Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

LA MAFIOSITA’

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Metodo “Falcone”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Tommaso Buscetta spiega “Cosa Nostra”.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Omicidio Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Trattativa Stato-Mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: i depistaggi sulla strage di via D’Amelio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Appalti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il grande mistero del covo.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il Concorso Esterno. Reato fantastico.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Le Stragi del '93.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La Strage di Alcamo Marina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Mafia-Finanziamenti.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il misterioso “caso Antoci”. (Segue dal 2019)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Bruno Caccia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte del giudice Paolo Adinolfi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Don Pino Puglisi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: La morte di Diabolik.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Nino Agostino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro Rostagno.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Mauro De Mauro.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Peppino Impastato.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Mafia stracciona.

I killers della mafia.

La Mafia romana: L’Autoctona.

La Mafia romana: I Casamonica.

La Mafia romana: Gli Spada.

La Mafia romana: I Fasciani.

La Mafia Nomade.

I Basilischi. La Mafia Lucana.

La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.

La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.

La Mafia Veneta.

La Mafia Italo-Padana-Tedesca.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Pachistana.

La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.

La Mafia Italo-Canadese.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Doppio Stato.

In cerca di “Iddu”.

Chinnici e la nascita del Maxi processo.

Le Ricorrenze. Liturgia ed Ipocrisia.

Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

Guida a un monstrum giuridico: il 41-bis.

Le loro prigioni: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa.

La Trattativa degli Onesti.

Quelli che non si pentono: I sepolti vivi come Raffaele Cutolo.

Non è Tutto Bianco o Tutto Nero.

L'antimafia degli ipocriti sinistri.

Non è Mafia…

Invece…è Mafia.

Quelle vittime lasciate sole…

Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo.

Il Business del Proibizionismo.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie.

Chiusi per (Anti) Mafia…

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giudice Onorari “sfruttati”?

Il Caporalato dei Praticanti.

Noi specializzandi sfruttati e malpagati.

Se lo schiavo sei tu.

Il lavoro sporco delle pulizie.

Il Caporalato agricolo Padano.

Schiavi nei cantieri navali.

Riders: Cornuti e Mazziati.

Caporalato nei centri commerciali.

Il Caporalato dei Call Center.

Il Caporalato degli animatori turistici.

Il Caporalato dei Locali Pubblici.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Favoritismi Curatelari.

Non è Usura…

Astopoli.

La Mangiatoia degli incarichi professionali nelle procedure fallimentari.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Io sono il Potere Dio tuo.

La Lobby del Tabacco.

Le Lobbies di Gas e Luce.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby del Volontariato.

La Lobby degli Studi Legali.

La Lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica.

Gli Affari dei Lobbisti.

I Notai sotto inchiesta.

Se comandano i Tassisti.

La Lobby dei Gondolieri.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massomafia.

 

INDICE TERZA PARTE

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figli di Trojan.

Il Concorso truccato per i magistrati.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

E’ scoppiata Magistratopoli.

Magistrati alla sbarra.

Giornalistopoli.

Voto di Scambio mafioso=Clientelismo-Familismo.

L’Onorevole Mafia.

La Sinistra è una Cupola.

Tutte tonache di rispetto.

La Mafia dei Whistleblowers.

La Mafia del Riciclaggio Bancario Internazionale.

La Mafia del Gasolio.

La Cupola delle Occupazioni delle Case.

La Mafia dello Sport.

La Mafia dei posteggiatori abusivi.

 

  

LA MAFIOSITA’

 

SECONDA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Mafia stracciona.

Reddito di cittadinanza alla ‘ndrangheta: 101 denunciati, tra loro anche il Pablo Escobar italiano. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2020. L’operazione di chiama “Mala civitas” e ha scoperto come più di centro ndranghetisti siano riusciti a ottenere il reddito di cittadinanza. L’operazione è stata coordinata dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabrie ha portato alla luce come tra i beneficiari del sussidio ci fossero anche  esponenti anche di spicco delle più note famiglie di ‘ndrangheta operanti nella piana di Gioia Tauro e delle potenti ‘ndrine reggine dei Tegano dei Serraino. Altri invece, sono legati alle cosche della Locride, tra le quali la ‘ndrina Comisso-Rumbo-Figliomeni di Siderno, la ‘ndrina Cord’ di Locri, la ‘ndrina Manno-Maiolo di Caulonia e la ‘ndrina D’Agostino di Canolo. Tra questi c’era anche Roberto Pannunzi, conosciuto con il soprannome di Pablo Escobar italiano, unanimemente considerato dagli investigatori italiani e statunitensi come uno dei più grandi broker mondiali di cocaina e che si faceva vanto di pesare i soldi anziché contarli, percepivano il sussidio. Sono stati tutti inoltre segnalati all’Inps per l’avvio del procedimento di revoca dei benefici ottenuti, con il conseguente recupero delle somme già elargite che ammontano a circa 516mila euro; nel contempo, sarà conseguentemente interrotta l’erogazione del sussidio che avrebbe altrimenti comportato, fino al termine del periodo di erogazione della misura, un’ulteriore perdita di risorse pubbliche di oltre 470mila euro.

Reddito di cittadinanza per ‘ndranghetisti, mafia stracciona che ha bisogno di pane e latte. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 24 Maggio 2020. “Mala Civitas”, è l’operazione della guardia di finanza che ha portato al deferimento di 116 persone all’autorità giudiziaria, per aver incassato indebitamente il reddito di cittadinanza. Una cittadinanza cattiva appunto, che gli inquirenti italiani d’abitudine utilizzano termini colti, svariando dal latino al greco con qualche fuga all’inglese, per indicare il risultato finale delle loro indagini. La cittadinanza, oggetto del deferimento, in Calabria con qualche espansione piemontese, a Verbania, è di un tipo particolare: figlia della ‘ndrangheta, di più, in alcuni casi appartenente ai nomi più prestigiosi del gotha mafioso. 101 fra capi e gregari, con l’aggiunta di 15 approfittatori semplici. Solo un’indagine ancora, da dimostrare, che mira alla restituzione di 516 mila euro, già percepiti, e interrompe ulteriori 411 mila euro, flusso che avrebbe dovuto essere erogato nei mesi a venire. Una delle tante, tante, truffe che si registrano in ogni angolo della Nazione. La particolarità è che sia una presunta truffa che puzza di ‘ndrangheta, di un valore relativamente basso se rapportato alla natura dell’organizzazione criminale: non milioni e milioni di euro, ma alcune centinaia di migliaia, da dividere fra più di cento persone. Truffe di sussistenza così se ne vedono, purtroppo, tutti i giorni, con protagonisti che sopravvivono di espedienti. Certo, le strategie mafiose assumono forme varie, vanno per logiche loro, spesso non capite o non comprensibili, che alla fine trovano però sempre un senso nelle spiegazioni degli investigatori, degli esperti. Per il senso e la logica, comuni, è difficile comprendere. 101 boss appartenenti a casati sfondatamente ricchi che giocano con le briciole destinate ai poveri? Ludibrio morale, abominio di pezzenti. Si toglie di bocca il pane alle famiglie indigenti, e certo la mafia non la frequenta la moralità, il bisogno degli altri è solo un’opportunità. Ma gli allarmi degli ultimi tempi lasciano presagire un assalto agli aiuti comunitari e nazionali per l’emergenza pandemica, che saranno altri numeri con tanti più zeri. Ritrovare 101 persone, che vengono definiti boss, alle prese con pezzi da dieci e da venti, fa immaginare una verità più complessa, articolata, per certi versi incoraggiante: che pochi, pochi eletti si spartiscono i cento e passa miliardi di euro che fonti multiformi attribuiscono al fatturato delle mafie tradizionali, e che poi tanti, tanti, che stanno dentro le mafie ci stanno da morti di fame. Che c’è una verità, che forse è utile dirla: che ci sono mafiosi di serie A, ma pure B o C, e poi c’è una mafia stracciona che ha gradi alti solo per spenderli in galera, mentre nella vita normale ha bisogno di pane e latte, e che l’idea di affiliarsi non sia stata proprio felix, come direbbero investigatori colti.  Che forse ai ragazzi calabresi bisognerebbe dirlo che a finire in una mafia stracciona, per fregare le merende ad altri ragazzi, è una cosa da fessi, non da furbi.

·         I killers della mafia.

L’ex killer della mafia: «Ho ucciso 13 volte, ma piango ogni giorno per un panettiere innocente di 18 anni». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Roberto Cannavò nel 1991 sbagliò bersaglio e ammazzò il giovane Filippo Parisi. «Per lui piango ogni giorno. La madre ha diritto di odiarmi, vivo per alleviare il suo dolore». «Si chiamava Filippo Parisi e aveva 18 anni. Stava aprendo un panificio quando sono arrivato lì vicino. Ho sparato a uno che dovevo ammazzare, ma un proiettile è rimbalzato e ha colpito lui. Era marzo del 1991, a Catania. Ho pianto tantissimo per quel ragazzo. È uno dei miei rimorsi piu grandi. L’ho pensato ogni santo giorno per anni e ancora adesso, soprattutto di notte, ricordo spesso quella scena. Vedo lo strazio di sua madre che dopo, negli anni del processo, veniva in aula con la fotografia di Filippo sul petto. Mi guardava e io facevo pure lo spaccone. Se ci ripenso... Non avevo ancora capito che cosa fosse il dolore, non avevo ancora imparato a gestire i miei impulsi peggiori, a distinguere il bene dal male. Non so cosa darei per tornare indietro e non essere quello che sono stato». A questo punto il racconto ha bisogno di un sospiro, una pausa, un sorriso. Roberto Cannavò parla e gesticola. Disegna ricordi nell’aria, percorre le vie tortuose di un tempo che fa parte di lui ma non gli appartiene più: quello in cui è stato assassino, mafioso, scippatore, ladro, rapinatore.

Quanti anni ha?

«Quasi 53. Sono nato a Torino a marzo del 1967 ma quando avevo quattro mesi i miei, che erano siciliani, tornarono a Catania, dove poi sono cresciuto».

Quale pena sta scontando?

«Sono in libertà condizionale da due mesi. Di giorno lavoro, di notte ho l’obbligo di rimanere a casa. Sto scontando l’ergastolo per associazione mafiosa e per gli omicidi».

Quanti omicidi?

«Tredici. Lo so: se uno mi conosce e mi parla adesso tutto questo sembra pazzesco. Ma è andata così e il passato purtroppo non si può cambiare».

Torniamo a quel ragazzo della panetteria.

«Il proiettile gli recise l’arteria femorale. Conoscevo infermieri dell’ospedale in cui lo portarono. Cercavo di informarmi sulle sue condizioni, ho sperato inutilmente che se la cavasse. Non avrei mai voluto uccidere un ragazzo innocente, nemmeno allora nonostante fossi quello che ero».

E che cos’era?

«Ero uno che aveva come punti di riferimento miti negativi, assassini, gente che mi faceva sentire grande e potente. Ho cominciato con qualche furto, uno dietro l’altro. Poi rapine. Diventare una pedina della criminalità organizzata, è stato un attimo. Io sono stato un affiliato, ho fatto il giuramento a Cosa nostra».

Un momento, troppa fretta. Riavvolgiamo il nastro: provi a individuare il momento in cui tutto è cominciato.

«Credo sia stato l’8 marzo del 1984, quando avevo 17 anni e sognavo ancora di avere un’officina meccanica tutta mia. Quel giorno mio padre fu ucciso, a 38 anni, per un errore di persona. I sicari volevano ammazzare un tizio che abitava venti metri più in là e che è stato ucciso otto giorni dopo. Mio padre si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato con una A112, come l’altro tizio. Mio fratellino di 9 anni ha visto tutto. I carabinieri sono venuti in officina, mi hanno portato sul luogo del delitto e hanno alzato il lenzuolo. Ero scioccato».

E cosa ha fatto?

«Ero arrabbiato. Mi pareva tutto ingiusto. Ho cominciato a fare danni. Dopo pochi mesi ho abbandonato l’officina e i pochi furtarelli che avevo fatto fino a quel momento - e che nella mia testa dovevano servire a comprare l’attrezzatura meccanica e vivere poi onestamente - sono diventati altro e di più. Il fatto di mio padre mi ha dato l’alibi per diventare peggiore».

Non si salvò nemmeno con l’arrivo della prima figlia.

«A gennaio dell’85 ho fatto la famosa fuitina, non avevo nemmeno 18 anni. Ad agosto di quello stesso anno mi hanno arrestato per rapina. La mia ragazza aveva 15 anni: l’ho lasciata incinta di un mese, quando sono uscito la bimba aveva un anno e mezzo. Oggi ha 34 anni e un figlio. Non ho visto nascere nemmeno la mia seconda figlia. Avevo 22 anni e ancora una volta ero in carcere. In quel periodo entravo e uscivo spesso: per rapine, furti, una rapina in banca. Non ero mai solo e non usavamo mai armi finte. Ci sembrava di andare a fare i giochi del far west ma era tutto vero».

Rubavate negli appartamenti?

«Sì. Guardavamo il palazzo. Cercavamo quelli prestigiosi. Prima chiamavamo per essere sicuri che nessuno fosse in casa. Ci allungavamo in Romagna, Lombardia, Lazio, Toscana perché lì non erano così sgamati come in Sicilia. Si trovava più roba, più oro. A maggio del ‘90 mi arrestarono di nuovo, sono uscito a dicembre e da lì in poi è stato il peggio che c’è. A gennaio del ‘91 uccisero il mio amico più caro. Era in corso una guerra fra cosche, morire era una possibilità, uccidere faceva parte della partita. Fra la morte del mio amico e aprile di quello stesso anno ho ammazzato quattro persone».

Perché dice aprile? Che cosa successe ad aprile?

«Sono diventato un uomo d’onore, come usano dire i mafiosi. Io avevo il mio uomo di riferimento. Uno che mi aveva seguito nel percorso criminale. Con Cosa nostra succede così: c’è qualcuno che è già uomo d’onore e che ti osserva attentamente. Lui sa se sei educato, ubriacone, umile, ubbidiente, sa come ti comporti con le donne, quanto sangue freddo hai. Se vai bene, se lo convinci, allora lui ti introduce, ti presenta agli altri, ti propone come uomo d’onore».

E quindi lui lo fece?

«Sì. Una sera mi disse: domani vestiti pulito che andiamo a fare una cena importante. Per me lui era un punto di riferimento, ma non sapevo che fosse un uomo d’onore. Sono andato a quella cena, c’erano altri che come me erano lì per giurare. Quella sera sono tornato a casa in pieno delirio di onnipotenza. Se ci ripenso oggi mi vengono i brividi. Dentro mi sentivo grande e invece di grande avevo soltanto la violenza. A quella tavola c’erano uomini che con un cenno della testa decidevano il tuo destino».

Non pensò nemmeno per un istante al passo che stava facendo?

«Sapevo che faceva schifo tutto: quelle persone e quello che facevano, ma in quel momento per me contava di più far parte di una famiglia mafiosa. Capivo che quelli che avevo frequentato fino a quel momento non valevano niente in confronto a me, nemmeno se avevano già ucciso. Noi eravamo una famiglia e io mi sentivo orgoglioso di farne parte. Volevo scalare le posizioni e arrivare all’apice. Avevo perso il senso stesso della vita, a quel punto».

Ma a casa o fra gli amici: possibile che nessuno avesse capito?

«Io non ho mai mischiato la mia famiglia con la mafia. Avevo amici d’infanzia con i quali andavo a pescare, a giocare a carte. Quando mi hanno arrestato sono rimasti tutti senza parole, nessuno doveva sapere o capire e nessuno aveva saputo o capito».

Lei dice di provare il suo più grande rimorso per quel ragazzo della panetteria. Per gli altri nulla? Le loro vite non valevano niente?

«Quel ragazzo era innocente, completamente fuori dal nostro schifo. Non c’entrava niente con noi e la nostra guerra tra clan. Quindi la mia coscienza davanti a lui è stata disarmata fin dal primo momento. Con gli altri c’è voluto più tempo prima che li sentissi pesare sulla coscienza. Ricordo un ragazzo di 19 anni, in uno scantinato. Quelli del mio gruppo mi hanno portato lì che lo stavano interrogando. Era uno che aveva a che fare con un gruppo rivale, volevano che dicesse dov’era nascosto uno. Lui piangeva, supplicava di lasciarlo andare, giurava di non sapere. Io mi sono messo a parlare con il capo dei torturatori, un po’ in disparte. Ma l’ho visto morire strangolato. Ricordo che sono uscito e mi veniva da vomitare. Era feccia e io ero talmente immerso in quella spazzatura. La maggior parte di quelli che ho ammazzato non li conoscevo nemmeno. L’ultimo, a Torino, me lo ha indicato con un dito un palermitano».

Poi arrivò l’ondata di arresti del ‘92.

«Arrestarono tutti i componenti del mio quartiere, compreso Santo Mazzei che era stato il capo del nostro gruppo. A un certo punto Mazzei stesso mi mandò a dire dalla cella che sarei dovuto andare a Mazara del Vallo a parlare con certa gente. Ci andai. E lì mi dissero: ora che Santo non c’è più devi prendere tu le sue redini. A quel punto mi sono spaventato, ma non potevo dire di no. Per fortuna nel febbraio del ‘93 mi hanno arrestato ed è finito tutto».

Però lei è rimasto fedele alla sua arroganza anche in carcere per un bel po’ di anni.

«È vero. Lo spartiacque è arrivato con i due anni di isolamento diurno che mi sono fatto dal 2006 al 2008. Due anni senza avere contatti con nessuno, senza uscire mai dalla cella se non per l’ora d’aria. Mi sono fermato completamente. Era tutto immobile attorno a me e dentro di me. È venuta a trovarmi la mia prima figlia. Aveva 18 anni. Per la prima volta le ho raccontato tutto quel che avevo fatto e lei per i sette anni successivi non ha più voluto sapere niente di me».

È stata quella reazione a farla cambiare?

«All’inizio l’ho attaccata, non l’accettavo. Facevo il padre prepotente. Poi ho cominciato a capire, a riflettere. La mia vita era stata un fallimento totale. Ho pensato e ripensato a quanta determinazione avevo messo nel diventare l’uomo abominevole che ero diventato. Ho capito fino in fondo il significato della parola ergastolo. E allora ho cominciato i percorsi formativi per dare un valore a quei pensieri nuovi».

E cioè?

«Discussioni di gruppo per guardarmi dentro, dieci anni di teatro-musical, un corso di comunicazione, incontri con i giovani detenuti. Mi hanno aiutato in molti, a cominciare dalla mia avvocatessa Eliana Zecca. In mezzo c’è stato anche un docufilm, Spes contra spem, realizzato da Nessuno tocchi Caino nel 2015 che ha fatto un passaggio anche al Festival del cinema di Venezia. Erano interviste a dieci ergastolani e io ero uno di loro. So che l’hanno visto e apprezzato anche molti giudici, dalla Corte Costituzionale alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e di questo vado fiero. Insomma, ho fatto e faccio ancora oggi tutto quello che potevo e che posso fare per dimostrare a me stesso e agli altri che sono cambiato. È grazie a tutto questo e a tutto il bene che ho trovato sulla mia strada se oggi non sono più l’uomo dei primi anni Novanta».

Perché dovremmo crederle?

«Perché è la verità. So bene che si può non credermi, ma io so quello che sono e che sento: l’uomo che ero non esiste più».

Oggi vede le sue figlie?

«Sì. E vedo anche il mio nipotino di 9 anni. Sto cercando di recuperare le lacune del passato, con loro e nella vita di tutti i giorni. Leggo, scrivo poesie. Faccio parte del Gruppo della trasgressione, un gruppo di lavoro e di discussione creato dal dottor Yuri Aparo che da 40 anni si occupa dei detenuti nelle carceri. Il lavoro nel gruppo, cioè lo scambio di pensieri e le iniziative con altri detenuti, religiosi, magistrati, psicologi, artisti, studenti mi ha aperto la mente e il cuore. Mi ha fatto capire in pochi anni quello che non avevo visto in una vita intera. Oggi vendo frutta al mercato per guadagnarmi da vivere e vivo con mia madre che ogni notte si sveglia assieme a me quando i carabinieri vengono a controllare se sono a casa. E sento che sto facendo bene perché ho rispetto delle persone e del patto sociale. Adesso ho la consapevolezza del male che ho fatto, non farei mai lo spaccone davanti alla mamma di quel ragazzino della panetteria che mi guardava in aula con la fotografia di suo figlio sul petto».

Ha mai provato a contattarla per dirglielo?

«Certo. Io ho chiesto la mediazione penale con tutti i parenti delle mie vittime, ma non ho ancora avuto risposta da nessuno. Mi metto a disposizione di queste persone per capire assieme a loro se e come posso alleviare il loro dolore. Non chiedo il loro perdono perché sono imperdonabile e semmai mi può perdonare solo Dio. A queste persone, soprattutto alla mamma di quel ragazzo innocente vorrei dire: cerchi di vedere suo figlio con i miei occhi che sono stato l’ultimo a vederlo. Io non sono più quell’uomo. So bene che le ferite non potranno mai rimarginarsi ma la prego: provi ad abbassare le barriere e cerchiamo di trovare insieme una strada per far vivere un po’ di bene da un dolore così grande».

È una mamma alla quale lei ha ucciso un figlio. Le sta chiedendo di fare un passo difficilissimo.

«Lo so. Ha il diritto di odiarmi fino alla fine dei suoi giorni, se vuole, come tutte le altre. Io sto cercando solo di restituire al mondo un po’ di bene, adesso che so che cos’è il bene. Oggi vivo per aiutare a vivere meglio quelli ai quali ho fatto del male».

·         La Mafia romana: L’Autoctona.

Arrestato Salvatore Nicitra,  «il quinto re di Roma»  ex banda della Magliana. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. L’ultima volta che è stato arrestato prima dell’operazione all’alba di martedì risale a due anni fa, con il maxi intervento delle forze dell’ordine chiamato Hampa. Salvatore Nicitra fu accusato di estorsione aggravata di stampo mafioso. Viene considerato il quinto re di Roma della malavita organizzata, quello di Roma Nord. In quel caso - come accertarono i carabinieri - fece da mediatore fra i boss dell’organizzazione per dissolvere i contrasti su 100 mila euro, un debito da incassare da due imprenditori. Siciliano, viene considerato una sorta di saggio, di personaggio in grado di mantenere gli equilibri, anche di garantire il rispetto di accordi. Nicitra, è uno dei personaggi più importanti della banda della Magliana, anche se il suo nome è legato al sequestro del fratello Francesco e del figlio Domenico, di 11 anni, scomparsi e forse uccisi. Per chi indaga «è un esponente di primo piano della criminalità romana, con ripetuti contatti con elementi della Magliana». Ora è in carcere. Per il giudice Otello Lupacchini ha cominciato come rapinatore, con Franco Giuseppucci ed è stato il referente per Primavalle di Enrico De Pedis per il commercio della droga e gestire i circoli privati dove si gioca d’azzardo. È stato coinvolto nella guerra fra bande proprio a Primavalle negli anni Ottanta, con attentati, agguati e omicidi. Come anche a Casalotti e Montespaccato. Per gli investigatori il suo gruppo era in contrasto con quello di Bebo Belardinelli, nemico di Danilo Abbruciati. Le cronache giudiziarie raccontano quanto sia «capace di esercitare e godere di un notevole ascendente nei confronti dei consociati, facendo anche leva sull’attestato vizio di mente riconosciutogli in passate sentenze penali delle quali lui stesso si fa vanto». Tanto da evitare condanne per vari reati gravi. Dopo però quella definitiva per appartenenza alla Banda della Magliana, Nicitra ricompare nel giugno 2018 nell’indagine sul gruppo dei Gambacurta, sempre a Montespaccato. 

«Guadagnavo come un casinò»: gli affari dell’ex boss della Magliana Nicitra  svelati dalle intercettazioni. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Dalle prime accuse di omicidi, rapine e altri reati uscì indenne facendosi passare per pazzo, e se la cavò con qualche anno di manicomio giudiziario. Poi s’è fatto strada nel settore delle scommesse clandestine, come svelarono i pentiti della banda della Magliana. Per esempio Maurizio Abbatino: «Salvatore Nicitra, siciliano con trascorsi di rapinatore, già amico di Franco Giuseppucci e referente di Enrico De Pedis per la commercializzazione della droga nella zona di Primavalle, per la sua capacità di gestire il gioco venne arruolato nella banda per la conduzione i circoli provati». Più di recente è stato lui stesso a narrare le proprie gesta, trent’anni e più di carriera criminale, intercettato dalle microspie dei carabinieri: «Col lotto si possono guadagnare un botto di soldi… all’epoca facevo il totocalcio, però tutti si facevano ‘sto lotto, dico ‘vabbè, e infiliamo pure il lotto … ma su 15 milioni e dopo il 15 per cento… ti dico, mi pigliavo sempre tutto, non vinceva mai nessuno…». E ancora: «Io avevo le case da gioco più importanti di Roma e d’Italia, con i soldi che guadagnavo neanche il casinò li guadagnava, avevo le case da gioco con ville così, con i camerieri con i guanti bianchi e i vestiti neri, guadagnavo 100.000 euro a notte». Altri tempi. Ma a 63 anni ancora da compiere Salvatore Nicitra da Palma di Montechiaro, trapiantato da giovane nella capitale, continuava i suoi affari con le slot machines e la gestione dei giochi elettronici in bar e locali, scommesse clandestine che gli garantivano – secondo l’accusa della Procura di Roma – entrate milionarie. E ieri è stato nuovamente arrestato per associazione per delinquere finalizzata alla turbativa dell’attività economica e frode informatica, con l’aggravante del metodo mafioso. È indagato anche per un paio di omicidi di fine anni Ottanta, ma al di là dei reati formalmente contestati, molto di ciò che è accaduto a Nicitra nei decenni scorsi odora di mafia. A cominciare dalla misteriosa sparizione, avvenuta a giugno del 1993, del fratello Stefano, all’epoca trentaquattrenne, e del figlio Domenico, 11 anni. Un rapimento che fece pensare alla «lupara bianca», e col passare del tempo quel timore è diventato una tragica certezza. Domenico non è mai tornato a casa, probabile vittima di una vendetta traversale; oppure eliminato perché testimone potenzialmente scomodo dell’omicidio dello zio. In quell’occasione si scopri che la criminalità organizzata romana non disdegnava metodi ed esecuzioni ampiamente utilizzate in terre di mafia, e il bersaglio era proprio Nicitra. Che negli anni ha assunto anche il ruolo di mediatore tra le diverse bande che si spartiscono il territorio romano per i loro affari illeciti, dalla droga in giù.

L’ultimo arresto risale a meno di due anni fa, per un’estorsione che doveva servire a mettere pace tra il clan dei Gambacurta e uomini legati al boss Michele Senese. Per provare l’accusa legata al controllo clandestino dei videogiochi. l’indagine condotta dal pubblico ministero Nadia Plastina sotto il coordinamento del procuratore reggente Michele Prestipino ha potuto attingere a numerose intercettazioni in cui Nicitra confessa le proprie attività. Come quando riferisce quanto detto a un potenziale concorrente nella distribuzione e il controllo delle «macchinette»: «Chiariamo subito i ruoli… qua su Roma nord tu non metti un chiodo, e se metti un chiodo devi passà prima da me…». Altre frasi dimostrano i piani «imprenditoriali» del boss: «Qui praticamente si gestirà così, sono 180 Planet… verranno fatte tre divisioni, tre gruppi da 60, noi chiaramente se pigliamo tutta la parte…». O il modo di trattare con i concorrenti: «Già mi conosceva lui, no? Quindi già era addomesticato… Gli ho detto… tu sai bene che quella lista non vale un cazzo, noi abbiamo fatto un accordo, per me vale quello quindi… le cose ce le dividiamo inter nos… e io mi riprendo i posti di prima… ah, poi mi devi dà pure quei due posti che ti sei preso, quello di Cerveteri e quello… M’ha detto: “Salvatore non c’è problema, pigliatelo tu”». Altri indizi emergono dalle conversazioni di Nicitra registrate dai carabinieri sul riciclaggio dei soldi guadagnati, in Italia e all’estero: «Ho messo delle persone fuori… Slovenia e Austria… dove lì i soldi si possono prendere liquidi senza… Dovevamo fare questo tipo di operazioni con i 100 ai 500mila a settimana». Gli emissari in Slovenia «hanno fatto la società, hanno aperto il conto corrente e mi hanno garantito che in due giorni al massimo mi tirano fuori 100… 200mila senza nessuna segnalazione…». Anche il modo in cui altre persone parlano di Nicitra aiuta a ricostruire lo spessore del boss. Diceva un presunto complice: «Tu devi sapere che il mio principale lo conoscono in tutta Roma… veramente una di quelle persone…. che a Roma comandano su tutti… Non so come spiegartelo… hai presente “Il padrino”?... eh, siamo su quelle…». E in un’altra occasione, poco dopo gli arresti fatti per «Mafia capitale», a proposito del suo prestigio criminale: «È un ex della banda della Magliana… gli hanno ammazzato un figlio e il fratello… e va bè perché è un tipaccio… Hai visto adesso hanno arrestato Carminati no? Quella cosa di Mafia capitale… E’ amico del boss, il capo dei capi... Infatti sono venute duemila Volanti pure in sala da lui… L’hanno messo in mezzo, è uno di quelli che a Roma comanda…». E mentre comandava, Nicitra pensava al futuro e a mettere al sicuro il patrimonio, come s’intuisce da lle parole rivolte a un amico. «Ti dico la verità, non mi va manco più di sentirmi male per ‘ste cose… continuerò a fare la vita che faccio… l’unica cosa è che sto levando i soldi dalle società, sto a levà 10-20 mila euro al giorno, sto a levà un po’ tutto, in maniera che se s’inventano qualcosa…».

Salvatore Nicitra, l'eterno ritorno del boss siciliano - l'analisi. L'abbraccio tra Salvatore Nicitra e Franco Gambacurta. Smantellata dall'operazione dei carabinieri la rete malavitosa legata al ras arrivato da Palma di Montechiari. Enrico Bellavia l'11 febbraio 2020 su La Repubblica. Nel crimine ci sono uomini che non passano mai. Arresti e condanne ne accrescono il prestigio. L'aura di intangibilità si rafforza e il patrimonio vola. Era uno così Salvatore Nicitra, da Palma di Montechiaro, vicino al clan dei Ribisi, nell'Agrigentino, venuto a Roma a prendersi la sua fetta di prestigio e potere nella capitale che non vuole padroni assoluti ma ne tollera in quantità. Caratura da mafioso e carisma da boss, militava nella banda della Magliana, legato a Enrico "Renatino" De Pedis e entrature tanto nella camorra quanto nella 'ndrangheta, si era ritagliato il proprio spazio nel settore delle macchinette e nel gioco d'azzardo. Riciclando alla grande in due ristoranti di pregio al centro, La Maracuja e la Fraschetta di Sant'Angelo di cui e proprietario. La scomparsa del figlio, rapito a undici anni con lo zio Francesco, nel 1993 alla Giustiniana, era forse lo scotto pagato per un'ascesa impetuosa a suon di delitti, rimasti irrisolti e ora contestatigli in un'ordinanza che potrebbe essere la pietra tombale sulla sua carriera. In carcere con l'aggravante mafiosa, deve fare i conti adesso con l'accusa di omicidio che cambia le prospettive di un ritorno in libertà. Di lui si erano avute recenti notizie nel 2013, quando era stato immortalato in un abbraccio con Franco Gambacurta, al centro di Montespaccato, suo territorio di riferimento, governato dall'amico. Era stato interpellato per dirimere una controversia su un prestito ad usura che vedeva contrapposti i Gambacurta e gli uomini di Michele Senese, 'o pazzo, boss camorrista. A mettere pace, in una posizione terza che ne conferma il prestigio, era stato chiamato proprio Nicitra, navigante di lungo corso nei mari impetuosi del crimine romano. E lo aveva fatto, rimediando anche per questo l'accusa che lo tiene in cella. Aveva stabilito che l'imprenditore vittima del prestito ormai a corto di protezione mafiosa pagasse 100 mila euro a ciascun gruppo per ritenersi libero da obblighi. Una soluzione salomonicamente remunerativa per tutti con reciproca soddisfazione dei contendenti. Ricco, potente, temuto e riverito, Nicitra aveva pagato il fio con la legge subendo una confisca nel 1998 e poi nel 2011, perdendo, tra gli altri, due lussuosi appartamenti che si era comprato a Porto Rotondo. Gli era stata portata via una porzione di beni intestati in parte alla moglie Andreina Croci. In mezzo una pronuncia buonista della corte d'Appello che aveva provato a restituirgli i beni supponendo che la sua condotta di associato criminale "semplice" facesse decadere i presupposti della sua pericolosità e dunque dell'arricchimento illecito. Ovvero la tesi prevalente fino a quando Roma non si è svegliata scoprendo Mafia Capitale.

Da Roma all'Austria, l'impero dell'ex della banda della Magliana: slot e omicidi. L'ascesa di Salvatore Nicitra, re di Primavalle. Ricostruiti cinque delitti degli anni '80. Sequestro da 15 milioni, anche due ristoranti nella Capitale. "Io sono un boss. Posso mettere le macchinette dove voglio", dice più volte Nicitra intercettato. Dall'alba i carabinieri del Comando Provinciale di Roma, insieme alla Guardia Civil alla polizia austriaca hanno eseguito 38 arresti. Rivalutate le dichiarazioni di un pentito. Federica Angeli e Maria Elena Vincenzi l'11 febbraio 2020 su la Repubblica. "Io sono un boss. Posso mettere le macchinette dove voglio", dice più volte il boss Salvatore Nicitra intercettato, uno dei 38 destinatari dell'ordinanza di custodia cautelare chiesta dalla procura di Michele Prestipino. Lui, definito il re di Primavalle dai tempi della Banda Magliana, perché quella era la zona che Franco Giuseppucci gli aveva affidato per lo spaccio, pezzo da novanta nella mala romana tanto da aver ricoperto il ruolo di paciere tra i Gambacurta di Montespaccato e i Senese, ancora oggi era in grado di gestire importanti business. Anche se era in carcere. Essenzialmente slot machines e gioco d'azzardo che negli anni gli avevano consentito di mettere in piedi un patrimonio, solo in parte scalfito da sequestri e confische. Nell'inchiesta ricostruiti anche cinque delitti irrisolti che ruotano intorno alla sua carriera criminale, costellata dal lutto per la perdita del figlio Domenico, 11 anni, sparito nel nulla nel 1993 insieme con lo zio Francesco. Dall'alba, a Roma, a Viterbo, Terni, Padova, Lecce,  in Spagna e in Austria, i carabinieri del Comando Provinciale di Roma, insieme alla Guardia Civil alla polizia austriaca hanno eseguito i provvedimenti. Il sequestro riguarda anche alcuni ristoranti romani:  Maracuja e La Fraschetta di Castel Sant'Angelo, di quest'ultimo il boss sarebbe proprietario delle mura e l'attuale gestore precisa attraverso il suo avvocato "di non aver nulla a che fare" con Nicitra. L'indagine, denominata "Jackpot" ha al centro Nicitra, affiancato da Rosario e Francesco Inguanta, Rosario Zarbo e Antonio Dattolo. Il boss, considerato "il re di Primavalle" aveva assunto il controllo di parte del mercato della distribuzione e gestione delle apparecchiature per il gioco: slot machine, videolottery, giochi e scommesse online, soprattutto nel quadrante Nord della città. Per la scalata decisivo il prestigio mafioso conquistato sul campo da Nicitra, originario della Sicilia e che gli è costata adesso la contestazione dell'aggravante mafiosa. Il gruppo controllava infatti un giro d'usura legato al gioco e uno di estorsioni, sempre collegate al gioco. Le società coinvolte riconducibili a Nicitra sono la Jackpot srl e la Las Vevas srl. A Inguanta fa invece riferimento la Euro Games e un nugolo di imprese intestate a prestanome. Il sistema era quello di affiancare al gioco legale, autorizzato dai monopoli una serie di altre attività del tutto illegali, imposte con metodo mafioso. Il clan provvedeva poi a reinvestire attraverso altre teste di legno in società e acquisti di beni immobili, oggetto dei provvedimenti. Con il blitz è infatti scattato un provvedimento di sequestro di beni per 15 milioni di euro. Nell'ordinanza frutto del lavoro dei carabinieri e della Dda di Roma sono ricostruiti i delitti  avvenuti a Primavalle alla fine degli anni '80 e all'interno dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: in quest'ultimo caso si tratta della morte di Giampiero Caddeo  rimasto ucciso dal crollo di un muro della sua cella fatta esplodere con una bomboletta di gas. L'agguato, ordito da Nicitra, era in realtà rivolto contro Roberto Belardinelli, suo avversario, un quel momento assente. Il delitto fu solo rimandato e Belardinelli fu poi assassinato nel 1988. Dodici giorni dopo toccò a Valentino Belardinelli, fratello di Roberto che stava rincasando insieme con la fidanzata incinta. I magistrati hanno riconsiderato le indagini e rivalutato alla luce delle ultime acquisizioni sulle attività e il carisma criminale di Nicitra,  le dichiarazioni rese, tra il 1994 ed il 1995, da un collaboratore di giustizia vicino al re di Primavalle.

Le intercettazioni: "Comandavo tutto, guadagnavo più del casinò". "Con l'età mi sono addolcito ma io non ero così non pensare; dovevi abbassare la testa quando parlavi con me! Me la comandavo proprio qua da queste parti a Roma Nord, comandavo tutto e tutti mi davano i soldi a me". Così parla Salvatore Nicitra in una intercettazione citata nell'ordinanza cautelare. "Io avevo le case da gioco più importanti di Roma e di Italia, con i soldi che guadagnavo neanche il casinò li guadagnava. Avevo le case da gioco con ville e con i camerieri con i guanti bianchi, con i vestiti neri: guadagnavo 100 mila euro a notte. Ora  è finito tutto, ho quasi sessant'anni; ma cosa vuoi fare; certo sono rispettato e dove vado mi rispettano tutti, le porte si aprono e tutto quanto, però non vado cercando niente più".

Dalla figlia alla mamma: tutte le donne dell'ex boss della Magliana. Attorno a Salvatore Nicitra, arrestato ieri mattina dai carabinieri, gravitavano 4 donne, ora agli arresti domiciliari: tra loro anche la madre e la figlia del boss. Francesca Bernasconi, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. Ieri mattina, Salvatore Nicitra, ex boss della Banda della Magliana, è stato arrestato. Il "quinto re di Roma" è stato raggiunto da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere ed è accusato di associazione a delinquere, finalizzata alla turbativa dell'attività economica e alla frode informatica. Il tutto aggravato dal metodo mafioso. Ma Nicitra non era solo. Oltre a lui sono finite in manette altre 38 persone e 4 donne, che ruotavano intorno a lui, sono finite agli attesti domiciliari. Sarebbero estranee all'associazione a delinquere, ma concorrenti nei reati di riciclaggio aggravato dalla transnazionalità. Dalla figlia alla madre, passando per la compagna di Nicitra, le "sue" donne preferivano chiamarlo con il nome di battaglia "Sergio", per garantirgli una sorta di protezione, durante gli anni di latitanza. Secondo gli inquirenti, la figlia del boss, Rita, avrebbe avuto "un ruolo centrale nell'attività di investimento e occultamento delle ricchezze di origine criminale del padre, di cui, essendo incensurata, è sistematico prestanome". A carico della compagna, Chantal Anne Richard, invece, peserebbe il rischio di fuga. Infatti, in una conversazione dell'ottobre del 2015 era proprio lei a proporre al boss di scappare all'estero, nel caso sorgessero problemi con la giustizia. Tra le donne del "quinto re di Roma" c'era anche la madre, Francesca Inguanta, che fungeva da prestanome del figlio ed era "dotata di potere decisionale in virtù del ruolo ricoperto all'interno della famiglia". A chiudere la lista c'è un'ordinanza ai domiciliari anche per Monica Lo Savio, che avrebbe aiutato il marito Giovanni Nardone, imprenditore colluso che svolgeva operazioni di riciclaggio per Nicitra. Secondo gli inquirenti, "Nicitra ha, negli anni, monopolizzato l'area a Nord della Capitale, assumendo il controllo, con modalità mafiose, del settore della distribuzione e gestione delle apparecchiature per il gioco d'azzardo (slot machine, videolottery, giochi e scommesse on line), imposte con carattere di esclusività alle attività commerciali di Roma e provincia". L'inchiesta ha anche permesso ai carabinieri di fare luce su 4 casi irrisolti, avvenuti nel quartiere romano di Primavalle alla fine degli anni '80 e su un delitto commesso nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Nei delitti sarebbe stato coinvolto Nicitra, "allo scopo di consolidare il proprio potere criminale".

Marco De Risi e Alessia Marani per “il Messaggero” il 30 gennaio 2020. «L'omicidio Piscitelli non è un omicidio di strada ma è un omicidio strategico, funzionale al riassetto di alcuni equilibri criminali che non appartengono solo a Roma; ha una certa matrice ed è stato eseguito con una metodologia seria: su questo abbiamo una serie di attività investigative in corso». Così Michele Prestipino, Procuratore capo facente funzione di Roma, parlando ieri, in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia a proposito del delitto della scorsa estate del leader ultras della Lazio Fabrizio Piscitelli, nel parco degli Acquedotti. Gli inquirenti sembrano avere le idee chiare sul movente e sul retroscena che ha armato la mano del killer il pomeriggio del 7 agosto scorso: «Stiamo lavorando per individuare le responsabilità», ha aggiunto il magistrato. Ricordando come gli inquirenti capitolini abbiano già lavorato sul Diablo, un personaggio dalle mille sfaccettature e dagli interessi economici molteplici, dalla forte caratura carismatica per questo ascoltato e seguito non solo dagli ambienti a lui più cari del tifo calcistico. «Su Piscitelli abbiamo lavorato - ha spiegato Prestipino rispondendo alle domande della Commissione parlamentare - Era l'indagato principale di una richiesta cautelare che noi avevamo anticipato al Gip prima dell'omicidio al termine dell'indagine che ha poi portato a provvedimenti restrittivi per 50 persone, e nella quale è stata tracciata una parte importante della mappa del narcotraffico a Roma e da cui emergeva il ruolo principale di Piscitelli. Lui - ha concluso il Procuratore - mediava nella fornitura sia in approvvigionamenti per importanti piazze di spaccio romane ed era garanzia di equilibri tra chi gestiva quelle piazze». Insomma, eliminare Diabolik dalla scena criminale della Capitale non è stata una azione estemporanea ma ben studiata e meditata, come si era subito capito dalle modalità dell'esecuzione. Una trappola scattata per portare Piscitelli a dama a un appuntamento nel parco vicino alla casa dove era cresciuto, sulla Tuscolana, quartiere che conosceva benissimo e dove, appena quattro mesi prima, si era verificata una gambizzazione a due pregiudicati per motivi di droga. Poi lo sparo, con una calibro 7,65, da parte di un assassino vestito da runner che si è mimetizzato e poi è scappato come se nulla fosse tra i tanti avventori del parco in quello che sembrava un tranquillo pomeriggio estivo. Il killer non lo ha guardato in faccia a Diabolik. Ma lo ha colpito alla nuca, «vigliaccamente» come hanno detto i familiari. Una fine quasi indecorosa per un leader indiscusso e che, fino a quel momento, sembrava intoccabile. Chi ben conosceva Piscitelli sapeva che era un uomo che aveva sempre bisogno di soldi. Il suo cruccio più grande era quello di non riuscire a ricavare un grande business con il merchandising collegato ai colori biancocelesti. Intanto emergono nuovi risvolti sull'uccisione dell'albanese Gentian Kasa avvenuta al Nuovo Salario. Lo straniero, infatti, in passato si sarebbe mosso nella stessa scacchiera criminale del Diablo ed è stato ucciso con proiettili di identico calibro, sempre 7,65. L'albanese, secondo gli investigatori, avrebbe frequentato le piazze del Tuscolano, il quartiere caro a Piscitelli e che faceva capo al camorrista Michele Senese e poi battuto da altri albanesi. C'è un filo rosso che legherebbe gli ultimi fatti di sangue, compreso quello che ha visto salvo per un miracolo il boss di Primavalle, Leandro Bennato, crivellato di colpi mentre era in auto nel traffico di via Boccea. L'agguato mortale a Kasa potrebbe essere stata una vendetta. Uno scenario che, l'uccisione di Diabolik rimanderebbe a quei nuovi equilibri ridisegnati tra ndrine e camorristi con gli albanesi che scalpitano e che avrebbero già conquistato ampie fette di mercato.

Michela Allegri per il Messaggero il 4 febbraio 2020. «Una società del crimine», organizzata nei dettagli, con una struttura precisa e due boss del narcotraffico ai vertici: Fabrizio Fabietti e il socio Fabrizio Piscitelli. Così il Tribunale del Riesame ha definito la holding della droga che importava quintali di hashish e cocaina al Sud America, bocciando le richieste di 7 dei 51 indagati in carcere dallo scorso novembre che chiedevano l'annullamento dell'ordinanza cautelare. Un'organizzazione capillare, con una «capacità operativa» che non viene scalfita nemmeno dalle indagini e con un giro di affari da 120 milioni di euro. E, soprattutto, con crediti per 50 milioni, riscossi con metodi violenti da una batteria di picchiatori «spregiudicati», che incontrano Fabietti a casa sua - quartier generale della banda - mentre lui è ai domiciliari, dimostrando «spregio verso la legge e l'autorità». Fabietti, Diabolik e i loro soci, si legge nelle motivazioni del Riesame, erano «impermeabili ai moniti della legge», per loro «le norme sono da considerare al pari di orpelli inutili e fastidiosi».

I MESSAGGI CRIPTATI. Le forniture dovevano essere pagate, perché la squadra della morte assoldata dall'organizzazione era pronta a intervenire chi non saldasse i debiti. Ed è seguendo quei conti sospesi che gli inquirenti potrebbero presto arrivare ai mandanti dell'omicidio di Piscitelli, più noto come Diabolik, capo ultrà della Lazio freddato lo scorso agosto al parco degli Acquedotti con un colpo di pistola alla testa. Dagli atti depositati dalla pm Nadia Plastina, emergono altri dettagli sugli affari dell'organizzazione, che riforniva tutti i quartieri, da Roma Nord a Ostia. Centrale il ruolo di Alessandro Telich, genio informatico che gestiva la comunicazione del gruppo e che era riuscito a rendere impossibili le intercettazioni, grazie a un'app criptata che consentiva di cancellare tutti i messaggi da remoto in caso di arrivo della polizia. Le parole del Riesame sono pesanti: ha agito con «spregiudicatezza e professionalità», anche quando, nel 2013, ha aiutato Diabolik nel suo periodo di latitanza. Cinquanta milioni, appunto. A tanto, secondo alcuni affiliati dell'organizzazione, ammontavano i crediti da riscuotere. Partite di droga consegnate e non pagate. Soldi che dovevano essere recuperati a tutti i costi e con ogni strumento. Per questo era stata incaricata una squadra del terrore, che si presentava da chi non avesse saldato nei tempi previsti. Quella dei soldi è la pista che gli inquirenti seguono per identificare i mandanti dell'omicidio. Mentre dei killer è già stato individuato il profilo. Ad aprile 2018 Fabietti e Piscitelli parlano della squadra di picchiatori, composta da Andrea Ben Maatoug e Kevin Di Napoli, dei crediti da recuperare, con «scosse elettriche» e botte. È quello che i giudici del Riesame definiscono «un manifesto programmatico delle intenzioni violente dell'organizzazione, da utilizzare nella generalità dei casi per la riscossione». Le intercettazioni forniscono i dettagli: «Oh - dice Fabietti - gli ho preparato una macchina, li massacriamo tutti. Sono quattro persone che vanno in giro da tutti». E ancora: «So' 37, questi mo li sterminano tutti, con la scossa elettrica sdraiano la gente». Ad aprile della squadra di picchiatori faceva parte anche Leandro Bennato, gambizzato a Boccea lo scorso novembre. Un delitto che, secondo chi indaga, è collegato all'omicidio del Diablo.

LE APP. È il 23 maggio 2018, quando una microspia nell'appartamento di Fabietti, all'epoca ai domiciliari, capta Piscitelli, Telich e un altro soggetto mentre organizzano uno scambio di droga. Piscitelli chiede a Telich come gestire le comunicazioni e come garantire il contatto costante con alcuni corrieri nel corso di un viaggio in mare: «Allora che facciamo con questi telefoni? Mi deve partire la gente, io non posso rischiare così. Fabio deve partire, se poi mi si stacca, dove vado a sbattere la testa? Se vanno in Marocco, se vanno in Francia, se vanno a coso, giustamente io per primo voglio essere sicuro di non perderli». E Telich: «Quello che ti va per mare, fallo stare con me un'ora e intanto gli spiego come funziona tutto quanto e gli faccio fare un'ora di applicazione»

Francesco Salvatore per Repubblica - Roma il 4 febbraio 2020. Un fiume di cocaina diretta a Roma. Ma non solo, anche a Napoli. Una città che di certo nel traffico degli stupefacenti non è da meno della capitale, e che ha i suoi boss a gestirlo. In una intercettazione inserita nelle motivazioni del tribunale del Riesame, che ha confermato il carcere per sei trafficanti sodali di Diabolik, si fa riferimento alla città campana: «500 chili al mese a Roma? Fai che 100 li porti a Napoli». Un azzardo che potrebbe aver mosso degli equilibri e condotto all' esecuzione di Fabrizio Piscitelli, ucciso lo scorso agosto con un colpo di pistola alla nuca. Proprio su tale ipotesi, infatti, sta lavorando la procura: gli inquirenti hanno le idee chiare sugli esecutori ma sono intenzionati anche a scoprire il contesto dietro all' omicidio, ovvero chi ha dato il beneplacito a compiere un' operazione del genere, definita in commissione Antimafia dal procuratore capo Michele Prestipino « strategica e funzionale al riassetto degli equilibri criminali non solo a Roma». Diabolik e il suo gruppo, dunque, erano diventati un soggetto influente, forse anche fuori Roma. Dal botta e risposta dell' intercettazione, quello che si comprende è che spingersi a Napoli non era una chimera. « Dove li porti a Roma 500 chilogrammi al mese, dove dimmi un po'?», chiede Dorian Petoku a Fabrizio Fabietti, braccio destro di Piscitelli. « Noi lo possiamo fare » , la risposta. E Petoku: «No ma dove li troviamo, dove li mettiamo? Fai che 100 li porti a Napoli, ma gli altri». D'altra parte il gruppo di Piscitelli potenzialmente aveva già in mano la capitale, ma solo per una scelta strategica tirava il freno: « Fabietti riferisce ai complici - scrivono i giudici - come, nonostante la possibilità di cedere a chiunque fosse interessato ("a tutta Roma") un ingente quantitativo di narcotico pari a 3mila chili, preferisca privilegiare gli acquirenti con maggiori disponibilità di denaro » . Secondo Fabietti, dunque, il gruppo suo e di Diabolik poteva cedere droga «a tutta Roma». L'organizzazione, sgominata a fine novembre dal nucleo di polizia economico finanziaria della Finanza, coordinato dal pm Nadia Plastina, era iper strutturata. Come un' azienda: « Si è in presenza di un organismo efficiente in grado di avere il monopolio dello smercio di droga a Roma», scrivono i magistrati. «Una vera e propria società del crimine dove l' imprenditore Fabrizio Fabietti, il quale in accordo con il socio Fabrizio Piscitelli e la collaborazione di soggetti che costituiscono la struttura portante dell' organismo sociale e di altri soggetti che, con l' apporto continuato ne garantiscono il buon funzionamento ( gli acquirenti), realizza lo scopo sociale, vale a dire la commercializzazione di stupefacenti sul territorio laziale». Che gli affari fossero gestiti al dettaglio lo dimostra anche l' esistenza di un' agendina sulla quale Fabietti segnava compratori, venditori e cifre: « Devi trovare un altro modo, che so, murarli - dice il padre a Fabietti nel marzo 2018 - ma io dico, ti fermano con un coso così, oltre che mi arrestano a me, a parte quello, arrestano 7- 8mila persone. Perché ci stanno i nomi di tutti». E come un' azienda, ogni componente utilizzava un telefono criptato ad hoc attraverso delle applicazioni che un esperto informatico dell' associazione inseriva negli smartphone: «Allora che facciamo con questi telefoni? » - gli chiede Diabolik ad agosto 2018 - «Mi deve partire la gente, io non posso rischiare così. Fabio deve partire, se poi mi si stacca dove vado a sbattere la testa? Se vanno in Marocco, se vanno in Francia».

Giuseppe Scarpa per ''Il Messaggero'' il 5 febbraio 2020. «Ripercorrendo la pregressa situazione penale di mio figlio, non riesco a coniugare questa grandezza criminale con la sua morte da uomo libero, né riesco a comprendere come le certezze attraverso le quali viene delineato tale spessore non abbiamo comportato il suo arresto prima della sua tragica scomparsa. Se così fosse andata, oggi ve ne sarei stata grata!». Lo scrive in una lettera affidata all'Adnkronos e indirizzata al procuratore facente funzioni di Roma Michele Prestipino la madre di Fabrizio Piscitelli, il boss e ultras della Lazio freddato con un colpo di pistola alla nuca il 7 agosto scorso al parco degli Acquedotti di Roma. Missiva che, sino a ieri, il magistrato non aveva comunque ricevuto. Nella lettera la madre di Diabolik ringrazia il procuratore «per aver ricordato» nel corso dell'audizione in commissione Antimafia, «l'impegno profuso sinora nelle indagini per l'omicidio di mio figlio» auspicando che «la barbarie della sua uccisione acquisti la dovuta visibilità nei termini più appropriati senza ricorrere a strumentalizzazioni possibili e senza voler appannare una città, ridotta ormai ad clima da Far West, in assenza però di mio figlio». Ecco le parti significative della lettera: «Ad oggi e dopo sei mesi, siamo all'oscuro circa gli autori di tale crimine. Finora, ciò che invece è apparso chiaro, è quanto subiamo quasi giornalmente, con le continue descrizioni personologiche accompagnate da pseudo certezze, gravi illazioni, suggestivi e fantasiosi moventi, almeno fino a prova contraria». Dopo aver toccato la questione relativa all'omicidio, la madre scrive anche del funerale: sul «funerale di mio figlio, sin dall'inizio, c'è stata una grande concentrazione di energie fisiche e mentali dedicate alla rappresentazione del personaggio tanto da determinare inizialmente il questore a un provvedimento che imponeva la celebrazione alle 6 del mattino. Provvedimento rivisitato dopo estenuanti incontri avvenuti nel momento più intenso e drammatico del nostro dolore». Infine la donna chiede di trovare gli assassini: «Ripercorrendo la pregressa situazione penale di mio figlio, non riesco a coniugare questa grandezza criminale. Che un criminale così fenomenale fosse libero da tempo e fino alla sua morte, avvenuta dopo pochi giorni dalla chiusura delle indagini, mi suscita riflessioni più ampie. Nella mia ingenuità di madre, ormai travolta dal dolore non descrivibile, è di secondaria importanza cosa sarebbe accaduto a mio figlio se fosse stato vivo, resta invece prioritario conoscere la verità rispetto all'evento criminoso che lo ha reso vittima, un aspetto quest'ultimo mai considerato per lasciare spazio ampio alle caratteristiche multiformi di una personalità complessa e carismatica quale quella di Fabrizio. Mi affido dunque alle elevate competenze del procuratore, alla sua dedizione costante a un tessuto sociale ormai gravemente deformato così come viene descritto e all'impegno di tutti gli inquirenti nelle indagini relative a mio figlio, affinché davvero conducano all'obiettivo principe: trovare gli assassini e assicurarli alla giustizia».

·         La Mafia romana: I Casamonica.

Alessandro Cristofori per “il Messaggero” il 22 dicembre 2020. Un cognome può condizionare l'intera vita di una persona. Specie se è pesante. Ma il cognome non lo scegliamo e non lo ha scelto nemmeno Armando Casamonica, pugile ventenne nato e cresciuto nel quartiere Quadraro e fresco di debutto - con vittoria - da professionista nei pesi superleggeri: sabato scorso, sul ring di Rozzano, ha battuto ai punti il serbo Dragojevic. «Da piccolo non ero molto interessato al pugilato - racconta - Mi piacevano più altri sport, ma poi ho iniziato a frequentare la Quadraro Boxe e in palestra ho fatto uno degli incontri più importanti della mia vita. Il maestro Silvano Setaro». Il rapporto tra i due è indissolubile. Quando l'allievo parla del maestro si scioglie completamente: «A lui devo tantissimo. Lo considero come un fratello maggiore e ormai siamo una cosa sola. Ascolto sempre i suoi consigli e soprattutto è stato fondamentale in diverse occasioni, sia umanamente che professionalmente». Casamonica su questo ha un aneddoto curioso: «Ero in ritiro con la nazionale a Spoleto. Qualche anno fa ero molto più immaturo e quando mi deprimevo volevo starmene per conto mio e non vedere nessuno. Vivevo un momento psicologico molto difficile. Silvano mi venne a prendere e mi fece stare con lui tutto il giorno. Mi costrinse a seguirlo ovunque. Mangiavo e mi allenavo con lui. Fu molto importante e oggi lo ringrazio ancora molto».

CURRICULUM DOC. Armando Casamonica, nonostante la giovane età, ha già un curriculum di tutto rispetto: campione italiano Schoolboy (2014), campione italiano junior (2016), due volte campione italiano Youth (2017 e 2018) e guanto d'Oro nel 2019. Il successo più recente, come anticipato, è di sabato scorso, quando al primo incontro da professionista si è imposto ai punti sul serbo Milovan Dragojevic nel Memorial Parente andato in scena al palazzetto dello Sport di Rozzano. Un talento innegabile che lo rende erede di una dinastia. Romolo Casamonica è stato campione italiano Welter e ha partecipato anche ai Giochi di Los Angeles 1984, mentre Sandro Casamonica è stato campione internazionale Wba dei superleggeri: «Non mi dà fastidio questo paragone con chi mi ha preceduto - precisa Armando - è stata una mia scelta intraprendere questo sport che amo moltissimo perché ti trasmette un senso di disciplina facendoti diventare uomo. Un pugile impara a prendersi le proprie responsabilità in tutti i campi e quindi anche questa cosa non mi provoca particolari turbamenti».

LE OFFESE. A proposito di turbamenti. Il suo cognome può essere purtroppo associato anche alla criminalità organizzata. Ma Armando mette le cose in chiaro: «Non nascondo che mi sono arrivati messaggi sui social dove mi danno del mafioso o mi insultano pesantemente. La mia colpa sarebbe quella di portare questo cognome. Questa gente però non sa che mio padre e mio nonno ad esempio lavoravano onestamente nel cinema, io mi alleno duramente tutti i giorni e non faccio nulla di male. Il mio dovrebbe essere un cognome come gli altri». Come Rocky Balboa anche Armando si allena facendo footing. A differenza del personaggio di Stallone, La furia del Quadraro non corre per le strade di Philadelphia ma in un parco alla Romanina. E durante il training ci confessa di pensare a due sogni. Uno sportivo: «Mi piacerebbe vincere un titolo importante. Non so quale. Ma voglio vincere per ripagarmi di tutti i sacrifici che sto facendo». E uno per la sua vita: «Tra qualche anno, quando mi sarò consolidato nella boxe, mi piacerebbe far capire a tutti che chiamarsi Casamonica non vuol dire essere un criminale». Mettere ko i pregiudizi. Armando è pronto a vincere questo match.

Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 dicembre 2020. La obbligava a comportarsi come le donne della sua famiglia, a mettere le gonne lunghe e i capelli acconciati in un certo modo. Niente trucco o pantaloni. Doveva rispettare le usanze rom dei Casamonica in una condizione di totale asservimento a lui e ai suoi genitori. È questo il cuore delle accuse contestate dalla procura a uno dei componenti della famiglia Casamonica, accusato di maltrattamenti prolungati e violenze sessuali nei confronti della moglie. E gli abusi e il clima di violenza ingiustificata e minacce sarebbe proseguito per lungo tempo, fino a che la donna non ha capito che solo denunciando sarebbe riuscita a liberare lei e i suoi figli. L'uomo era stato arrestato ed è in carcere, accusato anche di associazione mafiosa in uno dei rivoli dell'inchiesta Gramigna. Ieri per lui il pm Eugenio Albamonte ha chiesto 8 anni di pena per entrambi i reati. I fatti contestati vanno dal 2006 al 2016. Per il pm i maltrattamenti sono avvenuti anche di fronte ai figli. Offese ripetute, gli schiaffi, l'obbligo di ubbidire a lui e ai suoi genitori, il divieto di far vedere i nipotini ai nonni materni. E poi le violenze sessuali: «La logica era quella di una persona che permetteva un tenore di vita benestante alla moglie - ha spiegato in aula il pm nella requisitoria - ma poi pretendeva con la violenza: " Io pago cene, gioielli e borse e tu non fai quello che ti chiedo io?", l'atteggiamento usato da Casamonica». Tre gli episodi di violenza sessuale contestati all'uomo. Abusi prepotenti a cui la vittima non è riuscita a ribellarsi. Uno anche poco dopo che la donna aveva partorito, con il taglio cesareo. «L'imputato non voleva aspettare e ha preso quello che voleva con la forza - ha ricostruito il pm - la donna è dovuta ricorrere alle cure mediche e lui le ha detto di riferire di essere caduta in casa». La vittima per anni ha sopportato fino a che si è resa conto, e ha denunciato: « È stata una frase riferita dal padre dell'imputato - ha spiegato il pm - a convincerla: " Ricorda che i tuoi figli sono Casamonica"». La vittima, infatti, costretta a vivere con i suoceri sebbene il marito fosse in carcere, si è rivolta alle forze dell'ordine. «Avevo provato a dire che volevo andare via - la denuncia della donna - ma mi ha minacciata di fare del male a me e alla mia famiglia. Mi avrebbe ammazzato».  

ALESSIA MARANI per il Messaggero l'8 ottobre 2020. «I soldi? Li ho chiesti a Domenico Spada e lui mi ha aiutato». «Il debito? Non ricordo». «Se ne ho parlato al telefono con mio padre e la mia fidanzata? In quel periodo raccontavo a tutti bugie». Le risposte dei testimoni al processo in corso al clan Casamonica e affini smantellato nell'operazione Gramigna del 2018 dei carabinieri di Frascati con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia (37 le ordinanze di custodia cautelare spiccate), è pieno di «non ricordo», «non so», «sono confuso». E per l'accusa è la riprova del potere intimidatorio che il clan («sono tanti, sono pieni di fratelli e cugini che si muovono», diceva un calabrese legato alla ndrangheta intercettato dai militari), continua ad avere nonostante tutto, anche se molti dei suoi esponenti di spicco sono dietro le sbarre. La presidente del III Collegio della X Sezione del tribunale di Roma Antonella Capri più di una volta nel corso delle udienze è costretta a intervenire per rinfrescare la memoria ai teste sulle regole processuali e sul comportamento di responsabilità civile da tenere. A Marco Alabiso, titolare di un'attività al Tuscolano, cresciuto nei pressi di Porta Furba, il fortino dei Casamonica, ascoltato il 22 settembre, a un certo punto, deve dire: «Ma lei lo sa che il reato di falsa testimonianza va punito?». Il quarantenne in alcuni passaggi tradisce il terrore. «Senta, dopo che li abbiamo arrestati tutti questi signori, lei è stato avvicinato da qualcuno?», gli chiede il pm Giovanni Musarò. «No». E ancora: «Le è stato suggerito di dare una versione dei fatti?».

