi di Albertville del 1992, è scomparso all’età di 54 anni "per una grave malattia", come reso noto dalla famiglia. Oltre al titolo olimpico, nel palmares di Jagge ci sono sette slalom vinti ai Mondiali negli anni Novanta, prima del ritiro avvenuto nel 2000. Una volta chiusa la carriera agonistica, Jagge – sposato e padre di due figli – ha anche allenato la squadra norvegese di sci alpino femminile dal 2005 al 2007 e ha lavorato come commentatore per il canale TV2. "È una notizia terribilmente triste, era un atleta unico – ha raccontato il suo ex compagno di squadra Kjetil André Aamodt, intervistato dalla televisione pubblica NRK – Nel mondo dello sci era una leggenda, ma si distingueva anche in molti altri sport".
· Addio all'attore canadese Nick Cordero.
Coronavirus, addio all'attore canadese Nick Cordero. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 da La Repubblica.it. È morto a causa del Covid-19 l'attore canadese Nick Cordero. Ne ha dato l'annuncio la moglie, Amanda Kloots: "Dio ha un altro angelo in paradiso adesso", ha scritto in un post su Instagram. Cordero, 41 anni, è deceduto a causa di gravi complicazioni sorte dopo aver contratto il coronavirus. Era ricoverato all'ospedale Cedars-Sinai di Los Angeles, in California, da oltre 90 giorni, e i medici lo avevano sottoposto a ventilazione meccanica, dopo un mini-ictus, una serie di coaguli di sangue e infezioni. Gli era stato impiantato un pacemaker temporaneo, aveva subito l'amputazione della gamba destra, una tracheotomia e i medici stavano valutando anche l'ipotesi di un doppio trapianto polmonare. L'attore è ricordato soprattutto per aver ottenuto una candidatura al Tony Award e aver partecipato a musical come "Waitress", "A Bronx Tale" e "Pallottole su Broadway". Con la morte di Cordero, si allunga la lista dei decessi anche tra le celebrità. Il 16 aprile il mondo ha pianto Luis Sepùlveda, deceduto a causa dell'infezione da Covid-19 all'età di 70 anni. Il mese prima, il 23 marzo, era mancata Lucia Bosè, pseudonimo di Lucia Borloni, ricoverata a Segovia, in Spagna. Tanti i nomi di chi non ce l'ha fatta nel mondo delle celebrità, dal musicista somalo Ahmed Ismail Hussein all'attore Allen Garfield, fino al cantautore Adam Schlesinger e all'ex primo ministro della Libia Mahmoud Jibri. Il 3 aprile è morto Sergio Rossi, maestro delle calzature di lusso femminili e molto amato da star come Rihanna, Paris Hilton e Ariana Grande. Fondatore del marchio omonimo, il designer si è spento all'età di 85 anni, ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Bufalini di Cesena. Una delle prime vittime del coronavirus era stato l'architetto Vittorio Gregotti, deceduto il 15 marzo e grande protagonista dell'architettura italiana del Novecento. A causa del coronavirus, è deceduto anche il famoso matematico John Horton Conway, che aveva creato "Game of Life", un gioco online per insegnare ai partecipanti l'evoluzione della vita. L'accademico inglese è morto l'11 aprile, a 82 anni, mentre il 25 aprile si è spento all'età di 94 anni Henri Kichka. Era uno degli ultimi ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento.
Amputazione della gamba inutile: l'attore Nick Cordero muore dopo 3 mesi di agonia. Dopo oltre 90 giorni di agonia, l'attore di Broadway si è spento domenica 5 luglio in un letto dell'ospedale Cedars-Sinai di Los Angeles. L'addio della moglie. Federico Garau, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. Lottava ormai da mesi contro una grave infezione provocata dal Covid-19, ed alla fine l'attore canadese Nick Cordero si è spento la scorsa domenica in un letto dell'ospedale Cedars-Sinai di Los Angeles (California). Nicholas Eduardo Alberto Cordero, 41 anni, era conoscito soprattutto come interprete di musical a Broadway. Pallottole sopra Broadway, Waitress e A Bronx Tale sono solo alcuni dei suoi spettacoli più apprezzati. Sposato da circa tre anni con la ballerina Amanda Kloots, l'attore aveva avuto con lei un figlio lo scorso anno. Secondo quanto riferito dal "NewYorkTimes", che ha dato per primo la notizia, l'artista aveva cominciato ad accusare i primi sintomi del Coronavirus a marzo, ma inizialmente la sua malattia era stata scambiata per una più comune polmonite. Il quadro clinico, tuttavia, si era presto aggravato, costringendo il 41enne a recarsi in ospedale lo scorso 30 marzo. Con serie complicazioni, Cordero era stato subito sottoposto a coma farmacologico a causa della gravissima infezione in atto. Dopo oltre un mese di sonno indotto, l'attore aveva ripreso conoscenza lo scorso 13 maggio, ma la situazione era ben presto nuovamente degenerata. A preccupare i medici, una serie di mini-ictus e diversi coaguli nel sangue. Inutili i disperati tentativi dei sanitari del Cedars-Sinai di salvargli la vita. Dopo l'inserimento di un pacemaker temporaneo, Cordero era stato anche sottoposto ad un intervento chirurgico d'urgenza nel corso del quale i medici avevano provveduto ad amputargli la gamba destra. Ormai del tutto incapace di respirare autonomamente, il 41enne aveva inoltre subito una tracheotomia ed era attaccato ad un respiratore meccanico. I medici stavano ormai considerando l'ipotesi di procedere con un doppio trapianto di polmoni, quando è sopraggiunta la morte, arrivata dopo oltre 90 giorni di agonia. Distrutta dal dolore la moglie Amanda, rimasta con lui fino alla fine, anche se a distanza. "Dio ha un altro angelo in paradiso ora. Nick era una luce così brillante. Era amico di tutti, amava ascoltare, aiutare e soprattutto parlare. Era un attore e musicista incredibile. Amava la sua famiglia e adorava essere padre e marito", ha scritto sul proprio account Instagram. A stringersi attorno alla famiglia, oltre ai fan, anche i colleghi di Cordero. "Il mio cuore è con tutti voi", ha dichiarato l'attrice Viola Davis, come riportato dal "Corriere". "Ho il cuore spezzato per la sua famiglia, e profondamente rattristato dalla perdita di questo talentuoso e amatissimo attore", ha commentanto anche Kate Shindle, presidente della Actors’ Equity Association.
· Morto l’avvocato Mauro Mellini: il radicale che denunciò il “partito dei magistrati”.
Addio a Mauro Mellini, tra i fondatori del Partito Radicale. Pubblicato domenica, 05 luglio 2020 da La Repubblica.it. E' morto, poco dopo la mezzanotte di oggi, Mauro Mellini, uno dei fondatori del Partito Radicale e deputato nella VII, VIII, IX e X legislatura. Ad annunciarne la scomparsa è il figlio Alessandro in un post su Facebook. Mellini si è spento all'ospedale Gemelli a Roma all'età di 93 anni. Nato a Civitavecchia nel 1927, avvocato e scrittore, nel 1993 era stato eletto in seduta comune dal Parlamento membro laico del Consiglio superiore della magistratura. "Compagno d'armi" di Marco Pannella, fu vicino al leader radicale nelle campagne più importanti sui diritti e sulle garanzie, a cominciare dalla battaglia sul divorzio e dalla difesa di Enzo Tortora, per poi allontanarsi dal partito alla fine degli anni Ottanta. Editorialista e saggista, è autore di numerosi scritti. Il suo testo più noto è Così annulla la Sacra Rota (Samonà & Savelli), che contribuì fortemente all'approvazione della legge sul divorzio. "Ne do comunicazione pubblica, nel ricordo della figura integerrima e coerente di uomo politico e avvocato. La sua lotta per i diritti ed il Diritto non ha conosciuto sosta fino agli ultimi giorni di vita", sottolinea ancora il figlio. Immediato il compianto di Sandro Gozi, eurodeputato di En Marche, da tempo vicino ai Radicali: "Ci ha lasciato Mauro Mellini. Una vita di battaglie radicali per il diritto e i diritti. Per lui gli errori giudiziari erano orrori. Oggi in Italia c'è chi considera normale un innocente in carcere. La differenza tra civiltà e barbarie è tutta qui. Scegliamo da che parte stare". "Mauro Mellini è stato un gigante nella battaglia garantista -lo ricorda Fabrizio Cicchitto, presidente di Riformismo e Libertà - autonomo anche da Pannella: sul terreno del diritto era un maestro e tutti oggi dovrebbero rileggere i suoi scritti".
E’ morto Mauro Mellini, un uomo giusto a cui dobbiamo molto. Valter Vecellio su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Volete capire di che pasta era fatto Mauro Mellini? Marco Pannella, per anni compagno e sodale nel Partito Radicale (che ha contribuito a fondare), periodicamente si consuma in lunghi, faticosi, scioperi della fame. Lui, specializzato in penne all’arrabbiata innaffiate da abbondanti razioni di aglio, inaugura le “cene anticlericali”. In una di queste “cene”, quella del 23 dicembre 1970 al ristorante “Il tempio di Giove”, Mellini vende un cartoncino liberty ai commensali: 163mila lire che vanno a rimpinguare le esangui casse della Lega per l’Istituzione del Divorzio. La legge Fortuna-Baslini è stata approvata alla Camera, in quel cartoncino un “piccolo” poema; lo stesso Mellini lo declama, accompagnato da un improvvisato strimpellatore con chitarra: «Salute o laici/ o divorzisti/ c’altri dipingono/ come Anticristi/ uniti a tavola/ si fa baldoria/ questa è la cena/ della VITTORIA…». Gli stornelli si susseguono, il brindisi così si conclude: «Oggi è più libero/ l’uman consorzio:/ anche il Italia/ vige il DIVORZIO/ Amici al brindisi/ di questa sera/ s’unisce in gaudio/ l’Italia intera / Bene augurando/ che ci sia dato/ vincere ancora/ sul Concordato./ Il modo mutasi / cambia la storia! / È questo il brindisi/ della VITTORIA!». Non c’è dubbio Mellini: appartiene a quella non folta schiera (però più numerosa di quanto si creda) che all’Italia e a tutti noi, ha dato qualcosa di buono; di bello. Di giusto. Torno indietro nel ricordo di giorni fantastici. 1 dicembre 1970: la Camera dei deputati approva la legge n.898, quella che comunemente battezzata Fortuna-Baslini. Dc, Msi, Sudtiroler Volspartei, Monarchici si sono strenuamente opposti, ma lo schieramento laico-progressista (Psi, Psiup, Pci, Psdi, Pri, Pli), prevale. A piazza Montecitorio, i risultati sono attesi da una folla con torce, cartelloni, striscioni. È il popolo dei “cornuti”, come si sono battezzati: donne e uomini le cui unioni non hanno retto, e si sono trovati altri affetti, altri amori, altre unioni. Oggi sembra normale; allora era tutto illegale. C’era il delitto d’onore; la “prova del letto caldo”; e l’indissolubilità del matrimonio. Indissolubilità formale: pagando c’era sempre una compiacente Sacra Rota vaticana che “annulla” con i pretesti più vari. Numerosi parlamentari contrari al divorzio, si si sono creati nuove famiglie, annullandoil precedente matrimonio: magari per impotenza e incapacità di procreare, anche se hanno messo al mondo (e riconosciuto) più di un figlio…Tutti casi puntualmente censiti da Mellini in un gustoso libretto che sbertuccia fanti e santi. Quella sera di dicembre, in quella folla spiccano quattro volti: Loris Fortuna il caparbio socialista-radicale firmatario della legge; Marco Pannella che con la sua altezza da corazziere sovrasta un po’ tutti; Mellini, battagliero e caparbio regista delle lotte divorziste; e una popolana di quella Trastevere alla “Poveri ma belli”. Si chiama Argentina Marchei, quella popolana. Avete presente la Augusta Proietti moglie di Alberto Sordi in Le vacanze intelligenti? Un tipo così. Una signora il cui marito va a cercare fortuna in Sud America, e non se ne sa più nulla. Lei incontra un altro uomo, si vogliono bene, nascono dei figli; vorrebbero uscire dalla condizione di “pubblici concubini” che dura da ben 54 anni, essere una famiglia normale. La donna piange calde lacrime di gioia e di commozione. Finalmente il sogno di una vita si può concretizzare. Tra i cartelli di quella sera, uno dice tutto: “Argentina Marchei ha vinto, Paolo VI ha perso”. C’è Mellini, accanto a quella donna. È lui, con Pannella, il deus ex machina di un movimento che in pochi giorni macina migliaia di adesioni: la Lid, Lega per l’istituzione del divorzio. Pannella e Mellini comprendono che per vincere occorre creare un fronte di “unione” laica delle forze; è così che si trovano fianco a fianco comunisti come Umberto Terracini e Fausto Gullo; socialisti come Giacomo Mancini e Riccardo Lombardi; liberali come Giovanni Malagodi, socialdemocratici come Giuseppe Saragat, repubblicani come Ugo La Malfa… Il supporto “pubblicitario”, molto prima de L’Espresso di Eugenio Scalfari, viene da ABC: scalcinato settimanale stampato con carta di risulta, con “donnine” che mostrano mutande e, con grande parsimonia, qualche capezzolo. Lo dirige un giornalista dimenticato, Antonio Sabato. Apre le sue pagine alla Lid, e la tiratura “esplode”: centinaia di migliaia di copie, rivela un’Italia sommersa, che non si sospettava esistesse. Quando per la prima volta i radicali si presentano alle elezioni nel 1976, è uno dei quattro eletti, con Emma Bonino, Adele Faccio e Marco Pannella. Garantista ventiquattromila carati, sono infinite le lotte che ha animato e condotto, in nome della giustizia giusta: nelle aule del Parlamento; a palazzo dei Marescialli, eletto al Consiglio Superiore della Magistratura; e nei tribunali di mezza Italia. E una quantità di pubblicazioni. Mi limito a citarne alcune: Così annulla la Sacra Rota; Le sante nullità (che svela le ipocrisie di tanti antidivorzisti che hanno fatto ricorso a quell’istituzione per sciogliere i loro matrimoni); 1976 Brigate Rosse, operazione aborto; Il giudice e il pentito; La bancarotta della giustizia; Il partito dei magistrati; Eminenza, la pentita ha parlato. Quest’ultimo libro colpisce Leonardo Sciascia: «Offre la narrazione di un caso che può riassumerli tutti e servire da esempio riguardo ai pericoli, alle ingiustizie, alle vergognose strumentalizzazioni che certe leggi comportano». Negli anni Novanta Mauro si allontana da Pannella, con cui entra in dura polemica; si oppone con tutta la sua “vis”, alla svolta transnazionale del Partito Radicale. Come sempre, una macedonia di tenacia, grinta, spigoloso ma anche tenero e affettuoso, difficile descriverlo. A volte feroce: giunge ad accusare Pannella di essere bramoso solo di “fare scena”, di «appagarsi di inconcludenti provocazioni». Si capisce, nella foga della polemica accade che si dica quello che non si pensa, e non si pensi a quello che si dice. Vale, quello che Mauro dice nell’apprendere della morte dell’antico compagno di tante battaglie: un giudizio che pur nel dissenso fa trasparire affetto e amicizia: «Marco parlava ai politici e alla politica, come hanno fatto nel passato profeti e persone consacrate alla religione. È per questo, e malgrado questo, che non può dirsi che Marco abbia fallito. È per questo che la rottura della nostra amicizia, tanto dolorosa per me, che ha voluto far seguire al dissenso, era, in fondo giustificata. Il torto era mio: non lo avevo capito, pretendendo ancora una volta coerenza e concludenza politica. Da non politico che rispettava la politica e ad essa parlava, è stato un personaggio di irripetibile qualità e rilievo che la storia non potrà ignorare…». Ecco: si può dire che parlando di Marco, Mauro parla anche di sé, si “descrive”. Spesso lo hanno accusato di praticare un anticlericalismo ottocentesco, superato, viziato da retorica ingenua e impolitica. È stato invece uno dei non molti campioni dell’Italia civile, laica, rispettosa dei diritti di ciascuno e di tutti. Uno dei nostri “maggiori”.
Chi era Mauro Mellini, che ha lottato fino alla fine per una giustizia giusta. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Nel 1953, quando lo conobbi, io stavo entrando all’Università e lui si era da tempo laureato e stava cominciando l’itinerario della sua professione di avvocato. Mauro Mellini politicamente si era formato nell’Unione Goliardica Italiana di Marco Pannella, Franco Roccella, Sergio Stanzani e di tanti altri di noi, studenti universitari laici di quella stagione. Nel 1954 anticipò di un anno la scissione del Pli insieme a Pannella e a Giovanni Ferrara, fondando insieme a loro la Giovane Sinistra Liberale, aperta anche ai laici che, come me, non provenivano dalla GLI ma da un altro o da nessun partito. Nel 1955 fu, con tutti noi, fra i fondatori del Partito Radicale. Mauro Mellini è stato uno degli indiscutibili protagonisti della rivoluzione culturale prima che politica e legislativa dei diritti civili. Fu con Marco e con Loris Fortuna, uno dei padri della Lega del divorzio, che divenne l’indispensabile strumento organizzativo di aggregazione popolare intorno a quella decennale battaglia. Nel 1962 era stato, al secondo congresso del Partito Radicale, uno dei firmatari della mozione della Sinistra Radicale che chiedeva alla maggioranza del partito e alla sua classe dirigente di allora (quella del Mondo) di imperniare le proprie lotte laiche e anticlericali sulle riforme dei diritti civili, a cominciare dalla lotta per conquistare il diritto al divorzio, che allora sembrava impossibile conseguire (ed eravamo ritenuti pazzi a pretenderlo). L’incontro con Loris Fortuna nel 1965 e la presentazione del progetto di legge che porta il suo nome innescò in tutto il paese una battaglia popolare, che rivelò alla sinistra come la questione del divorzio non fosse, una rivendicazione borghese o, come si diceva allora, una mera “questione sovrastrutturale” ma una grave questione sociale che riguardava le condizioni in cui erano costretti a vivere centinaia di migliaia di “fuori legge” del matrimonio. La vittoria parlamentare del 1970 e il grande successo laico nel referendum del 1974 spianarono la strada a quella che io definisco la “rivoluzione dei diritti civili”: obiezione di coscienza, riforma dei codici e dei tribunali militari, voto ai diciottenni, abolizione del reato di aborto e sua legalizzazione, abolizione dei manicomi, riforma del diritto di famiglia, parità dei diritti tra uomo e donna: un esito che dieci anni prima tutti giudicavano impensabile. Segretario del Partito Radicale dall’ottobre 1968 a tutto il 1969 (aveva accanto come tesoriere Angiolo Bandinelli), deputato per 4 legislature dal 1976 al 1992, Mauro è stato l’unico giurista radicale a far parte, come membro “laico” eletto dal Parlamento, del Consiglio Superiore della Magistratura. In tutta la sua vita ha affrontato con coraggio, spesso come è capitato a molti di noi in condizione di solitudine, le sue battaglie per “una giustizia giusta”. Ricordo che, per sua iniziativa e proposta, già negli anni 60 ci davamo appuntamento davanti ai Palazzi di Giustizia per organizzare delle “contromanifestazioni” alle inaugurazioni degli anni giudiziari che venivano celebrati all’interno di quei Palazzi. E fu tra i primi a comprendere e a denunciare che l’origine dei guai della nostra giustizia derivava proprio dalle scelte compiute alla assemblea costituente. Prima ancora che nella mancata separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri o nella prassi dilagante che vede moltiplicarsi gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, il primo e più grave vulnus che è stato inferto da allora al rapporto fra i poteri dello Stato è rappresentato dall’articolo che stabilisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Venivamo da una dittatura ed era comprensibile che si decidesse di sottrarre le scelte sulla politica giudiziaria al potere esecutivo. Ma la soluzione adottata, nell’impossibilità evidente di perseguire tutte le notitiae criminis, affidava di fatto ai singoli procuratori della Repubblica, o peggio ai singoli magistrati inquirenti, la scelta sulla priorità dei reati da perseguire e quindi, di conseguenza, sui processi che devono o non devono celebrarsi e sul loro ordine di priorità: un vulnus inflitto anche alla nostra democrazia perché nessuna autorità pubblica si assume la responsabilità di queste scelte e nessun organo democratico (neppure il Csm) può metterle in discussione o interferire su criteri in base ai quali vengono compiute. Sulla base di queste convinzioni abbiamo lottato insieme contro il processo 7 Aprile e affrontato con determinazione il “caso Tortora”. Raccogliemmo le firme per tre referendum sulla “giustizia giusta” fra cui quello sulla “responsabilità civile” dei magistrati. Poi sul finire degli anni 80 e all’inizio dei 90 venne il momento per me doloroso delle separazioni. Si oppose alla trasformazione del partito radicale in partito transnazionale e se ne allontanò. Rispettai la sua scelta anche se credo sbagliasse nel ritenere che essa comportasse l’abbandono delle lotte per i diritti civili: Per due motivi: perché la lotta per i diritti umani, che è stata al centro del partito transnazionale, era intrinsecamente connessa a quella per i diritti civili e richiedeva un impegno assai forte per l’affermazione del diritto sul terreno inter- e sovra-nazionale e perché, come hanno poi dimostrato Piergiorgio Welby e Luca Coscioni, la stagione dei diritti civili non era affatto conclusa. Credo che non solo noi ma il Paese gli debba molto. Addio Mauro. Che la terra ti sia lieve.
Morto l’avvocato Mauro Mellini: il radicale che denunciò il “partito dei magistrati”. Il Dubbio il 5 luglio 2020. Mauro Mellini è morto questa notte a Roma. Dopo la militanza nel partito Radicale, col quale fu eletto parlamentare nel ’76, abbracciò le battaglie garantiste e difese Enzo Tortora. Fu avvocato, fu politico, fu radicale e fu, soprattutto, un garantista. Mauro Mellini è morto questa notte a Roma. Dopo la militanza nel partito Radicale, col quale fu eletto parlamentare nel ’76, Mellini abbracciò le più importanti battaglie sui diritti e sulle garanzie. A cominciare dalla difesa di Enzo Tortora, il conduttore vittima di un’odissea giudiziaria che ben presto lo portò alla morte. Nel 2006 Mellini fondò insieme ad Alessio Di Carlo il periodico on line GiustiziaGiusta, dedicato ai temi della giustizia in chiave garantista. L’annuncio è stato dato dal figlio Alessandro Mellini via facebook: “Poco dopo la mezzanotte di oggi, Domenica 5 Luglio si è spento presso l’ospedale Gemelli a Roma all’età di 93 anni mio padre Mauro Mellini, fondatore del Partito Radicale, Deputato della Repubblica Italiana nella VII, VIII, IX e X legislatura.Eletto nel 1993 in seduta comune dal Parlamento membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura. Ne do comunicazione pubblica, nel ricordo della figura integerrima e coerente di uomo politico e avvocato.La sua lotta per i diritti ed il Diritto non ha conosciuto sosta fino agli ultimi giorni di vita”.
I libri di Mauro Mellini. Mellini ha iniziato la sua attività di scrittore nell’ambito della battaglia per l’approvazione e la difesa dell’istituzione del divorzio, di cui è stato animatore (“Così annulla la Sacra Rota”, 1968 – “Le Sante Nullità”, 1974) e poi per le battaglie politiche, che lo hanno condotto in Parlamento, deputato in quattro legislature tra il 1976 ed il 1992. È stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura (1993-1994) fondatore del movimento e del periodico (ora on-line) Giustizia Giusta. Le questioni della giustizia, delle legislazioni speciali, anche dei loro aspetti storici, dei cosiddetti pentiti sono stati l’argomento principale della sua opera di scrittore. Alla questione dei pentiti e del loro uso, che allora si stava imponendo, dedicava nel 1982 lo studio di un clamoroso caso nella storia del Risorgimento col libro: “Eminenza, la pentita ha parlato”. Nel 1984 usciva “Una Repubblica pentita”, nel 1986 “Il Giudice e il Pentito”, nel 1999 “Nelle mani dei pentiti – il potere perverso dell’impunità”. Nel 1987 usciva “”Norme penali sull’obiezione di coscienza”, compendio della problematica giuridica di un settore nel quale Mellini è stato particolarmente impegnato come avvocato. Nel 1992 usciva “Il Partito che non c’era”. Nel 1994 uscivano “Il golpe dei giudici” e “Bancarotta Giustizia”. È del 2004 “Tra corvi e pentiti”, del 2005 “La fabbrica degli errori – breviario di patologia giudiziaria”. Da ultimo nel 2008 “’Sta povera giustizia”, raccolta di tutti i sonetti di G. G. Belli aventi a oggetto la giustizia. Assieme ad Alessio Di Carlo, Mellini ha scritto (2010) “Lo scontro” sempre su temi di politica giudiziaria.
Un breve estratto dal suo libro “Il partito dei magistrati”. “Del “partito dei magistrati” […] non fanno certo parte tutti i magistrati, né tutti quelli che ne fanno parte sono coscienti di tale appartenenza. Ne fanno parte anche dei “laici”, politici e politicastri e, soprattutto, giornalisti, in un ruolo, si direbbe, di “ausiliari”. In compenso questo partito è egemone, oramai, rispetto alla magistratura nel suo complesso, anche in forza di un certo mal concepito spirito di solidarietà che vincola anche molti recalcitranti. Quelli che, oltre a non riconoscersi nel partito, ne avvertono il carattere abnorme e la pericolosità, sono pressoché totalmente emarginati, quando non preferiscono mimetizzarsi e rendersi irriconoscibili. “Una pluralità di tendenze, di metodi e di obiettivi consente pure forme così accentuate di polimorfismo, tali che molti autentici e coscienti militanti del Partito dei Magistrati si considerino, al contempo, appartenenti a partiti, per così dire, (visto che i partiti italiani sono tutti di assai recente formazione), tradizionali.”
· Ennio Morricone è morto.
E’ morto Ennio Morricone, premio Oscar e compositore mondiale. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 6 Luglio 2020. Se ne è andato a 91 anni il maestro Ennio Morricone. Il grande musicista e compositore è morto nella notte in un clinica di Roma, sua città natale, in seguito alle conseguenze di una caduta avvenuta nei giorni scorsi che gli aveva provocato la rottura del femore. Premio Oscar e autore di alcune delle colonne sonore più belle del cinema italiano e internazionale (“Per un pugno di dollari”, “C’era una volta in America”, “Nuovo cinema paradiso”). I funerali di Ennio Morricone si terranno in forma privata “nel rispetto del sentimento di umiltà che ha sempre ispirato gli atti della sua esistenza”. Lo annuncia la famiglia del premio Oscar attraverso l’amico e legale Giorgio Assumma. Morricone, si legge nella nota, si è spento “all’alba del 6 luglio in roma con il conforto della fede”, Assumma. aggiunge che il maestro “ha conservato sino all’ultimo piena lucidità e grande dignità ha salutato l’amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli e’ stato accanto fino all’estremo respiro ha ringraziato i figli e i nipoti per l’amore e la cura che gli hanno donato. ha dedicato un commosso ricordo al suo pubblico dal cui affettuoso sostegno ha sempre tratto la forza della propria creatività”.
Aveva 91 anni. Come è morto Ennio Morricone, la famiglia: “Funerali in forma privata”. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2020. Era ricoverato da giorni in una clinica privata di Roma in seguito alle conseguenza di una caduta che gli aveva provocato la rottura del femore. Si è spento all’alba di lunedì 6 luglio – così come comunicato dalla famiglia – il compositore e musicista Ennio Morricone, autore di centinaia di colonne sonore di film e vincitore di due premi Oscar nel corso della sua lunga e gloriosa carriera. Morricone avrebbe compiuto 92 anni il 10 novembre prossimo. “Ha conservato sino all’ultimo piena lucidità e grande dignità – si legge nella nota della famiglia diffusa attraverso il legale e amico Giorgio Assumma –, ha salutato l’amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli è stato accanto fino all’estremo respiro ha ringraziato i figli e i nipoti per l’amore e la cura che gli hanno donato. Ha dedicato un commosso ricordo al suo pubblico dal cui affettuoso sostegno ha sempre tratto la forza della propria creatività”. I funerali di Ennio Morricone si terranno in forma privata “nel rispetto del sentimento di umiltà che ha sempre ispirato gli atti della sua esistenza”.
(ANSA il 6 luglio 2020) - E' morto nella notte in una clinica romana per le conseguenze di una caduta il premio Oscar Ennio Morricone. Il grande musicista e compositore, autore delle colonne sonore più belle del cinema italiano e mondiale da Per un pugno di dollari a Mission a C'era una volta in America da Nuovo cinema Paradiso a Malena , aveva 91 anni. Qualche giorno fa si era rotto il femore.
BIOGRAFIA DI ENNIO MORRICONE A cura di Giorgio Dell'Arti per cinquantamila.it e anteprima.news.
Roma 10 novembre 1928. Compositore. Autore di celebri musiche da film. Premio Oscar alla carriera nel 2007 e premio Oscar per la miglior colonna sonora originale per il film di Quentin Tarantino The Hateful Eight nel 2016 (era alla sua sesta candidatura). In tutto ha scritto le musiche di oltre 500 tra film e serie tv. Le sue composizioni sono state usate in più di 60 film vincitori di premi. Ha vinto tre Grammy Awards, tre Golden Globe, sei Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d’argento, due European film awards, un Leone d’oro alla carriera, un Polar music prize. «Il successo di una musica non dipende solo dalla scrittura, ma dalla scelta degli strumenti. Le prime note della colonna sonora di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sono eseguite dal mandolino e da un pianoforte volutamente stonato».
• Vita «Quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. Mio padre suonava la tromba. Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Le notizie arrivavano come attutite. Al mattino studiavo al conservatorio, la sera suonavo la tromba per gli ufficiali tedeschi, riuniti in un locale di via Crispi, a ballare i valzer di Strauss con le ragazze romane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: tra poco ne sentirete delle belle. Seguì un botto. Era la bomba di via Rasella. Poi arrivarono gli americani, e suonavo per loro negli alberghi di via Cavour. Non ci davano soldi ma cibo – pane bianco, cioccolata, anche pietanze cucinate – e sigarette; io non fumavo, rivendevo le sigarette e portavo i soldi a casa».