Risposta: «No, assolutamente». Poi gli ricorda l'incontro con un emissario dei Casamonica, avvenuto subito dopo che Alabiso era stato sentito in caserma. In quella occasione, dalle intercettazioni, viene fuori che al teste era stato detto che bastava dire di avere restituito la somma per fare cadere le accuse. «Questo suo atteggiamento di oggi - gli contesta Musarò in aula - è stato abbondantemente preannunciato... Lei mi vuole dire che ha tirato in ballo i Casamonica per calunniarli...». Alla fine il pm chiederà al giudice di acquisire e mettere agli atti del processo i verbali a sommarie informazioni resi davanti a lui, così come previsto dall'art. 500 quarto comma del cpp quando si ravvede «la sussistenza di elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro o di altra utilità affinché non deponga ovvero deponga il falso». Non è l'unico a tentennare e a ritrattare di fronte all'incalzare delle domande del pubblico ministero. Un altro testimone, Simone Formica, lo dice chiaramente - anzi sembra volerlo sottolineare sapendo di essere sentito dagli imputati, quando Musarò gli contesta le intercettazioni proprio con Alabiso, in cui si lamentava delle vessazioni subite dal clan - che «senza quelle telefonate io non lo denunciavo (a Domenico Spada, ndr)». Facendolo passare quasi per un benefattore: «Alla fine lui mi ha aiutato». Poco importa che Formica, stando alle indagini, a fronte di un prestito di 800 euro dal pugile, alias Vulcano, ai primi del Duemila, raccontava di avere dovuto pagare 50-60mila euro di interessi. Per il teste «è colpa mia, sono io che ho sbagliato ad andare da lui». E se a verbale aveva detto tutto il contrario, lui: «Mi sarò sbagliato». Il pm cerca di capire perché evitasse di andare a parlare con Vulcano nella sua palestra e avesse paura di rimanere solo con lui, dal momento che temeva gli imbruttisse: «Per imbruttire che intende?». Formica: «Quando io mi allargavo troppo, ma mai con cattiveria». Musarò ribatte: «Imbruttire con gentilezza mi pare difficile». Tra i testimoni ascoltati in questi giorni compaiono anche il maestro di musica e il capo della banda musicale che intonò le musiche del Padrino al funerale show di Vittorio Casamonica. Anche con loro Musarò deve insistere prima che comincino a tratteggiare l'insolito scenario in cui si trovarono (i petali lanciati dall'elicottero, i brani non usuali per delle esequie...) e che descrissero in prima battuta. «Ma era tutto normale o un problema ve lo siete posto?», domanda.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 22 luglio 2020. Dalla Garbatella all' Eur, da Tor Marancia all' Appio Latino, fino alla Tuscolana: il clan puntava a gestire tutte le piazze di spaccio più fruttuose di Roma Sud, in grado di garantire un volume d' affari da 100mila euro al mese. Un' impresa resa possibile dall' alleanza stretta con gruppi criminali minori e, soprattutto, con un cartello di narcotrafficanti colombiani in grado di procurare cocaina purissima. E invece, le mire espansionistiche di venti affiliati al clan Casamonica erano state bloccate nel maggio dello scorso anno da una raffica di arresti. Ieri, le condanne, comprese tra i 9 e i 3 anni di reclusione, arrivate al temine di un processo condotto con rito abbreviato. Sul banco degli imputati, il gruppo che faceva capo a Domenico e Salvatore Casamonica. Nei confronti del secondo gli inquirenti procedono separatamente. Era lui a gestire in prima persona i rapporti con i narcos. Emerge dalle intercettazioni captate dai carabinieri della compagnia Casilino, coordinati dai pm Giovanni Musarò e Stefano Luciani, della Dda. Conversazioni che hanno consentito agli inquirenti di sventare l' arrivo a Roma di un carico enorme: addirittura 7 tonnellate di cocaina pura e pronta per essere messa sul mercato. La base operativa del gruppo era a Porta Furba, fortino del clan Casamonica. Ma lo scopo era espandersi il più possibile e controllare tutte le attività criminali di Roma Est e Sud rimaste ancora in mano a piccoli boss di quartiere. Le modalità di organizzazione erano sempre le stesse: vedette, addetti alle consegne, un esercito di pusher al servizio della famiglia di origine sinti e anche attività lecite messe in piedi per riciclare il denaro sporco. La banda era organizzata secondo uno schema verticistico che faceva capo ai membri del clan, ma dove tutti avevano un compito preciso: c' era il cassiere, l' addetto ai clienti, chi si occupava dell' approvvigionamento e del confezionamento, chi pensava a sostituire gli spacciatori in caso di arresto e curava i rapporti con i legali. All' epoca degli arresti, nell' ordinanza il gip scriveva che «i Casamonica agiscono, per la realizzazione dei fini del programma associativo, in base ad una struttura ramificata sul territorio ed articolata in più piazze di spaccio, ma pur sempre operanti in un contesto unitario assicurato dal costante raccordo tra i vari soggetti posti al vertice delle rispettive articolazioni» e in particolare le figure di Domenico, Massimiliano e Salvatore Andrea Casamonica. Ieri l' unico ad avere scelto l' abbreviato è stato Domenico: per lui la condanna è a 5 anni di reclusione e a 20mila euro di multa. La pena più pesante, invece, è stata disposta per i pusher Attilio Marchi, uno degli organizzatori dell' attività di spaccio a Garbatella, e il pusher Simone Martinelli: 9 anni di reclusione. Sono state le intercettazioni a consentire agli inquirenti di ricostruire l' attività del gruppo criminale. Le cimici dei carabinieri hanno captato anche qualche incidente di percorso, come quando un pusher al servizio del clan aveva nascosto la droga nella lavatrice, ma poi per sbaglio aveva azionato il lavaggio. Era il 27 marzo 2017. Lo spacciatore, preoccupatissimo, aveva chiamato un' amica: «Ho fatto na cazzata, ho messo tutto in lavatrice e poi ho fatto la lavatrice, mi sono scordato». La risposta è eloquente: «Te lo dico, fatti il segno della croce». Dei colpi assestati al clan dalla procura di Roma ha parlato anche la sindaca Virginia Raggi intervenendo alla cerimonia di insediamento del nuovo Presidente della Corte di Appello di Roma Giuseppe Meliadò: «Roma negli ultimi anni ha saputo reagire assestando duri colpi ad organizzazioni criminali, il cui obiettivo era quello di inquinare il tessuto sociale della Capitale d' Italia. Mi riferisco alle azioni criminali dei clan Casamonica, o alle continue operazioni sul litorale romano di Ostia legate al clan Spada o al clan Senese. Credevano di poter mettere le mani indisturbati su Roma e di deviarne il percorso civile nel nome dell' illegalità e della sopraffazione. Grazie all' immenso lavoro della magistratura e delle forze dell' ordine, alle quali va la nostra piena sincera e profonda gratitudine, è stata invertita la rotta». E nel pomeriggio ha direttamente commentato la sentenza su Twitter: «Nella nostra città non deve esserci spazio per la criminalità. Grazie al Tribunale di Roma e alle forze dell' ordine».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. «I Casamonica proteggono Roma, i napoletani vonno entrà a Roma e i calabresi vonno entrà a Roma». Ha detto, inconsapevolmente, molto più di ciò che voleva intendere, Guido Casamonica, in una conversazione intercettata con la moglie. La telefonata trascritta è agli atti dell'inchiesta che, ieri, ha portato all'arresto di 20 esponenti del clan, 15 in carcere e 5 ai domiciliari. Un'intercettazione che rileva la consapevolezza criminale all'interno della famiglia. Una famiglia mafiosa. Capace, quindi, di tenere testa al crimine tradizionale come camorra e ndrangheta. E anche per questo che la procura di Roma, i pm Giovanni Musarò e Edoardo De Santis, hanno contestato l'associazione di stampo mafioso, l'estorsione, l'usura e intestazione fittizia di beni. Inoltre è stato disposto dal Tribunale di Roma-Sezione delle Misure di Prevenzione anche il sequestro ai fini della confisca per 20 milioni di euro: 7 unità immobiliari, tra cui almeno 4 ville, conti correnti, quote societarie, una stazione di servizio e un bar tabacchi, tutti tra Roma e provincia. Ovviamente Guido Casamonica aveva la sua teoria complottista. E sosteneva che dietro agli arresti che, negli anni passati, avevano falciato la famiglia ci fossero addirittura i servizi segreti. Insomma gli 007, secondo la sua delirante versione, avrebbero voluto penalizzare i Casamonica a favore dell'ascesa della camorra a Roma: «Ce stanno i servizi segreti che vonno portà la camorra qui a Roma e le ndrine (articolazioni della ndrangheta, ndr) Je dà fastidio perché noi proteggemo Roma». Insomma Guido Casamonica non si poneva nessuna domanda in merito alla violenza praticata dal clan per controllare la Città Eterna, o dei soldi sporchi spesi dalle donne della famiglia, come raccontato da uno dei quattro collaboratori di giustizia, per comprare abiti, vestiti e scarpe nelle più costose boutique della Capitale. Dettagli per l'esponente della famiglia, prove per la procura e la squadra mobile riportate in modo rigoroso nell'ordinanza: «Senti... mo scenno lo sai dove te butto io a te?? mo te darei na bastonata in testa.. te spaccherei la testa!!... le mascelle te romperebbi io!!» A dirlo era Ferruccio Casamonica, boss e padre di Guido, ad una delle sue vittime di usura, arrestato assieme all'altro capo, cognato e coetaneo, 70enne, Giuseppe Casamonica. A raccontare, invece, le spese folli delle donne della famiglia è stata la collaboratrice Simona Zikova, ex moglie di Raffaele, altro figlio di Ferruccio: «Loro con le carte non comprano niente Gelsomina (ex suocera della pentita, ndr) va in una boutique. Oh, c'era un periodo che non si poteva spendere più di mille euro (in contanti, ndr) voi mi dovete dire come fanno loro a comprare cose da 3-4.000 euro Lei non lavora e va a spendere 4.000 euro in un giorno per una borsa. Come fai? Ma così sono tutti. Loro, in un altro negozio, hanno una che li serve, cioè ci sta soltanto una per i Casamonica». Inoltre nella ricostruzione degli inquirenti emerge la definizione di «associazione mafiosa di tipo orizzontale, la cui forza è dettata dall'appartenenza alla famiglia». «Quando c'è un problema, diventano tutti una famiglia, che si aiutano ha dichiarato ai magistrati sempre Zakova ...Sono gelosi tra loro quando uno ha più dell'altro, però quando c'è un problema, loro tolgono questa cosa di gelosia e si rinforzano l'uno con l'altro; se scappa uno e non si sa dov'è, uno lo incontra, lo blocca, lo ferma, chiama e aspetta che viene la persona, così si aiutano e così va in tutto, se uno È un branco! Così funziona. Si aiutano tra loro, nei problemi si uniscono sempre o tra i parenti o tra le persone esterne, sempre! Poi ci sono le famiglie che sono più unite, quelle che sono un po' meno unite, però si aiutano sempre. Quando hanno bisogno, basta che chiamano, si fanno sempre a gruppetto e la loro forza è questa».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 21 giugno 2020. Pistole a tamburo, automatiche o mitragliette. Tutte le armi dei Casamonica. Amano fare a botte quelli del clan, più che il piombo di solito hanno sempre preferito picchiare chi non pagava il debito d'usura. Una tradizione, però, che è divenuta desueta a fronte del peso criminale acquisito negli ultimi 15 anni. Perciò i pugni, per farsi rispettare, non erano più sufficienti specialmente per fronteggiare i napoletani. Quest'ultimi erano arrivati, nel 2012, armi in pugno, a ridosso della villa del boss Ferruccio, in via Caldopiano. Feudo del clan. Una pioggia di fuoco si era abbattuta sulla casa. I Casamonica avevano risposto con altrettanta solerzia. Era nata una sparatoria: urla a squarciagola, inviti a farsi vedere e criminali inginocchiati dietro le auto con le pistole in mano. Ad inaugurare la nuova stagione dal grilletto facile è stato Ferruccio Casamonica, il capo 70enne. Talmente affezionato alla sua automatica da custodirla nel cassetto porta oggetti dell'Alfa Romeo 147 e spregiudicato a tal punto da puntarla in faccia, in mezzo alla strada, ad un automobilista che aveva tamponato. La vittima chiedeva di compilare la constatazione amichevole. Per tutta risposta si è visto puntare, in mezzo agli occhi, la canna di una pistola. Ecco il suo racconto, l'episodio è avvenuto sul Gra e porta la data del primo marzo 2016: «L'uomo (Ferruccio Casamonica, ndr) ha aperto il portaoggetti della macchina e ha estratto una pistola, poi mi ha puntato l'arma e ha detto vedi di andartene o ti rimando al paese tuo in una bara (l'uomo è nordafricano, ndr). Io ero terrorizzato e gli ho risposto stai tranquillo è uno stupido incidente. L'uomo, allora, è sceso dall'auto e ha continuato a mostrarmi la pistola, poi mi ha intimato di allontanarmi e di lasciare perdere ed anche la donna, scesa anche lei dalla macchina, mi ha detto vattene, altrimenti oggi finisce male. Allora mi sono impaurito. L'uomo ha riposto la pistola all'interno di un borsello nero che aveva addosso, è risalito a bordo dell'Alfa unitamente alla donna e sono andati via a grande velocità». Questo è solo un episodio, finito agli atti dell'inchiesta, ed inserito nell'ordinanza per dimostrare la dimestichezza che il clan aveva acquisito con le armi.  Una nuova stagione accompagnata anche dalle precauzioni del caso. Disporre di un arsenale nel mondo della mala è sinonimo di potenza. Allo stesso tempo custodirla in casa può essere un pericolo, visti i controlli periodici della forze dell'ordine. Ecco che le armi erano nascoste, sotterrate, in un terreno in via del Torraccio, oppure in un tombino. All'occorrenza le disseppellivano. Così ha raccontato alla squadra mobile, Simona Zakova, collaboratrice di giustizia ed ex moglie di un Casamonica. «Raffaele aveva una pistola nera, se non sbaglio era una 9 x 21. Guido una pistola a tamburo, Cristian aveva una pistola piccola, anche Ferruccio ne aveva una simile. Sono armi che io ho visto con i miei occhi, Raffaele la sua la lucidava spesso». E infine: «Raffaele nascondeva dentro a un tombino anche una mitraglietta, se è ancora lì non lo so. Forse l'avrà spostata».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 18 giugno 2020. Un ricatto alla politica - «Hanno minacciato una guerra con morti per strada» - potrebbe nascondersi dietro al funerale show che, cinque anni fa, ha consacrato i Casamonica tra i gruppi criminali più potenti della Capitale. Le note del Padrino che risuonano altissime fuori dalla chiesa Don Bosco nel quartiere Tuscolano. Petali di rosa lanciati da un elicottero. E il feretro del capoclan, Vittorio Casamonica, che apre un corteo lunghissimo e viene trasportato da una carrozza trainata da sei cavalli. Immagini che nell'agosto del 2015 avevano fatto il giro di tutto il mondo. Era stato allora che il nome della famiglia di origine sinti era diventato un simbolo internazionale di criminalità organizzata. All'epoca, tutti avevano preso le distanze. Politici di ogni schieramento avevano reagito stupiti e arrabbiati. Increduli: nessuno capiva come fosse stato possibile organizzare un evento del genere per il clan della Romanina, che aveva agito indisturbato. Ma ora, tra le 467 pagine dell'ordinanza con cui il gip di Roma Zsuzsa Mendola ha disposto gli arresti nei confronti di 20 esponenti della famiglia sinti, emerge un retroscena inedito, su cui la procura - i pm della Dda sono Ilaria Calò, Giovanni Musarò e Edoardo De Santis - sta ancora indagando. Una denuncia sporta pochi giorni dopo la messa-show, riportata in una recente informativa della Squadra Mobile, racconta che i Casamonica, all'epoca, fossero certi che le esequie di Vittorio Casamonica non sarebbero mai state intralciate. A parlare con gli inquirenti è Giacomo L., riferisce le parole che gli avrebbe detto un rampollo del clan: «Sei stato invitato a presentarti al funerale più importante di Roma, che si terrà giovedì a mezzogiorno». E, soprattutto: «Non avere paura a presenziare, perché chi deve sapere sa, abbiamo in mano tutti i politici, tutti gli schieramenti, e ci hanno assicurato che ci faranno celebrare la messa in serenità, dopo averli minacciati di far succedere una guerra e che ci saranno morti per strada». Il funerale, in realtà, non era solo un modo per onorare la memoria del defunto, ma era una dimostrazione di potere, un evento organizzato per capire chi sostenesse le famiglia della Romanina, chi fosse disponibile ad alleanze, chi avesse giurato loro vendetta. Tanto che non presenziare alla celebrazione sarebbe stato considerato un affronto: «Devi venire assolutamente, perché sarà il funerale più sfarzoso di tutti i tempi, con i cavalli, l'elicottero che lancerà dei petali di rosa dal cielo. Non ti preoccupare, ti invitiamo perché sei una persona perbene, hai la faccia pulita, ci sarà un corteo lunghissimo perché chi verrà celebrato è il re. Il funerale sarà così grande perché parteciperanno tante persone che non avranno più problemi con noi, infatti chi rende omaggio al re sarà degno di rispetto», si legge ancora negli atti. Poi, le minacce: «Se non verrai non mi ripresenterò io stesso, ma altre persone a cui non potrai dire di no. Abbiamo visto la tua macchina, ci piace molto e può accadere che sarai tu a consegnarci le chiavi se non vieni al funerale, e non potrai neanche presentare la denuncia di furto». Alle esequie, insomma, era di vitale importanza riempire le strade e le piazze. Per dare alla città, all'Italia intera e addirittura al mondo la dimensione del potere del clan. Era fondamentale che se ne parlasse, che il nome dei Casamonica diventasse conosciuto da tutti. «L'ostentata visibilità dell'evento - sottolinea il gip - è volutamente organizzata per accrescere il prestigio criminale dell'organizzazione». Sottrarsi alle richieste era difficile. Lo racconta il pilota dell'elicottero ingaggiato per spargere petali di rosa: ha dichiarato che, nonostante sapesse che si trattava di una pratica irregolare, aveva deciso di accettare comunque l'incarico. E ancora: la banda sarebbe stata praticamente obbligata a suonare le note de Il Padrino. Le parole di uno dei musicisti sono eloquenti: «Prima che cominciassimo un uomo con fare prepotente ha detto: Dovete suonare Il Padrino! e alla risposta dei suonatori, che evidenziavano l'opportunità di suonare una marcia funebre, intimava: Qui si fa come dico io. Ci sentivamo soli in una mareggiata, in forte soggezione». All'entrata della chiesa c'era il manifesto che è rimbalzato sui giornali di tutto il mondo: «Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso», il volto di Vittorio in primissimo piano, vestito di bianco e con il crocifisso al collo, il Colosseo e la cupola di San Pietro sullo sfondo, e la scritta Re di Roma: «Chiari indici di ostentazione di potere, di potenza e di controllo del territorio, rilevatori di un fenomeno mafioso», sottolinea il gip. Tra i membri del clan, l'esaltazione per quell'evento era durata settimane. Soprattutto perché il nome della famiglia era rimbalzato da un lato all'altro del pianeta. «Mi ha chiamato una persona da New York, pure di là?» racconta un indagato intercettato. E ancora: «Non si è vista mai na cosa del genere, mai in tutto il mondo».

Da "lastampa.it il 18 giugno 2020. Arresti e sequestri della polizia al termine dell’operazione "Noi proteggiamo Roma" che ha inferto un nuovo duro colpo alla famiglia di origine sinti tra le più dedite al crimine della Capitale. Qui il sopralluogo degli agenti in una delle ville abitate da esponenti del clan.

Da "today.it" il 18 giugno 2020. Guerino Casamonica, detto Pelè, avrebbe festeggiato i suoi 50 anni tra qualche giorno, il 23 giugno. Un compleanno rovinato perché, oltre alla notifica delle ordinanze di custodia cautelare dell'operazione 'Noi proteggiamo Roma', si è visto confiscare beni per un valore di circa 20 mila euro. Gli agenti della Divisione Polizia Anticrimine della Questura hanno infatti effettuando un minuzioso inventario di tutti i beni sequestrati ai fini della confisca. Tra questi, numerosi candelabri, brocche, servizi di posate d'argento,  ma anche svariati servizi di piatti, che sarebbero stati utilizzati in occasione della grande festa organizzata per il compleanno di Guerino Casamonica, che si sarebbe tenuto martedì prossimo. Solo uno dei servizi di piatti d'oro ha un valore di circa 15 mila euro. A Guerino Casamonica, detto Pelè, era stata sequestrata anche la cosiddetta villa rossa tra la Romanina e Frascati.

Chiara Rai per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. «Robba de' lusso». Chi vive nel quartiere ha bene in mente tutto lo sfarzo che c'era in quel locale al civico 24 di via Gioacchino Volpe a Tor Vergata. I residenti del palazzo di fronte non hanno voglia di raccontare cosa hanno visto e che persone frequentavano quel posto: «Dico solo si avvicina un uomo con la spesa in mano che a noi che qua ci viviamo c'è sembrato strano vedere un locale del genere aprire qui. Insomma chi è che se lo può permettere? E se nessuno dei residenti ci va, che ce sta a ffa na cosa così? Io una risposta me la sono data, come se la sono data in tanti». Una zona dormitorio piena di palazzoni. Lì le giornate trascorrono tutte uguali, soprattutto in questo momento: finite le scuole e il lockdown ci sono tanti occhi che osservano quello scorcio di realtà dove la malavita ha affondato le unghie. Qualche anno fa quelle stradone con appartamenti dormitorio, famiglie numerose, disoccupati e con un po' di fortuna anche impiegati hanno visto aprire una vera e propria oasi extralusso. Mesi di lavori per trasformare l'interno di un grande locale in un wine bar, degustazioni ed enoteca con colonne, banconi e mobilio all'ultimo grido, forse pacchiani, «alla Casamonica style» azzarda qualcuno a sigilli apposti: «Cocktail e stuzzichini carissimi dicono alcuni che si trovano vicino la pizzeria che fa angolo dei nostri amici hanno pagato un botto e poi non ce so' più tornati. Se pensavano de sta da n'altra parte». Insomma un tenore che stride con tutto il resto e un locale che se si fosse trovato da un'altra parte forse avrebbe conquistato la sua clientela. E invece no, i gestori del wine bar in via Volpe hanno fatto tantissimi lavori di ristrutturazione e poi dopo qualche mese dall'apertura hanno chiuso. Ma in quella strada e quella zona la parola d'ordine è farsi gli affari propri, qualcuno prova ad alludere a giri strani ma poi si rintana in casa. E per la strada i ragazzi si siedono sui muretti non lontano dai vecchi cassonetti pieni d'immondizia, i bambini giocano facendo i passaggi con le lattine della birra e chiedono le sigarette a chi passa da quelle parti non certo per caso, forse perché il navigatore li ha portati per errore in quel quartiere labirinto dalle sfumature grige e dimenticate ma pur sempre vicino al Mc Donald's e a una escape room che si trova proprio vicino al wine bar in quella stessa strada. Ora la maggior parte delle attività sono chiuse e su quella al civico 24 in particolare rimane un alone di consapevolezza, mista a timore reverenziale per il cognome che porta: «Comandano loro, mi spiace», la frase detta di corsa da una residente sessantenne. E poi ai Castelli, non lontano da lì, sulla via Casilina nel territorio di Monte Compatri Laghetto c'è un locale bar, tabacchi e slot : «È chiuso dice un uomo seduto su un muretto sono in vacanza». Un anziano racconta di aver visto la polizia da quelle parti ieri mattina. Anche lì una grande struttura, meno sfarzosa ma piena di servizi e con un grande parcheggio: «Lavorano tanto dice una signora è sempre pieno ma c'è gente particolare». Anche a San Cesareo c'è un bar vicino a un distributore che adesso che è chiuso e che insieme a quello in via Casilina era gestito da Angelo e Giuseppe Bruni che sono tra i 15 arrestati oggi e che erano i tentacoli del clan sul territorio.

Federica Angeli per “la Repubblica - Roma” il 27 febbraio 2020. Amabile Casamonica è stato condannato per truffa a un anno e 2 mesi per aver ordinato e consumato cibo per 180mila euro in occasione del suo matrimonio senza avere mai saldato il conto alla "Taverna del lupo" di Gubbio. Una tecnica collaudata come ha raccontato Christian Barcaccia, imprenditore romano, titolare di un mobilificio che svetta sul gra all' altezza della Romanina ieri nel corso del maxiprocesso per mafia. È la seconda udienza in cui l' uomo viene interrogato dal pm Stefano Luciani: ieri l' esame si è concentrato sui suoi rapporti con Laura Casamominca, sorella di Luciano, entrambi in carcere insieme ad altri 35 accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, estorsione. « Lauretta aveva acquistato da me lampadari e una camera da letto e altri mobili per un importo di 15mila euro. La camera è stata consegnata, mi pagò solo 4000 euro in contanti e non saldò mai il resto». Di più: «È tornata mesi dopo - prosegue Barcaccia - per acquistare altra merce da regalare a un parente, a un avvocato, e per lei per un importo da 12mila euro e non ha mai pagato neanche quella commessa » . Se questo fosse tutto sarebbe già di per sé grave. Ma non è tutto. « Laura tornò da me all' inizio del 2018 e mi disse che voleva indietro i soldi che mi aveva dato, ovvero il valore della camera da letto acquistata ». La donna pretendeva dunque la restituzione di un importo che non aveva mai pagato, fatta eccezione per quei 4 mila euro. La kafkiana situazione viene descritta dalla vittima come un colpo di genio venuto in mente a Lauretta ma purtroppo come una strategia per trascinare commercianti nella trappola dell' usura. «Mi propose di cominciare a restituirle i soldi a rate: per un mese avrei dovuto pagarle gli interessi di duemila euro a settimana, poi trascorso quel periodo dovevo darle tutti i mila euro che le dovevo » . Un debito immaginario apparecchiato come fosse stato un importo da lui richiesto, con interessi mirabolanti. Inizia un pressing molto serrato: la donna si presenta quasi quotidianamente da lui dicendo di fare in fretta a ridarle quei soldi perché il marito doveva sottoporsi a un intervento costoso agli occhi. « Anche quando poi i carabinieri sono intervenuti ad arrestare i primi, lei ancora era fuori continuava a venire e a minacciarmi di ridarle quei soldi». Per chiudere quella storia che si protraeva da mesi Christian Barcaccia ha quindi deciso, essendo a corto di contanti, di dare al fratello Luciano una parure in oro da consegnare a Laura. « Valeva 5000 euro quell' oro ma lo stimammo per 4000. Solo che il giorno dopo la consegna mi chiamò dicendomi che non valeva nulla quello che gli avevo dato. Per cui mi tornò sotto la sorella, anche a muso duro, affrontandomi in un bar che sta accanto al mio mobilificio. Minacce e intimidazioni varie che me l' avrebbe fatta pagare e che non sarebbe finita bene se non restituivo i soldi » . Soldi non dovuti appunto, a fronte di 22mila euro di merce presa dal negozio, senza sborsare un euro. Solo perché "loro sono i Casamonica".

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 25 febbraio 2020. Le mani dei Casamonica nel cuore di Roma. Il clan di origine sinti ha cercato di spostare il suo baricentro criminale a Ponte Milvio, enclave della movida. E lo ha fatto, da maggio del 2015 fino a tutto il 2016, esercitando il controllo su un locale. Il ristorante il Tappezziere sarebbe dovuto diventare la base di spaccio della cocaina su tutta la zona, soprattutto nei fine settimana. L'esca che il clan ha usato per attirare il gestore è stata un'atomica bionda, attrice in diversi film tra cui Fantozzi 2000 la clonazione e in Zora la vampira. Lenka Kviderova, 47 anni, prima si è ingraziata il ristoratore e poi ha calato l'asso: «Noi siamo i Casamonica». Il titolare del locale, però, si è rifiutato e ha pagato a caro prezzo il suo diniego: otto uomini incappucciati lo hanno bastonato e gli hanno rubato l'auto. Poi hanno imposto il pizzo a suon di 200 euro al giorno, soggiorni pagati in albergo, l'acquisto di un cellulare e il pagamento dei lavori di ristrutturazione di una delle loro case. Fino a quando non sono intervenuti i magistrati della Dda, il procuratore capo Michele Prestipino e gli aggiunti Giulia Guccione ed Edoardo De Santis. Adesso in tre sono accusati, a seconda delle posizioni, di estorsione e rapina aggravata dal metodo mafioso: Guerino Casamonica, Antonio Casamonica e la sua compagna la Kviderova. «Lui è un Casamonica, figlio di una persona potente, non lo fare arrabbiare, dagli i soldi». È senza scrupoli la 47enne, in arte Lanci Lenka. Per settimane frequenta il ristorante. Diventa una cliente fidata. Poi mostra il suo vero volto. La donna del boss. E il capo in questione era, appunto, Antonio, 27 anni, protagonista del raid punitivo del Roxy Bar dell'aprile del 2018. Il titolare del locale era stato picchiato per non averlo servito subito. A Ponte Milvio, invece, il ristoratore è linciato per non essersi messo al servizio della famiglia. Una pressione feroce, subita giorno dopo giorno. Al bancone si presentano in coppia i due Casamonica, Antonio e Guerino. Due energumeni. Le presentazioni ufficiali le fa la Kviderova. Comprese, successivamente, tutta un serie di minacce. Consigli, li chiamava lei, per spingere la vittima a pagare. Chi invece è andato subito al sodo sono gli uomini del clan: «Sono un Casamonica, posso ammazzarti o dare fuoco al locale». La scelta che gli rappresentano è, in fondo, solo una. Diventare un loro pusher. La cocaina dovrà essere smerciata attraverso il suo locale. È il 2015 e Ponte Milvio è terra di nessuno. Michele Senese, boss della camorra, è in carcere. Così come un altro uomo forte della zona, Massimo Carminati. I Casamonica cercano di riempire il vuoto criminale e si lanciano come avvoltoi sul quartiere. Il ristoratore resiste. Lui non vuole stare al soldo della mala. Non vuole trasformare il Tappezziere in una base di spaccio. La reazione arriva subito, violenta: in otto con il passamontagna lo bastonano. Lui gli consegna la Smart. Per riaverla dovrà pagare 3500 euro. Ma è solo l'inizio. Le minacce vanno avanti: «I soldi me li devi dare, me porto via tua madre, mi porto via la tua ragazza, tu non sai quanti siamo, siamo in duemila. Noi comandiamo tu devi stare sotto botta». L'uomo è atterrito. Continua a rispondere di no. Alla fine però si piega. Accetta un compromesso, gli paga quotidianamente una quota variabile tra i 50 e i 200 euro. In un'occasione il clan pretende 5000 euro. In totale la vittima versa nelle mani dei carnefici 30mila euro. E poi l'acquisto di un cellulare, il soggiorno in un albergo e le ristrutturazioni degli immobili della famiglia criminale. Ma per gli uomini del clan, affamati come lupi, il primo obiettivo rimane immutato. Il locale deve spacciare la cocaina. Il business che la famiglia fiuta, dallo spaccio della droga, nel cuore della movida romana, è elevato. Tuttavia il gestore non arretra e il rampollo del clan gli ricorda di chi è figlio: «Se lo sa mi padre che mi stai a trattare così i cazzi miei sono anche cazzi tuoi, se lo viene a sapè mi padre..». Sui Casamonica piomba, nel giro di pochi anni, la procura. Antonio e Guerino finiscono in carcere mentre la bionda del giovane boss è adesso accusata di estorsione aggravata del metodo mafioso.

Marco Carta per “il Messaggero” il 15 gennaio 2020. Dagli anni Settanta al fianco della Banda della Magliana: «Si sono fatti strada recuperando crediti per loro». Fino a oggi: «A Roma nessuno gli si mette contro». Perché i Casamonica non sono semplicemente uno dei tanti clan che si sono spartiti la Capitale. Ma i padroni incontrastati dell' area che si estende lungo la Tuscolana: «Abbiamo le regole come i calabresi, siamo come gli Ndranghetisti». A raccontarlo è stato ieri il collaboratore di giustizia, il calabrese Massimiliano Fazzari, sentito come testimone nel maxiprocesso al clan che vede 44 imputati con accuse che vanno dall' associazione mafiosa dedita al traffico e spaccio di droga, all' estorsione, l' usura e detenzione illegale di armi. «C' è forse qualche gruppo che potrebbe fronteggiarli ma piuttosto che andare in perdita non lo fanno o ci si mettono d' accordo. Sono tanti, tu ti presenti con 6 persone e loro tornano con 20».

LE DICHIARAZIONI. Rispondendo da una località protetta alle domande del pm Giovanni Musarò, Fazzari ha fatto riferimento alla forza intimidatoria della famiglia sul territorio. «Si definivano mafiosi. Per il rientro nel vicolo di Porta Furba di Simone Casamonica dopo la scarcerazione ci fu un' accoglienza stile Gomorra tra applausi e clacson suonati. Arrivò in macchina sgommando. Come un boss», ha ricordato il pentito. «Io ero sul balcone e i clacson si sentivano prima che imboccassero il vicolo, quando erano ancora sulla Tuscolana. Ad eccezione di chi era in carcere quel giorno c' erano tutti. Accolto come un eroe». Fazzari ha ricostruito le dinamiche con cui era gestito il business dell' usura della famiglia, soffermandosi su Massimiliano Casamonica. A lui si era rivolto per avere un prestito di 5mila euro. Le regole sono chiare: «L' amicizia è l' amicizia e i soldi sono i soldi. Se non rispetti i patti poi si rovina pure l' amicizia. Per un rapporto di amicizia, invece del 20 per cento al mese, mi accordo il 10 per cento, quindi 500 euro al mese di interessi». A gestire il denaro da prestare a strozzo, un tesoretto che ammontava a un milione di euro nascosto a Porta Furba, come emerso nell' interrogatorio, sarebbe stata però Stefania Casamonica, detta Liliana. «Quando abbiamo iniziato a non pagare gli interessi, sono iniziate le minacce telefoniche per avere indietro i soldi. C' era il timore che potesse accadere qualcosa e ci siamo allontanati da Roma. Ho anche pensato di scendere in Calabria per risolvere il problema in maniera diversa». Tanti secondo Fazzari sarebbero stati gli intrecci intessuti nel tempo con le altre organizzazioni criminali. «Vittorio (i cui funerali nel 2015 vennero celebrati a Don Bosco) lo chiamavano il re. Mi dissero che si sono fatti strada facendo recupero crediti per la banda della Magliana». Inoltre «ci sono stati episodi in cui mi è stato raccontato di rapporti con i Nirta, la cosca di San Luca».

Michela Allegri per ilmessaggero.it il 29 gennaio 2020. Milioni di euro nascosti nei muri di casa, minacce di morte e un'ossessione per il controllo. Debora Cerreoni, la collaboratrice di giustizia che con la sua testimonianza ha consentito alla procura di decimare il clan Casamonica con un'ondata di arresti, racconta la sua vita precedente nell'ultima udienza del maxiprocesso a carico di 44 esponenti della famiglia sinti. «So che Giuseppe Casamonica diceva di avere 10 milioni di euro nascosti nei muri. Una volta ero a vicolo di Porta Furba e venni insultata perché mi ero tagliata i capelli di un centimetro, arrivavano a controllarmi anche la spesa», dice la Cerreoni che, all'epoca, era sposata con Massimiliano Casamonica. «Mi hanno distrutto la vita - racconta la testimone - Non avevo sposato soltanto Massimiliano, ma tutto il clan». La donna, collegata in videoconferenza con l'aula Occorsio del tribunale di Roma, sostiene di essere stata minacciata di morte e di essere stata sequestrata: «Mi hanno tolto il cellulare, per cercare di nascondere il sequestro mi hanno anche portato alla festa di un loro parente». Poi, una dichiarazione pesantissima: «Hanno anche minacciato di sciogliermi nell'acido». Una vicenda che aveva fatto finire in manette tre componenti della famiglia che, però, sono stati tutti assolti in primo grado. Antonietta e Liliana Casamonica erano accusate di aver minacciato e sequestrato all'interno di un appartamento a Porta Furba la Cerreoni, loro nuora. Il loro fratello, Massimiliano, secondo gli inquirenti aveva malmenato la donna durante un colloquio in carcere. Il sequestro, per i pm, sarebbe stato una ritorsione per il presunto tradimento della donna nei confronti del marito detenuto. Dopo essersi separata Casamonica, la testimone ha deciso di diventare una collaboratrice di giustizia e di raccontare ogni cosa agli inquirenti. Ieri, davanti al pm Giovanni Musarò, ha anche dichiarato di essere sempre stata considerata un'intrusa nella famiglia. «Non sono mai stata ben vista da loro, perché non ero sinti - ha detto la Cerreoni - dovevo fare quello che dicevano loro, non potevo fiatare. Ogni volta erano discussioni e botte». Il clan non avrebbe apprezzato nemmeno la sua indipendenza e il suo lavoro. «Lavoravo come cuoca e neanche questo andava bene - ha aggiunto - Mi accusavano dei tradimenti ma anche mio marito mi tradiva». Non ha mai denunciato prima per timore, aveva paura che la allontanassero dai suoi figli o che le facessero del male. Ha raccontato anche questo in aula: «Più volte ho pensato di denunciare, ma ogni volta che andavo in caserma alla fine non entravo e piangevo, avevo paura per i bambini. Ma nel maggio 2014 sono riuscita a fuggire e a Bologna ho sporto denuncia. Avevo paura e temevo ritorsioni sui miei figli». Il maxiprocesso contro la famiglia sinti è scaturito dall'operazione Gramigna che, tra il 2018 e il 2019, in due tranche, ha fatto finire in carcere decine di esponenti del clan. Il primo filone si è chiuso lo scorso dicembre con la condanna di 14 componenti della famiglia. Per gli imputati, che hanno scelto il giudizio abbreviato, sono state disposte pene che vanno dai 3 ai 9 anni di reclusione e per alcuni di loro è stata riconosciuta l'aggravante mafiosa. L'accusa più pesante, quella di associazione a delinquere di stampo mafioso, invece, viene contestata nel processo trattato ieri a carico di 44 imputati.

·         La Mafia romana: Gli Spada.

Roma, confiscato il patrimonio del clan Spada: beni per oltre 18 milioni di euro. Gli specialisti del Gico hanno ricostruito le ricchezze illecitamente accumulate dagli esponenti di spicco della famiglia criminale di Ostia, "Romoletto", Ottavio Spada, Armando Spada, Roberto Spada e Claudio Galatioto. Sigilli a aziende, immobili, palestre, panifici, forni, auto e conti corenti. Maria Elena Vincenzi il 22 aprile 2020 su La Repubblica. Oltre 18 milioni di euro. A tanto ammonta la confisca che i militari del comando provinciale della guardia di Finanza di Roma stanno eseguendo stamattina nei confronti del clan Spada. Il provvedimento, disposto dalla sezione Misure di prevenzione, è l'epilogo dell'attività investigativa della dda capitolina che in questi anni più volte si è concentrata sulla famiglia criminale di Ostia. Gli specialisti del Gico del nucleo di polizia economico finanziaria hanno ricostruito le ricchezze illecitamente accumulate dagli esponenti di spicco del clan - il boss Carmine Spada alias "Romoletto", Ottavio Spada, Armando Spada, Roberto Spada e Claudio Galatioto - individuandone le fonti di finanziamento "occulte". Gli approfondimenti economico-patrimoniali, che hanno preso le mosse dalle note operazioni di polizia "Eclissi" e "Sub Urbe", hanno consentito di dimostrare l'incoerenza dei modesti redditi dichiarati dagli interessati con i rilevanti investimenti posti in essere in svariate attività commerciali, finanziati, in realtà, dai profitti delle numerose condotte delittuose: estorsione, usura e traffico di droga. Gli Spada avevano provato a salvare il loro patrimonio intestandolo a prestanome compiacenti: ma le indagini hanno riguardato tutte le persone (circa 50 tra familiari e terzi) coinvolte nelle compravendite di quote societarie, effettuate fittiziamente al solo scopo di "schermare" la titolarità effettiva delle aziende. E, quindi ora, dopo il sequestro dell'ottobre 2018, arriva la confisca che permette di sottrarre al clan beni in grado di inquinare l'economia legale: questi beni non torneranno più nelle mani del clan.  Sigilli a 19 società, 2 ditte individuali, 6 associazioni sportive/culturali, quasi tutte con sede a Ostia e operanti in vari settori: dalle slot ai distributori, dalle palestre alle scuole di danza, passando per bar, forni, edilizia e vendita di auto. Infine due immobili, 13 veicoli e conti correnti bancari e postali. 

Roma, Cassazione conferma condanna per estorsione con metodo mafioso al boss degli Spada. La sentenza diventa definitiva: 8 anni di carcere per Carmine e per il suo "socio", Emiliano Belletti. Federica Angeli il 30 gennaio 2020 su La Repubblica. "Sono contento, non solo per me, sono contento per tutti. Spero che in tanti capiscano che vale sempre la pena provare a ribellarsi, scegliere da quale parte stare". Adriano Baglioni, il tabaccaio di Ostia che nel 2014 fu minacciato di morte, intimidito, picchiato, costretto a pagare un "pizzo" prima di 100mila euro, lievitato in due giorni a 275mila, da Carmine Spada, il boss della famiglia sinti e dal suo scudiero Emiliano Belletti, ha vinto. La Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito in primo e secondo grado nel processo istruito dal pubblico ministero Mario Palazzi: si è trattato di un'estorsione con l'aggravante del metodo mafioso. Gli Ermellini hanno respinto i ricorsi trasformando in definitiva la sentenza. Spada è già in carcere dal 25 gennaio del 2018 dopo l'arresto per associazione a delinquere di stampo mafioso che ha portato a una condanna in primo grado all'ergastolo. Proprio due giorni fa sono state depositate le motivazioni con cui i giudici della III Corte d'Assise hanno confermato essere mafia. La condanna a 8 anni di carcere è quindi diventata definitiva, così come quella di Belletti che, a differenza del boss del clan sinti, era in libertà e ora dovrà raggiungere anche lui il carcere per scontare la pena. Poco prima delle 21 è arrivata la parola fine alla vicenda che vide il tabaccaio di Ostia vittima delle angherie del clan che in quel pezzo di Roma ha costruito il proprio impero su violenza, soprusi e silenzio. Malgrado la paura - le minacce che gli rivolsero i due riguardavano sia la sua incolumità sia quella dei suoi bambini - Baglioni si ribellò sporgendo denuncia e rompendo così quello schema di omertà per troppi anni diventato la regola. "Alla fine vince lo Stato e vincono i cittadini onesti che denunciano le estorsioni mafiose. Questa sentenza è un riconoscimento per tutti coloro che, ad Ostia come altrove, hanno il coraggio e la dignità di rifiutare le prevaricazioni dei clan". Questo il commento, carico di soddisfazione, dell'avvocato Giulio Vasaturo che ha assistito il tabaccaio Adriano Baglioni nel corso dell'intero procedimento penale. "Siamo felici per questa sentenza che porta in sè un messaggio di speranza: chi denuncia vince. #Noi siamo vicini ad Adriano e a tutti quelli che stanno riscrivendo la storia del nostro territorio combattendo a testa alta la mafia", questo il commento del presidente dell'associazione antimafia Noi Massimiliano Vender.

Clan Spada, i giudici della Corte d'Assise: "Violenze sistematiche e intimidazioni, ecco perché sono mafia". I due boss del clan Spada, Roberto e Carmine. Depositate a 120 giorni dalla sentenza di primo grado le motivazioni delle 17 condanne ad altrettanti esponenti della spietata famiglia criminale di Ostia. Federica Angeli su La Repubblica il 29 gennaio 2020. "Il sodalizio si connota come di stampo mafioso per il sistematico ricorso a mezzi violenti e intimidatori tali da generare un diffuso stato di assoggettamento e di omertà". A 120 giorni dalla sentenza di primo grado, sono state depositate le motivazioni con cui la III Corte d'Assise di Roma ha condannato per mafia 17 componenti del clan Spada su 24 (in 7 sono stati assolti). Motivazioni che spiegano perché il 24 settembre dello scorso anno è stato riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti della spietata famiglia criminale di Ostia e perché i suoi tre vertici - Carmine, Roberto e Ottavio Spada - sono stati condannati all'ergastolo. "E' in primo luogo palese - scrive il presidente della Corte Vincenzo Capozza - che il sodalizio capeggiato da Spada rivesta indiscutibile stabilità e durevolezza stante l'ampio arco temporale del dispiegarsi delle sistematiche condotte di spoliazione, prepotere, violenza, infiltrazione, intimidazione". Di più: presenta una solida organizzazione, ognuno con un proprio ruolo specifico e "con una accurata copertura dei soggetti al vertice che solo raramente intervengono sul campo". Quanto ad assoggettamento e omertà, pilastri del 416bis, "il primo si ricava dall'assenza di reazioni da parte delle vittime alle reiterate violenze, sopraffazioni, minacce e privazioni patite anche per lunghi periodi; la seconda dalle carenze di denunce sulle predette condotte e dai silenzi pure registrati nel presente giudizio". Un esempio concreto: le dichiarazioni di tale Carluccio che "dopo la visita minacciosa di Carmine Spada riferì di non reagire perché si trattava di una famiglia grande e aveva paura", ma anche la reticenza dei testimoni presenti al duplice omicidio nel novembre del 2011 di Giovanni Galleoni e Francesco Antonini. Lo stampo mafioso del sodalizio è rafforzato, oltre che dai descritti legami con la mafia siciliana, dalla presenza di alcune tipiche connotazioni dei contesti mafiosi quali: il rispetto dovuto ai capi e nei confronti delle famiglie alleate, ad esempio i Fasciani. Nel caso della famiglia Spada l'allarme sociale che connota la forza di una famiglia criminale, anche laddove non compia delitti, "è enormemente rafforzato dalla commissione di reati gravi come omicidi, estorsione, usura, l'acquisizione della gestione e del controllo di attività economiche attraverso il metodo mafioso". Negli atti di questo processo, si sottolinea nelle motivazioni, e nelle intercettazioni trascritte si parla esplicitamente di "territorio", "guerra", "pace", "guerra aperta", "equilibri", "pax mafiosa", "questioni di competenza", "patti, accordi e trattative". Il ruolo di vertice di Carmine e dei fratelli Roberto e Ottavio detto Maciste, oltre a quello del nipote Ottavio, detto Marco, così come Nando De Silvio e dei due Pergola (padre e figlio, Roberto e Daniele) è palese per i giudici del III Collegio della Corte d'Assise. Rossi Alessandro è al fianco dei capi in momenti molto delicati, come quello ad esempio in cui, nel 2017, Carmine sunisce nel giro di una settimana due attentati omicidiari. E' lui a confidare alla moglie Caterina Servisole che "tutte le mattine è costretto a fare da palo a Carmine", e all'amante Martina de Dominicis "per un po' è meglio non vedersi, le cose si calmeranno". Infine: "la varietà delle condotte criminose inducono a escludere la concessione delle attenuanti generiche. Visti i copiosi precedenti e le pendenze e le gravità delle condotte si stima equo applicare a Carmine, Roberto e Ottavio Spada la pena dell'ergastolo", in virtù del duplice omicidio con cui vennero ammazzati in strada nel 2011 Giovanni Galleoni e Francesco Antonini da un egiziano e da Ottavio, detto Marco (nipote dei boss). Omicidio commissionato appunto da Carmine e Roberto (quello della testata al cronista di Nemo) che diedero al killer, prima di occuparsi della sua fuga e della sua latitanza, 6.500 euro. Tanto valevano le vite dei due personaggi della mala di Ostia trucidati in via Forni. Sposata in tutto dunque la tesi dei due pubblici ministeri che hanno istruito il processo, Ilaria Calò e Mario Palazzi.

·         La Mafia romana: I Fasciani.

"Il clan Fasciani è la mafia di Roma", le motivazioni della Cassazione. La suprema corte a proposito della  sentenza che a novembre condannò esponenti della famiglia a oltre 140 anni di carcere. La Repubblica il 17 marzo 2020. Il clan Fasciani rappresenta "un emblematico esempio di mafia locale" e con esso "anche la città di Roma ha conosciuto l'esistenza di una presenza mafiosa, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento". Lo scrive la seconda sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui, il 29 novembre scorso, confermò l'impianto accusatorio per Carmine Fasciani e la sua famiglia, rendendo definitive le condanne - per oltre 140 anni di reclusione in totale - per una decina di imputati. La Corte nella sentenza  parla di un "sodalizio semplice" operante a Ostia "fin dagli anni Novanta", che "si eleva nella sua quotidiana operatività ad associazione mafiosa, attraverso ulteriori e pregnanti condotte tipiche alle quali tutti i sodali partecipano consapevolmente arrecando ciascuno un contributo causale finalisticamente orientato proprio ad acquisire egemonia criminale nel territorio di insediamento": un "salto di qualità" che "coinvolge non soltanto la singola persona", il capo "indiscusso" del clan Carmine Fasciani, "che vede aumentata la sua fama criminale", ma anche "quel substrato di carattere familiare che ne costituiva l'originario nucleo storico". I giudici di piazza Cavour, inoltre, puntano l'attenzione sull'"assenza di denunce ad opera delle persone offese", elemento "correttamente valorizzato ai fini della sussistenza del reato" in "un contesto caratterizzato da una varietà di fatti illeciti accertati, ma mai denunciati". La Cassazione spiega anche come non ci siano più solo le mafie a "denominazione di origine controllata" ma anche quelle "a forma libera" dal momento che "la complessità delle dinamiche sociali" richiede una "flessibilità" delle "tipologie espressive e delle forme di intimidazione" che ben possono "trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente la persona, con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale vien ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà".

·         La Mafia Nomade.

Felice Manti per “il Giornale” il 3 marzo 2020. C'è un campo nomadi insediato nel cuore di Roma. Una discarica a cielo aperto dove viene bruciato ogni tipo di rifiuto. E dove, se paghi, puoi smaltire illegalmente i calcinacci di una ristrutturazione. Che poi vanno a finire dritti nel Tevere. Sembra di stare in un quartiere degradato a Città del Messico o in Venezuela e invece siamo a un passo dai Parioli, Roma bene. Distese di calcinacci, mobili smembrati, materiale elettrico e resti di roghi tossici appiccati nel cuore della notte e che lasciano tracce nel ponte della ferrovia che passa sopra il Tevere e che segna il confine della riserva naturale, tutto completamente annerito, come mostrano le immagini realizzate dall' alto grazie a un drone e trasmesse ieri sera dalle Iene, in onda su Italia 1. «Il paradosso è che siamo in una zona che dovrebbe addirittura essere protetta», spiega la Iena Filippo Roma prima di venire allontanato fuori a sassate e badilate, mostrando i cartelli nelle vicinanze che recitano «Aniene, riserva naturale». Poco lontano c' è uno dei club più esclusivi della città, il Circolo Canottieri Aniene e soprattutto a due passi da un centro di raccolta Ama, l' azienda municipalizzata del Comune che dovrebbe tenere pulita la città. «Questa cosa è risaputa da anni e nessuno interviene», dice un romano alle Iene. Eccola, la città grillina che M5s continua a portare come esempio di buon governo, tanto che il sindaco Virginia Raggi (che a Roma dice «grazie per la segnalazione...») da settimane è in pressing sul viceministro degli Esteri Luigi Di Maio perché il Movimento ripensi la deroga sui due mandati. Ma la realtà che rimanda l' inchiesta delle Iene è devastante: «Ci sono gli estremi per parlare di disastro ambientale e di attentato alla salute pubblica. Da anni sopporto un inferno fatto di odori insostenibili che prendono proprio allo stomaco, di inquinamento dell' aria e delle acque», è il lamento di uno dei cittadini della zona, che denuncia: «Sono stata lì, ho visto bambini, donne e uomini vivere in condizioni disumane». Tutti sanno, nessuno apparentemente fa nulla. Né i vigili urbani né i carabinieri del Comando generale in via Castellini, a cui diverse persone si sarebbero rivolte per denunciare lo scempio nel cuore della Capitale, né tantomeno l' ente regionale RomaNatura, che dovrebbe controllare le aree naturali protette. Il direttore Emiliano Manari fa spallucce, «questa mail che denunciava il campo rom ci è sfuggita...». Ma dietro ai traffici di rifiuti c' è un vero e proprio business, come rivela una delle abitanti del campo in un italiano stentato a Roma: «Ci sono persone che controllano il campo, che prendono 100 euro al mese per le baracche, che minacciano la gente se non pagano la luce o l' affitto». Fare soldi con i rifiuti è un gioco da ragazzi, soprattutto se hai tre sim dedicate che a Roma evidentemente in molti conoscono. «Qui girano anche mille euro al giorno, 200 solo per una macchina piena di calcinacci», con gli affitti, i prestiti a strozzo e le estorsioni agli abitanti del campo si arriva a migliaia di euro al mese in nero. «Ma lei non ha paura?», chiede la Iena. « Ci hanno paura tutti da parla' , io ci ho paura solo di Dio, noi siamo in Italia, italiani deve comandare qua, non noi, noi siano rumeni...». Ma non ditelo alla Raggi.

Discarica abusiva al campo rom, tra faide e l'arrivo del Comune. Le Iene News il 09 giugno 2020. Filippo Roma e Marco Occhipinti tornano a occuparsi dell’enorme discarica abusiva scoperta all’interno dell’area protetta Valle dell’Aniene. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti siamo tornati nel campo rom Foro Italico, all’interno dell’area naturale protetta Valle dell’Aniene, a due passi dal quartiere in dei Parioli, a Roma. Un’area che però di protetto ha ben poco, come vi avevamo mostrato la scorsa puntata, quando vi abbiamo raccontato dell’esistenza di un’enorme discarica abusiva di rifiuti illegali e roghi tossici. Una discarica a quanto ci aveva detto Marianna, una coraggiosa occupante del campo, che sarebbe gestita da una famiglia di nomadi, che controllerebbe tutto l’accampamento e chiederebbe anche una sorta di pizzo per l’occupazione delle baracche e per la luce. Filippo Roma, nel servizio in onda stasera a Le Iene su Italia 1, è tornato a parlare proprio con questa donna, per sapere cosa è successo dopo la messa in onda delle sue clamorose dichiarazioni. L’abbiamo trovata in salute, ma al centro di una sorta di faida tra clan, da un lato lei rom di origine romena, dall’altro quelli di etnia serba vicini al tre famiglie rom che con Marianna hanno avuto più di uno scontro. Sono volate parole grosse, sputi, spintoni e qualche schiaffo tra lei e un uomo rom che lavorerebbe per la famiglia ache secondo Marianna gestirebbe campo e discarica. Ma anche un litigio acceso  tra minacce e accuse incrociate con una donna serba nata e cresciuta in Italia.

La discarica abusiva a Roma, tra faide e poliziotti senza mezzi. Le Iene News il 09 giugno 2020. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti siamo tornati all’interno dell’area protetta Valle dell’Aniene, dove, come vi abbiamo fatto vedere la scorsa puntata, una famiglia di rom gestirebbe un’immensa discarica di rifiuti illegali, tra minacce, pizzo e usura. Il comune di Roma si è finalmente mosso, ma al nucleo di pronto intervento mancano i mezzi necessari e Filippo Roma riesce a beccare una svuota cantine di ritorno dalla discarica. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti siamo tornati nel campo rom all’interno dell’area protetta Valle dell’Aniene, di cui vi abbiamo parlato nell’ultimo servizio. Vi avevamo mostrato la presenza di un’enorme discarica di rifiuti pericolosi e roghi tossici, che sarebbe gestita da una famiglia del campo rom situato all’interno del parco, un’area protetta e nel pieno centro di Roma, a due passi dalla zona vip dei Parioli. Siamo tornati da Marianna, la coraggiosa donna rom che ci aveva raccontato dei presunti affari illeciti gestiti da quella famiglia all’interno del campo, tra smaltimento illegale di rifiuti, usura e pizzo per gli occupanti delle baracche. Un traffico che, naturalmente, preoccupava gli abitanti del vicinissimo quartiere dei Parioli, tra roghi tossici accesi tutte le ore del giorno e della notte e la paura di esalazioni dannose per la salute. “Ho sopportato per anni degli odori insostenibili che prendono proprio allo stomaco”, ci aveva raccontato un’abitante della zona, che per paura dei gestori di quella discarica abusiva aveva chiesto di non farsi riprendere in volto. Siamo tornati al campo a parlare con Marianna, che ci aveva parlato di una famiglia rom che, per consentire a chiunque di scaricare illegalmente rifiuti di ogni genere, sarebbe arrivata a guadagnare anche 1.000 euro al giorno. La donna aveva anche raccontato di una sorta di racket, all’interno del campo, che sarebbe sempre gestito dalla stessa famiglia. Insomma secondo le presunte rivelazioni di questa donna al campo si praticherebbero usura ed estorsioni, e mentre eravamo lì a chiedere spiegazioni qualcuno non ha gradito questo scambio di informazioni e siamo stati cacciati a colpi di vanga e fatti oggetto di vere e proprie sassaiole. Vista tutta questa violenza, ci eravamo chiesti: quando andrà in onda il servizio, cosa succederà a Marianna? Qualcuno si vendicherà con lei per le gravi accuse che ha lanciato di fronte alla telecamera?  Per questo motivo, prima di andare in onda martedì scorso, abbiamo provato più volte a segnalare la situazione di pericolo in cui si sarebbe potuta trovare la donna rom. Ci abbiamo provato invano con la sindaca Raggi, e poi per due volte siamo stati al commissariato di Villa Glori, ma per ben due volte ci hanno rimandato indietro. E alla fine avevamo provato come ultima spiaggia a parlare con direttamente con il questore di Roma. “Mi scusi ma in questo momento io sono nella centrale operativa della questura sto seguendo tutte le manifestazioni qua su Roma", ci aveva spiegato, "ma se c’è qualcosa da denunciare vada al commissariato o alla stazione dei carabinieri …”. Gli avevamo spiegato che non era stato possibile presentare la denuncia e di questo si era molto meravigliato: “Come nessuno le fa? No no no no non dica cose che non è possibile... perché non ci possiamo rifiutare di prendere una denuncia. Vada lì e dica "io devo denunciare una cosa, ho parlato con il questore". Se dovesse trovare difficoltà me lo fa sapere va bene?”. Forti dell’ordine del questore in persona finalmente qualche ora prima di andare in onda siamo riusciti a fare denuncia, ma per assicurarci che Marianna stesse bene, siamo ritornati al campo rom del Foro Italico. Mentre torniamo ci accorgiamo che qualcosa si è mosso dopo il nostro servizio, ed è in atto un intervento di polizia e vigili urbani. Marianna ci rassicura: “Nooo adesso non c’è nessuno, sono andati via tutti quelli che hanno fatto male qui, sono andati via. Io sono andata alla polizia e non può venire nessuno da me... sono andata dopo, l’ho detto, mi deve guardare qualcuno che c’ho paura che sono da sola...” Dopo il nostro servizio anche Marianna insomma si sarebbe rivolta alla polizia e alcune delle persone da lei denunciate sarebbero andate via dal campo, dove però le tensioni sembrano essere ancora parecchie. La donna denuncia: ”È venuto quello ragazzo che stava lì, che lui abitava prima là che mi dava sempre fastidio, è venuto a rompere la baracca”. Insomma, mentre siamo al campo per accertarci che Marianna stia bene, ne nasce una sorta di telenovela con momenti di tensione quando Marianna sputa e poi fa volare due schaiffi nei confronti di un uomo che accusa di essere schierato con la famiglia rom che controllerebbe il campo, e che qualche settimana prima avrebbe avuto uno scontro fisico con suo fratello. Il confronto si fa acceso anche con un’altra donna, Giuliana, che accusa la stessa Marianna di gestire quella discarica abusiva. Assistiamo a un vero e proprio litigio tra Marianna, di etnia rom, e Giuliana, serba, uno scontro che racconta di quanto tesi possano essere i rapporti dentro un campo rom. Una situazione di degrado e rivalità, che fa arrivare le due donne agli spintoni. La ricostruzione fatta dalla serba Giuliana sembra traballare un po’, perché se fosse vero che la capa dell’attività dello smaltimento illecito di rifiuti è proprio Marianna, non si spiega perché la volta scorsa sarebbe stata proprio lei a raccontarci di questi traffici illegali e invece è stato un uomo della famiglia che controllerebbe il campo che ci ha inseguito brandendo una vanga. L’unica verità accertata, comunque, è che all’interno di un’area protetta, a due passi dal centro della Capitale, c’è un’enorme discarica abusiva, che speriamo venga al più presto smantellata. Mentre siamo al campo osserviamo l’operazione dei Pics, il nucleo della polizia di pronto intervento, guidati dal responsabile Franco Granieri, che all’inizio ci spiega di non poter rilasciare interviste e poi si lascia sfuggire una battuta: ”Non è semplice oggi per domani fare una cosa del genere, lo sapete meglio di me”.

Vi avevamo raccontato, nel corso del precedente servizio, di come a settembre 2019 il Comune di Roma avesse tolto al nucleo di pronto intervento 4 camion dell’Ama che servivano a ripulire insediamenti abusivi e rifiuti abbandonati. E infatti, come possiamo osservare, i Pics al campo sono venuti senza mezzi per ripulire la discarica. Senza i mezzi dell’Ama tolti al nucleo di pronto intervento della polizia locale come e quando si bonificherà la zona? Proviamo a richiederlo alla sindaca Virginia Raggi, che ci dice: ”Adesso stiamo quantificando poi trovati i soldi avvieremo le operazioni. Tra l’altro abbiamo visto che quella era un’area sulla quale la nostra polizia stava già lavorando, è stata sequestrata più volte quindi c’è un lavoro in corso…”. Virginia Raggi non prende impegni precisi, ma dopo la nostra segnalazione della settimana scorsa ha finalmente mandato il nucleo ambiente e decoro della Polizia, che ha anche beccato degli svuotacantine in piena azione. E allora, per chiudere il cerchio, ci manca di parlare con chi i rifiuti alla discarica li porta, in spregio a ogni regola. Ci siamo messi sulle tracce dello stesso svuotacantine avvistato nel video pubblicato dalla sindaca Raggi e riusciamo a raggiungerlo. La sua è una tesi singolare: “So che è una discarica abusiva, ma perché non la chiudete? C’è stata la quarantena e tutte ste cose son state chiuse. Io ci sono andato all’Ama, ci sono andato erano chiusi probabilmente… invece di filmare, che mi sta filma’ come un drogato spacciatore”. Quando gli chiediamo del campo rom, risponde. “Va sgomberato, va sgomberato. Ammetto che contribuiscono persone peggio di me che bisogna fermarli. Ti prometto che non ci torno al campo, non perché ho paura di te o di qualcuno ma perché non va fatto, non va fatto quella maniera ma non solo io, tutti quanti”. La storia del campo rom con una discarica dentro una riserva naturale non è purtroppo è un caso isolato. Una situazione ancora peggiore si trova nel campo nomadi di Castel Romano, dentro la riserva naturale Decima Malafede, dove i bambini addirittura giocano in mezzo ai topi e i cittadini confinanti con il campo rom sono ormai esperti di roghi tossici. Luigi ci racconta: ”Qui accade tutti i giorni, se non è questo è un altro ma tutti i giorni può succedere che c’è un incendio, ma poi anche la gente qui soffre no? Anche i ragazzi soffrono”. Cosa aspettiamo, sindaca Raggi, per sanare tutte le situazioni di degrado e di pericolosità per la salute di cui la Capitale sembra abbondare?

Furti, aggressioni e paura: Roma-Nettuno ostaggio dei rom. Quello dei borseggiatori provenienti dal Campo rom di Castel Romano è l’ennesimo grave problema che contraddistingue la tratta ferroviaria. Luca Annovi, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Furti e scippi ormai quotidiani sulla tratta ferroviaria Roma-Nettuno. Il consigliere regionale della Lega Daniele Giannini ha da poco presentato un’interrogazione presso la Regione Lazio riguardo questa importante tratta ferroviaria che dalla Capitale copre circa 60 chilometri fino a Nettuno. La ferrovia è presa d'assalto ogni giorno da bande organizzate provenienti dal campo rom di Castel Romano, situato lungo la Strada Statale 148 Pontina. Un campo già noto alle cronache per i pesanti disagi subiti dai pendolari a causa di molte azioni compiute dai suoi residenti, come il lancio di sassi verso le auto da parte di residenti del campo Rom, o ripetuti incendi dolosi. Quello dei borseggiatori provenienti da questo campo rom è l’ennesimo grave problema che contraddistingue la Roma–Nettuno, già caratterizzata da altri disagi quotidiani, a partire da ritardi e cancellazioni dei treni. La tratta ferroviaria copre diverse stazioni, partendo da Nettuno ed arrivando a Roma Termini e passando per Anzio, Lido di Lavinio, Padiglione, Campo di Carne, Aprilia, Pomezia. Aree che raccolgono migliaia di persone che ogni giorno si recano a Roma per lavoro e che si trovano costrette a vivere una vera e propria odissea. La tratta, in virtù dell’esteso territorio su cui si estende e del numero di fermate, copre un bacino di utenza molto grande, fermandosi anche in Comuni che hanno tra i cinquanta ed i settantamila abitanti, come Nettuno, Aprilia, Pomezia ed arrivando a Roma Termini. Sono tra le quattrocento e le cinquecentomila le persone che risiedono in questa fascia territoriale e molte scelgono il treno per muoversi all’interno della provincia, sia per pendolarismo dovuto a motivi lavorativi, sia per spostarsi da una città all’altra, nella maggior parte dei casi per raggiungere la Capitale. Gli utenti sono preoccupati e vogliono certezze sulla loro sicurezza. L'arrivo di bande organizzate che provengono dal campo rom di Castel Romano e che salgono sulle carrozze (nella maggior parte dei casi presso la stazione di Pomezia) rappresenta una vera e propria piaga su cui ora sono necessari degli interventi. La situazione è diventata preoccupante e la recente interrogazione regionale è giunta a seguito di numerose segnalazioni di cittadini, tra cui soprattutto anziani ed adolescenti, che sono stati oggetto di intimidazioni e di furti. I pendolari, quindi, oltre a lamentare problemi divenuti ormai costanti di questa tratta ferroviaria, come la mancanza di carrozze necessarie a coprire l’elevato numero di persone ed i ripetuti ritardi o interruzioni di servizio, si trovano ora ad affrontare questo ulteriore grave disagio. Daniele Giannini puntualizza come spesso siano anche le donne ad essere derubate, mediante azioni ben organizzate e non sporadiche: “Le donne che sono sole vengono puntate e poi seguite, per essere derubate. Bisogna intervenire al più presto”. Tra le richieste presentate, quella di dotare le carrozze di un sistema di videosorveglianza. Potrebbe essere un primo passo verso una maggiore sicurezza per tutti i cittadini che usano questa tratta ferroviaria. Nell’interrogazione presentata il 5 novembre, che ad oggi non ha avuto alcuna risposta da parte della Regione Lazio, viene richiesto anche che vengano attivati i presidi dei Commissariati dei Comuni facenti parte della tratta ferroviaria Roma–Nettuno. “Attendiamo fiduciosi altrimenti saremo costretti a fare altre iniziative anche più eclatanti sul posto – afferma il consigliere Giannini - per denunciare questa problematica che secondo noi è già andata oltre il limite di sopportazione del cittadino che vuole prendere il treno per recarsi al lavoro anche in un’altra Città, in questo caso la Capitale e vorrebbe arrivare senza essere disturbato o aggredito da questi giovanotti del campo di Castel Romano che non trovano meglio da fare che borseggiare o aggredire i pendolari di questo treno”.

·         I Basilischi. La Mafia Lucana.

Basilischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I basilischi sono stati un'organizzazione criminale italiana, nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Poiché al 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati, l'organizzazione è stata notevolmente ridimensionata. Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del Materano, del Melfese e del Potentino sono controllate da cosche che fanno capo alla 'Ndrangheta di Rosarno.

Storia. La nascita. La famiglia dei basilischi nacque agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d'angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all'interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l'intento di creare un'organizzazione che, con l'avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del meridione d'Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Saverio Mammoliti (detto Don Saru) dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Inchiesta "Iena 2". Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M. nel 2006) e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da un'azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

Operazione "Chewingum". I Basilischi sono stati oggetto di un'inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

Gli anni 2000. In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi. Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino. Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d'Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione), e Melfese. Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza, composto dai giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi, ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi". In una sentenza del 30 ottobre 2012 la Corte d'appello di Potenza ha confermato l'esistenza del clan mafioso dei “Basilischi”.

Affiliati. Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Riti. Nel 1996 la polizia ritrova un codice con la descrizione di un rito di battesimo sul monte Policoro che cita come luoghi sacri, il monte stesso, Potenza e il fiume Sinni.

Basilicata tra guerra e paci mafiose. L’Antimafia disegna lo scenario dei clan lucani. Nel melfese la fine della faida. Mentre nel metapontino nuovi tentativi di scalata. Leo Amato il 18 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La pace nel venosino e soprattutto nel Vulture, dove i clan in lotta per anni avrebbero deciso di «gestire congiuntamente alcune attività illecite, tra le quali quelle connesse al traffico di stupefacenti». Mentre nel metapontino: «le mire espansioniste dei Mitidieri-Lopatriello, rinvigoriti dall’indebolimento degli Schettino, sarebbero (…) frenate dai reduci dello storico clan Scarcia (che, nel tempo, erano divenuti satelliti degli Schettino) anch’essi interessati a recuperare potere». E a Potenza «l’esponente di vertice del clan Stefanutti (…) contende una posizione paritaria» all’«elemento apicale della famiglia Martorano», scarcerato da poco più di un anno. È quanto evidenziano gli investigatori della Direzione investigativa antimafia nella loro relazione semestrale al Parlamento sulle attività di contrasto al crimine organizzato. A livello nazionale l’Antimafia evidenzia come ad oggi ci siano 51 enti locali sciolti per infiltrazioni mafiose, un numero che non è mai stato così alto dal 1991, anno di introduzione della normativa sullo scioglimento per mafia degli enti locali. Nel 2019 infatti, dice la Direzione investigativa antimafia, sono stati sciolti 20 consigli comunali e 2 Aziende sanitarie provinciali, che si sono aggiungi alle 29 amministrazioni ancora in fase di commissariamento: 25 in Calabria, 12 in Sicilia, 8 in Puglia, 5 in Campania e dopo quasi un trentennio uno anche in Basilicata, il Conune di Scanzano Jonico. Nel capitolo dedicato al crimine in terra lucana gli investigatori parlano di «segnali di presenza nella Regione di tutte le organizzazioni mafiose italiane, compresa Cosa nostra». In questo senso citano il sequestro, effettuato nel potentino, di due impianti eolici, riconducibili a «un soggetto contiguo al clan Rinzivillo di Gela, articolazione nissena di Cosa nostra». Poi passano a esaminare la situazione sul territorio col capoluogo dove «permane l’operatività del clan Martorano -Stefanutti», ma Dorino Stefanutti, «la cui ascesa consegue all’omicidio di un altro esponente di rilievo del clan, commesso il 29 aprile 2013 per contrasti insorti nella gestione del settore del gioco d’azzardo e delle scommesse on-line, così come confermato, tra l’altro, dalle propalazioni del testimone di giustizia, figlio dello stesso boss», avrebbe ormai assunto «un ruolo di direzione del sodalizio e delle connesse attività illecite esercitate sul territorio». A Pignola: «il clan Riviezzi, nonostante la parziale disarticolazione subita a seguito dell’inchiesta “Impero 2017” (conclusa nel 2018), continua ad operare nella zona di Pignola e Potenza e, rinvigorito anche dalla scarcerazione del figlio del capo clan, si ritiene abbia assunto un ruolo centrale nelle dinamiche criminali potentine, confermando un’innata capacità di proselitismo e reclutamento». Nell’area del Vulture-Melfese, invece, secondo gli investigatori esiste uno scenario criminale «frammentario e caratterizzato dalla presenza, accanto alle storiche formazioni criminali (rappresentate, allo stato attuale, per lo più dagli eredi dei rispettivi elementi apicali), di nuovi gruppi protesi ad affermarsi sul territorio e ad acquisire maggiore autonomia operativa». «In tale contesto – prosegue l’Antimafia – sembra che, dopo anni di sanguinosa faida, vadano consolidandosi i rapporti di collaborazione tra qualche elemento dei clan Cassotta e Di Muro-Delli Gatti, al fine di gestire congiuntamente alcune attività illecite, tra le quali quelle connesse al traffico di stupefacenti». «Nei comprensori di Rionero in Vulture – insistono gli investigatori – si conferma, in particolare, l’operatività del gruppo Barbetta, mentre in quello di Venosa, del gruppo Martucci, entrambi prevalentemente dediti al settore degli stupefacenti. Non si esclude, peraltro, che i citati clan mettano in atto una comune strategia per sottoporre ad estorsione le attività economiche, commerciali e imprenditoriali presenti sul territorio. Si ritiene, infatti, che almeno una parte dei numerosi episodi di danneggiamento, incendio e di intimidazione/minaccia, denunziati nel corso del 2019, possano in qualche maniera ricondursi proprio alla strategia intimidatoria messa in atto dai clan Barbetta e Martucci». Infine il materano, che «appare, al momento, l’area potenzialmente più esposta a nuovi fermenti, poiché, dopo lo scompaginamento dei clan e dei gruppi criminali più operativi della fascia Jonico-metapontina, sembrano in atto tentativi di scalata da parte di alcune figure che, per i legami con gli storici sodalizi locali o comunque forti di un personale carisma criminale, hanno intrapreso azioni mirate a colmare il vuoto di potere e a conquistare il controllo delle attività illecite sul territorio». La Dia cita, in particolare, «il duplice tentato omicidio perpetrato, il 10 ottobre 2019, da un soggetto vicino al clan Scarcia ai danni dell’elemento apicale del clan Mitidieri e di un altro pregiudicato contiguo a quest’ultimo gruppo». «I mutamenti negli assetti criminali locali potrebbero, infatti -concludono gli investigatori, aver indotto il capoclan Mitidieri a recuperare il controllo del racket sul territorio e l’evento, nello specifico, potrebbe rappresentare la violenta reazione a un tentativo di estorsione messo in atto in danno di un esercizio commerciale riconducibile, per i rapporti familiari dei titolari, al clan Scarcia».

·         La Quarta Mafia. La Mafia di Foggia.

Foggia tra bombe, pizzo e omicidi: ecco la quarta mafia d'Italia. Le Iene News il 14 febbraio 2020. Gaetano Pecoraro ci porta a Foggia, alla scoperta dell’organizzazione criminale “Società foggiana” che, solo nell’ultimo mese, ha ucciso un uomo in pieno centro e fatto scoppiare 6 bombe contro chi non voleva pagare il pizzo. Una mafia poco conosciuta, ma violentissima, contro la quale c’è una sola procura in prima linea a combattere. Una città in guerra. Il primo omicidio del 2020? È  avvenuto a Foggia, dove un 53enne è stato crivellato di colpi in pieno centro, sotto gli occhi dei passanti. La prima bomba contro un esercizio commerciale? Sempre a Foggia, che in meno di un mese ha registrato questo terribile bilancio di un omicidio e sei bombe esplose ai danni di altrettanti esercizi commerciali. Gaetano Pecoraro ci guida alla scoperta della quarta mafia d’Italia, la cosiddetta “società foggiana”, una organizzazione criminale sanguinaria e senza scrupoli. Ce lo racconta Giuseppe Gatti, sostituto procuratore antimafia di Bari: “È un’emergenza nazionale, ci troviamo di fronte a una mafia particolarmente pericolosa”. Direzione antimafia di Bari e procura di Foggia, nei mesi scorsi, hanno arrestato un gran numero di affiliati a questa organizzazione criminale, mettendo in galera una parte dei boss della “società”. Società che però è più viva che mai e prospera ai danni della parte sana della città. Insieme a Francesco Pesante, un giornalista locale, andiamo in giro per Foggia alla scoperta dei boss della società foggiana e dei luoghi testimoni degli ultimi agguati e degli attentati dinamitardi: “Ci sono tre gruppi principali, chiamati batterie. Il clan Moretti-Pellegrino-Lanza, i Sinesi-Francavilla e i Trisciuoglio. Nel primo omicidio del 2020 hanno ammazzato una persona estranea ai clan, che vendeva auto. Tre revolverate tra faccia e gola. “ La vittima era un uomo che qualche anno fa si era ribellato alle richieste dei suoi estorsori, legati alla Società foggiana. “Era stato pestato da uomini del clan Moretti, perché si era messo a difesa del nipote, vittima di estorsione”, racconta a Gaetano Pecoraro Francesco Pesante. È un business estremamente importante quello delle estorsioni, con veri e propri prezzari che indicano le cifre da versare per la “protezione” dei boss, una media che va dai 500 ai 3.000 euro al mese. “Ue bastardone, tu ti devi sbrigare, sennò gli facciamo la festa a tuo figlio”, dice un affiliato a una vittima in una conversazione intercettata dai carabinieri. “Hanno buttato la benzina sotto alla saracinesca, danni per diecimila euro”, racconta un negoziante che si è rifiutato di pagare al nostro Gaetano Pecoraro. Incontriamo poi Cristian Vigilante, il titolare di una casa di cura più volte oggetto di attentati incendiari e  intimidazioni. “Sappiamo solamente che stiamo vivendo un momento assurdo e ne vogliamo uscire quanto prima”. Ci fingiamo finti imprenditori venuti da fuori regione, interessati ad aprire un’attività e con le camere nascoste chiediamo consiglio ad alcuni esercenti della città. Accanto a chi nega categoricamente che Foggia abbia questi problemi, altri danno risposte assolutamente inequivocabili: “Devi fare attenzione, ti chiedono il pizzo”. Gaetano Pecoraro va poi in un agriturismo, che stando a un documento trovato dagli inquirenti avrebbe pagato il pizzo alle batterie della società foggiana.  Il titolare non solo avrebbe negato la circostanza davanti agli inquirenti ma una volta uscito dall’interrogatorio avrebbe addirittura avvertito i suoi aguzzini. A telecamera nascosta dice: “Io non ho mai avuto questi problemi. Queste persone mi hanno aiutato a trovare dei pezzi per la macchina, perché sono amici. Ho pagato 1.500 euro ma hanno pensato che fosse un’estorsione. Io non ho mai pagato una lira. Non è gente cattiva. Vengono a mangiare, gli faccio lo sconto… Se tu stessi al mio posto faresti la stessa cosa. “ Nega tutto anche un gommista della zona, che avrebbe pagato 5.000 euro una tantum e poi 500 euro al mese per la protezione dei clan. La moglie nega: “Qui non paghiamo, assolutamente, te lo posso assicurare. Non abbiamo pagato nulla, al mille per mille”. Una donna, che gestisce un’altra attività, tenta di giustificarsi, ammettendo tra le righe la situazione: “Foggia ha una brutta nomea, parliamoci chiaro, quelle poche persone che stanno o parlando o collaborando, stanno passando i guai… ragazzi, qua la pelle… se permetti devo pensare alla mia pelle…”. Incontriamo la figlia di Francesco Marcone, un dirigente del catasto che ha pagato con la vita la scelta di non assecondare le richieste dei boss, volte a favorire i propri lucrosissimi affari. L’uomo aveva notato comportamenti anomali nel suo ufficio. “C’erano persone che aspettavano gli utenti fuori dall’ufficio del registro e in cambio di denaro promettevano di aiutarli a sbrigare le pratiche. L’hanno ucciso con due colpi alle spalle”, ricorda visibilmente commossa la figlia. La provincia di Foggia, 7mila chilometri quadrati di territorio, ha una sola procura a occuparsi di questa potentissima mafia. “La Liguria ha un’estensione di 5.400 chilometri quadrati”, spiega Ludovico Vaccaro, procuratore capo di Foggia, “e ha ben 4 procure operative, 4 prefetture, 4 squadre mobili, 4 reparti operativi dei carabinieri. Perché a Foggia non viene dato altro che quello che hanno altri territori?”. Andiamo infine da alcuni dei familiari dei boss della società foggiana, attualmente in carcere. A cominciare dalla figlia del presunto boss Roberto Sinesi, che ci caccia dal suo negozio senza rilasciare alcuna dichiarazione. In un’altra attività, sempre legata a quella famiglia, incontriamo un altro parente, con precedenti per spaccio: “non c’è una spiegazione a questa violenza, la natura umana è fatta in questo modo”. Parliamo poi con Giuseppe, un uomo il cui suocero, uno storico componente delle batterie, è in carcere per omicidio: “Sono cose che non ci interessano non sappiamo niente. Se parliamo di calcio, possiamo parlare di tutto. Non ci interessano questi argomenti. “ In un altro bar troviamo un parente di alcuni affiliati alla batteria dei Francavilla, con precedenti penali per estorsione. “Non esiste nessuna batteria, la mia famiglia, i Francavilla, i Sinesi, sono famiglie come le altre. Che io sappia la società foggiana non esiste. La legge sai quanti sbagli ha fatto?”.

Bomba a Foggia, la ferocia primitiva della “quarta mafia”. Pino Pisicchio il 17 gennaio 2020 su Il Dubbio. La scalata dei clan pugliesi. Siamo di fronte a bande di paese che stanno compiendo il balzo in avanti con un allargamento del business criminale verso attività più remunerative, come droga e prostituzione. Chissà che cosa avrebbe da dire, di fronte all’esplosione esponenziale di cronaca nera nell’area foggiana, Federico Secondo di Svevia, imperatore della casata Hohenstaufen, quel “puer Apuliae” che tanto amo’ la terra di Capitanata dove il destino ( preannunciato dai suoi maghi, che lo mettevano in guardia da località con il “fiore” nel nome) stabilì che sarebbe morto. E a cinquantasei anni così fu: si spense in quel di Torremaggiore, a 37 chilometri da Foggia, nei pressi di un agro che nel 1250 faceva di nome “Castel Fiorentino”. Federico, sensibile alle arti e curioso di tutto ciò di cui è fatta l’umanità, oltre all’orrore per lo sfregio alla terra amata, avrebbe forse avuto da muovere anche obiezioni estetiche sul modo del crimine, antropologicamente primitivo e quasi tribale. Perché la cosiddetta “quarta mafia” che riempie le aperture dei giornali, in allineamento ideale con la mafia siciliana, la ’ ndrangheta calabrese e la camorra campana, da ultima arrivata si propone come un modello di efferatezza più simile alle brutali derive omicidiarie della camorra arcaica piuttosto che alla letale criminalità dai guanti bianchi delle mafie tecnologiche e finanziarie di nuova generazione. La terra di Foggia, che lo scorso anno conquistò il poco desiderabile record di provincia con il più alto numero di reati estorsivi in Italia, offre un panorama di stratificazione territoriale che porta a distinguere tre distinte tipologie di malavita organizzata: la mafia foggiana, che ha il suo epicentro nel capoluogo e si allarga al suo hinterland, la mafia garganica che opera nei territori di San Nicandro garganico e Apricena, e la mafia di Cerignola, che include i territori di Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia. A parte, tra Foggia e San Nicandro, si ritaglia una sua autonoma fisionomia la malavita di San Severo, grosso borgo agricolo di oltre 50.000 abitanti, negli ultimi anni umiliato da ripetuti episodi di violenza criminale a scopo di rapina. Il territorio, crocevia delle antiche culture sannitiche, molisane e daune, ha una forte radicazione nelle antropologie legate alla terra: all’agricoltura, prospera ancora oggi nell’immenso granaio del Tavoliere, e alla pastorizia. È questa la storica zona di transito degli armenti abruzzesi e molisani in transumanza. La “quarta mafia”, dunque, sociologicamente è nutrita da arcaismi tribali in cui legami di sangue e abigeato rinnovano una loro perversa attualità. Che, peraltro, erigono barriere tra la terra di Foggia e il resto della Puglia, proiettata verso livelli economici e traguardi sociali assai diversi per modernità e dinamismo. Il clima da far- west che la malavita foggiana ha inflitto al territorio, ha creato una condizione di panico nella popolazione, abitata da un sentimento in cui angoscia e rabbia si combinano in una miscela esplosiva che non riesce a trovare sbocchi istituzionali convincenti. Peraltro il quadro occupazionale della provincia non è affatto incoraggiante, nonostante la grande tradizione del settore agro- industriale e la pur valida proposta turistica ed enogastronomica del Gargano e dei borghi del sub- appennino: come si fa a fare turismo sano e moderno nell’epicentro della mafia garganica? Situazione irreversibile e dannata, dunque? Ovviamente no. Innanzitutto perché non siamo di fronte ad una organizzazione criminosa di impianto storico che trovi una forma di penetrazione sociale così come le tre mafie meridionali, che hanno offerto nel corso della loro ( ahimè) lunga presenza territoriale anche fenomeni di “patronage” criminale alle comunità, occupando lo spazio lasciato vuoto dallo Stato. Siamo di fronte a bande di paese che stanno compiendo il balzo in avanti verso le pratiche estorsive organizzate e l’allargamento del business criminale verso attività più remunerative, come droga e prostituzione. Dunque è una struttura organizzativa ancora in coming, non consolidata come nelle altre tre mafie e, ciò che è più rilevante, che non trova alcun sostegno nel corpo sociale ( e nella politica, se non per episodi minori ed isolati). E non è cosa da poco. Ma, per poter intervenire con qualche possibilità di successo, occorre innanzitutto prendere coscienza dell’esistenza del problema, senza rimuoverlo o derubricarlo a ingiuria minore. E poi è necessario richiudere il cerchio del circuito Stato- cittadini: il senso dell’abbandono, dell’estraneità, della lontananza, ricordiamolo, ha reso fecondo il terreno di coltura delle altre mafie, quelle “storiche”. Alla politica nazionale e locale si chiederebbe meno inutile chiacchiericcio e più fattualità, soprattutto nel farsi facilitatrice per le occasioni di sviluppo, unico vero antidoto al degrado. C’è un detto, forgiato dagli stessi foggiani, che Federico II non ha conosciuto: tradotto dal dialetto dice più o meno “fuggi da Foggia, non per Foggia ma per i foggiani”. Ecco: compito della politica è proprio quello di frantumare questo letale aforisma.

"50 euro per ogni funerale, 200mila a cantiere edile": ecco il tariffario dei clan. Il processo "Decima Azione" vede alla sbarra i boss dei clan mafiosi. Oltre ai prezzi c'era anche un elenco di chi pagava le somme richieste. Da domani, nel capoluogo dauno, una task force voluta dal ministro Lamorgese. Emanuela Carucci, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Sono venticinque le condanne richieste dai giudici della direzione distrettuale antimafia di Foggia, Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, a carico degli imputati del processo "Decima Azione" che si sta celebrando con rito abbreviato a Bari. Nella decisione dei pubblici ministeri le pene oscillerebbero dai quattro ai diciotto anni per un totale di trecento anni. Alla sbarra, come si legge sul quotidiano locale "FoggiaToday", i vertici della mafia foggiana (detta anche "la Società foggiana" o "la quarta mafia", ndr) finiti in manette a novembre del 2018. Le accuse sono, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsioni e rapine aggravate, detenzione illegale di armi e tentato omicidio. Come scrive Andrea Tundo sul giornale on line "Il Fatto Quotidiano", esisteva un vero e proprio tariffario in merito alle estorsioni. Venivano chieste cinquanta euro per ogni funerale a chi gestisce una ditta di onoranze funebri e centinaia di migliaia di euro sarebbero stati estorti a chi apriva un cantiere edile. Non solo, in alcuni casi gli imprenditori locali dovevano versare il cinque per cento del proprio bilancio nelle casse della "Società". Sono questi i dati emersi dall'inchiesta partita nel novembre 2018 che ha colpito i clan di Foggia Moretti-Pellegrino-Lanza e Sinesi-Francavilla. E ancora, dall'inchiesta è anche emersa la presenza di un vero e proprio "libro mastro", ritrovato dagli investigatori coordinati dalla Dda di Bari guidata dal procuratore Giuseppe Volpe, con l’elenco di chi pagava e dalle intercettazioni telefoniche si capisce il modus operandi degli imputati al processo "Decima Azione". Le ultime vittime di questo sistema criminale organizzato sono due fratelli, Luca e Cristian Vigilante, che hanno subito due attentati dinamitardi solo nelle prime settimane di questo nuovo anno. Ad essere colpita la loro cooperativa a capo del centro polivalente per persone anziani autosufficienti "Il sorriso di Stefano". Come si legge nell'ultima relazione semestrale della Dia al Parlamento, nella provincia di Foggia, "il forte legame dei gruppi criminali con il territorio, i rapporti familistici di gran parte dei clan e la massiccia presenza di armi ed esplosivi favoriscono un contesto ambientale omertoso e violento". Secondo la Dia, nella mafia del capoluogo dauno "si configura una tendenza al superamento di quelle forme di instabilità e conflittualità tipiche della camorra campana, cui la mafia foggiana è legata per ragioni di criminogenesi, per protendere verso nuovi assetti organizzativi, più consolidati e fondati su strategie condivise, emulando in tal modo, anche in un'ottica espansionistica, la 'ndrangheta". Nella stessa relazione si parla di "un'area grigia punto di incontro tra mafiosi, imprenditori, liberi professionisti e apparati della pubblica amministrazione. Una "terra di mezzo" dove affari leciti e illeciti tendono a incontrarsi, fino a confondersi". E anche in virtù di quest'ultima relazione, domani, lunedì 19 gennaio, arriveranno i rinforzi annunciati dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, dopo l'escalation criminale registrata a Foggia, all'inizio dell'anno. Venti gli agenti della polizia di Stato che andranno a rinforzare i servizi di controllo del territorio e di scorta. Si tratta di una vera e propria task force della direzione distrettuale antimafia. A renderlo noto la questura del capoluogo dauno. "Si tratta di poliziotti di esperienza, provenienti da altre province - si spiega in una nota - alcuni dei quali appositamente specializzati nell'espletamento di servizi particolarmente delicati, come quelli a tutela delle persone sottoposte a protezione personale per avere denunziato la mafia ed il racket delle estorsioni". I nuovi agenti lavoreranno, fianco a fianco, con gli altri colleghi della questura di Foggia e saranno impiegati nell'azione di prevenzione e di repressione dei reati in città. Aumenteranno, pertanto, i posti di controllo sul territorio e vi sarà un rafforzamento dei servizi posti a tutela della collettività.

"Decima Azione", mafia Foggiana a processi; chieste condanne per 303 anni e 3 mesi. "Decima Azione", mafia foggiana alla sbarra: chieste condanne per più di 300 anni di reclusione. E’ quanto richiesto dai pm della Direzione Distrettuale Antimafia, a carico degli imputati del processo "Decima Azione", nella tranche che si sta celebrando con rito abbreviato, a Bari. FoggiaToday il 13 dicembre 2019.  Venticinque condanne per complessivi 303 anni e 3 mesi di reclusione. E’ quanto richiesto - con pene oscillanti da un minimo di 4 ad un massimo di 18 anni - dai pm della Direzione Distrettuale Antimafia Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, a carico degli imputati del processo Decima Azione, nella tranche che si sta celebrando con rito abbreviato, a Bari. Mafia foggiana: imputati optano per il rito abbreviato, imprenditori taglieggiati assenti. Emiliano: "Ci siamo noi per Foggia". Alla sbarra, vertici ed esponenti della Società Foggiana (tra i quali i boss Rocco Moretti del clan Moretti-Pellegrino-Lanza e Roberto Sinesi, ritenuto invece a capo dei Sinesi-Francavilla) tutti arrestati nel blitz-capitale del novembre dello scorso anno: sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsioni e rapine aggravate, detenzione illegale di armi e tentato omicidio.

Processo alla Società foggiana, le vittime 'disertano' l'aula: nessuna si costituisce parte civile. Nel dettaglio, è stata chiesta una condanna  a 16 anni e 8 mesi per Rocco Moretti e altrettanti per Alessandro Aprile; 14 anni per Vito Bruno Lanza, Roberto Sinesi, Francesco Abbruzzese, Francesco Pesante e i fratelli Ciro e Giuseppe Francavilla. Ancora, 18 anni di reclusione per Francesco Tizzano (è la richiesta di condanna più alta); 16 anni per Ernesto Gatta e Massimo Perdonò. Chiesti 4 anni per Angelo Abbruzzese, 12 anni a testa per Luigi Biscotti, Emilio Ivan D’Amato e Leonardo Lanza e Savino Lanza e 6 anni per Domenico D’Angelo. Ancora, 6 anni e 8 mesi per Antonio Miranda e Raffaele Palumbo, 10 anni per Alessandro Moretti (nipote di Rocco), Cosimo Damiano Sinesi e Antonio Salvatore, 10 anni e 8 mesi per Fausto Rizzi, 12 anni anche per Francesco Sinesi e Patrizio Villani.

Mafia foggiana, il tariffario dei clan: 50 euro a funerale e 300mila per un cantiere edile. “Paga o ti uccidiamo”. Ma quasi tutti negano ai pm. Oltre ai fratelli Vigilante, vittime di due attentati negli scorsi giorni, nelle carte dell'inchiesta Decima Azione il prezzo del racket agli imprenditori, minacciati con pistole e kalashnikov: "Fatti la valigia e vattene a casa, non abbiamo paura di uccidere le guardie e tuo zio insieme a loro. Vi incendiamo tutte le aziende che avete". Ma quasi nessuno ha raccontato la verità a poliziotti e carabinieri: "Non paghiamo, siamo onesti". Andrea Tundo il 18 gennaio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Cinquanta euro per ogni funerale chiesti a chi gestisce una ditta di onoranze funebri, centinaia di migliaia di euro estorti a chi aveva aperto un cantiere edile. In alcuni casi una percentuale fissa del proprio bilancio, il 5 per cento, da versare nelle casse della “Società”. Il tariffario della mafia foggiana è raccontato voce per voce nelle carte di Decima Azione, l’inchiesta del novembre 2018 che ha colpito i clan Moretti-Pellegrino-Lanza e Sinesi-Francavilla, padroni criminali di Foggia. Non ci sono solo Luca e Cristian Vigilante, i fratelli vittime di due attentati nelle prime settimane nel 2020, tra le persone che gli uomini delle batterie avevano deciso di avvicinare per imporre il pizzo.

La “cassa comune” e il “libro mastro” del pizzo. La città veniva battuta palmo a palmo, dalle officine ai resort, per le richieste estorsive tra minacce, schiaffi e pistole puntate alla fronte dagli uomini dei boss Rocco Moretti e Roberto Sinesi. Nelle 285 pagine firmate dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Francesco Agnino, è ricostruita la tattica delle famiglie mafiose del capoluogo dauno che, come ricorda l’ultima relazione della Dia, avevano stabilito un “rapporto federativo” per la gestione di una “cassa comune” ed il controllo condiviso delle estorsioni. C’era un vero e proprio “libro mastro”, ritrovato dagli investigatori coordinati dalla Dda di Bari guidata dal procuratore Giuseppe Volpe, con l’elenco di chi pagava. Ma soprattutto ci sono le intercettazioni telefoniche a spiegare il modus operandi di chi oggi è imputato in un processo con rito abbreviato nel quale sono state chieste 25 condanne per un totale di 300 anni di carcere, ma durante il quale nessuna delle vittime si è costituita parte civile, come aveva raccontato Ilfattoquotidiano.it.

Il kalashnikov in faccia all’imprenditore. Chi più chi meno, pagavano tutti. Gli uomini dei clan “spremevano” ogni attività commerciale. All’imprenditore interessato all’acquisto di terreni del Comune di Foggia in località Borgo Incoronata che facevano gola ai clan lo avevano detto chiaro: “Ritirati o dacci 200mila euro”. Lo hanno inseguito e terrorizzato per due anni. Nel 2015 la prima minaccia, a maggio dell’anno successivo si mossero in quattro per ricordare cosa volevano e un mese più tardi ci avevano messo il carico. La Porsche dell’imprenditore venne costretta ad accostare: “Tu all’Incoronata non ci devi andare… altrimenti ti incendiamo il vivaio, il piazzale e ti spariamo”, dissero puntandogli la pistola alla tempia. Nella primavera di tre anni fa, l’uomo stava camminando nell’area pedonale di Foggia, quando venne affiancato da due persone. Un abbraccio e la solita minaccia: “O paghi o ti ammocchiamo (ti uccidiamo, ndr)”. A luglio, di nuovo: l’imprenditore è a bordo della sua auto blindata, viene bloccato e si ritrova di fronte due persone col volto travisato e in pugno pistole e kalashnikov. La richiesta è sempre la stessa: “L’auto blindata non ti basta, paga o ti ammazziamo”. Nei mesi successivi le minacce erano state rivolte anche a parenti e dipendenti: “Fatti la valigia e vattene a casa, non abbiamo paura di uccidere le guardie e tuo zio insieme a loro. Vi incendiamo tutte le aziende che avete”.

I 4mila euro per le festività e i 50 a funerale. Ma le richieste per foraggiare la cassa comune erano anche spicciole. Nell’ottobre 2017 avevano spillato 1.500 euro al proprietario di un agriturismo-resort: quando la Squadra mobile lo ha convocato, lui ha negato con forza e poi è corso ad avvisare gli uomini del clan per allertarli. Alla proprietaria di un negozio di alimentari e carni avevano estorto 4mila euro nel periodo natalizio e l’avevano avvisata che altrettanti ne avrebbe dovuti versare a Pasqua: finita di fronte ai carabinieri, nonostante l’eloquenza delle intercettazioni, ha negato tutto. Cinquecento euro al mese era la somma ottenuta invece da una barista nel quartiere Borgo Croci, alla quale avevano fatto capire che se non avesse pagato avrebbe subito diverse rapine. “Io non pago nessuno e sono onesta”, ha risposto la donna alla polizia giudiziaria negando l’estorsione. La stessa cifra era costretta a versare la proprietaria di una nota discoteca della città, ma ogni settimana. Al titolare di un’impresa di onoranze funebri avevano imposto un pizzo di 50 euro su ogni funerale svolto e, di fronte al ”no” della vittima, gli avevano mostrato la pistola che portavano addosso. Alla ditta di autodemolizione era toccato un versamento di 450 euro ogni fine mese.

“Ti facciamo saltare la testa per aria”. “Mo’ ti sei comprato il guaio, mo’ devi chiudere”, era stata la minaccia di Francesco Tizzano, considerato l’esattore dei clan, al titolare di un distributore di carburante con bar e rivendita pneumatici al quale aveva chiesto, insieme ad altre quattro persone, la somma di 1000 euro al mese. La risposta della vittima agli inquirenti? “Non li conosco e no ricordo nessun incontro. Forse uno è venuto per chiedere il preventivo di un cambio gomme”. Al proprietario di un’officina era tutto sommato andata “meglio”: gli avevano imposto di effettuare gratuitamente la riparazione delle moto che venivano usate dalle persone legate al clan. Nell’agosto 2017 era toccato a una ditta di imballaggi piegarsi al volere della Società foggiana: Tizzano aveva chiesto al proprietario di visionare i bilanci della società e di corrispondergli una somma di denaro pari al 5% del fatturato, “come avevano fatto gli altri”. E dopo erano iniziate le minacce anonime, ha riferito l’uomo agli inquirenti. “Pezzo di merda, mettiti a posto altrimenti ti faccia saltare la testa per aria”, gli ha detto un uomo al telefono nell’agosto di tre anni. Qualche settimana più tardi una lettera dello tenore, accompagnata da due proiettili calibro 7.65.

I costruttori edili stritolati e schiaffeggiati. Al socio di un’impresa edile era riusciti a spillare 3.800 euro al mese, mentre altri 25mila ne avevano chiesti – e ottenuti in più tranche – ai legali rappresentanti di una ditta che stava costruendo un edificio lungo corso Mezzogiorno. E se qualcuno osava dire no? C’è la ricostruzione degli inquirenti di una richiesta di tangente dell’estate 2017 a spiegarlo chiaramente. Tizzano, sempre lui, si presenta per conto dei clan in un cantiere di via Domenico Cirillo, quattro minuti a piedi dal Comando provinciale di carabinieri. Si mette di fronte all’ingegnere e responsabile tecnico della ditta al lavoro, al quale erano già stati chiesti 300mila euro nei mesi precedenti, e lo avvisa che avrebbe dovuto chiedere il “permesso” per lavorare in città: “Come è tu vieni da fuori e non bussi?”. E, di fronte a una prima risposta negativa della vittima, ha poi raccontato sotto intercettazione: “Gli ho tirato un cannalone”. Uno schiaffo, poi nuova minaccia: “Tieni due ore di tempo per smontare tutte cose… prepara 50mila euro e 4mila euro al mese senno’ ti devo uccidere”. I pubblici ministeri dell’Antimafia barese Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano hanno chiesto per lui 18 anni di carcere: la pena più alta tra quelle formulate nel processo sulle estorsioni a tappeto. In città, è il sospetto viste le bombe di questo inizio di 2020, qualcuno deve aver preso il suo posto di esattore.

·         La 'Ndrangheta tra politica e logge massoniche.

‘Ndrangheta stragista, la requisitoria del pm: “Tra il 1993 e il 1994 la storia d’Italia politica si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lucio Musolino su Il Fatto Quotidiano il 7 luglio 2020. “Tra il novembre 1993 e il gennaio 1994 la storia d’Italia politica, ma anche partitica, si incrocia con le esigenze dell’alta mafia”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo durante la requisitoria del processo “‘Ndrangheta stragista” che vede alla sbarra, davanti alla Corte d’Assise, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone, accusati dell’omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada. È agli sgoccioli il processo in cui l’accusa punta a dimostrare come la ’ndrangheta abbia partecipato a pieno titolo alla strategia stragista dei primi anni novanta. Ieri, nel corso del suo intervento, il procuratore Lombardo ha ricostruito le strategie politiche di Cosa nostra e ‘Ndrangheta all’indomani della vittoria del Pds alle amministrative dell’autunno 1993: “Achille Occhetto si sentiva già presidente del Consiglio. – ricorda il pm – Il rischio comunista non era finito. Quando il sistema di cui stiamo parlando ha capito che il rischio era alto, bisognava trovare delle alternative molto più solide”.Erano gli anni in cui le mafie avevano abbandonato la Democrazia cristiana e puntavano sui movimenti separatisti. La vittoria del Pds cambio le carte in tavola. “È quella – sottolinea il procuratore aggiunto – la fase in cui si abbandona il progetto portato avanti fino a quel momento per virare, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano deponendo in quest’aula, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. Vi è un imbarazzante coincidenza organizzativa tra le sedi di Sicilia Libera e quelle di Forza Italia. Si vira pesantemente su quella che sarà Forza Italia. Ecco perché vi è piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi le stragi aveva organizzato: Cosa nostra, ‘Ndrangheta e altre componenti dello stesso sistema”. “La strategia stragista – conclude il magistrato – che doveva aprire varchi sempre più ampi ai nuovi soggetti che erano stati identificati. Ecco quello che dice Giuseppe Graviano in relazione alla richiesta chiara che le stragi non si dovevano fermare. Cosa nostra e ’Ndrangheta, in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, compiono non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti politici, ma anche la scelta di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti”.

Graviano, la requisitoria: “Così Cosa nostra e ‘ndrangheta virarono su Forza Italia nel ’94”. Nella sua requisitoria al processo 'Ndrangheta stragista il pm Lombardo ha ricostruito il panorama politico tra il 1992 e i 1994, mentre Cosa nostra varava la strategia di attacco allo Stato a suon di bombe: "Si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi". E cita il proclama in aula di Piromalli nel '94 ("Voteremo Forza Italia") e le intercettazioni dell'ex deputato azzurro Pittelli dopo aver letto il fattoquotidiano.it: "Berlusconi è fottuto". Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 6 luglio 2020. C’era “piena coerenza tra la strategia stragista e la strategia politica di chi aveva organizzato le stragi: Cosa nostra, la ‘Ndrangheta ed altre componenti dello stesso sistema”. Una strategia politica che prima punta sull’autonomismo, sulle Leghe meridionali. Poi vira e punta tutto su un partito nuovo: Forza Italia. È in questo modo che procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha ricostruito la “strategia politica” delle mafie tra il 1992 e il 1994, durante la sua requisitoria al processo ‘Ndrangheta stragista. Il processo di Reggio Calabria – Un periodo che è già stato al centro del processo celebrato a Palermo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: si è concluso nell’aprile del 2018 con pesanti condanne per boss, ufficiali dei carabinieri ed ex politici come Marcello Dell’Utri, che proprio di Forza Italia fu il fondatore. Adesso a Reggio Calabria, il pm Lombardo sta ricostruendo le responsabilità dei clan di ‘ndrangheta nell’attacco allo Stato a suon di bombe organizzato da Cosa nostra tra il 1992 e il 1994. E infatti imputati davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria ci sono due alti “esponenti” della due mafie: da un lato Giuseppe Graviano, il boss siciliano che custodisce il segreto delle stragi; dall’altra Rocco Santo Filippone, uomo della cosca Piromalli. I due sono accusati dell’omicidio dei due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, assasinati il 18 gennaio 1994 nei pressi dello svincolo di Scilla. Il processo di Reggio Calabria ha guadagnato notorietà nei mesi scorsi perché è il procedimento in cui l’imputato Graviano ha deciso per la prima volta di aprire bocca per mandare una serie di messaggi trasversali. Durante una serie di udienze il boss di Brancaccio ha sostenuto di essere stato in affari con Silvio Berlusconi, grazie agli investimenti compiuti dal nonno a Milano negli anni ’70. Ha parlato di “imprenditori di Milano” che non volevano fermare le stragi. Ha invitato a indagare sul suo arresto, avvenuto al ristorante Gigi il cacciatore il 27 gennaio del 1994, per scoprire i veri mandanti delle stesse stragi. “C’era il rischio dei comunisti”- Le dichiarazioni in libertà del boss di Brancaccio, unite alle intercettazioni in carcere del 2016 e 2017, sono state citate più volte dal pm Lombardo nella sua requisitoria. Per la pubblica accusa, infatti, il duplice omicidio dei carabinieri prova come ci fosse una responsabilità della ‘ndrangheta nella strategia stragista del 92/94. Lombardo, nella sua ricostruzione che somma gli atti del processo Trattativa e dell’inchiesta di Roberto Scarpinato sui Sistemi criminali, è tornato indietro nel tempo fino all’autunno del 1993, quando alle amministrative si imposero i candidati sostenuti dal Pds di Achille Occhetto. “C’era il rischio comunista e quando il sistema, di cui ci stiamo occupando in questo processo – ha detto il Pm – l’ha capito, la storia politica si è incrociata con le esigenze dell’alta mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative molto più solide e si virò, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi“.

La mafia autonomista – Il rappresentante della pubblica accusa ha ripercorso le strategie politiche seguite nelle mafie già nei primi anni ’90, quando dalla Sicilia al Centro Italia cominciano a nascere una serie di movimenti separatisti, le cosiddette Leghe meridionali: vengono tutte create su input di esponenti di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della Camorra. Ma anche della massoneria e dell’estremismo nero. “Abbiamo sentito parlare di più di Sicilia Libera che dei movimenti nati nelle altre regioni. La prima componente è Calabria Libera che viene fondata a Reggio Calabria circa un anno prima rispetto a Sicilia Libera”, fa notare il magistrato, che insiste spesso su questo punto. “La ‘ndrangheta e Cosa nostra sono un’unica entità criminale. Noi abbiamo la prova che i rapporti tra la componente siciliana e quella calabrese sono stati rapporti intensi. Un sistema che si autoalimenta e che gestisce capitali di grande rilievo. È noto che il peso economico diventa peso politico”.

Da Gelli a Miglio a B. – Quello del procuratore aggiunto è un racconto che incrocia figure note nei misteri del paese: come il maestro venerabile della P2, Licio Gelli. “Abbiamo la certezza che le componenti mafiose hanno aderito al progetto di Gelli. I reali ispiratori dei movimenti separatisti vanno oltre la figura di Gelli”. E ancora l’ideologo della Lega Nord, Gianfranco Miglio: “Disse di essere per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Ritengo che Miglio non ha utilizzato a caso il riferimento di mafia e ‘ndrangheta“. Insomma, mentre saltano in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, mentre vengono ordinate le stragi di Firenze, Roma e Milano, i clan pensano di staccare il Sud dal resto d’Italia puntando sulle Leghe. Solo che a un certo punto il progetto separatista viene abbandonato e le mafie convogliano il loro supporto su Forza Italia, parallelamente alla strategia di attacco allo Stato: “La strategia stragista – ha detto Lombardo – doveva mettere la vecchia classe politica con le spalle al muro per aprire varchi alla nuova classe politica. Questo ce lo conferma Graviano. Cosa nostra e ‘ndrangheta in quel momento storico, contemporaneamente e all’unisono, non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti”. Chi sono questi nuovi soggetti? Forza Italia. “Quella – ha continuato il pm – è la fase in cui bisognava trovare delle alternative molto più solide e si vira, come ci ha raccontato Giuseppe Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche deponendo in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Silvio Berlusconi. È questo il momento in cui si vira in quella che sarà Forza Italia. Vi è un imbarazzante, per la storia, coincidenza tra le sedi di Sicilia Libera e le prime sedi di Forza Italia”.

Il boss di ‘ndrangheta: “Voteremo Berlusconi” – Il magistrato, a sostegno dei fatti ripercorsi durante la sua requisitoria, ha citato decine e decine di collaboratori di giustizia. Ma anche tre episodi che niente hanno a che vedere con i pentiti. Il 24 febbraio del 1994 l’Italia è in piena campagna elettorale: la prima Repubblica è crollata sotto i colpi di Tangentopoli e dopo un mese il Paese sarebbe tornato a votare. Al tribunale di Palmi era in corso il processo a Giuseppe Piromalli, capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato “Facciazza“) che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest. L’anziano padrino decise quel giorno di prendere la parola. E dalla sua cella gridò: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi“. “Non è stata presa una posizione chiara e precisa dicendo che quei voti non li si voleva”, contesterà Achille Occhetto al leader di Forza Italia durante un confronto radiofonico pochi giorni dopo. La replica del futuro premier è surreale: “‘Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito.

L’intercettazioni di Pittelli: “Berlusconi è fottuto” – “Noi abbiamo elementi di valutazione che vanno oltre l’accidentale e che ruota intorno alla chiave di lettura che ci fornisce un parlamentare di Forza Italia”, ha poi commentato il procuratore aggiunto Lombardo. Riportando un secondo elemento di riscontro alla sua ipotesi accusatoria: un’intercettazione dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare calabrese di Forza Italia, considerato il trait d’union tra massoneria e clan. È il 20 luglio 2018 e Pittelli dice: “La prima persona che dell’Utri contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli di Gioia Tauro”. “Per fortuna – ha commentato il pm – Pittelli non è un passante, ma è stato per 13 anni parlamentare di Forza Italia. Questa è la fonte qualificata che ci insegnavano come va valutato il peso probatorio di un elemento”. E se non bastasse Lombardo ha ricordato anche l’inizio di quella conversazione di Pittelli, che al telefono dice a un suo interlocutore: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul Fatto Quotidiano della trattativa stato Mafia”, dice l’ex parlamentare il 20 luglio del 2018. Il riferimento a un articolo che riportava le motivazioni del processo sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Quel procedimento individua il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. Il commento di Pittelli, però, è di tenore diverso: “Berlusconi è fottuto…Berlusconi è fottuto”.

Dalla Calabria allo stadio Olimpico: carabinieri nel mirino – Insomma, secondo il pm Lombardo, in pratica, l’omicidio dei due militari Fava e Garofalo è la prova che la ‘ndrangheta condivise in pieno la strategia di attacco allo Stato varata da Cosa nostra e dai Graviano. D’altra parte sono proprio i carabinieri l’obiettivo dichiarato da Graviano. Il 23 gennaio del 1994 – cinque giorni dopo il duplice omicidio calabrese – Gaspare Spatuzza avrebbe dovuto fare esplodere una Lancia Thema imbottita di tritolo e tondini di ferro nei pressi di un autobus che trasportava decine di carabinieri del servizio d’ordine dello stadio Olimpico durante Roma-Udinese. Quell’attentato, però, fallì per un difetto al telecomando. “Se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni”, hanno scritto i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo sulla Trattativa.

Un gennaio frenetico – Due giorni dopo il fallito attentato all’Olimpico, Berlusconi ufficializza la sua discesa in campo, il 27 gennaio – 24 ore dopo il famoso discorso sull’Italia “è il Paese che amo” – Graviano viene arrestato. “Non è che la fretta di Graviano per portare a termine il fallito attentato all’Olimpico era legata al fatto che la settimana dopo sarebbe stata annunciata la discesa in campo di Berlusconi?“, si è chiesto il pm Lombardo durante l’ultima udienza. È un fatto che il bar Doney di Roma, il posto dove il 21 gennaio Graviano incontra Spatuzza per dargli l’ordine di dare un altro “colpetto“, dista solo poche centinaia di metri dall’hotel Majestic dove in quei giorni Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo. Uno dei dipendenti dell’albergo, interrogato dalla Dia di Reggio Calabria, oggi ricorda che Dell’Utri incontrava alcuni soggetti di “chiara provenienza calabrese e siciliana, dal momento che parlavano con marcato accento dialettale da me conosciuto per le mie origini calabresi”. Chi erano quei siciliani e quei calabresi incontrati da Dell’Utri proprio nei giorni in cui veniva lanciato il partito azienda di Berlusconi? Hanno niente a che vedere con gli incontri del siciliano Graviano nel vicinissimo bar di via Veneto?

Silvio Berlusconi, fango contro il leader FI: "Aiutato dalla 'ndrangheta", così il procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Libero Quotidiano l'8 luglio 2020. Non bastassero le nuove rivelazioni sul «plotone di esecuzione» organizzato per fare fuori il Cav per via giudiziaria all'epoca del processo Mediaset, ora spunta la pista 'ndranghetista per gettare altro fango sul leader di Forza Italia. Curioso che risbuchi fuori ora che Silvio Berlusconi è tornato così attivo sullo scacchiere politico e ventila nuovi scenari affinché il Paese esca dallo stallo, ma tant' è. La faccenda, su cui andrà a nozze il Fatto quotidiano, riguarda stavolta la requisitoria del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, nel corso del processo "Ndrangheta stragista" che vede imputati davanti alla Corte d'Assise Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli, accusati dell'omicidio dei due carabinieri Fava e Garofalo, consumato il 18 gennaio 1994 a Scilla. Nel corso del suo intervento il pm ha analizzato il panorama politico tra l'autunno del 1993, quando il Pds di Achille Occhetto stravinse le amministrative, e il 1994. «C'era il rischio comunista e quando il sistema l'ha capito», ha detto il pm, «la storia politica si è incrociata con le esigenze dell'altra mafia. Fino ad allora si credeva che i movimenti separatisti potessero avere senso, ma bisognava trovare delle alternative più solide e si virò, come ci ha raccontato Graviano non solo nelle intercettazioni ma anche in questo processo, su Forza Italia e quindi sulla figura di Berlusconi». lo dice graviano In sintesi, prendendo per buone le deposizioni di Graviano, Cosa nostra e 'ndrangheta, in quel momento storico, «non solo abbandonano i vecchi referenti politici ma decidono di dare sostegno a questi nuovi soggetti». Ma non è tutto. Nella stessa requisitoria viene riesumato un processo celebrato a Palmi nel febbraio del '94. In quell'occasione il boss Pino Piromalli avrebbe detto: «Voteremo Berlusconi», quindi apriti cielo. L'episodio 24 anni dopo si incrocia con un'intercettazione registrata nell'ambito dell'inchiesta "Rinascita-Scott" della Dda di Catanzaro. 

Graviano, Spatuzza, gli incontri al bar Doney di via Veneto: non è la prima volta che il boss soprannominato "Madre natura" tira in ballo Berlusconi, il quale ha sempre smentito: «Le parole di Graviano sono infondate». Ma chissà come mai certe ricostruzioni hanno sempre avuto vasta eco su alcuni giornali, che hanno riempito pagine di intercettazioni contro Berlusconi, invece oggi di fronte a una registrazione audio in cui un giudice, Amedeo Franco, membro della sezione feriale che nell'agosto del 2013 condannò l'ex premier per il processo Mediaset, ammise che fu una sentenza pilotata, c'è il silenzio. Manettari zitti pure sul verdetto del tribunale civile di Milano che ribalta la sentenza penale. Imbarazzi e scarse reazioni, finora, anche al nuovo scoop di Quarta Repubblica di Porro in cui tre persone sono sicure di avere sentito Antonio Esposito, il presidente di quello stesso collegio di Cassazione che inflisse la condanna definitiva al leader azzurro, definire Berlusconi «una chiavica», cioè «fogna» con l'aggiunta di una profezia che poi si confermerà tale: «Se mi capita gli devo fare un mazzo così a Berlusconi». In pratica, l'opposto di quando si dice che la legge è uguale per tutti e un giudice deve essere imparziale. L'ex presidente del Consiglio si è sfogato con i suoi: «Sono ormai chiare a tutti le ragioni di questi 26 anni di persecuzione giudiziaria. Chiediamo una commissione parlamentare perché vogliamo sia fatta chiarezza. Non è un dovere nei miei confronti, ma nei confronti degli elettori, anche quelli che non votano Fi». Quindi, ieri, il Cav tecnologico ha tenuto via Zoom una riunione con il coordinamento del partito. Si è parlato degli aiuti per fronteggiare l'emergenza Covid (i pacchi alimentari a Verbania), ma anche di legge elettorale (maggioritario) e scenari futuri. Silvio ha confermato la linea del «mai accordi con la sinistra». Il vicepresidente Tajani è convinto che il M5S si spaccherà e se cadrà questo governo e non saranno sciolte le Camere, una parte dei grillini confluirà nel centrodestra. Gli alleati di Lega e Fdi, però, non ne vogliono sapere: «Ok Silvio senatore a vita, ma niente governo di unità nazionale», ha ribadito Giorgia Meloni».

Così il processo alla 'ndrangheta stragista vuole riscrivere un pezzo di storia d'Italia. Il ruolo della mafia calabrese nella stagione delle stragi, i legami con Cosa Nostra, la ricerca di referenti politici, il ruolo della nascente Forza Italia. Finalmente si ricostruiscono verità rimaste nascoste per troppo tempo. Alessia Candito l'1 luglio 2020 su L'Espresso. Via Palestro a Milano dopo l'esplosione della bombaSono memoria condivisa da Palermo a Milano. E per l’Italia intera sono una tragedia collettiva. Ma nella ricostruzione delle stragi di mafia che negli anni Novanta dalla Sicilia sono tracimate in continente con bombe e attentati manca un pezzo. A quel progetto eversivo ha partecipato anche la ‘ndrangheta. E con un ruolo da protagonista. Per decenni è riuscita a nasconderlo, trasformando i tre attentati calabresi contro i carabinieri, con cui l’élite dei clan ha firmato quel patto, nella “bravata” di due picciotti in cerca di armi e gloria. Ma un processo ha smontato «un’inaccettabile mistificazione che dura da trent’anni». Parole del procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che ha coordinato quell’inchiesta, diventata un processo di tre anni e 127 udienze. E che adesso si avvia alla conclusione.

La ‘Ndrangheta stragista degli anni Novanta. «Con le stragi per noi il tempo si è fermato in un eterno presente che diventerà altro solo quando la verità verrà ricostruita fino in fondo» dice il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’iniziale collaborazione di Francesco Curcio, all’epoca in Dna, a cercare le tracce e stanare l’ombra dei clan calabresi dietro le bombe di via Palestro a Milano, agli Uffizi di Firenze, a San Giovanni a Roma. È stato lui a comprendere che i tre attentati mirati organizzati tra il dicembre ’93 e il gennaio ’94 nei pressi di Reggio Calabria contro i carabinieri, incluso quello costato la vita ai brigadieri Fava e Garofalo, sono uno dei tributi che la ‘Ndrangheta ha offerto a quella stagione di sangue e alle trattative a cui puntava. Ma soprattutto che anche cronologia e geografia delle stragi vanno aggiornate. Perché gli attentati calabresi sono l’omega di quella di quella scia di sangue, che sempre in Calabria ha avuto inizio. La violenza mafiosa – spiega Lombardo - si trasforma in «un disegno eversivo peculiarmente terroristico» non nel marzo ’92, con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, ma nel giugno ’91, un paio di mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Nino Scopelliti, ammazzato nei pressi di Reggio Calabria il 9 agosto di quell’anno, mentre preparava l’accusa nel maxi-processo contro la Cupola palermitana in Cassazione. Intuizioni trasformate in un’inchiesta che scrive un altro pezzo di storia d’Italia, arrivata indenne ad un processo giunto ormai alla requisitoria. Alla sbarra però non ci sono solo calabresi. Oltre a Rocco Santo Filippone, espressione limpida dello storico casato dei Piromalli di Gioia Tauro, per l’accusa delegato dalla ‘Ndrangheta tutta nella gestione delle stragi calabresi, imputato c’è anche il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Il killer di don Pino Puglisi, il capo-mandamento che ha ordinato le stragi del 92-93 e per questi ed altri reati ha collezionato ergastoli, ha avuto un ruolo anche in Calabria. E lui stesso – forse involontariamente, forse no – lo ha confermato. «Ha fornito un contributo dichiarativo enorme, liberamente reso su temi che lui stesso ha introdotto» spiega il procuratore.

L’insostituibile (e involontario) contributo di Graviano. A Reggio Calabria, il boss di Brancaccio ha rotto un silenzio, interrotto solo da estemporanee proteste e dichiarazioni, che durava da decenni. E nel processo che per la prima volta racconta il ruolo della ‘Ndrangheta negli anni delle stragi, ci ha tenuto a sottolineare che c’erano anche pezzi di istituzioni, di poteri palesi ed occulti, di imprenditoria, di massoneria che in quella fase hanno avuto un ruolo. Una conferma dell’ipotesi dell’accusa secondo cui «le mafie – spiega Lombardo - avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale e nazionale, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici». Un’esigenza condivisa con pezzi di istituzioni, di politica, di massoneria, di intelligence che all’ombra della cortina di ferro – sostiene la procura - avevano costruito il proprio potere come “antidoto” all’influenza del blocco sovietico e venuto giù il muro di Berlino hanno forzato la mano per mantenerlo. Dagli uomini di Gladio alla massoneria di Gelli, dai settori dei servizi impiegati nelle operazioni Stay Behind a chi per anni ne ha dettato le priorità strategiche, insieme alle mafie in quella partita giocavano in molti. Tutti – sostiene la procura di Reggio Calabria – con lo stesso scopo. «Una strategia gattopardesca per mantenere gli equilibri di potere inalterato», spiega il procuratore, un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a se stesso, in cui bombe, sangue e terrore indiscriminato era un mezzo e non un fine. «Una tattica servente ad una strategia più alta». Un modo per obbligare tutti a sedersi al tavolo, senza lasciar fuori nessuno. A cercare una soluzione condivisa, poi individuata – emerge dall’inchiesta – nel progetto politico di Forza Italia. E tutto questo Graviano lo ha a modo suo confermato. A sorpresa, per la prima volta nella sua lunga storia di processi ha deciso di sottoporsi all’esame. Per quattro udienze ha parlato, lanciato messaggi, detto e non detto. Le sue non sono state certo dichiarazioni limpide e cristalline o una confessione. Ma il boss di Brancaccio si è incastrato con le sue stesse parole. Quelle delle chiacchierate intercettate in carcere con il camorrista Umberto Adinolfi che hanno svelato i rapporti diretti con Silvio Berlusconi, rivendicate come «unica cosa vera» in aula, e quelle dette in dibattimento.

I messaggi di Graviano decifrati dalla procura. «Graviano – dice Lombardo – è un imputato che ha diritto di mentire, ma le sue dichiarazioni in aula trovano conferma nelle sue intercettazioni in carcere, fino a prova contraria da considerarsi genuine». Di fronte a Corte d’Assise, pm e avvocati, Graviano ha parlato da boss e giurando di essere vittima di un complotto, ha puntato il dito contro Berlusconi, accusandolo di avere beneficiato dei soldi della sua e di altre famiglie siciliane senza mai averli restituiti, ha confermato di aver avuto incontri regolari e riunioni con il padre padrone di Forza Italia, prodotto politico di cui – ha detto in modo chiaro il boss di Brancaccio – lui e i suoi erano stati informati prima dell’ufficiale “discesa in campo”. Affermazioni che il diretto interessato si è affrettato a smentire tramite i suoi legali, mentre in aula – udienza dopo udienza – Graviano alzava il tiro. Senza mai arrivare a farle, ha promesso o minacciato rivelazioni sulla classe politica di quegli anni, quella che non voleva che le stragi si fermassero e quella che cercava contatti «con gli amici di Enna», lì dove si riuniva la Cupola, per capire cosa stesse succedendo e fermare quelle bombe. «E no, Berlusconi non era fra questi ultimi» ha detto il boss in aula. E il banchetto coperto di faldoni, blocchi di appunti, pizzini dietro cui stava seduto, in video-collegamento dal carcere di Terni è diventato un pulpito per lanciare messaggi. A pezzi dell’intelligence con cui dice di non essere mai stato a contatto ma di cui può raccontare, a chi «ha fatto di tutto per farmi parlare». Ai carabinieri «che devono dire come sono andati i fatti». Ai misteriosi «imprenditori milanesi» che i clan siciliani avrebbero finanziato. A chi «ancora tiene nei cassetti le carte» che potrebbero dire molto sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino e su «chi ha preso l’agenda rossa di Paolo Borsellino». Nelle intenzioni di Graviano, messaggi forse più diretti fuori dall’aula, che alla Corte e alle parti. Ma che hanno interlocutori precisi, espressione di mondi che secondo l’accusa erano coinvolti nella strategia eversiva di quegli anni. «Usciamo fuori da prudenze verbali – tuona il procuratore - In questo Paese si sono mosse tutta una serie di forze che a fianco delle mafie sono diventate forze mafiose. Quello che è successo in Italia, non è contatto, ma compenetrazione fra mondi che hanno obiettivi comuni. Ma – aggiunge – non bisogna fare l’errore di considerare tutto mafia. È sbagliato dire che il contatto con le mafie ha trasformato apparati istituzionali, la politica, in forze mafiose. Pezzi singoli sono diventati mafiosi. Noi non siamo la nazione che agevola la mafia. Noi abbiamo un grande problema che sono le mafie e il nostro compito è stanare tutte le componenti mafiose».