• «Tra i 14 e i 16 anni, Ennio Morricone, d’estate, suonava con un gruppo al Florida, nei pressi di via del Tritone. Nel locale “c’era un clima un po’ da casa di tolleranza, sotto i tavoli succedevano cose sconce. Ogni tanto la polizia faceva una retata e una volta una delle ragazze, per non farsi arrestare, finse di essere la mia fidanzata, acchiappandomi e dandomi un bacio. Io, prima d’allora, non avevo mai baciato una donna. Ero sconvolto. Lei riuscì ad andarsene indisturbata”» (Leonetta Bentivoglio).
• Perse il fratellino Aldo quando questi aveva solo tre anni: «Come accadde? “Fu una morte assurda, provocata dall’insipienza di un medico. Aldo aveva mangiato delle ciliegie cadute da alcuni vasi. La sera prese a vomitare. Pensammo a un’influenza. Era estate e il nostro dottore di famiglia era in vacanza. Chiamammo il sostituto che sbagliò completamente la diagnosi (…). Morì per un enterocolite acuta, scambiata per un banale mal di pancia (…). Fu terribile (…), mio padre finì con l’accentuare il suo lato più severo. In contrasto netto con l’atteggiamento della mamma, la cui bontà assoluta era spesso fuori luogo. C’era un’esagerazione in entrambi i sensi che mi disorientava. Cercai sempre più rifugio nella musica» (ad Antonio Gnoli).
• «Per guadagnare, iniziai a fare i primi arrangiamenti musicali alla radio (…), poi un giorno mi chiamò Luciano Salce e realizzai le musiche del mio primo film. Il regista mi fece vedere il filmato e lo musicai. Quell’esperienza andò bene e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi».
• Diploma in Tromba (nel 1946) e in Composizione (nel 54, sotto la guida di Goffredo Petrassi) all’Accademia di Santa Cecilia, è diventato «il compositore italiano più noto all’estero. Le sue colonne sonore sono entrate nella leggenda. I grandi nomi del rock lo citano e gli rendono omaggi su omaggi. La sua prolificità, poi, è ineguagliabile: anche venticinque film in un anno (oltre 500 dal 1960 a oggi – ndr)» (la Repubblica).
• «I Metallica da anni aprono i loro concerti con le note di The Ecstasy of Gold da Il buono, il brutto e il cattivo, e la cosa mi ha sempre divertito molto, perché io con la loro musica non ho nulla a che fare!».
• Nomination all’Oscar per I giorni del cielo (Malick 1978), Mission (Joffe 1986), Gli Intoccabili (De Palma 1987), Bugsy (Levinson 1991), Malèna (Tornatore 2000), The Hateful Eight (Tarantino 2015, vinto); Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 1995. Tra i film per cui ha composto la colonna sonora: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto il cattivo, C’era una volta il west, Giù la testa, C’era una volta in America (1964, 1965, 1966, 1968, 1971, 1984, tutti di Sergio Leone), Uccellacci e uccellini (Pasolini 1966), La battaglia di Algeri (Pontecorvo 1966), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Petri 1970), Novecento (B. Bertolucci 1976), Nuovo cinema Paradiso (Tornatore 1988). «Mi sono trovato bene con tutti, con Pontecorvo, con Montaldo, Bolognini, Elio Petri. Ultimamente, ed è uno di quelli con cui mi sono trovato meglio in assoluto, c’è Tornatore».
• «Sergio Leone era dispettoso, spesso anche velenoso con i suoi colleghi. Nacque tutto con Per un pugno di dollari: voleva mettere nella scena finale, il duello tra Volonté e Eastwood, il popolare Deguello tratto dal film di Howard Hawks Un dollaro d’onore, con le musiche di Tiomkin. Gli dissi che non avrei più fatto il film: non si può togliere a un compositore la soddisfazione di fare una scena importante. Lui allora mi chiese una cosa simile al Deguello, cosa che mi guardai bene dal fare. Ripresi invece, a sua insaputa, una ninna nanna che avevo scritto qualche anno prima per i Drammi Marini di Eugene O’Neill per la tv. La feci sentire a Sergio facendogli credere che l’avevo scritta per l’occasione. Fu entusiasta. Qualche anno dopo glielo rivelai e lui trasformò questa cosa in una regola: mi invitò a fargli sempre ascoltare i temi che altri registi avevano criticato o scartato. Anche per C’era una volta in America utilizzai il tema d’un film che all’ultimo non avevo più fatto». «Ma è vero che da bambini eravate stati a scuola assieme, e che lo scopriste solo quando vi ritrovaste, trent’anni dopo, per la colonna sonora di Per un pugno di dollari? “Appena entrato la prima volta a casa mia – era il 1963 – glielo dissi. Non ci credeva. Allora gli mostrai la foto della terza elementare. C’eravamo tutti e due. Nacque subito un feeling”» (a Paolo Scotti).
• «Pasolini, con il quale ho collaborato in tutti i film tranne che in Medea, mi diceva: “Faccia quello che vuole”. Per questo non lo lasciai mai».
• «Ho paura dell’aereo, è uno dei motivi che non mi fa più lavorare per gli americani. E poi non sono un direttore d’orchestra e, infatti, al massimo dirigo Morricone. Quando salgo sul podio mi piace, ma il mio mestiere è comporre».
• Dal 1946 a oggi ha scritto più di cento titoli di musica non da film: ultimi Silicio e altri frammenti (2006), Vuoto d’anima piena (2008). Nel 1965 entrò a far parte del Gruppo di improvvisazione Nuova Consonanza.
• Sua opera preferita: la Tosca di Puccini.
• «Film che Ennio Morricone avrebbe voluto musicare: Arancia Meccanica (“Il problema nacque sul luogo dove incidere le musiche. Io volevo registrare a Roma, ma lui non amava volare e chiedeva di incidere a Londra. Le cose si complicarono anche perché in quel momento lavoravo con Sergio Leone, e alla fine rinunciai”), La sottile linea rossa (“In quel periodo viaggiavo molto e il regista Terence Malick non riuscì a trovarmi nel momento in cui si chiudevano i contratti»), L’ultimo imperatore (“Ma in quel caso non sono stato chiamato”)» (Antonio Monda).
• «Ennio Morricone evita i set per i quali scrive la colonna sonora. Tre eccezioni: C’era una volta il west e C’era una volta in America solo per il primo ciak, La leggenda del pianista sull’oceano più a lungo perché doveva coordinare Tim Roth al pianoforte» (Antonella Amendola).
• Fa ascoltare in anteprima la sua musica alla moglie: «È lei che giudica prima di tutti. Nel passato capitava che spesso i registi mi fregavano: di tutti i brani che proponevo sceglievano i più brutti. Ora non accade più. C’è mia moglie. Non ha una conoscenza tecnica della musica. Ma giudica come farebbe il pubblico. È severissima» (a Federica Lamberti Zanardi).
• La moglie, sposata il 13 ottobre 1956, si chiama Maria Travia. Ha dedicato a lei tutti e due gli Oscar vinti: «È un atto di giustizia. Mentre io componevo lei si sacrificava per la famiglia e i nostri figli. Per cinquant’anni ci siamo visti pochissimo: o ero con l’orchestra o stavo chiuso nel mio studio a comporre. Nessuno poteva entrare in quella stanza tranne lei: il suo unico privilegio». Quattro figli, tre maschi e una femmina, uno solo, Andrea (Roma 10 ottobre 1964), s’è dato alla musica, Giovanni (1966) fa il regista, gli altri sono Marco (1957) e Alessandra (1961).
• «È un signore alquanto stravagante, lontano dagli stereotipi del genio e sregolatezza. Uomo metodico, apparentemente imperturbabile, completamente dedito al lavoro e alla famiglia, con una santa moglie che lo accompagna dovunque: «Vado a letto abbastanza presto, la sera alle 10: mi alzo alle 4 del mattino, faccio ginnastica e una camminata ma non fuori, in casa. Poi esco a prendere i giornali, li leggo e poi non mi fermo più: se ho cose urgenti da fare vado avanti fino a sera”. E se è in tournée? “Se ho il concerto vado a letto tardi, dunque mi alzo un po’ più tardi e non faccio ginnastica”» (Marinella Venegoni).
• Il 25 febbraio 2007, dopo cinque nomination senza esito, gli venne conferito l’Oscar alla carriera per «i suoi magnifici contributi all’arte della musica cinematografica». Gli consegnò la statuetta Clint Eastwood («Io certamente non sarei qui se ogni apparizione del mio Gringo nei western di Sergio Leone non fosse stata accompagnata dalle sue note suggestive»), che tradusse il suo discorso di ringraziamento dall’italiano all’inglese a tutta la platea. Celine Dion cantò il Tema di Debora da C’era una volta in America. Era il primo brano dell’album We all love Ennio Morricone, appena distribuito dalla Sony Classics in tutto il mondo, in cui le sue musiche sono interpretate da star internazionali come Bruce Springsteen, Metallica, Yo Yo Ma, Herbie Hancock ecc. «Ho ricevuto in Italia e nel mondo tanti premi, non so nemmeno quanti, premi importantissimi, da quello del presidente della Repubblica al Bafta britannico, dai Golden Globe al Grammy. Ma l’assenza di un Oscar era come un buco lì in mezzo, un vuoto che mi dava un po’ fastidio, lo confesso».
• All’inizio di febbraio 2007 diresse per la prima volta in America: concerto nella sala dell’Assemblea generale dell’Onu, aperto da Voci dal silenzio, la suite nata dopo l’11 settembre («La dedica è dentro i suoni, e l’ho poi allargata a tutte le stragi della storia umana»), e poi al Radio City Music Hall di New York, «pubblico in piedi e standing ovation a ripetizione» (Gino Castaldo).
• Il 16 aprile 2007 debuttò al Teatro alla Scala dirigendo la Filarmonica e il Coro in un concerto a favore dell’Associazione don Giuseppe Zilli, presentato da Giorgio Armani. In programma i suoi grandi temi: «Alcune cose le devo fare, altrimenti la gente sta male. Mission, ad esempio, che deve il suo successo a un’intensa carica di ascetismo e spiritualità». L’anno precedente era stato per la prima volta sul podio dell’orchestra milanese per una tournée estiva in Italia.
• Nel 2009 il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, ha firmato un decreto che lo nomina al grado di Cavaliere nell’ordine della Legione d’Onore.
• Nel 2010 e nel 2013 ha ricevuto il David di Donatello per la miglior colonna sonora, rispettivamente per Baaria e per La migliore offerta, entrambi di Giuseppe Tornatore. Per quest’ultimo film ha vinto anche l’European Film award, sempre nel 2013.
• Ha aperto il concerto del primo maggio 2011 (anno del 150° dell’Italia unita), dirigendo una sua composizione, Elegia per l’Italia, ispirata al Va pensiero di Verdi e all’inno di Mameli.
• Nel febbraio del 2016 è il tredicesimo italiano a ricevere una stella, la numero 2574, sulla Walk of Fame in Hollywood Boulevard, Los Angeles.
• Nel 2016 ha ricevuto il suo terzo Golden Globe per la colonna sonora di The Hateful Eight, l’ultimo film di Quentin Tarantino, che ritirando il premio in sua vece sul palco lo ha così definito: «Morricone è il mio compositore preferito, e quando parlo di compositore non intendo quel ghetto che è la musica per il cinema, ma sto parlando di Mozart, di Beethoven, di Schubert». «Ha detto una cosa carina, l’ha detta grossa come è grosso lui, pieno di sostanza. Mi fa piacere che mi abbia fatto un elogio gentile ma non siamo noi a doverci collocare, sarà la storia a decidere e perché arrivi il tempo giusto ci vogliono secoli» (Morricone a Michela Tamburrino) [Sta 12/1/2016]. Per lo stesso film ha ricevuto anche un Bafta.
• Politica «Non ho mai parlato di politica in vita mia. Controlli negli archivi: non troverà una sola intervista al riguardo. Non mi schiero. Non milito. Faccio un altro mestiere (...) Non sono mai stato comunista, né socialista. Sono cattolico, nella Prima Repubblica votavo democristiano. Del resto, Gesù per me è stato il primo comunista. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati. Ho ammirato De Gasperi. Ho condiviso il progetto di Moro di aggregare al centro le forze popolari. Avevo un’alta concezione di Craxi. E ho sempre stimato Andreotti: sono stato felice che sia stato assolto, e che abbia sempre rispettato i magistrati, a differenza di altri (...) Della politica di oggi non mi piacciono gli insulti ai senatori a vita, e le calunnie contro Prodi». Eletto nella Costituente del Partito democratico: «A mia insaputa» (ad Aldo Cazzullo).
• Fu designato da Francesco Rutelli come membro del Consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma in rappresentanza del ministero. Venne sostituito da Bruno Vespa a dicembre del 2008: «Nel maggio 2007 il ministro Francesco Rutelli firmò il mio decreto di nomina quando mi trovavo all’estero. Mi sembrava scorretto sottrarmi. Andai alla prima seduta del Consiglio e dissi: “Guardate, io ho una mia professione, non posso occuparmi di tutto questo, non verrò mai più”. Lasciai anche prima della fine della seduta e informai della mia scelta il sindaco Walter Veltroni. E davvero non tornai mai più. Nessuno ebbe da ridire».
• «Una domanda a Beppe Grillo: “Perché non dire le stesse cose, ma senza urlare?”. Aveva dimenticato di chiederglielo quella sera a Modena per l’anniversario di Pavarotti, quando lo hanno immortalato accanto all’ex comico (…). “Uno scatto con nessuna valenza politica ma di simpatia – ci tiene a precisare –. Mi faceva ridere quando faceva il comico mentre oggi ha intrapreso un’altra strada”» (a Simone Pieranni).
• «Il mio sogno è sempre stato reinterpretare l’inno di Mameli. L’ho realizzato per Cefalonia, il film per la tv: una versione più lenta, solenne. Ma quando diressi al Quirinale il cerimoniale mi bloccò».
• Musica «Cinema e musica hanno una qualità identica che è la temporalità: se vogliamo dare un parere su un film dobbiamo aspettare che finisca e lo stesso vale per la musica, che sia di Beethoven o di Mozart. Questo vuol dire che la durata dell’evento sonoro applicato al film deve essere della stessa qualità temporale di quest’ultimo. Se un regista chiede un pezzo di 20 secondi, si può essere certi che non funzionerà».
• «È importante il silenzio nella musica? “È la sua parte più segreta e intima. Qualche tempo fa Riccardo Muti ha eseguito a Chicago una musica che scrissi nel ricordo della tragedia delle Twin Towers e che ho chiamato, non a caso, Voci dal silenzio. C’è un istante, dopo un grave trauma, in cui tutto si ferma. Tutto tace. È in quel momento che il suono manifesta la sua forza. Viviamo in una società del rumore che ha sconfitto il silenzio”» (ad Antonio Gnoli).
• «Non condannerei il rumore. È una risorsa per la musica. I rumori non sono difetti, non sono errori (…). Sono una fonte di ispirazione, perfino sgradevoli ma di brutale bellezza, densi di esperienza e di vita. Nei western di Sergio misi anche colpi di frusta, di martello, di campane. E poi la voce umana, ma usata come uno strumento. Voce che canta, che fischia, che si schiarisce la gola, che schiocca la lingua… In una partitura dedicata all’inverno misi perfino dei colpi di tosse».
• «Suono il pianoforte piuttosto male, ma ho sempre pensato che se il regista lo accetta così, quando lo avrò strumentato, con le suggestioni timbriche e l’orchestrazione gli piacerà ancora di più. Purtroppo con il regista si tratta di intendersi sempre e solo sul discorso tematico, trascurando quello che c’è attorno alla melodia, che secondo me è molto più importante».
• «Ascoltavo Bach, ma ora non più perché c’è una convergenza tra sperimentazioni per il cinema e altre che seguo per le mie composizioni libere. La musica del cinema non è solo musica sinfonica, è musica del nostro tempo. Il compositore si rivolge a una platea vasta e deve tenere conto di tutto quello che succede in musica. Bisogna avere le carte in regola per scrivere una sinfonia, ma se serve una canzone da cantautore io la scrivo. In Uccellacci e uccellini, Pasolini mi disse: “Vorrei una musica per accompagnare i titoli, cantati da Modugno”, e allora ho scritto una filastrocca».
• Vizi. Ha investito tutto quello che ha guadagnato in un grande appartamento vicino all’Ara Coeli, in Roma, con le finestre che si affacciano sul Campidoglio. Mille metri quadri coperti: ogni mattina fa footing facendo il giro completo di tutte le stanze.
• Appassionato di scacchi, ogni tanto gioca contro qualche campione, in simultanea o no.
• Tifoso della Roma: «Allo stadio ora non vado da tanto, devo dire la verità, mi piace stare a casa. Ho questo schermo grandissimo in cui vedo la testa di Totti enorme. Quando andavamo allo stadio con Sergio Leone ricordo sempre il delirio, il parcheggio, l’entusiasmo della folla ma anche le file. Quanto alla mia prima volta allo stadio, ho un ricordo nitido. Andai a Campo Testaccio con mio padre, ero piccolo. Avevamo un posto in piedi dietro alla porta» (da un’intervista sul sito ufficiale della Roma).
E' morto Ennio Morricone. Il compositore premio Oscar aveva 91 anni. Una lunghissima carriera di musica per il cinema con alcune collaborazione che hanno fatto la storia come quella con Sergio Leone e Giuseppe Tornatore. La Repubblica il 06 luglio 2020. E' morto nella notte in una clinica romana per le conseguenze di una caduta il premio Oscar Ennio Morricone. Il grande musicista e compositore, autore delle colonne sonore più belle del cinema italiano e mondiale da Per un pugno di dollari a Mission a C'era una volta in America da Nuovo cinema Paradiso a Malena, aveva 91 anni. Qualche giorno fa si era rotto il femore. I funerali di Ennio Morricone si terranno in forma privata "nel rispetto del sentimento di umiltà che ha sempre ispirato gli atti della sua esistenza". Lo annuncia la famiglia del premio Oscar attraverso l'amico e legale Giorgio Assumma. Morricone, si legge nella nota, si è spento "all'alba del 6 luglio in Roma con il conforto della fede". Assumma aggiunge che il maestro "ha conservato sino all'ultimo piena lucidità e grande dignità. ha salutato l'amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli è stato accanto fino all'estremo respiro ha ringraziato i figli e i nipoti per l'amore e la cura che gli hanno donato. ha dedicato un commosso ricordo al suo pubblico dal cui affettuoso sostegno ha sempre tratto la forza della propria creatività". L'Oscar alla carriera a 79 anni è stato il compimento di un lunghissimo percorso fatto di musica pensata, concepita e creata soprattutto per il cinema. In onore dello strumento che da giovane aveva studiato, la tromba, Ennio Morricone scrisse uno dei brani più suggestivi della colonna sonora di Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964). All'epoca usò lo pseudonimo di Dan Savio, ma dopo questo western all'italiana si avviò a diventare (con il suo vero nome) uno dei più prestigiosi compositori di musica da film del mondo. Nato a Roma il 10 novembre 1928, si era diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia in tromba, composizione, strumentazione, direzione di banda e musica corale. Maestro d'orchestra, componente del gruppo sperimentale Nuova Consonanza, debuttò nel cinema con il film di Luciano Salce Il federale (1961), mentre stava per imporsi come arrangiatore delle più famose canzoni italiane dei primi anni '60 (suoi gli arrangiamenti di tutti i successi di Gianni Morandi o quello dell'evergreen di Mina Se telefonando). In seguito continuò ad accompagnare le imprese polverose dei pistoleri di Sergio Leone e Duccio Tessari, ma seguì pure quelle dei protagonisti de I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965), i sanguinosi scontri de La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966) o il vagabondare di Totò in Uccellacci e uccellini (Pier Paolo Pasolini, 1966), dimostrandosi autore di grande talento, versatile e d'avanguardia. Tra le sue innovazioni più riconoscibili c'è l'uso della voce umana. Una voce di donna (quella di Edda Dell'Orso) che accoglie l'arrivo alla stazione di Claudia Cardinale in C'era una volta il West (Sergio Leone, 1968), incalzante in Metti una sera a cena (Giuseppe Patroni Griffi, 1969), sospesa vicino all'amore impossibile tra Noodles e Deborah (C'era una volta in America, 1984), la stessa che accompagna le gesta di Bugsy (Barry Levinson, 1991). Anche se forma con Sergio Leone un fortunato sodalizio artistico, come quello fra Bernard Herrmann e Hitchcock, Nino Rota e Fellini, nel corso della sua carriera scrive musica per molti e importanti registi stranieri. Dopo quasi trent'anni "lavora" ancora su Clint Eastwood (Nel centro del mirino, Wolfang Peterson, 1993), dopo aver ricevuto due nominations all'Oscar per Mission (Roland Joffe, 1986) e Gli intoccabili (Brian De Palma, 1989). Sempre attento a preservare la sua dignità di compositore, sa bene che scrivere musica da film comporta a volte qualche compromesso. Quando si limita ad essere "solo" un arrangiatore non esita ad imprimere il suo marchio, come dimostra la suggestiva elaborazione di un classico, Amapola (C'era una volta in America). Nonostante debba sempre tener conto dei gusti del pubblico e dei registi si ritiene comunque un artista libero e soddisfatto, convinto che le sue composizioni (a differenza di quelle di molti altri autori di colonne sonore) vivono e risplendono di luce propria. Dopo tanto inseguirsi l'incontro con Quentin Tarantino per The hateful Eight. Ha continuato a scrivere per il cinema e a dirigere fino a pochi mesi fa.
È morto Ennio Morricone: il maestro aveva 91 anni. Notizie.it il 06/07/2020. Aveva 91 anni: è morto Ennio Morricone, celebre compositore italiano. Ennio Morricone è morto a 91 anni: grave lutto per il mondo della musica e dello spettacolo italiano. Si è spento il grandissimo compositore di colonne sonore vincitore di Premi Oscar. È deceduto a causa delle conseguenze di una grave caduta. Si è spento in una clinica romana. La notizia lascia un velo di grande tristezza nel mondo dello spettacolo e della cultura. Tantissimi i messaggi di cordoglio rilanciati su Twitter da personalità dello spettacolo e non solo. Ennio Morricone è stata colonna portante della creatività italiana per oltre cinquant’anni di carriera. La sua fama è esplosa grazie al sodalizio artistico con Sergio Leone, padre del genere cinematografico “Spaghetti Western”, ed è proseguita con grandi collaborazioni: da Bertolucci a Carpenter.
Morricone ha ricevuto due premi Oscar, uno nel 2007 e uno nel 2016. Tra gli altri premi vinti Ennio Morricone ricevette nel 2010 a Taormina la corona d’alloro honoris causa Europclub Regione Siciliana, consegnata dal Segretario Generale di Noi in Europa Europclub Avv. Enzo Ocera. Nel 2012 gli fu conferito a Roma il prestigioso Premio Aquila D’Oro, per la sezione “Musica”, con la seguente motivazione: “Per aver saputo coniugare e diffondere due particolari linguaggi, quello della musica e quello del cinema, facendoli fondere e vivere nella loro completezza, primeggiando come artista in maniera assoluta a livello mondiale, portando così il nome dell’Italia a levature culturali uniche ed inarrivabili”.
Il discorso agli Oscar 2007. Nel 2007 gli venne consegnato il premio Oscar per la carriera. Lui ringraziò così l’Academy: “Voglio ringraziare l’accademia per questo onore che mi ha fatto dandomi questo ambito premio, però voglio ringraziare anche tutti quelli che hanno voluto questo premio per me fortemente, e hanno sentito profondamente di concedermelo. Veramente; voglio ringraziare anche i miei registi, i registi che mi hanno chiamato con la loro fiducia, a scrivere musica nei loro film, veramente non sarei qui se non per loro”. “Il mio pensiero va anche a tutti gli artisti che hanno meritato questo premio e che non lo hanno avuto. Io gli auguro di averlo in un prossimo vicino futuro. Credo che questo premio sia per me, non un punto di arrivo ma un punto di partenza per migliorarmi al servizio del cinema e al servizio anche della mia personale estetica sulla musica applicata. Dedico questo Oscar a mia moglie Maria che mi ama moltissimo […] e io la amo alla stessa maniera e questo premio è anche per lei”.
Ennio Morricone è morto. Ennio Morricone, una vita dedicata alla musica. Ennio Morricone, il più grande compositore e arrangiatore dei nostri tempi, divenuto famoso per aver scritto le musiche dei film di maggior successo, è morto oggi all'età di 91 anni. Francesco Curridori, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. Due premi Oscar, sei BAFTA, quattro Golden Globes e tre Grammy Awards sono solo alcuni dei premi vinti da Ennio Morricone, il più grande compositore dei nostri giorni di cui oggi il mondo del cinema e della cultura piange la scomparsa. Ennio nasce a Roma nel 1928 dal trombettista Mario Morricone e da Libera Ridolfi, proprietaria di una piccola industria tessile. “Quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. Mio padre suonava la tromba. Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane”, racconterà Morricone ripercorrendo la sua infanzia. La mattina studiava al Conservatorio di Santa Cecilia, mentre la sera suonava la tromba in un locale di via Crispi prima per gli ufficiali tedeschi e, poi, per i liberatori americani.
Gli anni d'oro della sua carriera: dalla Rai a Sergio Leone. Dal 1946 a oggi ha composto più di 100 brani classici, ma ha ottenuto la fama mondiale come compositore di musiche di oltre 500 tra film e serie tivù. Più di 60 di queste pellicole sono state impreziosite dal riconoscimento di vari premi. È nel ’46 che si diploma come trombettista mentre nel ’54 consegue il diploma in Composizione al Conservatorio, guidato dal maestro Goffredo Petrassi. Inizia la sua carriera con gli arrangiamenti musicali alla radio e nel 1958 entra in Rai come assistente musicale ma si dimette dopo il primo giorno di lavoro, non appena scopre che le musiche da lui composte non saranno trasmesse. A metà degli anni ’50, però, lavora come arrangiatore per la RAI e la RCA-Italia finché nel 1961 arriva la svolta per la sua carriera quando Luciano Salce lo chiama per musicare Il federale. “Il regista mi fece vedere il filmato e lo musicai. Quell’esperienza andò bene e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi”, rivela. Da lì in poi inizia la collaborazione con Sergio Leone, suo ex compagno di classe: “Appena entrato la prima volta a casa mia – era il 1963 – glielo dissi. Non ci credeva. Allora gli mostrai la foto della terza elementare. C’eravamo tutti e due. Nacque subito un feeling”. Per Leone scrive le musiche dei suoi film più importanti: Per un pugno di dollari (1964) Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto e il cattivo (1966), C’era una volta il The West (1968) Giù la testa (1971).
La vittoria dei due premi Oscar. Morricone, negli anni ’60, fa anche l’arrangiatore per cantanti di successo come Edoardo Vianello (Pinne fucile ed occhiali/Guarda come dondolo), Gino Paoli (Sapore di sale) e Mina (Se telefonando). Nel 1965 Morricone entra a far parte del gruppo d’improvvisazione “Nuova Consonanza”, fondato da Franco Evangelisti e con cui Morricone registra vari album fino al 1980. Collabora anche con registi del calibro di Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Brian De Palma, Roman Polanski, Warren Beatty, Oliver Stone, Pedro Almodovar. Nel corso della sua 50ennale carriera, Morricone ha vinto innumerevoli premi tra cui, nel 2007, l’Oscar alla carriera che gli è stato consegnato da Clint Eastwood, il quale ammise: “Io certamente non sarei qui se ogni apparizione del mio Gringo nei western di Sergio Leone non fosse stata accompagnata dalle sue note suggestive”. Un secondo Oscar è arrivato nel 2016 con The Hateful Eight, western di Quentin Tarantino per il quale riceve anche un BAFTA e un Golden Globe. Di lui il regista americano di origini italiane disse: “Morricone è il mio compositore preferito, e quando parlo di compositore non intendo quel ghetto che è la musica per il cinema, ma sto parlando di Mozart, di Beethoven, di Schubert”. Morricone, invece ha dedicato entrambi i suoi premi Oscar alla moglie Maria Travia, sposata nel 1956.“Mentre io componevo lei si sacrificava per la famiglia e i nostri figli. Per cinquant’anni ci siamo visti pochissimo: o ero con l’orchestra o stavo chiuso nel mio studio a comporre. Nessuno poteva entrare in quella stanza tranne lei: il suo unico privilegio”, disse.
Gli anni 2000 di Ennio Morricone. Nel 2007 dirige per la prima volta un concerto in America, nella sala dell’Assemblea generale dell’Onu, mentre nel 2011 apre il concerto del primo maggio con una sua composizione, Elegia per l’Italia, ispirata al Va pensiero di Verdi e all’inno di Mameli. Nel 2015 ha diretto una messa dedicata a Papa Francesco e celebrata per commemorare i 200 anni dell’Ordine dei Gesuiti. Nel 2016 gli è stata concessa anche la stella nella celebre Hollywood Walk of Fame e, nel mezzo, ha vinto anche 10 David di Donatello, 11 Nastri d'Argento, 2 European Film Awards, un Leone d'Oro alla carriera e un Polar Music Prize. Nel 2009 il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, lo nomina Cavaliere nell’ordine della Legione d’Onore, mentre nel 2017 riceve l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, la massima onorificenza italiana. Nel campo della registrazione, Morricone ha venduto più di 70 milioni di dischi e ricevuto 27 dischi d'oro, sette dischi di platino e tre Golden Plates. Appassionato di scacchi, tifosissimo della Roma, si è concesso un unico vero grande lusso: un appartamento di mille metri quadri, vicino all’Ara Coeli con affaccio sul Campidoglio. Ma politicamente si è sempre schierato dalla parte della Dc prima e del centrosinistra poi: “Non sono mai stato comunista, né socialista. Sono cattolico, nella Prima Repubblica votavo democristiano. Del resto, Gesù per me è stato il primo comunista. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati”.