Tutte le strade portano a Forza Italia. Anche per questo gli investigatori di Squadra Mobile e Servizio centrale antiterrorismo, per ordine della procura, hanno cercato riscontri alle sibilline indicazioni che Graviano ha dato. E sono stati trovati. Altri sono arrivati dal dibattimento. Si è scoperto e c’è la prova, che tutti gli attentati, omicidi, bombe di quella stagione sono stati firmati come Falange Armata, sigla – dicono collaboratori calabresi e siciliani – indicata da ambienti dei servizi. Che alcuni degli obiettivi di quella stagione sono stati indicati da chi delle mafie non era parte o comunque non solo. Che il Goi, la più grande obbedienza massonica dell’epoca – lo ha detto chiaramente – il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo – era irrimediabilmente controllato dalle mafie, che – ha specificato il pentito Cosimo Virgiglio – hanno sempre usato le logge per entrare in contatto con ambienti diversi, insieme a cui sviluppare comuni progetti, dal riciclaggio al controllo elettorale. Sono saltati fuori tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi collocano il boss di Brancaccio in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri – dicono recentissime testimonianze raccolte – «incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico». Rileggendo e attualizzando vecchie carte, si è scoperto che negli stessi anni in cui le famiglie siciliane inviavano miliardi poi serviti per «investimenti immobiliari, le televisioni, tutto» ha detto in aula il boss di Brancaccio, in Calabria Angelo Sorrenti «un imprenditore dei Piromalli» veniva portato alla corte di Publitalia e scelto come referente calabrese per la costruzione di Fininvest. Piste – ed anche questo è emerso in modo chiaro– già apparse in passato e inspiegabilmente ignorate. Per l’accusa, una conferma che è su Forza Italia che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di cui sono state protagoniste le mafie tutte, ma non solo. «Il concetto di tempo – afferma il procuratore Lombardo - è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo febbraio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi». Ed è necessaria e urgente una ricostruzione complessa che vada oltre «le verità sottobanco, il compromesso, le scorciatoie, il silenzio e la paura». E la verità sulle stragi, «abbiamo il dovere di chiederla come cittadini, abbiamo il dovere di cercarla come magistrati del pubblico ministero, avete il compito di affermarla voi giudici. Costi quel che costi, perché altrimenti quelle stragi non saranno mai passato. Oggi viviamo un eterno presente da cui dipende il nostro domani». 

La mappa della 'ndrangheta tra politica e logge massoniche. Dallo Stretto di Messina alle Alpi, La pervasività delle ’ndrine è scolpita con dati e numeri sulla carta di centinaia di fascicoli: soltanto nel 2019 sono state portate a termine 40 inchieste in tutta Italia. Oltre tre al mese, quasi un migliaio tra indagati e arrestati. L'Espresso il 10 gennaio 2020. i capi invisibili della 'ndrangheta. La mappa delle “Locali”(gruppi strutturati) della ’ndrangheta, degli ultimi casi (2019) di politici indagati per rapporti con i boss e degli scioglimenti dei comuni per infiltrazione dei clan calabresi (dati: Avviso pubblico). E le cinque province della Calabria con il numero di “Locali” e di singoli clan (dati: Procura nazionale antimafia e Dia) e le logge massoniche emerse dai racconti dei pentiti e dalle inchieste. La provincia di Reggio Calabria conta 72 “Locali”: 27 lato jonico, 37 area città, 9 fascia tirrenica.

Così la 'ndrangheta ha conquistato i potenti del Nord Italia. L'ultimo mese del 2019 ha segnato un record: tre operazioni sopra il Po con big della politica coinvolti in inchieste sui clan calabresi. Governatori, assessori regionali, consiglieri comunali indagati. Ed elezioni influenzate. La conferma di quanto la mafia calabrese sia radicata nel Paese. Giovanni Tizian il 09 gennaio 2020 su L'Espresso. Finanza, affari, politica. Dal network dell'avvocato, ex senatore e massone, Giancarlo Pittelli, uomo, secondo i pm di Catanzaro, del boss Luigi Mancuso. Ai tentacoli della 'ndrangheta stretti attorno ai potenti del settentrione. Il canovaccio criminale segue le stesse regole. Lasciando la Calabria, cambiano i cognomi dei padrini, ma non la ritualità con la quale la ’ndrangheta organizza il banchetto per sedurre il potere. A giugno scorso la procura antimafia di Bologna ha messo sotto inchiesta 80 persone: uomini della cosca Grande Aracri e anche l’allora presidente del consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso (Fratelli d’Italia, poi sospeso). Un’indagine che segue la sentenza storica del maxi processo Aemilia, dove il pm Beatrice Ronchi ha ottenuto tra rito ordinario e abbreviato 160 condanne su un totale di 200 imputati. Alla sbarra capi clan ma anche colletti bianchi, politici e imprenditori emiliani doc.

Il 2019 sarà ricordato a lungo in Valle d’Aosta. All’ombra del Monte Bianco comandando le ’ndrine originarie di San Luca, paesino ai piedi dell’Aspromonte: pioniere nella globalizzazione della mafia calabrese, le prime a creare un network del narcotraffico mondiale con basi strategiche in Germania, Belgio, Olanda e Sud America. Nella regione alpina più piccola d’Italia hanno trovato una calorosa accoglienza. Perciò hanno puntato in alto, alla politica, seguendo il protocollo che conoscono a memoria. Risultato? Il governatore della Regione Antonio Fosson (già Union Valdôtaine, poi Stella Alpina) è indagato per voto di scambio, si è dimesso dopo la notizia del suo coinvolgimento. L’inchiesta della procura di Torino, in realtà, rivela molto altro: non il solo Fosson avrebbe chiesto voti alla ’ndrangheta dei Nirta di San Luca, ma anche i due governatori precedenti. Nelle inchieste sulle ’ndrine in Valle spunta anche il nome di Augusto Rollandin, ras della politica locale: più volte governatore della Regione, è stato assessore e anche senatore, a capo per tre anni del partito Union Valdôtaine, a marzo scorso condannato in primo grado per corruzione. E seppure non risulti indagato, avrebbe incontrato uno degli emissari del boss Nirta. Nella rete dell’antimafia sono rimasti impigliati pure pesci piccoli della politica aostana: assessori regionali e consiglieri comunali. Vista dal suo crinale oscuro, Aosta non sembra distante 1500 chilometri da San Luca.

MILANO-TORINO. I voti come i soldi non hanno odore. Regola valida anche in Piemonte. Qui, sempre a dicembre, un altro pezzo da novanta della politica è finito sotto inchiesta per i voti comprati dai boss. Per Roberto Rosso, assessore regionale del centrodestra (Fratelli d’Italia), sono scattate le manette. Secondo i pm di Torino ha acquistato un pacchetto di voti al prezzo di 15 mila euro, 7.900 già pagati. L’ormai ex assessore si è difeso sostenendo che quei soldi servivano per la campagna elettorale. Rosso è stato deputato di Forza Italia dal 1994 al 2013, è stato sottosegretario e vice presidente della Regione ai tempi della giunta leghista di Roberto Cota. La ’ndrangheta in Piemonte ha una storia antica. Il primo Comune sciolto per infiltrazioni della mafia al Nord è Bardonecchia. A metà anni ’90 le ’ndrine si erano prese già tutto. I mercati più redditizi, gli appalti, i servizi. E anche la politica. Che finge di non saperlo. Così dopo Bardonecchia, in anni assai più recenti, sono stati sciolti due Comuni della cintura torinese. Il timbro delle cosche è evidente pure sull’alta velocità che conduce da Torino a Milano. Inchieste di qualche anno fa hanno dimostrato l’ingerenza delle cosche nei subappalti per la realizzazione dei lavori del tratto ferroviario. Nella capitale morale d’Italia la ’ndrangheta è la vera protagonista del crimine. In centro, come in ogni paese dell’hinterland, dove gli inquirenti e i processi hanno accertato l’esistenza di almeno due dozzine di “Locali” (gruppi radicati sul territorio). A finire nella rete sono spesso politici, accusati di complicità con le ’ndrine padane: l’ultimo a giugno scorso, un consigliere comunale di Fratelli d’Italia, Enzo Misiano eletto a Ferno, provincia di Varese.

Un supertestimone svela i segreti della massoneria collusa con la 'ndrangheta. Giovanni Tizian su L'Espresso il 10.01.2020. Come e dove si incontrano crimine e potere, ’ndrina e politica? Seguire questa pista ci porta sull’uscio di templi massonici, frequentati da avvocati, medici, imprenditori, magistrati, prelati, forze dell’ordine, boss e loro emissari. Tutti insieme nella stessa loggia. Tra i primi a capirlo è stato Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto a Reggio Calabria. Dalla Locride, per esempio, arriva una gola profonda che ha raccontato ai magistrati i segreti delle logge di quel territorio bagnato dallo Jonio. Nei verbali letti da L’Espresso c’è la geografia dei “grembiulini” del territorio, racconta chi sono i boss affiliati alle logge e fa il nome anche di don Pino Strangio, il potente parroco di San Luca, che vanta solide sponde in Vaticano e fino a qualche tempo fa era il priore del santuario di Polsi, luogo sacro e di riunioni della ’ndrangheta. Don Strangio è attualmente imputato nel processo Gotha sul livello occulto della mafia calabrese insieme all’ex senatore Antonio Caridi. Don Pino «è un massone anche se non risulta ufficialmente registrato», rivela il testimone, e precisa: «Fa parte anche dei “Cavalieri di Malta” da circa 12 anni, così come anche tale Nirta di San Luca con il quale il prelato si è recato a Malta per essere insigniti dell’Ordine». Le cinque province della Calabria con il numero di “Locali” e di singoli clan (dati: Procura nazionale antimafia e Dia) e le logge massoniche emerse dai racconti dei pentiti e dalle inchieste. La provincia di Reggio Calabria conta 72 “Locali”: 27 lato jonico, 37 area città, 9 fascia tirrenica. Il super testimone ha poi raccontato che dopo un’importante indagine antimafia alcuni “fratelli” di loggia hanno modificato i registri «per eliminare i riferimenti alle persone coinvolte nell’operazione». Inoltre ha spiegato che della «loggia di Locri» facevano parte «molti professionisti, appartenenti alle forze dell’ordine e persino religiosi» e che «alcuni confratelli non sono inseriti nei registri ufficiali, per ragioni di opportunità». Ci sarebbero anche logge chiuse ufficialmente e poi riattivate, con a capo, sostiene il testimone, rampolli della ‘ndrangheta di San Luca. Nulla di illegale, certo. Indossare un grembiule massonico non è reato: in Calabria sono oltre 9 mila gli iscritti sparsi in 178 logge regolari, 57 sono state sciolte dalle varie obbedienza. Giancarlo Pittelli, massone ed ex senatore di Forza Italia ora vicino al partito di Giorgia Meloni, ha messo a disposizione del padrino Luigi Mancuso il suo network. Ecco tutti nomi, dall'ex Mps Giuseppe Mussari all'ex Unicredit Fabrizio Palenzona. Molte di quelle “sospese” erano frequentate da ’ndranghetisti o loro fedelissimi. Al fianco delle logge registrate, però, sopravvivono quelle coperte fa notare il teste: «non fornivano le liste dei nomi e degli indirizzi contrariamente a quanto previsto dal “decreto Anselmi”». Prima di Natale è finito nei guai un pezzo grosso della massoneria calabrese: Ugo Bellantoni, gran maestro onorario della più importante loggia di Vibo Valentia, la Michele Morelli (Grande Oriente d’Italia). Indagato per concorso esterno alla mafia nella stessa inchiesta che ha travolto il “fratello” massone Giancarlo Pittelli. Bellantoni è tra quei massoni in «rapporti con la ’ndrangheta», accusa il pentito Andrea Mantella, «nel senso che gli chiedevano favori e loro si mettono a disposizione». Fratelli di ’ndrangheta e fratelli di loggia, più o meno ufficiale. Un altro collaboratore di giustizia, Marcello Fondacaro, ripercorre i suoi inizi a Roma: affiliato prima a Roma alla Giustinianea, poi si trasferisce in Calabria. Qui ricorda una riunione in una loggia coperta, nella Locride, in un hotel di una famiglia mafiosa. Gli fecero capire che era un’articolazione nata sulle ceneri della P2. Un sistema criminale, appunto.

Strangio non è un nostro Cavaliere. L'Espresso il 14 gennaio 2020. In merito all'articolo “Ndrangheta Italia” (L’Espresso n. 3), si precisa che don Pino Strangio non ha alcun legame con il Sovrano Ordine di Malta. L’affermazione secondo cui un supertestimone avrebbe dichiarato che il religioso «Fa parte anche dei “Cavalieri di Malta” da circa 12 anni, così come anche tale Nirta di San Luca con il quale il prelato si è recato a Malta per essere insigniti dell’Ordine» è dunque assolutamente priva di fondamento. Come evidenziato sul sito ufficiale dell’Ordine di Malta diverse organizzazioni nel mondo usano il nostro nome con finalità non collegate con gli scopi e la tradizione dell’Ordine di Malta. Queste associazioni perseguono soprattutto scopi di lucro, organizzando investiture. Il Sovrano Ordine di Malta ha una storia di quasi 1000 anni, dal 1834 ha sede a Roma. Ente primario di diritto internazionale, intrattiene rapporti diplomatici con 109 Stati tra cui la Repubblica Italiana e la Santa Sede, ed ha rappresentanze ufficiali presso le Nazioni Unite, l’Unione Europea e numerose Organizzazioni Internazionali. Le attività svolte in oltre 120 Paesi del mondo si sviluppano nell'assistenza medico-sociale e nel soccorso prestato alle vittime di conflitti o di calamità naturali. Marianna Balfour Diplomatic Public Affairs and Press

Prendiamo atto della vostra precisazione, allo stesso tempo ribadiamo che è il testimone sentito dalla procura antimafia di Reggio Calabria a fare il nome di don Pino Strangio in relazione alla sua appartenenza ai Cavalieri. Ci siamo limitati perciò a riportare uno stralcio di quel documento. Giovanni Tizian.

'Ndrangheta Italia: la rete di amicizie dei clan tra banchieri, politici, vescovi e magistrati. Giancarlo Pittelli, massone ed ex senatore di Forza Italia ora vicino al partito di Giorgia Meloni, ha messo a disposizione del padrino Luigi Mancuso il suo network. Ecco tutti nomi, dall'ex Mps Giuseppe Mussari all'ex Unicredit Fabrizio Palenzona. Giovanni Tizian il 10 gennaio 2020 su L'Espresso. La multinazionale del crimine più apprezzata dal potere. Accolta nei palazzi della politica, nei santuari della finanza, nelle cattedrali del capitalismo moderno. Un marchio italiano, ma non sovranista, piuttosto globalista. Potere e crimine, liturgie del denaro e riti arcaici impastati nella stessa organizzazione. Governatori di Regione implicati all’ombra delle Alpi, assessori regionali coinvolti a Torino, sindaci sostenuti dalle cosche in Umbria e in Emilia, ex senatori massoni arrestati con amici banchieri e pezzi grossi dell’alta finanza. Il Paese reale trasformato in mangiatoia da un sistema criminale che vanta migliaia di affiliati, centinaia di sedi dislocate in Italia e nel mondo, un numero impressionante di complicità spesso celate dietro la nebbia padana. ’Ndrangheta come un “franchising”, hanno scritto i giudici della Cassazione per spiegare il funzionamento e la strategia delle cosche calabresi fuori dai confini regionali. Dallo Stretto di Messina alle Alpi. La pervasività delle ’ndrine è scolpita con dati e numeri sulla carta di centinaia di fascicoli: soltanto nel 2019 sono state portate a termine 40 inchieste in tutta Italia. Oltre tre al mese, quasi un migliaio tra indagati e arrestati. Boss e insospettabili della buona borghesia. Eppure la ’ndrangheta nell’immaginario resta un fenomeno folkloristico, in fondo «innocua, perché non spara come una volta». E la politica? Latita. Distratta dal clima perenne di campagna elettorale, il tema immigrazione si prende la scena. Intanto la ’ndrangheta holding avvelena l’economia con i capitali sporchi e la democrazia del Paese dirigendo il consenso elettorale. Come dimostra l’ultima inchiesta “Rinascita-Scott” che fa tremare il sistema. Una maxi operazione condotta dal Ros dei carabinieri guidati dal generale Pasquale Angelosanto e coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: 334 arresti, oltre 400 indagati, beni sequestrati per 15 milioni, 3 mila militari in campo nella notte tra il 18 e il 19 dicembre.

IL PAESE DELLE 'NDRINE, TRA POLITICA E LOGGE. La mappa delle “Locali”(gruppi strutturati) della ’ndrangheta. Degli ultimi casi (2019) di politici indagati per rapporti con i boss. E degli scioglimenti dei comuni per infiltrazione dei clan calabresi.

LA CERNIERA. Ma l’Atlantide sommersa della mafia calabrese sta oltre queste cifre. Sta in figure cerniera, ufficiali di collegamento tra sottobosco mafioso e società civile. Tra questi c’è l’avvocato, massone ed ex senatore di Forza Italia (di recente vicino a Fratelli d’Italia) Giancarlo Pittelli, indagato per concorso esterno alla cosca Mancuso di Limbadi, paesino della provincia di Vibo Valentia, noto più per la produzione dell’amaro del Capo che per essere regno di una delle più potenti famiglie di ’ndrangheta. Per capire chi sono i Mancuso di Limbadi, dobbiamo tornare al 1983, quando il capo bastone Ciccio Mancuso vinse le elezioni da latitante. Dovette intervenire il presidente della Repubblica Sandro Pertini per sciogliere il Comune. Mancuso e politica. Un’eredità che ora ha travolto Pittelli. A casa sua i carabinieri durante le perquisizioni hanno trovato appunti scritti a mano: un elenco dettagliato dei temi dell’inchiesta “Rinascita”. Chi ha informato Pittelli dei segreti di un’indagine riservatissima? Di certo l’avvocato del boss gode della stima di un pezzo della magistratura. Le cimici del Ros hanno persino registrato una cena nella sua abitazione con otto magistrati e altri professionisti. Toghe, spiegano fonti autorevoli a L’Espresso, non della procura ma di altri uffici giudiziari di Catanzaro. Contatti privilegiati dell’ex senatore finiti in informative senza ipotesi di reato inviate alla procura di Salerno competente sui magistrati catanzaresi. Toghe, e pure vescovi amici. Prelati del calibro di don Francesco Massara, l’ex parroco di Limbadi, nominato da Papa Francesco arcivescovo di Camerino-San Severino Marche. Grazie a don Massara, Pittelli dice di aver «ottenuto la tessera del Vaticano». E il vescovo ha mediato affinché l’avvocato della ’ndrina potesse incontrare Monsignor Giuseppe Russo, sottosegretario dell’Apsa - l’ente che gestisce il patrimonio della Santa Sede - per valutare l’acquisto di alcuni immobili del Vaticano. Questa ’ndrangheta è un sistema criminale che agisce su più livelli. Alcuni visibili a occhio nudo: militare (con bombe e intimidazioni) e imprenditoriale (quattrini sporchi che creano concorrenza sleale). Altri invisibili: finanziario (flussi di riciclaggio che approdano nei paradisi fiscali) e politico (pacchetti di voti che si spostano da un candidato a un altro).

TERRA DI MEZZO. L’avvocato Pittelli è dunque accusato di essere la cerniera tra due mondi. Un complice esterno, per i pm. Non secondo il giudice che ha ordinato l’arresto: convinto che l’ex senatore sia organico al clan, ora toccherà al Riesame decidere sul ricorso di Pittelli. Di certo avrà molte cose da spiegare agli inquirenti. A partire da quell’incontro a Messina con il rettore dell’Università per presentargli la figlia del boss Mancuso, studentessa di Medicina in difficoltà con un esame. «“Troppo avvocato, troppo avvocato” si è messa a piangere... che bella famiglia», questa la reazione della rampolla, confidata dall’ex senatore a un amico. Il portafoglio contatti dell’avvocato del boss è ricco. C’è Fabrizio Palenzona, ex numero due di Unicredit, presidente di Aiscat e di Prelios (ex Pirelli Re) la società di gestione e servizi immobiliari fondata da Marco Tronchetti Provera. Le informative del Ros riportano gli scambi di sms e gli incontri tra il banchiere e Pittelli, che lo definisce «mio grandissimo amico». Per i detective «Pittelli metteva a disposizione di Prelios i suoi rapporti privilegiati con Luigi Mancuso in cambio della disponibilità della stessa società finanziaria di appoggio per le sue iniziative imprenditoriali». L’ex senatore ha incontrato Palenzona a Milano il 6 luglio 2018 negli uffici della società. Qui Pittelli ottiene un incarico speciale e potenzialmente milionario. Prelios gli chiede la cortesia di trovare un acquirente per il villaggio turistico ex Valtur da vendere a un prezzo stracciato. «Non sappiamo più cosa farcene... siamo disperati», gli dice un dirigente Prelios. Pittelli accetta per fare «una cortesia a Fabrizio Palenzona», che la sera stessa scrive un sms all’amico: «Caro Giancarlo, mi ha fatto molto piacere fino alla commozione rivederti. Grazie per la tua preziosa Amicizia, un forte abbraccio!!! Ps fammi sapere gli estremi del terreno». L’ex senatore sa bene però che nel regno di Mancuso spetta al mammasantissima l’ultima parola: «A Nicotera questa storia la puoi vendere se hai un placet. Nicotera risponde a Luigi Mancuso», dice. Lo incontrerà al più presto, per chiedergli: «Interessa a qualche imprenditore della zona? Dobbiamo rispettare, non possiamo fare i cretini». Il giorno dopo aver incontrato l’ex Mr Unicredit, l’intraprendente Pittelli riceve Giuseppe Mussari, l’ex presidente di Mps e di Abi condannato lo scorso novembre a 7 anni e mezzo per il buco provocato dall’acquisizione di Antonveneta. Mussari è catanzarese come Pittelli, dopo la catastrofica esperienza da banchiere, è tornato alle origini: «Questo non è il mio lavoro», confessò quando diede le dimissioni da Abi. Mussari e Pittelli durante l’incontro di luglio 2018 parlano del ghiotto affare Valtur proposto da Prelios: «Giusè, è una roba nella quale possiamo guadagnare 3-4 milioni di euro... a te non interessano i soldi... ti sfotto, ma che sei fesso!». L’ex banchiere sul denaro è suscettibile e vuole essere chiaro: «Io non ho più una lira perché ho pagato i miei avvocati, ma ho un’altra logica di vita, quando ho avuto i soldi non mi sono fatto mancare niente, perché tanto tutto quello che dovevo fare, i ristoranti, gli alberghi, le vacanze, i viaggi... ma ti assicuro non me ne fotte più niente». Poi prospettano due ipotesi: vendere il villaggio a un grosso operatore turistico o a un costruttore per poi ampliarlo. Per questa seconda ipotesi saranno necessarie nuove concessioni dal Comune di Nicotera. Nessun problema per la coppia Pittelli-Mussari: «Vado a parlare con il Sindaco, dopodiché i contatti col Comune te li segui tu... Giuse’! è lavoro! Secondo me possiamo guadagnare due, tre milioni... tranquillamente». Prima di salutarsi c’è il tempo di una battuta sui magistrati: «Tu li odii... io pure», ride Pittelli. Mussari saluta accennando un sorriso. Prima Palenzona, poi l’ex Mps, infine tocca al boss Luigi Mancuso: Pittelli lo incontra il 9 luglio. E per il Ros hanno «discusso della questione (Valtur)».

MAMMASANTISSIMA E "FRATELLI". Le cinque province della Calabria con il numero di “Locali” e di singoli clan (dati: Procura nazionale antimafia e Dia) e le logge massoniche emerse dai racconti dei pentiti e dalle inchieste. La provincia di Reggio Calabria conta 72 “Locali”: 27 lato jonico, 37 area città, 9 fascia tirrenica. Una platea di amici insospettabili che la 'ndrangheta ha anche al Nord . All'ombra della Alpi, in Valle d'Aosta e Piemonte. Ai piedi degli Appennini, in Emilia. E nella pianura lombarda.

Chi sono i capi invisibili della 'ndrangheta. La vera forza della mafia: hanno deciso governi, scalate economiche, maxi-investimenti. Sono la mente strategica delle operazioni e per decenni sono riusciti a nascondersi. Alessia Candito il 10 gennaio 2020 su L'Espresso. Li chiamano “invisibili”. E sono il motivo per cui decenni di arresti, processi e condanne non hanno impedito alla ’ndrangheta di continuare ad essere «la mafia più potente del mondo». Per conto dei clan in rapporto con i vertici del potere «politico, istituzionale, professionale, informativo, finanziario, imprenditoriale, sanitario, bancario ed economico», gli invisibili sono la vera forza delle mafie. La mente, la direzione strategica. Ma per decenni sono riusciti a nascondersi. Gli invisibili hanno deciso governi, scalate economiche, maxi-investimenti. Protetti dall’immagine di una ’ndrangheta arcaica, rozza, quasi tribale, descritta così, secondo il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri «da alcuni in buona, da altri in cattiva fede». Politici, imprenditori, finanzieri, banchieri, pubblici funzionari sono stati travolti dalle indagini in tutta Italia. Insomma, la caccia agli invisibili è iniziata da tempo. «Chi sta sopra, decide le strategie, chi sta in mezzo le pianifica e le rende attuabili e chi sta sotto, le esegue. Le tre componenti, unitariamente considerate, formano l’attuale struttura della ’ndrangheta» diceva già una decina di anni fa il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’inchiesta “Bellu Lavuru”, a trovare la prima traccia recente degli “invisibili”, evocati dal boss-massone Sebastiano Altomonte, come «quelli che non li conosce nessuno, ma contano davvero». Poi sono arrivati collaboratori di giustizia come Consolato Villani a spiegare che esiste «una ’ndrangheta di forma e una di sostanza», fatta di «persone invisibili, che sono più in alto, hanno contatti con il mondo politico, con altre parti della società, sono massoni». O Nino Fiume, che ha parlato di quel «livello superiore» che ha consentito al clan De Stefano di essere «in protezione». E le dichiarazioni di Filippo Barreca e Giacomo Ubaldo Lauro, i primi collaboratori della storia della ’ndrangheta, hanno acquisito senso. Sono stati loro a svelare l’esistenza della Santa o Mammasantissima. All’epoca si pensava fosse semplicemente una “carica”, il grado più alto nelle gerarchie dei clan: In realtà era la prima “struttura riservata”, la conventicola di grandi capi in grado di decidere le strategie dell’intera organizzazione. E di misurarle con i rappresentanti di altri poteri economici, istituzionali, politici, che nelle logge incontravano da pari a pari. Sperimentata con il golpe Borghese e i moti di Reggio, la struttura nel tempo è affiorata sotto la superficie di fatti di sangue e misteri, dalla strage di piazza della Loggia alla stagione degli attentati negli anni Novanta. Ha incrociato i propri destini con la P2 di Licio Gelli, l’eversione fascista, i paramilitari di Gladio e le schegge impazzite dell’intelligence, e il proprio cammino con personaggi come il terrorista nero Franco Freda. Protetto dal clan De Stefano durante la latitanza a Reggio Calabria, c’era anche lui - racconta Barreca - fra i fondatori della «superloggia segreta di cui facevano parte appartenenti alla ’ndrangheta e alla destra eversiva» nata alla fine degli anni Settanta sulla sponda calabrese dello Stretto e nascosta «in una loggia massonica ufficiale». Nel 2009, il collaboratore Cosimo Virgiglio, massone di alto rango finito al servizio dei clan, ai pm descrive la medesima struttura. Nel tempo si è evoluta, spiega, ha usato come paravento obbedienze diverse, imparato a giocare con l’extraterritorialità, rifugiandosi dietro logge e cavalierati con base a San Marino e in Vaticano. Sul piatto, la ’ndrangheta mette liquidità, diffusione capillare sul territorio, capacità militare, voti. Gli altri, i canali per trarne profitto tutti insieme. Con il grembiule addosso, si diventa fratelli. Come involontariamente confermato anche dal boss Luni Mancuso nel 2011: «La ’ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria, è sotto (nascosta ndr) della massoneria, però hanno le stesse regole. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo p4, p6, p9», come quando «caduta la “democrazia”, hanno fatto un altro partito, Forza Italia». Quello che non cambia sono i cognomi di chi ha accesso a quegli ambienti. A partire dagli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, travolti dall’inchiesta Gotha della procura di Reggio Calabria, a oggi gli unici ad essere finiti a giudizio come esponenti della direzione strategica della ’ndrangheta. E se Romeo attende ancora l’esito del giudizio di primo grado, De Stefano è già stato condannato a 20 anni come invisibile. Penalista con il pallino della politica, vicino alla destra eversiva ma eletto con la Dc, massone, con un capitale di contatti, fra i referenti dei siciliani negli anni degli “attentati continentali”, per tutti in grado di addomesticare sentenze fino in Cassazione e di creare dal nulla legioni di politici, anche dopo una prima condanna per concorso esterno, non ha mai rinunciato al proprio ruolo. Né lo ha fatto «il suo sodale e amico» Paolo Romeo, vicino alla destra eversiva e a Gladio ma eletto in Parlamento con il Psdi, pure lui già condannato in passato per concorso esterno alla mafia. Un pezzo di una strategia molto più complessa e in più fasi - ipotizza oggi l’inchiesta di Reggio Calabria “’Ndrangheta Stragista”, sviluppando quella palermitana sulla Trattativa - che ha visto clan calabresi e siciliani lavorare gomito a gomito per individuare nuovi referenti politici affidabili nello scenario nazionale e internazionale stravolto da Tangentopoli e dalla fine della guerra fredda. Una fase delicata in cui molti invisibili, sebbene al momento non a processo come tali, sono venuti alla luce. Ad indicarli, ex boss calabresi, ma soprattutto siciliani. Al killer oggi collaboratore di giustizia Giuseppe Maria Di Giacomo, è stato Santo Mazzei, il capoclan di Catania imposto dai corleonesi negli anni delle stragi, a spiegare che fra gli interlocutori di fiducia in Calabria c’erano «i Piromalli della Piana di Gioia Tauro e i Mancuso di Limbadi». Ed in particolare quel Pino Piromalli “Facciazza”, che sebbene oggi - dicono alcune informative - a causa della lunga detenzione abbia dovuto appaltare lo scettro ai nipoti, primo fra tutti Gioacchino “l’avvocato”, rimane uno dei più potenti boss calabresi. Parola dell’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, in carcere come riservato dei Mancuso, ma tanto vicino allo storico casato della Piana da poter affermare che «Dell’Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro». E assicurare che «ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno si chiama Giuseppe Piromalli, e l’altro si chiama Luigi Mancuso che è più giovane e forse più potente». Due «punte della stella» della medesima realtà criminale entrambi appartenenti a quella che il collaboratore Di Giacomo chiama «la cupola calabrese» di cui facevano parte «tutte le famiglie ed i relativi esponenti». Il passaporto per interloquire con altri mondi a nome dell’organizzazione. Lo stesso che avevano i fratelli Domenico e Rocco Papalia, boss di Platì da mezzo secolo trapiantati a Milano, per trattare con i servizi affari, omicidi su commissione e scarcerazioni, o Cosimo Commisso “U Quagghia”, elemento di vertice di quel Crimine di Siderno che ha una componente in Calabria ed una in Canada. «Ci sono soggetti anche di maggiore peso nella zona jonica reggina» spiegano fonti investigative: feudo di storici casati mafiosi come i Nirta la Maggiore e i Pelle di San Luca, i Morabito Tiradritto di Africo, i Barbaro-Papalia di Platì. È da lì che emana il potere in grado di dare legittimazione a clan non certo di seconda fila come i Grande Aracri, diffusi come un’infezione dall’Emilia-Romagna al Nordest. Eppure Nicolino, che ne è il patriarca, dice il collaboratore Luigi Bonaventura «ha ottenuto il “crimine” da Antonio Pelle “Gambazza”, boss di San Luca, nella Locride». Anche Nicolino Grande Aracri è un «fratello», con tanto di spada templare, poi sequestrata nel 2012, ordinato cavaliere del sovrano Ordine di Malta. Intercettato, dice: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ’ndrangheta». Lì dove maturano legami, contatti, strutture. Come quella «superassociazione» in cui le mafie coabitano con «altri componenti di un sistema politico-economico pantagruelico e deviato» su cui da tempo lavora la Dia di Reggio Calabria. Un «sistema pancriminale» in grado di gestire politici come gli ex alti papaveri di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena o di condizionare gli investimenti di grandi imprese statali. Uno “Stato parallelo”.

·         La Mafia Veneta.

Michele Fullin per “il Messaggero” il 5 giugno 2020. In Veneto la mafia c'è ed è stabilmente radicata in gran parte del territorio. Non tanto Cosa Nostra o Camorra, ma soprattutto Ndrangheta, le cui basi sono state scoperte prima ad Eraclea, poi a Padova e infine a Verona. L'operazione Isola Scaligera, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia, ha portato ad un'ordinanza di custodia cautelare (in carcere e ai domiciliari) emessa nei confronti di 26 soggetti, dei quali ben 16 hanno in capo d'imputazione l'articolo 416 bis del Codice penale. Associazione mafiosa. Le richieste del pubblico ministero Lucia D'Alessandro (che ha fatto un lavoro certosino studiando migliaia di pagine e coordinando gli investigatori) riguardavano 58 soggetti. Gli indagati, a vario titolo, senza richieste di misure cautelari, sono molti di più. Tra questi figura anche l'ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, al quale viene contestato il reato di peculato per un episodio di poche migliaia di euro risalente al 2017. Tosi ha spiegato: «Non ne so nulla, ne uscirò totalmente estraneo, come in tutte le altre occasioni. Da sindaco sono sempre stato rigorosissimo nel mio mandato». Tra i destinatari di misura cautelare ci sono anche due esponenti dell'Amia, l'azienda comunale di igiene urbana: il presidente Andrea Miglioranzi e il direttore tecnico Ennio Cozzolotto. Questi ultimi avrebbero agevolato una società riconducibile alla malavita organizzata nella gara per alcuni corsi antincendio e antinfortunistica. Contemporaneamente, sono stati effettuati sequestri per 15 milioni, tra beni immobili e quote societarie. Nel capoluogo scaligero, al centro di una delle zone più ricche a livello europeo, è emerso che gli esponenti della Ndrangheta hanno svolto i loro sporchi affari per trent'anni, riciclando soldi provenienti dal traffico di stupefacenti e trovando terreno fertile per fare il bello e il cattivo tempo in attività economiche d'interesse (come le sale da gioco), ricorrendo a intimidazioni per far capire chi è che comanda, ma senza esercitare un controllo militare del territorio.  Un modo di fare violento, ma - come ha sottolineato il Gip di Venezia Barbara Lancieri - silente, privo di richiesta, «che integra perfettamente la modalità mafiosa qualora l'associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo il ricorso a specifici comportamenti di violenza e minaccia». Ma soprattutto, questo tipo di criminalità ha trovato un certo appoggio nella società civile e nel mondo imprenditoriale. L'inchiesta ha richiesto più di due anni di accertamenti da parte del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia, delle Squadre mobili di Verona e Venezia nonché dei reparti Prevenzione crimine e della Scientifica. A capo di tutti ci sarebbe Antonio Giardino, detto Totareddu o Il Grande, 51 anni, personaggio dall'indiscusso spessore al quale viene accreditata una posizione di potere in Veneto e gli è attribuito il merito di aver composto la faida a Isola di Capo Rizzuto tra gli Arena-Nicoscia e i Capicchiano, che ha provocato decine di morti. Insomma, per gli inquirenti, saremmo di fronte a un vero pezzo da novanta. «Questa attività non nasce da una notizia di reato - ha spiegato il responsabile della Direzione nazionale anticrimine della polizia, Francesco Messina - ma dal monitoraggio di attività anche imprenditoriali sul territorio che hanno portato ad attenzionare alcuni soggetti che non sembravano far parte di organizzazioni criminali. Il sequestro di 15 milioni testimonia come questi volessero progredire con la provvista in nero, allo scopo di affiliare dal punto di vista economico diversi soggetti che non sempre hanno avuto solo danni ma anche diversi vantaggi. L'imprenditore alla fine è quasi complice. La cosa triste - ha concluso - è che spesso questa gente si vende per poco: qualche migliaio di euro». «La situazione è allarmante - ha poi detto il Procuratore capo, Bruno Cherchi - significa che c'è la possibilità di un contatto tra la struttura politico amministrativa e la criminalità organizzata. Un segnale nuovo per il Veneto. Siamo contenti che abbiamo lavorato bene, ma come cittadini restiamo un po' sconcertati. Sono sicuro che esistono dei buoni anticorpi a livello politico amministrativo e sociale, ma come si è visto, non sono bastati. Bisogna supportare - ha concluso - l'attività di polizia e degli uffici giudiziari. Non sono il primo a segnalare la situazione drammatica dei nostri uffici che ci limita fortemente nell'attività di contrasto alla criminalità organizzata».

L'indagine su Flavio Tosi e la caccia alle microspie del sindaco di Verona. Nell'inchiesta sulla 'ndrangheta nella città scaligera emergono dettagli che riguardano l'attuale primo cittadino Federico Sboarina (non indagato) e il suo predecessore, indagato per concorso in peculato. Entrambi si sono rivolti a un'agenzia di investigazioni per problemi diversi, ma molto delicati. Giovanni Tizian il 05 giugno 2020 su L'Espresso. Verona non va associata alla mafia, si è affrettato a dichiarare il sindaco Federico Sboarina, dopo i 26 arresti tra colletti bianchi, manager e personaggi affiliati alla 'ndrangheta. Sarà, ma quel che è emerso nell'inchiesta “Isola Scaligera” della procura antimafia di Venezia e del servizio centrale operativo della polizia è la conferma che la città ha un suo lato oscuro, poco raccontato, molto frequentato dagli emissari dei clan della 'ndrangheta. Il nome di Sboarina spunta negli atti di indagine, ma non è indagato. Avrebbe incaricato un'agenzia di investigazione per verificare la presenza di microspie negli uffici del Comune. La stessa agenzia a cui si è rivolto l'ex sindaco Flavio Tosi per altre questioni. Ma andiamo con ordine. L'Espresso nel 2015 aveva rivelato i contatti delle cosche calabresi di stanza in Emilia e Veneto con l'industriale Moreno Nicolis e Flavio Tosi, l'ex sindaco della Lega (poi uscito dal partito di Matteo Salvini) ora indagato nell'indagine sulla 'ndrangheta veronese, che coinvolge i vertici della municipalizzata de rifiuti Aima. A Tosi i pm non contestano reati collegati alla mafia, ma il concorso in peculato in relazione alla distrazione da parte dell'ex presidente della municipalizzata dei rifiuti Amia, Andrea Miglioranzi di una somma «non inferiore a 5.000 euro» per pagare la fattura di un'agenzia di investigazioni privata, su prestazioni in realtà mai eseguite in favore di Amia, ma nell'interesse di Tosi. il denaro, tra l'altro, è stato consegnato, si legge negli atti, con la fascetta “Verona Fiere”. Altra società collegata all'amministrazione di cui il Comune detiene quasi il 40 per cento delle quote. Nelle intercettazioni emerge come Tosi fosse interessato a capire di più su alcuni fatti che lo riguardavano: «Veneta investigazioni ha ricevuto un incarico da Flavio Tosi affinché si occupi di accertare alcuni fatti, forse legati ad alcune fotografie, ma che le ricerche non stanno dando gli esiti sperati», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del gip del tribunale. Ma non c'è solo l'ex sindaco che si sarebbe rivolto all'agenzia di investigazione per risolvere grane private. Anche l'attuale Federico Sboarina, secondo quanto si legge negli atti dell'indagine, avrebbe chiesto alla stessa agenzia di “bonificar" gli uffici comunali, in pratica avrebbero dovuto verificare la presenza di microspie. Il motivo di tanta preoccupazione è ignoto. Il boss della 'ndrangheta al centro dell'inchiesta è Antonio Gardino detto "Totareddu", vicino alla cosca Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, provincia di Crotone. Di Tosi era emerso anche in passato la vicinanza ad alcuni imprenditori legati a uomini dei clan di 'ndrangheta. Su L'Espresso avevamo rivelato ormai cinque anni fa un pranzo particolare: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferiva un uomo della 'ndrangheta crotonese, parole agli atti della maxi inchiesta Aemilia sulla 'ndrangheta emiliana. Il braccio destro del boss dell'epoca si chiama Antonio Gualtieri, e raccontava, come già rivelato dall'Espresso , del pranzo a casa dell'industriale veronese del ferro, Moreno Nicolis alla presenza di Tosi: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Raccontavamo anche di un tentativo di speculazione edilizia. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti c'erano una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l'informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta all'Espresso la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e dell'allora assessore Vito Giacino. Insomma, vecchie ombre di cinque anni fa. Mai chiarite. Che diventano ancora più cupe ora, con ques'ultima indagine sulla città di Romeo e Giulietta.

Gli affari, gli appalti, gli amici della 'ndrangheta tutta veneta. Tra gli indagati l’ex sindaco di Verona, Tosi. I boss al telefono: «Teniamo anche lui per le palle». Il clan controllava i manager fino a gestire le scelte delle municipalizzate. Antonio Anastasi il 5 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. L’unica attività che la polizia ha svolto a Isola Capo Rizzuto nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Venezia che ieri ha portato all’operazione “Isola scaligera”, con 26 misure cautelari – 17 in carcere, sei ai domiciliari e tre all’obbligo di firma – e un sequestro preventivo di beni da 15 milioni di euro, frutto di approfondimenti patrimoniali, è stata una perquisizione. I fatti contestati alla famiglia di ‘ndrangheta capeggiata da Antonio Giardino, collegata alla cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, sarebbero stati commessi soprattutto nel Veronese. Le indagini sono state fatte là dove c’è la polpa da succhiare. Anzi, da “mangiare”, come si apprende dalla viva voce degli indagati. Citiamo questo dato soltanto per dare un’idea del fenomeno della ‘ndrangheta autonoma, che pur mantenendo legami con la casa madre si muove in maniera diversa da quella tradizionale stabilendo una rete di contatti nei territori “colonizzati”. E che contatti. Le mani della famiglia Giardino a quanto pare si erano allungate sul Comune di Verona. O, meglio, sugli appalti dell’Azienda speciale del Comune, l’Amia. E tra gli indagati figura anche l’ex sindaco Flavio Tosi, ex “colomba” della Lega. La regia del presunto clan spunta anche dietro un traffico illecito di rifiuti. Le misure disposte dal gip Barbara Lancieri sono state eseguite dagli agenti delle Squadre Mobili di Verona e Venezia che, tra gli altri, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, hanno arrestato anche un ex presidente e l’attuale direttore della municipalizzata che si occupa della raccolta di rifiuti a Verona. Secondo l’accusa sono stati corrotti dai malavitosi per poter entrare nel settore dei corsi di formazione per la sicurezza nel posto di lavoro. In particolare, la vicenda vede coinvolti Nicola Toffanin, un veronese detto “l’avvocato” che aveva il compito di avvicinare i colletti bianchi, e Ennio Cozzolotto e Andrea Miglioranzi, rispettivamente presidente e condirettore di Amia, nonché Francesco Vallone, gestore del centro studi “Enrico Fermi” di Verona. Dalle intercettazioni sarebbe emerso un contesto di turbativa d’asta e abuso d’ufficio con l’aggravante mafiosa. L’intendimento degli indagati sarebbe stato quello di assegnare l’incarico alla scuola gestita da Vallone, rispettando formalmente la procedura, invitando altri quattro o cinque istituti a fare delle offerte il cui contenuto sarebbe stato poi rivelato al direttore del centro studi. Quest’ultimo sarebbe stato poi in grado di fare l’offerta migliore e risultare vincitore. Ma i corsi non si sarebbero manco tenuti, con guadagni per Toffanin e Vallone stimati in 10mila euro, mentre il compenso per Miglioranzi sarebbe stato di 3000 euro. Addirittura sarebbe emerso un fenomeno di falsi diplomi rilasciati a membri del clan, ma questa è un’altra storia ancora. Tra gli elementi che avvalorano l’ipotesi delle infiltrazioni all’Amia, un’intercettazione in cui Toffanin, con riferimento a Miglioranzi, dice: «l’ho preso per le palle…ma c’ho anche Tosi… in questo momento conta più lui che Tosi». A colloquio con Vallone, Toffanin è un fiume in piena: «arriviamo a una situazione che lo portiamo dove vogliamo noi… c’è da mangiare sempre». Poi Vallone ironizza: «pulito senza nessuna faccia e senza niente… al massimo tra dieci anni usciamo su Report». Non a caso l’ex sindaco di Verona è tra gli indagati, con l’accusa di concorso in peculato in relazione alla distrazione da parte dell’ex presidente della municipalizzata Miglioranzi (ai domiciliari) di una somma «non inferiore a 5.000 euro» per pagare la fattura di un’agenzia di investigazioni privata, su prestazioni in realtà mai eseguite in favore di Amia, ma nell’interesse di Tosi. «Basta che non compaia Veneta investigazioni», dice Toffanin in un’altra intercettazione. Pare che il denaro versato in contanti provenisse da Verona Fiere, avendo notato il loquace Toffanin i soldi avvolti in una fascetta con la stampigliatura dell’ente. «Qua riesco a leggere Verona fiera… il timbro sotto a sinistra in basso». Davvero interessante il filone dei presunti concorrenti esterni dell’associazione mafiosa tra i quali, in relazione al traffico di rifiuti ordito da Michele Pugliese, uno dei pezzi grossi della cosca isolitana, figurerebbero gli imprenditori veneti Ilario Vernieri e Salvatore Bruno; mentre Cesare Nicoletti e Luca Schimmenti, rispettivamente commercialista e direttore di banca, avrebbero svolto un ruolo chiave nella gestione delle società e nelle movimentazioni di denaro del clan, agevolando l’evasione delle imposte e la fatturazione per operazioni inesistenti nonché le interposizioni fittizie. «Per la prima volta la criminalità organizzata tocca il territorio veronese, dopo Eraclea e Padova – ha detto il procuratore distrettuale antimafia di Venezia, Bruno Cherchi – le ipotesi che avevamo fatto in passato sulla criminalità organizzata stanno dando riscontri su una situazione che deve essere attentamente considerata. Si tratta di un pericoloso segnale che dovrebbe allarmare la società civile per la pericolosità dei contatti tra amministrazione e politica e criminalità organizzata». Caratteristica di questa “filiale” della “casa madre” Arena viene ritenuta dagli inquirenti il fatto di operare sotto traccia, innervandosi così sul tessuto imprenditoriale per contaminarlo. Tant’è che l’indagine non prende l’avvio da fatti di sangue ma dal ricovero in ospedale del capo indiscusso del presunto clan, Antonio Giardino, che, durante la degenza in un ospedale dell’hinterland veronese, viene sottoposto a intercettazioni. A quanto pare, parlava liberamente degli affari criminali di cui era al vertice. Ma è una storia lunga. I rapporti dei Giardino con Tosi risalgono all’epoca in cui fu monitorato un presunto sostegno elettorale e una serie di intercettazioni portavano a appalti del Comune veneto che il clan tentava di ottenere dal politico amico, la cui elezione fu festeggiata nel 2012 dagli isolitani a Verona. Inoltre, Tosi fu pedinato dai carabinieri quando andò a Crotone per presentare la fondazione “Ricostruiamo il Paese insieme”, il 29 gennaio 2012, probabilmente nell’ambito degli accertamenti sulle infiltrazioni in Veneto delle cosche crotonesi.

Da “il Messaggero” il 5 giugno 2020. Ha provato in tutti i modi: prima ha tentato di ricusare il giudice, poi non si è collegato dal carcere di Voghera, ufficialmente, per «motivi di salute psichiatrica». Il giudice ha così rinviato la lettura della sentenza disponendo una verifica in carcere delle condizioni dell' ex boss della mala del Brenta. «Sintomatologia pretestuosa», ha stabilito il medico ed è quindi stato emesso il verdetto. Così Felice Maniero, 66 anni a settembre e un passato da faccia d' angelo, è stato condannato a quattro anni a Brescia per maltrattamenti sulla compagna. L'ex boss del Brenta, che ha cambiato nome dopo aver cominciato a collaborare con la giustizia entrando nel programma di protezione dei testimoni, aveva finito di scontare la sua pena nel 2010: dal 1980 al 1995 ha diretto una banda di quasi 500 persone, che ogni giorno metteva a segno decine di colpi, uccideva, trafficava in droga. Nell' ottobre del 2019 però era stato arrestato di nuovo per vessazioni fisiche e psicologiche nei confronti della sua compagna Marta Bisello, 47 anni, al suo fianco da 26 anni. Nel processo con rito abbreviato, l' accusa aveva chiesto una pena di 6 anni e 8 mesi, ma «sono stati derubricati alcuni reati, che non hanno fatto scattare il codice rosso, entrato in vigore successivamente» ha spiegato il difensore, l' avvocato Luca Broli.

Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 22 maggio 2020. Una vita di agi e di paure, di litigi e perdoni, sempre all' ombra di un boss che alla fine l' ha maltrattata con ceffoni e insulti. Marta Bisello è la donna che pochi mesi fa ha trascinato a processo Felice Maniero, l' ex numero uno della Mala del Brenta. L' uomo che negli anni Novanta guidava 500 uomini affiliati alla mafia veneta, ora è infatti imputato per maltrattamenti in famiglia e si trova per questo in carcere dall' ottobre scorso. È stata dunque lei, la storica compagna che gli è stata accanto fin dagli assalti ai portavalori e dalla quale Maniero ha avuto una figlia 19enne, a denunciare con coraggio le violenza e le umiliazioni subìte da parte di uno tra i banditi più pericolosi, feroci e potenti del Nordest d' Italia, divenuto anche collaboratore di giustizia. Martedì scorso la donna, insieme alla figlia, è stata chiamata in aula al Tribunale di Brescia durante l' udienza del processo con rito abbreviato, alla quale ha preso parte in videoconferenza anche Maniero, che ha chiesto scusa alla donna ammettendo i propri errori. «Ti chiedo scusa», ha detto più volte in aula l' ex boss oggi 66enne.

«L' ho picchiata, è vero», ha ammesso davanti al giudice Roberto Spanò, «ma mai con calci e pugni, solo qualche schiaffo, qualche spinta».

Umiliazioni continue. Quello di Marta, in aula a porte chiuse, è stato un lungo racconto durato oltre due ore. Secondo il suo avvocato Germana Giacobbe, «la sua è stata una testimonianza lucida, lineare e priva di contraddizioni. Ha confermato puntualmente le accuse», anche se «credo di poter interpretare il suo sentire quando dico che alla mia assistita non interessa la vendetta o una condanna; lei voleva semplicemente raccontare i maltrattamenti subìti». E così ha fatto: «Mi chiamava celebrolesa, stupida, bastarda», ha detto. «Diceva che era colpa mia, che ero stata io a rovinare la famiglia - ha aggiunto -. Non mi sono mai ribellata». I problemi sarebbero iniziati nel 2016, in parallelo alle difficoltà economiche di Maniero, che in quegli anni si ritrova a racimolare, secondo quanto raccontato, gli spiccioli di quei 16 milioni di euro affidati al cognato e mai più riavuti. Sarebbero stati investiti e quindi indisponibili. Secondo la compagna, i loro problemi di coppia sarebbero iniziati poco prima, nel 2015, dopo le rivelazioni mandate in onda da Report, relative alla falsa identità di "Felicetto", alla loro presenza nel Bresciano e al suo nome legato ad una azienda che vendeva "casette dell' acqua" in zona. Tutto viene reso pubblico e questo avrebbe segnato l' avvio del declino. «Quando sono iniziate le difficoltà economiche lui è diventato più brutale», ha confessato l' ex compagna, che dall'autunno scorso si trova in una comunità protetta. Quella di Maniero, di Bisello e della figlia, secondo quanto è emerso martedì scorso in aula, era una vita fatta di agi, difficile da mantenere senza avere in cassa la liquidità necessaria. Per questo motivo, dunque, la situazione a casa Maniero sarebbe degenerata, tanto che la famiglia è stata sfrattata tre volte, finendo a vivere in una casa popolare. Maniero, soprannominato "faccia d' angelo" per via di quel sorriso da ragazzo perbene che nascondeva una esistenza segnata da crimini, sarebbe stato cacciato anche da quest' ultimo appartamento perché non pagava l' affitto. Insomma, una vita di povertà, nella quale sarebbero spariti i 50 milioni messi da parte nell' arco di una vita fatta di rapine, omicidi e spaccio.

IL PIANTO DELLA FIGLIA. Davanti al giudice l' accusatrice di Maniero ha ricostruito quattro aggressioni subìte tra il 2016 e il 2019. «Tra noi è finita, ora voglio solo stargli lontana», ha confessato infine al suo legale. Poco dopo è salita sul banco dei testimoni la figlia, molto legata al padre con il quale viveva insieme alla madre fino all' ottobre scorso. La ragazza, visibilmente provata, ha raccontato di avere assistito a due liti, nel corso delle quali il padre ha preso a schiaffi e spintonato la compagna. «Ma la mamma mi ha raccontato di altri episodi», ha dichiarato in aula scoppiando poi in lacrime. Secondo l' avvocato di "Felicetto", Luca Broli, «non vi sono referti che testimoniano le botte. Aspettiamo fiduciosi la sentenza che verrà emessa il 26 maggio». Secondo la collega Germana Giacobbe, invece, i maltrattamenti "pericolosi" sarebbero stati documentati. Quel che è certo, è che il rito abbreviato ottenuto da Maniero gli consentirà di beneficiare di uno sconto di un terzo della pena. Martedì prossimo la sentenza.

·         La Mafia Italo-Padana-Tedesca.

IL NORD CONQUISTATO DALLA 'NDRANGHETA. (di Massimiliano Coccia - L'Espresso il 21 agosto 2020). Secondo te che cos’è il Nord e dove inizia?, domanda Sergio, una vita nei reparti mobili della Polizia di Stato a Torino e ora pensionato, che continua e si risponde da solo: «Il Nord non esiste, continuano a chiamarlo Nord perché fa comodo dire che c’è un Nord e un Sud. A te sembra Nord perché il panorama è più ordinato ma l’Italia è tutta uguale. È passato il tempo in cui la mafia si infiltrava: la mafia è presenza stabile qui come al Sud». In effetti se il Nord lo si percorre in macchina, salendo e scendendo le Alpi, attraversando le città non ci sono carcasse di auto, scheletri di case iniziate e mai finite di costruire, sono assenti dalla visuale la decadenza e i retorici cartelli che indicano l’inizio di un territorio comunale forati dai bossoli di fucili, dal finestrino il panorama induce alla pace e alla sicurezza. «Quando è iniziato il boom economico le mafie hanno capito che si potevano espandere e hanno iniziato a migrare pure loro. Qui a Torino si diceva che per ogni dieci operai Fiat venuti dal Sud le mafie mandavano due “picciotti”», continua a raccontare Sergio: «Prima c’erano i reati bagatellari e poi piano piano in silenzio, facendo accordi, hanno iniziato a prendersi un pezzo del tessuto produttivo. Ricordo che negli anni passati era impossibile far passare il concetto che qui ci fosse la mafia e questo le ha dato un enorme vantaggio. Pensa che i partigiani dicevano “dopo il fascismo ci ammazza la mafia” e infatti fu così per il candidato sindaco di Cuorgnè, Mario Cerreto, ex partigiano di Giustizia e Libertà che fu ammazzato a Orbassano nel 1975 perché non voleva far entrare uno ‘ndranghetista nella sua lista. I colleghi che ne parlavano venivano trasferiti come successe a Pierluigi Leoni, commissario a Bardonecchia, che fu trasferito in Calabria perché indagava sulla famiglia Lo Presti». È proprio Bardonecchia il luogo simbolo dell’antico radicamento della ’ndrangheta in Piemonte, un luogo di frontiera da cui può partire questo viaggio, un luogo che per decenni è stato il feudo di Rocco Lo Presti, boss calabrese che emigrò nel 1953 da Marina di Gioiosa Jonica e dopo aver collezionato una condanna per ricettazione dal tribunale di Locri e l’arresto a Casale Monferrato per spaccio di banconote false, si trasferì a Bardonecchia dove creò una piccola ditta edile a conduzione famigliare che iniziò a prendere appalti pubblici e privati con la violenza e la corruzione. Lo Presti, morto nel 2009, fu uno dei capi più spietati della ’ndrangheta che in terra sabauda ha lasciato un’eredità pesante in termini criminali, cambiando per sempre il connotato di Bardonecchia. A marzo, qualche ora prima del lockdown, c’è stato ad esempio il sequestro del Bar Obelix nella centrale Piazza Europa e della pizzeria Tre torri in via Midal: beni che fanno parte del tesoro di Giuseppe Ursino, 50 anni, nipote di Rocco Lo Presti e attuale reggente dell’omonima ‘ndrina, in carcere dal 2018 a seguito dell’operazione “Bardo”. Operazione che ha portato all’arresto anche di Ercole Taverniti e ha permesso di evidenziare il tessuto criminale che legava la ‘ndrina Lo Presti con la famiglia Crea: i fratelli Adolfo, Aldo e Cosimo, al 41bis dal 23 aprile del 2018, gestivano un giro di slot, estorsioni e corruttela, lasciando come avvertimento e firma delle loro azioni una testa di maiale mozzata. «Bardonecchia è stata svuotata dalla ‘ndrangheta, siamo stati il primo comune sciolto per mafia al Nord nel 1995 e da allora cerchiamo di ripulire il tessuto criminogeno della città», dice Michele, giovane studente universitario da anni impegnato nei movimenti sociali del territorio. «Siamo una terra complicata, c’è un grande impoverimento della cintura economica, per un giovane fare impresa è difficile, il boom edilizio drogato dalla famiglia Lo Presti ha consumato il suolo: occorrerebbe fare una grande opera di riconversione sociale. Poi Bardonecchia è anche una rotta migratoria con la Francia, stagionalmente si riapre, e c’è l’emergenza Tav: il mio timore è che nonostante l’impegno del sindaco Francesco Avato a difendere questi luoghi, il tempo e lo spazio perduto facciano morire Bardonecchia. Servirebbe una specie di piano Marshall per i comuni che sono stati attraversati dalle mafie, perché gli indotti e le famiglie che detengono il potere alla lunga restano sempre le stesse». Centro e frontiera: sembra essere questo il movimento geografico delle ‘ndrine al Nord, piccoli comuni con interessi particolari. L’omesso controllo sulla formazione delle liste civiche - che da sempre sono un tirante delle giunte locali e il voto di scambio - saldano la politica con gli interessi mafiosi: basti pensare all’arresto di Roberto Rosso, ex assessore regionale piemontese in quota Fratelli d’Italia, da poco collocato agli arresti domiciliari, dopo sei mesi di carcere. Mentre il panorama piemontese sfuma dal finestrino, il territorio si fa più aspro e le vette più decise, segno che siamo entrati in Valle d’Aosta, regione dove lo scorso inverno un terremoto giudiziario ha portato alle dimissioni della giunta regionale. «La ’ndrangheta in Valle d’Aosta c’è da una vita», ha dichiarato Daniel Panarinfo, collaboratore di giustizia, teste al processo Geena, che si è concluso, per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, il 13 luglio presso il Tribunale di Torino che ha certificato per la prima volta l’esistenza della ‘ndragheta ad Aosta e dintorni. Una sentenza storica che ha visto la condanna di dodici persone tra cui Bruno Nirta (12 anni e otto mesi) considerato dalla Dda di Torino il vertice della cosca ad Aosta, in grado di tessere alleanze con le ‘ndrine piemontesi e di condizionare a vari livelli politica ed imprenditoria. Infatti nel secondo troncone, col rito ordinario, che è ripreso il 23 luglio al tribunale di Aosta, quello con il rito ordinario scelto da altri cinque imputati: Marco Sorbara, consigliere regionale sospeso; Monica Carcea, ex assessore al Comune di Saint-Pierre (sciolto nell’ottobre scorso per infiltrazione ‘ndranghetista a seguito della relazione della Commissione antimafia), entrambi accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, Nicola Prettico, consigliere comunale ad Aosta sospeso, Alessandro Giachino, dipendente del Casinò di Saint-Vincent e il ristoratore Antonio Raso, tutti e tre accusati di associazione per delinquere di stampo ’ndranghetista; quest’ultimo in più occasioni ha dichiarato di aver messo in piedi una azione trasversale per promettere “impegno” a tutte le forze politiche dello scenario valdostano. Una presenza mafiosa nella piccola regione del nord-ovest confermata per la prima volta da una sentenza ma che, come ha ricordato il Procuratore Generale della Repubblica di Torino, Francesco Saluzzo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, viene da lontano: «Che in Valle d’Aosta non vi fosse la ‘ndrangheta, esponenti della politica non avevano fatto mancare di far sentire la loro voce sdegnata per respingere quella possibilità. Quando evidenze - anche antiche - dicevano il contrario. Ora, forse, questi motivetti finiranno di essere suonati. Quel che mi preoccupa è la persistente sottovalutazione del fenomeno che si coglie nell’opinione pubblica. Questo atteggiamento ha aiutato e aiuta le organizzazioni mafiose. Non basta la risposta giudiziaria, occorre una presa di coscienza e un atteggiamento di ripulsa e di rigetto delle persone, delle comunità e delle istituzioni». Una presa di coscienza che Francesca Schiavon, editrice valdostana e attivista antimafia ha da sempre: «I valdostani hanno avuto, dopo tanti anni, un effettivo riscontro, se non ancora penale sicuramente culturale e sociale, del fatto di vivere in una Regione che, fattasi scudo per decenni del benessere diffuso che si sta sgretolando sotto i colpi della crisi economica, è immersa nella mentalità e nella prassi mafiosa dello scambio di voti, di favori, di posti di lavoro». Tutti sapevano, sottolinea Schiavon, molti ne hanno tratto vantaggi, troppi hanno taciuto. «Oggi il tessuto sociale appare sfibrato da malcontento e diffidenza, difficile fidarsi di un potere opaco e rapace che, seppur indebolito sotto i colpi della magistratura, ancora viene percepito come il deus ex machina della vita politica ed economica valdostana». Lasciamo Aosta e ci dirigiamo verso il comune di Saint-Pierre, sciolto per infiltrazioni mafiose a febbraio sempre nell’ambito dell’inchiesta Geena, il primo in questa regione. Il paesaggio alpino, i pochi abitanti che camminano per il centro della città, l’apparente estraneità di tutto il contesto urbano con quello che è avvenuto qualche mese fa rendono tutto surreale. Nei bar l’argomento si evita e Federico, che vive a Milano, ma qui ha i genitori, racconta che «in paese c’è omertà. È incredibile vero? Uno pensa che l’omertà c’è solamente al Sud e invece anche qua. Qui si è creata una bolla, perché la ’ndrangheta è entrata in tanti posti, portando soldi che poi hanno lasciato povertà: per questo la gente ha iniziato ad andare dai carabinieri». Quello che dice Federico viene esplicitato in termini tecnici anche dalla Banca d’Italia: lo studio “Gli effetti della ’ndrangheta sull’economia reale: evidenze a livello di impresa” mostra come i mandamenti criminali si infiltrino nelle aziende che vivono difficoltà finanziarie, creando nel primo periodo un effetto positivo sui bilanci, per poi sgonfiarsi man mano, rilasciando effetti negativi sulla crescita aggregata di lungo periodo. Effetti che, terminato il ciclo di riciclaggio, portano alla chiusura delle aziende e alla perdita di posti di lavoro in massa. Centro e confini, ricchezza e povertà, fatturati e politica impermeabili, sembrano essere gli elementi di forza di questa organizzazione che come racconta Antonio Talia in “Statale 106” (Minimum fax) ha fatto di una strada provinciale dove tutto è nato il viadotto simbolico per un regno transnazionale, che fattura come uno Stato e fa raramente notizia. Bardonecchia è il luogo simbolo del radicamento della criminalità calabrese, ma il fenomeno è dilagato in Piemonte e non solo.

'Ndrangheta, il contagio è finito, anche l’Europa e il Nord Italia hanno le loro mafie. La solitudine degli inquirenti italiani: Bruxelles non si rende conto della gravità delle cose e nasconde i dati allarmanti sull’euro-criminalità. Antonio Anastasi il 9 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La vera novità che è emersa dal forum del Quotidiano con il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il professor Antonio Nicaso e il numero due di Eurojust, Filippo Spiezia , è che nel Nord Italia e in Europa, quelle che una volta venivano chiamate le “aree non tradizionali” di espansione delle mafie italiane e in particolare della ‘ndrangheta (peraltro l’unica organizzazione criminale ad essere presente in tutti i continenti) non vi è la consapevolezza della necessità di una “risposta coerente e comune”. E che è ormai superata la visione secondo cui l’espansione delle mafie in aree diverse da quelle della loro genesi storica sia equiparabile a una patologia contagiosa, alla stregua di un esercito che invia nei territori di conquista dei presidi. La situazione è alquanto diversa.

IL DOSSIER EUROPOL. Basta rileggersi le denunce forti del vicepresidente dell’agenzia dell’Ue nata per migliorare il coordinamento delle indagini sulla criminalità organizzata e transfrontaliera, che, non a caso, ha auspicato che vi sia una “ricaduta” dei temi affrontati durante il forum. “L’’ultimo rapporto di Europol sul crimine organizzato italiano risale al 2013. Non c’è un rapporto aggiornato e da fonti istituzionali mi è noto che esso è nei cassetti e non c’è la volontà politica di tirarlo fuori e questo è gravissimo”. E ancora: “Il tema della criminalità italiana mafiosa, se è un dato acquisito sul piano criminologico e giudiziario incontra ancora forti resistenze rispetto alla necessità di una risposta comune e coerente”, ha detto sempre Spiezia. E quando il direttore Roberto Napoletano ha individuato un’analogia con “La stessa diffidenza rispetto all’opportunità di una risposta comune e coerente contro le mafie che c’è nel Nord Italia”, Spiezia non solo lo ha confermato ma ha fatto appello, in vista dell’entrata a regime di un nuovo organismo giudiziario in materia di abusi sui fondi Ue, ovvero il procuratore europeo, che l’Italia faccia sentire la propria voce. In base al Regolamento attuale, la nuova struttura “dovrà indagare su fatti commessi a partire dal novembre 2017, ciò significa che partirà con un arretrato di tre anni e questo è un problema serissimo che richiede risposte immediate”. Ma Spiezia ha anche proposto un’aggravante specifica per la locupletazione di denaro legato a finanziamenti Covid in quanto l’attuale fattispecie penale della percezione indebita di aiuti comunitari– 316 ter per gli addetti ai lavori – “è assolutamente fuori parametro con la pena della reclusione al massimo di 3 anni che neppure consente il ricorso a tecniche investigative speciali e nemmeno a misure cautelari”.

MODELLO ITALIANO. Lo staranno a sentire? Difficile dirlo. Difficile dire anche se Paesi come la Germania o il Regno Unito, per fare degli esempi eclatanti, che sul fronte antiriciclaggio e degli accertamenti patrimoniali non hanno normative avanzate come quelle vigenti nel nostro Paese, seguiranno il modello italiano. Ma è l’Italia che ha finanziato l’iniziativa Interpol di attacco globale e non è chiaro se gli altri Paesi si “adegueranno”, ha denunciato uno dei massimi di esperti di ‘ndrangheta al mondo come il professor Nicaso sempre durante il forum. Ma sono almeno altri due gli interrogativi in piedi. Uno. Chi non vuole che sia reso noto il rapporto aggiornato sul crimine organizzato in Europa? Spiezia parla di “volontà politica”.

LE ’NDRINE TEDESCHE. Del resto, era la stampa conservatrice tedesca, che di recente non ne azzecca una, a invitare l’Europa a non aiutare l’Italia in tempi di pandemia perché «la mafia sta aspettando i soldi da Bruxelles», ma chissà se lo sa l’ormai famigerato editorialista di Die Welt che Guenther Oettinger, ex capo della Cdu nel Parlamento del Land tedesco del Baden Wurttemberg ed ex commissario al Bilancio europeo nella squadra di Juncker, era in ottimi rapporti con il calabrese Mario Lavorato, condannato a dieci anni e otto mesi di carcere nel maxi processo Stige, quello conclusosi con oltre sei secoli di condanne per i presunti affiliati al “locale” di ’ndrangheta di Cirò nell’ambito della quale l’amico di Oettinger (il «mio italiano», lo chiamava) era ritenuto il capo della cellula operante in parte, appunto, nel Baden Wurttemberg e in parte nell’Assia. Ma è soltanto uno degli esempi che si potrebbero fare, e lo facciamo giusto per dare un’idea delle dimensioni del radicamento della ‘ndrangheta nelle “aree non tradizionali”.

I PATRIMONI. Le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico e sociale in Germania, per esempio, sono possibili perché là è più facile riciclare soldi sporchi che in Italia, dove gli accertamenti patrimoniali sono più stringenti e dove non ci sono case automobilistiche, come in Germania, che producono veicoli addirittura muniti di rilevatori di microspie. Insomma, al Nord Italia come nei Paesi del Nord Europa – e quello che diciamo è accertato da plurime inchieste giudiziarie in molti casi già approdate a sentenze – a favorire quell’infiltrazione e quel radicamento è stata una zona grigia fatta di pratiche di illegalità preesistenti. Una zona grigia occupata da pezzi di imprenditoria, di politica e professionisti collusi che, nel Nord Italia come nel Nord Europa, con i boss e i loro gregari vanno a braccetto e ci fanno affari. In tutti i casi è decisiva la presenza di imprenditori, politici e professionisti, cioè, che sono disponibili a intrecciare rapporti di scambio con i mafiosi, data la loro enorme disponibilità di liquidità, e se sul piano giudiziario e degli studi criminologici ciò è ormai un dato acquisito non lo è sul piano politico, economico e sociale degli interventi antimafia, che nessitano di un salto di qualità non più rinviabile.

CESSATE IL FUOCO. Chi non vuole capire che le mafie che non sparano sono altrettanto pericolose, insomma, di quelle sanguinarie che tengono sotto scacco interi territori del Meridione d’Italia (“al Sud i delitti e al Nord gli affari”, è un vecchio leit motiv) non ha colto che c’è un fenomeno autonomo che chiama in causa tratti peculiari delle società del Nord Italia e del Nord Europa. Le mafie vanno là dove c’è la polpa, cioè gli affari, il potere, e la loro possibilità di mimetizzarsi è accresciuta non solo dalle loro competenze di illegalità ma anche dalle relazioni di complicità nella sfera (apparentemente) legale dell’economia, della politica, delle istituzioni. Basta leggersi le cronache degli ultimi anni, con arresti eccellenti di politici e imprenditori sempre più propensi ad accreditarsi per la loro reputazione mafiosa, e ricordare che il processo più grande contro le mafie in Italia degli ultimi 30 anni si sta celebrando nella grassa Emilia. I modelli di insediamento cambiano a seconda dei contesti territoriali ma la sostanza non cambia. “È una storia che si ripete”, per citare la chiosa di Gratteri che rispondeva positivamente al direttore Napoletano che chiedeva se in tempi di Coronavirus arriverà prima la finanza parallela della ‘ndrangheta, ormai “vera banca del Nord”, a sancire la sconfitta della burocrazia e del credito. Insomma, il salto di qualità non è più rinviabile contro una mafia deterritorializzata ma se questo fa parte da tempo del dominio conoscitivo di magistrati e studiosi del calibro di quelli che hanno partecipato al forum del Quotidiano non lo è per il legislatore. Né quello italiano né quello europeo.

La Germania della ’ndrangheten vede solo la mafiosità degli altri. Nicaso: «È il Paese dove c’è la maggiore infiltrazione e dove risiedono le più importanti famiglie delle ’ndrine». Antonio Anastasi il 10 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. La Germania? “E’ il Paese dove c’è maggiore presenza di ‘ndrangheta al mondo. La ‘ndrangheta lì è riuscita a clonare la geografia mafiosa calabrese superando, in termini di infiltrazioni, gli Usa, il Canada, l’Australia. Le famiglie più importanti della ‘ndrangheta sono tutte presenti in Germania”.

I MILLE DEI CLAN. Parola di Antonio Nicaso, uno dei massimi esperti di mafie, interpellato dal Quotidiano, e chissà se fischiano le orecchie all’editorialista di Die Welt che invita l’Europa a non aiutare l’Italia perché “la mafia sta aspettando i soldi da Bruxelles”. Del resto, di un esercito di mille uomini parlava già il governo tedesco nel rispondere a un’interrogazione presentata al Bunderstag, anche se i servizi di sicurezza avrebbero individuato soltanto 334 presunti affiliati. La strage di Duisburg è lo spartiacque, ma non solo nel senso della violenza mafiosa che prima non si era sprigionata in quanto gli ‘ndranghetisti, riuscendo a mimetizzarsi tra i familiari emigrati e favoriti da una normativa antiriciclaggio quasi inesistente, facevano i loro affari senza spargimenti di sangue.

GLI SCONTRI. Le indagini sull’eccidio del 15 agosto 2007 rivelarono come, in territorio tedesco, le affiliazioni ai clan avvenissero anche mediante i tradizionali rituali delle “famiglie”. Non è soltanto dello scontro tra i clan di San Luca, i Romeo Pelle Vottari da una parte e i Nirta Strangio dall’altra, che parliamo, ma di legami con la casa madre della ‘ndrangheta, di “locali” strutturati, come accertato da plurime inchieste giudiziarie, che hanno svelato un’operatività criminale che avviluppa innanzitutto le rotte del narcotraffico, sfruttando le potenzialità del porto di Amburgo, tra i maggiori scali europei. La geografia mafiosa si dipana anche nel Baden Wurttemberg, in Assia, Baviera e Nord Reno Westfalia, dove sarebbero attive le famiglie Pesce e Bellocco di Rosarno. Sempre in Assia e Baden Wurttemberg è presente una filiale del “locale” di Cirò con una serie di attività commerciali e nella ristorazione. Concorrenza aggressiva?

LE MANI SULL’ASSIA. In realtà pare che una cellula dei Farao Marincola distaccata in Germania non avesse neanche bisogno di chiedere, ai ristoratori calabresi, per imporre i prodotti di imprese controllate dalla cosca. La propaggine criminale cirotana aveva allungato i propri tentacoli in primis sul land tedesco dell’Assia. Ma sarebbe stata attiva un’altra cellula, operativa nel land del Baden Wurttemberg, in particolare nella zona di Stoccarda, che avrebbe monopolizzato il mercato dei semilavorati per pizza nonché i vini di imprese occultamente controllate. Articolazioni criminali, a quanto pare, alle dipendenze dei maggiorenti del clan, almeno secondo le rivelazioni della collaboratrice di giustizia Maria Vallonearanci, pure corroborate da intercettazioni. La donna, emigrata in Germania, da tempo “canta” sulla figura di Domenico Palmieri, originario di Cirò Marina ma dimorante a Fellbach, dove gestisce un circolo ricreativo, “Inter Club Fellbach”, utilizzato da esponenti della criminalità organizzata per organizzare incontri riservati, nonché come centro di stoccaggio di banconote contraffatte provenienti dall’Italia. Il denaro contraffatto sarebbe stato stampato in Calabria, a Mandatoriccio, dove Mario Lavorato, referente della ‘ndrangheta tedesca, ha una stamperia. Talvolta il denaro sarebbe stato trasportato in Germania da due rossanesi, che come carichi di copertura avrebbero utilizzato casse di mandarini. Le banconote farlocche sarebbero state così scaricate presso la pescheria di Palmieri e successivamente occultate nell’ “Inter Club”.

LE ALLEANZE. Nelle regioni della Turingia e della Sassonia (land dell’ex Germania dell’Est) la ‘ndrangheta ha stabilito alleanze operative con le mafie dell’Est Europa, sfruttando le opportunità del mercato finanziario e immobiliare, soprattutto in seguito alla caduta del Muro di Berlino. Un insediamento della cosca Morabito Bruzzaniti Palamara di Africo Nuovo è localizzato a Neuwied. Ma anche Cosa nostra è presente in Germania, sopecie col traffico di stupefacenti e di armi e il reimpiego dei capitali illeciti nell’edilizia.

·         La Mafia Nigeriana.

Preso Boogie, il dj-boss nigeriano. Musicista afro-beat, trafficante e gestore di un racket nel Nord Italia. Catturato a Verona. Tiziana Paolocci, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Suonava tutt'altra musica quando non si esibiva alle feste. Emmanuel Okenwa, conosciuto come Boogie, noto dj di musica afro beat, arrestato mercoledì notte dalla squadra mobile di Ferrara, si può dire anzi che «orchestrava» il traffico di droga e le estorsioni nel Nord Italia, dove era il capo indiscusso di una costola della mafia nigeriana. Gli investigatori hanno sorpreso il cinquantenne, che si definiva il «re di Ferrara», a Verona, dopo che era riuscito a sfuggire poche ore prima alla cattura, che in due operazioni parallele tra Piemonte ed Emilia-Romagna aveva portato una settantina di suoi connazionali in carcere. Le indagini erano partite dal tentato omicidio nel 2018 a Ferrara di un giovane che fa parte del clan degli Eiye, in conflitto con quello dei «Supreme Viking Arobaga», guidato dal «Boogie». Intercettazioni, pedinamenti e appostamenti hanno permesso alla polizia di smantellare i «cult», come vengono chiamati i gruppi criminali, «Viking-Arobaga» a Ferrara e «Valhalla Marine» a Torino, ma il dj non stato trovato. Era proprio lui il «capo mandamento» per Padova, Vicenza e Venezia, dove la criminalità nigeriana gestiva traffico di cocaina e le estorsioni, perpetrate nei confronti di quei connazionali, negozianti onesti, obbligati a pagare il pizzo. La mobile ha scoperto che esisteva una suddivisione gerarchica tra i membri, che sottostavano alle direttive impartite dalla Nigeria, erano vincolati al rispetto della segretezza e venivano affiliati con riti tribali, durante riunioni alla presenza dei capizona, tra Brescia e Veneto mentre la droga arrivava da Parigi e Amsterdam, grazie all'appoggio di «corrieri» che entravano in Italia attraverso i valichi del Monte Bianco e del Frejus. Boogie è stato individuato a Verona dove doveva esibirsi per una festa di battesimo. Nell'immediato è stato sorpreso vicino alla stazione Verona-Portanuova, ma si è sottratto alla fuga. Poco dopo, però, è stato catturato alla stazione Porta Vescovo. Agli agenti in borghese ha detto di aver saputo che era ricercato e stava tornando a Ferrara per prendere alcuni effetti personali. Ma la vera intenzione era di fuggire. Tra le fila della mafia nigeriana c'erano anche donne, che si contendevano il potere, mentre a Padova il ruolo centrale era di Albert Emmanuel detto «Raska». Dalla sua abitazione manovrava chili di droga proveniente dall'Olanda, che giungeva qui attraverso giovani donne spedite all'estero a ingoiare fino a 50 ovuli di stupefacente per volta per importarlo in Italia.

Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 29 ottobre 2020. «Sono un musicista e lotto contro la mafia nigeriana. Sono famoso a Torino per le mie battaglie. Il 5 luglio 2018, mentre mi trovavo in corso Giulio Cesare con alcuni amici musicisti, è arrivato un uomo conosciuto con il nome di Prince. Con due complici mi ha colpito con un macete. Sono stato ferito al braccio sinistro e al fianco. Mi hanno rotto le ossa. Se non avessi alzato la mano per difendermi mi avrebbero ucciso». Da un tentato omicidio, nei confronti di un giovane artista africano, più di due anni fa è iniziata l' indagine che ha portato gli investigatori della Squadra Mobile a smascherare una nuova organizzazione mafiosa nigeriana radicata a Torino: i Viking. Signori della droga e delle violenze. Governano le aree di spaccio di Aurora. Controllano la rete di pusher della zona del Lungo Dora Savona, tra via Bologna e ponte Mosca. Ma hanno ramificazioni a Ferrara, nel Veneto e in altre zone italiane. Ieri un' ondata di arresti e perquisizioni: 52 provvedimenti cautelari, di cui 33 eseguiti a Torino. In cella sono finiti i vertici e i gregari dei Viking, una delle mafie nigeriane più agguerrite nel panorama criminale internazionale. Una trentina i capi di imputazione, a partire dall’accusa di aver formato un'associazione di stampo mafioso con tutte le caratteristiche di quelle «nostrane»: struttura verticistica, regole di condotta, riti di affiliazione. È la seconda operazione condotta dalla polizia contro organizzazioni nigeriane a Torino. Nel 2019 erano stati colpiti i Maphite. Andando a ritroso nel passato, erano già incappati nelle maglie della giustizia altri gruppi criminali nigeriani: gli Eiye e i Black Axe. Tutti impegnati nel controllo del territorio, droga e prostituzione. Da qui un immenso flusso di denaro spedito in Africa. «I Viking sono violenti e sono senza cuore» si legge negli atti a firma del gip Edmondo Pio. Le mafie della Nigeria sono chiamate cult. «Ci sono diversi cult, ognuno distinto da un simbolo o un colore - ha raccontato una vittima dei Viking agli investigatori - Gli Aromate o Viking si vestono di rosso, i Black Axe indossano un basco nero e un nastrino giallo, gli Eiye si vestono di blu, i Maphite di verde. In Nigeria si scontrano continuamente, si uccidono fra loro per il dominio. I Viking prima erano meno importanti, ora sono più numerosi e molto violenti». Organizzazione piramidale, con un livello nazionale, che in Italia prende il nome di «Vatican Marine Patrol», e strutture locali, per lo più nel centro-nord, dette «Marine Patrol» o «Deck». Il ramo torinese prende il nome di «Valhalla Marine». Molte le intercettazioni telefoniche, contenute nell' inchiesta coordinata dal pm Enrico Arnaldi di Balme, che fanno riferimento a questa entità territoriale che domina in città. Al vertice c' è un capo operativo definito «Executional». Il boss che comanda il territorio. C' è un collegio di anziani. E poi altre figure, tutti con nomi inglesi. Ad esempio l'«Arkman», il vice capo operativo, l'«Emeretus», il consigliere esperto, lo «Strike chief», il responsabile delle attività di spaccio. L'«Executional» esercita il suo potere punitivo nei confronti degli affiliati con un machete, chiamato «Manga». Gli agenti della Mobile, sotto la direzione di Luigi Mitola, hanno arrestato i capi torinesi dei Viking in corso Giulio Cesare. In manette l' eminenza grigia del cult: Chukwudi Stanley Amanchukwu, detto Chuks, 46 anni, considerato il fondatore del «Deck Valhalla Marine». Stando all' indagine, nella sua abitazione, in corso Giulio 169, dopo un periodo di tensioni interne ai Viking, il 14 settembre 2019 si è tenuto il summit per decidere il futuro dell' organizzazione, e consegnare lo scettro operativo a Chuks Okafor, di 26 anni. Il boss emergente. In pochi mesi, tra il 2018 e il 2019, è passato a ricoprire il ruolo di «Arkman», «Executional», «Emeretus» e di nuovo «Executional» per volontà di Amanchukwu. In più conversazioni telefoniche Okafor ha rivendicato, con toni minacciosi, il suo ruolo di capo del cult torinese. Per il tentato omicidio del musicista è accusato un Emeretus, padrino di molti affiliati: Odino Osas, 25 anni, detto Prince.

Patrizia Floder Reitter per “la Verità” il 29 ottobre 2020. C'era anche un dj di musica afro beat, Emmanuel «Boogie» Okenwa, tra i capi di un gruppo criminale nigeriano che operava principalmente tra Torino e Ferrara e che ieri è stato smantellato. Una vasta operazione delle forze dell' ordine, che ha visto coinvolti oltre duecento operatori della polizia di Stato, sotto il coordinamento del Servizio centrale operativo della direzione centrale anticrimine, ha portato all' arresto nelle due città di 56 affiliati al Viking o Norsemen Kclub international, feroce associazione di stampo mafioso che si era imposta con il controllo dello spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, la rapina e l' estorsione. Altri nigeriani sono ancora ricercati. I provvedimenti restrittivi riguardano 69 persone ai vertici di un sodalizio che è parte di un più ampio gruppo, con riti tribali di affiliazione, radicato in Nigeria e diffuso in diversi Stati europei ed extraeuropei. Sul territorio italiano è suddiviso in cellule locali chiamate «deck» o Marine patrol (Mp), una delle quali gestiva la più grande rete di spaccio siciliana dal centro di accoglienza migranti di Mineo. Il programma criminoso del gruppo, equiparato per struttura e forza intimidatoria alle mafie tradizionali, «era quello di acquisire il controllo del territorio annientando violentemente o mettendo, comunque, in condizione di non nuocere, altre confraternite nigeriane concorrenziali, per acquisire il monopolio sulle attività criminose di interesse», scrive il gip di Ferrara, Gianluca Petragnani Gelosi. Le indagini, coordinate dalle direzioni distrettuali antimafia delle Procure di Ferrara e di Torino, hanno preso il via nel luglio del 2018, dopo il tentato omicidio di un giovane nigeriano appartenente alla confraternita degli Eiye, aggredito con un machete da sette connazionali che poi la polizia scoprirà appartenenti ai Viking. L' aggressione avviene in zona Gad a Ferrara «dove da anni si è insediata una comunità nigeriana molto numerosa e all' interno della quale operano diversi gruppi criminali», spiega Dario Virgili, dirigente della Squadra mobile di Ferrara da dove è partita l' indagine Signal. «I Viking erano i più forti, i più strutturati, hanno avuto il predominio sugli altri e ottenuto il controllo del narcotraffico, che era la loro principale attività». Si scopre che anche a Torino operano appartenenti alla stessa organizzazioni, partono le indagini e viene individuata la struttura piramidale della Viking «che si spaccia come associazione benefica ma in realtà ha ferree regole gerarchiche, riti di iniziazione e si impone con spietata violenza sulla comunità nigeriana», precisa Virgili. I vertici dell' organizzazione prendono ordini dal «chairman» italiano e dal «national», il capo assoluto in Nigeria. Hanno una ferrea suddivisione gerarchica e pretendono fedeltà assoluta da parte degli affiliati che se non obbediscono subiscono percosse, colpi di machete ma anche punizioni pecuniarie. Tra i capi c'era il cinquantenne Emmanuel «Boogie» Okenwa, di professione dj e che in un' intercettazione si definisce «il re di Ferrara». Aveva il controllo anche delle province di Padova, Treviso e Venezia e si occupava in particolar modo di risolvere le diatribe tra gli associati dei ranghi più bassi, inviando spedizioni punitive per riportarli all' obbedienza. Durante le riunioni, gli affiliati indossano baschi rossi e salutano il capo, il chairman, con la formula «salutamos», parlano in codice e hanno vincoli di segretezza. Okenwa ieri è sfuggito all' arresto. I Viking importavano eroina e cocaina dalla Francia e dall' Olanda, utilizzando soprattutto donne ovulatrici che si spostavano in auto o in treno. Gli investigatori sono riusciti a ricostruire almeno dieci viaggi che hanno fruttato circa 90 chilogrammi di sostanze stupefacenti per un valore di 5,4 milioni euro. Affari imponenti, controllati dalla mafia nigeriana che è stata in grado di imporre «una forte soggezione» ai connazionali, come ha dichiarato il gip Petragnani Gelosi, e «alla quale ha fatto da sponda, quanto meno, una certa omertà». A Torino l' associazione aveva il nome di Valhalla marine e reclutava le affiliate mediante rapporti sessuali di gruppo, costringendole poi a pagare somme di denaro in cambio di un' inesistente protezione. Solo una nigeriana, Osayande Aisha detta «One queen», di fatto occupava un ruolo nella gerarchia ed è per questo accusata di associazione mafiosa per l' incarico che aveva di controllare lo sfruttamento delle sue connazionali. A tutti gli affiliati della Norsemen Kclub international vengono contestati il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, i delitti di tentato omicidio e associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapina, estorsione e lesioni gravissime. Le attività investigative si sono sviluppate attraverso intercettazioni e pedinamenti sul territorio, consentendo di individuare i vertici nazionali dell' organizzazione, in costante e diretto contatto con i leader operanti in Nigeria.

·         La Mafia Pachistana.

Così la mafia pakistana sfrutta e uccide gli immigrati. Caporalato, estorsioni, prostituzione, sequestri. L’omicidio di un bracciante a Caltanissetta squarcia il velo su una cosca sconosciuta ma collegata a quelle italiane. Alan Schifo r Rosario Sardella il 09 settembre 2020 su L'Espresso. «Justice for Adnan»: con gli occhi pieni di lacrime e rabbia, decine di ragazzi pakistani chiedono che venga fatta luce sulla morte di un loro amico. Non lo gridano tra i palazzi di Islamabad ma in corso Umberto I, nel cuore di Caltanissetta, a pochi passi da via San Cataldo. Dove, tra le vecchie case malconce del centro storico, alcune occupate abusivamente, abitava Adnan Siddique, giovane pakistano ucciso a coltellate, lo scorso 3 giugno, per aver squarciato il velo su una nuova realtà criminale che ha il suo centro nella città nissena. Per il suo omicidio sono stati finora arrestati quattro pakistani (e altri due sono stati fermati per favoreggiamento). «Ma il resto dell’organizzazione è ancora a piede libero», ci spiega Alì, amico di Adnan, 35 anni, uno dei pochi nel gruppo che parla bene l’italiano: «Abbiamo un po’ di paura, ma siamo qui perché lo dobbiamo ad Adnan e alla sua famiglia. Vogliamo la verità su quanto sta succedendo ai migranti che lavorano nelle campagne tra Caltanissetta e Agrigento». “Caporalato”, si è detto dopo quel delitto, deciso dalla banda perché Adnan aveva accompagnato due suoi connazionali a denunciare il lato oscuro della comunità pakistana. Ma quell’omicidio rivela qualcosa di più: un’organizzazione criminale radicata, responsabile anche di molti altri reati, una sorta di mafia pakistana con un filo diretto con il Paese d’origine e le cui vittime sono il più delle volte altri pakistani, ma anche afghani e africani. Di questa organizzazione il caporalato è solo uno dei settori d’attività: «Chi arriva a Caltanissetta per trovare lavoro si rivolge a questi personaggi», spiega il colonnello dei carabinieri Baldo Daidone, in prima linea per scoprire cosa si nasconde dietro la morte di Adnan. «Si tratta di una intermediazione lavorativa diversa dal classico caporalato, su cui stavamo già lavorando e su cui continuiamo ad indagare». “Justice for Alì”, con gli occhi pieni di rabbia decine di ragazzi pakistani gridano che venga fatta giustizia per l’uccisione del loro connazionale, Adnan Siddique, avvenuta lo scorso 3 giugno. L’omicidio squarcia il buio di una vera e propria organizzazione criminale che ha il proprio centro a Caltanissetta e con un filo diretto con il Pakistan. Il caporalato è solo uno dei settori su cui i criminali hanno puntato gli occhi, poi ci sarebbe un presunto giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio. E i sequestri di persona. Come racconta Adu, picchiato e prelevato dalla sua abitazione a Sommatino, paesino della provincia di Caltanissetta, e portato a casa di italiani a Canicattì, in provincia di Agrigento. «Mi hanno picchiato con il bastone e volevano parlare con mio padre in Pakistan per chiedergli cinquemila euro. Mi ha aiutato Dio se sono ancora vivo, perché loro mi volevano ammazzare». Uno dei ragazzi che dopo il delitto continua a lavorare nei campi, non vuole dire il proprio nome ma mostra la chat Telegram in cui i “capi” cercano persone da sfruttare. Non c’è ancora il sole quando su automobili e pulmini, nel cuore della “Strata ’a Foglia”, decine di pakistani vengono prelevati e trasportati nelle campagne di Delia e Sommatino per la raccolta degli agrumi e della celebre “uva Italia” tipica di queste terre. «Anche il viaggio si paga», racconta il ragazzo, «dobbiamo dare 5 euro e alla fine non ci rimane quasi nulla». Gli sfruttati non solo pakistani, si diceva: gli ultimi a essere finiti nel gorgo, ad esempio, sono i somali. Roba facile, il procacciamento dei migranti, vista la presenza del centro di accoglienza appena più in là, in contrada Pian del Lago. Secondo Ignazio Giudice, segretario provinciale della Cgil di Caltanissetta, «esiste un caporalato variegato, fatto di contratti e buste paga finte, assenza di copertura infortunistica, evasione fiscale, criminalità organizzata che gestisce i braccianti. Bisognerebbe intervenire, fare i controlli nelle aziende agricole del territorio provinciale. Nelle campagne spesso si consumano reati non solo legati allo sfruttamento del lavoro, ma anche al procacciamento di documenti, di affitti delle case in nero dove vanno ad abitare i loro connazionali e altro ancora». E proprio questo aveva denunciato Adnan, per aiutare i suoi amici, come raccontano al bar dove lui andava ogni giorno e in cui oggi, nonostante la paura di ritorsioni, i proprietari ancora chiedono giustizia perché «Adnan era buono». In quella stradina, dove ogni giorno si tiene il mercato della frutta, con le insegne in doppia lingua, c’è la foto di Adnan, diventata un simbolo. Ma anche prima lui era un punto di riferimento per molti suoi connazionali, circa 1.300, oggi, nel territorio nisseno. Per capirne di più andiamo a parlare con Filippo Maritato, barba bianca e pipa in bocca, presidente della Casa delle Culture e del Volontariato, creata a Caltanissetta durante il periodo della grande immigrazione dei siriani. Tramite un finanziamento Maritato ha fatto ristrutturare un’ex scuola e ne ha fatto la sede della sua associazione, dove i volontari si riuniscono e provano a produrre «nuova linfa vitale per questa città che sembra assopita»: dall’assistenza sanitaria a quella carceraria per i circa 200 migranti detenuti al Malaspina, fino al banco alimentare, nello sforzo di creare le condizioni per una vera accoglienza fatta di integrazione e legalità. Dopo l’omicidio di Adnan Siddique, Maritato ha riunito i pakistani e con loro ha cercato di capire cosa si nascondesse dietro quell’agguato - e quanto il fenomeno del caporalato sia in mano a questa banda di criminali. «Così abbiamo scoperto che da almeno due anni Adnan era stato minacciato», ci spiega. «E non era il caporalato la sola attività di questo gruppo di pakistani. C’era stato, ad esempio, anche il tentativo di avvicinare delle ragazze dominicane per costringerle alla prostituzione. E dell’altro ancora». “L’altro ancora” è un giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio, perlopiù giovani, nello storico mercato “Strata ’a foglia” di Caltanissetta. E se i ragazzi delle bancarelle non versano il pizzo o si ribellano, vengono picchiati e minacciati direttamente i loro parenti in Pakistan. La squadra mobile della questura di Caltanissetta, subito dopo l’omicidio di Adnan, ha intercettato il telefoni di Bilal Muhammed (uno degli arrestati) a colloquio con un certo Chery, diminutivo di Sharyeal: «Fammi sapere quanti nomi mettono nella denuncia», chiede Bilal al suo interlocutore, e poi aggiunge: «Fratello, digli a Dani Rana di non fare il testimone perché altrimenti non diamo pace alla sua famiglia (in Pakistan, ndr) e gliela mettiamo nel culo. Abbiamo fatto sapere a Rana che abbiamo minacciato la sua famiglia». Un sistema di ricatti e intimidazioni che costringeva al silenzio i pakistani, come racconta uno di loro all’Espresso: «Questa banda era nota, qui in zona, però nessuno aveva il coraggio di denunciarli. A me dovevano pagare una giornata di lavoro ma quando ho chiesto i soldi, Bilal mi ha detto di non lamentarmi, sennò finivo nei guai». Adesso a Caltanissetta Alì e i suoi amici pakistani hanno dato vita a un comitato permanente, portando alla luce nuovi elementi: ad esempio, hanno trovato una specie di libro mastro in cui la banda segnava le giornate lavorative e alcuni nomi dei caporali e dei padroni italiani. Una volta al mese i ragazzi del comitato si incontrano con Filippo Maritato e i volontari italiani. Sono loro che hanno rinvenuto a casa di Adnan la copia originale dell’ultima denuncia. Due giorni prima di essere ammazzato, Adnan aveva accompagnato un suo connazionale a denunciare quello che gli era successo, cioè un rapimento: era stato prelevato con forza dalla banda nella sua abitazione di Caltanissetta e portato in macchina a Canicattì, in una casa di italiani. «Mi hanno obbligato a chiamare mio fratello in Pakistan per dirgli di pagare tremila euro. Quando lui ha pagato (con un money transfer), mi hanno lasciato andare, minacciandomi di uccidermi se avessi denunciato l’accaduto», si legge nella denuncia dell’amico di Adnan. Un altro sequestro porta invece a Sommatino, nell’entroterra nisseno. Un rapimento con la richiesta di un riscatto di cinquemila euro, dietro la minaccia di uccidere il padre della vittima, in Pakistan. Il ragazzo era stato portato anche lui sempre in quella stessa casa di italiani a Canicattì. Sì, perché la mafia pakistana lavora per conto di italiani, ci racconta anche Adu (nome di fantasia per tutelare l’identità della nostra fonte), il quale a sua volta dice di essere stato picchiato selvaggiamente da 12 pakistani che erano arrivati in tutta calma a casa sua, attraversando l’intero paesino. Gli chiedevano dei soldi, di quelli che guadagnava come bracciante. Uno dei pakistani che lo hanno picchiato, un mese dopo sarà arrestato nella vicenda Adnan. «Perché nessuno ha fatto dei controlli dopo la mia denuncia? Ora hanno arrestato sei di loro, ma tutti gli altri sono ancora fuori. Io e gli altri abbiamo paura», dice. Ma l’anello mancante è rappresentato proprio dagli italiani: piccoli e grandi proprietari terrieri delle aziende locali a cui fa comodo la manodopera a basso costo. Ora le indagini dovranno scoprire per chi lavora la mala pakistana, chi c’è in quel “secondo livello” sopra i kapò che sfruttano, minacciano, picchiano e rapiscono i loro connazionali.

·         La Mafia jihadista. Gli affari dei califfati.

Sofia Dinolfo Mauro Indelicato per ilgiornale.it il 3 luglio 2020. Quando si parla di immigrazione, automaticamente spesso si pensa alle immagini di vecchi barconi in difficoltà lungo il Mediterraneo, così come a gommoni trascinati a fatica verso la costa con a bordo decine di persone. Nella stragrande maggioranza dei casi in cui si parla di partenze dal nord Africa del resto, si ha a che fare con mezzi di fortuna oppure poco adeguati all’attraversamento del Mediterraneo. Non sempre tuttavia è così: a volte, soprattutto nel trapanese e nell’agrigentino, è possibile riscontrare degli sbarchi attuati con modalità del tutto differenti, a volte anche con motoscafi di una certa cilindrata.

Quei viaggi solo per “pochi”. È un fenomeno in crescendo quello degli arrivi nel sud Italia attraverso mezzi di “lusso” e riservato solamente ai migranti “benestanti”. Non barchini o barconi, non gommoni ma potenti mezzi che consentono di affrontare lunghe traversate in condizioni di sicurezza. Si tratta di motoscafi , in ottimo stato, con posti riservati a non più di una decina di persone che possono usufruire non solo di un viaggio sicuro ma anche molto più veloce rispetto a quello garantito dalle altre imbarcazioni. Ma non solo, mezzi di questo genere consentono di attraversare il mar Mediterraneo in sordina eludendo spesso i controlli da parte delle autorità. Chi vi viaggia? Come detto prima si tratta di persone che hanno a disposizione del denaro e quindi possono permettersi traversate di questa portata. A dare conferma delle loro disponibilità economiche è anche il loro abbigliamento. Le persone che scendono dai motoscafi sono spesso curate e i loro indumenti sono contraddistinti da note griffe. Gli zaini al seguito contengono cambi la cui qualità non è da meno.

La “costosa” rotta tunisina. I viaggi di questo genere hanno sempre inizio dal nord della Tunisia e, precisamente, da Biserta. Qui, da un punto di vista logistico la rotta più vicina è quella che consente di arrivare direttamente nelle coste del trapanese e dell’agrigentino. Chi vi approda ha a propria disposizione una possibilità non indifferente, ovvero riuscire ad eludere i controlli subito dopo lo sbarco per raggiungere la strada e da lì i mezzi pubblici. La tipologia del “servizio” offerto dalle organizzazioni criminali spiega così il perché di costi eccessivi, alcune migliaia di euro, e il perché sono solo in pochi a potersi permettere viaggi di questo genere. Tutto al contrario quello che accade a sud della Tunisia: a Sfax. Qui, la rotta seguita è quella che, per motivi logistici, consente di arrivare con maggiore velocità a Lampedusa. Chi arriva nell’isola maggiore delle Pelagie non passa però inosservato. Qui si mette in moto sin da subito la macchina dei controlli e delle verifiche da parte delle Forze dell’ordine ai migranti. Finite le procedure di identificazione, i nuovi arrivati vengono trasferiti nei centri di accoglienza a disposizione.

Un fenomeno non nuovo. Lo sbarco avvenuto ad Agrigento mercoledì ha portato alla ribalta gli “sbarchi di lusso”, accendendo nuovamente i riflettori su questa tipologia di approdi lungo le nostre coste. Tuttavia, quello dell’arrivo di imbarcazioni costose con a bordo migranti ben vestiti non è un qualcosa riscontrabile soltanto in questo primo scorcio d’estate. Si badi bene: approdi del genere sono considerati atipici, perché rari e perché la stragrande maggioranza dei migranti viene fatta viaggiare dai trafficanti di esseri umani a bordo di gommoni e barconi malandati. Però di sbarchi avvenuti con mezzi più importanti e costosi se ne possono annotare diversi nel corso degli ultimi anni. Ne sanno qualcosa nel trapanese: è qui che generalmente è possibile verificare l’arrivo di migranti tramite motoscafi molto veloci oppure anche veri e propri yatch. A portare a galla il fenomeno sono state diverse operazioni delle forze dell’ordine compiute soprattutto dal 2017 in poi. In provincia di Trapani, così come nella parte occidentale di quella di Agrigento, sono state scoperte diverse organizzazioni criminali dedite a portare dalla Tunisia alla Sicilia diversi migranti tramite imbarcazioni di lusso. Una svolta nello studio di questo particolare tipo di fenomeno, si è avuta nel gennaio del 2019: in questo mese infatti, ben due operazioni hanno portato a galla una realtà criminale nel trapanese dove la principale fonte di guadagno era proprio quella dell’organizzazione di viaggi di lusso lungo la rotta tunisina. La prima, in particolare, è scattata il 9 gennaio 2019 ed è stata denominata “Abiad”: 15 persone sono state arrestate, una di queste mostrava anche simpatie jihadiste. L’organizzazione aveva basi soprattutto in provincia di Trapani. Pochi giorni dopo e sempre nel trapanese gli inquirenti hanno fatto scattare il blitz “Barbanera”, dal soprannome del principale indiziato delle indagini, ossia il tunisino Moncer Fadhel. Anche in questo caso, è stato accertato che il gruppo criminale riusciva a far arrivare tra Marsala e Mazara del Vallo diversi gruppi di migranti tramite imbarcazioni diverse dai soliti barchini.

Chi c’è dietro gli sbarchi di lusso. A volte, come nel caso del sopra citato episodio di Agrigento, approdi del genere appaiono “spontanei”: con un motoscafo rubato in Tunisia, gruppi di dieci persone dopo 10 o 12 ore di navigazione possono giungere in Sicilia senza incappare in controlli particolari lungo la rotta. Quando ad arrivare sono gruppi di modeste dimensioni allora è possibile pensare a piccole organizzazioni locali non ben strutturate che agevolano le partenze. Ma, come del resto riscontrato nelle operazioni sopra citate, spesso non è così: la mano delle organizzazioni in grado di cementificare sodalizi criminali su entrambe le sponde del Mediterraneo è ben evidente negli sbarchi di lusso. Chi può permettersi di organizzare viaggi del genere, ha dietro gruppi ben articolati ed in grado di gestire logisticamente e finanziariamente la tratta. Tanto è vero che i trafficanti di esseri umani che operano con imbarcazioni di lusso, gestiscono anche altri tipi di business illegali: dal contrabbando di sigarette a quello delle sostanze stupefacenti, che spesso viaggiano dentro le barche assieme ai migranti. E c’è poi un altro aspetto, non meno significativo, costituito dall’ombra dell’estremismo islamico. L’operazione Abiad ha svelato le trame di un gruppo criminale retto da persone con simpatie per le ideologie jihadiste. Nei giorni scorsi contro il trafficante Barbanera è scattato un sequestro di beni da 1.5 milioni di Euro: nel provvedimento emesso dagli inquirenti, si fanno riferimenti anche ad intercettazioni in cui Barbanera ed altri complici parlano di attentati contro caserme ed altri obiettivi sensibili. Dunque, dietro i viaggi di lusso si nascondono gli interessi di sodalizi ben collaudati e ramificati, in Tunisia come in Italia, operanti tra Trapani ed Agrigento ed in cui non è da escludere lo spettro del terrorismo.

Domenico Quirico per ''la Stampa'' il 2 luglio 2020. Gli affari dei jihadisti, il variegato business criminale dei Califfati, ovvero petrolio, reperti archeologici e droga, hanno codici, parole d'ordine, territori segreti, manovali e manager. Formicolano di viluppi misteriosi con le delinquenze più domestiche, le mafie italiane e quelle russe e cinesi, a disegnare una globalizzazione riuscitissima, una originale Cosa Nostra di crimine e fanatismo. Leggende, misteri e fatti li agitano, gonfiano, fanno vivere. Dove spesso bisogna guardare le cose a rovescio per vederle dritte. Di certo gli affari continuano anche ora che gli eredi di Abu Bakr sono passati allo stato gassoso della guerriglia e alla efficace delocalizzazione in caparbie periferie. Mentre l'Occidente ha l'oblio facile. Dice un proverbio siriano: le tracce indicano il cammino. Ecco una traccia: al porto di Salerno. La Guardia di finanza sequestra quattordici tonnellate di anfetamine, 84 milioni di pasticche che portano un logo evocativo, Captagon. Il più grande sequestro di queste sostanze a livello mondiale. La droga era nascosta in cilindri di carta di uso industriale, ingegnosa botola a più strati che doveva sfuggire anche al controllo degli scanner, distribuita a 350 chili per cilindro. Se il peso non basta a stupire, ci pensano altre fantasmagoriche cifre: il miliardo di euro che avrebbe reso lo smercio.

Italia tappa dei traffici. In Campania, via Gioia Tauro, arrivavano anche le fila del traffico di reperti archeologici trafugati dai jihadisti in Siria e Libia. La mafia cinese faceva da corriere con le sue navi, la' ndrangheta provvedeva allo spaccio sul mercato clandestino dell'arte. Coincidenze. Rimandi. Intriganti e significativi. Cambiano le merci. Le vie e i soci sono gli stessi. Mafia di Dio e mafie più terrene continuano a collaborare, innescate da appetiti senza fondo. Captagon: ecco pronunciato il logo losco. Ci hanno appiccicato l'eco degli anni del massacro siriano e del fanatismo planetario. Questa droga è un vintage che torna dopo molte metamorfosi, anche chimiche. È ascesa dalla spicciola cronaca nera alla geopolitica. Perché ormai per definizione è «la droga della guerra siriana», «le pasticche dell'Isis», oppure «la droga dei terroristi».

Il mix in pastiglie. Negli anni Sessanta questa droga la deglutivano intellettuali alla moda sulla Rive Gauche per dare slancio a libri memorabili, gli studenti bisognosi di faticosi ripassi notturni, ciclisti, pugili e integralisti del body building. Un rimedio universale: eccita, fornisce energia, concentrazione, potenza. Malizie raccontano che non la lesinavano negli spogliatoi del Marsiglia, spiegherebbe persino una coppa dei campioni. Sparì dalle farmacie negli anni Novanta. Per ricomparire nell'arsenale guerresco degli islamisti. Rafforzerebbe lo slancio guerresco, la resistenza alla fatica, la smania di farsi bombe umane. L'arma segreta che trasformerebbe in belve affiochiti guerrieri da caffè. Distinguere il vero dal mito è diventato difficile. Spiegare l'efficienza micidiale dei jihadisti con il ricorso alla droga sarebbe come attribuire le vittorie iniziali delle armate di Hitler alle droghe che venivano distribuite tra i suoi solerti combattenti. Il grande consumatore di Captagon è certo il mondo arabo: Arabia saudita e paesi del golfo soprattutto. Qui la droga è ufficialmente una bestemmia contro dio, chi la smercia va al patibolo, ma evidentemente il vizio si è scavato una confortevole tana tra i buoni credenti. I clienti non sono certo i combattenti di dio. Le scorte del principe Nel 2015 all'aeroporto Hariri di Beirut grande agitazione per l'arrivo di un vip, un giovane elegantemente avvolto nella "dichdacha" immacolata. È un principe della famiglia reale saudita dal nome lunghissimo come i conti in banca, Abdel Mohsen Ibn Walid Ibn Abdelalziz. È venuto per svagarsi a Beirut, antica e ribalda villeggiatura di quei dinasti. Riparte tra salamelecchi e mance, i suoi famigli sfilano affardellati da otto elegantissime valigie e 32 enormi cartoni con il simbolo saudita, palmizi e scimitarre incrociate. Come dire, roba sacra, non si tocca. Solo che stavolta i finanzieri libanesi invece di inchinarsi all'ospite, vogliono aprire, ispezionare, frugare. Sconcerto, indignazione, minacce di incidente diplomatico. Affondano le mani in due tonnellate di pillole Captagon, dieci milioni di dollari di anfetamine. Il principe dice di non sapere nulla, accusa, è una vecchia abitudine dunque, due collaboratori. Diventa "il principe Captagon". Nessuno ha mai scoperto a chi fossero destinati i quintali di droga, eccessivi per uso personale: alle mille e una notte degli innumerevoli principi sauditi o ai giorni grami e pericolosi dei jihadisti siriani di cui l'Arabia saudita è il grande padrino? Si mormora che la improvvisa curiosità dei doganieri fu una vendetta di Hezbollah, il partito di dio libanese contro i sauditi, grandi avversari del loro alleato Bashar Assad e dell'Iran sciita.

La produzione europea. Ai tempi bolscevichi del Patto di Varsavia il Captagon lo producevano i bulgari, in un laboratorio di stato, il Pahrmachim. Smerciandolo via Turchia, fatturavano valuta pregiata. Gli alleati del regime siriano avevano parte nel traffico. Smontati i Muri, le mafie rilevano l'attività, c'è un mercato dei chimici più bravi, ci si batte eliminando la concorrenza con il kalashnikov. In Europa, però, la fenetillina passa di moda: con eroina e ecstasy persino i bulgari non la vogliono più. Ma questa droga dei poveri può valere ancora oro. Giudiziosamente si delocalizza la produzione vicino ai luoghi arabi di maggior consumo, Libano e Siria. I chimici si trasferiscono, semplici macchinari prodotti in Cina e in India lavorano a pieno regime. Nelle benedette terre wahabite la pillola è popolarissima, la chiamano "al Captagon", ha perfino fama di esser più efficace del viagra. Altro che jihad!

Il business. La guerra civile siriana, con il suo caos, è una occasione imprenditoriale. I laboratori controllati ora dalle milizie islamiche esportano per milioni di dollari e forniscono denaro per le munizioni. Si lavora anche nella piana della Bekaa alla frontiera tra Siria e Libano, la Silicon Valley della droga di Hezbollah. Sono i curdi a legare, probabilmente con troppa enfasi, le anfetamine al Califfato: a Kobane, raccontano, i combattenti morti avevano le tasche piene di pillole, i miliziani catturati farfugliavano, con gli occhi sbarrati, in preda alla droga con cui avevano cercato coraggio per l'assalto. Purtroppo non è il Captagon ad ammantellare il furore sanguinario, le fregole e i parossismi militari del jihad. Come forse dimostrerà il sequestro di Salerno, continua semplicemente a riempirne i forzieri. 

·         La Mafia Italo-Canadese.

Canada, una guerra di mafia lunga 5 anni. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 18 Luglio 2020. Trenta morti negli ultimi cinque anni nella regione dei grandi laghi, Ontario, e da Montreal a Toronto. Secondo le relazioni ufficiali delle Giubbe Rosse. Parallelamente, un rapporto ufficioso aumenterebbe di molto i morti ammazzati, e nei sussurri della malavita il fiume degli uccisi avrebbe un corso più lungo, ampio. Formalmente c’è, in Canada, un’unica grande famiglia di mafia: un ibrido nato come filiazione di cosa nostra statunitense ma formato soprattutto da criminali della provincia di Reggio Calabria, i cui vertici nel tempo di un secolo sono passati a essere tutti calabresi così come il rito di affiliazione. La mafia canadese è oramai considerata solo ‘ndrangheta, una sola famiglia con tante locali in cui non dovrebbero esserci contrasti, e ufficialmente nessuno li ammette, nessuno si intesta i morti se non quelli accusati di aver attentato alla vita di altri affiliati. Ma tranne pochi omicidi, sui più resta un mistero l’origine. Chi uccide chi, e perché, se siamo tutti figli della stessa madre? L’ultimo a chiederselo sta disteso sul prato di un parcheggio di Burlington, a due passi da Hamilton: Pasquale “Fat Pat” Musitano è sceso tranquillo dal suo suv blindato, con lui i suoi uomini fidati, Pino Avignone e John Clary. Era un omone di 200 chili, già sopravvissuto a due agguati, non si fidava di nessuno, eppure un killer solitario lo ha fregato. Veniva dall’Aspromonte il suo sangue sparso a terra, come quello di Pino Avignone che è in terapia intensiva. Forse adesso è nel posto giusto per capire la verità, ha raggiunto suo fratello Angelo, ammazzato anche lui tre anni fa, quasi dentro casa, da qualcuno che non sembrava essere un nemico. Migliaia e migliaia di chilometri di distanza e la tragedia aspromontana ha seguito i suoi bad boys: l’arte dell’inganno, di attribuire colpe a chi non le ha davvero, di portare gli altri ad ammazzarsi fra di loro ritenendosi gli uni vittime degli agguati degli altri, e trionfare infine sulla stupidità di tutti. Decenni di omicidi fra gli irlandesi, i latinos, la mafia ebrea, le gang di motociclisti, tutti subordinati e clienti della grande famiglia di ‘ndrangheta. Guerre, chiarimenti e tregue, e nessuno sa chi davvero ri-innesca ogni volta la mattanza. I Musitano come ndrina non esistono più, cancellati dalla trama, loro che avevano cancellato la ‘ndrina dei Papalia, spinti dalla stessa trama. I mafiosi in Canada si ammazzano fra di loro, e nessuno lo sa davvero il perché, ogni volta che pensano di aver individuato il nemico, dopo, comprendono di essere caduti nell’ennesimo tranello. È la strategia del cuculo, figlia della grecìa aspromontana nata prima della grecìa greca. È il canto del cuculo, nato molto prima del canto del capro, la tragudia. Fat Pat Avignone e i tanti malavitosi che lo hanno preceduto sono stati sbalzati fuori dal loro nido da un uccello rapace nato da un uovo straniero che qualcuno gli ha messo dentro. Solo alla fine della mattanza si chiarirà il mistero.

·         La Mafia Colombiana.

Da "leggo.it" il 25 settembre 2020. Un nipote del signore della droga colombiano Pablo Escobar sostiene di aver trovato 18 milioni di dollari in contanti nascosti all'interno di un muro di una delle case dello zio. Nicolas Escobar ha affermato che una "visione" gli ha detto esattamente dove cercare i soldi all'interno dell'appartamento di Medellin in cui ora vive. Il signor Escobar ha detto ai media colombiani che non si è trattato della prima volta che trovava denaro nei nascondigli di suo zio, che usava nascondere le banconote per evitare l'arresto. Ha detto di aver scoperto anche una penna d'oro, telefoni satellitari, una macchina da scrivere e un rullino non sviluppato. «Ogni volta che mi sedevo nella sala da pranzo e guardavo verso il parcheggio, vedevo un uomo entrare e scomparire», ha detto il signor Escobar alla stazione televisiva colombiana "Red + Noticias». «L'odore era sorprendente. Un odore 100 volte peggiore di un uomo morto». L'uomo, che vive in quell'appartamento da cinque anni, dice che alcune banconote sono danneggiate e inutilizzabili e ha raccontato di come accompagnava lo zio in viaggio ed è stato persino rapito e torturato da uomini che lo cercavano. Escobar ha trascorso decenni a combattere il governo colombiano per evitare l'estradizione negli Stati Uniti prima di rimanere ucciso in una sparatoria con la polizia nel 1993. Il narcoterrorista formò il suo cartello a Medellin alla fine degli anni '70 e nel 1980 contrabbandò l'80% della cocaina venduta negli Stati Uniti. Escobar, soprannominato il "Re della cocaina", è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo e con la sua attività ha incassato circa 420 milioni di dollari a settimana.

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 23 luglio 2020.  (…)  Phillip Witcomb, alias Roberto Sendoya Escobar, (è) nientemeno che il primogenito segreto di uno dei re del narcotraffico, il colombiano Pablo Escobar, ma anche figlio adottivo di colui che ha chiamato sempre "Dad", papà, e cioè Patrick Witcomb, inglese spilungone di Hull ed ex pilota, che nel 1959 insieme alla moglie Joan viene mandato dal Foreign office nella colombiana Bogotà. Qui, Witcomb lavora ufficialmente nella stamperia di denaro De La Rue, mentre, sotto copertura, collabora con servizi occidentali e forze speciali colombiane per stanare i cartelli della droga. Tutto inizia nel 1965, come ora racconta lo stesso figlio segreto del narcotrafficante nella biografia "Son of Escobar, First Born", pubblicata in Inghilterra e serializzata dal tabloid "Sun". Witcomb guida una spedizione punitiva con le forze speciali colombiane a caccia di una gang che giorni prima in un raid aveva rubato alla "De La Rue" una grande quantità di denaro. È un massacro. L'agente inglese entra nel casolare di campagna alla ricerca di sopravvissuti, quando una ragazzina urla da un bagno di sangue "mi hjio!", "mio figlio!". È Roberto, un bambino di pochi mesi, fortunatamente illeso in un angolo della stanza. La madre, Maria Sendoya, 14 anni, muore poco dopo. Suo padre biologico, il 16enne Pablo Escobar, un delinquente (ancora) di bassa lega, ha mollato entrambi quando lei è rimasta incinta. Witcomb si intenerisce, prende il bambino con sé e lo adotta col nome di Philip. «(…) mi ha svelato tutta la storia solo nel 1989, per mettermi in guarda perché l'altro mio padre Escobar era in declino e quindi si abbandonava ad azioni sempre più efferate». Fino a quando, il 2 dicembre 1993, il giorno dopo il suo 44esimo compleanno, la polizia colombiana fredda Escobar su un tetto alla periferia di Medellin. Nel libro Philip/Roberto racconta di quando, alla vigilia di Natale del 1969, incontra per la prima volta in un hotel di Medellin quello che solo molti anni dopo saprà essere il suo padre naturale, d'accordo con Witcomb senior che sorveglia la scena insieme ai suoi, perché teme che Escobar possa portarselo via. Difatti negli anni successivi proverà per due volte a rapirlo, ma senza successo. (…)

GUIDO OLIMPIO per il Corriere della Sera il 19 giugno 2020. Charlie il pazzo è tornato a casa, anche se in Germania non ha mai vissuto. Ma questo ha riservato il destino a Carlos Lehder, uno tra i più famosi esponenti del narco-traffico: rilasciato da una prigione Usa si è trasferito nel Paese d'origine del padre. Molto lontano dalla Colombia e dalle scorrerie che lo hanno reso noto. Scaltro, intelligente, ma anche «folle», Lehder è stato il protagonista della stagione dei Cocaine Cowboys. Dopo aver imparato molti trucchi dal suo compagno di cella, George Jung, è entrato nel grande giro estendendo la rete del contrabbando. Ha spedito tonnellate di droga verso gli Stati Uniti, ha agito al fianco del re, Pablo Escobar, e poi è stato probabilmente tradito da quest' ultimo. Carlos è stato un innovatore: ha acquistato una piccola isola alle Bahamas - Norman's Cay - ad appena 340 chilometri dalla Florida e l'ha trasformata in un punto d'appoggio per i suoi aerei. Velivoli carichi di mattonelle di polvere bianca, l'oro del cartello di Medellin. Una tattica usata dal signore dei cieli, il messicano Amado Carrillo Fuentes, e ancora oggi impiegata dalle organizzazioni clandestine. Figlio di un ingegnere tedesco emigrato in Sudamerica e di una colombiana, Lehder ha attirato l'attenzione per il suo genio criminale, le feste sfrenate, gli amori passionali, l'ammirazione per Hitler, l'odio per gli ebrei, il fascino verso John Lennon, il debole per la Coca Cola, per lui «la sola cosa buona dell'imperialismo». Aneddoti veri o falsi a far da corona ad una vita oltre ogni limite all'interno di un mondo dove contano furbizia, crudeltà, determinazione e pistole. Come altri gangster ha costruito la narrazione difensiva: la droga - ha detto - serve per togliere denaro ai ricchi e distruggere la società decadente negli Stati Uniti. Un'interpretazione «rivoluzionaria» dell'illegalità, un modo per coprire gesti sanguinari. I «colombiani», quei colombiani cattivi, hanno messo in piedi un impero immenso, difeso da sicari e uomini collusi, tra belle donne, strisce di coca, residenze lussuose, arredate con stravaganze, zoo personale incluso. Un regno allora raccontato dai media e oggi rappresentato dalle serie tv, inesauribili perché alimentate da un archivio di cronaca nera gigantesco. Crazy Charlie ne è stato l'interprete massimo, fino alla sua cattura nel 1987, epilogo favorito dai contrasti con Escobar che ha sempre negato di aver venduto l'ex partner. Estradato in America, è condannato all'ergastolo, la pena sarà in seguito ridotta a 55 anni grazie alla sua testimonianza contro il generale panamense Manuel Noriega, altro personaggio finito in mille storie, tra agenti segreti, strategie e malavita. Lehder, 70 anni, non ha alcuna intenzione di rientrare in Colombia. Secondo la figlia è malato di cancro e seguirà un ciclo di cure in un ospedale tedesco. Un ultimo capitolo ben diverso da quello di Escobar, caduto in un conflitto a fuoco con la polizia nel 1993. La battaglia finale per evitare l'estradizione negli Usa, la soluzione più temuta dai padrini. Purtroppo hanno fatto scuola, hanno indicato una strada ad altri «pazzi», dal Messico al Brasile.

Da it.businessinsider.com il 24 giugno 2020. Carlos Lehder, ex boss del cartello di Medellin e partner di Pablo Escobar, che è stato compagno di cella di George Jung e fan di John Lennon e Adolf Hitler, è stato rilasciato lunedì da un carcere Usa ed è volato verso la sua nuova casa in Germania. L’avvocato di Lehder, Oscar Arroyave, ha detto ad Associated Press che il settantenne è partito per Berlino in seguito al suo rilascio da un carcere della Florida, dove era detenuto all’interno del programma di protezione testimoni. Lehder è diventato famoso negli anni Settanta e Ottanta come leader del cartello di Medellin insieme a Pablo Escobar. Il suo comportamento imprevedibile e la sua sagacia lo distinguevano in una generazione di esponenti del cartello noti per brutalità e slealtà. Mike Vigil, ex direttore delle operazioni internazionali presso la US Drug Enforcement Administration, ha interrogato Lehder in un carcere Usa appena dopo il suo arresto del 1987 e ha detto che la sua intelligenza era subito evidente. “Non si trattava di un comune trafficante”, ha detto Vigil mercoledì. “Cercava sempre di ottenere qualcosa… [ed era] probabilmente uno dei più astuti trafficanti di droga che abbia mai incontrato”.

Un grilletto facile. Nato nel 1949 da padre tedesco e madre colombiana, Lehder si trasferì negli Usa a quindici anni. Coinvolto nella piccola delinquenza di New York, fu arrestato per furto di macchina, che lo ha portato in un carcere federale Connecticut dove è stato compagno di cella di George Jung, contrabbandiere e oggetto del film “Blow”. Jung e Lehder uscirono di prigione alla fine degli anni Settanta e iniziarono a lavorare insieme. Lehder, vicino ai capi in Medellin, cercava una stazione di passaggio nei Caraibi per le operazioni di contrabbando aereo che aveva allestito insieme a Jung per muovere la cocaina dalla Colombia verso gli Stati Uniti sud-orientali. Si stabilirono a Norman’s Cay nelle Bahamas, a 320 chilometri circa a sud-est di Miami. “Lehder incarna l’ambizione e l’ingenuità del traffico di cocaina”, ha detto Toby Muse, autore di “Kilo: Inside the Cocaine Cartels”, che documenta i suoi decenni come giornalista in Colombia. “Questo tizio prende un’isola — un’isola intera nei Caraibi — per renderla un punto di assaggio per portare [la cocaina] negli Stati Uniti”, ha detto mercoledì Muse. Ma su Norman’s Cay l’instabilità di Lehder, alimentata dalla cocaina, prese il sopravvento. Alla fine costrinse Jung a uscire dalla loro collaborazione. Come Jung ha poi raccontato ad High Times nel 2015, “Walter Cronkite (il giornalista, ndt) si presentò lì, e i suoi scagnozzi arrivarono con i mitra a dirgli, "Te ne devi andare". ed è scoppiato un pandemonio”. Anche all’interno di una generazione di trafficanti davvero violenti, Lehder era rinomato per la sua imprevedibilità. “Gli aneddoti sul suo grilletto facile si sprecano”, ha detto Muse. L’attività su Norman’s Cay attirò l’attenzione degli Usa, culminando in un raid della DEA nel 1980. Lehder si trasferì in Colombia, costruendo una tenuta e distribuendo denaro in tutto il distretto di Armenia, nella Colombia centro-occidentale, in cui era nato. Eresse una statua a John Lennon sul prato davanti a casa e regalò al governo dello stato un aeroplano. Come Escobar, anche Lehder ebbe un risveglio politico nei primi anni Ottanta. Lehder condivideva il disprezzo di Escobar per l’accordo di estradizione tra Colombia e Usa. Ma Lehder aveva altre, e più reazionari, opinioni. Il suo partito politico, chiamato Movimiento Cívico Latino Nacional, aveva un “programma fascista-populista [che] invocava cambiamenti radicali nel panorama politico colombiano”. Traspariva anche la sua ammirazione per Hitler, che Lehder citava spesso e di cui pare abbia tappezzato una casa con foto e cimeli. Lehder professava anche il proprio anti-imperialismo, criticando le azioni statunitensi in America Latina. “Diceva che il traffico di cocaina era una professione rivoluzionaria in quanto lui stava abbattendo l’impero americano rendendo gli statunitensi dipendenti dalle droghe”, ha detto Muse. “In quella generazione spicca come un vero e proprio personaggio”.