Già celebrati i funerali in forma privata. Il mondo piange Ennio Morricone, autorità e media internazionali omaggiano il genio. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2020. Si è spento a 91 anni. “All’alba del 6 luglio in Roma con il conforto della fede” con “piena lucidità e grande dignità”. Qualche giorno fa il maestro si era rotto il femore. Una notizia che ha sconvolto tutto il mondo, non solo il mondo della musica o dell’arte. Le musiche di Ennio Morricone, presenti in grandi film di grandi registi – da Per un pugno di dollari a Mission a C’era una volta in America da Nuovo cinema Paradiso a Malena – sono state protagoniste e non soltanto sottofondo o accompagnamento di grandi capolavori. I funerali privati del compositore si sono già tenuti, presenti i soli familiari, l’amico e legale Giorgio Assumma e il regista Giuseppe Tornatore. Nelle prossime ore la sepoltura a Roma. Era stata propria una nota divulgata da Assumma a informare del desiderio del compositore di avere esequie private “nel rispetto del sentimento di umiltà che ha sempre ispirato gli atti della sua esistenza“. Il cordoglio per la scomparsa di questo artista unico è stato espresso in ogni mondo. Da addetti ai lavori, autorità, appassionati. “La scomparsa di Ennio Morricone ci priva di un artista insigne e geniale” ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Musicista insieme raffinato e popolare, ha lasciato un’impronta profonda nella storia musicale del secondo Novecento. Attraverso le sue colonne sonore ha contribuito grandemente a diffondere e rafforzare il prestigio dell’Italia nel mondo. Desidero far giungere alla famiglia del Maestro il mio profondo cordoglio e sentimenti di affettuosa vicinanza”. “Ricorderemo sempre, con infinita riconoscenza, il genio artistico del Maestro Ennio Morricone. Ci ha fatto sognare, emozionare, riflettere, scrivendo note memorabili che rimarranno indelebili nella storia della musica e del cinema“. Ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La sindaca di Roma Virginia Raggi intanto avanza la proposta di intitolare l’Auditorium Parco della Musica a Roma. Parole di celebrazione e omaggio anche da parte di tutta la stampa internazionale. La Cnn ricorda Morricone come il compositore “conosciuto a livello internazionale per le melodie inconfondibili dei film Il buono, il brutto e il cattivo e C’era una volta il West‘”. Per il New York Times è morto “uno dei creatori di musica per il cinema moderno più versatili e influenti del mondo” oltre che “un talento unico, che ha creato l’accompagnamento melodico a commedie, thriller e dramma storici di registi come Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Malick, Roland Joffé, Brian De Palma, Barry Levinson, Mike Nichols, John Carpenter e Quentin Tarantino“. Il britannico Daily Mail ricorda le colonne sonore che “lo hanno reso uno dei compositori per il grande schermo più famoso e prolifico del mondo”. “Il suo lavoro ha contribuito a definire il western, ma si è poi cimentato in tutti i generi cinematografici“, sottolinea il Guardian in home page. “Fedele collaboratore di Sergio Leone” è come lo ricorda il francese Le Figaro, che definisce “epiche” le composizioni del Maestro. Per El Pais si trattava di “uno dei migliore musicisti della storia del cinema”, per El Mundo “un grande innovatore delle colonne sonore”. La notizia è tra le breaking news anche sul sito delle principali agenzie di stampa in Russia – Ria Novosti, Tass e Interfax – come pure sul sito della testata di Hong Kong South China Morning Post.
"Vi racconto mio padre Ennio: un fuoriclasse". "Vi racconto mio padre Ennio: un fuoriclasse". Il figlio del premio Oscar: "Che decisione difficile fare il musicista come lui". Paolo Giordano, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Intanto parla tale e quale suo padre: frasi brevi, secche, interruzioni improvvise, qualche fuga nel romanesco. Da ragazzo Andrea Morricone ha preso la decisione più difficile di tutte: dirigere orchestre e comporre colonne sonore pur essendo figlio di Ennio, ossia di una leggenda da due Oscar che ha scritto la storia del cinema. «La differenza con lui è soprattutto nel fatto che io ho scritto 40 colonne sonore, papà più di quattrocento» sorride lui, 55 anni, educatissimo e molto riservato. Stasera sarà a Imaginaction, il Festival internazionale del videoclip di Forlì che ha un cast alto e trasversale, da Checco Zalone a Bennato, da J-Ax a Luis Fonsi in quello che da anni è uno degli eventi più attesi dell'estate. E ci sarà con Franco Simone, cantautore che l'Italia ha spesso trascurato ma che in Sudamerica ha grandissima popolarità. Che coppia, ebbene sì, questa è una vera sorpresa. Sul palco di quella sorta di drive-in a cielo aperto allestita all'aeroporto di Forlì loro due parleranno di musica presentando (anche) un progetto inedito e inatteso: le loro canzoni. E chi l'avrebbe detto.
Scusi, Andrea Morricone, come vi è venuta questa idea?
«Ci conosciamo da qualche anno e sono stato anche ospite di una sua trasmissione. È un incontro di due sensibilità totalmente distinte ma non distanti».
Quindi c'è un disco alle porte?
«Siamo in pieno work-in-progress. Io ho scritto le musiche, lui i testi, che sono belli e lui li interpreta da vero maestro. È una voce di grande qualità che accarezza le mie note. Diciamo che potremmo definirlo un incontro tra classicità e innovazione».
Ma quando esce?
«Entro qualche mese, probabilmente entro l'anno. Al momento sono nove o dieci brani già quasi pronti, dei quali qualcuno è meno belcantistico e calato in contesti più ritmici».
Lei ha composto colonne sonore (ad esempio quella premiatissima per L'industriale di Giuliano Montaldo). Adesso l'approdo alla canzone pop.
«Sin dai tempi di Nuovo Cinema Paradiso, la colonna sonora per il film di Tornatore che ho seguito con mio papà, in tanti dicono che io abbia un bel talento per scrivere melodie. Adesso forse ho trovato l'equilibrio giusto con Franco Simone, che ha una voce molto dolce ed emozionante ed è pure favoloso come interprete e liricista. Spero di avere composto per lui quelli che mi piacerebbe fossero temi memorabili per voce».
Andrea Morricone, che cosa disse papà Ennio quando gli comunicò che avrebbe fatto il musicista?
«Non era d'accordo, naturalmente. Ma non si è opposto. Mi disse un in bocca al lupo che voleva dire tante cose».
Oggi come giudica la sua decisione?
«Direi che ho preso una decisione coraggiosa».
Ennio Morricone è mancato il 6 luglio.
«Nell'ultimo periodo, a causa del lockdown, avevamo trascorso molto più tempo insieme. Ha avuto complicanze legate alla frattura del femore e ci siamo parlati l'ultima volta il giorno prima. Eravamo molto uniti, mia mamma, i miei fratelli io e lui, e sono sicuro che abbia sentito la nostra felicità e la nostra sintonia fino alla fine. Ha affrontato con coraggio e unicità anche gli ultimi momenti. L'ha fatto da fuoriclasse qual era. Ecco la vera definizione di papà: era un fuoriclasse».
Il mondo lo ha pianto con una dimostrazione di affetto globale.
«Abbiamo ricevuto manifestazioni d'affetto da tutti, dalle star e dalle persone qualsiasi».
Anche da Clint Eastwood, che è rimasto molto silenzioso?
«Anche da lui».
Nell'ultima intervista al Giornale, l'anno scorso, Ennio Morricone si lamentava ancora del proprio «gesto» da direttore d'orchestra. A novant'anni!
«Questo conferma quanto fosse grande. Lui mi diceva sempre che il direttore non se deve move troppo e mi insegnava sempre il gesto piccolo. Spesso ci confrontavamo su argomenti musicali, sulle composizioni, su come dirigere un'orchestra».
La sua lezione massima?
«Era convinto che fosse fondamentale la cosiddetta orchestrazione dell'unisono».
Non proprio una cosa semplicissima.
«Ricordo che, quando ero ragazzo, lui scriveva appunti sui fogli di pentagramma. Li ho conservati. Per me sono tesori che non dimenticherò mai».
«SAPEVA TRASFORMARE UN BUON FILM IN UN’OPERA D’ARTE»: GLI ARTISTI INTERNAZIONALI RICORDANO MORRICONE. Da rollingstone.it il 6 luglio 2020. «Una carriera leggendaria e composizioni senza tempo. Grazie per avere fornito l’atmosfera a molti nostri concerti fin dal 1983». Così i Metallica ricordano su Instagram Ennio Morricone, morto la notte scorsa a 91 anni. La band californiana, infatti, usava le musiche del compositore italiano come introduzione agli show. Ma i Metallica non sono gli unici artisti internazionali ad aver ricordato Morricone. Ecco gli altri.
«Addio Ennio – geniale compositore», hanno scritto in italiano i Massive Attack.
Per Geoff Barrow dei Portishead è morto «il più grande compositore per il cinema di sempre».
Il regista inglese Asif Kapadia (Senna, Amy, Diego Maradona) ricorda l’impatto della sua musica sui suoi figli, durante il lockdown.
Chance The Rapper ha postato un “RIP” seguito dal link di The Crisis, dalla colonna sonora del film di Tornatore La leggenda del pianista sull’oceano.
Anche Justin Vernon (Bon Iver) sceglie The Crisis per ricordare Morricone. «Pochi hanno avuto un impatto sul mondo della musica paragonabile a quello di Ennio Morricone».
El-P dei Run The Jewels ringrazia il compositore.
Little Steven, musicista, attore e tra le altre cose chitarrista di Bruce Springsteen e compositore di colonne sonore, lo ricorda come «uno dei maggiori compositori di tutti i tempi».
Il grande compositore Philip Glass si è invece limitato a postare una foto di Morricone, con le date di nascita e di morte.
I Goldfrapp riconoscono l’influenza del compositore e linkano una playlist di suoi pezzi preferiti chiamata Morricone Amore.
Anche Steven Drozd dei Flaming Lips ne riconosce l’importanza.
Il regista Edgar Wright loda la capacità di Morricone di «trasformare una pellicola così così in un film da vedere, un buon film in un’opera d’arte e un grande film in leggenda».
Bernard Sumner dei New Order scrive di avere appreso «con grande tristezza della morte di uno dei miei eroi musicali, Ennio Morricone. È suo il primo album che ho comprato in vita mia. Ha fatto una musica meravigliosamente emozionante, era un maestro della melodia».
Anche il musicista francese Jean Michel Jarre ne loda fra le altre cose il talento melodico.
«La sua musica continuerà a suonare nei nostri ricordi», scrive Antonio Banderas.
Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 6 luglio 2020. “Ennio? Con lui se ne va un grande amico, un grandissimo professionista. Era un genio della melodia e dell’improvvisazione”. È mattino presto. A telefono con l’HuffPost, Dario Argento si scusa per la sua voce bassa. “Ho saputo da poco della sua morte, sono affranto. Iniziammo a lavorare insieme per il mio primo film, L’uccello dalle piume di cristallo, un film – aggiunge il regista, maestro dell’horror italiano – che uscì nel 1969, ma al quale, ovviamente, iniziammo a lavorarci da molto prima. A presentarmelo fu mio padre Salvatore, che fu anche produttore dei miei film. Con Ennio e la mia famiglia abitavamo in due villette vicine a Santa Lucia di Mentana, per questo era molto facile vedersi e noi lo facevamo spesso”.
Quando lo incontrò per la prima volta?
“Il nostro fu un incontro che avvenne dentro casa. Morricone era già Morricone e con Nino Rota era già uno dei più importanti e richiesti compositori italiani di musica per il cinema, anche perché, grazie alle colonne sonore dei film western di Sergio Leone, aveva già conquistato il grande pubblico”.
Cosa le disse?
“Che dovevo pensare a fare il mio primo film. Al resto, cioè alla musica, mi disse che ci avrebbe pensato lui. E così fu”.
Nel libro “Ennio un maestro”, uscito lo scorso anno per HarperCollins, Morricone spiega a Giuseppe Tornatore che lo intervista, che proprio con lei, con Bellocchio e Petri incontrò delle difficoltà: perché?
“Perché Ennio creò una musica molto moderna per l’epoca, una musica a cui uno mio padre, e non solo lui, non era abituato. La sua era una musica contemporanea, una musica in cui finivano con l’intrecciarsi libertà cromatica con l’uso di timbri particolari”.
Fu proprio lui a spiegare in quel libro che decise di addolcire volontariamente i film di Dario Argento – lo citiamo - “opere con tanto sangue, tanti delitti e tanti crimini” con temi infantili, “come se le deviazioni malate dei protagonisti provenissero da carenze primordiali”.
“Sì, andò proprio così. La sua era una musica dell’improvvisazione. Per quel mio primo film, come le dicevo, la musica che compose si rivelò invece molto interessante. La improvvisarono in sala. Era un sestetto: lui suonava la tromba, ma non c’era spartito, non c’era nulla. Solo lui e i musicisti. Fu un’esperienza indimenticabile per loro e per me, una musica che dopo influenzò molte persone, molti registi, ad esempio Tarantino. Il risultato fu una musica dall’atmosfera sognante e astratta, carica di tensione e angoscia e con forti influenze dal free-jazz”.
Quanti film avete fatto insieme?
“In totale sono stati cinque. Sono davvero tanti. “Il gatto a nove code ”si apre con la Ninna nanna in blu, un brano di grande impatto emotivo, mentre "Quattro mosche di velluto grigio" ha i titoli di testa che si aprono con una band che esegue un brano rock”.
È vero che per quest’ultimo film lo preferì ai Deep Purple?
“Sì, perché con quella rock band ci furono dei problemi, era già impegnata in un tour. In ogni caso, Ennio scrisse subito un nuovo pezzo, un brano piacevole, dimostrando ancora una volta la sua genialità e alla fine, a suo modo, era più rock di loro”.
Ore, giorni e mesi quasi sempre insieme: qualche lite? Morricone aveva un carattere, come si dice, ‘fumantino’ e le cose non le mandava certo a dire. È successo anche con lei?
“Sì, è vero, aveva un carattere "fumantino" come dice lei, ma con me era invece molto dolce, eravamo molto amici, molto legati. Io in particolar modo alla sua famiglia, a sua moglie e ai figli. Ogni tanto diceva la sua, ma poi gli bastava poco per calmarsi. Più che liti, direi, dei piccoli screzi, ma è normale che possano avvenire quando si lavora tanto tempo insieme e quando si ha un confronto. Quando preparava una musica per un mio film, ci incontravamo a casa sua, prima a Mentana e poi nella sua nuova casa a piazza Ara Coeli. Mi faceva entrare e poi si metteva al piano raccontandomi quello che aveva in mente. Quello che voleva era una partecipazione del regista alle musiche che in quel momento stava creando. Non voleva semplicemente che io le ascoltassi, ma voleva che dicessi la mia, che parlassi, che partecipassi a mio modo che non era poi così semplice da fare, soprattutto con uno come lui. Non voleva solo inventare la musica, ma cercava sempre un dialogo tra noi. L’ho sempre trovata una cosa meravigliosa”.
Com’era Morricone visto da Dario Argento?
“Ennio è stato il più grande compositore di colonne sonore che sia mai esistito. Un uomo di carattere e con una grande forza di volontà. A colpire era la sua inventiva, ma soprattutto la sua freschezza di immaginazione che lo rendeva fantastico. Era una persona stupenda ed eccezionale. Mi mancherà molto. A colmare questa grande assenza ci penserà la sua musica che amava e che ci faceva amare, il suo regalo più grande”.
Da wondernetmag.com il 7 luglio 2020. Da questa mattina, quando è stata resa nota la notizia del decesso del musicista premio Oscar e autore delle più belle colonne sonore della storia del cinema, molti musicisti, cantanti e personaggi televisivi gli stanno rendendo omaggio dai loro profili social. Alcuni gli dedicano una frase, altri un pensiero. Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo personalmente, condivide il ricordo che ha di lui. Renato Zero ha scritto per Ennio Morricone una poesia in romanesco, che ha pubblicato sulla sua pagina Facebook. L’artista si è firmato “l’alunno” del Maestro.
La poesia al Maestro Ennio Morricone dall’”alunno” e amico Renato Zero:
Ennio che nun sei artro.
Che artro qui nun ce serve…
Pe dì che abbasti ar monno.
Che tu servi alla gente.
Je smovi l’interiora.
Je scombussoli er core.
Li fai senti importanti.
Je scateni l’amore…
Ennio che nun s’arresta
Ch’è ‘n fiume sempre in piena.
So partiture scritte
da un’anima assai pura
Tu fijo de na Roma
che soffre ma non trema
Spavalda e compagnona
tra un vaffa e ‘na preghiera.
Ennio che nun te pieghi
Che non te fai fregà
Perché hai avuto in dote
er genio e la sincerità!
Al Maestro Ennio Morricone, dall’alunno e amico Renato Zero.
Verdone ricorda il Maestro Morricone: "Quando Leone mi trascinò nel suo studio: Devi debuttà al massimo". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Arianna Finos. "Ho conosciuto Ennio Morricone attraverso le musiche della Trilogia del dollaro di Sergio Leone. Pensai che erano due anime che non si dovevano dividere, Ennio era il colore dei film di Sergio e le atmosfere dei suoi film erano ideali per la musica di Ennio, insieme hanno raggiunto la grandezza". Carlo Verdone racconta il Maestro Morricone, morto all'età di 91 anni. "Le melodie, gli arrangiamenti, un senso della composizione sopraffino erano le qualità di Morricone, che veniva da un gruppo di estrema avanguardia, Nuova consonanza, aveva studiato con Goffredo Petrassi, quella musica per intenditori, complessa. Quella preparazione l’ha aiutato a diventare un compositore speciale, eclettico, capace di spaziare dall’avanguardia agli arrangiamenti dei dischi di Mina e della musica leggera. Il suo talento è esploso poi con Leone: inventa delle cose che sono davvero un azzardo creativo incredibile, dallo scacciapensieri sardo “uauauaua” al fischio, e poi eccolo anche il grande compositore con la grande orchestra".
Il suo primo incontro con Morricone?
"Io e Leone avevamo appena finito si scrivere Un sacco bello. Avevamo scelto tutta la troupe, io dico "bene, abbiamo tutti, siamo al completo". Sergio dice "no, ne manca uno". "Chi?". Urla: "Il compositore?". Restiamo qualche minuto in silenzio e poi mi dice "accompagname, annamo dal compositore". Io non capisco ma lo seguo. Lui non mi dice dove andiamo, è una casa a poca distanza dalla sua, prima di entrare mi dice ti dico solo la sua denuncia dei redditi, cita un numero incredibile, era più ricco di lui. Si apre la porta e vedo Morricone, mi prende un accidente: 'Davvero hai pensato a lui per Un sacco bello?' 'E certo, io te devo fa debuttà al massimo'. Sono entrato subito in sintonia con Ennio, che volle leggere il copione. Ma non capiva bene i personaggi, io glieli feci e lui mi disse 'c'è molta poesia', infatti compose temi anche molto malinconici, la solitudine dell'estate a Roma Questo era Morricone, con il suo timbro personalissimo entrava perfettamente nell’anima del film e dell’autore. Per me fu un grandissimo regalo, che replicò con Bianco, Rosso e Verdone".
La sua preferita?
"Il tema del cimiterino di Mimmo e la nonna di Bianco, Rosso e Verdone, il tema dell’emigrante, il fischio di solitudine finale di Un sacco bello poi è un gioiello".
Come si lavorava con lui?
"Ennio viveva in un mondo tutto suo, partecipava ai discorsi ma sentivi che la sua mente già andava nella sua stanza creativa. Ogni tanto si estraniava e capivi che cercava qualcosa per il suo lavoro. La prima volta mi chiamò a casa sua per farmi sentire il tema di Un sacco bello, si mise a suonare con una mano, io non capivo nulla, mi sembrava leggermente stonato. Quando andai alla Trafalgar Recording Studios ad ascoltare la registrazione con l'orchestra mi apparve una cosa completamente diversa, mi vennero i brividi e capii che aveva fatto un piccolo capolavoro, quelle musiche aiutarono il film in modo pazzesco".
Siete rimasti amici?
"Sì, ogni tanto mi diceva facciamo un film insieme ma io dicevo che costava tanto, 'quando ti nomino i produttori tremano', e lui diceva 'ma per te lo faccio anche a poco'. E infatti avevamo deciso di lavorare ancora insieme, ora non potremo più. È un grande dolore. È stato uno dei romani più importanti nella storia della nostra città dal punto di vista artistico, un musicista completo che ci ha regalato colonne sonore immortali, solenne e ironiche, sono un orgoglio per il nostro Paese nel mondo, non a caso lo hanno amato e scelto tanti autori internazionali, da De Palma a Joffé a Tarantino".
Il ricordo che custodisce?
"Alla fine della proiezione finale di Bianco, Rosso e Verdone mi diede il 45 giri, che non era ancora in commercio e mi scrisse una dedica bellissima in cui mi augurava i successo e mi diceva che era stato orgoglioso di aver lavorato con me, la custodisco come una cosa di grande valore, perché l’ho stimato tanto".
Quando vi eravate visti l'ultima volta?
"Un anno fa. Era un uomo che viveva in un mondo a parte. Parlammo a lungo di Roma, mi disse che era sempre bella, 'ma tu stai sempre a casa, ci sono tanti problemi', lui diceva 'io ormai la vedo solo dall’alto e mi sembra sempre bellissima'. Era affettuoso, ma anche riservato e capace di dire basta quando lo cercavano con troppa insistenza o lo volevano trascinare ad eventi. Abbiamo passato una settimana bellissima pieno di aneddoti molto spiritosi. Mi raccontò di quando, appena uscito Per un pugno di dollari, lui e Leone andavano davanti al cinema a vedere il flusso del pubblico; quando si accorsero che la folla entrava. Si guardarono: 'Ce so cascati, ce so cascati', e andarono a mangiare. Mi piace ricordare Ennio che rideva e ripeteva 'ce so' cascati', anche se sapeva che avevano fatto un capolavoro".
Ennio Morricone, la Preghiera degli artisti e le note di Mission per i funerali del Maestro. Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Siamo pittori, scultori, musicisti, attori, poeti, danzatori, siamo i tuoi piccoli che amano vivere sulle ali della poesia per poterti stare più vicino, e per aiutare i fratelli a guardare più in alto nel tuo cielo e più in profondità, nel loro cuore". Le parole della Preghiera degli artisti, letta da un amico, risuonano nella cappella del Campus biomedico di Roma, dove lunedì alle 19 sono stati celebrati, in forma strettamente privata, i funerali di Ennio Morricone, scomparso lunedì a 91 anni. Un cerimonia sentita, commossa, ma tutt'altro che ampollosa. Del resto il compositore l'aveva scritto nel necrologio ritrovato nella sua casa all'Eur e diffuso ieri dal suo avvocato, Giorgio Assumma. "Non voglio disturbare". Di fronte all'altare, nella cappella da oltre 200 posti, c'è una piccola folla di appena 40 persone. In prima fila l'amatissima moglie Maria, accanto ai figli Andrea, Giovanni, Alessandra e Marco ("Spero che comprendano quanto li ho amati", scrive Morricone nel necrologio). E poi le sorelle Adriana, Maria, Franca, i nipoti e i parenti di vario grado. Gli unici amici sono Giuseppe Tornatore, che chiamava "Peppuccio" e l'avvocato Assumma. Le note della colonna sonora del film The Mission composta dal maestro nel 1986 ed eseguite da un organista, accompagnano il momento della comunione. Quasi tutti prendono il sacramento. Sfilano davanti all'altare sovrastato dall'immagine del fondatore dell'Opus Dei. Intorno al feretro una corona di fiori inviata dall'As Roma. Un omaggio dovuto. Perché "sono più romanista che musicista", aveva detto anni fa il premio Oscar, a rimarcare con orgoglio la sua fede calcistica. Al termine della cerimonia, officiata da un vescovo e dal cappellano del Campus don Robin Weatherill, risuonano ancora le note del film diretto da Roland Joffè. Prima dell'ultimo viaggio terreno alla volta del cimitero Laurentino dove da oggi riposa il maestro Ennio Morricone.
Morte di Ennio Morricone, il necrologio scritto dal Maestro: "Non voglio disturbare". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Arianna Di Cori. "C'è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata non voglio disturbare". È questa la ragione che ha spinto Ennio Morricone a voler mantenere nella forma più riservata possibile il compianto della sua morte. Il grande compositore, scomparso questa notte alle 2.20 circa, ha voluto scrivere nero su bianco il suo necrologio. Parole commoventi, che il suo avvocato nonché amico di famiglia Giorgio Assumma ha enunciato ai cronisti che affollano l'entrata del Campus Biomedico, dove Morricone era stato ricoverato a seguito di una frattura del femore e dove è spirato all'età di 91 anni per, spiega il legale, "complicazioni post operatorie". "Io Ennio Morricone sono morto", questo l'incipit del testo che, ha sempre spiegato Assumma, è stato ritrovato dai famigliari e scritto dal Maestro prima della caduta che lo avrebbe portato alla morte. " Lo annuncio così, a tutti gli amici che mi sono stati vicini ed anche a quelli un po' lontani, che saluto Con grande affetto. Impossibile nominarli tutti". Poi passa in rassegna solo alcuni amici tra i più cari, le sorelle, i figli "spero che comprendano quanto li ho amati" . Ma l'ultimo saluto, il più struggente, è al suo grande amore Maria, la moglie, compagna di una vita. "A Lei rinnovo l'amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. - conclude il Maestro -. A Lei il più doloroso addio". La camera ardente, al piano -2 del Campus, è completamente off limits. Nessuno può avvicinarsi, nemmeno per portare i fiori, e sarebbe comunque vietato per le limitazioni imposte dal Covid. Non si vedono nemmeno fan, nel sole accecante del campus a Trigoria, non lontano dal campo di allenamento della sua squadra del cuore, l'As Roma. Il rispetto per il Maestro che ha segnato generazioni con le sue memorabili colonne sonore è massimo.
La richiesta di funerali privati: "Non voglio disturbare". “Io, Ennio Morricone, sono morto”: il necrologio del maestro, la sua ultima opera d’arte. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2020. “Io ENNIO MORRICONE sono morto”. È questo l’incipit del necrologio che il maestro, genio della musica scomparso nella notte a Roma, all’età di 91 anni, si è scritto da solo, in prima persona. Un messaggio al tempo stesso ironico e struggente. È stato reso noto dall’amico di famiglia e legale Giorgio Assumma. Verrà pubblicato su tutti i quotidiani. È un testo breve. In prima persona. Spicca la richiesta per l’ultimo saluto: “C’è una sola ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare”. Un messaggio dal quale trapelano grandi umiltà e riservatezza. Quanti artisti, oltre Morricone – due volte Premio Oscar, una volta alla carriera, per citare solo due riconoscimenti – avrebbero o avrebbero avuto diritto quanto lui a esequie nazionali, in pompa magna, con vip e alte cariche dello Stato? Emozionante il saluto alla moglie Maria Travia: “A lei rinnovo l’amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. A Lei il più doloroso addio“. Ironia e dolore si fondono nel testo lungo poche righe. Probabilmente l’ultima opera d’arte di un grande creatore e ideatore tra le più belle musiche dell’ultimo secolo.
IL TESTO INTEGRALE – “Io ENNIO MORRICONE sono morto. Lo annuncio così a tutti gli amici che mi sono stati sempre vicino e anche a quelli un po’ lontani che saluto con grande affetto. Impossibile nominarli tutti. Ma un ricordo particolare è per Peppuccio e Roberta, amici fraterni molto presenti in questi ultimi anni della nostra vita. C’è una sola ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare. Saluto con tanto affetto Ines, Laura, Sara, Enzo e Norbert, per aver condiviso con me e la mia famiglia gran parte della mia vita. Voglio ricordare con amore le mie sorelle Adriana, Maria, Franca e i loro cari e far sapere loro quanto gli ho voluto bene. Un saluto pieno, intenso e profondo ai miei figli Marco, Alessandra, Andrea, Giovanni, mia nuora Monica, e ai miei nipoti Francesca , Valentina, Francesco e Luca. Spero che comprendano quanto li ho amati. Per ultima Maria (ma non ultima). A lei rinnovo l’amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. A Lei il più doloroso addio”.
Ennio Morricone, papa Francesco ha telefonato alla moglie del maestro. Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Papa Francesco aveva conosciuto personalmente Ennio Morricone e sua moglie Maria. E ha voluto far sentire la sua vicinanza alla moglie del maestro, scomparso lunedì scorso. Lo ha fatto con una telefonata breve e affettuosa, per confortarla e assicurarle che avrebbe pregato per lui. Secondo quanto riferisce l'Ansa, il Papa ha chiamato nel tardo pomeriggio di ieri e ha parlato per qualche minuto con la signora Maria. Una conversazione piena di affetto nella quale il Pontefice ha assicurato le sue preghiere per il compositore e per tutta la sua famiglia. L'incontro con il Pontefice, come ha ricordato di recente il cardinale Gianfranco Ravasi, era avvenuto in occasione di una messa che il maestro aveva composto per il bicentenario della ricostituzione della Compagnia del Gesù. E Morricone, in un'intervista per i 90 anni, aveva raccontato di aver pianto due volte nella vita: "Per Mission e per papa Francesco".
Valentina Arcovio per “il Messaggero” l'8 luglio 2020. Per Ennio Morricone pare sia stata fatale. Ma come lui sono migliaia gli anziani che ogni anno in Italia perdono la vita in seguito alla frattura del femore. Secondo la Società italiana di ortopedia e traumatologia (Siot) sono più di 90 mila gli anziani che ogni anno finiscono in pronto soccorso per una frattura del femore con una percentuale di mortalità del 5 per cento in fase acuta e del 15-25 per cento entro un anno. Ma gli anziani non sono solo più a rischio frattura. Sono anche a maggior rischio complicanze letali. Il femore è l' osso più grande del corpo umano e svolge una funzione chiave per il movimento, visto che su di esso si innestano muscoli fondamentali e che comunica con l'anca e le articolazioni del ginocchio.
LE CAUSE. La frattura può colpire un punto qualsiasi dell'osso, ma negli anziani interessa principalmente la testa del femore, dove l' osso si congiunge con l'anca, e in genere è conseguente a una caduta accidentale. A rendere fragile l' osso nelle persone di una certa età è generalmente l' osteoporosi, una patologia cronica diffusa che rende le ossa meno dense e più soggette a rottura. «Con il passare degli anni e con il significativo incremento della vita media aumenta la possibilità di incorrere in fratture, in particolare quelle collegate all' osteoporosi», spiega Francesco Falez, presidente della Siot. «Le cadute rappresentano il principale fattore scatenante. Tra le conseguenze delle fratture continua - nelle persone anziane vi è la necessità di un ricovero, spesso lungo, nonché un aumento della mortalità. Oltretutto gli anziani impiegano più tempo a riprendersi da una frattura e in alcuni casi il recupero non è completo; tutto ciò rende le ossa ancora più fragili e favorisce la comparsa di nuove fratture, oltre a causare isolamento sociale, perdita di indipendenza e dolore cronico». La buona notizia è che da una frattura al femore, il più delle volte, si può guarire bene. A patto però che l' intervento chirurgico sia tempestivo e che il paziente riprenda prima possibile la sua vita «normale». Secondo gli specialisti, l' operazione deve essere effettuata entro 48 ore dalla caduta, per evitare che sorgano rischi e complicanze. Il primo obiettivo da raggiungere è quello di permettere al paziente di stare seduto o in piedi nel minor tempo possibile. Il ritorno al movimento, per le persone anziane, deve essere considerato una priorità. Un' immobilità troppo protratta nel tempo può provocare una diminuzione delle forze muscolari che può portare a una perdita permanente di funzioni e una conseguente diminuzione dell' autonomia del paziente.
LA TERAPIA. «Il progresso delle tecniche chirurgiche ed anestesiologiche e la precocità nell' affrontare l' intervento ove necessario consentono di ridurre i tempi di ospedalizzazione e di recupero funzionale», dice Falez. Ma la miglior cura rimane la prevenzione. «Per prevenire e trattare le fratture da fragilità l' ortopedico, insieme ai medici di famiglia, ha il compito di indirizzare i pazienti a rischio ad eseguire opportuni esami strumentali ed avviare così una eventuale terapia preventiva», spiega l' esperto. «Se invece il paziente si presenta già fratturato alla visita, dopo l' opportuno trattamento chirurgico, lo specialista avrà il compito di monitorarlo nei mesi successivi, integrando una terapia preventiva che ha lo scopo di ridurre il rischio di incorrere in nuovi eventi traumatici», conclude Falez.
Il ritratto dell'artista. Chi è Maria Travia, la moglie di Ennio Morricone cui ha dedicato il Premio Oscar. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2020. “Dedico questo Oscar a mia moglie Maria che mi ama moltissimo e io la amo alla stessa maniera e questo premio è anche per lei”. In queste parole pronunciate il 25 febbraio 2007, quando dopo cinque candidature non premiate gli venne conferito il Premio Oscar alla carriera, Ennio Morricone ha riassunto la bellissima storia d’amore che lo teneva legato a sua moglie Maria. Quattro figli e una vita vissuta insieme per 64 anni, i due sono convolati a nozze nel 1956 dopo sei anni dal loro primo incontro. Lo stesso Morricone ha raccontato che i due si sono conosciuti a Roma nel 1950, Maria era amica di sua sorella Adriana e per lui fu subito colpo di fulmine. Ma la svolta nel loro amore ci fu quando Maria, sfortunatamente, ebbe un incidente che la costrinse in ospedale e lui le è rimasto accanto. Da quel giorno, poco alla volta, si sono innamorati fino a non lasciarsi più.
LA STORIA – Maria Travia è nata il 31 dicembre del 1932 a San Giorgio di Gioiosa Marea, in provincia di Messina. Ad un anno dalla sua nascita, nel 1933, la sua famiglia si trasferì a Roma, dove di fatto è cresciuta e vive tuttora. In tutti questi anni insieme, Ennio Morricone stesso ammise che per lui sua moglie è sempre stata di vitale importanza. Non soltanto dal punto di vista familiare in cui hanno condiviso l’amore e la crescita dei loro quattro figli Andrea, Alessandra, Marco e Giovanni, ma soprattutto in ambito lavorativo dove lei era il “giudice” severo delle opere artistiche del marito. Lo stesso Quentin Tarantino racconta che la sceneggiatura di The Hateful Eight, che vinse il premio per la miglior colonna sonora, venne sottoposta ad entrambi per sapere cosa ne pensassero. Così come uno dei temi di Nuovo Cinema Paradiso era stato condiviso con lei. Il loro matrimonio però non è stato sempre rose e fiori, in quanto per il suo lavoro Morricone era sempre in giro per il mondo vedendosi poco. Ma il loro amore si è basato sulla fiducia, la fedeltà e l’amore che li ha tenuti saldi fino alla morte del maestro il 6 luglio 2020. Ennio Morricone non ha mai smesso di ricordare l’innamoramento nei confronti della moglie dedicandogli anche il Premio Oscar alla carriera: “Voglio ringraziare l’accademia per questo onore che mi ha fatto dandomi questo ambito premio, però voglio ringraziare anche tutti quelli che hanno voluto questo premio per me fortemente, e hanno sentito profondamente di concedermelo. Veramente; voglio ringraziare anche i miei registi, i registi che mi hanno chiamato con la loro fiducia, a scrivere musica nei loro film, veramente non sarei qui se non per loro. Il mio pensiero va anche a tutti gli artisti che hanno meritato questo premio e che non lo hanno avuto. Io gli auguro di averlo in un prossimo vicino futuro. Credo che questo premio sia per me, non un punto di arrivo ma un punto di partenza per migliorarmi al servizio del cinema e al servizio anche della mia personale estetica sulla musica applicata. Dedico questo Oscar a mia moglie Maria che mi ama moltissimo e io la amo alla stessa maniera e questo premio è anche per lei”.
IL LUTTO – Il maestro Ennio Morricone se ne è andato all’età di 92 anni. Il grande musicista e compositore è morto nella notte in un clinica di Roma, sua città natale, in seguito alle conseguenze di una caduta avvenuta nei giorni scorsi che gli aveva provocato la rottura del femore. Premio Oscar e autore di alcune delle colonne sonore più belle del cinema italiano e internazionale (“Per un pugno di dollari”, “C’era una volta in America”, “Nuovo cinema paradiso”). I funerali di Ennio Morricone si tengono in forma privata “nel rispetto del sentimento di umiltà che ha sempre ispirato gli atti della sua esistenza”. Ad annunciarlo è la famiglia del Maestro attraverso l’amico e legale Giorgio Assumma. Morricone, si legge nella nota, si è spento “all’alba del 6 luglio in Roma con il conforto della fede”, Assumma aggiunge che il maestro “ha conservato sino all’ultimo piena lucidità e grande dignità, ha salutato l’amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli è stato accanto fino all’estremo respiro ha ringraziato i figli e i nipoti per l’amore e la cura che gli hanno donato. Ha dedicato un commosso ricordo al suo pubblico dal cui affettuoso sostegno ha sempre tratto la forza della propria creatività”.
LA CARRIERA – Nato a Roma il 19 novembre 1928 e sposato dal 1956 con Maria che gli ha dato quattro figli, Morricone ha incarnato una figura unica nel panorama della cultura internazionale. Venerato maestro del mondo cinematografico, Morricone ha arricchito centinaia di film con il suo talento musicale costruendo, dall’Italia, la sua reputazione con le musiche per leggendarie pellicole ambientate nel selvaggio West americano. E’ famoso per le colonne sonore per i film western all’italiana, collaborando con registi come Sergio Leone, Duccio Tessari e Sergio Corbucci, con titoli come la Trilogia del dollaro, Una pistola per Ringo, La resa dei conti, Il grande silenzio, Il mercenario, Il mio nome è Nessuno e la Trilogia del tempo. Tra i tanti film musicati anche Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e Novecento di Bernardo Bertolucci. Nel 2007 Morricone ha ricevuto il premio Oscar alla carriera, dopo essere stato nominato per 5 volte. Nel 2016 ha ottenuto il suo secondo Oscar per le partiture del film di Quentin Tarantino “The Hateful Eight”, per la quale si è aggiudicato anche il Golden Globe.
Tutti in ginocchio, ma stavolta solo per onorare il mito di Ennio Morricone, l’immortale. Emanuele Ricucci il 6 luglio 2020 su Il Giornale. Solo la delicatezza di un pensiero. Prima o poi doveva succedere. Quando accade qualcosa del genere, senti tremare i muri della tua generazione insipida, sterile, viziata ed impotente che non riesce a realizzarsi nella storia, non si coalizza nella Bellezza ma si divide nel capriccio. La tua generazione riesce a manifestarsi nella storia di rimbalzo, solo grazie alla virtù, al genio, alla visione di grandi uomini eterni, come lui, che con la loro forza trascinano con sé tutto il resto (nella dignità). Con la sua musica, che è vita, ho pianto, ho scritto, anche di lui, indegnamente, dalle colonne di questo giornale, qualche anno fa, ho ricordato mia madre, ho celebrato la vittoria e la dolcezza, ho impresso la felicità di un momento e mi sono sentito orgoglioso di essere italiano. Quell’Oscar, nel 2016, quel discorso in italiano durante la premiazione, la dedica della vittoria alla moglie Maria, quella naturalezza capace di allontanare l’immagine delle maschere di plastica del politicamente corretto che ci ingabbia ogni giorno, furono un altro, grande trionfo. L’Italianità che non indossi i pantaloncini e non corra dietro ad uno stereotipo a forma di palla, è sempre troppo bella quando ce ne ricordiamo mentre ce ne sfugge l’abitudine.
Morricone ha rappresentato in musica l’Assoluto, lo ha avvicinato a noi permettendo di viverlo nel nostro intimo, legato, magari, a un ricordo, a un attimo, al dolore che non ti fa serrare la mascella dal pianto o alla gioia più lieve, ne ha permesso una traduzione nel privato, con quelle note che esulano dalla colonna sonora ed esplodono oltre le vicende di film che hanno fatto la storia, ha prolungato la Bellezza del creato. Morricone ha incarnato, senza dubbio, la visione di Steiner che immortala il significato generatore del profondo Rinascimento, evocandone il senso, per cui con la sua musica si manifesta la nostra anima più profonda, un invito a cogliere il divino nella forma e nella Bellezza del mondo. Sfido persino l’animo più arido a non aver fissato un punto della sua stanza abbandonandosi alla leggerezza dell’oltre, alla nostalgia senza fine, come essere morti e ricordare sé stessi, con il tema di C’era una volta il west. O con L’estasi dell’oro, magari con la dolcezza del Tema di Deborah. Le muse, come ben afferma lo scrittore Andrea Di Consoli, stanno abbandonando l’Italia. Questo Paese ha perso qualcosa di troppo grande, stavolta, proprio in un anno di sofferenza e miseria umana. Morricone è stato fortemente un uomo sovrano di sé stesso, poiché capace di coltivare sé stesso, di unire e dare sintesi vitale alla profondità delle proprie dimensioni, offrendo arte, mettendo in asse Bellezza e Assoluto. Ben oltre un musicista, un compositore.
Si realizza la storia. In ginocchio, stavolta davvero, ma solo per applaudire un gigante, tra Raffaello e Monteverdi. Sogno un via, una piazza, un suo ricordo di marmo in tante città italiane, come fosse normale celebrare il mito di questa nazione, nel pantheon dei più grandi, che merita di andare oltre la contemporaneità. E se così non fosse, allora chi è degno d’esser grande tanto da entrare nella storia comune? Addio a Ennio Morricone e grazie.
Ennio Morricone e Sergio Leone insieme dalle elementari. Notizie.it il 06/07/2020. Il sodalizio tra Ennio Morricone e Sergio Leone iniziò tra i banchi di scuola: una foto testimonia che fossero in classe insieme. Tra le figure più importanti che Ennio Morricone, scomparso il 6 luglio 2020, incontrò nella sua vita e carriera non si può non citare quella di Sergio Leone, regista che il compositore conobbe alle scuole elementari. A testimoniare come il sodalizio affonda in radici ben più antiche di quelle che si possono pensare c’è una foto risalente al 1937 che li immortala insieme ai loro compagni di classe. Si tratta di uno scatto in bianco e nero in cui Leone, come si legge sulle divise, si trova a sinistra della foto rispetto al piccolo Morricone. I due, nati rispettivamente nel 1929 e nel 1928, hanno trascorso insieme l’infanzia e il tempo tra i banchi di scuola, senza immaginare che a distanza di anni si sarebbero incontrati per far nascere una collaborazione che ha contribuito a gettare le basi del cinema mondiale. A sottolineare quanto quella tra i due fosse “una fusione assoluta” è stato il direttore della Cineteca di Bologna Gianluca Farinelli. Ha infatti parlato di due persone molto simili che, oltre ad aver frequentato insieme le scuole, avevano abitato vicini per qualche tempo e tifavano la stessa squadra di calcio. In più tanto Morricone quanto Leone, ha spiegato, incarnavano i tratti tipici della romanità: “l’ironia, il distacco e il senso della vita“.
I loro film. La pellicola che diede inizio al loro lavoro fu Per un pugno di dollari da cui è nata quella che è notoriamente nota come la Trilogia del dollaro che include. Essa include, oltre al primo film citato, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo. Prima del capolavoro del 1984, C’era una volta in America, impossibile non nominare anche C’era una volta il West e Giù la testa.
Ennio Morricone, la colonna sonora del nostro ‘900. David Romoli su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Di grandi compositori di musica per il cinema l’Italia ne vanta molti e tutti di altissimo livello. Ennio Morricone era però un caso unico. Più di ogni altro ha rotto un confine dopo l’altro: ha marcato la grande musica italiana degli anni 60, si è imposto come musicista originalissimo con il cinema di Sergio Leone all’inizio ma colonizzando poi tutti i generi del cinema italiano a cavallo tra i ‘60 e i ‘70. E’ sbarcato a Hollywood con un impeto da Italian Invasion quale non si era mai visto prima e non si sarebbe più visto in seguito. Sarebbe bastato a fargli meritare la marea di premi, i 10 David di Donatello, i 3 Grammy, i 4 Golden Globes il Leone d’oro e l’oscar alla Carriera, assegnatogli nel 2007. Ma la musica di Morricone è andata oltre i limiti sia della musica da film che di quella da accademia. Per anni i Ramones hanno aperto i loro concerti con il tema di Il buono, il brutto e il cattivo. Scrittori innamorati del rock come Stephen King lo hanno commentato ed esaltato. E’ passato con disinvoltura negata a quasi tutti gli altri da una generazione di cineasti all’altra. Il secondo Oscar e il quarto golden globe li aveva vinti quattro anni fa per The Hateful Eights di Quentin Tarantino, uno dei registi che erano cresciuti e poi avevano fatto propria la sua musica. Come ha segnalato ieri Dario Argento, uno dei principali registi per cui aveva lavorato nella fase dorata del cinema italiano di genere, Ennio Morricone è stato e resterà una rockstar. Ennio Morricone ha lavorato con molti, da De Palma a Carpenter a Tarantino, da Bertolucci a Tornatore a Verdone ma il suo nome resterà per sempre legato soprattutto a quello di Sergio Leone: non solo perché furono i film del creatore del western italiano a dargli la fama mondiale ma soprattutto perché senza quella musica quei film non sarebbero esistiti o non sarebbero comunque stati la stessa cosa. La tromba del grandissimo Michele Lacerenza segna Per un pugno di dollari, il film costato nel 1964 quattro soldi e diventato un successo mondiale quasi senza precedenti quanto i primi piani iper-realisti del regista o la freddezza di un Clint Eastwood che fece il vero salto della sua carriera proprio con quel film. Leone quella tromba non la avrebbe voluta. Insisteva per Ninì Rosso, allora sulla cresta dell’onda. Morricone puntò i piedi, si impose e il risultato prova che aveva ragione lui. Eppure in quel 1964, con ancora tutta l’infinita serie di grandi film di cui avrebbe scritto la musica ancora davanti a lui, Ennio Morricone era già una stella diprima grandezza. Sarebbe ricordato comunque come uno dei principali autori della musica leggera italiana degli anni ‘60, quella che a oltre mezzo secolo di distanza ancora tutti ricordano, tutti canticchiano. Nato a Roma nel 1928, diplomatosi come trombettista a santa Cecilia, aveva cominciato a comporre per il cinema nel 1955 ma al successo era arrivato nel 1962 con le storiche canzoni per l’estate di Edoardo Vianello: Con le pinne fucile ed occhiali, Guarda come dondolo, Abbronzatissima. Poi sarebbero arrivate Sapore di sale, Il Mondo, il capolavoro di Mina E se telefonando, ispirato dal suono delle sirene delle macchine della polizia francese, ascoltate di sfuggita a Parigi insieme a Maurizio Costanzo: “Mi sa che ci faccio una canzone”: furono le prime note di E se telefonando. Poi l’incontro con Leone: quelle sei colonne sonore, la Trilogia del dollaro e poi C’era una volta il West, Giù la testa, C’era una volta in America che sarebbero bastate da sole a siglare una grandissima carriera e che nella produzione di Morricone sono solo una parte, sia pur eminente. Ennio Morricone è stato un grande musicista e un grande autore di canzoni e tuttavia è giusto ricordarlo soprattutto come autore di musica per lo schermo, perché gli si deve il massimo riconoscimento che si possa tributare a un compositore di colonne sonore: quello di essere a tutti gli effetti coautore dell’intero film, non solo della sua musica, e quello di aver ispirato con le sue note un modo non solo di fare musica ma anche di fare cinema.
Furio Colombo e il "segreto" su Morricone: “Così nacque la canzone su Sacco e Vanzetti”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Quella ballata non ha fatto solo la fortuna di un film comunque bellissimo. Ha segnato un’epoca, la stagione della contestazione, delle marce contro la guerra in Vietnam. Ma non è rimasta prigioniera del suo tempo. Perché anche oggi, Here’s to you, Nicola and Bart, fa emozionare, commuovere, sognare, grazie all’interpretazione, straordinaria, di Joan Baez, alla musica, struggente, di Ennio Morricone. E al testo di un grande giornalista e scrittore: Furio Colombo. «L’incontro tra due genialità – dice Colombo a Il Riformista – rese ancora più intenso il film-capolavoro del mio amico Giuliano Montaldo». Il film è Sacco e Vanzetti. E questa è la storia di un parto creativo che ha rischiato di non vedere la luce, senza l’ostinazione di Colombo. Ricordare quell’episodio è un modo per onorare, nel giorno della sua scomparsa, un Grande della musica. Un Grande italiano.
Qual è il suo ricordo?
«È stato l’incontro tra due genialità, quella della mia amica Joan Baez e quella di Ennio Morricone. Genialità ed umiltà perché nessuno dei due voleva mostrarsi superiore all’altro, tant’è che all’inizio questo “parto” fu particolarmente difficile. Nonostante Giuliano Montaldo e il produttore del film Arrigo Colombo insistessero perché la ballata fosse cantata da Joan Baez, lei era recalcitrante. Ricordo che quando a New York Montaldo cercò di convincere Joan Baez ad accettare la proposta, lei disse un categorico: “no”. Mentre io dissi con la stessa determinazione: “sì”».
E poi cosa successe?
«La seconda puntata avviene in Italia, a Fregene. Joan Baez era mia ospite insieme al suo bambino di sei mesi, mentre mia moglie Alice attendeva nostra figlia Daria. Avevo incontrato Montaldo a Roma nell’albergo che l’ospitava e lui continuava ad insistere perché questo “matrimonio” si facesse. A quel punto gli dissi di venire a trovarci a Fregene. Alla fine riuscimmo a convincere Joan. Quello che poi colpì fu l’atteggiamento del maestro Morricone. Il testo della canzone era sulle mie parole e lui iniziò come arrangiatore, quindi con una funzione di “secondo piano”, ma riuscì a costruire una musicalità che si fuse in modo straordinario con le parole. Nacque così quella ballata che ha resistito al corso del tempo e ancora oggi ci fa emozionare, commuovere e pensare».
Lei ha avuto modo di incontrare di nuovo Morricone e costruire con lui un rapporto di amicizia?
«La stima reciproca e la considerazione per le attività che svolgevamo non si tradusse in un rapporto di amicizia particolarmente stretto come quello che, ad esempio, avevo con Giuliano Montaldo. Tante volte ho avuto l’onore di ascoltare anche in anteprima dei brani di Ennio e ogni volta dicevo: ma questo è ancora più bello di quello precedente. Quindi c’era una sincera ammirazione. Ricordo anche un altro episodio».
Quale?
«Eravamo seduti insieme su una panchina, uno vicino all’altro, in attesa che Francesco Rosi ci chiamasse per farci vedere in anteprima un suo film. Entrambi sapevamo ovviamente chi fosse l’altro, ma rimanemmo in silenzio. A volte il silenzio, e questo è il caso, vuol dire molto più di tante parole magari di circostanza. Era un silenzio tra due persone che si apprezzavano e non avevano bisogno di usare parole per esprimerlo. Un artista come Ennio Morricone non aveva bisogno di tante parole, non era una persona particolarmente loquace. Faceva parlare la musica. Le note erano le sue parole. Nella ballata Here’s to you le parole sono musica e la musica è parola, si fondono insieme riescono parlare sia al cuore che alla ragione di chi la ascolta. È stata una straordinaria fusione che due geni – la cui modestia indica anche una straordinaria umanità e intelligenza – ci hanno consegnato nel tempo e oggi emoziona generazioni diverse. Questo è ciò che fa un grande artista. Genialità e umiltà, Ennio Morricone era ambedue le cose».
Morricone e Tarantino, un rapporto a distanza fino all'Oscar per "The hateful eight". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Rita Celi. "Non c'è una musica importante senza un grande film che la ispiri, ringrazio Quentin Tarantino per avermi scelto". Con queste parole Ennio Morricone con la voce rotta dall'emozione ringraziava il regista stringendo tra le mani l'Oscar ricevuto nel 2016 per le musiche di The hateful eight. Accolto da una standing ovation, il maestro è salito sul palco del Dolby Theatre accompagnato dal figlio Giovanni, ha prima abbracciato Quincy Jones che gli ha consegnato la prestigiosa statuetta insieme a Pharrell Williams, ha poi dedicato un pensiero agli altri candidati, "in particolare allo stimato John Williams", e ha concluso dedicando il premio a sua moglie Maria. Un riconoscimento arrivato a sorpresa per il maestro, dopo oltre 500 musiche composte per il cinema e per la tv, con cinque nomination collezionate nel corso di decenni - per I giorni del cielo (1978) di Terrence Malick, Mission di Roland Joffé (1986), Gli intoccabili di Brian De Palma l'anno seguente, Bugsydi Barry Levinson (1991) e Malèna di Giuseppe Tornatore nel 2001- e un Oscar alla carriera ricevuto nel 2007. Oltretutto l'Oscar è arrivato per la sua prima collaborazione con Quentin Tarantino, che era finalmente riuscito a convincerlo a scrivere per lui dopo aver "rubato" le sue musiche da altri film del passato. Un rapporto a distanza quello tra il compositore e il regista iniziato una decina di anni prima, quando nella colonna sonora di Kill Bill Vol. 1 aveva inserito un brano che il maestro aveva scritto per il western di Giulio Petroni del 1966 Da uomo a uomo fino all'exploit di Bastardi senza gloria nel quale aveva inserito ben otto brani da colonne sonore precedenti. Per l'uscita di The hateful eight nel dicembre 2015 i due si erano ritrovati a Londra nello studio 3 di Abbey Road. In quell'occasione Tarantino e Morricone avevano raccontato a Repubblica la loro collaborazione. "Il mio rapporto con la musica del maestro viene da molto lontano" aveva detto il regista. "Avevo otto anni quando, a causa della passione insana che mia madre nutriva per Clint Eastwood, mi vidi per la prima volta la Trilogia del Dollaro di Sergio Leone con le sue musiche. Solo qualche anno dopo però iniziai a collezionare vinili in maniera metodica e i suoi 33 giri erano sempre tra gli album che cercavo con maggiore attenzione". Il maestro aveva poi commentato i "furti" delle sue musiche. "Avevo visto i suoi film e ascoltato la mia musica utilizzata con molta disinvoltura e, devo dire, anche in modo appropriato. Ma erano linguaggi diversi e nell'arco del film non c'era coerenza, però posso dire che ho analizzato bene la lista dei brani che Quentin ha usato e devo dire che si vede che mi ha seguito molto. Sapeva da dove pescare". Poi finalmente era arrivato il momento in cui i due avevano finalmente collaborato insieme. "Credo che ogni regista meriti la propria musica" aveva sottolineato Morricone. "Per questo ho deciso di dare a Quentin quello che meritava, una colonna sonora pensata per il suo cinema, qualcosa di completamente diverso dai lavori realizzati in passato. E qui l'ascoltatore più attento noterà dei timbri mai usati prima da me in nessun altra partitura. Un esempio? Mai usato i controfagotti come per questo film".
Morricone, 60 anni di carriera da Leone a Tarantino (passando per Tornatore). In seguito Morricone è tornato a parlare di Tarantino in Ennio, un maestro. Conversazione (HarperCollins Italia), il libro scritto a quattro mani con Giuseppe Tornatore che raccoglie i lunghi colloqui tra il regista e il musicista, uscito in libreria per i 90 anni del maestro, di cui Repubblica ha anticipato alcune pagine. "Prima di The Hateful Eight, in realtà, con lui non avevo lavorato mai, è lui che aveva lavorato con le mie musiche. Per la verità, ho ammirato alcuni suoi film, e anche il modo in cui usa le mie musiche di repertorio. Lui ha scoperto che preferisce prendere musiche preesistenti, le ascolta, e se gli vanno bene le mette nel suo. È ovvio che se prendi un pezzo da un film, un pezzo da un altro, un pezzo da un altro ancora, una coerenza musicale non l'avrai mai. E forse avrei difficoltà a lavorarci insieme: nei film devo essere coerente, non posso fare uno zibaldone, una fantasia musicale, come se ogni musica che mettiamo va bene". "Al film successivo, The Hateful Eight, dissi di no subito, avevo tanto altro da fare" prosegue Morricone nell'anticipazione del libro pubblicato dall'Ansa. "Tarantino venne a Roma a prendere il David di Donatello e mi raggiunse a casa per convincermi a lavorare al suo film. In realtà non me lo chiese, mi diede il copione in italiano e allora dissi subito sì, e cancellai il precedente no telefonico. (...) Aveva letto il copione anche mia moglie e come me lo aveva giudicato benissimo. Anzi, usò la parola che io non uso mai: capolavoro. Perciò, anche con tanto senso di responsabilità, accettai il film. Ma cosa dovevo scrivere? Lui lo chiamava western, ma per me non era un western, era un film d'avventura collocato nella storia americana. (...) Decisi allora di scrivere un pezzo più lungo dei sette minuti che mi aveva chiesto, e poi altri pezzi più dinamici, più interessanti anche per me, musica sinfonica che non avevo mai fatto, mai prima di allora. E sai perché? Mi pareva di vendicarmi sui film western di un tempo, così semplici, fatti solo per il pubblico. Questo aveva musica sinfonica, forse anche esagerata per un film, forse no, io comunque azzardai. Del resto Tarantino non mi aveva dato alcuna indicazione, quindi proseguii coraggiosamente, e ti confesso che preparai anche qualche pezzo di riserva". "Penso che sia stato generoso, e che probabilmente nemmeno lui credeva a ciò che diceva" ha aggiunto poi Morricone a proposito di Tarantino che, ritirando il Golden Globe per suo conto poche settimane prima dell'Oscar, lo aveva paragonato a Mozart e Schubert. "Però aggiungo che il giudizio su qualsiasi artista, e non parlo solo di compositori, puoi darlo davvero solo dopo la sua morte, dopo lo studio attento delle sue partiture, dei suoi quadri o delle sue sculture. Non puoi valutarlo subito. A volte qualcosa ci entusiasma, ma poi ci ripensiamo, ci correggiamo. Le sue parole un po' mi hanno fatto piacere, un po' mi hanno anche dato l'impressione che stesse prendendomi per i fondelli, forse con l'obiettivo di creare pubblicità attorno al film. Non credo a giudizi simili, sono adulazioni. Quando ero giovane e mi dicevano bravissimo, mi scocciava molto. Adesso sto zitto e mi dico: E se fosse sincero?". Le considerazioni del maestro sono state in seguito mal riportate da una rivista tedesca, creando imbarazzo tra i due e costringendo il compositore a smentire di aver mai dato del "cretino" a Quentin Tarantino. In quell'occasione, nel novembre 2018, Morricone parlando con Repubblica ha dichiarato di non aver mai incontrato nessun giornalista dell'edizione tedesca di Playboy che ha pubblicato un'intervista definita dal musicista "completamente inventata" e di non aver mai espresso giudizi come "quell'uomo è un cretino" riferito a Tarantino per la collaborazione sul set di The Hateful Eight. Nell'intervista smentita viene fatto dire a Morricone: "Quell’uomo è un cretino, si limita a rubare agli altri e poi mette tutto insieme, non c’è niente di originale nel suo lavoro. Non può essere paragonato ai veri registi di Hollywood come John Huston, Alfred Hitchcock e Billy Wilder. Erano incredibili. Tarantino riscalda cose vecchie". E ancora: "È assolutamente caotico, parla senza pensare, fa tutto all’ultimo minuto. Non ha idee. Mi ha chiamato dal nulla dicendo che voleva una colonna sonora completa in pochi giorni. Non è una cosa possibile. Mi ha fatto andare su tutte le furie. Non lavorerò mai più con lui. Gli ho già detto che quella sarebbe stata l’ultima volta".
Estratto dal libro “Ennio, un maestro”, conversazione tra Giuseppe Tornatore e Ennio Morricone, pubblicato da Harper Collins Italia nel 2018 – Il Messaggero il 7 luglio 2020.
Mi spieghi il tuo rapporto con Quentin Tarantino?