Una tranquilla libertà. Lehder era un innovatore in fatto di vie della droga e metodi di trasporto, ha detto Vigil. “Sarà probabilmente ricordato come uno dei capi più intellettuali del narcotraffico colombiano, perché era senza dubbio più astuto di Pablo Escobar, che si distingueva solo per la violenza grezza”, ha aggiunto Vigil. “Del cartello di Medellin, era senz’altro il più intelligente”. Nonostante ciò, Escobar iniziò a considerare Lehder più come un ostacolo che come una risorsa. Escobar consegnò Lehder al governo colombiano, ha detto Vigil a Insider nel 2017 — anche se Escobar, prima della sua morte misteriosa avvenuta nel 1993, lo ha negato — e Lehder fu catturato in un ranch la mattina del 4 febbraio 1987. Undici ore dopo, era diretto a Miami, prima vittima dell’accordo di estradizione cui si era opposto. Condannato all’ergastolo senza condizionale e a 135 anni di carcere nel 1988, ridotti poi a 55 in seguito alla sua testimonianza contro il dittatore panamense Manuel Noriega, che aveva appoggiato il cartello di Medellin mentre era al potere. In seguito, gli spostamenti di Lehder all’interno del sistema carcerario rimangono sconosciuti, alimentando varie dicerie in Colombia. “Anche la sua famiglia ha subito il colpo. La figlia si rivolgeva continuamente alla stampa rilasciando interviste dicendo, ‘Per piacere smettetela di provare a estorcerci denaro. Siamo senza soldi’”, ha detto Muse, sottolineando come colpire le famiglie dei capi di alto profilo deposti era diventata una specie di abitudine tra i criminali colombiani. Gli esponenti del cartello dell’epoca di Escobar avevano buona memoria, e gli omicidi per rappresaglia di tirapiedi ed altri rivali sono continuati per anni, ma, dopo tre decenni nelle carceri statunitensi, Lehder potrebbe evitare questo destino, ha detto Muse. “Penso sia uno dei pochi di quella generazione effettivamente sopravvissuto”, ha detto Muse. “È abbastanza ironico che il più imprevedibile di tutti ce l’abbia fatta e che morirà probabilmente di vecchiaia”. Mercoledì, la figlia di Lehder ha detto alla colombiana Caracol Radio di non aver parlato con il padre dalla liberazione ma che era felice di essere uscito di prigione e che stava “pianificando una tranquilla libertà”. Arroyave, l’avvocato di Lehder, ha detto ad Associated Press che Lehder, che ha la cittadinanza tedesca dal padre, non è interessato a tornare il Colombia. Ma Vigil, sottolineando la redditività del traffico europeo di stupefacenti, è scettico circa un ritiro dalle scene di Lehder. “L’unica cosa che Carlos Lehder sa fare è trafficare droga”, ha detto Vigil. “Non sarei sorpreso se aprisse nuovi mercati, proprio come ha creato un punto di trasbordo a Norman’s Cay nelle Bahamas quado era all’apice. È un innovatore”.

Pasquale Oliva per "mondofox.it" l'8 febbraio 2020. Sarà anche agli albori, ma il mercato degli smartphone pieghevoli riesce sempre a regalare qualche dispositivo interessante. Il simbolo di questo scarsamente popolato reparto è senza dubbio il Galaxy Fold di Samsung, nonostante le serie problematiche riscontrate con la prima versione. Ed è probabile che Roberto De Jesus Escobar Gaviria abbia particolarmente apprezzato questo dispositivo, considerato quanto appena presentato dalla sua azienda. La Escobar, Inc. - che vede al timone il fratello del più noto trafficante di droga della storia - ha annunciato The Escobar Fold 2 (sì, esiste anche un primo modello), un pieghevole che di originale non ha nemmeno il nome. No, non si tratta di facile ironia ma di una somiglianza oggettiva con il Samsung Galaxy Fold. Se si esclude il numero complessivo di fotocamere (cinque per Escobar Fold 2 e sei per il Galaxy Fold), posizionando i due dispositivi uno di fianco all'altro è praticamente impossibile notare le differenze. Stando al comunicato stampa, l'Escobar Fold 2 condivide con il pieghevole di Samsung la scheda tecnica di tutto rispetto. Entrambi eseguono Android 10, integrano il processore Qualcomm Snapdragon 855, hanno una batteria da 4,380mAh e un display da 7,3 pollici. Ebbene, il primo - nella sua versione base - costa solo 399 dollari, contro i 2mila necessari per quello del gigante sud-coreano. Dal comunicato qualche indizio sulla politica della Escobar, Inc.: Il mio obiettivo è quello di diventare quest'anno un perno dei dispositivi elettronici in eccesso. Tutti questi stabilimenti hanno troppa tecnologia buttata lì, senza che nessuno la compri. Riduciamo i prezzi e offriamo ai clienti sconti diretti garantiti dal brand Escobar. Roberto De Jesus Escobar Gaviria, analizzando le sue parole, sembra voglia dire che le unità di Escobar Fold 2 siano il risultato di un accordo con i proprietari degli stabilimenti cinesi che hanno prodotto il Galaxy Fold, a quanto pare con merce in eccesso. Ma a rendere l'annuncio di presentazione a dir poco surreale è lo spot pubblicitario. Nella clip due arrabbiatissime modelle di Playboy distruggono a martellate alcuni Samsung Galaxy Fold decretandone la morte, suggerita - giusto per essere più chiari - anche dalla voce narrante in sottofondo. Il titolo dello spot poi (Riposa in pace, Samsung) lascia poco spazio all'immaginazione.

Andrea Galli per corriere.it il 25 febbraio 2020. «Rasgao» non arriva. Lui e i suoi segreti resteranno forse per l’eternità in Colombia, la terra d’origine dove l’oggi 64enne, al secolo Rafael Ivan Zapata Cuadros, ha compiuto l’educazione criminale, ha combattuto nelle formazioni paramilitari ed è diventato uno dei «nuovi» capi dei narcos. Un comandante moderno, abile stratega, appassionato di tecnologia, legatissimo alla ’ndrangheta, e il cui volo in Italia era atteso fin dal 2011, l’anno nel quale il tribunale di Catanzaro per la prima volta aveva inoltrato in Sudamerica la domanda di estradizione. Adesso il pronunciamento della Corte suprema di giustizia colombiana, che ha rifiutato di cedere «Rasgao» all’Italia, potrebbe essere definitivo e impedire ai nostri inquirenti l’acquisizione di «pesanti» informazioni. Il colombiano era risultato collegato al sequestro di 225 chili di cocaina nel porto di Amburgo, di 541 in quello di Salerno, di 242 chili nel porto di Gioia Tauro, e in più di altre due tonnellate scoperte a bordo di un motopeschereccio al largo delle Canarie. Questi gli elementi cristallizzati dalle inchieste sui «cartelli» della droga, mentre le successive analisi investigative, da allora non ancora «spente», hanno collocato «Rasgao» nei flussi di droga, sempre cocaina, nel Lodigiano, a Rozzano e a Sesto San Giovanni, zone che hanno registrato la presenza e i movimenti di fedelissimi del colombiano, che era stato trascinato nelle inchieste dalle testimonianze di un ex collaboratore di giustizia, Bruno Fuduli, trovato lo scorso novembre suicida nell’abitazione di Vibo Valentia. Un suicidio comunque circondato da alcuni misteri. Alexandro Maria Tirelli, il legale di «Rasgao», rivela che si tratta del secondo «no» all’estradizione, e che di conseguenza «l’Italia ha ricevuto due sonori schiaffoni in merito al rispetto degli elementari principi che reggono lo Stato di diritto... L’estradizione non può essere richiesta due volte per gli stessi fatti...». Il 64enne è stato legato oppure ancora è legato al potente gruppo terroristico delle «Autodefensas unidas de Colombia», un polo di bande paramilitari ufficialmente nato per consolidare e proteggere le condizioni economiche e sociali della Colombia ma considerato da molte nazioni un’organizzazione terroristica. Contestualmente, «Rasgao» è stato scarcerato e il suo ritorno in libertà quasi azzera le possibilità di un «recupero» in futuro del narcos per fini investigativi. Insomma, l’Italia dovrà dirgli addio. Al netto delle indagini, delle accuse, delle reali responsabilità di Rafael Ivan Zapata Cuadros, come osserva il legale la giustizia colombiana ha poggiato la sua decisione sulle dichiarazioni di un pentito deceduto, quel Fuduli utilizzato anche come infiltrato da parte delle forze dell’ordine. L’inchiesta cardine «Decollo-ter», del Ros dei carabinieri, centrale nella biografia criminale di «Rasgao», aveva dimostrato un traffico internazionale di droga — tonnellate e di nuovo tonnellate — tra il Sudamerica, l’Europa e l’Australia, insieme a episodi di estorsione e riciclaggio di denaro sporco. Uno dei 27 arrestati, nelle intercettazioni, aveva detto che «in Calabria la guerra non la vince neanche il Papa», in riferimento al fatto che un grosso marchio alimentare aveva provato ad aprirsi un varco nel mercato ma aveva dovuto «obbedire» alle cosche, che per appunto decidono la morte e la vita, gli affari legali e illegali, e non soltanto in Calabria. Una delle tattiche della ’ndrangheta per «pulire» i soldi consisteva nell’acquisto dei biglietti vincenti del Superenalotto e di altre lotterie pagando direttamente i vincitori e incassando i guadagni. Un fiume di denaro, pari al fiume della cocaina, riversato in Sudamerica per pagare i carichi, finanziando le formazioni paramilitari e il loro acquisto di arsenali.

René Higuita, il rapporto speciale con Pablo Escobar: "Come potevo non essergli grato?" Libero Quotidiano il 05 giugno 2020. René Higuita, ex portiere di calcio della nazionale colombiana è tornato a parlare del suo rapporto con Pablo Escobar, il narcotrafficante ucciso nel 1993. "Quando ero bambino aveva fatto illuminare i campi di calcio dove giocavamo. Come potevo non essergliene grato? Ero suo amico, non un narcotrafficante". L'ex calciatore ricorda anche l'onta della prigionia: "Mi arrestarono con l’accusa di aver fatto da mediatore durante un rapimento avvenuto poco prima ma, dopo otto giorni, mi dissero che non mi avrebbero incriminato se gli avessi consegnato Pablo. Io risposi che non sapevo nulla e che, anche se avessi saputo, non avrei detto nulla. Era compito delle autorità, non mio".

Da corrieredellosport.it il 5 giugno 2020. "Le autorità in Colombia mi hanno detto di consegnare Pablo Escobar in modo da non arrestarmi. Sapevano che ero innocente, ma in tutte le persecuzioni che avevano iniziato contro di lui, iniziarono a mettere i suoi conoscenti in prigione. La gente mi considerava suo amico dopo che l'ho visitato nel carcere di La Catedral. Risposi che non sapevo nulla e che anche se avessi saputo non avrei detto nulla. Era compito delle autorità. Io ero grato a Pablo Escobar per aver illuminato i campi da calcio quando nessun altro lo aveva fatto". Intervistato dal canale argentino di Fox Sports, l'ex storico portiere della nazionale colombiana René Higuita parla dell'arresto subito a causa del personale rapporto col "Re della cocaina", ucciso il 2 dicembre 1993 dopo uno scontro a fuoco col Bloque de búsqueda, una squadra di sorveglianza elettronica, che lo localizzò in un quartiere borghese di Medellin. "Io mi mostro per quello che sono: l'amico di tutti - prosegue l'attuale allenatore dei portieri dell'Atlético Nacional -. Che sia stato amico di Pablo Escobar non significa che io sia un narcotrafficante. A qualcuno piacerà, altri mi considereranno un nemico. Ciò che mi riempie d'orgoglio è essere stato un calciatore".

Morto «Popeye»,  il capo dei sicari  di Pablo Escobar. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. Passerà alla storia come l’assassino più prolifico. Jhon Jairo Velasquez, meglio noto come Popeye ed ex capo dei sicari del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar, è morto a Bogotà. Ad ucciderlo, un cancro all’esofago. Secondo i media colombiani, Popeye era stato ricoverato nell’Istituto cancerologico della capitale colombiana dal 31 dicembre dello scorso anno. Stava per compiere 58 anni. Dopo aver scontato 23 anni di detenzione, il braccio destro di Escobar era uscito di carcere nel 2014, ma vi era rientrato dopo che era emerso il suo ruolo centrale nella guida di una banda dedita ad estorsioni e alla persecuzione di militanti politici, fra cui alcuni dell’ex candidato presidenziale e senatore di sinistra, Gustavo Petro. Prima di finire nuovamente in carcere — come raccontava in questa intervista a Sette— aveva deciso di darsi alla fiction e teneva conferenze ai giovani per «prevenire» la violenza. Poi, la malattia mentre era di nuovo in carcere. Durante i processi ha riconosciuto lui stesso di avere ucciso direttamente almeno 300 persone e di aver partecipato, come capo dei sicari del Cartello di Medellin, all’assassinio di altre 3.000 fra l’inizio degli anni ‘80 e la fine dei ‘90. Dopo la morte di Escobar, ad una televisione dichiarò: «Pablo Escobar Gaviria è un assassino, un terrorista, un narcotrafficante, un sequestratore ed un autore di estorsioni, ma era mio amico».

Colombia, morto "Popeye", il capo dei sicari di Pablo Escobar. Jhon Jairo Velasquez, detto Popeye. Jhon Jairo Velásquez Vásquez, chiamato "Jota Jota" nel mondo del narcos, 57 anni, da più di un anno aveva un cancro allo stomaco: aveva commesso 300 omicidi e ne aveva pianificati 3.500. Daniele Mastrogiacomo il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. È morto Popeye, chiamato nel mondo del narcos "Jota Jota", al secolo Jhon Jairo Velásquez Vásquez, il capo dei sicari dell'ex re della cocaina, il padrone del male Pablo Escobar Gaviria. Aveva 57 anni e da oltre uno soffriva di un cancro allo stomaco che lo aveva devastato. È deceduto ieri nell'Istituto Nazionale dei Tumori di Bogotá. Sin da giovanissimo si arruolò nella banda di Escobar e si mise in luce per la sua freddezza e la sua capacità organizzativa. Sale tutti i gradini e da piccolo bandito di Medellín presto assume il ruolo di capo dei sicari, oltre 400, che l'uomo che aveva sognato di diventare il padrone del mondo aveva a disposizione. Per allentare la pressione attorno a Escobar, costretto a cambiare continuamente case sicure perché tallonato dal Bloque de Búsqueda, la “Catturandi” messa in piedi dall'esercito e dai servizi segreti, nel 1991 decide di consegnarsi. È rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Cómbita e condannato a oltre 20 anni di carcere. Ma per un solo omicidio, quello del candidato presidenziale Luis Carlos Galán, sebbene ne avesse ammessi almeno 300, oltre alla pianificazione di 3.500 azioni scandite da uccisioni e attentati con autobombe. Il più clamoroso fu quello contro un aereo dell'Avianca carico di passeggeri che esplose in volo. A portare la bomba a bordo fu un ragazzino, convinto di trasportare un pacco che gli era stato affidato personalmente da Escobar. Felice di essere stato scelto dal grande capo per una missione importante e per il sostegno che avrebbe avuto assieme alla sua giovanissima moglie, morì senza capire la trappola che gli era stata tesa con tanto cinismo. Popeye lo accompagnò fino all'aeroporto e con il sorriso tra le labbra gli disse: "Tranquillo, vedrai che andrà tutto bene". Anche la moglie pagò il suo prezzo: fu uccisa perché potenziale testimone. Il capo dei sicari era così: sprezzante e insieme paterno. Non era certo stupido: è stato l'unico a sopravvivere alla mattanza che seguì la feroce guerra ingaggiata dal Cartello di Medellín per costringere lo Stato a respingere la richiesta di estradizione avanzata dagli Usa. Gli Estradabili, come si chiamò la Confederazione tra Cartelli messa in piedi da Escobar, furono gli artefici di una guerra spietata e sanguinaria. Vennero fatti fuori decine di poliziotti, magistrati, soldati. Sequestrati per mesi politici, intellettuali, giornalisti, imprenditori. Lo scopo era scatenare il terrore e costringere le Istituzioni a venire a patti. L'accordo alla fine venne raggiunto: niente estradizione. Cessarono gli agguati e gli attentati. Escobar si consegnò e assieme a un altro centinaio di suoi uomini si fece rinchiudere in una grande struttura che lui stesso aveva fatto costruire in mezzo alla campagna. Di qui fuggirono tutti insieme quando lo Stato decise di approvare di nuovo l'estradizione. John Jairo concordò a quel punto la sua resa con l’assenso dello stesso Escobar. Accettò di collaborare con la magistratura e si accollò 300 omicidi. Ma la sua astuzia, assieme al cinismo, gli salvò la pelle anche dietro le sbarre dove erano in tanti a volerlo morto: dai miliziani delle Auc, i paramilitari di destra, alle Farc, agli avversari del Cartello del Norte de Valle. Riusciva a metterli gli uni contro gli altri, cambiando alleanze. Scontò la pena e uscì il 27 agosto del 2014. Da quel momento iniziò la sua seconda vita. Rivendicò il suo pentimento e continuò a raccontare dettagli e aneddoti della sua carriera di sicario. Lo faceva su Youtube dove aveva aperto un canale, Popeye arrepentido. Ha scritto libri, ha promosso film e documentari sulla sua vita, compreso uno, illuminante, prodotto poi da Netflix. Era contrario al processo di pace con le Farc che criticò pubblicamente. Nel giugno del 2016 rilasciò un’intervista a Verne nella quale spiegò che la sua presenza sulla Rete era per restare in contatto con la gente e lanciare un messaggio. "Lo faccio per dimostrare che non vale la pena delinquere", disse. Bugiardo, oltre che ostinato assassino. Chiunque considerava suo nemico veniva ancora minacciato. Si è fatto arrestare una seconda volta alla fine del 2017. Venne sorpreso a casa di Juan Carlos Mesa, detto Tom, capo de l'Oficina de Envigado, una banda criminale creata da Escobar che Jota Jota continuava a chiamare "el patrón". Partecipava a una festa sontuosa con tutti i vecchi amici di un tempo sopravvissuti. "Era una festa", disse agli agenti che lo arrestavano e gli contestavano la presenza di montagne di coca sui tavoli oltre a un episodio di estorsione. "È successo quello che è successo. Non è un delitto andare a una festa". Due anni dopo, il 31 dicembre scorso, è stato ricoverato in ospedale. Aveva il corpo pieno di metastasi. Ha resistito un mese.

Morto Popeye, il sicario di Pablo Escobar: l'intervista di Giulio Golia. Le Iene News il 07 febbraio 2020. Jhon Jairo Velásquez, “Popeye”, è morto a Bogotà. È stato il sicario prediletto del “Re della cocaina”, l’ex capo dei narcos colombiani Pablo Escobar. Per lui aveva ucciso 257 persone con le sue mani e, come capo dei suoi sicari, aveva partecipato a 3.000 omicidi. Giulio Golia l’aveva incontrato in questa intervista esclusiva da brividi. “Io sono il Generale della Mafia”, diceva Popeye, Jhon Jairo Velásquez, il killer prediletto dell’ex capo dei narcos colombiani Pablo Escobar, nell’intervista esclusiva del 7 novembre 2017 di Giulio Golia che potete vedere qui sopra. E mostrava proprio quella frase tatuata sul braccio: “Io sono la memoria storica del cartello di Medellín: ho vissuto dentro il mostro e facevo parte del mostro”. Il mostro era l’organizzazione di Escobar, il più famoso trafficante di droga del mondo, ucciso nel 1993 a 44 anni dopo aver accumulato un patrimonio di 25 miliardi di dollari. Jhon Jairo Velásquez è morto a quasi 58 anni a Bogota: aveva confessato di aver ucciso personalmente 257 persone e di aver partecipato, come capo dei sicari del “Re della Cocaina”, a oltre 3.000 omicidi. Quando lo abbiamo intervistato nel 2017, Popeye era tornato in libertà dal 2014 dopo 23 anni di carcere e diceva di volersi tenere lontano dai crimini del passato. Il 27 maggio 2018 era stato però arrestato nuovamente: guidava una banda dedita a estorsioni e alla persecuzione di militanti politici, tra cui alcuni vicini all’ex candidato presidente e senatore di sinistra, Gustavo Petro. Il sicario di Escobar, arrestato nel 1992, era stato condannato anche per l’omicidio di un politico, Luis Carlos Galán, nemico dichiarato dei cartelli della droga, che Popeye ha ucciso nel 1989 a Bogotà durante un comizio davanti a 10 mila persone. È questa era l’unica vittima per cui diceva alla nostra Iena di provare un qualche rimorso. Tornato libero per buona condotta, Jhon Jairo Velásquez sosteneva di vivere onestamente. Con una nuova vena creativa: aveva 500 mila fan su YouTube come “Popeye pentito”, si era improvvisato scrittore e aveva girato un film autobiografico. “Per lui ho ho ucciso 257 persone con le mie mani”: raccontava a Giulio Golia di aver preso parte alla guerra contro il cartello rivale dei narcos di Calì e il governo costata 50 mila morti tra omicidi singoli e plurimi e stragi con autobombe. “Medellín è una bellissima città, costruita però su un cimitero”. Al momento dell'arresto del 1992, aveva una taglia da mezzo milione di dollari sulla sua testa e un patrimonio di “12 milioni in immobili e 10 milioni in contanti”. Li aveva accumulati uccidendo: “C’erano morti da un milione, da 70 mila, da 50 mila e da 20 mila dollari e Escobar pagava sempre correttamente”. “Dei suoi 3 mila sicari, siamo rimasti vivi solo in 4. Per noi Pablo Escobar era Dio: non avevamo paura, ci piaceva l’adrenalina, ci piaceva la violenza, eravamo giovani”. Tutta l’intervista che potete vedere qui sopra è da brividi. “La vera mafia è italiana, noi siamo la copia, loro sono i professori. Ammiro l’omertà, la capacità di comunicare sempre per scritto mai per telefono, l’eleganza nell’uccidere, senza sentimenti, da professionisti. Viva la mafia!”: Popeye si lancia perfino in lodi inquietanti a Cosa Nostra.

Paolo Manzo per “il Giornale” l'8 febbraio 2020. Loquace, criminale reo confesso, affabulatore. Questo era Jhon Jairo Velásquez, morto a 57 anni per un cancro all' esofago l' altroieri ma, soprattutto, il più letale dei sicari di Pablo Escobar o, come continuava a chiamarlo lui, el Patrón, il Padrone. Tutti in Colombia lo conoscevano come Popeye, il soprannome che si era guadagnato grazie a un mento prominente, a tal punto che era ricorso alla chirurgia estetica per un ritocchino. Tutti, anche il comandante in capo delle Forze Armate colombiane, il generale Eduardo Zapateiro, che ieri ha fatto arrivare alla famiglia di Popeye «le più sentite condoglianze». La cosa ha suscitato indignazione a Bogotà perché el Pope, come lo chiamavano i suoi amici più intimi, non era solo un pentito che, uscito dopo 23 anni di carcere duro, era diventato una star in Colombia grazie a una telenovela sulla sua vita prodotta da Tv Caracol e diffusa via Netflix. No, alias J. J. (questo un altro suo alias nonché il titolo della serie TV) era soprattutto un criminale che aveva ammesso di avere materialmente commesso 257 omicidi e di cui era stata dimostrata la partecipazione all' attentato contro un aereo dell' Avianca nel 1989, 107 i morti. Scontate dunque le polemiche dopo le condoglianze del generale anche se, di certo, Popeye aveva fornito all' esercito molte informazioni su chi, con lui, aveva partecipato alle mattanze di Escobar. Due dunque le vite del Pope. La prima quando, giovanissimo, entrò a far parte del Cartello di Medellin sino a essere promosso sul campo dal Patrón come capo dei suoi sicari. Da killer non sbagliava un colpo, forse perché affascinato dall'«odore del sangue» per sua stessa ammissione. «Freddai personalmente centinaia di nemici del Patrón», disse, contribuendo a pianificare l' uccisione «di almeno altre 3mila vittime, Escobar scriveva i loro nomi su un taccuino e chi doveva uccidere, io c' ero quasi sempre». Giudici, giornalisti, politici, traditori, membri di altri cartelli, a cominciare da quello di Cali, Popeye era stato una «macchina per uccidere» tra metà anni 80 e inizio anni 90, «ma quello era il mio lavoro e lo facevo al meglio». La seconda vita di Popeye è invece quella del personaggio pubblico, con cui chi scrive entrò in contatto nel 2016 in Colombia quando, nel Museo della Memoria di Medellín, lui era stato invitato a tenere una lezione agli studenti per spiegare loro che «fare il criminale può solo portare alla morte». Uscito nel 2014 dal carcere aveva infatti costruito attorno a sé un' aurea di personaggio eroico, di un pentito sopravvissuto a oltre 20 anni di carcere duro e a numerosi tentativi di ucciderlo. Scriveva libri Popeye, aveva un milione di fan sul suo canale Youtube, («Popeye Arrepentido», «Popeye Pentito» in italiano) dove raccontava a modo suo le verità più scomode della Colombia. Alcune molto esplosive. A cominciare da quando testimoniò che Raúl Castro era il contatto del Patrón a Cuba e che Escobar finanziò il sequestro del Palazzo di Giustizia da parte della guerriglia dell' M-19, nel 1985, dove morirono quasi un centinaio tra terroristi, giudici e civili. Nel 2017 era finito di nuovo dentro per estorsione ma aveva promesso che, presto sarebbe uscito, per raccontare altre scottanti verità. Il cancro glielo invece ha impedito e Popeye si è portato i suoi segreti nella tomba.

·         La Mafia Messicana.

Estratto dell'articolo di Daniele Mastrogiacomo per “la Repubblica” il 2 ottobre 2020. Per la storia e la giustizia è morto nel 1997. Ma la leggenda racconta che sia ancora vivo, la faccia trasformata in una delle tante plastiche chirurgiche a cui si era sottoposto, anonimo e felice di godersi il malloppo raccolto in 30 anni come capo indiscusso del Cartello di Juárez. Amado Carrillo Fuentes, noto nel mondo dei narcos come El señor de los cielos , per la flotta di 30 bimotori, jet e persino Boeing 727 con cui trasportava i carichi di marijuana, di cocaina e poi di eroina negli Usa per conto del socio colombiano Pablo Escobar Gaviria, torna d' attualità per un sontuoso palazzo arabeggiante che sorge poco distante da Hermosillo, Stato messicano di Sonora, proprio sotto il confine con l' Arizona. In mezzo al deserto, intatto ma completamente abbandonato da 27 anni, i muri segnati da grossi buchi e coperti da scritte, sorge questa ostentata riproduzione dell' architettura islamica che ricorda il palazzo di "Mille e una notte": 2500 metri quadrati tra stanze, saloni, bagni, saune sormontati dalle 5 cupole tradizionali e dall' elefante bianco. La Procura generale ha deciso di abbatterlo dopo averlo sequestrato nel 1993 perché diventato il rifugio di sbandati e tossici. Le ruspe sono già entrate in azione. Tutti sanno che apparteneva ad Amado Carrillo Fuentes. (…) Se le gesta e le imprese del Signore dei cieli sono note e raccontate sin dagli anni 70, resta invece avvolta dal mistero la sua fine. È certo che si sottopose a operazioni di plastica facciale. L' ultima gli sarebbe stata fatale: i due chirurghi che l' operarono, assieme all' anestesista, furono trovati cadaveri. Il corpo di Fuentes venne mostrato solo dopo alcuni giorni e appariva con necrosi che gli deturpavano il viso. Il resto sono voci, leggende. (…) Chi ha visto su Netflix la serie "Narcos" ha imparato a conoscerlo. Si sospetta che abbia fatto un accordo con la Dea per godersi il tesoro accumulato. Tranne il palazzo da Mille e una notte: secondo Forbes il capriccio di un uomo da 30 miliardi di dollari.

Guido Olimpo per "corriere.it"  il 4 agosto 2020. Josè Yepez Ortiz, detto El Marro, considerato il re dei predoni di idrocarburi è stato catturato dalle forze di sicurezza nello stato messicano di Guanajuato. Un personaggio doppiamente interessante: per la minaccia che rappresentava e per la sua lotta sanguinosa con El Mencho, il capo del cartello di Jalisco. Il bandito è stato sorpresa all’alba – affermano le fonti ufficiali – da un blitz dei militari nella zona di Juventino Rosas. Durante l’operazione sarebbe stato liberato un commerciante che era in ostaggio, una delle tante vittime di un network criminale che ha diversificato le proprie attività. Secondo i media gli investigatori avevano ricevuto informazioni piuttosto precise sui movimenti del ricercato ed hanno usato tre droni che hanno aiutato a ricostruire movimenti chiave. Con lui è stato preso anche il suo responsabile per la sicurezza, El Cebollo. Molte le armi, tra cui un lanciagranate. Alla testa del cartello di Santa Rosa de Lima, El Marro ha creato una struttura specializzata nel furto di carburanti, azioni condotte a livello “industriale”. Un braccio armato per proteggere le incursioni, elementi addestrati al saccheggio sistematico, spie e tecnici corrotti per avere le informazioni sugli impianti e le pipeline, smercio del prodotto. Scorrerie che hanno spesso coinvolto una raffineria di Salamanca, ma si sono poi estese a numerosi siti spingendo altre gang locali a dedicarsi ai furti. Ortiz è nato come luogotenente di El Guero, un boss dei Los Zetas, e poi – come spesso accade nei clan messicani -, si è staccato fondando attorno al 2017 il cartello di Santa Rosa. I suoi uomini si sono subito dedicati ai carburanti e alle estorsioni massicce, accompagnate dai sequestri di persona. Come altri padrini El Marro, pur ricercato, non ha avuto paura di fare propaganda via web, con video e messaggi rivolti contro gli avversari o le autorità. Una campagna che si è presto concentrata contro il suo nemico più duro, El Mencho, che ha risposto a tono, con i suoi filmati. Da qui una catena di scontri che hanno trasformato lo stato di Guanajuato in uno dei più pericolosi: oltre 2200 vittime solo nei primi sei mesi di quest’anno. Le imboscate si sono alternate a raid indiscriminati. A gennaio è stata assassinata una sorella di El Marro, all’inizio di luglio quasi una trentina di persone sono state falciate a colpi d’arma da fuoco in un centro per tossicodipendenti a Irapuato. Strage attribuita proprio a Santa Rosa, così come l’uccisione di numerosi poliziotti. Episodi che hanno spinto le autorità a rilanciare la caccia. Quasi una gara con i pistoleri de El Mencho, anche loro decisi a liquidare il rivale. Sono stati loro a venderlo ai militari o imprecheranno perché la preda è finita in galera? Aspettiamo i dettagli di una storia che potrebbe avere code velenose. L’arresto potrebbe scatenare la reazione violenta dei seguaci di Ortiz.

Messico: arrestato El Marro, tra i narcos più ricercati del Paese. Pubblicato lunedì, 03 agosto 2020 da Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica.it Leader del cartello di Santa Rosa da Lima, la sua organizzazione è specializzata nei furti di benzina dai depositi della Pemex, la compagnia petrolifera statale. Lo cercavano da un anno. Sapevano come agiva e dove si poteva nascondere. Ma sembrava imprendibile e soprattutto intoccabile. L'Esercito e la Polizia federale messicana sono riusciti alla fine a catturarlo mettendo a segno il primo colpo nella guerra, non dichiarata, dello Stato ai Cartelli. Cade José Antonio Yépez, alias El Marro, leader del Cartello di Santa Rosa da Lima, una organizzazione che domina Guanajuato, 370 chilometri a nord ovest di Città del Messico. E' ritenuta responsabile di sequestri e estorsione ma soprattutto dei furti di benzina nei depositi della Pemex, la compagnia petrolifera statale: una pratica molto diffusa negli ultimi anni nel Paese nordamericano che il presidente Obrador ha iniziato a combattere appena eletto. Non si sa come e dove sia stato catturato El Marro. Il suo arresto è stato annunciato su Twitter dal Segretario della Sicurezza del governo Federale, Alfonso Durazo. "Assicurate le formalità giuridiche", ha scritto. "El Marro sarà trasferito nella prigione di Altiplano per metterlo a disposizione del giudice federale che aveva emesso un ordine di cattura per criminalità organizzata e furto di combustibile". Con Yépez sono state arrestate altre cinque persone. Il Santa Rosa da Lima è un Cartello locale molto agguerrito. Negli ultimi mesi si è scontrato più volte con gli avversari della Jalisco Nueva Generación, il gruppo dominante sulla scena criminale messicana. Una guerra per la conquista dei nuovi territori, essenziali per il traffico di droga verso gli Usa, esplosa dopo l'estradizione del Chapo Guzmán e la sua condanna all'ergastolo. In ballo c'è l'eredità del Cartello di Sinaloa che ovviamente fa gola a molti, compresi i figli del vecchio re del narcotraffico. L'esercito e la polizia erano da mesi sulle sue tracce. A fine giugno c'era stato un blitz a Celaya, altra cittadina dello Stato di Guanajuato. Trenta persone erano state arrestate tra cui la madre di El Marro. Il leader del Cartello aveva reagito mettendo a soqquadro il piccolo centro: strade bloccate, sparatorie, auto e camion a fuoco. Era furibondo. Poche ore dopo era apparso sui social ma un po' provato. Sapeva che gli stavano addosso. Gli avevano sequestrato un paio di imprese, congelato i conti correnti, l'esercito aveva bloccato gran parte dei depositi clandestini, ben 1.547 secondo la stessa Pemex, dove veniva stivato il carburante rubato dagli impianti ufficiali. In alcune stazioni di servizio i soldati avevano allestito addirittura degli accampamenti che impedivano ai sicari del gruppo di collegare la rete di tubi da cui succhiare la benzina. La mano dello Stato si era fatta sentire. Sin dai tempi dell'ex presidente Nieto, Guanajuato era diventato uno degli Stati più violenti del Messico. Tra il 2014 e il 2015 c'erano stati mille omicidi; nel 2017 salirono a 2.285 e nel 2028 a 3.517, ricorda El Pais. Adesso si tratta di confermare le accuse. L'arresto, da solo, non basta. E' un banco di prova per la Procura Generale della Repubblica, la nuova struttura creata da Obrador che guida l'attività investigativa. Vedremo se il materiale raccolto dagli inquirenti reggerà alla verifica del Tribunale. Troppo spesso, in passato, le prove sono state dichiarate insufficienti e gli arrestati rimessi in libertà. José Antonio Yépez è un nome noto. Ma questo, per la giustizia, non basta. Dopo di lui c'è l'altro obiettivo: Nemesio Oseguera, detto El Mencho, il capo della Jalisco Nueva Generación su cui pende una taglia milionaria dell'amministrazione Usa. Due settimane fa ha postato un video su Twitter in cui mostrava il convoglio del suo esercito. Una vera sfida: decine di mezzi blindati nuovi di zecca, i sicari vestiti con mimetiche immacolate, imbracciando armi automatiche, mentre inneggiavano all'organizzazione e al suo capo.

L'erede di El Chapo: l'omaggio dei narcos a El Mencho e la sua scalata. Le Iene News il 31 luglio 2020. Una schiera di uomini armati e con mezzi blindati inneggia al nuovo boss del narcotraffico El Mencho, ex poliziotto ora a capo del Cartello di Jalisco Nuova Generacion. Per la sua cattura gli Stati Uniti hanno messo una taglia da 10 milioni di euro. El Mencho vale 10 milioni di dollari. È la taglia offerta da Washington per il boss del Cartello di Jalisco Nuova Generacion, una delle organizzazioni criminali più importanti in Messico. Qualche giorno fa l’organizzazione ha diffuso un video propagandistico, di cui potete vedere una parte qui sopra: una schiera di uomini armati e con mezzi blindati che inneggiano all’erede del Chapo Guzmán: El Mencho. Quelli che vedete qui sopra sono gli uomini, armati pure di tank, del Cartello di Jalisco Nuova Generacion. El Mencho, il cui vero nome è Nemesio Oseguera Gonzáles, è un ex agente di polizia dello stato di Jalisco. Ha 54 anni e proviene da una famiglia umile. È stato tre anni in carcere in America per spaccio di eroina. Ha rotto con El Chapo nel 2013 e acquisito sempre più potere approfittando della faida nel cartello di Sinaloa tra il cofondatore El Mayo Zambada e i Los Chapitos, i figli del boss. Di El Chapo e della mattanza dei Narcos ad Acapulco, in Sudamerica, ci siamo occupati nell’incredibile servizio che potete vedere cliccando qui della Iena Cizco, regia di Gaston Zama, nel 2017. Abbiamo documentato una giornata in questa città, dove gli omicidi e le esecuzioni sono non solo all’ordine del giorno ma segnano proprio lo scandire delle ore. Joaquin "El Chapo" Guzman Loera è stato per 25 anni a capo del cartello di Sinaloa, una delle più grandi e violente organizzazioni messicane dedite al traffico di droga. È stato condannato per tutti e dieci i capi d’accusa per i quali era imputato: associazione a delinquere, criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, uso e traffico di armi da fuoco e vari omicidi. Arrestato in Messico nel 2016, un anno dopo una delle sue clamorose evasioni, era stato estradato nel 2017 negli Stati Uniti. 

Guido Olimpio per corriere.it il 31 luglio 2020. El Mencho è venuto dal basso ed è arrivato in alto. È il simbolo del potere dei gangster messicani, un mix di brutalità, corruzione e complicità politiche che noi chiamiamo narcos. Il capo del cartello di Jalisco è un target di alto valore, ben più dei 10 milioni di dollari di taglia offerti da Washington. Nemesio Oseguera Gonzáles, alias El Mencho, ha 54 anni, passati sui due lati del confine. Nato in una famiglia umile, le ha provate tutte. Immigrato clandestino in California, piccolo spacciatore, ladro d’auto, un paio d’arresti in America, tre anni di galera fino al 1997, quindi la deportazione nel suo paese natale. Nonostante i precedenti – o forse proprio grazie a questi – entra nella polizia di una località di Jalisco, parentesi seguita dal reclutamento da parte del network guidato da Nacho Coronel, il «re dei cristalli». Il futuro boss entra in un mondo dal quale non si esce mai, soprattutto passa molto tempo con un amico, Abigael Valencia. Legame importante. Ne sposerà la sorella, Rosalinda, e stringerà un patto di collaborazione con la famiglia della donna, un clan che diventerà il suo braccio economico. I Los Cuinis. El Mencho, come altri luogotenenti ambiziosi, romperà con El Chapo nel 2013 e svilupperà la sua organizzazione poggiando su una serie di pilastri. Associa i concorrenti nel suo network, altrimenti li incalza senza pietà. Una struttura orizzontale ben armata. Un’attività di propaganda sul web emulando lo Stato Islamico. Il coinvolgimento della moglie nella gestione finanziaria. Nessun timore delle autorità. Infatti ha colpito con durezza polizia e forze armate, fino a ordinare azioni contro personalità di spicco. I suoi sicari abbattono un elicottero della Marina, tendono imboscate contro le pattuglie, sparano su bersagli delle istituzioni. Prima fanno fuori un giudice, poi a fine giugno prendono di mira il responsabile della sicurezza nella capitale, Omar Harfuch, agguato fallito, con molte cose non proprio chiare. Ieri Jalisco ha postato una clip per accusare proprio Harfuch di proteggere un leader dei Los Zetas. Messaggi pesanti insieme a quelli con teste mozzate nella guerra contro un nemico particolare, El Marro, capo del cartello di Santa Rosa de Lima. Gli ultimi attentati sarebbero la rappresaglia al sequestro di 1939 conti bancari, all’estradizione negli Usa del figlio Ruben, all’arresto – sempre negli Stati Uniti – de «la negra», la figlia Jessica e, più in generale alla pressione scatenata contro il suo impero. Azioni giudiziarie accompagnate dalle voci di una sua morte e poi da quelle su gravi problemi di salute, al punto che si sarebbe fatto costruire una clinica privata nella zona di Alcihuatl. A proteggerlo un «esercito» di killer — rinforzato quando serve da mercenari —, il territorio impervio e appoggi consolidati. Pochi giorni fa i suoi uomini hanno diffuso due video dove compaiono a bordo di decine di mezzi blindati (in officine ad hoc), equipaggiati come marines, sicuri che nessuno li avrebbe disturbati durante la parata. Era il loro modo per festeggiare il compleanno de El Mencho e rispondere alle notizie che parlano di nuovi contrasti nell’organizzazione. Due sottocapi, il Doppio R e lo 03, potrebbero avere deciso di staccarsi mentre altre indiscrezioni ipotizzano dissensi con i Los Cuinis. Tempeste abituali per i banditi, ma che possono diventare pericolose aprendo la strada a tradimenti.

El Mencho, re dei narcos che terrorizza il Messico e fa dimenticare il Chapo. La Dea mette una taglia da 10 milioni di dollari sulla testa di Nemesio Oseguera, il boss del cartello di Jalisco, nuovo signore del traffico di cocaina. Daniele Mastrogiacomo il 15 marzo 2020 su la Repubblica. Adesso è lui il capo, il nuovo re della droga in Messico. Si chiama Nemesio Oseguera, classe 1966, la faccia da ragazzo, l’espressione gelida, i capelli folti e neri ben curati, la giacca jeans aperta sul petto senza catene e crocefissi d’oro. Solo due anelli alle dita e un paio di tatuaggi. L’unica foto che ritrae El Mencho, il boss che ha sostituito El Chapo Guzmán nell’impero dei narcos e che adesso guida il più forte Cartello a sud del Rio Bravo, il Jalisco Nueva Generación, è quella scattata dalla polizia quando venne arrestato nell’agosto del 2012 ma poi rilasciato. La Dea americana lo ha messo in cima alla lista dei criminali più ricercati con una taglia da 10 milioni di dollari. Ma sembra poco probabile che qualcuno possa tradirlo. Regna su un vasto impero, ha a libro paga poliziotti e funzionari, conosce segreti e connivenze negli apparati governativi, possiede un esercito di almeno 10 mila persone, tra killer, gregari e capi delle piazze messicane. Gli Usa gli danno la caccia e dopo la strage dei mormoni di origine americana del 5 novembre scorso, con l’intervento personale di Donald Trump, gli hanno fatto terra bruciata. Hanno prima arrestato il figlio Rubén Oseguera, detto El Menchito, suo secondo e responsabile militare del Cartello; quindi l’altra figlia Johanna, considerata la regista del riciclaggio della montagna di denaro che il gruppo incassa quotidianamente. Sono chiusi in un carcere americano. Due giorni fa in un’altra mega operazione su entrambi i lati della frontiera, con la collaborazione della polizia federale messicana, sono state arrestate 200 persone che fanno salire a 700 le perdite tra le fila della JNG, oltre al sequestro di 20 milioni di dollari. Ma El Mencho resta libero. Sfugge a ogni trappola che il governo Obrador gli tende. Le pressioni da Washington sono fortissime. Ma anche quelle interne a Los Pinos che si ritrovano a gestire una patata bollente. Nemesio Oseguera sa molte cose e copre interessi imbarazzanti. Qualcuno lo ha lasciato libero e gli ha consentito di rafforzare un potere che ha costruito in dieci anni. La sua figura emerge alla fine del secolo scorso. Lo scontro tra i narcos di Sinaloa e quelli di Guadalajara si spegne grazie alla mediazione di Miguel Ángel Félix Gallardo, ex agente della polizia giudiziaria federale passato tra le fila dei trafficanti. Sarà lui a far rapire e uccidere l’agente della Dea Enrique Camarena, Kiki . L’inizio di tutto, quello che provocherà un vero terremoto anche nei Palazzi messicani, una reazione americana e la sua cattura e condanna a 40 di carcere per vari delitti. Il comando del Cartello passa nelle mani di un gregario rimasto fino a quel momento nell’ombra. Si chiama Joaquín Guzmán Loera, per tutti el Chapo , il piccoletto. È furbo e abile. Scala tutti i gradini, si sbarazza dei nemici; premia i fedelisssimi, fa sparire nell’acido chi lo tradisce. Ma anche lui, dopo due fughe rocambolesche dal supercarcere di Altiplano, è abbandonato dai suoi padrini politici e viene estradato negli Usa dove sarà condannato a più ergastoli. È l’occasione di un altro gregario. Si chiama Nemesio Oseguera. Sotto il Chapo aveva già imparato il business e controllava la piazza di Guadalajara. Con il suo socio Ignacio Coronel e altri fonda un gruppo che si fa chiamare Los Cuinis. Preferisce lo scontro a viso aperto piuttosto che la strategia dei tunnel. La polizia lo insegue ma lui riesce sempre a fuggire, scatenando inferni di fuoco con camion dati alle fiamme che bloccano le arterie dello Stato di Jalisco. Nei blitz cadono tutti i suoi soci: alcuni durante i conflitti a fuoco, altri in manette. Anche lui viene arrestato nell’agosto del 2012 per traffico di eroina negli Usa. Resterà nell’ombra. Non viene mostrato ai media, nessuno parlerà di lui. Sparisce. Siamo alla fine del governo Calderón. Tre anni dopo El Universal svela che il governo di Jalisco aveva deciso di rilasciarlo. Crea la Jalisco Nueva Generación. Conquista tutte le piazze, si impone con la violenza. Plomo mas que plata. Piombo più che soldi. Ha il monopolio del traffico di metanfetamina, eroina e cocaina verso gli Usa. Ma resta un fantasma.

Narcos, la «trattativa Stato-cartelli» dietro il rapimento dell’agente Camarena. Pubblicato martedì, 03 marzo 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. La storia di Enrique «Kiki» Camarena non conosce fine. È come un romanzo dove lo scrittore non riesce mai a chiudere l’ultimo capitolo. Perché i protagonisti gli forniscono altri spunti. Veri, presunti, a metà. In un intreccio dove impunità, grande crimine e cinismo politico si mescolano creando un muro dietro il quale si nasconde tanto. È il 7 febbraio del lontano 1985. Messico. Regione di Guadalajara. Poliziotti corrotti sequestrano «Kiki», un coraggioso agente della Dea americana che ha avuto un ruolo fondamentale in alcune operazioni. Gli infedeli lo trasferiscono in una fattoria e insieme ai loro complici narcos si dedicano a sevizie orrende. Percosse, scariche elettriche, fori con il trapano. Un supplizio durato per quasi 30 ore, un’agonia prolungata con l’aiuto di un medico che tiene in vita la vittima per dare modo ai torturatori di ottenere informazioni sulle indagini. Il corpo di Camarena, 37 anni, sarà ritrovato quasi un mese dopo, nello stato di Michoacán. L’omicidio è un segnale brutale da parte dei cartelli messicani, una sfida nella sfida. Che provoca sdegno e reazioni furibonde in Nord America. Ma forse — come vedremo più avanti — non tutti a Washington versano lacrime per l’epilogo. La Dea si lancia nella caccia ai colpevoli partendo da basi solide, lo stesso lavoro investigativo svolto dal loro collega prima di essere assassinato. Conoscono i loro avversari, sempre ben protetti.Le autorità locali non hanno scelta e, alla fine, dovranno procedere. Finiranno in manette Miguel Angel Felix Gallardo, uno dei boss più intraprendenti dell’epoca e mandante principale, quindi Ernesto Fonseca Carrillo e Rafael Caro Quintero. Più altri complici. Arresti accompagnati da attività meno ortodosse degli stessi americani che rapiranno il presunto medico torturatore e un altro bandito, entrambi trasferiti in America con un’operazione affidata a «mercenari». Missione che finirà poi in battaglia legale innescata dagli avvocati difensori dei detenuti, con richieste di danni. Sarà proprio un cavillo a permettere il rilascio da parte messicana, nel 2013, di Caro Quintero. Incredibilmente — ma non per gli standard del Paese — il padrino lascia la prigione e torna al contrabbando su larga scala. Le ultime informazioni raccontano che sia con il network di Sinaloa, sulla sua testa una taglia di 20 milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti. A sud del Rio Grande, oltre confine, la legge conta poco, si spara molto e le bande combattono una guerra aperta. Le tappe dell’affare Camarena sono oscurate dai massacri quotidiani, ma sono rammentate dal dolore della sua famiglia, da decine di articoli e, di recente, dalla serie «Narcos-Messico» su Netflix.C’è ancora da raccontare sulla fine dell’investigatore. Il Dipartimento della Giustizia Usa ha ripreso in mano il dossier dopo le dichiarazioni di tre ex funzionari della polizia messicana legati alla gang di Quintero e soci. Il terzetto sostiene che un elemento della Dea e uno della Cia sapevano del piano per far sparire Kiki in quanto era seduti allo stesso tavolo dei pistoleri quando venne deciso il suo rapimento. Non solo. Una precedente indiscrezione suggeriva la presenza di uno 007 americano nella camera della morte quando i «sicarios» si accanivano su Camarena.Lo scenario — non inedito — è che i servizi statunitensi (o una parte di questi) volessero mascherare patti segreti, compresa la collaborazione con i trafficanti di droga, arruolati per appoggiare i contras, i guerriglieri contrari al regime comunista del Nicaragua. Stupefacenti e armi seguivano le medesime rotte, spesso quelle organizzate dal signore dei cieli, Amado Carrillo Fuentes. Ed ecco che il sacrificio di Kiki affonda nella melma nera mentre la Cia nega con forza. Toccherà agli inquirenti trovare riscontri alle accuse di personaggi ambigui che potrebbero avere interesse a deviare responsabilità. «Voglio tutta la verità — è stata la reazione della moglie di Camarena, Mika — A questo punto nulla mi può sorprendere».

Fabio Albanese per “la Stampa” l'8 febbraio 2020. Uno dei più potenti cartelli della droga aveva cominciato a trafficare cocaina in Italia senza l' intermediazione delle mafie locali. Lo sospettano gli investigatori della Finanza di Catania che, con le polizie colombiana e spagnola, hanno interrotto un business da 20 milioni di euro, sequestrando 386 chili di cocaina pura e arrestando 4 delle 7 persone coinvolte, quasi tutte «espressione diretta del potentissimo cartello messicano di Sinaloa». Droga messicana ma prodotta nel dipartimento colombiano di Cauca. Il carico, ufficialmente erano casse di libri, era arrivato a Catania l' 11 gennaio. Partito da Bogotà su un volo merci diretto a Roma, aveva proseguito per la Sicilia su un altro aereo. Tutti movimenti che gli investigatori hanno seguito passo passo. Con mandato di cattura internazionale richiesto dalla Dda di Catania, sono stati arrestati due guatelmatechi, Daniel Esteban Ortega Ubeda detto "Tito", 35 anni, e Felix Ruben Villagran Lopez, detto "Felix", di 48; un italiano di Sanremo ma residente in Spagna, Mauro Da Fiume, 56 anni; uno spagnolo di 42, Sergio Garcia Riera. Sono riusciti a far perdere le loro tracce i messicani Jose Angel Rivera Zazueta detto "El Flaco", 33 anni, considerato tra i capi del cartello di Sinaloa, e Salvador Ascencio Chavez, 53, "El Chava", e il guatelmateco Luis Fernando Morales Hernandez, 33, detto "El Suegro", parente di Felix. Il pesce grosso è proprio El Flaco, che gli investigatori hanno ascoltato in numerose intercettazioni mentre trattava partite di droga e di cui hanno seguito per mesi i movimenti in diverse città italiane, da Catania a Roma a Verona da Genova a Milano, ma anche in Cina e Taiwan. «Collettori dei produttori di stupefacenti», li definisce il comandante della Guardia di finanza di Catania, Raffaele D' Angelo, secondo cui «Catania era una porta d' ingresso per l' Italia». Catania, dove le cosche mafiose controllano storicamente tutte le piazze di spaccio. Eppure, i messicani di "El Flaco" l' hanno ritenuta base ottimale per i loro traffici: «Nessun collegamento accertato con i clan locali, almeno in questa fase - dice Francesco Ruis che da comandante del nucleo di polizia economico-finanziaria ha guidato l' indagine con Gico e Goa -. D' altronde la droga era probabilmente destinata al Nord e all' estero». Documentata una delle spedizioni-provino, quella che ha consentito di arrestare 4 delle 7 persone coinvolte, quasi tutte «soggetti nuovi, incensurati e sconosciuti da questa parte del mondo ma che in Messico hanno un' importanza criminale - spiega Ruis -. L'organizzazione contava su di loro per gestire il traffico e ora dovrà ricominciare daccapo». Tito e Felix, sbarcati a Catania dopo l' arrivo della droga, avevano inviato 3 chili di cocaina ad Affi, nel Veronese, dove il 23 gennaio saranno poi arrestati. Al telefono, El Flaco chiede a Tito: «Ma avrete tutta la merce?». E lui: «No, no tutti in una volta possiamo dare i primi 20, e dopo, di 20 in 20 Quello basso, quello che non parla spagnolo, ha coordinato il tutto con "spaghetti"». Con El Chava, Tito e Felix incontrano ad Affi i destinatari del provino, Mauro Da Fiume e Sergio Garcia Riera. Da Fiume, sanremese in passato in affari (di droga) con le 'ndrine calabresi della provincia di Imperia e del Genovese, ha un ristorante in Costa Brava, a Carnet de Mar; Riera è un catalano di Barcellona. Li ha arrestati il 4 febbraio la polizia spagnola come «rappresentanti di organizzazioni criminali acquirenti». Quali, dovranno essere altre indagini delle Dda di diverse città italiane ad accertarlo. Tuttavia, pare certo che la coca di Catania non sia stata l' unica inviata in Italia dal cartello di Sinaloa perché i 20 chili sequestrati a novembre in un container arrivato dalla Colombia nel porto di Vado Ligure apparterrebbero alla stessa organizzazione.

Assalto ai camion di avocado: la fame dei narcos per l’«oro verde». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Muglia. Il Michoacán è tutta una distesa di filari di avocado: da questo Stato messicano proviene quasi la metà dei frutti consumati in tutto il mondo. Ma dietro questo rilassante tappeto verde si nascondono racket e violenza. Quello che i locali hanno ribattezzato «oro verde», manna delle esportazioni messicane, è ormai diventato l’ultimo terreno di scontro dei narcos. Ad attrarre le gang criminali è il crescente giro d’affari legato a questo «superfood», quadruplicato nell’ultimo decennio: vale due miliardi e mezzo di dollari l’anno, per lo più legati alle esportazioni verso gli Usa, dove sono in crescita costante. Alla vigilia del Super Bowl, per dire, il flusso di avocado verso gli States ha toccato un nuovo record: 127 mila tonnellate. Del resto la salsa guacamole è un must ai party organizzati per il gran finale del campionato di football americano. La dipendenza Usa da questo frutto è arrivata a condizionare anche le scelte politiche di Washington: la Casa Bianca ha desistito (finora) dal raccogliere i soldi per il Muro con una tassa del 20% sui prodotti importati dal Messico, proprio per il conseguente aumento dei prezzi per i consumatori americani innanzitutto dell’avocado, diventato su Twitter il nuovo simbolo di chi non vuole il Muro. La produzione dunque aumenta — oltre un milione di tonnellate di avocado nel 2019, il 4% in più dell’anno precedente — per tenere il passo con le crescenti richieste d’oltre confine. Ma cresce anche la violenza e il timore dei 30 mila piccoli produttori messicani di questo Stato grande poco più di Piemonte e Lombardia insieme. Fino a poco tempo fa la principale fonte di guadagno dei gruppi criminali era l’estorsione. Ora le gang hanno iniziato ad attaccare i camion carichi di frutta destinati all’esportazione: ne vengono assaltati almeno 4 al giorno dei 12 che escono ogni ora da Michoacán. Il crollo dei prezzi degli oppiacei ha indotto molti cartelli a diversificare il loro business e a puntare sull’oro verde in modo «più deciso». Non bastano a contrastarli i Cuerpos de Seguridad Pública, l’esercito parastatale nato qualche anno fa per proteggere le coltivazioni. L’aumento dei crimini legati a questo super frutto ha trasformato alcune zone in aree off limits anche per la polizia: «Abbiamo cercato di lavorare con il governo per combattere contro questi criminali, ma persino loro hanno paura di avventurarsi in certe zone», spiega un produttore al Financial Times. La guerra in atto per aggiudicarsi questo business è sfociata in una strage lo scorso agosto, quando 19 persone sono state massacrate a Uruapan, il centro dell’industria dell’avocado nel Michoacán. Le autorità hanno inquadrato questo bagno di sangue nello scontro in atto tra il Cartello di Jalisco e i Viagras, l’ala armata della Nueva Familia. Un’escalation che ha messo a rischio le esportazioni negli Usa e fatto tremare la filiera messicana quando a finire nel mirino dei malavitosi è stato un gruppo di ispettori del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti incaricato di verificare la qualità dei raccolti: sempre ad agosto una banda armata avrebbe derubato il camion con a bordo i tecnici americani. Per tutta risposta l’agenzia Usa ha minacciato di sospendere l’invio degli ispettori. Una contromisura che ha fatto temere potesse preludere al blocco delle esportazioni. Americani senza guacamole e quasi tutti gli abitanti di un’intera regione messicana costretti, senza più lavoro, a fare i bagagli e a iniziare la lunga marcia verso il confine. Una prospettiva che spaventa tutti, tranne le gang.

Da "corriere.it" il 19 febbraio 2020. Un filmato di 11 minuti con immagini mai viste prima di «El Chapo» Guzman, subito dopo il suo arresto nel 2016. Nelle immagini si vede il leader del cartello di Sionaloa in carcere mentre si pulisce l’inchiostro usato per le impronte digitali. Una guardia intanto gli chiede le sue generalità e alla domanda: «Che lavoro fa?», il boss della droga risponde: «Il contadino». El Chapo, che nella clip indossa una tuta con il 3870, sta ora scontando la sua condanna a vita in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti. Il video integrale è stato pubblicato sul canale YouTube del sito di informazione Latinus

Messico, la figlia di El chapo sposa il rampollo del clan rivale. Il Dubbio il 4 Febbraio 2020. Messico nuova “pax” tra I cartelli dei narcos. Alejandrina Gisselle Guzman Salazar convola a nozze con Edgar Cazares giovane esponente del clan di Sinaloa. L’unione garantisce affari miliardari. Matrimonio dell’anno in Messico tra i figli di due potenti famiglie di narcotrafficanti rivali: Alejandrina Gisselle Guzman Salazar, rampolla nientemeno di ” El Chapo”, ed Edgar Cazares. Dalla loro unione fiabesca nasceranno sicuramente affari miliardari. Il matrimonio da favola è stato celebrato a porte chiuse e tra ingenti misure di sicurezza nella cattedrale di Culiacan, la più grande città dello Stato di Sinaloa, al centro dell’impero del cartello criminale delle famiglie degli sposi. Abito bianco da principessa per Alejandrina – ( il padre sta scontando l’ergastolo nel carcere di Supermax in Colorado)- arrivata in cattedrale a bordo di una macchina bianca antiproiettile. Il marito Edgar è il nipote di Blanca Margarita Cazares, nel 2007 finito nel mirino del Ministero del Tesoro americano. Lo sposo è noto anche per i suoi presunti collegamenti con Ismael Zambada Garcìa e Victor Emilio Cazares- Gastellum, potenti esponenti del cartello di Sinaloa. A celebrare il matrimonio, secondo i media locali, è stato un «amico di famiglia» dei Guzman. Dopo il rito cattolico, foto e video pubblicati sui social hanno mostrato un ricevimento sfarzoso con esibizione dei tipici mariachi, spettacolo pirotecnico, oltre a un mega diamante al dito della neo sposa, “l’anello della droga”, come ribattezzato dalla stampa locale, in riferimento all’unione dinastica tra i due potenti clan del narcotraffico. Il fatto che il matrimonio sia stato celebrato in una chiesa così importante ha indignato molti cittadini ma non ha sorpreso la maggior parte della popolazione. Il matrimonio tra Alejandrina e Edgar è giunto pochi giorni dopo la pubblicazione di un rapporto sulla criminalità in Messico, che registra un tasso di violenza record con 35.588 omicidi nel 2019, in aumento del 2,7% rispetto all’anno precedente. Emblematica del potere del cartello di Sinaloa è stata la vicenda della cattura, lo scorso ottobre, di uno dei 12 figli di El Chapo, Ovidio Guzman Lopez, che i soldati sono stati costretti a liberare dopo le minacce alle proprie famiglie mosse da uomini armati al servizio del boss del narcotraffico e il caos in città. Cartelli della droga e criminalità organizzata sono piaghe sociali profondamente radicate nel Paese e che finora gli interventi militari attuati dal governo, a partire dal 2006, non sono stati in grado di contrastare.