«Prima di The Hateful Eight, in realtà, con lui non avevo lavorato mai, è lui che aveva lavorato con le mie musiche. Per la verità, ho ammirato alcuni suoi film, e anche il modo in cui usa le mie musiche di repertorio. Lui ha scoperto che preferisce prendere musiche preesistenti, le ascolta, e se gli vanno bene le mette nel suo. È ovvio che se prendi un pezzo da un film, un pezzo da un altro, un pezzo da un altro ancora, una coerenza musicale non l'avrai mai. E forse avrei difficoltà a lavorarci insieme: nei film devo essere coerente, non posso fare uno zibaldone, una fantasia musicale, come se ogni musica che mettiamo va bene. In realtà mi chiamò per le musiche di Bastardi senza gloria, era febbraio e doveva andare a Cannes, avevo due mesi di tempo per scrivere. Ma stavo lavorando per te (per Tornatore, ndr) e rifiutai, non ne avevo il tempo. Alla fine sono stato contento di essermi tirato indietro, ho visto il film e anche lì ha scelto pezzi lontanissimi tra di loro, che comunque stavano benissimo su quelle scene. La coerenza non l'ha cercata mai, sente il trasporto, la simpatia per questi pezzi, pensa che funzionino e via Al film successivo, The Hateful Eight, dissi di no subito, avevo tanto altro da fare. Tarantino venne a Roma a prendere il David di Donatello e mi raggiunse a casa per convincermi a lavorare al suo film. In realtà non me lo chiese, mi diede il copione in italiano e allora dissi subito sì, e cancellai il precedente no telefonico. Lui aggiunse soltanto: «Il film è pieno di neve, faccia un pezzo lungo per la neve, per la scena con la corriera trainata dai cavalli che corre attraverso la neve. Mi bastano sette minuti di musica». (...). Ma cosa dovevo scrivere? (...) Con lui in precedenza mi era capitata una strana cosa, scrissi una canzone che Quentin ascoltò. Gli piacque moltissimo e la mise sul film. Ma era solo un provino, Elisa l'aveva provata prima di registrare il disco vero, ma lui la mise sul film così. (...) Forse non glielo avevano detto che era un provino. Ma dai, devi sentirlo che non era una versione definitiva!»
Hai grandi rimpianti, film che avresti voluto fare e non hai fatto?
«Un rimpianto grande ce l'ho, soltanto uno: Arancia meccanica. Ero già d'accordo su tutto con Stanley Kubrick. Mi chiamò al telefono Milena Canonero e mi disse traducendomi Kubrick che voleva qualcosa che ricordasse la musica di ''Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto''. Gli piaceva al punto che voleva che mi imitassi. Sai che in genere lavori così li rifiuto, ma stavolta l'ho accettato, non mi chiamava un regista, mi chiamava un colosso. Gli ho detto: «Va bene, tenterò di fare una cosa che ricordi quel pezzo». Aggiunsi che avrei voluto registrare a Roma e lui non ebbe nulla in contrario. Aggiunse solo che lui non sarebbe venuto in Italia perché non prendeva aerei. Eravamo d'accordo anche sul compenso, era proprio tutto a posto. Poi Kubrick parlò con Sergio Leone, lo interrogò su cosa avesse fatto per ottenere quel sincrono musicale nella scena in cui la Cardinale arriva alla stazione in C'era una volta il West, Sergio spiegò il metodo che avevamo seguito, infine Kubrick gli disse che mi voleva per Arancia meccanica e chiese una specie di permesso a Leone con cui in quel periodo stavo lavorando per "Giù la testa". Sergio gli rispose che non potevo, che ero impegnatissimo nel lavoro con lui. Non era vero, ero al missaggio del film, la musica era finita. Poteva tranquillamente dire sì, ma non l'ha fatto. A Kubrick questo bastò per mollare tutto. Rinunciò a me senza nemmeno telefonarmi. Chiamò un altro compositore, un americano. Perché Leone gli rispose così? So che ti sembrerà strano, ma non gliel'ho mai chiesto. Però mi dispiacque davvero, è l'unico dispiacere legato a un film che non ho fatto».
Da corriere.it il 7 luglio 2020. «Il re è morto, lunga vita al re». Così, Quentin Tarantino, ha ricordato Ennio Morricone. Un maestro per il regista, come ha scritto ancora una volta sui social, pubblicando due fotografie del grande compositore, una in cui era al suo fianco e l’altra mentre stringe quell’Oscar vinto del 2016, per la colonna sonora del suo film, «The Hateful Eight». Il regista ha atteso diverse ore per lanciare al mondo il suo messaggio dall’account Twitter del New Beverly Cinema, il suo.
Il riconoscimento. Con quella collaborazione, Morricone aveva vinto l’Oscar nove anni dopo il premio alla carriera, ricevuto «‘per il suo magnifico e poliedrico contributo all’arte della musica per film», che già gli era valso la candidatura per cinque volte, senza mai vincere il riconoscimento. Il rapporto tra Tarantino e Morricone è sempre stato acceso. E se da una parte c’era la venerazione da parte del cineasta per il compositore, dall’altra c’erano anche diversità di vedute più o meno trapelate. Parlando di lui, però, Morricone aveva detto: «Considero Tarantino un grande regista. Sono molto affezionato alla mia collaborazione con lui e al rapporto che abbiamo sviluppato durante il tempo che abbiamo trascorso insieme. Coraggioso e con una personalità enorme. Ringrazio la nostra collaborazione per avermi procurato un Oscar, che è sicuramente uno dei più grandi riconoscimenti della mia carriera e sono grato per aver avuto l’opportunità di comporre musica per un suo film».
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 7 luglio 2020. Dalle finestre della sua casa di un tempo, tra il ghetto e il Campidoglio, si sentiva il rumore del traffico di Roma: ogni clacson, ogni sgommata. Quando il frastuono si faceva insopportabile, Ennio Morricone si sedeva al pianoforte, e iniziava a suonare, a comporre, a cercare le sue musiche. N on aveva perso l'accento di Trastevere, dov' era nato novantuno anni fa. Ma era un romano di una volta: cortese, disponibile, semplice. «Sono cattolico, votavo Dc, ma ho sempre considerato Gesù il primo comunista - diceva -. Mi sento dalla parte dei poveri, anche se ho una bella casa; ma i soldi non li ho rubati». Nei suoi ricordi c'era quasi un secolo di storia italiana: «Nella mia famiglia, il fascismo non l'abbiamo vissuto come un dramma. Però quando il Duce annunciò la dichiarazione di guerra mia madre, che lo ascoltava alla radio, scoppiò in lacrime, e io con lei. Mio padre suonava la tromba. Non eravamo poveri, ma con la guerra arrivò la fame: i surrogati, il pane appiccicoso, la mollica che sembrava colla. Mio zio aveva una falegnameria, e io impolveratissimo andavo con il triciclo a prendere sacchi di trucioli per portarli dal fornaio: ogni dieci sacchi, un chilo di pane. Le notizie arrivavano come attutite. Al mattino studiavo al conservatorio, la sera suonavo la tromba per gli ufficiali tedeschi, riuniti al Florida di via Crispi, a ballare i valzer di Strauss con le ragazze romane. Un giorno in piazza Colonna incontrai un prete partigiano, don Paolo Pecoraro, che mi disse: tra poco ne sentirete delle belle. Seguì un botto. Era la bomba di via Rasella». Poi arrivarono gli americani; «e suonavo per loro negli alberghi di via Cavour. Non ci davano soldi ma cibo - pane bianco, cioccolata, anche pietanze cucinate - e sigarette; io non fumavo, rivendevo le sigarette e portavo i soldi a casa. La notizia della morte del Duce mi lasciò indifferente. Però quando vidi le sue foto, appeso al distributore di piazzale Loreto, mi commossi. Piansi anche per il re, quando perse il referendum e fu costretto all'esilio. Certo, sapevo che Vittorio Emanuele III se l'era squagliata, ma per me la monarchia era l'Italia del Risorgimento, che finiva per sempre». «Il cinema italiano era tutto di sinistra. L'unico film "di destra" fu quello che feci con Maurizio Liverani, il critico di Paese Sera: si chiamava Lo sai cosa faceva Stalin alle donne? , era una satira anticomunista. Non ebbe molto successo. Con Sergio Leone non abbiamo mai parlato di politica. Giù la testa però è un film politico, su terrorismo e rivoluzione». Il suo sogno è sempre stato reinterpretare l'inno di Mameli. L'aveva realizzato per Cefalonia, il film per la tv sul massacro della divisione Acqui: una versione più lenta, solenne. «Un consigliere di Ciampi era venuto a chiedermi un parere sull'inno. Risposi che musicalmente non vale l'inno francese, tedesco, inglese, russo; anche se per noi ha un valore simbolico che riguarda il nostro Risorgimento. E proposi un concorso tra compositori per scriverne uno nuovo; ma precisai che ci sarebbero volute tre commissioni, per selezionare testi e musiche. Non se ne fece nulla». In compenso per i suoi 90 anni la banda della polizia suonò per lui alla Scala.
Con Pasolini la collaborazione fu problematica. «Mi chiede la colonna sonora di Uccellacci e uccellini . Dico no, e lui mi lascia carta bianca; mi domanda però di inserire una citazione di Mozart, un brano del Flauto magico. Non capisco, ma accetto. Poi per Teorema mi commissiona musica dodecafonica, purché con una citazione del Requiem di Mozart. Quando ascolta il lavoro, obietta: "Ma non c'è il Requiem !". "Ascolta con attenzione, c'è un clarinetto che ne accenna il motivo". "Allora va bene". Capii che era una questione scaramantica; in ogni suo film doveva esserci qualche nota classica. Non a caso, in Accattone c'è un frammento di Bach».
Le parole però non potevano restituire l'emozione di sentire Morricone provare le sue nuove musiche al pianoforte di casa. Quando non poté proprio più sopportare il frastuono, traslocò, lontano dal centro. Ma la sua Roma, quella di un tempo, gli mancava. Era legatissimo alla famiglia: i figli Giovanni, Marco, Alessandra, Andrea; e la moglie Maria.
«Ci siamo conosciuti a Roma nell'Anno Santo, il 1950. Lei è nata in Sicilia ma è venuta nella capitale a tre anni. Era amica di mia sorella Adriana. A me piacque subito moltissimo. Ma a lei io piacevo meno. Poi Maria ebbe un incidente, con la macchina di suo papà. Un attimo di distrazione, e andò a sbattere. La ingessarono dal collo alla vita, come si faceva allora. Soffriva moltissimo. Io le sono rimasto vicino. E così, giorno per giorno, goccia dopo goccia, l'ho fatta innamorare. Perché nell'amore come nell'arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l'intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata. E, certo, la fedeltà. Fatto sta che ci fidanzammo. E ci sposammo il 13 ottobre 1956».
Come si fa a stare settant' anni con la stessa donna? Ora non usa più. Morricone sorrideva.
«La domanda la deve fare a mia moglie; è stata bravissima lei a sopportare me. Vivere con uno che fa il mio mestiere non è facile. Attenzione militare. Orari rigorosi. Giornate intere senza vedere nessuno. Sono un tipo duro, innanzitutto con me stesso e di conseguenza con chi mi sta attorno. Altrimenti i risultati non arrivano. Il successo viene certo dal talento ma più ancora dal lavoro, dall'esperienza e, ripeto, dalla fedeltà: alla propria arte come alla propria donna. Mi sono dato la regola di dare il meglio, sempre. Anche se non sempre ci si riesce».
Quando ci lascia un grande come lui, non se ne va mai del tutto. Oggi risentiremo mille volte il «scion-scion» di Giù la testa . Ma in moltissime canzoni italiane c'è un tocco insospettabile di Morricone. Le due «A» iniziali di Abbronzatissima , ad esempio. O la dissonanza nell'attacco al pianoforte di Sapore di mare. Compose anche musica contemporanea, tra cui un Urlo più straziante di quello di Munch. Era insomma un personaggio più complesso di quel che sembrava. Ma fino all'ultimo restò cortese e disponibile. Come tutti i veri - e rari - Grandi.
Titta Fiore per il Messaggero il 7 luglio 2020. «Era un grande amico, un ragazzo ciociaro, sapere della sua morte è stato per me un grande dolore». Lina Wertmüller ed Ennio Morricone si conoscevano da sempre. Quasi coetanei, hanno attraversato da protagonisti la straordinaria storia del cinema italiano degli anni d'oro. Fu lui a comporre le musiche del primo film della regista dagli occhiali bianchi, I basilischi. E sono stati loro due, Ennio e Lina, gli ultimi italiani a vincere l'Oscar, il compositore nel 2016 per le musiche di The Hateful Eight di Tarantino, la cineasta l'anno scorso per il complesso della sua carriera. E ora, sulla Walk of Fame di Hollywood, la strada delle star, le stelle dedicate al loro leggendario talento brillano affiancate.
Com' è nata la vostra amicizia, signora Wertmüller?
«Ci siamo conosciuti quando entrambi muovevamo i primi passi nel mondo dello spettacolo. Le nostre prime avventure insieme risalgono agli anni Sessanta, quando io ero aiutoregista di Garinei e Giovannini al Sistina. Ennio fu chiamato da Modugno per fare gli arrangiamenti di Rinaldo in campo, uno degli spettacoli più felici prodotti da G&G, e sempre per loro firmò gli arrangiamenti di Enrico 61, con Renato Rascel. Facemmo subito amicizia e la sua collaborazione con il Sistina portò delle novità importanti. Ennio è sempre stato molto meticoloso e, come i più grandi artisti, tendeva alla perfezione. Ricordo, per esempio, che siccome l'orchestra che suonava le musiche dal vivo aveva un organico ristretto, l'esecuzione ne risentiva ed Ennio non era soddisfatto. Allora, per i brani che avevano bisogno di un maggior numero di strumenti, suggerì di rafforzarli con altri registrati e mandati in playback. L'effetto piacque moltissimo».
E il vostro sodalizio continuò.
«Certo, un'altra bella esperienza fu la trasmissione Piccolo Concerto per il secondo canale Rai. Era un programma musicale del 1961, Ennio aveva praticamente carta bianca, mentre io ero ancora aiutoregista. Ho sempre avuto un rapporto speciale con la musica, ho scritto le parole di tante canzoni e ricordo quel periodo con grande gioia».
La vostra collaborazione si rafforzò, però, con I basilischi, nel 1963.
«Prima di quel mio film lui aveva avuto solo un'altra esperienza come compositore per il cinema, credo avesse scritto le musiche per Il federale di Luciano Salce. Insomma, eravamo entrambi debuttanti. Ennio ha sempre avuto un talento straordinario e una facilità di comporre musiche capaci di sposarsi alla perfezione con le emozioni del film. Partiva dal testo, lo analizzava nei minimi particolari, lo studiava. Nei Basilischi ci sono due brani che ricordo in modo particolare: Pomeriggio in paese iniziava con il famoso fischio di Alessandro Alessandroni (poi usato anche per i film di Sergio Leone), accompagnato solo dal suono della chitarra. L'altro brano s' intitola Canzone Basilisca, parole mie, e diventò anche il tema principale del film. Quando ci incontrammo pochi anni fa a una serata in suo onore, mi venne incontro cantandomi le parole di quella nostra canzone».
I basilischi segnalò subito il vostro talento.
«Il film partecipò in concorso al festival di Locarno, e con mia madre, Stefano Satta Flores e Tullio Kezich, venne anche Ennio. Eravamo un bel gruppetto di amici, non ci aspettavamo di vincere la Vela d'Argento. Fu un premio molto importante per tutti noi».
Poi ci furono altri incontri professionali?
«Solo in un'altra occasione, purtroppo, per Ninfa plebea, il film che ho tratto dal romanzo di Domenico Rea molti anni dopo, nel 1996. Anche quella volta l'apporto di Ennio fu prezioso, la riuscita del film è stata anche merito della sua bellissima musica».
Oggi, per una bella coincidenza, sulla Walk of Fame la sua stella brilla assieme a quella dell'amico Morricone.
«A Los Angeles, ma in realtà ovunque nel mondo, Ennio è amatissimo. Mi fa piacere che tra i nomi di tante star americane, lungo Hollywood Boulevard, ci sia anche quello di un amico di una vita a farmi compagnia».
Che cosa rende le musiche da film di Morricone così uniche, speciali?
«La gente prova per lui un'ammirazione che è anche gratitudine. I suoi brani sono a volte ironici, a volte epici, altre volte struggenti, sanno toccare tutti i registri. Trovo straordinario che, negli ultimi anni, Ennio abbia girato il mondo per eseguire la sua musica al pubblico che lo ha amato per essersi emozionato con lui. In fondo, ha sempre voluto essere considerato un compositore di musica assoluta, non solo di colonne sonore. E, nonostante le sue composizioni appartengano a grandi capolavori del cinema, è proprio così che la gente le ricorderà: come musica che vive di luce propria».
Morricone e il Forum, lo studio in cui ha registrato tutta la sua musica. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Carlo Moretti. Questa è la storia di un’impresa culturale. E’ la storia di un gruppo di compositori e arrangiatori già affermati che alla fine degli anni Sessanta decidono di creare un luogo ideale per comporre e per registrare la loro musica. E’ il 1970 quando Ennio Morricone insieme a Luis Bacalov, Piero Piccioni e Armando Trovajoli lasciano idealmente gli studi della Rca di via Tiburtina, dove sono nate tante colonne sonore e tanti successi di musica leggera, per seguire il progetto del manager Enrico De Melis che voleva realizzare il sogno di un centro di produzione moderno, con tecnologia all’avanguardia e all’altezza dei quattro musicisti. Nasce così l’Orthophonic recording studio e, contemporaneamente, inizia le sue pubblicazioni l’etichetta General music che editava le loro colonne sonore: dietro al mixer ci sono due fonici storici della Rca, Sergio Marcotulli, padre della pianista jazz Rita, e Giuseppe Mastroianni. Un altro socio è Bruno Nicolai, l’arrangiatore e direttore d’orchestra che dirigeva le musiche di Morricone. Lo studio nasce nelle fondamenta di una basilica di Roma, in piazza Euclide, che era stata progettata dall’architetto Armando Brasini. L’avventura dura nove anni, poi nel 1979 Morricone e soci decisero di lasciare ad altri la gestione dello studio, la società si era indebitata, la tecnologia era ormai obsoleta e c’era bisogno di molti investimenti per aggiornarla. Quell’anno lo studio cambia nome, d’ora in poi si chiamerà Forum e a gestirlo sarà un fonico romano noto per aver registrato molti dischi di successo dei nuovi cantautori, a cominciare da Nero a metà di Pino Daniele. E’ Franco Patrignani che realizzerà con i quattro compositori molte delle colonne sonore di maggior successo dei due decenni a seguire: al Forum arrivano i più noti registi italiani e stranieri, Roman Polanski per le musiche di Frantik, Pedro Almodovar per quelle di Legami, qui si registrano le musiche di Amleto di Zeffirelli e quelle di Dimenticare Palermo di Francesco Rosi. E ancora le colonne sonore per i grandi sceneggiati televisivi, Marco Polo e La piovra.
In molti c’è la firma di Morricone: “Ennio era il primo ad arrivare per le registrazioni, anche prima dei fonici” ricorda Marco Patrignani, che gestisce il Forum dalla scomparsa del padre Franco, e che qui ha avviato le attività dell’Orchestra italiana del cinema. “Era un genio, basti dire che tra tanti compositori passati in questo studio lui era l’unico a scrivere le partiture a penna, contrariamente a tutti gli altri che scrivevano a matita”. Alla Forum Morricone ha registrato tutte le sue colonne sonore, “a parte Mission e Gli intoccabili, sono nate tutte qui”. Patrignani le elenca con una certa soddisfazione: “C’era una volta in America, Nuovo cinema paradiso, La leggenda del pianista sull’oceano, praticamente tutti i film di Tornatore”. Tra le particolarità di Morricone c’era la registrazione dei playback musicali, sorta di provini che gli attori potevano poi utilizzare durante le riprese, per entrare ancora meglio nella parte che erano chiamati a recitare: “Con i registi instaurava un rapporto di fiducia, Ennio si faceva raccontare il film o leggeva la sceneggiatura e quello gli bastava per immaginare le musiche. Così registrava questi playback musicali, accenni sulla melodia: l’8 giugno 1982 nacquero così al Forum le prime incisioni per C’era una volta in America”. Il rapporto più contrastato con Quentin Tarantino: “Ennio non ammetteva l’uso di musica di repertorio accanto alle sue composizioni. Per The hateful eight, che gli è valso l’Oscar, l’ebbe vinta lui: qui al Forum ha registrato le sovrapposizioni di tromba con Nello Salsa e ha missato tutto il lavoro”.
Non solo cinema: una volta Marco Patrignani è riuscito a convincerlo a tornare al lavoro di arrangiatore. Successe per Morrissey, che al Forum nel 2006 ha registrato tutto il suo album Ringleader of the Tormentos. Nel disco sono tanti i riferimenti a Roma, l’ambulanza iniziale in The Youngest Was The Most Loved, e poi Accattone di Pasolini, i film di Visconti, la Magnani, Piazza Cavour in You Have Killed Me. Morrissey vede le foto del Maestro nello studio, comincia a sognare una sua collaborazione per l’arrangiamento del secondo brano, Dear God please help me. Marco Patrignani si offre di fare da mediatore: “Andai a casa sua gli spiegai chi fosse Morrissey, la sua importanza nel mondo del rock: “Io non lo faccio”, mi disse, non mi fece neanche finire di parlare”, ricorda Patrignani. “Eravamo nel suo studio privato, ho insistito, tra noi ci davamo del tu: 'Ennio, stiamo parlando di una rockstar, è un poeta, un grande personaggio'. Lui lavorava a una colonna sonora, così mi permisi di dirgli che se avesse accettato questo non avrebbe complicato molto i piani di lavoro e non sarebbe poi costato molto allungare una sessione”. Ha voluto ascoltare il brano da arrangiare, poi ha chiesto le partiture e Bozz e il chitarrista Alan White si sono offerti anche se per loro era una richiesta lunare. Alla fine si è convinto: il giorno in cui l’orchestra l’ha suonata, dietro il vetro in regia con me c’erano Morrissey e il produttore Tony Visconti emozionati come ragazzini. Credo che quel giorno Morricone ha voluto farmi un regalo”.
Il rapporto del compositore con la città. Ennio Morricone e Napoli: musiche e magia da Pasolini a De Filippo e Ranieri. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2020. Nel 1961 era diventato il più giovane dei maestri a dirigere l’orchestra del festival del Giugno della Canzone Napoletana. Ennio Morricone aveva 33 anni. Come i più grandi artisti e musicisti italiani non ha mancato di confrontarsi con Napoli, con la sua cultura e la sua tradizione musicale. A poche ore dalla sua morte – a 91 anni, la scorsa notte a Roma – è tutto il mondo a omaggiarne il ricordo. Segno del fatto che Morricone non apparteneva a un posto e a un Paese: nella sua sterminata produzione aveva attraversato generi e latitudini anche molto distanti. Con Napoli ha tuttavia intrattenuto un rapporto speciale, dal quale sono nate opere memorabili, legate in qualche modo a personaggi o vicende della città. Non che questi lavori fossero sempre acclamati: una volta, ospite all’Università di Salerno, spiegò come alcuni suoi arrangiamenti di canzoni napoletane fossero stati odiati dagli stessi napoletani. Forse troppo innovativi. Ma questo non gli impedì di intrattenere con la città e le sue storie un rapporto prolifico e lungo decenni. Era in servizio a Napoli il militare interpretato da Gianni Morandi nel musicarello In ginocchio da te: la canzone, e il resto delle musiche, vennero realizzate proprio da Morricone (la stessa comparsa anche nell’ultimo film Premio Oscar Parasite). Così come quelle di Uccellacci e uccellini con Totò, di Pier Paolo Pasolini – con il quale nel 1971 collaborerà alle musiche del Decameron, girato a Napoli. Due anni dopo è il turno del Giordano Bruno interpretato da Gian Maria Volonté e diretto da Giuliano Montaldo nel 1973. Altra vicenda partenopea messa in musica dal maestro è quella dei fratelli Giuliano ed Angelo Amitrano, di Castellammare di Stabia, liberamente ispirata alle imprese sportive dei canottieri Abbagnale. Il film di Stefano Reali èdel 1993 si intitolava Una storia italiana. Di tre anni dopo l’adattamento del romanzo di Domenico Rea – premiato con lo Strega – Ninfa Plebea, diretto da Lina Wertmuller. Più recenti le collaborazioni con Massimo Ranieri per i lavori di teleteatro delle opere di Eduardo De Filippo, per la regia dello stesso Ranieri e Franza Di Rosa, come Filumena Marturano, Napoli milionaria!, Questi fantasmi, Sabato, domenica e lunedì.
Da Il Messaggero il 7 luglio 2020. Abbiamo perso un grandissimo artista, un grande musicista, forse l'italiano più popolare nel mondo. Di certo con Fellini quello che nel mondo del cinema tutti conoscono e apprezzano. Perché a dire il vero io, frequentando giurie e festival, anche Hollywood talvolta, non ho mai sentito qualcuno non dirsi estasiato per il talento espresso dal Maestro. A differenza di Fellini, però, la capacità di attrarre a sé le sensibilità più raffinate del rock, del rap lo ha reso più popolare tra i giovani di tutto il pianeta. Io ho perso l'artista che ha reso il mio debutto nel cinema perfetto, un battesimo che potevo solo sognare e che Sergio Leone, ha reso possibile: con quel fischio un po' malinconico, poetico di Leo che sale via Garibaldi a Trastevere, la sua Trastevere Un sacco bello si chiudeva nel modo più giusto, perfetto. La statura di questo Grande Romano, però, sta nella serietà con cui ha cominciato il suo viaggio per la nostra città: gli studi a Santa Cecilia, la tromba. Non uno che si improvvisa sulla scia di un altro grande compositore, ma la strada più lunga: allievo di Goffredo Petrassi e tra i creatori di un gruppo come la Nuova Consonanza. Musica per pochi eletti, che ha sempre amato e ha sempre rivendicato, per uno diventato poi una grande icona pop. Cercava la sua originalità e finiva per trovarla sempre e soprattutto nella sua Roma: preparazione e aria dei quartieri che ha frequentato, delle case che ha vissuto. La sua grande preparazione ha fatto sì che il Maestro avesse il grande talento di lavorare a 360 gradi, una tale sicurezza e competenza dal punto di vista dell'arrangiamento musicale che lo portava ad aiutare a diventare mito canzoni come quelle di Mina (Se Telefonando) o Edoardo Vianello (Abbronzatissima) o Morandi. Con un grande eclettismo cui ha dato sfogo soprattutto quando dai tempi mitici della Rca, grande ritrovo della musica leggera italiana degli anni Sessanta e Settanta, fece il grande salto a Cinecittà. E qui, ritrovando l'amico di sempre, dei giorni insieme da bambini, Sergio Leone ha dato sfogo a tutta la sua creatività: innanzitutto con la Trilogia del dollaro. Lui e Sergio Leone erano una stessa anima divisa sottilmente in due. Due grandi romani diversissimi, ma per me impossibili da pensare scissi: Ennio senza Sergio o Sergio senza Ennio. Ognuno ha esaltato il lavoro dell'altro. Morricone ha dato grandezza, potenza e soprattutto ironia ai film di Leone; Leone ha dato le immagini giuste per evocare quei temi al musicista amico. Ci sono temi come quello del Cimitero ne Il Buono, il Brutto e il Cattivo, che sono assoluti nella storia del cinema mondiale. E l'introduzione di strumenti musicali come lo scacciapensieri e il fischio divenuto marchio di fabbrica. Un'intuizione tutt' altro che banale, quella, che utilizzò con me: rendeva perfettamente la solitudine del personaggio centrale del film. Nella Trilogia di Leone era la solitudine di Clint Eastwood; è la solitudine di Leo, del Bullo nel mio film. Il fischio è anche scanzonato, come quelli che ascoltavano lui e Leone a Trastevere nei loro anni giovanili. Nei miei film un tema entrato nel cuore della gente, regalando la poesia e malinconia di un'estate solitaria. Ha esaltato i miei film. Ennio Morricone è stato molto ispirato da Ottorino Respighi, ce lo disse proprio in quella intervista fatta al Messaggero un anno fa: la trilogia romana del compositore è il disco italiano più venduto in America. Quell'orchestrazione imponente ha suggestionato molti compositori dei grandi film hollywoodiani, come Miklos Rosza, il grande compositore ungherese dei temi di Ben Hur; come lui anche Bernard Herman compositore di Hitchcock e John Williams. Molti di loro in Morricone hanno trovato un seguace ispirato di questo modo di comporre. C'è ancora un altro romano dietro il grande romano che ora piangiamo.
IL NOSTRO INCONTRO. Io con lui ho avuto un impatto pazzesco: Leone mi dice un giorno che andavamo a cercare l'ultimo componente della troupe. Entriamo nella sua villa all'Eur e lui mi dice: andiamo da quello che ha la dichiarazione dei redditi numero 3 d'Italia, una battuta che ho inserito poi in Compagni di scuola. Mi trovo Morricone davanti e provo a spiegargli il film, i tre personaggi, lui chiede il copione. Il giorno dopo mi convoca e mi dice: «Ho colto molta poesia nei tuoi personaggi: c'è molta solitudine». E Leone irrompe: «Ma fammi una cosa poetica, non depressiva». «No, Sergio, saremo ironici». Allo studio Trafalgar di piazzale Clodio, a fine riprese ascoltavo l'orchestrazione e dissi tra me e me: «Ha reso perfetto il film». Con una musica che doveva essere secondo Leone «scepliniana» con quella pronuncia romana accentuata del regista.
LA MUSICA SI FA A ROMA. Lui rifiutò di trasferirsi a Hollywood, lui doveva tutto a Roma, alla sua poesia. In California non avrebbe avuto la stessa ispirazione. E qui l'ho molto ammirato: coraggioso, saggio, rigoroso con se stesso. Come ammiro, questo suo essere un romano non facilone in nulla, è stato un enorme professionista che ha capito che la preparazione è tutto. Sarà difficile trovare un compositore amato così tanto nel mondo: lui è entrato nel cuore del mondo. Resterà immortale come Respighi, anche di più. A lui, lo remixano anche in discoteca, è nelle suonerie dei cellulati con l'urlo indiano ah ee ah ee ah. Roma la viveva con molto rigore. «Roma non è più quella di Un sacco bello», gli dicevo io. E lui un po' meno duro di me con i nostri vizi mi diceva: «Io la guardo dall'alto, non la trovo cambiata. Ma a me basta stare in alto, per questo scelgo gli attici. Che poi l'ispirazione mi arriva». Hollywood poi gli ha restituito qualcosa, non il pianto per l'ingiustizia di Mission senza l'Oscar.
Quella volta che incontrai Morricone. Il ricordo di un grande uomo più ancora che musicista unico. Elena Fontanella il 6 luglio 2020 su Panorama. Ennio Morricone era un uomo indimenticabile al primo incontro. Una simpatia sousa di ironia romanesca che strappava facilmente il sorriso, ma aveva soprattutto la fortuna di unire in sé una forte sensibilità del sacro a una lucida percezione matematica del mondo, cosa che, tra l'altro, lo rendeva un abile giocatore di scacchi (riuscì a pattare a scacchi una partita a Torino con il mitico Boris Spasskij). Ascoltare gli aneddoti della sua vita era piacevole, riusciva a renderli visibili, trasformandoli in piccole sceneggiature. Aveva, anche, quel particolare senso trascendente del tempo interiore e del ritmo naturale delle combinazioni numeriche che trasferiva nelle sue opere. Componeva senza bisogno della trascrizione al pianoforte, la melodia si creava nella sua mente. Non credeva nell'ispirazione, ma nel talento accompagnato dal duro lavoro. Quel giorno a Venezia, mi aspettava da solo, guardava il mare e le sue dita scarne tamburellavano sul bracciolo della sedia, lentamente come a cercare una melodia anche dal movimento delle onde. Sembrava l'attesa immobile di un messaggio. Quale musica sentiva guardando la natura? Disse che annusava l'aria, ascoltava la diversa intensità del vento sulla pelle: quando il ritmo interiore trovava uno spiraglio nel usso sarebbe nata l'idea. Era un concetto sciamanico della musica che incantava per la sua spiritualità. Amava nascondere messaggi nelle melodie: come nel Clan dei Siciliani dove quattro note si sentono ripetutamente (Si bemolle, La, Do, Si) che messe in la secondo la notazione tedesca indicano il nome di BACH che amava. Figlio di musicisti, come il padre studiava la tromba al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma anche se – raccontava – quando incontrava la sua futura moglie la nascondeva in una valigetta per non far capire quale strumento portasse: voleva lo vedesse come un compositore. Suo padre diceva che con la tromba aveva mantenuto la famiglia e lo avrebbe di certo fatto anche lui. Ebbe un inizio poliedrico (lui preferiva denirlo disordinato). Nella Roma in guerra suonava a tromba nelle orchestrine degli avanspettacoli poi, sfumato un posto da insegnante al conservatorio cominciò ad arrangiare canzoni per la radio e le riviste. Voleva dedicarsi esclusivamente alla musica contemporanea e nel 1958 partecipò ai laboratori di Darmstadt ai tempi dello sperimentalismo spinto. Poi venne il ruolo di arrangiatore con la RCA. «Ho arrangiato di tutto per guadagnarmi da vivere in tempi in cui musica commerciale e musica assoluta erano su poli opposti e ho imparato a manipolare la musica con libertà » - diceva - ma le canzoni con i suoi arrangiamenti restano indimenticabili: Sapore di Sale di Paoli, Ciao Ciao Bambina di Modugno, Ogni volta di Paul Anka, Se telefonando di Mina per ricordarne alcune. Esordì nel cinema nel 1961 con Il Federale grazie a Luciano Salce che fu profetico: «Non è famoso ma lo diventerà» disse a Dino De Laurentis. Da quel momento ha scritto per i più grandi registri e composto musiche per più di 500 lm. Anche se non gli piaceva essere ricordato come compositore di western, con Sergio Leone - suo compagno di classe nelle elementari – ebbe un sodalizio unico. Fu una vera amicizia, con qualche sana litigata. Leone non era mai contento, rifaceva fare le scene ai rumoristi per settimane. Conoscendolo, quando iniziavano le registrazioni e diventava insopportabile preferiva andarsene lasciandolo in balia dei musicisti. Morricone amava ricordare che il schio, diventato celebre nei lm di Leone fu un suo omaggio. Sapeva che gli sarebbe piaciuto infatti gli brillarono gli occhi appena lo sentì. Poi insisteva di metterlo in tutte le colonne sonore tanto che al terzo lm fu costretto a dirgli «A Se' , ebbasta schià!». Però dovette poi inventare un'altra onomatopea per "Per un pugno di dollari" con il coyote e due voci strozzate. Ci rideva sopra ricordandolo come un lm bruttissimo. I suoi ricordi più belli andavano a "C'era una volta in America" scritta a Los Angeles, a Elio Petri per cui compose la colonna di "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" , Bryan de Palma con "Gli Intoccabili" , a Pasolini, a Gillo Pontecorvo e all'amato Giuseppe Tornatore con "La leggenda del pianista sull'oceano". Le note che oggi più risuonano nel suo ricordo sono quelle di "Mission" dall'oboe di padre Gabriel (Jeremy Irons) nel tto della foresta del Paraguay. Il produttore del lm, Fernando Ghia, lo aveva trascinato a Londra per vedere il lm senza musiche facendolo piangere come un bambino. Studiò la musica sacra del Seicento, Claudio Monteverdi, Pierluigi da Palestrina, ritmi etnici e cori liturgici, poi l'intuizione e nacque "Gabriel's Oboe" , "Come in Cielo così in terra" , "Ave Maria Guarani" e tutta la colonna sonora nominata agli Oscar nel 1986 e vincitrice del Golden Globe e del BAFTA. Mai sceneggiature e musica risultarono così credibili storicamente tanto che, mentre andava a prendere i giornali in Piazza del Gesù (dove abitava prima di trasferirsi all'EUR), un gesuita lo avvicinò per chiedergli di scrivere la messa per i 200 anni dalla ricostituzione della Compagnia soppressa nel 1773. Bellissimo il ricordo del maestro Nazzareno Carusi, consigliere del Teatro alla Scala di Milano. «La gentilezza, la naturalezza, la spontaneità, l'umiltà e quasi la ritrosia che dimostrava erano incredibili a fronte d'una grandezza da gigante evidente a chiunque. Trasformava in musica qualsiasi cosa di cui parlasse. Anche dai suoi racconti di vita sentivi dentro di lui la vibrazione di note e armonie: nella descrizione dei fatti, nei dettagli, nel senso stesso dato ad una frase. La sua inventiva melodica, armonica, la sua genialità e la sua fantasia incommensurabile sono certamente un compendio di tutta la storia della musica che aveva in animo e nelle vene. E intorno all'ispirazione c'era un'immane mole di lavoro. Come in ogni genio, che racchiude dentro sé il mondo di ciò che è stato prima e di quel che avviene intorno a lui, e così intravede ciò che arriverà in futuro. Morricone è Morricone: inconfondibile. Per sempre».
Marco Giusti per Dagospia il 6 luglio 2020. “E ora io…?”. Ricordate la battuta finale di Rod Steiger in “Giù la testa”, quando alla fine del film, alla fine della rivoluzione, dopo aver visto massacri e centinaia di morti, quando ha proprio ha perso tutto, ha ancora qualcosa da dire allo schermo… Così siamo noi. Dopo aver saputo della morte di Ennio Morricone, qualcosa in più del compositore della musica dei film di Sergio Leone, di Quentin Tarantino, di Giuseppe Tornatore, di Bernardo Bertolucci, di Brian De Palma. Perché Morricone era il più grande. Più grande di Mozart, dice Tarantino. Forse. “Il meglio figo del bigoncio” diceva il vecchio maestro Angelo Lavagnino che lo conosceva bene, lo aveva avuto anche come allievo alla Chigiana di Siena, e che non si è mai lamentato di essersi fatto scippare da lui il posto di musicista di Sergio Leone. Sì. Perché prima di Morricone, quel ruolo era di Lavagnino. Poi arrivò “Per un pugno di dollari” e bastò quell’inizio incredibile con Clint Eastwood sul mulo che arriva dal nulla sotto all’albero con la corda per l’impiccato, entra nel paesino, quegli accordi e capimmo subito che non ci sarebbe mai stato più spazio per nessun altro. Che quelle immagini appartenevano a quella musica, e viceversa quella musica apparteneva a quelle immagini, anche se magari non era stata composta per quel film. Lo sappiamo tutti che Morricone dette a Leone non dei pezzi originali, ma un arrangiamento di “Pastures of Plenty” di Woody Guthrie composto per il cantante americano a Roma Peter Tevis e un pezzo tratto da un altro western, “Duello nel Texas”, girato da Ricardo Blasco un anno prima. I produttori di “Per un pugno di dollari”, Papi e Colombo, che avevano scritturato Ennio Morricone assieme agli sceneggiatori Castellano e Pipolo dopo il successo incredibile de “Il Federale” di Luciano Salce, primo film ufficiale del musicista, che aveva collaborato segretamente poco prima a “Morte di un amico” di Franco Rossi, insistevano con Leone affinché scegliesse tutto il pacchetto. Ma non funzionò con Castellano e Pipolo, che uscirono di scena perché, semplicemente, “non c’è niente da scrivere”, e sembrava non funzionare neanche con Morricone. Al punto che Leone sente la musica di “Duello nel Texas” e se ne esce con un “...mi è parso orribile, le musiche sembravano di un Tiomkin dei poveri. Ma il produttore ha insistito perché incontrassi Morricone. Sono andato a casa sua e lui mi ha riconosciuto subito. Eravamo stati compagni di classe in quinta elementare, al Saint Juan Baptiste de la Salle, dagli Scolopi, dove ho fatto anche il ginnasio e il liceo. Mi fece ascoltare un brano che i produttori avevano scartato e che io avrei usato nel finale del film e poi un disco che aveva fatto per un baritono americano che mi colpì subito. Gli chiesi di recuperare la base. Avevamo il motivo principale, mancava solo il cantante. Proposi di usare un fischio umano e nacque così la ditta Alessandroni & Company, che poi lavorò in tanti western”.
Fine della storia. Solo che una volta uscito il film in sala, esattamente come fece il mio amico Carlo Monni in quel di Firenze, dove il film ebbe il suo incredibile primo lancio, noi ragazzetti del tempo, rimanemmo tutti incantati da quelle immagini, da quelle battute e da quella musica. E non volevamo più uscire dalla sala. Monni lo vide tre volte e poi cominciò a ripetere a memoria le battute (“Al mio mulo non piace che si rida, perché pensa che si stia ridendo di lui…”). Io mi fissai sul duello finale, sia di “Per un pugno di dollari” sia del film successivo della ditta Leone-Morricone, “Per qualche dollaro in più”. Così comprai subito i dischi, i 45 giri, li mettevo sul piatto, con la pistola giocattolo ferma nel cinturone, aspettavo che la musica si fermasse per poter estrarre la pistola e Bang! Bang! sparare contro il cattivo Ramon. “Al cuore, Ramon, se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore”. Leone e Morricone la fanno facile. E forse fu più facile di quel che si possa credere. E non si può scordare che avevano dalla loro un “fischiatore” incredibile come Alessandro Alessandroni e dei chitarristi meravigliosi. Ma questo non spiega perché, dopo un’esperienza di quel tipo, nulla sarà più come prima. I nostri critici allora non lo capirono. E il marchio di infamia dello spaghetto western segnò per sempre il genere e anche la musica di Morricone, che riuscirà a avere il suo primo vero Oscar solo nel 2015 con “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino. Un capolavoro, dove Morricone rielabora temi scritti per “La cosa” di John Carpenter. Perché così tardi? Lo sapevamo tutti quanto fosse grande Morricone e quanto fosse amato in tutto il mondo. Ma ci sono voluti 50 anni, qualcosa come 500 colonne sonore, per fare digerire a Hollywood il successo dei film di Leone e la musica di Morricone e alla nostra critica l’importanza del genere all’interno della storia del cinema. E’ vero, Morricone non è solo western. Penso al suo lavoro sui film di Pasolini, da “La passione secondo Matteo” a “Teorema”, penso a quello sui film di Bertolucci, basterebbe “Novecento”, per non parlare dei film di Elio Petri, “Indagine” e “La classe operaia”, di “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo, a “Metti, una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi, a “Diabolik” di Mario Bava, perfino a “I pugni in tasca” e a “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio. E anche all’interno del western non è solo Leone. Basterebbero le colonne sonoro capolavoro di “Navajo Joe”, “Il mercenario”, “Il grande silenzio”, “Vamos a matar, companeros” di Sergio Corbucci, “Gli avvoltoi hanno fame” di Don Siegel, “La rega dei conti” e “Corri, uomo corri” di Sergio Sollima. Ce lo ha fatto capire perfettamente coi suoi film proprio Quentin Tarantino, forse non amato da Morricone, perché non lo spingeva nella tradizione più classica di Tornatore riportandolo alle composizioni degli anni ’60 e ’70, il paradiso dei cinefili. Ma Morricone deve a Tarantino, ammesso che valga qualcosa, tutta la grande rilettura della sua opera western in termini di popolarità internazionale, pensiamo solo all’uso che fa dei suoi brani in “Kill Bill” o in “Inglorious Basterds”, dove rilegge addirittura la marcetta di “Allosanfan” dei Taviani. E quindi gli deve la rimodernizzazione che nemmeno un buon regista amico come Tornatore gli avrebbe potuto offrire a livello così monumentale. Diciamo che magari non era questo che voleva Morricone? Preferiva lasciare ai posteri le sue ultime composizioni e non la musica di “Navajo Joe” e di “Il mercenario”, spostandosi dall’etichetta di spaghetti western che lo aveva martoriato per tanti anni? Eppure Morricone deve a Tarantino il suo unico vero Oscar, quello per “The Hateful Eight”. E questo lo voleva davvero. Lo aveva sempre voluto. Certo. Voleva vincerlo con la musicona di “Mission”, forse, piuttosto che con quella di un western. Senza rendersi conto che era arrivato a “Mission” proprio grazie ai suoi western e a Leone. Perché Leone e Morricone, in fondo, appartengono allo stesso sogno, alla stessa immagine. Che è quella che ci inchiodò al cinema da ragazzetti e che non ci faceva uscire dalla sala. A quei tre accordi. E, che gli piacesse o meno, malgrado tutto il lavoro che ha fatto negli ultimi venti-trent’anni, malgrado la sua sterminata conoscenza musicale, quello che vogliamo sentire tutti è proprio la sua musica degli anni ’60, quella composta per Leone e per Corbucci. Quella ci riporta a quello che eravamo noi. Piccoli spettatori. Che adesso siamo soli come il Juan Miranda di “Giù la testa”. Ma con la sua musica.
Marco Molendini per Dagospia il 7 luglio 2020. Non ho mai capito fino in fondo, ma ho sempre avuto il sospetto che Ennio Morricone ci facesse, come si dice a Roma. Sornione, ironico, pronto a smontare qualsiasi insidia che tendesse a mettere sul piedistallo il suo passato pop. «Prendevo 20 mila lire a canzone più le royalties sulle vendite. Ero contento. La mia vita è stata segnata dalla paura di restare senza lavoro, anche se non ho mai avuto bisogno di cercarlo. Ma, fino a venti anni fa, ero preoccupato del rischio di non portare soldi a casa» la sua risposta, deciso a sminuire il valore di quel passato e a rivendicare i giusti riconoscimenti per quello che ha fatto dopo e anche ad arrabbiarsi quando il suo talento non veniva premiato, come era successo quando non prese l'Oscar per Mission (che quell anno andò a Herbie Hancock per Round midnight). È vero, allora, faceva tutto quello che gli capitava a tiro. Arrangiamenti a getto continuo: un flusso, però, che ha segnato la colonna sonora di un decennio d'oro e si è stampato nella memoria comune. Proprio così, faceva tutto, Ennio: per Vianello ha scritto e arrangiato anche un pezzo (non passato alla storia) che si intitolava Cicciona cha cha cha (ha preferito non firmarlo usando lo pseudonimo Dansavio). Diceva : «Oh-oh-oh cicciona/Tu mi piaci così/Coi baci d'amore/Tu splendi come il sole/Oh-oh-oh cicciona/ Resta sempre così». Non è passata alla storia, giustamente è stata dimenticata, ma nella sfilza di canzoni che ha rivestito, rimontato, lucidato e ricostruito Morricone ha lasciato tracce abbondanti del suo genio popolare. Il giro di basso spezzato da tocchi dissonanti di pianoforte che introducono Sapore di sale che hanno segnato per sempre la sensualità delle spiagge d'estate, il barattolo fatto rotolare per annunciare Gianni Meccia che si lamenta di un amore che «tratta il mio cuore come fosse un barattolo», le discese e le risalite dei fiati mescolati alle voci del coro che canta A-A-Abbronzatissima, stessa formula usata per il twist Guarda come dondolo (erano gli anni in cui andavano le sezioni delle orchestre abbinate alle voci, come insegnava Ray Conniff), le trombe che annunciano la magnifica cavalcata di Se telefonando, l'intro sinfonico che fa da apripista a «gira, il mondo gira» di Jimmy Fontana, i clarinetti che mimano l'insistenza di un clacson in Go kart twist, il fischio che annuncia Pel di carota di Rita Pavone: «Un pezzo semplice e scemo» ce lo ha bollato un giorno intonando anche il tema. Morricone e con lui Bacalov sono stati i grandi artigiani della musica leggera italiana nel momento di massimo splendore, stilisti capaci di trasformare in oro quello che toccavano. Artefici di una fabbrica nazionale dei sogni musicali, dove le canzoni venivano montate e smontate come in una grande sartoria. Un luogo magico dove incontrare Mina, Frank Sinatra e Arthur Rubinstein alle prese (sublime il racconto che un giorno fece Paolo Conte, altro personaggio fisso degli studi di via Tiburtina) con una scatenata Loredana Bertè che lo vede mentre fa picnic nel cortile e lo apostrofa schiaffeggiandolo affettuosamente sulla testa: «Bravo il nonnetto che se mangia l’ovetto». Un luogo unico, nel mondo intero. Non si dilungava a ricordare quei tempi, il maestro Ennio. Sfuggiva. Le parole bisognava strappargliele. Li considerava, a torto, quegli anni una semplice occasione per svoltare economicamente: «Usavo la mia preparazione tecnica per scrivere arrangiamenti che potessero nascondere la mediocrità di certe melodie e rivelare le mie conoscenze tecniche», la sua risposta minimalista, quando un giorno provai a farlo sbottonare sul suo passato più pop. Le invenzioni che suggeriva erano frutto insieme del suo patrimonio familiare, figlio di un trombettista, dopo la guerra ha dovuto fare la gavetta per vivere, cominciando a lavorare a 15 anni, suonando la notte nei night dell'epoca come le Grotte del Piccione («in famiglia avevamo problemi economici, così suonavo nei night. L'ho fatto coi tedeschi e cogli americani che, però, non pagavano, ci davano cibo e sigarette che io rivendevo a pochi soldi», il suo ricordo), o come tromba di fila nell'orchestra del Sistina e poi arrangiatore per Garinei e Giovannini: «Studiavo ancora composizione con Goffredo Petrassi scrivevo arrangiamenti per Renato Rascel e Domenico Modugno e mettevo a frutto i miei studi di musica concreta». Le sue geniali trovate sonore nascevano dalle frequentazioni del mondo della musica sperimentale, come Nuova consonanza. Ma saper adattare così mirabilmente quegli strumenti alle esigenze comunicative della musica commerciale non è da tutti, presuppone un’inclinazione, un talento naturale, un gusto fondamentalmente popolare. Tutto quello che ha messo in pratica prima sulla materia bruta delle canzoni, poi nella scrittura di avvolgenti melodie da film, anche queste sempre condite da invenzioni bizzarre, il fischio, la chitarra country e lo schioccare di una frusta di Per un pugno di dollari, il piano dissonante di Indagine su un cittadino, il fischio seguito dal celebre «ua – ua- ua - uaaa» da pelle d'oca di Il buono, il brutto e il cattivo. «Io complico le mie orchestrazioni – la confessione -, gli accordi che uso sono semplici, solo tre suoni, quelli che si possono fare con semplicità alla chitarra». E la natura di Morricone che riviene fuori. Lui aspira a scrivere musica contemporanea, celebrativa, ma la sua indole popolare inevitabilmente finisce per rifarsi viva. Ma è proprio in questo il segreto del suo successo, che ha contagiato il mondo del pop. Gente come Springsteen o i Metallica aprono i concerti con la sua musica. Gli U2 gli hanno dedicato la loro Magnificent. E, alla fine della sua carriera, ha finito per trasformarsi lui stesso in popstar, capace di dirigere le sue musiche davanti a platee sterminate. Lo ha fatto fino all'ultimo, fino all'estate scorsa. E probabilmente progettava di farlo ancora. Non avrebbe mai lasciato questa professione finale come decise di fare quando andò a Sanremo con Paul Anka: «La canzone era Ogni volta. Quel disco vendette un milione e mezzo di copie, ma mi fece decidere di lasciare quel lavoro. Il fatto è che il direttore generale Ennio Melis mi chiedeva di ascoltare i dischi che arrivavano dall'America e di puntare su arrangiamenti come quelli, con le ritmiche molto spinte. Io, invece, amavo fare arrangiamenti italiani. Me ne sono andato e ho cominciato il lavoro nel cinema». Non si può dire che sia stata una scelta sbagliata. Eppure il Morricone più pop ha lasciato tracce indelebili del suo talento più naturale.
Ennio Morricone è pop, da "Sapore di sale" ai Pet Shop Boys. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Ernesto Assante. La sua visione era quella della "musica assoluta", e in questa visione c'era tutta la musica, anche il pop, anche il rap. Ennio Morricone ha arrangiato e scritto tantissime canzoni, la maggior parte sono diventate dei classici della musica italiana, in altri casi sono stati dei successi internazionali con artisti apparentemente lontanissimi dal suo mondo, come i Pet Shop Boys o Coolio. Ma Morricone non badava di certo a generi, stili o confini e fino alla fine della sua carriera ha esercitato la sua innata curiosità per ogni stile e suono. Il suo lavoro come arrangiatore e come autore di canzoni è stato certamente meno lodato e acclamato di quello per il cinema, ma non è stato, per molti versi, meno importante. Quando, giovanissimo, arriva alla RCA, a Roma, agli stabilimenti di via Tiburtina, Morricone, chiamato da Vincenzo Micocci e Ettore Zeppegno, ha ventisette anni e molta voglia di fare: "Alla fine degli anni Cinquanta", ricorda Zeppegno, "c’erano solo arrangiatori di servizio, a realizzare gli arrangiamenti era un batterista, dirigeva l'orchestra, era bravo a trovare i musicisti e veniva pagato per questo. Un giorno, però, ascoltai una base registrata con un arrangiamento magistrale e mi chiesi chi fosse stato a far suonare l'orchestra in quel modo. Seppi che era un giovane direttore d'orchestra e compositore che si chiamava Ennio Morricone. Io e Micocci lo chiamammo e gli chiedemmo se voleva fare degli arrangiamenti per noi a sua firma. Disse di sì e cominciammo con lui". Morricone viene dal mondo della musica classica, dell'avanguardia e ha in mente di rivoluzionare anche la musica pop: "Aveva teorie tutte sue, su arrangiamenti completamente privi di sezione ritmica, senza la batteria", ricorda Francesco Micocci, figlio di Vincenzo e discografico a sua volta, "Ma a mio padre queste idee piacevano, le trovava geniali e gli esperimenti erano all'ordine del giorno. Con Morricone andava moltissimo d’accordo, era spesso a casa nostra a viale Liegi dove abitavamo, passava da noi sempre la domenica, prima di andare allo stadio a vedere la Roma. Gli diceva ‘Aho, Micocci, ho bisogno di lavorare, mi dai qualche arrangiamento?’ Era giovane, era preoccupato del futuro, era insicuro e non riusciva a lavorare abbastanza. Mio padre gli fece fare gli arrangiamenti di Vianello e di Meccia, poi della Pavone, di Morandi. E faceva tante cose strane pur di trovare il suono originale di cui aveva bisogno: per Il barattolo di Meccia costruì un binario sul quale fece scorrere dei sassolini perché non riusciva a trovare il suono del barattolo che rotolava…". "Il mio obbiettivo era quello di arricchire musicalmente ogni canzone alla quale ho lavorato, anche se era mediocre", ci disse Morricone in un'intervista, "Ogni volta cercavo di realizzare una struttura musicale che avesse un fascino, un'autonomia, che potesse stare in piedi da sola anche se la melodia non aveva nulla di particolare. Non lavoravo come in una catena di montaggio, cercavo sempre soluzioni diverse". E così, oltre ad aver inventato il suono del Far West con le sue colonne sonore, e aver quindi contribuito a dar forma al nostro immaginario collettivo, ha inventato anche il suono dell'estate, quello che per generazioni ha segnato l'inizio della stagione delle vacanze, con arrangiamenti per Edoardo Vianello che hanno letteralmente fatto epoca. Pinne, fucili ed occhiali, Abbronzatissima, Il peperone, fanno parte del nostro bagaglio collettivo non solo per merito di Vianello, ma anche, moltissimo, per il suono che Morricone realizzava con la sua orchestra. Fino al capolavoro estivo per eccellenza, il gioiello di Gino Paoli, Sapore di sale, con il suono del basso elettrico suonato con il plettro, le poche note dissonanti di pianoforte e l’assolo di sax di un giovanissimo Gato Barbieri. "Con Morricone eravamo proprio amici", ci ha detto Paoli qualche tempo fa, “La cosa che ho sempre trovato incredibile e buffa è che fosse stonato come una campana, quando provava ad accennare qualcosa con la voce non si capiva mai niente. Ma eravamo sincronici, non c'era bisogno di tante parole su quello che volevamo fare". Il rapporto con tra Morricone e la canzone è andato avanti a lungo, sia come autore che come arrangiatore. Nel primo caso ha firmato successi del calibro di Se telefonando, portata al successo da Mina, Here’s to you, diventata un successo planetario cantato da Joan Baez, ha scritto per Luigi Tenco e Sergio Endrigo, ma anche per Zucchero, firmando la musica di Libera l’amore. Il suono della canzone italiana pop porta la sua firma come arrangiatore, con le canzoni di Jimmy Fontana (Il mondo), di Rita Pavone (tantissime, tra le quali La partita di pallone, Come te non c’è nessuno), di Gianni Morandi (In ginocchio da te, Se perdo anche te, ma anche C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones), fino Riccardo Cocciante (Quando finisce un amore). E non è un caso che Ennio Morricone sia stato amato profondamente dal mondo del rock e del pop, da artisti come i Clash, come David Byrne, ma anche Iggy Pop e gli U2, campionato e citato da Herbie Hancock e Quincy Jones, dal Wu Tang Clan ai Prodigy, dai Gorillaz a Jay Z, fino ai nuovissimi Khruangbin. Perché la sua musica era davvero assoluta e forse proprio per questo è stata amata da tante generazioni diverse e continuerà ad esserlo.
Ennio Morricone, non solo Leone. Tutta la musica intorno al cinema: da Joan Baez alla Piovra. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Emiliano Morreale. Ennio Morricone è stato, grazie al cinema, forse il compositore italiano più noto al pubblico del '900, dando ragione a chi vedeva nella musica da film l'erede, almeno come popolarità, dell'opera lirica. È lì infatti che, con incredibile prolificità, Morricone ha lavorato per sessant'anni ottenendo i maggiori successi. C’è, indubbiamente, una cifra- Morricone, uno stile imitato e ripetuto, che esplode nella partitura di Per un pugno di dollari. Al compositore dava comprensibilmente fastidio l'identificazione con lo spaghetti western, ma è indubbio che quella colonna sonora, pur riprendendo temi suoi e un’impostazione di certi compositori hollywoodiani degli anni precedenti, era rivoluzionaria. Per l’uso di strumenti non convenzionali (il fischio, la frusta) ma soprattutto per come faceva entrare una tradizione tutta italiana, melodica ma anche legata alla nostra tradizione folclorica e bandistica: si pensi all’uso della tromba, assai diversa dai western americani, e di quello strumento tipico del Sud Italia che è lo scacciapensieri. Inventore di melodie popolarissime, Morricone è stato però un grande sperimentatore segreto. Nell'amorevole libro-intervista che gli ha dedicato Giuseppe Tornatore, Ennio. Un maestro (HarperCollins), un paio d'anni fa il compositore ha raccontato i segreti del suo mestiere, con l'aria dell'artigiano sicuro dei propri mezzi ma mai presuntuoso. La sua formazione, il dividersi tra formazione classica e suonatore di locali, l'influenza di Stravinskij e Goffredo Petrassi, e una linea segreta di innovatore che rischia di sfuggire a prima vista. Ad esempio la scelta di ridurre le linee melodiche al minimo, fino a comporre melodie di soli due suoni (L'assoluto naturale di Mauro Bolognini), o, per La battaglia di Algeri, un tema i cui 4 suoni compongono il nome BACH, come casualmente aveva fatto, nel '660, Girolamo Frescobaldi. Il gusto del ritmo ossessivo e di un arco melodico ristretto caratterizzerà molte sue partiture, rendendole impossibile da dimenticare (si pensi alle poche note della sigla della Piovra a partire dalla seconda stagione). E forse è a confronto con certi generi popolari, più che dall’incontro con i grandi autori come Bellocchio, Pasolini o Bertolucci, che Morricone è stato più libero di scatenare la sua vena sperimentale: si pensi alle dissonanze e all'uso dell’elettronica nei thriller o nei cosiddetti "poliziotteschi" anni ’70: l'ossessivo tema discendente di Milano odia: la polizia non può sparare, il coro infantile e i rumori di L’uccello dalle piume di cristallo. Certo, Morricone era un grande autore di melodie, dalle canzoni di Sacco e Vanzetti cantate da Joan Baez al tema di Deborah in C’era una volta in America, a Mission. Ma il segreto stava anche nell’armonia e negli strumenti non convenzionali (i mandolini, il flauto di Pan, la voce umana usata come puro suono, i rumori): si pensi a due colonne sonore magistrali per polizieschi che anch'esse hanno fatto scuola, Il clan dei siciliani con xilofono e marranzano e il tango straniato di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Esponente di un'ultima grande stagione del nostro cinema, è stato inevitabilmente usato da registi americani come Brian De Palma e Terrence Malick (per il quale ha scritto la bellissima musica dei Giorni del cielo). Fino all’incontro con tarantino, che già aveva spesso saccheggiato sue musiche in molti film. The Hateful Eight gli è valso infine l'Oscar, giunto paradossalmente dopo quello alla carriera. Per una musica che ha sconcertato tutti, forse anche il regista, per quanto è essenziale, lontana da ogni seduzione, dall’idea che si aveva del “Morricone style”. Invece era il punto d’arrivo di una sperimentazione segreta che, nei decenni, si era fatta sempre più precisa e depurata.