DAGONEWS il 10 febbraio 2020. Il cartello di Joaquin "El Chapo" Guzman avrebbe trasportato 10.000 chili di cocaina dalla Colombia al Messico su aerei cargo grazie a un piano approvato dalla politica che ha concesso al signore della droga di costruire un hangar all'aeroporto di Bogotá. Secondo quanto riferito, El Chapo ha usato l'hangar vicino all'aeroporto internazionale El Dorado dal 2006 al 2007 per spedire segretamente droga in Messico che veniva dirottata poi sugli Stati Uniti e nel resto del mondo. In un rapporto pubblicato il mese scorso, un ex funzionario del governo colombiano afferma che l'ex presidente del paese, Álvaro Uribe, ha dato il via libera per la costruzione dell'hangar e in cambio avrebbe ricevuto pietre preziose e un milione dal cartello di Sinaloa. Richard Maok, che ha prestato servizio come investigatore presso il dipartimento del tesoro della Colombia e attualmente vive in Canada, ha dichiarato di essere stato informato di recente del piano da un ex addetto alla sicurezza di una compagnia di trasporto aereo colombiana. Ha affermato che la droga veniva trasportata in aeroporto da gruppi paramilitari alleati di Uribe. In cambio, i cartelli fornivano loro pistole e armi. Uribe, che è stato presidente della Colombia dal 2002 al 2010, aveva legami con il cartello perché suo fratello era sposato con la sorella di Alex Cifuentes, un ex funzionario di alto rango nell'organizzazione di El Chapo, che ora sta scontando una pena detentiva negli Stati Uniti. Durante il processo a El Chapo, Cifuentes ha accusato che anche l'ex presidente del Messico Enrique Peña Nieto dichiarando che anche lui aveva ricevuto una grande somma di denaro dal cartello di El Chapo. Secondo i documenti trasmessi dall'informatore di Maok, che lavorava presso la Air Cargo Lines in Colombia, l'organizzazione criminale del boss usava l’hangar per contrabbandare la droga e gli aerei tornavano carichi di denaro. Secondo la testimonianza, l'elaborato schema riceveva il sostegno di paramilitari, di dirigenti della Air Cargo Lines, di funzionari dell'agenzia di transito aereo della Colombia, della Aerocivil e di un importante agente del dipartimento di polizia nazionale del paese. Presumibilmente Uribe è intervenuto per ordinare ai funzionari dell'aviazione di autorizzare i voli dell’aereo cargo a quattro motori DC-8, soprannominato "Aeropostal". Il cartello, con l'aiuto di un gruppo di trafficanti di droga noto come "Los Paisas", trasportava il carico fino a Sinaloa. La Colombia esporta l'80% della cocaina del mondo grazie a una rete in mano a Ismael “El Mayo”, Zambada e i tre figli di El Chapo. L'informatore ha detto a Maok che un agente americano dell’ICE, che lavorava anche per la DEA, sapeva dell'affare dell'organizzazione, ma non ha fatto nulla per fermarlo. La massiccia spedizione di droga, nell'attuale mercato degli Stati Uniti, avrebbe un valore stimato di 400 milioni di dollari. Alla fine il piano è stato bloccato quando i funzionari messicani hanno fermato un quinto volo da Bogotà con sei tonnellate e mezzo di cocaina. Uribe è oggetto di un'inchiesta dopo le accuse del senatore Ivan Cepeda, il quale ha affermato di avere testimonianze dirette che l’ex presidente era un fondatore di un gruppo paramilitare della sua provincia di origine durante i decenni di conflitto civile che hanno coinvolto forze governative, ribelli di sinistra e bande di destra. L'ex capo di stato ha negato tutte le accuse di legami con i paramilitari che sono accusati di traffico di droga e dell’uccisione di innocenti.

Messico, dopo El Chapo resta l'inferno: 4 omicidi all'ora. Le Iene News il 21 gennaio 2020. Negli ultimi 13 anni il Messico, sconvolto dalla guerra tra bande di Narcos per il controllo del traffico di droga, ha registrato oltre 34mila omicidi. Un inferno che vi abbiamo raccontato con il reportage di Cizco e Gaston Zama, una giornata di ordinario terrore per le strade di Acapulco. Come definire se non “un paese in guerra” quello in cui ogni ora vengono brutalmente ammazzate 4 persone? È il Messico dei cartelli della droga e delle organizzazioni paramilitari, di cui ci siamo occupati nel reportage di Cizco e Gaston Zama, che potete rivedere qui sopra. Il dato degli omicidi del 2019 è assolutamente sconvolgente: 34.582 morti ammazzati in un anno, una media di 95 cadaveri ogni singolo giorno. Un bilancio che, se rapportato agli ultimi 13 anni è ancora più incredibile: quasi 275mila morti. Lo scorso agosto, in questo articolo, vi abbiamo raccontato dell’ennesima strage per le strade del Messico, la più sanguinosa da quando alla guida del Paese c’è il presidente di sinistra Andrés López Obrador. Una mattanza, quella consumata contro un bar di Coatzacoalcos, nello stato di Veracruz, che ha provocato 26 morti e 11 feriti, e questo nonostante il capo supremo dei cartelli della droga “ El Chapo” Guzman sia da tempo all’ergastolo negli Stati Uniti, in Colorado, in una cella di 2 metri per 4. Joaquin "El Chapo" Guzman Loera è stato per 25 anni a capo del cartello di Sinaloa, una delle più grandi e violente organizzazioni messicane dedite al traffico di droga. È stato condannato per tutti e dieci i capi d’accusa per i quali era imputato: associazione a delinquere, criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, uso e traffico di armi da fuoco e vari omicidi. Arrestato in Messico nel 2016, un anno dopo una delle sue clamorose evasioni, era stato estradato nel 2017 negli Stati Uniti. Ma la mattanza dei Narcos, dopo il suo arresto, è continuata ancora più spietata, come ci hanno documentato Cizco e Gaston Zama raccontando una giornata ad Acapulco, dove omicidi, esecuzioni e scontri tra bande rivali sono all’ordine del giorno.

Homero, gettato  in un pozzo. Lottava per salvare le farfalle. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. In Messico chi difende la legalità diventa un bersaglio. Banditi, agenti corrotti, piccoli e grandi poteri lo considerano un ostacolo. Forse c’è questo dietro la misteriosa fine di Homero Gomez, 50 anni, un agronomo che si era dedicato alla protezione dell’ambiente e in particolare delle bellissime farfalle monarca. Il suo corpo è stato ritrovato, dopo lunghe ricerche, in un pozzo a El Soldado, municipio di Ocampo, stato di Michoacan. È qui che lo avevano visto per l’ultima volta il 13 gennaio dopo un incontro con alcune persone del posto. Il giorno seguente la famiglia ha lanciato l’allarme manifestando grande angoscia. Gomez era già stato oggetto di minacce, inoltre i parenti avevano ricevuto una falsa richiesta di riscatto da parte di qualche «sciacallo». Le autorità si sono mosse mettendo sotto controllo l’intero municipio, passo seguito da interrogatori estesi che hanno coinvolto civili e alcune decine di poliziotti locali. I congiunti della vittima hanno chiesto al magistrato di condurre il test del Dna in quanto il corpo è irriconoscibile e gli abiti non sono quelli che indossava l’attivista. Quanto alla causa del decesso si parla di asfissia per annegamento, un verdetto provvisorio. Homero era il paladino del «santuario» di El Rosario, un’area dove migrano ogni anno, in autunno, milioni di farfalle monarca provenienti dal Nord America. Finito l’inverno ripartono. La vegetazione e il clima sono favorevoli, infatti pur restando una specie a rischio sono cresciute. C’è l’habitat perfetto che negli ultimi tempi è stato messo in pericolo da una minaccia esterna. Umana. Network criminali connessi trafficano nel legno, abbattono boschi, creano spazi per la marijuana e dunque tendono a sfruttare il più possibile ogni angolo di vegetazione. Un fenomeno non limitato, purtroppo, solo a Michoacan. Anche nello stato di Chihuahua agiscono squadre di tagliatori, molto spesso giovanissimi, ingaggiati dal cartello di Juarez. In poche ore fanno tabula rasa, segano i «fusti» e li caricano su colonne di camion. Davanti a questo scempio Homero Gomez ha lanciato una campagna di mobilitazione che lo ha reso piuttosto noto, anche all’estero. Ma alla fine questa sua lotta coraggiosa potrebbe essersi trasformata in un contratto di morte sospeso sulla sua testa. Ora, per alcuni episodi è sempre bene lasciare aperta ogni ipotesi, tuttavia quanto è avvenuto nella riserva delle monarca rappresenta per gli investigatori una traccia da esplorare. Il contesto generale racconta molto. I trafficanti, da tempo, hanno diversificato le loro attività. Droga e migranti rappresentano i «prodotti»principali in quanto permettono guadagni importanti per via della domanda. In parallelo i narcos sono entrati nel campo minerario, nel furto di idrocarburi, nell’agricoltura. Pongono «tasse» su coltivazioni di avocados e lime, sfruttano gli scavi, procurano pesci rari (in via di estinzione) al goloso mercato cinese. Nulla sfugge al loro sistema. Che ovviamente finisce per scatenare battaglie tra gruppi concorrenti. La storia di Homero fa parte di qualcosa di più brutale e ampio. Nel 2019 gli omicidi in Messico sono stati 35.588 mentre un rapporto ufficiale ha dichiarato che i desaparecidos sono 61 mila, la maggior parte scomparsi dal 2006. E nei cieli messicani volano non solo le farfalle: negli ultimi sei anni sono stati scoperti 1.356 aerei della droga, una minuscola parte di una flotta gigantesca.

Usa-Messico, scoperto tunnel dei narcos di 1,3 km: è il più lungo mai trovato. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. Il tunnel più lungo scavato dai narcos al confine Messico-Usa: 1300 metri. Lo hanno individuato gli agenti statunitensi nel settore di Otay Mesa, a sud di San Diego, e partiva dalla vicina Tijuana. La galleria, scoperta dalla speciale Task force che agisce sulla frontiera, è piuttosto sofisticata. I trafficanti l’hanno dotata di rotaie per favorire i movimenti di carrellini, illuminazione, ascensore d’accesso, aerazione. Una tecnica consolidata nel tempo. I cartelli hanno infatti creato team di scavatori e tecnici capaci di realizzare strutture complesse. Secondo i dati forniti dalle autorità il passaggio “correva” ad una profondità media di 21 metri, con un’altezza interna di circa 1.70. Inoltre aveva una derivazione che tuttavia non aveva uno sbocco in superficie. L’area di Otay Mesa, in California, è una delle più utilizzate dai contrabbandieri che si affidano ai tunnel. Per diverse ragioni: 1. Ci sono molti capannoni industriali sui due lati del muro che possono mimetizzare ingressi e uscite. 2. Essendo una zona industriale il movimento di mezzi e il rumore di apparati di scavo solleva meno sospetti. 3. In passato si è anche detto che la vicinanza dell’aeroporto di Tijuana potesse coprire il lavoro dei minatori. 4. La Baja California è uno dei principali corridoi della droga destinata al mercato americano ed esistono dagli anni ’90 network criminali che hanno investito molto nelle gallerie. L’altra regione dove sono stati spesso localizzati dei tunnel è quella di Nogales, in Arizona. Qui il compito dei banditi è facilitato dal tipo di terreno e dalla contiguità dei centri abitati, divisi dalla palizzata.

Messico-Usa, scoperto il tunnel da record dei narcos. E' lungo più di 1.300 metri e alto 3: per le autorità Usa veniva usato per contrabbandare droga e immigrati. Daniele Mastrogiacomo il 30 gennaio 2020 su La Repubblica. È il tunnel più lungo nella altrettanto lunga storia del traffico clandestino tra Usa e Messico. Solido, sofisticato, munito di sistemi di areazione e di drenaggio dell'acqua piovana per evitare gli allagamenti, quello realizzato tra un sito industriale di Tijuana e un quartiere periferico di San Diego ha battuto tutti i record. I funzionari della Border protection che ispezionano regolarmente i 3.145 chilometri del confine meridionale statunitense sono rimasti colpiti dai lavori di ingegneria trovati all'interno della galleria. Si estendeva per 1.313 metri, alto 3 e largo 1,5, aveva anche un binario dove scorrevano probabilmente dei piccoli carrelli forse persino motorizzati. La scoperta è avvenuta nell'agosto scorso ma solo ieri la dogana Usa ha deciso di renderlo noto e farlo visitare ad alcuni cronisti e filmaker che hanno potuto registrare alcune immagini interne. Il tunnel è intatto, sorretto da diverse impalcature ma rafforzato poi da cemento nelle volte. Una struttura solida e complessa, qualcosa che deve essere stato progettato da professionisti ingaggiati dai Cartelli. Secondo le autorità statunitensi veniva usato per contrabbandare ogni tipo di merce, droga e immigrati in testa. Ma non si esclude che sia servito anche per far passare da un lato all'altro delle frontiere sicari e boss di diverse gang ricercati. Non si sa chi l'abbia costruito e quando. I sospetti puntano sul Cartello di Sinaloa che domina ancora gli Stati del nord ovest del Messico, quelli che si affacciano sul Pacifico e la Bassa California. La stessa struttura della galleria ricorda del resto quella realizzata dagli uomini del Chapo Guzmán, adesso in carcere a Manhattan dopo la condanna all'ergastolo. La prima volta che evase, il re della droga mondiale uscì nascosto nel carrello della biancheria sporca. Così, almeno, fu la versione ufficiale anche se si disse in seguito che varcò il portone del penitenziario di Altiplano travestito da guardia mischiato ad altri agenti mentre c'era il cambio del turno. La seconda evasione fu più clamorosa: nonostante fosse in isolamento, non potesse parlare con nessuno, nemmeno con gli agenti penitenziari, vigilato da camere di sorveglianza 24 ore al giorno, el Chapo convinse una guardia a portare all'esterno un biglietto in cui ordinava la costruzione di un tunnel. Gli uomini del Cartello ingaggiarono un ingegnere che lo progettò e seguì personalmente i lavori. La galleria partiva da una vecchia casa in disuso piazzata in mezzo alla landa deserta che sorgeva a meno di un chilometro dal penitenziario. Sbucava proprio sotto la tazza del bagno della cella del boss. El Chapo si infilò nel cunicolo e a bordo di una moto piazzata sopra il carello che scorreva su due binari prese il largo. Tutti avevano sentito i rumori degli scavi, anche chi lo controllava da vicino. La sua fuga era stata agevolata dagli stessi che lo avevano protetto così a lungo. Lasciarlo libero serviva a ricatturarlo a beneficio di chi lo avrebbe fatto. E' andata così. El Chapo è stato ripreso ed estradato negli Usa. Chi ha gestito tutta l'operazione ha fatto un balzo al vertice delle Istituzioni messicane. Ma questa è un'altra storia che puntualmente si minaccia di raccontare in un'aula di giustizia americana.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il Doppio Stato.

Le confessioni dei pentiti e i dubbi sullo Stato. Laura Rossi il 17 luglio 2020 su Ferrara Italia. “Non si può combattere la mafia se non vi è l’impegno generale dello Stato, di tutto lo Stato non delle deleghe… Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso, e poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. (Paolo Borsellino)

Il giudice Paolo Borsellino doveva morire nel 1991 per ordine di Francesco Messina Denaro, padre di quel Matteo Messina Denaro, e su incarico di Totò Riina; così raccontò il "pentito di mafia" Vincenzo Calcara, durante un colloquio in carcere al giudice Borsellino: “Un giorno, nel settembre 1991, sono stato convocato dal capo assoluto della mia famiglia di Trapani, Francesco Messina Denaro, dove mi spiegarono di tenermi pronto perché era stata decisa la morte del giudice. Era un grande onore per me, avrei fatto strada dentro cosa nostra. Tutto viene programmato, devo ucciderlo con un fucile di precisione, “di Borsellino non deve rimanere niente, neanche le idee”, precisò il capo-mandante”. Invece succede un imprevisto, il "killer" di Castelvetrano non può adempiere alla sua missione perché viene arrestato per traffico internazionale di droga. Questo arresto e il rischio di essere ucciso lo avvicinano alla sua vittima, si pente, cambia idea (così dice lui) e si rifiuta di uccidere Borsellino, forse perché si rende conto che una volta eliminato il giudice anch’egli avrebbe fatto la stessa fine. Fu così che, dal carcere, avverte nel giugno 1992 il giudice che le cosche avevano fatto ‘rifornimento’ di esplosivo e che il carico era arrivato a destinazione. Purtroppo, come sappiamo, un mese dopo, il 19 luglio, avvenne l’esplosione in via D’ Amelio, esattamente dopo 57 giorni dalla strage di Capaci. Non fu l’unico avvertimento, avvenne un fatto inaccettabile, incredibile: il 14 luglio 1992 (cinque giorni prima dell’attentato), un calabrese già appartenente alla ‘ndrangheta, rifugiatosi in un paese del nord Europa, avverte il console italiano del luogo che si sta tramando un attentato a Palermo contro il giudice Borsellino. Immediatamente viene comunicata a Roma l’informazione, però questa verrà trasmessa a Palermo solamente il 25 luglio, sei giorni dopo la strage di via D’Amelio! Questo terribile fatto starebbe a significare che non si voleva impedire la strage?

Ritorniamo al "pentito" Vincenzo Calcara che parla come un fiume in piena, e sono in molti a chiedersi se sia credibile oppure sia un millantatore. Dagli inquirenti viene indicato come un “pentito” minore di cosa nostra, e in diverse udienze è scritto che egli sarebbe incline alla menzogna; vero oppure no? Una cosa certa è che il Calcara e il giudice Borsellino si incontrarono spesso nel carcere dove era detenuto, giorni e giorni di confessioni che provocarono centinaia di arresti di mafiosi e di colletti bianchi. A questo proposito egli afferma: “Tramite le mie dichiarazioni fatte al giudice Borsellino, e in seguito ad altri magistrati, sono stati condannati tantissimi uomini di cosa nostra, compresi l’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino e Francesco Messina Denaro”. “Sapete benissimo”, aggiunge il pentito, “che il giudice Borsellino ha creduto in me, sapete perfettamente che ho fatto di tutto per salvargli la vita, mettendolo a conoscenza del piano per ucciderlo e siete anche a conoscenza dello straordinario rapporto umano che si era creato tra noi, e in seguito con tutta la sua famiglia.” Infatti sembrerebbe, e sottolineo sembrerebbe, che la stessa famiglia Borsellino avesse sostenuto anche le spese legali del ‘pentito’, oltre a fornire un aiuto economico alle figlie, dopo la morte del giudice. Vi sarebbe da aggiungere che il ‘Memoriale’ di Calcara, dove racconta tutta la (sua) verità nei dettagli, porta nella prefazione la firma di Salvatore Borsellino, fratello del giudice, e la presentazione è stata curata da Manfredi Borsellino, figlio del giudice, alla fiera del libro di Torino di qualche anno fa.

Il pentito Vincenzo Calcara, dopo aver vissuto per anni in luoghi nascosti, senza identità per il timore di ritorsioni mafiose, disse: “mi sono stancato, ho voluto riabbracciare la mia famiglia. Fino al 1998 sono stato sottoposto al programma di protezione dei collaboratori di giustizia, ma ora non più!” La veridicità del pentito ha fatto e continua a far discutere anche negli ambienti delle forze di polizia e carabinieri, dove considerano alcuni racconti molto “fantasiosi”. Sarebbero in molti a sostenere che Falcone e Borsellino sarebbero stati uccisi per la Trattativa Stato-Mafia dove avrebbero scoperto le trame segrete dello Stato, e proprio per questo avrebbero dovuto morire; vero o falso?

Al termine dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, ha accusato: “Penso ci sia una enorme difficoltà a far emergere la verità, non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là delle proprie discolpe, a capire cosa sia successo. Sembra che il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello Spirito Santo: ci si riempie la bocca con parola “pool” ma io di “pool” non ne ho visto nemmeno l’ombra, però quando ai magistrati si chiede come mai non fossero a conoscenza dei colloqui investigativi, cadono dalle nuvole!” Aggiungo alcuni contenuti del libro-testamento di Agnese Borsellino, la moglie del giudice scomparsa alcuni anni fa, dove non mancano particolari inediti sui giorni successivi alla strage del 19 luglio 1992. “In quei giorni ero contesa da prefetti, generali ed alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande: volevano capire se io sapevo, se Paolo mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua uccisione. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime”.

Marco Travaglio per "il Fatto quotidiano” il 12 febbraio 2020. Piazza Fontana, delitto Calabresi, delitto Moro, strage di Bologna, Capaci e via D' Amelio, bombe di Roma, Firenze e Milano, trattativa Stato-mafia. A dispetto della visione unitaria di pochi magistrati, giornalisti e storici squalificati come complottisti e acchiappa-teoremi, la narrazione mainstream ha sempre respinto la teoria del "doppio Stato", spacciando le varie tappe della strategia della tensione di destra e di sinistra come una serie di fatti isolati e slegati, senz'alcuna regìa superiore. Nel 2009 il presidente Giorgio Napolitano, lo stesso che da ministro dell' Interno si era vantato di non "aprire gli armadi" del Viminale, impose urbi et orbi la linea negazionista, intimando di smetterla con il "fantomatico doppio Stato". Come se il capo di uno Stato democratico potesse mettere la camicia di forza alla ricerca storica e alle indagini giudiziarie e giornalistiche. Infatti poi tentò di deviare le indagini palermitane sulla Trattativa, colpevoli di smascherare il doppio Stato che combatteva la mafia e intanto trescava con essa. Ora l' inchiesta di Bologna sulla strage spalanca la scatola nera del doppio Stato e dipinge un quadro sconvolgente che, se reggerà al processo, riscriverà gli ultimi 50 anni di storia: le stesse strutture statali, le stesse organizzazioni eversive e gli stessi massoni pilotavano direttamente od orientavano a distanza (anche a loro insaputa) terroristi e mafiosi, usandoli come manovalanza a buon mercato per disegni concepiti altrove: per affogare nel sangue e nella restaurazione ogni vagito di cambiamento. Nel 1969 Piazza Fontana contro il primo centrosinistra e il '68. Nel 1978-'80 via Fani e Bologna contro l' intesa Moro-Berlinguer. Nel 1992- '93 le stragi e poi FI contro la rivoluzione legalitaria dei maxiprocessi alla mafia e a Tangentopoli. Gli indagati di Bologna sono impresari della violenza, della paura e del gattopardismo che collegano mezzo secolo di "destabilizzazioni stabilizzanti", ordite non per rovesciare l' ordine costituito, ma per imbalsamarlo e vaccinarlo da ogni rischio di cambiamento. Licio Gelli debutta nel 1944 come doppiogiochista fra repubblichini, Alleati e partigiani. Nel '70 è acceleratore e poi frenatore del golpe Borghese. Capo della loggia P2 che raduna il Gotha di politica, 007, magistratura, Arma, Gdf e giornalismo. Estensore del Piano di Rinascita poi copiato da Craxi e B., depistatore del caso Moro e della strage di Bologna (di cui ora risulta il mandante). Nel '93 è in contatto coi mafiosi e i "neri" che, sotto le bombe, preparano l' entrata in politica di "Leghe meridionali" poi rimpiazzate da Forza Italia del confratello B. e del mafioso Dell' Utri. Sappiamo molto anche di Federico Umberto D' Amato, capo dell' Ufficio Affari Riservati del Viminale che nel '69 fabbrica la velina sulla pista anarchica di Piazza Fontana. E, dopo il delitto Calabresi, va più volte a trovare il mandante Adriano Sofri per commissionargli un altro "mazzetto di omicidi" (l' ha raccontato Sofri, senza spiegare quali omicidi e da cosa nascesse tanta confidenza). Personaggio trasversale, tanto da comparire nelle liste P2 ed essere intimo amico del principe Caracciolo, editore con Scalfari e De Benedetti del gruppo Espresso (e Repubblica) che per anni gli affidò sotto pseudonimo la rubrica di gastronomia. Ora i Pg di Bologna lo additano fra i mandanti della strage alla stazione. Poi c' è Paolo Bellini, altro uomo-cerniera tra delitti, stragi e misteri: estremista nero di Avanguardia nazionale, esperto d' arte, confidente del Sismi, fuggitivo in Brasile sotto falso nome, arrestato nel 1999 quando confessa dieci omicidi per conto della 'ndrangheta più quello misterioso di Alceste Campanile (militante di Lotta continua). Un filmato amatoriale lo immortalerebbe sulla scena della strage di Bologna e ne farebbe il quarto esecutore materiale, insieme ai Nar Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini. A fine 1991, quando Riina riunisce la Cupola a Enna per pianificare la strategia politico-stragista, anche lui si trova miracolosamente a Enna. Il 6 marzo '92 un altro neofascista, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini su Bologna, scrive dal carcere a un giudice per preannunciargli "nel periodo marzo-luglio fatti intesi a destabilizzare l' ordine pubblico", fra cui "sequestro ed eventuale 'omicidio' di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale 'omicidio' del futuro presidente della Repubblica". Sette giorni dopo Cosa Nostra uccide Lima e prepara altri delitti eccellenti ai danni del premier Andreotti, candidato al Quirinale, e dei suoi ministri Mannino, Martelli e Andò. Il 23 maggio, la strage di Capaci. I carabinieri del Ros trattano con Ciancimino e intanto Bellini incontra uno dei killer di Capaci, Nino Gioè, per negoziare con i carabinieri del Nucleo artistico la riconsegna di opere d' arte rubate dalla malavita in cambio di alleggerimenti del 41-bis: trattativa interrotta per lo strano "suicidio" di Gioè in carcere dopo la visita di strani 007. Manca il caso Moro: a Bologna è indagato pure Domenico Catracchia, amministratore di un noto condominio di via Gradoli a Roma, per falsa testimonianza sui suoi rapporti con Vincenzo Parisi, ex capo del Sisde e poi della Polizia, anche lui coinvolto nella Trattativa. In via Gradoli le Br avevano un covo strategico durante il sequestro Moro, emerso da una "seduta spiritica" svelata da Prodi a Cossiga e ignorata dalle forze dell' ordine, che andarono a cercarlo nell' omonimo comune della provincia. E in via Gradoli anche i terroristi neri dei Nar avevano due covi, affittati dalle stesse immobiliari legate al Sisde che ospitavano i rossi. Tutte coincidenze, si capisce. Pur di non parlare di doppio Stato. E dimenticare che un piduista è stato, negli ultimi 25 anni, il premier più longevo della storia repubblicana.

·         In cerca di “Iddu”.

Sulle tracce del fantasma di Messina Denaro. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 9 novembre 2020. Il capomafia più ricercato d’Europa è protagonista di “U siccu” che esce dal 7 novembre in edicola con Repubblica. C'è un mafioso in Sicilia, ricercato da 27 anni, che non ha mai chiesto il pizzo. Piuttosto, ha sempre offerto liquidità agli imprenditori. Si chiama Matteo Messina Denaro, è il padrino di Castelvetrano condannato all’ergastolo per le stragi del ’92-’93. Non è certo un filantropo, ha solo previsto per tempo l’accelerazione della crisi economica. E ha lanciato il suo abbraccio fatale agli operatori economici in difficoltà: acquisisce società, lancia sempre nuovi prestanome arrivati dal nulla, investe, ricicla. «In periodo di Covid, questa forza economica è capace di inquinare ancora di più in maniera silenziosa e invisibile l’economia legale del Paese e la politica», racconta Lirio Abbate, il vice direttore dell’Espresso nel suo ultimo libro dedicato al criminale più ricercato d’Italia, si intitola U siccu. Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi, adesso in uscita con Repubblica e l’Espresso (a 12,90 euro in più). Un’inchiesta giornalistica vecchio stile nel cuore della Sicilia, dove Abbate è cresciuto raccontando l’ascesa dei Corleonesi di Totò Riina, le stragi e le complicità, per questo vive da anni sotto scorta. U siccu in dialetto vuole “molto magro”. «Ha un occhio leggermente strabico, porta occhiali a goccia, fuma, non gradisce fare né l’eremita, né il pezzente, gli piacciono le donne e lui piace a loro». È il ritratto di un fantasma, oggi ha 58 anni, dal giugno 1993 sembra diventato imprendibile nonostante gli diano la caccia i migliori investigatori di polizia e carabinieri, coordinati dalla procura antimafia di Palermo. Abbate ha ritrovato il primo (e unico) verbale d’interrogatorio del boss, risale al 30 giugno 1988. «Sono il quarto dei sei figli di Messina Denaro Francesco – disse ai poliziotti del commissariato di Castelvetrano – l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi. Lui è stato campiere presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti – spiegò – e tre anni fa sono subentrato io». Quel giovanotto dall’aria spavalda che aveva iniziato a lavorare per la famiglia del futuro sottosegretario all’Interno Tonino D’Alì ha ereditato molto dal padre padrino: soprattutto, tante relazioni che sono diventate il vero segreto della sua latitanza. Perché oggi Messina Denaro non ha più sicari a disposizione, la sua forza è nei misteri che ha attraversato. Quelli attorno alle stragi Falcone e Borsellino, alle bombe di Roma, Milano e Firenze, quelli sulla trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia nei giorni in cui l’Italia era insanguinata. Messina Denaro era il pupillo di Riina, eppure negli ultimi anni il capo dei capi di Cosa nostra si lamentava: «Se ci fosse suo padre, buonanima, perché suo padre era un bravo cristiano, u zu Ciccio era un orologio… questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare – Abbate ripercorre le intercettazioni della Dia nel carcere di Opera – È stato quattro o cinque anni con me. Impara bene, minchia, e poi tutto in una volta...». All’improvviso, dopo la stagione delle stragi, l’unico erede della dinastia Corleonese rimasto in libertà sparisce. E da killer diventa manager. Negli ultimi anni, magistrati e forze dell’ordine hanno provato a fargli terra bruciata sequestrando milioni di euro agli imprenditori del suo “cerchio magico”, impegnati nei settori più diversi, dalla grande distribuzione all’energia eolica. Ma lui è riuscito sempre a farla franca. Blitz sono falliti all’ultimo momento, notizie sulle indagini sono filtrate, talpe si sono mosse. I segreti della Primula rossa di Castelvetrano restano merce di scambio e di ricatto. Chi protegge ancora Messina Denaro? E chissà dove si nasconde. Le microspie e le telecamere che scrutano il ventre della Sicilia non hanno più tracce di lui da anni. «Il punto di chiusura di questa storia – scrive Abbate – è che un Paese democratico non può consentire a un uomo responsabile di omicidi e stragi di continuare a circolare, va arrestato al più presto. Oggi, è anche più pericoloso di prima». Soprattutto perché rappresenta un simbolo per quella Cosa nostra che non sembra affatto fiaccata da arresti, processi e sequestri. Il “metodo” Messina Denaro è già diventato un percorso per la riorganizzazione mafiosa. Meno controllo del territorio e più grandi affari. Con benefici per tutti i complici in causa, sul versante economico e politico. La mafia nell’epoca della pandemia è sempre più un’agenzia di servizi.

Un pentito riapre il mistero dell’attentato a Di Matteo. “Messina Denaro mandò un messaggio a Palermo”. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 10 novembre 2020. Da circa un mese il boss Alfredo Geraci parla con i pm, ha raccontato di aver procurato l’appartamento dove si tenne il summit per discutere del progetto sollecitato dal superlatitante nel 2012. E’ uno dei misteri di mafia più recenti, un progetto di attentato nei confronti del pm Nino Di Matteo, uno dei magistrati dell'inchiesta "Trattativa Stato-mafia", oggi componente del Consiglio superiore della magistratura. “La richiesta arrivò da Messina Denaro, nel dicembre 2012 - ha svelato alcuni anni fa il boss pentito Vito Galatolo – ci mobilitammo per comprare l’esplosivo”. Ora, arriva un altro tassello importante per provare a ricostruire questa storia: un esattore del pizzo del clan Porta Nuova, Alfredo Geraci, sta collaborando da un mese con i magistrati della procura di Palermo, ha raccontato che fu lui a procurare l’appartamento di Ballarò per quel summit in cui si discusse dell’attentato a Di Matteo. Lui non sa di cosa si parlò, però poi il suo capo, Alessandro D’Ambrogio, gli avrebbe fatto delle confidenze importanti. Proprio sul fatto che Messina Denaro aveva chiesto qualcosa ai mafiosi di Palermo. Le nuove rivelazioni sono coperte da un rigido segreto istruttorio. I pubblici ministeri Amelia Luise e Francesca Mazzocco hanno depositato in un processo solo un verbale di Geraci, quello in cui si parla delle estorsioni che soffocavano i commercianti e i gestori dei locali del centro di Palermo. Fra queste carte, c'è un riferimento all’appartamento del summit. “Un giorno mi chiamò Alessandro D’Ambrogio, il capo del mio mandamento – ha spiegato l’ex boss – mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare una riunione. All’incontro c’erano Vito Galatolo, che scendeva da Venezia; Tonino Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova e referente di D’Ambrogio; Tonino Lauricella, responsabile della famiglia di Villabate; c’era anche Giuseppe Fricano. Misi a disposizione la casa della sorella di mio suocero, un appartamento al secondo piano a Ballarò. Io rimasi giù – ha spiegato ancora Geraci – per aprire il portoncino a chi arrivava”. Galatolo aveva detto che a portare il messaggio di Messina Denaro era stato il boss di San Lorenzo Girolamo Biondino. L'ex boss dell'Acquasanta aveva parlato anche di 150 chili di esplosivo acquistato in Calabria, esplosivo che è stato a lungo cercato dagli investigatori fra Palermo e Monreale. Un altro boss pentito di Porta Nuova, Francesco Chiarello, anche lui un tempo esattore del pizzo, ha detto di aver saputo che il carico era stato spostato in un posto sicuro. Le indagini della procura di Caltanissetta sul progetto di attentato si sono chiuse con un’archiviazione, nonostante i riscontri trovati alla parole di Galatolo. Che ha detto chiaramente: “Messina Denaro chiedeva l’attentato perché Di Matteo sia era spinto troppo avanti”. Il superlatitante metteva a disposizione un esperto di esplosivi per portare a termine l'azione. I boss palermitani avevano pensato di piazzare la carica davanti al palazzo di giustizia di Palermo, o davanti all’abitazione del magistrato. L’arresto di D’Ambrogio rallentò il piano. Poi nel 2014 Galatolo chiese di parlare con Di Matteo, gli svelò il progetto. E decise di iniziare a collaborare con la giustizia. Ora, è il momento di Geraci, che è stato arrestato a fine settembre dalla sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo dopo una latitanza durata due mesi. “Ho deciso di cambiare vita”, ha detto ai magistrati. E ha cominciato a parlare degli ultimi segreti di Cosa nostra palermitana. Che sono anche i segreti dell'imprendibile Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 per scontare l'ergastolo per le stragi.

Messina Denaro condannato per le stragi Falcone e Borsellino: ha appoggiato Riina. I giudici di Caltanissetta hanno inflitto l’ergastolo a U siccu, boss di Trapani, latitante dal 1993, perché accusato di essere il mandante degli attentati a Palermo del 1992 per il quale non era stato mai processato. Lirio Abbate su L'Espresso il 21 ottobre 2020. Il latitante Matteo Messina Denareo, “ù siccu”, è stragista e affarista, come lo definiva negli ultimi anni Salvatore Riina, prima di finire i suoi giorni in carcere. Negli ultimi venticinque anni il capo della mafia trapanese ha smesso i panni dell’assassino ed ha indossato quelli dell’uomo d’affari. Coperto dalla sua invisibilità iniziata nel 1993, oggi è il latitante più ricercato d’Europa e il mafioso più ricco di Cosa nostra. I giudici di Caltanissetta adesso lo hanno condannato all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti delle stragi del 1992, quelle in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questi fatti il latitante trapanese non era stato mai processato. Questo processo, sostenuto in aula dal pm Gabriele Paci, è diverso dagli altri che si sono svolti in passato e che riguardavano i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Per portare sotto inchiesta il capo della mafia di Trapani in questi ultimi anni sono stati raccolti nuovi temi d’indagine, e nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, quindi nuove prove che al tempo degli altri processi non c’erano. Durante il dibattimento l’imputato è stato ben difeso da un avvocato d’ufficio, e sono stati analizzati dall’accusa tanti aspetti del latitante, che è stato descritto come l’ombra di Salvatore Riina. «La mafia trapanese» ha spiegato ai magistrati l’ex capomafia Antonino Giuffrè «è la più forte, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e la massoneria». L’inizio della stagione stragista dei primi anni Novanta, che ha drammaticamente segnato la nostra storia, è stato deciso anche grazie al benestare di Matteo Messina Denaro, che non ha ostacolato la linea di Riina, appoggiandolo nelle sue scelte terroristiche, e restando a lungo nell’ombra. In questo modo ha pure evitato in passato di essere annoverato tra i mandanti degli attentati del 1992. Di questo mosaico mafioso mancava infatti il pezzo più importante, e cioè il ruolo del boss trapanese che ha detto sempre di sì a Riina. Uno “yes man” che ha appoggiato tutte le follie del capo di Cosa nostra, compresa l’organizzazione che ha messo in ginocchio l’Italia per oltre un ventennio. Era la guerra allo Stato e Matteo Messina Denaro conosceva ogni piano, ogni azione, ogni segreto. Perché il mafioso trapanese è cresciuto sulle ginocchia di Riina, tanto da diventare uno dei “corleonesi” più fidati. E oggi, che continua a essere un mafioso libero di circolare, porta con sé i segreti del capo dei capi. “U siccu” non si è opposto alle uccisioni di Falcone e Borsellino e non ha ostacolato le bombe che sono arrivate nel 1993 nel continente, dove personalmente si è attivato per farle piazzare ai suoi “picciotti”. Ha fatto parte di un unico progetto che, alle vittime degli attentati di Palermo, legava i morti e le distruzioni di Firenze, Roma e Milano. Oggi si può dire che proprio la prospettiva di Matteo Messina Denaro ci permette di avere una visione più ampia e matura di quegli accadimenti. Giuffrè ha raccontato di una riunione della commissione provinciale palermitana di Cosa nostra a dicembre del 1991, finalizzata, tra l’altro, allo scambio degli auguri di Natale tra i mafiosi. È l’occasione in cui viene dato il via al programma stragista. E si deve alla testimonianza dei collaboratori di giustizia Sinacori, Brusca, Geraci e La Barbera il riferimento al ruolo dei trapanesi nella fase deliberativa, organizzativa ed esecutiva. Grazie a questi collaboratori solo adesso sappiamo che all’interno dell’organizzazione esisteva una «Cosa nostra nella Cosa nostra» o, come la chiamava Riina, la «Supercosa». Si trattava di uno zoccolo duro alle dirette dipendenze del capo dei capi che ne supportava ogni decisione o strategia. E di questo cerchio magico della “supercosa” faceva parte “u siccu”. Nella riunione in questione Riina esordì dicendo: «Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità». Non c’era altro da aggiungere, i presenti conoscevano benissimo il tragico significato di quelle parole. Racconta Giuffrè che calò il gelo nella stanza e che nessuno osò profferire parola in quanto «eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti». La sentenza della Cassazione sul maxiprocesso non era ancora stata emessa, ma i boss ne avevano percepito l’esito infausto, che non solo minava le basi dell’esistenza stessa di Cosa nostra (la quale vedeva i suoi vertici condannati all’ergastolo e costretti, per evitare il carcere, a darsi alla latitanza), ma suonava anche come uno schiaffo alla strategia di Riina, che aveva sino ad allora sostenuto che la situazione era sotto controllo. L’onta da lavare, per il capo dei capi, era così grande da non temere le drastiche reazioni dello Stato per i suoi uomini colpiti e le vittime innocenti: «Chiddu chi veni nì pigghiamu». Quello che viene ci prendiamo. Erano pronti a tutto. E così nel piano stragista corleonese, Matteo Messina Denaro ha avuto un ruolo importante: prima è stato al fianco di Riina, appoggiando la tattica degli attentati del 1992, e poi, dopo l’arresto del capo dei capi, ha tenuto una linea dura e aggressiva. È stato lui a spiegare a Sinacori che le stragi di Palermo rientravano in un progetto unitario, mentre diversi erano gli obiettivi per le bombe del 1993: «La strategia degli attentati era finalizzata a far scendere a patti lo Stato, ma non so dire se fossero state intavolate trattative di alcun genere. So soltanto che Matteo si rendeva perfettamente conto che non vi era futuro e che erano stati trascinati in una sorta di vicolo cieco da Riina». C’è un’altra riunione decisiva per comprendere come sono andate le cose. Si svolse il primo aprile 1993 all’ombra dell’Hotel Zagarella a Bagheria, e ce ne parla ancora Sinacori. Da questo incontro appare chiaro che Cosa nostra aveva due anime, quella moderata che faceva capo a Giovanni Brusca, contraria al proseguimento della stagione stragista, e quella più aggressiva capitanata da Bagarella, Graviano e Messina Denaro, che si dichiaravano oltranzisti e credevano che la strategia degli attentati fosse «l’unica che poteva mantenere alta la dignità dei corleonesi». Binu Provenzano, dopo aver incontrato Bagarella, sposò la linea dura, «a condizione che gli attentati fossero fatti al Nord e diede il via». E il cognato di Riina, in modo sprezzante, gli rispose: «Se vossia non è d’accordo, se ne vada in giro con un bel cartello al collo con la scritta: io con le stragi non c’entro». U zu Binu, a quel tempo, aveva dovuto incassare: non poteva certo competere con la potenza militare degli «altri» corleonesi. La morte di Riina a novembre 2017 non ha avuto come conseguenza un’evidente successione al trono di Cosa nostra, che appare sempre più un’organizzazione criminale segreta con due anime. Una conservatrice, radicata nei paesi della provincia, che assicurano la forza della tradizione, e un’altra più «moderna», insediata nelle città capoluogo come Palermo, Catania, Trapani e Messina, che rappresentano un modello più avanzato, in linea con le mafie moderne. Due anime diverse, dunque, che convivono e permettono che il richiamo al rassicurante e solido passato coesista con la necessità di stare al passo con il futuro. E Matteo Messina Denaro, in questo scenario, interpreta il ruolo di boss in modo nuovo. Il suo è un modello evolutivo, in cui i vertici si allontanano dagli affari «piccoli e sporchi» della base per avvicinarsi ai grandi interessi dell’economia nazionale. Il diffuso sentimento di fedeltà nei suoi confronti da parte di molti mafiosi si contrappone a segnali di insofferenza da parte di alcuni affiliati trapanesi a Cosa nostra, preoccupati per una gestione della catena di comando difficoltosa a causa della latitanza. Visto che “u siccu” non assume ufficialmente il ruolo di capo della nuova cupola mafiosa – anzi, come svelano le intercettazioni, non vuole alcuna responsabilità di vertice nella gerarchia interna all’organizzazione e per questo se ne sta distante – conviene, per analizzare meglio come è strutturata Cosa nostra dopo la morte di Riina, guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti dei detenuti rinchiusi nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai 41 bis, osservare da vicino la vita carceraria, quali tipi di rapporti si sono creati. In base ai loro movimenti, ai loro saluti, ai segnali che si scambiano, è possibile ridisegnare la mappa delle famiglie che stanno fuori. Perché le carceri sono lo specchio della mafia che opera all’esterno. Pur essendo un ambiente intrinsecamente chiuso, infatti, la prigione non è affatto impermeabile alle dinamiche che determinano il corso degli eventi al di fuori delle loro mura: direttive politiche, quindi, ma anche cambi di ruolo ai vertici delle organizzazioni criminali. Tutto si riverbera all’interno delle mura del carcere. E oggi il 41bis sembra non essere più così impermeabile come sulla carta dovrebbe esserlo. Dal carcere trapelano gli ordini dei boss e i boss approfittano di molte insenature giuridiche che via via si sono create per ottenere benefici e far scivolare all’esterno messaggi e segnali che hanno un solo obiettivo: quello di trasmettere la loro potenza. Oggi per fermare Matteo Messina Denaro, il boss che da stragista si è trasformato in affarista, occorre conoscerlo, capire come opera, quali reti politiche, imprenditoriali, criminali lavorano per lui o con lui. Occorre ricomporre il mosaico che raffigura u Siccu, l’ultimo dei corleonesi, il latitante più ricercato d’Europa, per comprendere come questo mafioso è oggi molto pericoloso, non solo perché è un assassino, ma perché è nelle condizioni finanziarie di inquinare l’economia legale del nostro Paese e distruggere mercati e affari, favorendo solo le sue casse, con denaro sporco. Per questo è necessario che venga arrestato il prima possibile.

I terribili 26 anni di Matteo Messina Denaro. Dalla strage di Capaci all'uccisione del piccolo Di Matteo, dalla nascita della figlia agli arresti di parenti e fiancheggiatori, le tappe della vita criminale del boss trapanese, latitante dal 1993. Lirio Abbate e Giovanni Tizian su L'Espresso il 23 marzo 2018.

MAGGIO/LUGLIO 1992. È una delle “menti” delle stragi di Falcone e Borsellino. Matteo Messina Denaro «partecipava e ideava un programma criminale teso a destabilizzare le istituzioni e concorreva a deliberare l’esecuzione del piano di uccisione del dottor Falcone». Non solo. «Entrava a far parte di un gruppo riservato creato da Riina e alle sue dirette dipendenze» per organizzare a Roma un attentato che aveva come obiettivi Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli e il conduttore televisivo Maurizio Costanzo. Il boss partecipa alla “missione” del commando che doveva assassinare Falcone a Roma, azione che la mafia voleva mettere a segno alla fine di febbraio del 1992, ma che fallì.

LUGLIO 1992. Uccide nel trapanese una ragazza incinta, Antonella Bonomo, fidanzata del mafioso Vincenzo Milazzo di Alcamo, assassinato durante la guerra di mafia. La ragazza «era incinta ma Matteo non l’ha risparmiata» ha detto il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera.

14 SETTEMBRE 1992. Sul litorale di Mazara del Vallo il boss tenta di uccidere il vice questore della polizia Rino Germanà con la  Rino Germanàcomplicità di due corleonesi: Giuseppe Graviano, di cui è molto amico, e Leoluca Bagarella. Aprono il fuoco alle 14,15 mentre Germanà è alla guida della sua Panda. Affiancato da una Fiat Ritmo, il poliziotto è raggiunto di striscio da una scarica di lupara. Il funzionario frena e scende dall’auto: apre il fuoco contro i killer e scappa verso la spiaggia, mentre i killer continuano a sparargli con i kalashnikov. Gemanà riesce a mettersi a riparo e il commando fugge.

2 GIUGNO 1993. Inizia ufficialmente la latitanza del boss. La procura di Palermo chiede ed ottiene l’ordine di arresto di Messina Denaro, accusato di associazione mafiosa e di diversi omicidi. Lo accusa il collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio. Il boss trapanese però è già irreperibile.

MAGGIO/LUGLIO 1993. Matteo Messina Denaro è fra i mandanti e gli esecutori di diversi attentati organizzati da Cosa nostra. A Roma in via Fauro, il 14 maggio, Cosa nostra tenta di uccidere Maurizio Costanzo. Seguiranno sette attentati nell’arco di 11 mesi, dieci morti, 95 feriti, danni al patrimonio artistico e religioso. A Firenze (27 maggio), viene fatto esplodere un furgoncino Fiat Fiorino pieno di tritolo: cinque vittime in via dei Georgofili, dietro gli Uffizi, decine i feriti. Alle 23.14 del 27 luglio, in via Palestro a Milano, una Fiat Punto esplode davanti al Padiglione d’arte contemporanea: cinque vittime e dodici i feriti. Poco più tardi due autobombe esplodono a Roma: davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e davanti all’antica chiesa di San Giorgio al Velabro: 22 i feriti e gravi lesioni alle due chiese.

23 NOVEMBRE 1993. Viene sequestrato da un commando di mafiosi il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino, per tentare di bloccare la collaborazione dell’uomo con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre ad organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il ragazzo viene tenuto segregato.

Dopo quasi tre anni di stenti, legato sempre alla catena, l’11 gennaio 1996 Giuseppe Di Matteo viene strangolato e poi sciolto nell’acido dai corleonesi.

23 NOVEMBRE 1993. Uccide a Trapani l’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Il poliziotto prestava servizio nel carcere Ucciardone a Palermo, nella sezione in cui erano rinchiusi i mafiosi sottoposti al 41 bis, e in quel periodo c’erano anche i boss Filippo e Giuseppe Graviano.

17 DICEMBRE 1996. Diventa padre, nasce Lorenza Alagna, avuta dalla relazione con Franca Alagna. La donna e la bimba vengono accolte a casa della madre del boss, con la quale convivono fino a quando la ragazza non è diventa maggiorenne.

30 NOVEMBRE 1998. Muore durante la latitanza, per cause naturali, il boss Francesco Messina Denaro, 78 anni, padre di Matteo. Il suo corpo viene fatto trovare nelle campagne di Castelvetrano.

GIUGNO 1999. Gli investigatori sono ad un passo dal catturare Matteo Messina Denaro, ma il boss si accorge - o riceve una soffiata - che davanti al suo covo a Santa Flavia, a due passi da Bagheria, è stata piazzata una telecamera e quindi riesce a fuggire indossando una parrucca bionda da donna. Arrestato Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante. Finisce in carcere dopo la condanna in appello per varie accuse legate al boss ricercato.

20 FEBBRAIO 2004. Arrestato Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante. Finisce in carcere dopo la condanna in appello per varie accuse legate al boss ricercato.

18 LUGLIO 2006. Vengono trovate numerose lettere di Maria Mesi, amante del latitante, durante una perquisizione a casa di Filippo Guttadauro, arrestato per associazione mafiosa e considerato il “portavoce” di Matteo Messina Denaro.

DICEMBRE 2006. Decine di poliziotti circondano una casa di campagna a Castelvetrano nel tentativo di arrestare Messina Denaro. Il blitz viene effettuato da agenti del Servizio centrale operativo della polizia, in collaborazione con i servizi segreti. L’irruzione viene effettuata nella casa di campagna di un pregiudicato di Castelvetrano mentre si trovava riunito a pranzo con i propri familiari. Del latitante, però, nessuna traccia. Gli investigatori avevano puntato all’abitazione del pregiudicato dopo aver ricevuto la segnalazione dai servizi segreti.

20 DICEMBRE 2007. Viene arrestato Giuseppe Grigoli, prestanome di Matteo Messina Denaro, considerato il re dei supermercati in Sicilia, ma anche uno dei più facoltosi imprenditori dell’isola. I suoi beni vengono confiscati. Le catene di grande distribuzione alimentare messe in piedi in Sicilia dal boss sono state una forma di finanziamento per Cosa nostra, ma anche un modo per offrire lavoro. In questo modo la mafia ha continuato a sostituirsi all’imprenditoria sana e a guadagnarsi il consenso della popolazione.

15 MARZO 2010. Vengono arrestate 19 persone accusate di essere fiancheggiatori del latitante, fra loro Salvatore Messina Denaro, fratello del boss e il cognato, Vincenzo Panicola.

GIUGNO 2010. I servizi segreti mettono una taglia da un milione e mezzo di euro per chi riesce a dare notizie sul latitante.

13 DICEMBRE 2013. Viene arrestata Patrizia Messina Denaro, sorella del latitante. Con lei il nipote Francesco Guttadauro, e altre 28 persone, fra cui sei donne, che fanno parte della cerchia mafiosa del boss. Lei condannata a 13 anni, lui a 16.

19 DICEMBRE 2014. La leadership del clan passa a un altro parente del latitante, si chiama Girolamo Bellomo, detto Luca, che viene arrestato. È il marito dell’avvocato Lorenza Guttadauro, nipote di Matteo Messina Denaro. La penalista è figlia di Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro, fratello dell’ex capomafia di Brancaccio Giuseppe Guttadauro.

Da Capaci alle stragi del ’93: così Matteo Messina Denaro entrò nella gotha di Cosa nostra. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 ottobre 2020. la Corte d’Assise di Caltanissetta, ha condannato all’ergastolo il boss latitante Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992 di Capaci e di Via D’Amelio nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte. Dopo una camera di consiglio durata 14 ore, alla mezzanotte di ieri è arrivato il verdetto di condanna per Matteo Messina Denaro, dichiarato colpevole di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il super latitante è condannato all’ergastolo, con isolamento diurno di 18 mesi. Non solo. Oltre alle spese processuali e al risarcimento, dovrà pagare la pubblicazione della sentenza di condanna sul sito del ministero della giustizia. La condanna emessa dalla corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Roberta Serio, è quella che chiedeva il procuratore aggiunto Gabriele Paci. Un processo voluto da lui stesso, dopo aver raccolto tutti i tasselli di un quadro complesso. Sì, perché molto si è fatto nell’ambito della complessa attività di ricostruzione della strage di Capaci e via D’Amelio grazie al lavoro investigativo condotto dalla DDA di Caltanissetta incessantemente volto alla ricerca di tasselli da inserire nel quadro di sangue che ha tragicamente segnato la coscienza di tutti. In tale contesto la Procura di Caltanissetta è giunta ad attenzionare la figura di Matteo Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92. Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage, devastazione ed altro.

La partecipazione di Matteo Messina Denaro alle stragi. La Procura di Caltanissetta, procedendo ad una attenta rilettura degli atti processuali, ha rielaborato il complessivo materiale probatorio stratificatosi nel corso dei vari giudizi celebratisi a carico degli attori degli eventi delittuosi riconducibili alla strategia stragista attuata da Cosa nostra tra il ’92 ed i primi mesi del ’94 e, all’esito di tale approfondimento, è giunta a formulare l’accusa che l’ha portato a processo. Si è così potuta ricostruire la vicenda. In rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano iniziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma ( e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.

La decisione di uccidere Paolo Borsellino. Matteo Messina Denaro era un referente importante di Totò Riina anche per la gestione degli appalti, tutto ciò è riscontrato anche dalle deposizioni del pentito Vincenzo Sinacori dove ha fatto i nomi delle aziende coinvolte, compreso i nomi come Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, e Giuseppe Lipari, colui che curava gli appalti per conto di Provenzano. E proprio secondo l’impostazione accusatoria, il progetto di uccidere Borsellino è stato prospettato da Riina a Matteo Messina Denaro sulla base degli stessi presupposti già evidenziati in relazione alla strage di Capaci. Trova la sua matrice principale nell’indubbia carica simbolica che la figura del magistrato rivestiva al tempo per Cosa nostra avendo quest’ultimo già dalla fine dell’86, anno in cui prestava servizio presso la Procura di Marsala, dimostrato la tempra di magistrato che con ostinazione continuava ad applicare gli stessi penetranti metodi investigativi già sperimentati ai tempi in cui, insieme a Falcone , era stato componente del pool dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Ma il punto cruciale è che nella sua sede giudiziaria di Marsala, aveva condotto indagini importanti sulle connessioni tra interessi criminali, appalti e politica. Come già evidenziato nell’ordinanza cautelare emessa nel procedimento Borsellino quater, i due sostituti che ebbero a lavorare con lui a Trapani, la dottoressa Camassa ed il dottor Russo, incontrarono Borsellino a Palermo nel giugno del 1992, dunque dopo pochissimi mesi dal suo arrivo alla Procura di Palermo, e lo trovarono particolarmente turbato. Come ha sottolineato anche l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, nello stesso periodo Borsellino aveva sollecitato un incontro con i vertici del Ros per discutere del rapporto mafia appalti. Non solo, viene ricordato che il collaboratore Antonino Giuffrè ha riferito che i timori di “cosa nostra” erano legati non solo alla possibilità che Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia, ma soprattutto alla pericolosità delle indagini che avrebbe potuto svolgere in materia di mafia appalti. A ciò si aggiunge il fatto – come ha sottolineato il Gip che ha accolto la richiesta dell’accusa nei confronti di Matteo Messina Denaro- che Borsellino aveva manifestato, non solo con dichiarazioni pubbliche, ma anche e soprattutto con concrete attività requirenti, di avere acquisito una più chiara visione delle connessioni tra gli ambienti mafiosi di livello militare e la più vasta rete di interessi politici e affaristici, sino ad allora sapientemente mimetizzati nella pieghe della società civile. Con i suoi comportamenti e le sue pubbliche dichiarazioni, Borsellino – come si legge nell’ordinanza – «aveva chiaramente espresso la sua volontà dì investigare, scoprire e colpire questi interessi ed i soggetti che se ne facevano portatori e che egli riteneva corresponsabili della strage di Capaci, in cui perse la vita fra gli altri l’amico Giovanni Falcone». Come detto, era stato progettato di uccidere Borsellino già a Marsala, territorio di Matteo Messina Denaro. Fallito però per il diniego dei due boss Vincenzo D’ Amico e Francesco Caprarotta e, come detto, ciò comportò la loro eliminazione grazie al benestare di Matteo Messina Denaro. Il protagonismo nel progetto dell’eliminazione del giudice a Marsala rende evidente, anche alla luce della sua totale adesione al piano ideato da Riina, il suo coinvolgimento nella rinnovata volontà di uccidere Borsellino. Da ricordare che quest’ultimo riteneva importanti le indagini marsalesi sugli appalti, tanto da chiedere del perché – come si evince dalle audizioni al Csm pubblicate da Il Dubbio – tali indagini non fossero confluite nel procedimento mafia appalti curato dalla procura di Palermo. Ci riferiamo alla riunione del 14 luglio 1992. L’ultima alla quale partecipò Paolo Borsellino.

Stragi del 1992, la figura di Messina Denaro senior e quello “schiaffo” al giudice. Redazione di grandangoloagrigento.it. Pubblicato il 15 Luglio 2020. Nel gennaio del 1990 Paolo Borsellino chiese il divieto di soggiorno per Francesco Messina Denaro, vecchio campiere classe 1928 e padre del superlatitante Matteo, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, con un decreto che “è una sorta di schiaffo a chi l’aveva avanzata”. Erano gli anni in cui don Ciccio “uscì fuori dai radar, dicendo che aveva una brutta malattia e mandando avanti il figlio Matteo che partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92”. Il decreto di "non luogo a procedere" – scritto a mano e datato 13 luglio 1990 – è stato depositato dal pm Gabriele Paci e citato durante la requisitoria nel processo in corso davanti ai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta, contro il latitante Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 e accusato di essere il mandante dei due attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quest’ultimo dall’agosto dell’86 al marzo 1992 era stato a capo della Procura di Marsala e il 23 gennaio 1990 aveva chiesto la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni di don Ciccio. Ad ottobre dello stesso anno Borsellino – con le stesse accuse – emise un ordine di cattura nei confronti del capomafia che da allora iniziò la sua latitanza, condannato da ricercato nel 1992 e morto da ricercato nel 1998. “Rileggendo quel decreto potete apprezzare qual era lo stato dell’arte, qual era lo stato delle indagini fatto da valorosissimi inquirenti”, ha continuato il magistrato e “si fa anche dell’ironia nel provvedimento, si dice: alla fine che ha fatto questo?”. Nel decreto (presidente G.Barraco, giudici Massimo Palmeri e Tommaso Miranda) scrivono che “non risulta a carico del proposto dal 1964 ad oggi alcun precedente penale”. Sul finire degli anni cinquanta Messina Denaro senior – già allora campiere dei D’Ali’ – fu indagato per il sequestro-omicidio del notaio Francesco Craparotta e di un tale Vito Bonanno, uccisi il 9 gennaio 1957. I carabinieri di Castelvetrano lo ascoltarono il 16 maggio di quell’anno, ma nel 1964 venne scagionato da ogni accusa. “Le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose – continua il decreto del Tribunale di Trapani del luglio novanta. Inoltre, si legge, “le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate per alcuni versi, stando agli elementi di fatto forniti, incontrollabili (non vi è alcun elemento agli atti che indichi Giuseppe Garamella, Paolo Marotta, Vito Guarrasi e Saverio Furnari quali affiliari alle cosche mafiose) e peraltro non certamente all’origine della presunta pericolosità qualificata (la figlia Rosalia ha contratto matrimonio con Guttadauro Filippo, sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio se non purtroppo, che è fratello di tale Guttadauro Giuseppe, ex diffidato e sorvegliato speciale, indiziato di mafia)”. Filippo Guttadauro, arrestato una prima volta nel 1994 dopo quelle parole assolutorie e poi nel 2006, è oggi detenuto al 41bis. “Alla fine della fiera è una sorta di schiaffo a chi aveva avanzato questa richiesta, per dire "non lo vedi che non c’è nulla"“, ha detto il pm Paci, nel corso della requisitoria. Tutti i nominativi citati poi furono condannato per mafia, meno che Guarrasi, mente occulta della politica e dell’economia siciliana dal secondo dopoguerra. Nel documento si elencano anche i rapporti con la blasonata famiglia trapanese dei D’Alì. “L’unica operazione che ha richiesto l’impiego di una consistente somma di denaro per l’acquisto di un fondo facente parte delle proprietà fondiarie dei D’Alì, risulta onorata con un mutuo – si legge nel provvedimento – contratto presso la Banca di Sicilia e di cui il Messina Denaro e la moglie risultano ancora gravati”. “Gli accertamenti bancari hanno consentito di verificare che l’odierno proposto risulta aver una situazione debitoria per svariati milioni (oltre 18 milioni per il mutuo soprannominato) e di non essere in possesso di altra liquidità economica”, continua il decreto. Per anni “l’attenzione si focalizzò su Mariano Agate, indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, trascurando la figura di don Ciccio Messina Denaro – ha aggiunto Paci – riportata da validi investigatori come Rino Germanà (sfuggito a un agguato sul lungomare di Mazara nel settembre 1992 ndr), che per dieci anni fu non solo il capo del mandamento di Castelvetrano, ma anche di tutta la mafia trapanese”, ha detto il pm Paci. Un’eredità raccolta dal figlio Matteo che, dopo aver condotto le faide di Alcamo e Partanna, nell’autunno 1991 affiancò Totò Riina, partecipando alla missione romana del febbraio-marzo novantadue per uccidere Falcone nella capitale e seguendolo fino alle Stragi del 92. Proseguendo con quelle al nord del 1993, di Firenze e Milano, per cui è già stato condannato all’ergastolo. (AGI)

Da iltempo.it il 17 luglio 2020. "Una latitanza così lunga come quella  di Matteo Messina Denaro si può comprendere soltanto in funzione di  coperture istituzionali e forse anche politiche". Ne è convinto il  consigliere del Csm Nino Di Matteo parlando, a Tg2 Post, della  latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro. "E` gravissimo che,  dopo 27 anni, lo Stato non riesca ad assicurare alla giustizia un  soggetto condannato tra i principali ispiratori degli attentati del  `93 di Roma, Firenze e Milano che fecero temere al presidente Ciampi  che fosse in atto un golpe", aggiunge. Di Matteo spiega anche cosa è stata e cosa è oggi la mafia: "Cosa nostra siciliana è l’unica organizzazione mafiosa al mondo che è riuscita ad attuare stragi uccidendo servitori dello stato, politici, giornalisti e se si è fatto questo è per un motivo: perché è la più politica tra le organizzazioni mafiose, e che ha avuto la capacità di intessere rapporti con il potere e condizionare le scelte politiche nazionali. Basti pensare a quello che sono le sentenze del processo Andreotti, Dell’Utri, e a quella in primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia».