Morricone, il fascino discreto dell'eccellenza. Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Ernesto Assante. C’è un'unica parola per definire Ennio Morricone, la più semplice, la più vera, è “musicista”. Nel senso pieno del termine, che indica “chi professa l’arte della musica”. Non un genere, non uno stile, non un suono, ma tutta la musica. Morricone ha dedicato tutta la sua vita alla musica, è stato un compositore d’avanguardia e un arrangiatore pop, ha dimostrato con la sua vita, la sua arte, la sua carriera, che chi divide la musica in alta e bassa non ha probabilmente capito la musica. Non che lui non facesse le dovute differenze tra il suo lavoro con Nuova Consonanza e quello con Edoardo Vianello, non confondeva di certo la musica di Mission con la Serenata passacaglia, ma trattava con lo stesso rispetto ogni nota che creava, ogni musica che scriveva. Conosceva il linguaggio della musica nella maniera più profonda, proprio perché aveva studiato con Goffredo Petrassi e aveva, trentenne, arrangiato in maniera geniale e innovativa Sapore di sale, proprio perché sapeva essere libero e creativo sia quando lavorava alle proprie opere, alle sue composizioni da camera o orchestrali, sia quando si metteva al servizio di un regista o di un cantante. Umile, di certo, disponibile, simpatico, romano e romanista fin nel profondo, Morricone non ammetteva, però, niente al di sotto dell’eccellenza, era splendidamente intransigente quando si trattava di qualità, era attento e minuzioso, preciso e meticoloso. Ma era anche straordinariamente appassionato, marito innamoratissimo della sua Maria con la quale ha condiviso dal 1956 ogni momento della sua vita, padre di quattro figli, amico di tanti con i quali ha condiviso non solo l’arte ma anche il divertimento. Pensare alla musica è come avere un rapporto l’ignoto, è un modo di cercare l’anima del mondo. Ecco, forse Ennio Morricone quell’anima l’aveva trovata e aveva provato a raccontarla a noi, miseri mortali, attraverso le sue composizioni. Musiche che potevano commuovere, fare paura, svelare misteri, mostrare meraviglie, musiche che facevano vivere le cose oltre alle persone, che rendevano vera la finzione, che trasformavano, modificavano, modellavano le immagini che vedevamo con i nostri occhi, davanti a noi. Creatore, dunque, non solo compositore, divino artefice, con le sue idee, con il suo pianoforte, con la sua bacchetta, del mondo in cui viviamo. Che sarebbe stato diverso, e peggiore, senza la sua musica, perché Morricone ha contribuito a influenzare l’immaginario collettivo del pianeta, ha influenzato legioni di musicisti di ogni latitudine, ha segnato la canzone d’autore, il rock, il pop, e non c’è generazione, in tutto il mondo, comprese le ultimissime, che siano rimaste immuni dalla sua influenza. E’ stato un colosso della cultura italiana, ha lavorato con tutti i grandi registi del nostro paese, da Leone a Tornatore con i poeti migliori, da Pasolini a Sanguineti, è stato impegnato e coinvolto nella vita civile e politica italiana, non si è mai tirato indietro quando si trattava di combattere qualche battaglia non solo per la cultura e per l’arte, ma anche per gli ultimi e i dimenticati. Un grande uomo, dunque, non solo un’artista.
È morto Ennio Morricone, una vita dedicata a musica e cinema. Morricone è morto, ma la sua musica no. La sua musica ci accompagnerà ancora, renderà spettacolari alcuni nostri momenti privati, li trasformerà in film, in leggenda, in meraviglia, lo faranno le sue note che ancora, vive e presenti, ascolteremo con i nostri sensi, lo faranno le sue composizioni, che hanno illuminato con rigore e passione il secolo scorso e quello che stiamo vivendo, attraverso il lavoro di grandi orchestre in tutto il mondo e di giovanissimi musicisti che lo hanno scoperto da poco e che porteranno avanti la sua eredità. La sua musica è un regalo magnifico che ci ha fatto e che dovremo conservare con amore, rispetto e orgoglio.
Da calciomercato.com il 7 luglio 2020. La colonna sonora di molti italiani rimanda direttamente al genio di Ennio Morricone, maestro assoluto, musicista e compositore che ha segnato in maniera definitiva la nostra memoria collettiva lasciando - con sue le musiche ad accompagnare decine e decine di film - una traccia pulsante di emozioni che scavalla le generazioni e appartiene a tutti. Morricone si è spento ieri, aveva 91 anni, era da giorni ricoverato in una clinica di Roma per la rottura del femore: da “C’era una volta in America” a “Mission”, da «Per un pugno di dollari” a “Nuovo Cinema Paradiso”, dai film di Sergio Leone a quelli di Quentin Tarantino il suo lascito è enorme e inestimabile. Vogliamo qui ricordarlo nella prospettiva calcistica di un romano verace, tifosissimo della Roma fin dall’infanzia, fin dai tempi della scuola, frequentata con un amichetto che sarebbe diventato un compagno di avventura nella vita: Sergio Leone (che invece era laziale). Andavano all’Olimpico insieme e - per compiacerlo - Leone si mischiava con i tifosi giallorossi. La cosa andò avanti per parecchi anni. Una volta - durante un derby - Leone si alzò ed esultò come un forsennato ad un gol della Lazio. Al che Morricone ci rimase di sasso e scherzosamente (ma chissà poi quanto) disse all’amico: «Da oggi in avanti a vedere la Roma con te non ci vengo più». Il battesimo però avvenne ancora prima, al Campo del Testaccio, accompagnato da suo padre. «Avevamo un posto in piedi dietro alla porta, ero a pochi metri da Guido Masetti…- ha raccontato Morricone al sito ufficiale della Roma qualche anno fa - quel giorno in porta c’era lui mi sembra di ricordare, era un Roma-Juventus 1-0». Quella partita - nel racconto di Morricone - servì a «cancellare una macchia». Era successo infatti che il futuro compositore, cominciata la prima elementare, si era dichiarato tifoso della Lazio, ma senza un motivo particolare. In quella classe c’erano tanti bambini rifossi della Lazio, e così Ennio si era accodato. «Aho, sei laziale anche tu?», gli avevano chiesto. E lui: «Certo che so’ laziale!». Appena lo seppe il padre gli volle parlare. «Mi hanno detto che tifi Lazio», gli disse. E il piccolo Ennio rispose: «Sì, ai miei compagni ho detto che tifo Lazio». Ma non era molto convinto neppure lui. Tanto che la risposta del padre - Ma non ti vergogni?» - seguito da «una pizza» in faccia, servì a fugare ogni dubbio. «Ci pensai un po’ su e diventati subito romanista», spiegò Morricone al magazine ufficiale del club, «La Roma». Il suo idolo era Giacomo Losi, il «Core de Roma», quindici anni in giallorosso dal 1955 al 1969, 455 presenze totali e 2 sole reti, terzo romanista di ogni epoca dopo Francesco Totti e Daniele De Rossi. Di Losi Morricone apprezzava il coraggio, la lealtà, lo spirito indomito; tutte le qualità che ne fecero una leggenda giallorossa." In quell’intervista Morricone ricordava anche un Roma-Juventus 2-1 del 1993 come «una delle partite più belle a cui ho assistito». Quella volta la Roma - allenata da Boskov - vinse in rimonta, dopo che la Juve del Trap era passata in vantaggio con un gol di Roby Baggio. Di Giannini e Hassler i gol dei giallorossi. Era un tifoso tranquillo, non si agitava. Nel libro “Ennio un maestro”, nella conversazione fra Tornatore e Morricone su musica e cinema, emerge questo ricordo calcistico: «Mi arrabbio quando la Roma sbaglia, ma sono un tifoso composto, quando la Roma segna resto seduto, nemmeno allo stadio mi lasciavo andare. Chissà, il mio era una specie di pudore». Morricone ebbe anche un ruolo ufficiale nella consulta di «romanisti doc» creata nel 1991 dal presidente della società Giuseppe Ciarrapico. Tra gli altri c’erano anche Antonello Venditti, Lando Fiorini, Ornella Muti, Loretta Goggi, Lorella Cuccarini, Gigi Proietti. Tra le centinaia e centinaia di colonne sonore ce n’è anche una molto particolare: è l’inno ufficiale dei Mondiali del 1978 in Argentina, i Mondiali dei generali nel paese sotto dittatura, il torneo dietro il cui sipario si celavano le torture e gli assassinii, le morti e i desaparecidos. A Morricone quell’inno non piaceva nemmeno tanto. Da perfezionista quale era, non gli sembrava un prodotto riuscito. Decisamente più soddisfacente invece era il risultato ottenuto per l’inno ufficiale di Milano-Cortina 2026 scritto con Mogol, opera che di fatto chiuderà la straordinaria carriera di uno dei più grandi compositori dell’ultimo secolo di musica.
Articolo integrale su La Repubblica l'8 luglio 2020. Ennio Morricone non amava essere criticato dai registi con cui lavorava. E sapeva infuriarsi quando qualcuno metteva in dubbio l’efficacia delle sue partiture. Se lo ricorda bene Oliver Stone con cui il compositore romano collaborò per la colonna sonora di “U Turn - Inversione di marcia”, un thriller con Sean Penn e Jennifer Lopez, girato nel deserto dell’Arizona. Il regista - intervistato da Silvia Bizio per “la Repubblica” - ricorda le divergenze di opinioni con Morricone sul suo lavoro: “Mancava qualcosa nella sua colonna sonora, solo metà mi era piaciuta molto, allora gli chiesi di scrivere altre cose e si arrabbiò moltissimo. Morricone era convinto che quello che aveva scritto andasse bene, e arrivederci. Ma io non mollai la presa e lo feci tornare in America una seconda volta, cosa che lo fece andare in bestia anche perché non amava viaggiare, gli piaceva starsene a Roma”. Tra i due ci furono incontri carichi di nervosismo e battibecchi, non riuscivano a intendersi sul prodotto finale: “Cercavo di spiegargli - ricorda Stone - che tipo di musica immaginassi per il lato avventuroso del film, una cosa tipo il cartone animato Willy il Coyote. Ricordo di avergli mostrato dei fumetti di Tom & Jerry con musica be-bop, jazzy, bee bee boom, bam, boom... Mi guardò e disse: "Cioè, vuoi che io scriva musica per cartoni animati?". Gli risposi: "Esatto. Dopotutto, è proprio quello che hai fatto per i film di Sergio Leone"”. Morricone reagì malissimo ma riuscì comunque a trovare il modo di accontentare Oliver Stone: “Non la prese bene. Non aveva un grande senso dell'umorismo, e io lo stavo provocando. Ma alla fine per U Turn scrisse la musica perfetta. Sapeva mettersi al servizio dei registi, anche quando gli facevano girare le balle. Era il massimo del professionismo”.
I brani provengono da due autobiografie-intervista realizzate da Ennio Morricone negli ultimi anni di vita. La prima parte proviene da “Inseguendo quel suono: la mia musica, la mia vita” (Mondadori) scritto con Alessandro De Rosa. La seconda parte proviene da “Ennio un maestro” (Harper Collins) scritto con Giuseppe Tornatore. Sono ricordi dal set e dalla vita privata e non del maestro morto lunedì all’età di 91 anni. Autore di canzoni, composizioni e colonne sonore memorabili, è stato celebrato da tutti i giornali del mondo.
Brani pubblicati da il Giornale l'8 luglio 2020.
SERGIO LEONE. «Alla fine del '63, un giorno squillò il telefono di casa. Buongiorno, mi chiamo Sergio Leone Il tale disse di essere un regista e senza farla troppo lunga aggiunse che mi sarebbe venuto a trovare di lì a poco per discutere più dettagliatamente di un suo progetto. All'epoca vivevo a Monteverde Vecchio. Il cognome di Leone non mi era nuovo, ma appena me lo trovai davanti sulla porta di casa qualcosa nella mia memoria si attivò immediatamente. Notai da subito un movimento del labbro inferiore che mi ricordava qualcosa: quell'uomo assomigliava a un ragazzino che avevo conosciuto in terza elementare. Gli chiesi: Ma tu sei Leone delle elementari?. E lui: E tu Morricone che veniva con me a viale Trastevere?. Da non crederci».
PASOLINI. «Un po' come tutti leggevo i giornali, molti dei quali, per infangarlo, lo accusavano di episodi da cronaca nera, autentiche falsità, come quella di aver rapinato un benzinaio! Quando lo conobbi mi trovai davanti un uomo laborioso, serio, una persona rispettosissima e onesta, che agiva con grande discrezione. Mi colpì profondamente, tanto che di quel primo incontro conservo ancora oggi un ricordo prezioso. Parlaste subito del tuo contributo al film? Sì: tirò fuori dalla tasca una lista sulla quale aveva annotato una serie di musiche molto note che voleva fossero applicate al film. Mi chiese gentilmente di adattarle dove fosse necessario. Quella modalità, però, a me non andava a genio, e replicai che come compositore non mi sarei occupato di semplici adattamenti di pezzi altrui, belli o brutti che fossero. Così dicendo, aggiunsi che molto probabilmente aveva sbagliato a chiamare proprio me. Rimase in silenzio qualche secondo, interdetto, e poi su due piedi mi disse: «Allora faccia quello che vuole».
CLINT EASTWOOD. «Io e lui non ci sentiamo mai. Per via dei film di Leone il grande pubblico vi vede come due vecchi amici, quasi compagni di scuola, ma in realtà non musicasti mai un suo lavoro. I suoi sono bellissimi film, e ritengo magistralmente scritti e realizzati sia Million Dollar Baby (2004) sia Gran Torino (2008). Eastwood è un ottimo autore con una grande personalità. Devi sapere che, quando divenne regista, Eastwood mi chiamò. Io dissi di no per riguardo nei confronti di Leone. Non me la sentivo di fare le musiche per lui, che aveva recitato nei film di Sergio: mi sarebbe sembrato un tradimento della nostra amicizia. Parrà assurdo, ma è così. Mi contattò due volte, poi capì il mio pensiero e non lo fece più. Mi sentii sollevato quando seppi che aveva cominciato a comporsi le musiche da solo Meno male mi dissi».
DARIO ARGENTO. «Dario Argento era ai suoi esordi e pareva ben disposto a tali sperimentazioni. A un certo punto, però, suo padre Salvatore, il produttore, mi prese da parte e mi disse: A me pare che lei stia facendo la stessa musica in tutti e tre i film. Gli risposi: Guardi che è diversa, se la sentiamo insieme le spiego anche il perché. Così andammo in sala e ascoltammo tutto, ma non credo che arrivammo a capirci fino in fondo. Il problema era suo? Era mio? Da quell'esperienza capii che per qualcuno la dissonanza rappresenta un problema: se utilizzata in modo protratto nel tempo, con i dodici suoni, fa perdere quei riferimenti armonici funzionali o comunque il fil rouge melodico che generalmente guida l'ascolto, nonostante in quel caso io avessi cercato di compensare. Dentro mi ripetevo: E la dodecafonia? La mia ricerca? Ora dove la metto?. Ma non c'era modo di spiegarlo: a lui quella musica suonava sempre uguale. La collaborazione con Dario Argento si interruppe dopo questo episodio e riprese solo quindici anni più tardi (La sindrome di Stendhal, '96). Loro non mi chiamarono e io non li cercai. Mi ostinai, continuai a sperimentare con altri film che mi consentissero questa ricerca, dandomi sempre maggiore libertà. Tentai di tutto! Arrivai a livelli di complessità piuttosto elevati utilizzando organici particolari e continue invenzioni, date dal contesto del film, ma dopo circa ventitré o ventiquattro esperimenti di questo tipo mi fu fatto notare che proseguendo su questa strada non mi avrebbe più chiamato nessuno».
LAURA PAUSINI. «All'incirca un paio di anni fa viene a casa mia Laura Pausini, con il marito, la bambina e il suo produttore. Mi chiede l'arrangiamento per La solitudine, il suo primo successo, raggiunto quando aveva vent' anni. Vuole riproporla, la canzone è bella e lei la canta molto bene. Il problema è che parliamo di un pezzo di vent' anni fa che ha avuto successo in quel contesto storico, quindi non potevo scegliere la normalità. Dovevo concepire un arrangiamento che usasse in modo aggressivo un tema semplice, non doveva restare passivo con melodia e armonia. Ti confesso che mi ha fatto soffrire. Non dico che stessi per ammazzarmi, ma ho lavorato duramente perché con l'arrangiamento il pezzo conquistasse, vent' anni dopo, una svolta, un volto diverso. Davvero, mi è costato fatica, ma lei è stata molto contenta. Ne è rimasta colpita quando l'ha sentita per la prima volta, non s' aspettava tanta tensione, però l'ha accettata e le è piaciuta. Durante uno spettacolo ha anche voluto darmi un premio, un microfono finto».
Ennio Morricone, Pestalozza, Puccini, Talete e la musica d’avanguardia. Alberto Veronesi, Direttore d'orchestra, su Il Riformista l'8 Luglio 2020. A proposito del grande compositore Ennio Morricone, vorrei citare un episodio di molti anni fa. Giuro su quanto ho di più caro che questo fu il tenore della discussione che avemmo fra di noi quel giorno. Eravamo in un bar totalmente anonimo di fronte al Centro Asteria di Milano, la nostra sala prove di Milano, in Viale Giovanni da Cermenate a Milano. Era il febbraio 1996. Era mattina. “Ma sei sicuro che viene?” chiesi al prof. Luigi Pestalozza, direttore artistico della rassegna Musica nel nostro tempo, che stavamo curando con la mia giovanissima orchestra Cantelli per il Teatro alla Scala. “È un compagno, arriva, arriva….Non é il personaggio che pensi che sia, vedrai é molto diverso”, mi rispose con la sua espressione furba Luigi. Finalmente Ennio Morricone, in giacca e cravatta, magro, affilato nel volto, entra nel bar e si siede con pochi convenevoli con noi al tavolino. Serissimo “dammi del tu Alberto”, “Maestro ho difficoltà a darti del tu….il brano che ha scritto é bellissimo, soprattutto mi piacciono quei gesti di rapidissime scale cromatiche ascendenti con tutti gli strumenti a cluster,….vedrà che sarà felice di come lo suonano i nostri musicisti …..”. E lui: “Alberto se non mi dai del tu mi alzo e me ne vado…. e poi non farmi i complimenti, fammi qualche critica piuttosto”.
Io: “ehm…. Ennio….sono onorato che Tu abbia scritto un pezzo per noi, in prima mondiale: ….mi piace perché é un brano di musica contemporanea pura, quasi descrittivo nei suoi gesti plateali, diciamo che….beh, che uno non si aspetterebbe un brano così sperimentale da un maestro come Te…di cui sono celeberrime le melodie …é adatto a cominciare il programma ed é coerente con lo stile di altre musiche appena scritte….Vacchi, Donatoni, Melchiorre, Galante, Sciarrino…che sono presenti nel programma della serata…”
Ennio: “Alberto, questa é la musica che amo, io scrivo per il Cinema solo perché con la musica contemporanea non si sopravvive, ma sono stato allievo di Petrassi. E poi sono tanto amico di Luigi…, ma ripeto fammi qualche critica..”
Io: “L’unica cosa che posso dirti é che non hai messo il titolo del brano….Lo eseguiremo tra qualche giorno alla Scala … e non c’è il titolo…Cosa scriviamo in locandina?…”
Ennio: “Mah…non ci avevo pensato…, normalmente non do il titolo ai brani…”
Luigi: “ma quale titolo!…non é necessario scrivere il titolo… scriviamo brano di Ennio Morricone in prima assoluta…”
Io: “io un’idea ce l’avrei…, il quartetto d’archi, che eseguiremo con l’orchestra, dedicalo a Luigi, fra poco é pure il suo compleanno, propongo: “a Luigi Pestalozza”..
Ennio: “Alberto, così porta sfortuna, sembra la commemorazione di un morto!”
Luigi: “non se ne parla, niente commemorazioni! …io sono vivo e vegeto!….”
Ennio: “é vero, fra poco é il tuo compleanno Luigi, e siamo dello stesso anno, anch’io sono del 1928….. direi allora così “a L.P. 1928”, così sembra che celebriamo il nostro anno di nascita…”
Io: “bene..approvato!…Brindiamo!….”
Ennio: “vedete….in realtà vi sono molto grato…, non mi capita spesso che mi commissionino brani di musica pura…per questo ho accettato del tutto gratuitamente.”
Luigi: “é un peccato, lo sai che ti ho sempre stimato anche come compositore d’avanguardia…”
Ennio: “vi voglio confidare una cosa….odio la musica per il cinema, odio la musica per il Teatro, odio la musica di circostanza…..”
Io: “non si direbbe…hai scritto tali capolavori….le tue colonne sonore assomigliano a delle sinfonie …..e poi mi piacciono gli effetti…la frusta, il fischio, alcuni strumenti strani che usi…., la voce senza parole come in “C’era una volta il west”…sembra la Butterfly nel coro a bocca chiusa di Puccini…e poi come usi la tromba…per esempio in “per un pugno di dollari”...
Ennio: “certo.. sono diplomato anche in tromba…, ma la verità é un’altra …io gli effetti li uso per sporcare la musica…. cioè insomma per vendicarmi della musica che faccio….perché la amo certo, ma la odio anche…..”
Luigi:” la odi….che dici Ennio…”
Ennio: “Io ho iniziato come compositore serio…, diploma di conservatorio, studi seri…, contrappunto, polifonia, armonia….studio degli autori….”
Io: “lo so …nel tema struggente di Deborah in “c’era una volta in America”…c’è la citazione del concerto per violino di Beethoven..”
Ennio: “fammi finire…ho cominciato a fare concorsi…a insegnare….per campare ho dovuto pure suonare la tromba nei night club…”
Luigi:” ..non c’è nulla di male…”
Ennio:”…ero apprezzato dall’ambiente accademico…poi questi film e questo successo che é arrivato….sono il mio più grande cruccio ….perché …insomma…non vengo più chiamato per i concerti seri…quelli con le orchestre sinfoniche serie …nei teatri lirici seri…i critici snob non mi considerano….é un tipo di notorietà che...non mi va a genio……io vorrei essere apprezzato come Stockhausen …come Berio…come Nono…e invece sono solo un compositore di belle melodie…per questo le sporco…e le nobilito anche…con i rumori…i fucili, le locuste…i treni..”
Luigi: “…sbagli Ennio ad avere questa idea di te…la musica, come ci insegna anche Shostakovich, deve, in certi casi, essere comprensibile al popolo..uno strumento per accompagnare il popolo…meglio se in film di sinistra…di riscatto sociale...”
Ennio: “Luigi…quello che dici é esattamente la ragione che mi fa andare avanti…il mio amore per Mahler…per Shostakovic…per Puccini…”
Io: “e poi ..ehm …..Ennio…credimi..a Luciano Berio farebbe piacere scrivere come te, sono sicuro che é invidioso della canzone “Se telefonando” che hai scritto con Maurizio Costanzo per Mina. Berio, lo sai, ha scritto le Folk Songs, che abbiamo eseguito molte volte….vero Luigi?”
Luigi: “é interessante…in Folk Songs é un autore di musica contemporanea che si cimenta con musica popolare……con L.P., e ti ringrazio ancora della dedica, un autore come te….famoso per la popolarità della tua musica…si cimenta con la musica contemporanea…”
Io: “ devo dire che io preferisco la tua….di musica contemporanea….perché c’è sempre una comunicativa immediata…..un po’ come lo Stravinsky dodecafonico….si sente sempre la capacità comunicativa di chi proviene dal classicismo ….rispetto a chi proviene dallo strutturalismo….come Stockhausen o Boulez”.
Ennio: “…..non mi toccare Boulez e Stockhausen….altro che Stravinsky…”Pli selon pli” …”le marteau sans maître”…”Gesang der Jünglinge” sono capolavori…Magari fossi come loro….”
Luigi:”Ennio…tu hai un compito storico…istruire le masse con la tua musica…..e il cinema é un ottimo mezzo per fare questo….devi smetterla con questa coscienza infelice, per dirla con Hegel, questo voler essere sempre da qualche altra parte….”
Ennio: “di Hegel citerei meglio la dialettica Schiavo Padrone….delle volte mi sento solo lo schiavetto dei registi che mi dicono cosa fare….”
Luigi: “vedrai che vincerai dei premi Oscar….. e allora cambierai idea..capisco cosa intendi …..Adorno ha detto agli intellettuali, con la Dialettica Negativa, che il loro scopo é porsi in una dialettica continua di critica feroce del linguaggio ufficiale….capisco …ti sembra con la tua musica di tradire il messaggio di Adorno….ma anche il compositore per la cinematografia é un intellettuale…, egli lavora con il regista ….e il suo messaggio, di critica…sarà molto più dirompente…ricordiamo Gramsci…la “connessione sentimentale”…
Ennio: “tu credi che il mondo accademico della musica mi ricorderà?”
Luigi: “certo…tu sei come il nostro Talete...”
Io: “che c’entra Talete di Mileto…”
Luigi: “Talete, il primo filosofo della storia, pur essendo un grande pensatore, viveva in povertà. Un suo amico, dedito al commercio, gli disse un giorno…."Talete tutta la tua filosofia non serve a nulla, se poi vivi in povertà…..io sono meno intelligente di te, ma vedi come vivo in prosperitá con i miei commerci"…..Talete lo fissò negli occhi e non parló…si ritirò nel suo studio…fece qualche calcolo…previde un grande raccolto di olive per l’anno seguente…si fece prestare dei soldi e noleggió per un anno tutti i frantoi di Mileto…la gente pensava che avesse perso il senno…le olive scarseggiavano…quando venne il raccolto tutti andarono da Talete a chiedere i frantoi…. e lui li affittó a cinquanta volte il valore….tornò dal suo amico e gli disse…’vedi sono diventato ricco..ma non so che farmene di questa ricchezza…io sono un filosofo …un filosofo può diventare ricco quanto e più di te…..semplicemente non é interessato…”
Ennio: “anch’io non so che farmene di questa ricchezza che comincio a accumulare …”
Luigi: “….tu sei la dimostrazione per tutti noi…..il compositore di talento, anche di avanguardia, potrebbe diventare celebre e facoltoso quando vuole….semplicemente non vuole….e tu rappresenti la nostra superiorità di fronte al mondo….”
Ennio: “Luigi mi hai convinto….continuerò a scrivere per il cinema….”
Ennio Morricone, riposi in pace, commemoreremo il grande compositore, con le ultime musiche scritte da lui, inedite, al Festival Puccini di Torre del Lago, venerdì 10 luglio, in occasione della piece di Valerio Cappelli “ci sono giorni che non accadono mai” con Castellitto e la Ferrari. Vi aspettiamo.
«La musica è fatica ma non smetterei»: l'ultima intervista di Ennio Morricone alla «Gazzetta». Perchè si licenziò dalla Rai, il progetto del concerto in Fiera a Bari e il rapporto con Rota. Disse alla «Gazzetta»: ho sentito sofferenza creativa. Enrica Simonetti il 07 Luglio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La musica è fatica: è il messaggio che il Maestro lascia al mondo. Nell'ultima intervista alla Gazzetta, quasi un manifesto per l'universo musicale in cui da sempre talento e improvvisazione si scontrano, quasi una strada aperta verso il futuro. Ennio Morricone portava questa meravigliosa «fatica» sulle spalle con l'energia di un giovane musicista, con quella mano fatata che ha creato quasi per magia motivi indimenticabili, dalle oltre 100 composizioni di musica assoluta, alle 400 colonne sonore fino ai concerti diretti e ai progetti che non lo hanno lasciato mai, nemmeno oltre la soglia dell'età. Un anno fa, nella platea del Petruzzelli per il Bif&st, salutava e stringeva mani, scherzava sulle chiavi della città di Bari che gli erano state consegnate. Lui che ha suonato al Petruzzelli prima dell'incendio, al Piccinni e all’auditorium «Nino Rota», lui che era atteso sempre a Bari all'Arena della Vittoria nel 2015, ma poi il concerto saltò, mentre si pensava ad un grande evento alla Fiera del Levante. Il grande interprete di quell'abbandonarsi ad un motivo e lavorarci su, stile inconfondibile è il nostro «C’era una volta il Novecento». Aveva un modo tutto suo di rispondere alle interviste e qui di seguito ripubblichiamo stralci dell'ultima rilasciata alla Gazzetta.
Maestro Morricone, lei ha segnato la storia del cinema firmando le colonne sonore di tanti, tantissimi film. Ma da «Giù la testa» a «L'uomo delle stelle», c'è una di queste musiche che lei ha amato di più? E perché?
«Sono affezionato a tutte le mie musiche, mi creda, e lo sono moltissimo, perché per tutte ho lavorato duro e ho provato grande sofferenza creativa. Ma se proprio dovessi scegliere una, penserei con affetto alle belle musiche di film buoni che però non hanno avuto successo come ad esempio Un uomo a metà di Vittorio De Seta e Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri».
Ci sono musicisti come ad esempio i Metallica che usano il suo brano “L'estasi dell'oro” per introdurre i loro concerti. E lo stesso fanno i Ramones ed altri: cosa pensa delle contaminazioni musicali e della nuova musica?
«Mi piace questo fenomeno, ci mancherebbe. Bruce Springsteen trasmette prima dei suoi concerti un mio disco originale. E anche gli altri che lei ha citato, pur preferendo una loro esecuzione, portano la mia musica ai loro concerti. Non mi dispiace affatto, ovviamente sempre che ci sia qualità, ma mi accorgo da questo sintomo che sono attenti alla mia musica. Le contaminazioni sono belle e interessanti: certo, vanno fatte bene».
Guardiamo indietro: lei a 18 anni era già un musicista. A che età ha cominciato ad amare la musica? E crede che oggi sia facile per i «talenti» emergere?
«Ho cominciato a sentirmi un compositore quando ho cominciato a studiare composizione. Da allora amo questa professione meravigliosa che mi prende da quando avevo 16 anni. In Italia ci sono tanti talenti, persone che hanno studiato molto bene la musica, ma forse i talenti non sono solo tanti ma anche troppi e quindi non si trovano sbocchi per tutti».
Perché si licenziò dalla Rai il primo giorno dopo l'assunzione come assistente musicale?
«Semplicissimo: quando fui presentato al direttore, questi disse che esisteva una circolare amministrativa che impediva ai compositori Rai di essere eseguiti in Rai: cioè la mia musica non sarebbe mai stata ascoltata sulla radio Rai. Immediatamente lasciai. Lui disse: “Lei sta lasciando un lavoro che vale tutta una vita”, ma io non mi fermai. E da allora non mi sono mai fermato».
C'è un regista con il quale lei non ha ancora lavorato che le piacerebbe scoprire?
«No, non ce l’ho. Ho lavorato con tanti, quasi tutti e non desidero lavorare con altri... non mi interessano le nuove avventure a questa età... La musica costa molta fatica e quando non costa fatica vuol dire che è robetta».
I ricordi pugliesi non finiscono mai. La dedica per il decennale del Bif&st, l'evento con Time Zones, la serata intitolata «Incontro con Raffaele Gervasio», dedicata al grande nome che ci lega al mito di Carosello, quasi un Novecento della musica e del nostro modo di stare al mondo. Persino la piccola ma significativa partecipazione ad un torneo di scacchi dell'Accademia scacchistica barese nel lontano 1977, con la sua nomina poi a socio onorario. Piccole e grandi parentesi di una esistenza creativa dedicata all'arte, alla genialità, a quell'uso positivo della fatica di fare musica, cultura, cinema. Ricorda Rocco De Venuto , direttore generale della Camerata Musicale Barese, l’evento in un Petruzzelli gremito, del 15 marzo del 1990, tra Gervasio e la capacità di dare alle note la strada dell'emozione, anche popolare. «E quattro anni fa - prosegue De Venuto - il piacere e l’orgoglio di reincontrare in un concerto il Maestro Morricone con la sua Orchestra: si erano quasi concretizzate le premesse per un nuovo grande evento, se non fosse stato per la cronicizzata mancanza di grandi spazi in città. Si cercò di organizzare nel nuovo padiglione della Fiera del Levante, appena ricostruito, si pensava ad almeno 5.000 presenze (gli spazi erano disponibili anche per 10.000) ma gli elevatissimi costi di allestimento alla fine non lo consentirono».
Musica da film? «Ci sono voluti molti anni perché la musica per film non fosse considerata semplice (e spesso banale) musica da film. Lo ricorda il prof. Pierfranco Moliterni, che va anche indietro ai tempi in cui noi giovani musicisti in formazione al Conservatorio di Bari, quando, nel 1964, l’allora suo direttore Nino Rota in persona ci parlava bene di questo astro nascente in occasione delle sue prime uscite nei film di Sergio Leone (Per un pugno di dollari, Giù la testa): eppure tra il Rota di Fellini e il Morricone di Leone c’era e c’è un abisso stilistico ed estetico. Da quegli anni in poi, noi ex alunni di quel fortunato istituto seguimmo la sua carriera: il m° Rino Marrone alla testa della ICO lo invitò a Bari più volte per eseguire le sue stupende musiche; e io stesso da prof. Universitario che svolgeva seminari ad hoc, mantenni contatti con lui non dimenticando che Morricone era pur sempre stato uno dei fondatori di “Nuova Consonanza”, e cioè del gruppo romano della più spericolata musica d’avanguardia quando egli era capace di tenere insieme.
Lui era capace di legare l’inclito e il colto, lo sperimentale e la musica-musica come si sforzò di spiegarci in altre due occasioni, a Bari, durante una sua lezione-aperta nel salone della Camera di Commercio (1969), oppure alla libreria Feltrinelli (2011) quando venne a presentare una sua raccolta di cd. Disse che a suo avviso avrebbe meritato l’Oscar per la sua colonna sonora di Mission ma che invece gli venne negato dai notabili di Hollywood».
Morricone: "La musica mi ha salvato da fame e guerra. Ma l'arte è puro talento, la sofferenza non c'entra". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 da La Repubblica.it. Ripubblichiamo l'intervista al Maestro di Antonio Gnoli del 23 marzo 2014. La recente operazione di ernia del disco ha messo Ennio Morricone nel rassegnato malumore dei convalescenti. Mi guida con lentezza nella vasta casa romana: "Per il dolore passo alcune notti seduto in poltrona. Spero che il calvario finisca presto", dice. E sembra quasi un commiato più che l'inizio di una conversazione. Dalle finestre del grande salone si intravede un'ampia porzione del Vittoriano. Somiglia a una torta di matrimonio. In quel delirio di marmo, officiato dalla gloria dei militi scomparsi e ignoti, si rappresenta l'onirica vanità di certi simboli che ruotano attorno alla guerra e alla pace. Chiedo al maestro se ha mai fatto caso al fatto che certe celebrazioni somigliano un po' a delle grandi colonne sonore della nazione. Mi guarda sorpreso. Larga parte della vita di questo artista, penso, è stata una fervida committenza con registi e produttori cinematografici. Un trionfo di suoni. In fondo, azzardo, anche quel pezzo di "vita marmorea", che è lì fuori, emana suoni. E improvvisamente ricordo di aver letto tanti anni fa un bellissimo libro sulle "pietre che cantano" e che il suo autore, Marius Schneider, riportava il suono all'origine del mondo: dei e demoni lottarono gli uni contro gli altri per impossessarsi del potere della forza canora: "È una teoria suggestiva, mi fa pensare che una linea frastagliata corra lungo tutta la storia della musicalità. Fatta di scontri e di conquiste, di successi e fallimenti".
Cos'è il potere della musica?
"È la sua natura evocativa, ma cosa evochi resta chiuso nel sentimento di ciascuno. Ma al tempo stesso è un potere che crea un legame collettivo, una comunità dell'ascolto. O, più paradossalmente, del silenzio".
È importante il silenzio nella musica?
"È la sua parte più segreta e intima. Qualche settimana fa Riccardo Muti ha eseguito a Chicago una musica che scrissi nel ricordo della tragedia delle Twin Towers e che ho chiamato, non a caso, Voci dal silenzio. C'è un istante, dopo un grave trauma, in cui tutto si ferma. Tutto tace. È in quel momento che il suono manifesta la sua forza".
Viviamo in una società del rumore che ha sconfitto il silenzio. Cosa le suggerisce?
"Non condannerei il rumore. È una risorsa per la musica. I rumori non sono difetti, non sono errori. Non mi creano infelicità mentale. Non faccio che ascoltare rumori. Sono una fonte di ispirazione, perfino sgradevoli ma di brutale bellezza, densi di esperienza e di vita. Mi accorgo di concentrarmi, a volte, su qualche rumore particolare - il ronzio di un aereo per esempio - e di trasformarlo, nella tonalità in cui riesco a pensarlo, in una specie di canto interiore".
Un'educazione che nasce nella strada?
"Diciamo pure nel mondo. Anche se non è trascurabile l'apporto dei maestri".
A chi pensa?
"A mio padre che suonava la tromba. Fu lui a insegnarmi la chiave di violino e a trasmettermi la passione per quello strumento. Mi iscrissi al conservatorio di Santa Cecilia, a Roma. Feci un corso di armonia complementare e poi andai a studiare composizione. Seguivo le lezioni di Antonio Ferdinandi e in seguito quelle di Goffredo Petrassi".
Che anno era?
"Mi pare fosse il 1940 o '41. C'era la guerra. Roma invasa dai tedeschi. Avvertivo un senso di disperazione e di frenesia. Era la fame a scatenare i sentimenti più tristi. Con le tessere in dotazione non riuscivamo a soddisfare l'acquisto del pane e della pasta. Ma la cosa peggiore fu un'altra".
Quale?
"In quel periodo non sapevamo niente degli ebrei che venivano fermati, arrestati, deportati. E questo accadeva anche a pochi passi da casa. Ancora oggi avverto un lancinante dolore per quelle storie ignorate, per quei drammi invisibili dei quali siamo stati ampiamente inconsapevoli".
Sapere è importante?
"Lo è per decidere. Se dici: ignoravo ciò che è accaduto, poi ti devi chiedere: vale come giustificazione?".
E che risposta si è dato?
"Oggi penso che anche il non sapere sia una forma di responsabilità".
Dove abitava?
"Sul Viale Trastevere che allora si chiamava Viale del Re. Alcune finestre affacciavano sulla strada. Un pomeriggio assistetti dal davanzale al passaggio rapido dei carri armati. A un certo punto, dalla colonna uno di essi cominciò a sbandare. Vidi il carrista, che aveva perso il controllo del mezzo, fare dei gesti disperati. Si erano rotti i freni. All'altezza dell'ospedale San Gallicano il veicolo travolse una fontana e schiacciò un uomo. Fu il mio primo impatto con la morte".
E cosa provò?
"Stupore e paura. Quell'uomo un momento prima era vivo, mobile, indaffarato. Mi pare si stesse lavando le mani. Un attimo dopo non c'era più. Sembrava un fantoccio, un corpo inerte. E in lontananza sentivo le urla della gente. Quello scialbo pomeriggio si colorò di disperazione. Qualche tempo dopo, la morte si portò via mio fratello Aldo. Aveva tre anni".
Come accadde?
"Fu una morte assurda, tanto quanto l'altra. Ma questa volta provocata dall'insipienza di un medico. Aldo aveva mangiato delle ciliegie cadute da alcuni vasi. La sera prese a vomitare. Pensammo a un'influenza. Era estate. E il nostro dottore di famiglia era in vacanza. Chiamammo il sostituto. Che sbagliò completamente la diagnosi. Me lo ricordo Aldo, smagrito e sofferente. Con la mamma disperata che lo abbracciava. Morì per un enterocolite acuta, scambiata per un banale mal di pancia".
Come reagirono i suoi?
"Può immaginarlo. Fu terribile. Leggere la tristezza sui loro volti mi provocava un senso di sconforto infinito. Mio padre finì con l'accentuare il suo lato più severo. In contrasto netto con l'atteggiamento della mamma, la cui bontà assoluta era spesso fuori luogo. C'era un'esagerazione in entrambi i sensi che mi disorientava. Cercai sempre più rifugio nella musica".
Come fu il rapporto con Petrassi?
"Una fortuna averlo incontrato. Era un maestro fantastico. Incuteva una certa soggezione. Tanto è vero che quando, per guadagnare, iniziai a fare i primi arrangiamenti musicali alla radio, mi guardai bene dal dirglielo ".
Cosa glielo impediva?
"Temevo che vedesse in quella scelta una specie di corruzione. Ma quando, infine, lo seppe, reagì senza fastidio. Mi disse semplicemente: sono convinto che lei riguadagnerà il tempo che sta perdendo".
E quell'impegno era una perdita di tempo?
"Era la vita. Con i suoi compromessi e le sue necessità. Sapevo di non voler pesare sui magri bilanci familiari. In quegli anni collaboravo, spesso in modo determinante, alle stesure musicali. Senza firmare. Senza apparire. È stata la mia gavetta. Poi un giorno mi chiamò Luciano Salce e realizzai le musiche del mio primo film".
Quale?
Il film era Il federale. Il regista mi fece vedere il filmato e lo musicai. Quell'esperienza andò bene e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi".
Tra i quali, immagino, Sergio Leone ha un posto di primo piano.
"È stato certamente importante. Ma di solito si dimenticano gli altri: Pontecorvo, Bertolucci, Petri, Montaldo, Bolognini, Tornatore per non parlare dei registi stranieri: da Brian De Palma a Terrence Malick. Mi scoccia un po' che si dica che tutto comincia e finisce con Sergio Leone".
Le musiche che ha dedicato ai film di Leone sono tutte di grande successo e straordinarie.
"Aveva l'ironia giusta. Eravamo stati perfino compagni di classe alle elementari. E fu il caso a farci rincontrare. Effettivamente Sergio comprese una cosa che gli altri non avevano ben chiaro: la musica è la sola arte che applicata al cinema ne esalta i dettagli".
Perché?
"Hanno in comune la durata. Leone intuì perfettamente che il tempo della musica doveva essere quello del cinema. Non credo che la musica che ho scritto per lui fosse migliore di quella fatta per gli altri registi. Ma con il suo cinema si stabilì questa intesa di fondo. A volte caricaturale, alsmagritotre ancora drammatica".
È un aspetto che ho trovato nella musica per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
"Il tema musicale del film di Elio Petri non era così immediatamente orecchiabile".
Era l'esasperazione caricaturale di una società fondata sull'ordine grottesco.
"Ricordo la presenza dominante del mandolino. Che faceva da contrappunto comico, in un certo senso spernacchiante, alla situazione tragica di un delitto. Con Indagine volevo provare a realizzare qualcosa di musicalmente diverso da quello che si faceva in quel periodo. In fondo, mi piaceva tener fede al consiglio di Petrassi: non ti buttare via, fai cose che risultino preziose alle orecchie del pubblico".
Ha lavorato anche con Pasolini?
"Abbiamo collaborato a lungo. La prima volta con Uccellacci e uccellini. Mi chiamò. Diedi la mia disponibilità. Lui mi fece avere una lista di musiche che dovevano essere adoperate o imitate. Gli risposi che ero un compositore e che non eseguivo a comando. Pasolini molto tranquillamente mi disse: beh, allora faccia quello che vuole. Poi con Teorema mi fece un po' penare. Disse: "Maestro, mi realizzi una musica dissonante e metta, come ho fatto in Accattone, una citazione dal Requiem di Mozart" ".
Cosa fece?
"In Accattone aveva inserito la musica di Bach. Pensai che fosse una questione scaramantica. Perciò accettai".
Dopo tutto erano grandissimi compositori.
"Non è questo il punto. Del resto a parte Pasolini, che volle anche in dire la sua sulle musiche, ho sempre rifiutato imposizioni. Un regista, non faccio il nome, mi chiamò e mi disse: "Maestro, mi faccia un bel Ciajkovskij". "Io non le faccio un bel cazzo di niente", replicai, attaccando il telefono".
Le sarebbe piaciuto collaborare con Fellini?
"Bella domanda. Oltretutto sapendo che per tutta la vita ebbe il sodalizio con Nino Rota. Ma non credo che sarei riuscito a lavorare con lui".
Perché?
"Sono convinto che Rota sia stato un bravissimo compositore. Ma la cultura musicale di Fellini, troppo influenzata dal circo, lo limitò, facendo prevalere il cromatismo. D'altra parte, Rota scrisse abitualmente musica assoluta che fu e continua a essere molto eseguita. E qui niente da dire ".
Anche lei ha diviso il suo impegno tra musica assoluta e quella dedicata al cinema.
"Da compositore ho vissuto intensamente entrambe le ambizioni".
Non le viene il dubbio, magari pensando a Petrassi, che una sola doveva essere la strada per un uomo di talento?
"Perché mai? Sono convinto che la musica del cinema sia a pieno titolo musica contemporanea. Non farei classifiche. Come non potrei dire che Visconti è meglio di Fellini o viceversa".
A proposito di Fellini viene in mente La dolce vita. Lei ha sempre vissuto a Roma. In che misura quella stagione l'ha coinvolta?
"La mitologia cresciuta attorno ai caffè di piazza del Popolo, o dell'allora più famosa via Veneto, mi ha sempre lasciato indifferente. Sarei stato un corpo estraneo. Ho sempre fatto una vita regolare e non ho mai frequentato i salotti. Forse per carattere o perché vengo da una famiglia tranquilla e modesta".
Non sembra che il successo l'abbia cambiata.
"Non credo di essere un narcisista e ritengo che il successo sia un evento provvisorio. Ed è duro, molto duro, confermarlo nel tempo. Ogni volta che penso di aver fatto il massimo, so che si può ancora fare meglio".
Un perfezionista?
"No, credo che la musica sia una vigile e costante applicazione del talento. È un mestiere totale. Almeno per me".
E che rapporto ha con la vita?
"In generale direi che ne fa parte. In particolare non ha niente a che vedere con la propria vita privata. Con le gioie e con i dolori personali. Mi viene da ridere al pensiero che un compositore traduca in musica la propria sofferenza".
È il punto di vista romantico.
"Detestabile e velleitario e anche retorico. Non esiste la musica ispirata dal sogno".
Lei sogna?
"Raramente e poi non li ricordo. Ne ho al più una vaga reminiscenza. Posso solo dire: credo di aver sognato".
Credere?
"Sì, credere. Si crede per abitudine, per convenienza, per assurdo. Per vaghezza".
Crede in Dio?
"Certo, con qualche perplessità sul dopo".
L'aldilà non la convince?
"Mi pare ci sia molta confusione. Resurrezione della carne? Boh. Saremo anime sublimate nella beatitudine? Chissà".
Forse saremo musica.
"Mi piacerebbe che ci trasformassimo tutti in dei suoni. Non era ciò che sosteneva l'autore da lei citato all'inizio?".
Marius Schneider?
"Lui. In fondo, se in origine eravamo dei suoni, mi pare bello pensare che torneremo ad esserlo".
Estratto dall'intervista di Barbara Palombelli a Ennio Morricone, ''Corriere della Sera'' 23 aprile 2001. (…) Un tardo pomeriggio di aprile, nella bella casa di Ennio Morricone: all'ultimo piano di uno dei palazzi dell'Aracoeli, vista sul Campidoglio e altana affacciata sulla città barocca. (…) Sono qui per raccontare la semplicità privata di un artista internazionale amatissimo e popolarissimo dal pubblico di tutte le età. Ho il permesso di visitare il suo studio, chiuso a chiave «da quando i bambini, piccoli, entravano a rubare i 33 giri… li scoprii e, da allora, pochissimi sono stati ammessi». Qui, circondato da scaffali inzeppati dalle migliaia di dischi, di spartiti, di film, in videocassetta e Dvd, tutte le mattine – molto presto, dopo aver letto i giornali – Morricone compone i suoi capolavori. Ma lui, con la sua inconfondibile modestia, racconta la sua giornata come fosse quella di un impiegato, «scrivo, anche tutto il giorno. Interrompo per sgranocchiare qualcosa, per dire due parole con Maira, poi torno a chiudermi a chiave… in questi giorni sto lavorando su tre progetti: una composizione in memoria di un grande musicista, Francesco Pennisi, due colonne sonore, per Liliana Cavani e il suo II gioco di Ripley e per Tinto Brass, che si è messo in testa di rifare Senso, con un'Anna Galiena nuda e meravigliosa... e sto per iniziare la musica per uno sceneggiato televisivo di Alberto Negrin dedicato alle vicende di Giorgio Perlasca, sarà una sorta di Schindler's list italiano...». In punta di piedi, questo signore che somiglia davvero più a un buon padre di famiglia che all'autore più amato e ricordato degli ulti mi decenni, ha trascorso tutta la vita fra le note. Su tre livelli: la grande composizione moderna, seguendo gli insegnamenti di Goffredo Petrassi, quella «difficile delle opere contemporanee, realizzando 80 creazioni originali: gli arrangiamenti di canzoni e sigle scritte da altri, un'arte nobilissima che ha rinnovato la musica italiana negli anni Sessanta: le indimenticabili colonne sonore per cui decine di film sono diventati eterni. Da La battaglia di Algeri a Uccellacci e uccellini, da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto a Grazie zia, da Per un pugno di dollari (firmato con lo pseudonimo di Dan Savio, mentre il regista Sergio Leone era diventato Bob Robertson) a Sacco e Valizetti, da Metti una sera a cena a Todo modo, da Frantic a The Mission, è impossibile citare le centinaia di titoli della sua filmografia. Una produzione straordinaria, dicevo di si a tutti, ero un libero professionista, ma mi portavo dentro la paura di non lavorare, il ricordo dei sacrifici dei tempi difficili. Il piccolo Ennio nasce a Roma, nel cuore di Trastevere in via San Francesco a Ripa, nel 1928. Seguono poi Adriana, Aldo, Maria e Franca. Mio padre Mario era professore di tromba, insegnava, eseguiva musica sinfonica con le orchestre, anche quella del teatro dell'Opera e — per far quadrare i conti di casa — di notte si univa ad un gruppo jazz al "Florida", un locale notturno molto di moda negli anni Quaranta e Cinquanta. Rientrava anche alle due, tre di notte. Per recuperare le lunghe assenze, quando c'era era molto severo, capace di seguirmi sul tram — senza farsi vedere — per scoprire se avessi quelle che allora si chiamavano "le cattive compagnie". Mi ha insegnato a suonare a tutto campo... suonai anche con lui, lo accompagnavo volentieri. Mi iscrisse al Conservatorio di Santa Cecilia nella classe di tromba, sarei diventato trombista, non si dice trombettiere, come pensano tutti. No, si dice proprio trombista: una garanzia, perché è più facile portare i soldi a casa con quello strumento che con altri. Avevo dieci anni, andavo alla scuola media... imparai molto in fretta. Partecipai al corso di Armonia complementare del maestro Roberto Caggiano, passai subito a quello di Armonia principale e svolsi in sei mesi il programma di quattro anni. Era come se qualcun altro, dentro di me, mi indicasse le cose che dovevo fare, quasi un miracolo. Molto dopo, scoprii che Caggiano girava mostrando i miei quaderni... Mi consigliò di frequentare il corso di composizione». Finita la guerra, concluso il conservatorio, Morricone è ancora trombista. Ha conosciuto la sua futura moglie, Maria Travia, ma si vergogna di portare i soldi a casa con la tromba, andando per locali, non vuole dirlo alla fidanzata ed escogita un trucco: Invece di usare la custodia regolare, nascondevo la tromba in una valigia, ma lei aveva scoperto già tutto,,. Durante il servizio militare non impara a sparare, ma scrive per la banda dei granatieri, 'Non sapevo tenere il fucile in mano e il mio caporalmaggiore mi guardava inorridito. A causa della crisi di Suez, fui congedato con due mesi di ritardo. Riuscii a sposarmi ad ottobre, nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano: Carlo Savina, direttore d'orchestra della Rai, con cui avevo iniziato a collaborare, mi regalò i biglietti del treno e mi spedì a Taormina, in albergo da un suo amico che mi avrebbe fatto uno sconto. Ma io, ansiosissimo, contavo i soldi tutti i giorni. Era il 1956, per fortuna alla radio cercavano qualcuno che portasse un po' di aria nuova. Cominciai ad arrangiare le musiche degli altri, anche in televisione. Intanto, continuavo a comporre la musica vera, quella mia». A scoprire il giovane musicista è Luciano Salce, autore e regista, con Ettore Scola, di un varietà, Le canzoni di lutti, che segnò il debutto di Paolo Panelli. Nella Rai di quegli anni, Morricone lavora con il Quartetto Cetra per la Biblioteca di Studio Uno, per il regista Enzo Trapani in tanti varietà, negli sceneggiati, nel teatro in tv. «Salce mi chiamò poi per Il federale, il primo film di cui ho scritto, nel 1961, la colonna sonora. Il primo lavoro sicuro me lo dette nel 1964 Enzo Micocci, direttore della Rea, una casa discografica che stava per fallire. Gliene sarò sempre grato». Alla Rca Morricone si scatena: inventa il rumore del barattolo che rotola e lancia Gianni Meccia, «creai un effetto sbattendo un barattolo in terra, allora fu un successone: guadagnavo l'1 per cento sulle vendite del 45 giri, mi arrivarono 500 mila lire», poi crea gli arrangiamenti per il primo Edoardo Vianello, per il Gianni Morandi di Gokart twist, Andavo a cento all'ora e In ginocchio da te, per il Gino Paoli di Sapore di sale, cui aggiunge quello stacco decisivo, scrive la musica di Se telefonando, sigla televisiva eseguita da Mina su parole di Maurizio Costanzo e Ghigo de Chiara. In quegli anni, con gli amici Sergio Endrigo, Sergio Bardotti e Luis Bacalov, la famiglia Morricone si trasferisce a Mentana, proprio vicino alla Rea. Sono nati Marco, Alessandra, Andrea e Giovanni. Ma soltanto Andrea, oggi, si occupa di musica...E anche gli amici, i tantissimi registi con cui ha lavorato «sempre chiedendo carta bianca», non si contano più. Da Pontecorvo a Bolognini, «a cui voglio un bene immenso», da Montaldo a Bertolucci, da Brian De Palma a Roland Joffé, da Rosi a Tornatore, un giovane siciliano eccezionale», a Tognazzi...Innamorato di tutta la musica: quella alta, quella normale, quella facile, come le colonne dei film di Leone («eravamo stati insieme alle elementari, ci intendemmo subito, ma lo voglio confessare: Per un pugno di dollari è la peggiore che ho scritto»), Morricone ha un'altra passione folle, per gli scacchi: «Ho pattato una partita con Boris Spaaskj, pochi giorni fa, a Torino... nel corso di una "simultanea", mi ha chiesto lui la parità, una bellissima soddisfazione. Per un autodidatta come me, uno che comprò un libro, il Salvioli, in un'edicola di via del Corso è un sogno. Per un ragazzetto di Trastevere poi...».
Le colonne sonore di Morricone fanno lacrimare perché richiamano ciò che è destinato a non ritornare. Lucrezia Ercoli su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Salvatore (interpretato magnificamente da Jacques Perrin) – un regista siciliano di successo, trapiantato a Roma da trent’anni – scopre che l’amico d’infanzia Alfredo è morto. Da qui parte un lunghissimo flashback che ci riporta nel secondo dopoguerra, in una Sicilia onirica e premoderna. Il piccolo Totò vive a Giancaldo, un paesino immaginario che assurge a luogo della memoria e del ricordo di un mondo perduto e schiacciato dal progresso. «Non tornare più, non ci pensare mai a noi, non ti voltare, non scrivere. Non ti fare fottere dalla nostalgia, dimenticaci tutti. Se non resisti e torni indietro, non venirmi a trovare, non ti faccio entrare a casa mia. O’ capisti? Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del paradiso quando eri picciriddu» aveva detto Alfredo, ormai cieco dopo l’incendio del Nuovo Cinema Paradiso, al giovane Totò restio a lasciare la sua terra natia, l’immobile e bellissima Sicilia. Quando finalmente si convince a salire sul treno, partono note del brano di Ennio Morricone Infanzia e maturità. Sembra un miracolo: l’indicibile emozione – che fonde la sofferenza di allontanarsi dalle sicurezze degli affetti e l’eccitazione per le novità di un futuro incerto – appare d’improvviso palpabile. Tornatore ci mostra una scena straziante e lo fa da grande maestro della regia, con parole ed immagini. Tuttavia, è solo quando risuonano le note musicali di Morricone, che una sensazione inafferrabile – quella che ogni essere umano prova nel corso del passaggio obbligato e spaventoso dall’infanzia alla maturità – diventa concreta. Il senso di quello che abbiamo appena visto sullo schermo ci investe finalmente in tutta la sua potenza. Perché, scriveva Marcel Proust nella sua Recherche: «L’essenza della musica sta nella capacità di risvegliare in noi quel fondo misterioso della nostra anima, che comincia là dove il finito e tutte le arti che hanno per oggetto il finito si fermano». Il finale, con il suo montaggio di baci censurati, fa ormai parte della storia del cinema. Totò entra in una sala cinematografica vuota e chiede di proiettare la bobina che gli ha lasciato in eredità Alfredo, il burbero proiezionista analfabeta del Cinema Paradiso con cui aveva passato l’infanzia. Il suo vecchio amico è morto da tempo, il Nuovo Cinema Paradiso è stato demolito, il suo primo amore irrimediabilmente perduto. Il fascio di luce del proiettore illumina il volto di Salvatore rigato dalle lacrime, mentre la bobina si srotola e i fotogrammi si susseguono dando vita a una serie di scene d’amore. Quelle che erano state tagliate dalle pellicole per non offendere il pudore degli spettatori. Un collage di baci rubati e la musica di Ennio Morricone: un sortilegio ammaliante che ci trasporta in un tempo perduto che solo la lanterna magica del cinema può ricostruire affidandosi all’unione sincronica di immagini e suono. La traccia – scritta a quattro mani col figlio Andrea Morricone – si intitola Tema d’amore ed è un crescendo orchestrale che accompagna la commozione incontenibile del protagonista. Lo spazio diventa tempo, le cose diventano ricordi. In quelle labbra che si sfiorano c’è una vita intera. Una scena che racchiude la magia del cinema, una finzione più vera del vero: le emozioni che ne scaturiscono sono mediate e autentiche. Le lacrime che solcano il volto del protagonista sono speculari a quelle di chi la ascolta. Il sortilegio nostalgico della melodia strappa il pianto autentico del rimpianto. La musica di Morricone è la voce della nostalgia, dolorosa ma catartica. Essa ci costringe a una presa di coscienza lacerante: il passato, e con lui gli amori e le imprese della giovinezza, sono irrimediabilmente perduti. Contemporaneamente veleno e medicina, la sua musica è l’unica salvezza dal dolore che essa stessa ha causato, l’unico modo per elaborare una disperata consapevolezza. È la nostalgia, infatti, il motore più potente del mondo contemporaneo. Quell’istinto primario e universale che – nei momenti di passaggio verso una nuova fase della vita o della storia – guarda indietro, alle certezze del passato invece che alle incertezze del futuro. Nella salda convinzione che, come scrive Proust, «i veri paradisi sono quelli perduti». Mentre la polvere ricopre le suppellettili del nostro vecchio mondo, ci assale il sospetto di aver lasciato lì, insieme alla giovinezza, anche l’unica possibilità di felicità. E la musica – scrive il filosofo francese Vladimir Jankélévitch – è l’arte nostalgica per eccellenza perché racchiude il carattere ineffabile della nostalgia. La nostalgia musicale svela l’incurabilità costitutiva della malattia del ritorno: la nostalgia si nutre del conflitto tra la possibilità di ripercorrere lo spazio e l’impossibilità di recuperare il tempo. Le colonne sonore di Morricone, simili al canto dell’aedo nell’Odissea, fanno lacrimare perché richiamano ciò che è destinato a non ritornare, ciò che non ci appartiene più perché completamente irrecuperabile. Non questo o quel ricordo in particolare, ma l’irreversibilità del tempo in quanto tale. La nostalgia musicale incarna la possibilità di vivere in più tempi: accanto alla vita normale esiste una vita spettrale, un’immaginazione fantasmatica che si lega alla possibilità utopica di ripristinare – solo per il tempo dell’ascolto – il tempo perduto. Nuovo Cinema Paradiso – Oscar come miglior film straniero nel 1990 – non può essere scisso dal tappeto sonoro ideato da Morricone, uno dei pochi eletti del Novecento con il dono della sinestesia; capace di vedere i suoni e di ascoltare le immagini. Le note, fotogramma dopo fotogramma, disegnano lo struggimento dei ricordi, ci cullano e ci commuovono sempre con la stessa intensità ogni volta che la riascoltiamo. Oggi, forse, più di ieri.