Di Matteo (Csm): “Dietro latitanza Messina Denaro anche coperture politiche”. Il Corriere del Giorno il 17 Luglio 2020. “Matteo Messina Denaro è certamente custode di segreti di quel periodo, di quella campagna stragista del 1993 che lo rendono in grado ancora di esercitare un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni”, ha detto ancora Di Matteo aggiungendo: “Ecco perché sarebbe veramente un segnale bello se finalmente venisse rintracciato, arrestato”. “Una latitanza così lunga come quella di Matteo Messina Denaro si può comprendere soltanto in funzione di coperture istituzionali e forse anche politiche”. Ne è convinto il consigliere del Csm Nino Di Matteo parlando della latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro ,a Tg2 Post: “E’ gravissimo che, dopo 27 anni, lo Stato non riesca ad assicurare alla giustizia un soggetto condannato tra i principali ispiratori degli attentati del ’93 di Roma, Firenze e Milano che fecero temere al presidente Ciampi che fosse in atto un golpe“, aggiunge. Ieri, intervistato dal conduttore Luca Salerno e Francesco Vitale per Tg2 Post, ha ricordato ancora una volta il percorso fin qui svolto, ribadendo che “non è vero che non sappiamo nulla sulla strage di via d’Amelio”. “Dopo gli iniziali depistaggi ed errori – ha spiegato – già dal 1995 e dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti. I processi ci consentono oggi di dire che la strage di via d’Amelio è stata una strage di mafia, ma non solo. E per colmare questi buchi di verità, dando un nome e cognome a quegli uomini estranei a Cosa nostra che hanno compartecipato all’organizzazione e probabilmente alla stessa esecuzione della strage, dobbiamo concentrarci su due fattori: capire perché improvvisamente nel giugno del ’92, rispetto a un progetto assolutamente generico di uccidere il dottor Borsellino, viene accelerata da Salvatore Riina questa volontà di eliminare subito il magistrato. E poi dobbiamo inquadrare quella strage in contesto più ampio di sette stragi che hanno caratterizzato il biennio del 1992-1994. Dobbiamo cercare di capire quale fu la strategia di Cosa nostra e mi sento di dire, sulla base della mia conoscenza degli atti dei processi, non soltanto di Cosa nostra”. “Matteo Messina Denaro è certamente custode di segreti di quel periodo, di quella campagna stragista del 1993 che lo rendono in grado ancora di esercitare un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni”, ha detto ancora Di Matteo aggiungendo: “Ecco perché sarebbe veramente un segnale bello se finalmente venisse rintracciato, arrestato”. “Le scarcerazioni hanno costituito un segnale devastante”. Ne è convinto Di Matteo. “Un segnale devastante da un punto di vista concreto e anche simbolico – dice il magistrato – centinaia di condannati definitivi per mafia sono tornati a casa ai domiciliari e da un punto di vista concreto perché hanno avito la possibilità di riallacciare contatti criminali e si è provocato un effetto molto pericoloso”. Per Di Matteo le scarcerazioni hanno rappresentato un segnale anche “da un punto di vista simbolico” perché “penso a come il popolo che subisce quotidianamente le violenze mafiose ha potuto interpretare il fatto che il capomafia torna a casa. Per me è il segnale di resa dello Stato”. “Con tutto il rispetto per le pronunce delle Corti europee sul 41 bis penso che risentano di un fraintendimento di fondo. Il 41 bis non è una misura afflittiva, ma è una misura di prevenzione, per prevenire il pericolo che si perpetui quello che è sempre accaduto in passato, cioè che il capomafia detenuto continui a comandare” ha detto a Tg2 Post Nino Di Matteo consigliere togato del Csm aggiungendo “Probabilmente deve essere meglio applicata nei confronti di chi effettivamente comanda“. “Ho già riferito alla Commissione antimafia, ho detto anche le parole del ministro della Giustizia Bonafede che fece riferimento a "mancati gradimenti" o "dinieghi" che erano intervenuti per la mia nomina al Dap. Bonafede dovrebbe spiegare a chi o a cosa si riferisse“, ha sottolineato.

I ricatti di Matteo Messina Denaro: la nuova inchiesta di “Repubblica”. Carlo Bonini, Attilio Bolzoni, Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta il 16 luglio 2020 su La Repubblica. Inchiesta sul latitante di mafia più ricercato al mondo: il boss di Castelvetrano accusato delle stragi del 1993 è un fantasma da 27 anni. Testimonianze inedite di chi non ha smesso di dargli la caccia e di quanti gli sono stati vicini svelano il segreto della sua eterna fuga. Messina Denaro - di cui pubblichiamo per la prima volta alcune immagini inedite dell’album di famiglia - conosce il doppio fondo di una stagione ancora oscura. Quando pezzi dello Stato scelsero di trattare con Cosa nostra, mentre il suo tritolo seminava morte a Capaci e in via D’Amelio. In questo ricatto è la ragione della sua inafferrabilità.

Inchiesta sul latitante di mafia più ricercato al mondo: il boss di Castelvetrano accusato delle stragi del 1993 è un fantasma da 27 anni. Testimonianze inedite di chi non ha smesso di dargli la caccia e di quanti gli sono stati vicini svelano il segreto della sua eterna fuga. Messina Denaro – di cui pubblichiamo per la prima volta alcune immagini inedite dell’album di famiglia – conosce il doppio fondo di una stagione ancora oscura. Quando pezzi dello Stato scelsero di trattare con Cosa nostra, mentre il suo tritolo seminava morte a Capaci e in via D’Amelio. In questo ricatto è la ragione della sua inafferrabilità.

Lo cercano tutti. I migliori tra gli investigatori dei reparti di eccellenza di polizia e carabinieri, lo Sco e il Ros. I magistrati della Procura di Palermo. Ma lo cercano anche i mafiosi. «Questo che fa? Dov’è finito? – sussurra nel ventre della Sicilia un uomo che ignora le microspie che ne catturano ogni respiro – Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati. E tu non ti muovi? Ma fai il bordello…». Lo cercava anche Totò Riina.

Il boss più misterioso della storia della mafia ha il potere di ricattare molti colletti bianchi all’interno dello Stato? . L’inchiesta di Repubblica” pubblicata sul sito on line cerca di capire il vero potere di Matteo Messina Denaro tra depistaggi e azioni di rastrellamento. Sul possibile archivio di documenti relativi alle stragi in mano a Matteo Messina Denaro e sulla conoscenza di molti fatti occulti da parte del boss ne hanno parlato diversi pentiti ritenuti credibili. In diversi articoli il nostro blog ha pubblicato i verbali del processo di Firenze che dimostrano il ruolo di Matteo Messina Denaro in strategie criminali non dettate solo dai mafiosi. E’ ormai evidente che la sua latitanza si basa sulla complicità di “pezzi grossi” anche dentro le istituzioni che fanno il doppio gioco spesso anche distruggendo il lavoro serio di alcuni magistrati. Non si può rimanere latitanti dopo anni di azioni investigative e dopo aver tolto miliardi di euro alle cosche del trapanese se non si ha qualche santo importante in paradiso. Forse un santo che conosce la verità su molte stragi italiane.

I ricatti di Matteo Messina Denaro. Inchiesta sul latitante di mafia più ricercato al mondo: il boss di Castelvetrano accusato delle stragi del 1993 è un fantasma da 27 anni. Testimonianze inedite di chi non ha smesso di dargli la caccia e di quanti gli sono stati vicini svelano il segreto della sua eterna fuga. Messina Denaro – di cui pubblichiamo per la prima volta alcune immagini inedite dell’album di famiglia – conosce il doppio fondo di una stagione ancora oscura. Quando pezzi dello Stato scelsero di trattare con Cosa nostra, mentre il suo tritolo seminava morte a Capaci e in via D’Amelio. In questo ricatto è la ragione della sua inafferrabilità. Lo cercano tutti. I migliori tra gli investigatori dei reparti di eccellenza di polizia e carabinieri, lo Sco e il Ros. I magistrati della Procura di Palermo. Ma lo cercano anche i mafiosi. «Questo che fa? Dov’è finito? – sussurra nel ventre della Sicilia un uomo che ignora le microspie che ne catturano ogni respiro – Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati. E tu non ti muovi? Ma fai il bordello…». Lo cercava anche Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra. Ancora negli ultimi giorni di vita non riusciva a darsi pace: «Se ci fosse suo padre… questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare. È stato qualche quattro o cinque anni con me. Impara bene, minchia, e poi tutto in una volta…». Tutto in una volta, dopo avere partecipato alla spaventosa stagione della mafia che fa guerra allo Stato, l’unico erede della dinastia Corleonese rimasto in libertà, sparisce. Per tutti, Matteo Messina Denaro, classe 1962, trapanese di Castelvetrano, ufficialmente latitante dal giugno 1993, condannato all’ergastolo per le stragi di Firenze, Milano e Roma, diventa un fantasma. Capace di tenere in scacco l’Antimafia italiana che, pure, gli ha fatto il deserto intorno: centinaia di fiancheggiatori arrestati, milioni di euro sequestrati, un esercito che gli dà la caccia. Com’è possibile, dunque, che l’ultimo padrino della stagione delle stragi resti imprendibile? «Io penso che se n’è andato all’estero», si rammaricava lo stesso Riina intercettato in carcere. In collera con quel suo “pupillo” che ormai sembrava disinteressato alle sorti di Cosa nostra e pensava esclusivamente ai suoi affari. Di Messina Denaro restano solo alcune foto ingiallite dal tempo che risalgono agli anni Settanta e Ottanta. Quelle dell’album della famiglia Messina Denaro che Repubblica mostra in esclusiva. Matteo a 14 anni col padre Francesco, autorevole mafioso della provincia di Trapani, da cui ha ereditato il potere e soprattutto relazioni internazionali. Matteo in doppiopetto, con gli immancabili Ray-ban e la sigaretta stretta tra le dita. Matteo che brinda. Matteo che festeggia con i parenti. A vent’anni, era già un killer. Dunque e di nuovo: perché è inafferrabile? «Perché Messina Denaro era il gioiello di Riina. Perché lui ha i documenti che sono stati portati via dal covo di via Bernini dopo l’arresto del capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina», racconta Antonino Giuffrè, uomo d’onore che prima di pentirsi aveva un posto nella Cupola. Già, i segreti. La forza di Matteo è dunque nel ricatto. Sa delle stragi del 1992 e del 1993, conosce cosa si sia mosso nel fondo ancora oscuro della trattativa fra lo Stato e la mafia. Ecco perché è da quei giorni del lontano 1992 che bisogna ricominciare a cercare Matteo Messina Denaro.

L’attentato al commissario. E un senatore intoccabile. Rino Germanà, oggi questore in pensione, se lo trovò davanti all’improvviso un giorno di settembre del 1992. «Verso le due del pomeriggio, tornando a casa, un’auto si accosta. Vedo un uomo che comincia a sparare col fucile dal finestrino. Freno, mi rannicchio nell’abitacolo e schivo i colpi. Riesco a scendere e sparo anch’io». L’agguato è sul lungomare di Mazara del Vallo. Su quell’auto – una Fiat Tipo – sono in tre. Alla guida c’è lui, Matteo Messina Denaro. L’uomo con il fucile è Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. E, con loro, è anche Giuseppe Graviano, che imbraccia un kalashnikov. «Quei tre tornano indietro e sparano ancora. Una volta, due volte. Corro in spiaggia e riesco a salvarmi». È il 14 settembre, l’estate è la stessa di Falcone e Borsellino, delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Totò Riina vuole morto anche quel commissario di polizia che, a metà degli anni Ottanta, ha scoperto e illuminato il ruolo della famiglia Messina Denaro e dei trapanesi nello scacchiere mafioso. A Mazara del Vallo, Germanà c’è già stato come dirigente del commissariato. Ma dal ministero dell’Interno qualcuno decide di farlo tornare il 2 giugno del 1992, perché riprenda il posto che ha lasciato qualche anno prima.  E’ una decisione che ha il sapore di una punizione. «Mi trasferirono all’improvviso – racconta il poliziotto – E davvero non capivo il perché. Era una sorta di passo indietro nella carriera. Soprattutto dopo che avevo diretto la squadra mobile di Trapani e la Criminalpol di Caltagirone, che aveva competenza sull’intera Sicilia centrale. Peraltro, dopo il delitto dell’onorevole Salvo Lima, nel marzo 1992, Paolo Borsellino mi aveva voluto a Palermo». Un mistero mafioso che si intreccia con un mistero ministeriale. A meno di non voler guardare meglio dentro quel trasferimento e le sue premesse. Su cosa stava indagando il commissario Germanà quando si decide di rispedirlo a Mazara del Vallo? Tra marzo e giugno di quel 1992, aveva cominciato a coltivare un’inchiesta molto particolare, delegata dalla Procura di Marsala: «Un notaio massone, Pietro Ferraro, aveva provato ad avvicinare il giudice Salvatore Scaduti, il presidente della Corte d’assise che stava giudicando gli assassini del capitano dei carabinieri Emanuele Basile». Il notaio aveva detto al giudice: «Secondo gli imputati non ti stai comportando bene». E quindi aveva aggiunto: «Mi manda un politico di nome Enzo, di area manniniana, trombato alle elezioni». Rino Germanà dà un nome a quel politico. È il palermitano Vincenzo Inzerillo, un democristiano che non era riuscito a candidarsi alle Regionali del 1991, ma era poi diventato senatore. E il giorno in cui presenta il suo rapporto alla magistratura, l’allora capo della direzione centrale anticrimine Luigi Rossi lo convoca a Roma, al Viminale. «Voleva sapere se nel rapporto si parlava del ministro Mannino», ricorda Germanà. Poco tempo dopo sarà trasferito al commissariato di Mazara. E, dopo l’attentato di settembre, in alcune indagini rispunterà quel senatore: Vincenzo Inzerillo. Un nome che conviene tenere a mente, perché – lo vedremo – tornerà ancora nel finale di questa storia. «Un’auto intestata al senatore Inzerillo – racconta ancora Germanà – andò a prendere all’aeroporto di Punta Raisi un avvocato che avrebbe dovuto aiutare i mafiosi di Mazara a realizzare un affare da 1.500 miliardi di vecchie lire con Malta per l’importazione del pesce». Una coincidenza? O qualcosa di più? Qualcosa forse la sapeva Riina che, intercettato in carcere nel 2013, dopo avere ricordato le indagini dei magistrati di Palermo sulla trattativa Stato-mafia e ordinato di assassinare il pm Nino Di Matteo («Se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo») diceva: «A chi hanno fatto spaventare, a nessuno. Tanto non hanno fatto spaventare a nessuno, che poi quello si è buttato a mare… Germanà gliela facevano là, e lui si è buttato a mare. Ma perché si è buttato a mare vorrei capire… Figlio di puttana si salvò». Perché il boss nelle sue esternazioni carcerarie salta con naturalezza dalla trattativa al nome di Rino Germanà? E cosa voleva dire Totò Riina con quel «tanto non hanno fatto spaventare a nessuno»? Cosa aveva scoperto il commissario di Mazara del Vallo indagando su Trapani e sugli affari della famiglia Messina Denaro?

Nella testa del padrino. La rincorsa. La storia di Matteo potrebbe finire un giorno di maggio del 1997, quattro anni dopo le stragi di Firenze, Milano e Roma che lui ha voluto insieme ai “falchi” di Cosa nostra. Il commissario Carmelo Marranca e gli investigatori di quella che era allora la Criminalpol sentono il suo odore, la sua “presenza”, nel covo dove si nasconde. Hanno visto la sua donna che si allontana velocemente. Lui è lì, fra le stradine della borgata marinara di Aspra, alle porte di Palermo. Via Milwaukee 40, un appartamento al secondo piano. È lì. «E poi all’improvviso scompare e noi continuiamo a chiederci cosa sia accaduto», ricorda il commissario Marranca. Nel frigorifero della casa, i poliziotti trovano una confezione di caviale. Nella dispensa, barattoli di salse austriache, la Nutella e due bottiglie di liquore. Doveva avere una gran fretta quando è scappato. Sul tavolo, un grande puzzle e un videogioco Nintendo. In un cassetto, una stecca di sigarette Merit, un foulard e un bracciale per donna comprato in una gioielleria molto esclusiva di Palermo. «Come avrà saputo che gli stavamo dietro?». Quell’appartamento di via Milwaukee è l’unico covo di Messina Denaro che sia stato mai scoperto. «Tutto comincia il giorno in cui il procuratore aggiunto Gigi Croce ci chiama e dice: “I carabinieri hanno sequestrato alcuni pizzini a un posto di blocco, erano nelle tasche di Giuseppe Cataldo. Dateci uno sguardo anche voi. E così ci immergiamo nella lettura».Carmelo Marranca è la memoria storica delle indagini antimafia a Trapani: «Quando arrivai, nel 1984, alla squadra mobile, capì subito di trovarmi in un posto pieno di misteri. I mafiosi importanti incontravano professionisti, amministratori pubblici e massoni». In uno di quei bigliettini ritrovati, una tale Meri scriveva ad Assunta. Chi erano quelle donne?«Dopo il tentato omicidio di Rino Germanà, avevamo lavorato sui tabulati di alcuni telefonini. Uno era intestato a un pensionato delle Ferrovie, ma lo utilizzava Messina Denaro per parlare con una donna. Era Maria Mesi, era Meri». Assunta era invece un nome preso in prestito: era la suocera di Anna Ventimiglia, la padrona di casa del covo. «Dove non eravamo ancora arrivati. Sapevamo solo che la Mesi nel fine settimana scompariva. Iniziammo a controllare quelle stradine di Aspra e le uscite del paese, cosa non facile». La svolta arriva la sera del 4 maggio, quando i poliziotti vedono Meri mentre sbuca da un vicolo. «Alle 23,30, camminava palesemente travisata – scriveranno nel loro rapporto gli ispettori Carmelo Marranca e Marcello Russo – cappello, occhiali e mantella, di cui si liberava appena voltato l’angolo». Marranca prosegue il suo racconto: «Le pattuglie che tengono sotto controllo le uscite del paese non hanno notato nessuna auto con quella donna a bordo. Allora capiamo che deve essere uscita da una casa del centro». «Ventimiglia e suo marito avevano chiesto al Comune un sussidio, ma intanto avevano affittato un’altra abitazione, al piano di sopra. Un fatto davvero strano: era chiaro che lì ci abitava qualcuno. Ma quella telecamera non è servita a nulla», ricorda ancora Marranca. Da quel momento Matteo Messina Denaro non andrà più in via Milwaukee 40, strada intitolata dai pescatori di Aspra come omaggio ai parenti emigrati in America. Nel covo è rimasta solo una lettera di Maria Mesi alla casa produttrice del puzzle, la donna voleva recuperare un «pezzo mancante». Il vero pezzo mancante però era e restava lui, Matteo. «In questi anni abbiamo continuato a rincorrerci. Noi che provavamo ad entrare nella sua testa e lui che metteva in giro notizie ad arte, ne siamo sicuri, per depistarci e capire quanto eravamo ancora disposti a inseguirlo».

La partita truccata. Ci sono stati giorni in cui la pm Teresa Principato si è sentita accerchiata nel suo ufficio, al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo. «Ogni volta che eravamo vicini al latitante – dice – accadeva sempre qualcosa. C’erano spifferi, notizie, che in un modo o nell’altro trapelavano. Accadevano troppe cose strane intorno alla nostra indagine. Sapevo che così non l’avremmo mai arrestato. E allora iniziai a indagare su una talpa in Tribunale. Che non ho mai trovato». Teresa Principato è la procuratrice aggiunta di Palermo che per dieci anni, fino all’inizio del 2017, ha coordinato le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. «Siamo di fronte a un grande latitante di mafia che ha un rapporto forte con la massoneria e la politica. E questo è il vero motivo per cui non è stato ancora arrestato». La magistrata, che oggi lavora come sostituta alla Direzione Nazionale Antimafia, racconta: «Mi sconcertò scoprire che il padre di Messina Denaro, don Ciccio, era stato campiere dei D’Alì, una famiglia influente in provincia di Trapani, proprietari terrieri, banchieri… uno degli eredi, Antonino D’Alì, sarebbe poi diventato anche senatore di Forza Italia e sottosegretario all’Interno». Le indagini hanno scoperto molto altro. «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni: dalle questure ai Servizi. Così, ne sono convinta, riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini. Ed è sempre riuscito a fuggire». Ecco perché è stata ed è ancora una partita truccata. Cosa ha saputo davvero Messina Denaro delle indagini che lo riguardavano? E, soprattutto, da chi l’ha saputo? Teresa Principato ricorda: «All’inizio, andava e veniva spesso da Trapani. Poi, quando l’inchiesta sulla sua latitanza si è fatta più stringente, con l’arresto dei suoi familiari, non è più tornato. Credo sia avvenuto nel 2015. Ma non ci siamo fermati. Con i colleghi Paolo Guido e Marzia Sabella, abbiamo ordinato l’arresto di un centinaio di persone della sua cerchia più stretta e sequestrato beni per milioni di euro: la strategia della terra bruciata». Ma lui era già lontano. «Abbiamo fatto indagini anche all’estero. Ritenevamo che avesse rapporti stretti con alcuni personaggi in Gran Bretagna, che gli avrebbero messo a disposizione una casa. Abbiamo approfondito la pista grazie all’ottima collaborazione delle autorità inglesi, ma anche da lì non sono arrivati i risultati sperati». Nel 2015, Teresa Principato si convince che bisogna dare una svolta alla caccia: «Con carabinieri e polizia firmammo un protocollo per puntare su un solo l’obiettivo: lavorare insieme, senza più gelosie o rivalità». Inizia subito un lavoro di squadra sul campo. «Il confronto e la condivisione di informazioni fra i migliori investigatori di polizia e carabinieri fece fare un balzo importante alle ricerche. Ma non durò a lungo. Poco a poco, qualcuno a Roma iniziò a osteggiare il gruppo. Fino a che non venne sciolto. Una grande occasione persa, perché credo che mettere insieme le conoscenze e i metodi delle due forze di polizia ci avrebbe consentito di arrivare alla cattura». Come in tutte le storie italiane, le sorprese tuttavia non finiscono. «Il più grande impedimento arrivò dal mio procuratore, Francesco Messineo. Fece scattare un blitz della polizia nell’Agrigentino, per un racket delle estorsioni, quando avevo chiesto di temporeggiare, perché il Ros dei carabinieri aveva intercettato e fotografato il capomafia di Sambuca, Leo Sutera, mentre leggeva un pizzino importante. A giorni ci sarebbe stato un incontro a cui probabilmente avrebbero partecipato Messina Denaro e alcuni mafiosi palermitani. Sutera era il tramite. Il Procuratore mi chiese: “Ma sei sicura?”. Volle anche risentire le intercettazioni. “Certo che sono sicura”, gli ripetevo. Ma Sutera venne arrestato dalla polizia e l’incontro saltò. Una vicenda che è finita davanti al Csm, che poi ha liberato Messineo da ogni addebito. Ma mi è rimasta una grande amarezza. Anche perché Sutera era il mafioso che anni prima aveva preso informazioni sulla strada che facevo da Trapani verso Caltanissetta, questo ha raccontato un collaboratore di giustizia. Volevano organizzare un attentato contro di me». Talpe, sospetti, veleni. Una caccia all’uomo intossicata per troppi anni. Nonostante la strategia della “terra bruciata”. «E lui ha tratto beneficio da tutto questo. Perché lui analizza. Fa tesoro dei suoi segreti. È una persona colta, scrive bene, legge, si documenta. È soprattutto un mostro di freddezza. Gli abbiamo arrestato i familiari più vicini, ma lui continua ad avere una cura maniacale della sua latitanza e molti mafiosi lo criticano pure per questa sua capacità di distacco. Di sicuro, ha fatto tesoro degli anni trascorsi alla macchia col padre, ma usa anche metodi moderni. Sono convinta che abbia usato i social per comunicare con la sorella Anna Patrizia e il nipote Francesco Guttadauro, che erano snodi fondamentali per il suo rapporto con il territorio». Torna dunque la domanda, sempre la stessa: adesso Matteo dov’è? La procuratrice Principato ne è sicura: «Sa che c’è un’attenzione speciale dello Stato nei suoi confronti e per questo, sarà lontano. In ritiro chissà dove. Magari fa una vita normalissima. In attesa che cali l’attenzione degli inquirenti. E, lo conosciamo, starà già pensando al momento in cui potrà tornare».

Caro “Svetonio” ti scrivo. Il fantasma si racconta. Tutti parlano di Matteo, tutti sanno qualcosa di Matteo, tutti hanno una storia da raccontare su Matteo. Ma un giorno è Matteo che decide di raccontarsi, offrendo un volto inedito di se stesso in alcune lettere molto private che diventeranno inspiegabilmente molto pubbliche. Cita Orazio, l’Eneide, si infervora per Jorge Amado, ragiona su Toni Negri, prova una sconfinata ammirazione per Bettino Craxi. E, rassegnato, ammette di “essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto”, immedesimandosi in quel personaggio, di professione capro espiatorio, frutto della fantasia di Daniel Pennac. Sono corrispondenze dall’altro mondo. Lui si firma “Alessio” e il suo interlocutore si fa chiamare “Svetonio”. È un fitto scambio epistolare quello fra il 2004 e il 2006 in cui Matteo si guarda allo specchio. Assai stravaganti (per non dire altro) sono anche le circostanze di questo carteggio fra Matteo-Alessio e Svetonio, che altri non è che un ex sindaco di Castelvetrano arrestato e condannato per traffico di stupefacenti. Il suo nome è Antonio Tonino Vaccarino, proprietario dell’unico cinema della città, passione ereditata dal nonno che – dopo avere conosciuto a Parigi i fratelli Lumière – nel 1898 aprì la prima sala in Sicilia. Ma, oltre al cinema, Tonino ama il rischio: lavora per i servizi segreti. Ed entra in contatto con Matteo – non sappiamo esattamente come, neanche dopo tanto tempo – guidato dagli uomini del generale Mario Mori. «Da sempre sono un uomo dello Stato», è andato ripetendo in questi anni Svetonio. Comunque siano andate le cose, di certo il latitante con Svetonio non parla di banalità e soprattutto gli affida la sua intimità. Le prime lettere partono da lontano con frasi di Amado adattate alla sua persona: «Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica». Fa considerazioni politiche: «Craxi fu l’unico politico di razza». E così Matteo ci fa scoprire Matteo. A tratti, sembra quasi rassegnato: «Io oramai vivo fuori dal mondo, e lo preferisco perché non mi riconosco più in questa ipocrita società… Non riesco a giudicarmi da me stesso, posso solo dire che fui sempre disponibile con tutti e con chiunque, non aspiro ad essere il migliore, in medio stat virtus, ci insegna Orazio…» In altri momenti, ha un tono sprezzante: «In merito ad i singoli maestri purtroppo devo dirle che sono ormai una razza quasi estinta, ci sono in giro solo squallidi musicanti…». È sconfortato: «Non amo la vita… io non ci sono stato bene in questa terra… la mia vita è stata un guazzabuglio di sofferenze, delusioni, fallimenti». Ha un’altissima considerazione di sé: «Ancora si sentirà molto parlare di me». È sibillino: «Ci sono pagine della mia storia che si devono ancora scrivere». E poi una rivelazione che fa di Matteo Messina Denaro un esemplare unico fra i religiosissimi boss di Cosa nostra che vivono fra santini e crocifissi, statue di Padre Pio e breviari: «Ci fu un tempo in cui avevo la fede. Poi, a un tratto, mi resi conto che qualcosa dentro di me si era rotta, mi resi conto di aver smarrito la mia fede, ma non ho fatto nulla per ritrovarla. In fondo ci vivo bene così. Mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla e sto vivendo per come il fato mi ha destinato». Una professione di ateismo. Per uno che di scuola, per sua stessa ammissione, ne ha fatta poca, le lettere svelano una “cultura” e una sensibilità quantomeno diversa rispetto a quei mafiosi che nei loro messaggi parlano solo di “piccioli”, di affari, e di delitti. Le ha scritte davvero lui o sotto dettatura di qualche amico che si è offerto di dare una forma colta al suo pensiero? Scoperta la corrispondenza, all’ex sindaco Vaccarino un giorno è stata recapitata una lettera non troppo rassicurante: «Lei ha buttato la sua famiglia in un inferno. La sua illustre persona fa già parte del mio testamento. In mia mancanza, verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti. Firmato M. Messina Denaro». Una condanna a morte. In realtà Tonino Vaccarino ha continuato a vivere tranquillamente a Castelvetrano. Continuando a frequentare gli amici del boss latitante, ha veicolato anche notizie riservate apprese da un colonnello della Dia che indagava proprio su Matteo. Vaccarino è stato arrestato un’altra volta: “Lavoro per lo Stato”, ha ripetuto. Ma non ha convinto, ed è stato condannato a sei anni. Un mistero nel mistero questo personaggio che ha voluto impadronirsi del nome del segretario dell’imperatore Adriano – scrittore latino vissuto a cavallo fra il primo e il secondo secolo dopo Cristo – per incastrare un grande boss. O, forse, Svetonio è solo un maestro del doppiogioco.

I misteri di Trapani e della sua provincia. Lì dove si trova “la mamma”. Ogni città del trapanese è una capitale di mafia. Verso il nord della provincia, se proprio non vogliamo ripetere sempre quella parola – mafia – diciamo che c’è la “tradizione”. Verso sud, ci sono misteri antichi e moderni. E in mezzo, che si protende indicibile nel mare, c’è Trapani. Sarà un caso, ma le sue piazze e le sue strade sono state scelte – e non quelle della più famosa e internazionale Palermo – come set della prima Piovra di Damiano Damiani. Era il 1984 e il commissario Cattani (uno straordinario Michele Placido) sfidava da solo tutta la mafia tenendo con il fiato sospeso 15 milioni di telespettatori. Qualche mese prima, avevano ucciso a Valderice il sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto che aveva scoperto magistrati corrotti nel suo Palazzo di Giustizia. Qualche mese dopo, un’autobomba mancò a Pizzolungo per un soffio il giudice Carlo Palermo ma fece saltare in aria una madre con i suoi due bambini. Poi l’agguato contro Mauro Rostagno, un giornalista che aveva capito tutto di Trapani, delle sue mafie e delle sue logge. Le radici sono quelle. In Sicilia pochi sanno che il filosofo Giovanni Gentile è originario di Castelvetrano, ma tutti sanno che a Castelvetrano la mafia (con i soliti amici) ha fatto ritrovare morto il 5 luglio del 1950 Salvatore Giuliano, il bandito che scriveva al presidente Truman e voleva far diventare la Sicilia un’altra stella della bandiera degli Stati Uniti d’America. Un po’ più su di Castelvetrano e in riva al mare c’è Marsala. Quando lì il procuratore capo era Paolo Borsellino disse a noi di Repubblica: «Qua ci sono sbarchi paragonabili a quello in Normandia e nessuno fa niente». Sbarchi di droga. Risalendo la campagna trapanese verso l’interno, ecco Salemi e le sue montagne di gesso. Salemi patria dei cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini d’onore ed esattori a capo di un impero che è stato per almeno un quarto di secolo il polmone finanziario della politica più collusa con Cosa nostra: Stefano Bontate, Giulio Andreotti, Salvatore Inzerillo, tutti nomi che sono dentro le pagine del romanzo nero siciliano. E poi c’è l’altra parte della provincia, quella a nord. Prima viene Alcamo, poi Castellammare del Golfo. Alcamo è stato il regno dei fratelli Rimi, Filippo e Natale, imparentati con don tano Badalamenti di Cinisi e considerati negli Anni Sessanta e Settanta la “crema” della mafia siciliana. A pochi chilometri, una ripida discesa rotola verso Castellammare, città che dentro di sé ha l’aristocrazia mafiosa che ha fatto grande la mafia anche in America. I Galante, i Playa, i Maggaddino, i Buccellato, i Bonanno. Tutti emigrati nel 1925 dall’altra parte dell’Atlantico e che poi hanno conquistato il vertice delle “cinque grandi famiglie” di New York. Per scoprire l’alta mafia, dicevano i vecchi siciliani, bisogna partire da Castellammare del Golfo e attraversare l’isola fino al Mediterraneo «e là, alla fine del Valle del Belice, si troverà la mamma». La “mamma” è l’origine di tutto, alla fine della Valle del Belice c’è la Castelvetrano di Matteo Messina Denaro. E, non a caso, come viene chiamato dai suoi uomini Matteo? Viene chiamato “Testa dell’Acqua”.

Vacanze romane. Per capire davvero quali segreti custodisca Messina Denaro, c’è ora da tornare a un giorno di febbraio del 1992. L’appuntamento è per le 15, alla Fontana di Trevi. Confuso fra i turisti, Matteo è un po’ in anticipo. Ha occhiali Ray-Ban, foulard e l’immancabile sigaretta Merit fra le dita. Guarda le vetrine di un negozio di abbigliamento: gli piacciono le giacche e le camicie firmate. Ha potuto metterne poche nel bagaglio leggero che si è portato da Palermo in un lungo viaggio in auto. È arrivato proprio quella mattina, su una Fiat Uno Diesel colore azzurro guidata da Renzino Tinnirello, mafioso tra i più fidati del gruppo Graviano, del quartiere Brancaccio. Alla Fontana di Trevi arriva anche Giuseppe Graviano, un altro dei “ragazzi” nel cuore di Totò Riina, anche lui figlio d’arte, appena 29 anni ma con un robusto curriculum da sicario. Giuseppe, che i suoi chiamano “Madre Natura”, è già un ricercato. Matteo, invece, è praticamente uno sconosciuto.

Giuseppe Graviano è arrivato in treno nella Capitale, con il fidato Fifetto Cannella. “Amunì”, andiamo, gli dice Matteo. Sono già le 15, e il lavoro che li aspetta è tanto. Ma all’appuntamento mancano ancora altri due giovanotti appena giunti anche loro da Palermo. Hanno preso l’aereo e poi hanno affittato un’auto a Fiumicino, una Y10 bianca. Sono Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci. Per loro ha garantito Messina Denaro, assicurando a Riina che sono persone di cui ci si può fidare ciecamente. Uno fa il sicario, l’altro è un affermato grossista di gioielli di Castelvetrano, la città di Matteo, dove aveva avuto problemi con le rapine, e per questo aveva chiesto protezione alla famiglia. Mettendosi poi a disposizione. Per gratitudine. Geraci accompagna Matteo quando deve andare ad ammazzare qualcuno. A Roma, l’hanno portato perché ha una carta di credito American Express nel portafoglio. Così può affittare un’auto senza problemi. Un giorno, Messina Denaro gli aveva detto: «Francè, un amico vuole regalare alla fidanzata una parure da cento milioni di lire. Provvedi subito, i soldi te li do io». E il gioielliere aveva consegnato la parure nel giro di pochi giorni. Era un regalo di Giuseppe Graviano alla sua donna, Bibbiana Galdi. Qualche giorno dopo, il boss palermitano aveva fatto avere i soldi a Matteo Messina Denaro, che li aveva rifiutati. «Noi siamo amici inseparabili», aveva tagliato corto. Gli “inseparabili” hanno una missione a Roma. Qualche giorno prima si sono riuniti tutti a Palermo, in casa di Salvatore Biondino, mafioso di peso di San Lorenzo. E lì u’ zu Totò, Salvatore Riina, ha ribadito le cose da fare. Quelle che aveva già comunicato in una riunione dell’ottobre precedente, in una villa nel cuore delle campagne di Castelvetrano. Lo racconteranno in seguito Geraci e Sinacori quando, arrestati, diventeranno collaboratori di giustizia. A Roma devono pedinare e uccidere Giovanni Falcone, che da qualche mese lavora al ministero della Giustizia come direttore degli Affari Penali.

Ecco cosa devono fare. «È arrivato il momento», aveva sentenziato Totò Riina. Prima il giudice Falcone. E poi, il giornalista Maurizio Costanzo, che si era permesso di dire che i padrini ricoverati in ospedale erano in perfetta salute e dunque degli impostori. Totò Riina, in quei primi mesi del ’92, sembra non volersi fermare più: «Loro vogliono fare la Super Procura? E noi facciamo la Super Cosa». Si affida ciecamente a Giuseppe Graviano e a Matteo Messina Denaro. Per questo quei due sono a Roma, davanti a Fontana di Trevi. Sono armati con pistole nuove di zecca, 357 Magnum. Un camion con altre armi ed esplosivo è partito da Mazara un paio di giorni prima, il carico è stato nascosto nello scantinato di un condominio di via Alzavo 20, zona Casilino, a Roma. Qui abita un vecchio amico di Matteo, Antonio Scarano. Il boss trapanese gli ha fatto consegnare da Geraci 20 milioni di lire per affittare un appartamento nel quartiere Parioli, anche se, alla fine, la compagnia si è sistemata in periferia, in via Martorelli 41, a Torre Maura. Messina Denaro e Scarano si danno appuntamento al centro commerciale “Le Torri” di via Parasacchi, a Tor Bella Monaca, per discutere i dettagli. Mentre davanti alla Fontana di Trevi, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano sanno che devono fare in fretta. Un gruppo di quei siciliani arrivato a Roma – la soffiata l’hanno ricevuta direttamente da Totò Riina – va nel quartiere Prati, in via dei Gracchi. E si apposta, per studiare il territorio, davanti al ristorante “Il Matriciano”. È un locale, secondo le informazioni dello zio Totò, che il giudice Falcone frequenta abitualmente. Ma non è un’informazione corretta. Qualcuno ha confuso i luoghi o, più verosimilmente, i piatti della tradizione romana: il giudice mangia spesso a “La Carbonara” di Campo De’ Fiori e non al “Matriciano”. Decidono di sorvegliare anche la “Sora Lella”, un ristorante sull’isola Tiberina e pure il bar Doney in via Veneto. Fingeranno di essere turisti. Armati, aspettano il giudice Falcone.

Il capomafia ribelle. E un’esecuzione “necessaria”. La trasferta romana non dura a lungo. «Appena dieci giorni», ricostruirà il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, che ha portato Matteo Messina Denaro a giudizio per le stragi Falcone e Borsellino. Neanche il tempo di fare un po’ di shopping e frequentare i locali più alla moda, fra un pedinamento e l’altro. Perché, all’improvviso arriva il contrordine di Totò Riina: «Dovete scendere, a Palermo ci sono cose più grosse per le mani». C’è Capaci. C’è la strage che Giovanni Brusca e la squadra di sicari che guida porteranno a termine il 23 maggio. A Palermo, i capi di Cosa nostra brindano per la morte di Falcone. Nel cuore della provincia di Trapani, nel regno di Messina Denaro, c’è invece malumore. E c’è un boss di grande carisma che non ha remore a esprimere i suoi dubbi sulla scelta stragista di attacco allo Stato. Si chiama Vincenzo Milazzo, è di Alcamo, padrino giovane ma di una dinastia di vecchia mafia, almeno quanto quella dei Messina Denaro. «Aveva davvero una forte personalità», racconterà il pentito Gioacchino La Barbera, uno dei sicari che vennero incaricati di uccidere Milazzo. Lo invitano in un casolare per una “mangiata” e poi gli sparano un colpo alla testa. Ma non basta. Fra il 14 e il 15 luglio, pochi giorni prima della strage Borsellino, strangolano anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo. Con la mafia non c’entrava nulla. Aveva 23 anni, faceva la maestra, ed era incinta di tre mesi. I Corleonesi la condannano a morte facendo sapere che è al corrente di tutti – proprio tutti – i segreti di Milazzo. E che ha un parente nei Servizi segreti: un pezzo grosso, un generale. Una storia che diventa ancora più misteriosa quando nel 1998, viene arrestato l’autista di Milazzo. Si chiama Armando Palmeri e così ricorda gli ultimi mesi di vita del suo capomafia: «Mi chiese un giorno di accompagnarlo a una serie di incontri con due personaggi che mi indicò come appartenenti ai servizi segreti. Tre incontri avvenuti nel 1992, a distanza di un mese l’uno dall’altro. L’ultimo, se non erro, si svolse una decina di giorni prima della sua scomparsa». Aggiunge: «Mi confidò che erano persone che conosceva già da tempo. Le prime due riunioni avvennero nelle prime ore del pomeriggio, mentre la terza in ore serali. Io da lontano li guardavo con il binocolo». Milazzo aveva confidato molte cose al suo autista: «Gli venne proposto di adoperarsi per la destabilizzazione dello Stato: una finalità da perseguire attraverso atti terroristici da compiere fuori dalla Sicilia. Ma Milazzo era contrario a queste cose. Diceva che non avrebbero portato nessun vantaggio a Cosa nostra. Anzi, avrebbero portato a una dura reazione dello Stato». Alla ricerca di tracce per individuare quegli uomini, i magistrati di Caltanissetta hanno verificato se, effettivamente, Antonella Bonomo avesse un parente nei servizi segreti. E ne hanno avuto riscontro. Si tratta di un generale dei carabinieri, che aveva allora un incarico al Sisde. Convocato dai pubblici ministeri, il generale ha negato di avere avuto mai contatti con la giovane donna e il suo compagno mafioso. Allora, cosa c’è davvero dietro quell’esecuzione del boss Milazzo organizzata con tanta fretta? C’è chi dice che quello della morte del boss di Alcamo sia un altro dei segreti che, dopo quasi trent’anni, garantisca la latitanza di Matteo Messina Denaro.

La trattativa a suon di bombe. C’è un’altra data ancora che aiuta a comprendere perché Matteo Messina Denaro sia diventato il boss che oggi conosciamo: il giorno della cattura del suo padrino Salvatore Riina. La mattina del 15 gennaio 1993 Matteo Messina Denaro è arrivato di buon mattino a Palermo, accompagnato dal fidato Vincenzo Sinacori per partecipare a una riunione importante con gli altri fedelissimi del capo dei capi. Come sempre, Matteo è l’unico che arriva da fuori provincia. Ma è ormai un pezzo fondamentale della “Super Cosa” con cui Riina si è messo in testa di muovere guerra allo Stato. Nel 1993, le breaking news non le porta ancora Internet, ma la televisione e così è anche per l’arresto di Riina. Salvatore Biondo avverte Giovanni Brusca e Gioacchino La Barbera. «È successo qualcosa di brutto», sussurra al telefono. Brusca corre a nascondersi nell’officina di Michele Traina, a Falsomiele. Intanto, Leoluca Bagarella, il cognato di Riina, parla con i suoi e sbotta: «Meno male che non l’hanno seguito. Altrimenti avrebbero arrestato pure Messina Denaro, Graviano, Biondo e tutti gli altri». In effetti quella mattina si sarebbe dovuta tenere una riunione della Commissione provinciale, la Cupola di Palermo. E, probabilmente, i capi dovevano discutere e pianificare altri attentati dopo l’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. La cattura di Riina è in ogni caso un terremoto per Cosa nostra. Messina Denaro lascia Palermo in tutta fretta. La mafia siciliana comincia ad essere avvelenata da sospetti pesanti: chi ha tradito lo zio Totuccio? E adesso chi prenderà il suo posto? Chi sta tramando contro la strategia dei “falchi” dell’organizzazione? I “falchi” sono Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca. L’ala stragista, insomma. Bernardo Provenzano, da sempre l’alter ego di Riina, invita tutti “a un momento di riflessione”. E questo gli guadagna il sospetto di essere il “regista” dell’arresto di Riina. A sostenere le posizioni “moderate” di Provenzano ci sono Pietro Aglieri di Santa Maria di Gesù, Benedetto Spera e Nino Giuffrè che sono capi nella provincia palermitana. C’è poi un terzo schieramento, quello degli attendisti: Salvatore Cancemi di Porta Nuova, Raffaele Ganci della Noce; Michelangelo La Barbera di Boccadifalco. Dentro Cosa nostra si apre un “dibattito”. Bagarella, tuttavia, in ragione dell’illustre parentela con Riina, si sente già investito della successione. Progetta nuove stragi e valuta anche di dare corpo al sogno che da sempre appassiona Cosa nostra: separare la Sicilia dal resto dell’Italia per annettersi agli Stati Uniti. Bagarella ne parla con Messina Denaro proprio mentre un vecchio uomo d’onore siculo-americano, Rosario Naimo, si nasconde in provincia di Trapani. Matteo ha bisogno di sapere se Cosa nostra americana è d’accordo. «Ma la risposta non fu buona – ha ricordato Sinacori, che oggi è ormai un collaboratore di giustizia – Naimo disse che il progetto era assolutamente “fuori tempo”..». Bagarella prova comunque a battezzare un suo personale movimento autonomista, che chiama “Sicilia Libera”. Anche se il vero obiettivo resta un altro. Il primo aprile del 1993, i “falchi” convocano una riunione. Non è la Cupola, perché solo Riina potrebbe raccogliere intorno a un tavolo i capi mandamento. Ma è comunque un incontro importante. In una villetta fuori Bagheria, poco distante dall’Hotel Zagarella, arrivano Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Il vecchio Provenzano, invece, non si fa vedere. Il segno chiarissimo che non vuole altre bombe. Tuttavia, la decisione è presa. Si andrà avanti con la strategia stragista. E qualcuno – non è ancora chiaro chi – ne suggerisce gli obiettivi. «A metà maggio, Matteo mi mostrò un libro che raffigurava gli Uffizi», racconterà Sinacori. Il 14 di quel mese, i killer di Palermo sono a Roma e provano ad uccidere Maurizio Costanzo, con l’esplosivo che Matteo Messina Denaro aveva fatto arrivare nella Capitale nella primavera del 1992. Il 27 maggio, scoppia la bomba che sventra il cuore di Firenze, uccidendo Fabrizio Nencioni, ispettore dei vigili urbani, e la moglie Angela Fiume, custode dell’Accademia dei Georgofili, insieme alle loro figlie. Nadia aveva nove anni, Caterina meno di due mesi. L’incendio innescato dall’esplosione uccide anche lo studente universitario Dario Capolicchio che ha ventidue anni. Il gruppo di fuoco è arrivato dalla Sicilia. Ma, ancora oggi, non tutto è chiaro di quel massacro. Appena qualche mese fa, da un archivio dei carabinieri di Firenze, è riemerso l’identikit di una misteriosa donna. E c’è anche il racconto di un testimone che ha già aperto un nuovo filone nelle indagini sui complici dei mafiosi nelle stragi 1993. Età 25 anni circa, corporatura magra, capelli scuri, corti e lisci, alta circa 1,70». Tre giorni dopo la bomba che devasta un’ala degli Uffizi, il portiere di un palazzo del centro racconta che, poco prima dell’esplosione, è stato svegliato dalle voci di due giovani che tentavano di aprire a spallate il portone dello stabile. Avevano perso qualcosa: una busta gialla. Da una finestra, il portiere vede i due giovani e un’auto da cui scende una donna che indossa un tailleur scuro. Poco più in là, un Fiorino bianco, come quello poi saltato in aria in via dei Georgofili. «La donna pronunciò una bestemmia e disse ai due giovani, che tenevano un borsone: “Ci vogliamo muovere o no?”…».

Quel verbale, con allegato “Fotofit”, l’ha scoperto in una caserma dei carabinieri di Firenze un consulente della commissione parlamentare antimafia, il magistrato Gianfranco Donadio, oggi procuratore di Lagonegro. Negli anni passati, Donadio, come sostituto della procura nazionale antimafia, ha scavato nei misteri delle stragi. All’epoca, il “Fotofit” della donna era stato subito trasmesso alla Procura di Firenze, ma non venne mai diffuso. E neanche il testimone fu mai ascoltato. «Mi è sembrato sempre molto strano», ha detto lui, oggi settantenne, convocato dalla commissione antimafia in trasferta a Firenze. In quei primi mesi del 1993, intanto, Matteo, ufficialmente, per così dire, è latitante a Palermo.

I complici. I segreti di quei giorni del 1993 hanno abituato Matteo Messina Denaro a una cura maniacale delle sue relazioni, sempre più riservate, sempre più orientate verso lucrosi affari. Perché nella Seconda Repubblica nata dopo le bombe, è il business, più della politica, il vero terreno di incontro. E lui, che è diventato un fantasma, ha sempre tanti grandi imprenditori (spesso venuti dal nulla) che curano i suoi interessi. L’ultimo manager che polizia e carabinieri seguono si chiama Mimmo Scimonelli e ha 53 anni. Quando non si aggira fra masserie diroccate e vigneti di Mazara del Vallo per nascondere l’ultimo pizzino del superlatitante, gestisce tre supermercati Despar fra Partanna e Gibellina. Ma è spesso in viaggio: fra Roma, Bologna, Milano e la Svizzera. Scimonelli ha una passione per il vino. La sua azienda, la “Occhio di sole” di Partanna, può fregiarsi di alcuni importanti riconoscimenti al Vinitaly, per il Cataratto Chardonnay “Il Gattopardo-La Luna” 2009 e per il Syrah “Zu’ Terzio” 2008. Fino a quando, arrestato, non lo condannano all’ergastolo anche quale mandante di un omicidio. E tuttavia, dal giorno dell’arresto, nell’estate del 2015, non proferisce sillaba. Paura di Matteo Messina Denaro. Che, nel frattempo, è diventato un brand di successo. Negli ultimi cinque anni, il suo “valore” raggiunge quasi 6 miliardi di euro, perché a tanto ammontano i sequestri giudiziari di beni a lui riconducibili, direttamente o indirettamente. Sul suo territorio, in provincia di Trapani. E fuori dalla Sicilia. Ecco perché l’internazionalizzazione degli affari lungo il confine mafioso, porta lontano anche le ricerche di Messina Denaro. Qualche anno fa, i magistrati della procura di Palermo e gli investigatori della Dia seguono le tracce del padrino in una delle società in Lussemburgo gestite da Vito Nicastri, l’elettricista di Alcamo che nel giro di vent’anni è diventato il “re” dell’energia eolica. I “pali”, un altro settore strategico della holding Messina Denaro. Quasi una fissazione, come diceva Riina intercettato in carcere: «Questo signor Messina, questo che fa il latitante, sempre ai pali pensa (i pali eolici – ndr). Pensa ai pali per fare soldi e non si interessa a noi». Totò Riina vorrebbe un erede più aggressivo e meno imprenditore. Ma il brand Messina Denaro ha ormai segnato il mercato. È diventato un’incredibile macchina da soldi. Affidata alle cure dell’ennesimo self made man, Giuseppe Grigoli, il “re” dei Despar della Sicilia Occidentale. Il “paesano mio”, come lo chiama nei pizzini. Che lui protegge. Protegge come ogni suo “prestanome”, la sua vera ricchezza.

L’amore. Per una bizzarra coincidenza di eventi (e di voci) mai si è saputo così tanto, nella secolare storia di Cosa nostra, della vita amorosa di un capomafia. Sarà anche un po’ leggenda, o per il ricordo “epico” che ne conservano certi suoi compaesani quando – vanitoso, vanitosissimo – da ragazzo andava in giro per Castelvetrano come un manichino tutto firmato, sta di fatto che Matteo ha sempre goduto fama di sciupafemmine. I racconti si sprecano. E, probabilmente, verità e finzione si confondono fino al punto di renderle indistinguibili. Però, qualche indizio che porta il boss decisamente fuori dagli schemi classici del mafioso – moglie, figli, una sola famiglia, niente amanti “perché è poco morale” – c’è ed è anche documentato dalle inchieste giudiziarie. Se una ragazza ha fatto perdere la testa a Matteo quella è stata “Asi”, Andrea Haslehner, un’austriaca che ogni anno con i primi caldi estivi scendeva da Vienna in Sicilia per lavorare alla reception dell’hotel “Paradise Beach” di Selinunte. Bellissima, colta (in seguito si specializzerà in Germanistica e in Romanistica), parlava inglese e francese, russo, spagnolo e naturalmente italiano. «Era bionda, con gli occhi azzurri, alta circa un metro e settanta, aveva vent’anni», racconta Francesco Geraci, uno del giro di Matteo che si è poi pentito. La relazione con “Asi” è iniziata intorno al 1988 ed è finita nel 1993. Estati nei lidi di Marina di Selinunte, inverni in Austria con il boss che l’andava a trovare a Vienna. C’è però un altro uomo che si è invaghito della ragazza: Nicola Consales, il vicedirettore del “Paradise Beach”. E per questo il suo destino è segnato: viene fatto fuori a colpi di pistola dagli scagnozzi di Matteo la sera del 21 febbraio 1991. In quegli anni non c’è solo “Asi”. Perché gli altri amori del boss sono nei “pizzini” che vengono ritrovati nei covi in cui si nasconde. È alla vigilia della sua latitanza, infatti, che scrive a Sonia M., una ragazza di Mazara del Vallo: «Devo andare via e non posso spiegarti ora le ragioni di questa scelta. In questo momento le cose depongono contro di me. Sto combattendo per una causa che oggi non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione..». Tra il 1995 e il 1996, nei suoi primi anni in fuga, sono due le donne che segnano la sua vita. Una è Franca Alagna. Che, il 17 dicembre del 1995, partorisce una bella bambina. È figlia di Matteo. Ma porta il cognome della madre, anche se Franca va a vivere insieme alla figlia nella casa di Lorenza Santangelo, la madre del boss. La bimba prende il nome della nonna: Lorenza. È un rapporto molto difficile quello fra padre e figlia. Scrive un giorno Matteo al solito amico “Svetonio”: «Le confido una cosa intima, gliela confido con l’affetto di un figlio; veda, io non conosco mia figlia, non l’ho mai vista, il destino ha voluto così…». La convivenza in casa della nonna si fa complicata e Franca Alagna se ne va. Qualcuno dice che Lorenzina abbia rinnegato il padre. Ma non è così. È piuttosto un problema di “comunicazione”, come fa sapere – in una chiacchierata captata dagli investigatori – la nonna a Salvatore, il fratello di Matteo: «Devi dire a tuo fratello che ha una figlia che a dicembre ha compiuto 11 anni e che è arrivato il momento che qualcosa pure a lei scriva, perché adesso la ragazzina inizia a fare domande sul padre, inizia a capire e lui non può continuare a ignorarla come ha sempre fatto». Pragmatico, Salvatore risponde: «Si vede che nel posto in cui si trova non può scrivere, non può mandare nulla». Del resto, appena un anno dopo la nascita di Lorenzina, il boss ha già un’altra fidanzata. È Maria Mesi. Ha tre anni meno di lui, sembra però ancora più giovane. È innamoratissima. Gli fa regali. Profumi e videogiochi di ultima generazione, quelli che saranno trovati nel covo di Aspra. Maria lavora in una piccola azienda che commercializza pesce di proprietà dei Guttadauro (boss imparentati con Matteo). Spedisce messaggi d’amore: «Vorrei stare sempre con te, ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito…Ti amo e ti amerò per tutta la vita, Tua per sempre Mari…». Dalle carte, raccolte anno dopo anno e inchiesta dopo inchiesta dal pool che dà la caccia al superlatitante, salta fuori anche un’altra Francesca. Di lei si sa poco: che la frequentazione con Matteo era stata breve. Che non lo vedeva più dal maggio del 1993 (un mese prima che il boss diventasse ufficialmente un ricercato). Che intorno al 1995 aveva ricevuto un suo messaggio scritto, consegnatogli da un certo Giovanni Agate. Donne, tante donne. L’ultima, anche lei naturalmente bellissima, viene avvistata in un giorno imprecisato di un anno imprecisato a Valencia, in Venezuela. È in compagnia di Matteo, dall’altra parte del mondo. Vero o falso? Tutto si mischia nel romanzo nero di Matteo. Anche la fantomatica presenza di un figlio maschio. Ogni tanto qualcuno ne parla, nelle conversazioni registrate da microspie nelle case fra Castelvetrano e Partanna, fra Campobello di Mazara e Trapani. Sarebbe nato fra il 2004 e il 2005, madre sconosciuta. Una cosa si può azzardare: se questo figlio esiste veramente, si dovrebbe chiamare Francesco. Come tradizione impone: come il nonno.

Castelvetrano, la famiglia e 30.893 abitanti meno uno. L’ultima volta che siamo entrati alla Badìa, il quartiere di Castelvetrano dove vivono i Messina Denaro, di nuclei familiari con quel cognome ne abbiamo contati diciannove. Tutti in una sola strada intitolata all’eroe risorgimentale Alberto Mario, e dove Matteo (ufficialmente) non mette più piede dal giugno del 1993. Tant’è che un paio di anni fa, in occasione dell’ultimo censimento, al suo unico domicilio noto – appunto via Alberto Mario 51/5 – i messi comunali cancellarono dall’elenco dei residenti “Messina Denaro Matteo fu Francesco nato il 26 aprile 1962”. Castelvetrano, dunque. 30.893 mila abitanti meno uno: lui. O così almeno sembra, visto che da più di un quarto di secolo lì non l’hanno mai trovato. In via Alberto Mario, non ci sono più neanche alcuni familiari che, da molti anni, sono ospiti delle case di reclusione italiane. Ce ne sono altri invece, di Messina Denaro, che portano quel cognome ma tengono tanto a far sapere «che loro sono quelli buoni». C’è mezza provincia che fa il tifo per Matteo. Lo hanno consacrato a mito e – paradosso – in famiglia litigano e si dividono su di lui. In realtà le cose appaiono un po’ più complicate. La famiglia, che nelle comunità mafiose di solito è il punto di forza del boss, nel caso di Matteo si è rivelata il lato debole. Forse anche per questa ragione Matteo Messina Denaro non è più passato da via Alberto Mario 51/5. Perché non è quello che si dice un rifugio sicurissimo. Intanto, ha avuto cognati che gli hanno dato grattacapi a non finire. Uno è Gaspare Como. L’altro, Rosario Allegra. Tutti e due avevano la pessima abitudine, da sempre, di pronunciare il suo nome invano. Per farsi gli affari loro. Cominciamo da Gaspare Como, marito di Bice, una delle sorelle del latitante (l’altra si chiama Patrizia, la terza Giovanna, la quarta Rosetta che è anche la più grande), commerciante di abbigliamento che da un po’ ha lasciato Castelvetrano e si è trasferito a Caltanissetta. Probabilmente, per leccarsi le ferite. Qualche tempo prima di lasciare il paese, Gaspare è stato pestato a sangue. Naturalmente, non ha fatto denuncia ai carabinieri o alla polizia, naturalmente non si è presentato al pronto soccorso. Ma le voci a Castelvetrano corrono. E sono particolarmente veloci quando riguardano i Messina Denaro. Chi ha osato malmenare e pure pesantemente il cognato di Matteo? E perché? Gli investigatori non ci hanno messo molto ad arrivare a una sola conclusione: «Soltanto Matteo ha potuto farlo, nessun altro, a meno che non sia qualcuno pazzo da legare». L’altro cognato, Rosario Saro Allegra – marito di Giovanna e anche lui commerciante di abbigliamento, che è morto l’anno scorso – gliene ha combinata una davvero grossa. Ha promesso voti al fratello di una candidata alle elezioni regionali in cambio di 60 mila euro. Le microspie dei carabinieri hanno scoperto tutto. Anche l’imbroglio. Allegra ha preso la “stecca”, ma non si è mosso per far avere un solo voto alla signora. Il mediatore dell’operazione, a quel punto, è andato a Palermo dai Guttadauro, protestando vivacemente con il nipote prediletto di Matteo, Francesco. Le registrazioni delle conversazioni sono significative: «Abbiamo preso Saro Allegra, lo abbiamo messo sulla macchina e lo abbiamo portato in campagna». A quel punto, Francesco Guttadauro inizia l’interrogatorio: «Com’è questo fatto dei soldi e dei voti che gli dovevi portare?». E rimprovera Saro: «Tu metti la faccia della nostra famiglia, ed andiamo a fare questa gran brutta figura a Castelvetrano… Ora tu gli restituisci i soldi». Matteo non ha gradito. Avere in famiglia uomini senza parola fa perdere prestigio e potere. Le liti in famiglia si sa sempre come iniziano ma non si mai come finiscono. Quelle in casa dei Messina Denaro, prima o poi potrebbero tracimare. E poi c’è la “questione” di Lorenza, la figlia di Matteo. Per qualche tempo, lì alla Badìa, c’è un via vai di motorini e di liceali che fanno casino sotto la casa di Matteo. Tutti ad aspettare Lorenzina. Feste, fidanzatini, gite, minigonne. Uno “scandalo”. Con lei, appena diciassettenne e figlia ribelle che frequenta lo “Scientifico”, sempre più esuberante. Un giorno arriva anche a dire che «quell’uomo» – il padre – non ha alcun diritto sulla sua vita perché non lo ha mai visto in faccia. Nonna Lorenza e zia Patrizia fanno una scenata alla ragazzina. E Lorenzina e sua madre se ne vanno via da via Alberto Mario, trovando un tetto dai nonni materni. Ma non c’è mai stata pace in famiglia, perché c’è stata anche la “vergogna” di un pentito. Accade nel 2013, con il marito di una cugina di Matteo: Lorenzo Cimarosa, un imprenditore agricolo. Un vero terremoto. Cimarosa, che è morto nel 2017, ha per giunta raccontato un po’ di dettagli sugli amici di Matteo e sui suoi affari. Un brutto segnale. Legate da fedeltà assoluta a Matteo sono rimaste solo le quattro sorelle e il fratello Salvatore. E naturalmente la madre che, alla parete del salotto di casa, ha appeso un grande quadro. Un pezzo unico. Un maxi ritratto di suo figlio in stile Andy Warhol.

L’estate delle stragi. Si sentiva così al sicuro Matteo Messina Denaro che se ne andava addirittura in vacanza, in giro per l’Italia, mentre le bombe esplodevano. Dopo i cinque morti di Firenze, il 27 maggio, altri cinque morti a Milano, in via Palestro il 27 luglio. Il giorno dopo, esplosioni a Roma, a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro.

Mentre gli uomini di Cosa nostra eseguono il mandato, gli strateghi di quella campagna di morte se la spassano a Forte dei Marmi. Matteo Messina Denaro è con Giuseppe e Filippo Graviano, fidanzate al seguito. In quel momento, Matteo ha una relazione con l’austriaca Andrea Haslnher. Per luglio e agosto la compagnia ha affittato una villa in via Salvatore Allende, a ottocento metri dal mare. Matteo si fa chiamare Paolo. Filippo e Giuseppe Graviano sono Filippo e Tommaso Militello, degli allegri siciliani che hanno pure il tempo di farsi mandare due biciclette da Palermo con un corriere espresso. Poi arriva anche il terzo fratello Graviano, Benedetto, con la fidanzata, la sorella e la cugina della fidanzata. Vacanze di grande relax, mentre l’Italia è ripiombata nel terrore. Una mattina fanno una gita a Milano, per un po’ di acquisti da Versace. Qualche giorno lo trascorrono ad Abano Terme. Altri a Rimini. Graviano e Messina Denaro sono davvero inseparabili. Condividono il passato, il presente e immaginano un futuro. «Perché le bombe servono a trovare qualcuno con cui dialogare», ragionano. I “falchi” di Cosa nostra sono insomma convinti che quella sia la strada. Al ritorno a Palermo, c’è una riunione in un villaggio turistico nella zona di Cefalù. Intorno a un tavolo, si ritrovano Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Si discute di colpire un collaboratore di giustizia. Poi, all’improvviso, arriva un politico amico dei Graviano, il senatore Dc Vincenzo Inzerillo. Lo ricordate, il senatore su cui aveva indagato il commissario Germanà? Bene, ora è alla riunione con l’ala stragista di Cosa Nostra. «Matteo mi fa segno di uscire dalla stanza – racconterà poi Sinacori – E sulla via del ritorno verso Trapani mi disse che quello era il senatore Inzerillo. Sosteneva che con le stragi non si sarebbe concluso niente, e che si doveva agire in altro modo». Suggeriva «la costituzione di un nuovo partito politico». C’era già in ballo “Sicilia Libera”, l’idea che piaceva a Bagarella. Ma i Graviano insistevano per un altro attentato, contro un pullman pieno di carabinieri. Erano i giorni in cui Giuseppe Graviano diceva al fidato Spatuzza, al bar Doney di via Veneto, a Roma: «Abbiamo il Paese nelle mani», facendo riferimento a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri. Però, il tempo dei Graviano stava già scadendo. A gennaio 1994, i fratelli Graviano saranno arrestati a Milano. Nel giugno 1995, toccherà a Leoluca Bagarella. L’anno successivo, a Giovanni Brusca, che deciderà subito di collaborare con la giustizia. Solo Matteo e i suoi segreti delle stragi saranno sepolti. Solo Matteo resterà un fantasma.

Chi protegge Matteo Messina Denaro. Le donne, le auto, la famiglia, le complicità nello Stato e i grandi affari di Cosa Nostra. Il libro che svela i segreti del Boss latitante da decenni. Piero Melati il 14 luglio 2020 su L'Espresso. Alla vigilia del grande Maxiprocesso di Palermo, Giovanni Falcone tenne una scottante “lectio” sulla mafia ad una platea di addetti ai lavori, in un albergo siciliano sul mare. In quella occasione spiegò che non era mai esistito, nel codice di Cosa Nostra, un termine come quello di “terzo livello”. I boss, affermò, non si facevano comandare da nessuna più alta e misteriosa entità. Ma quel giorno Falcone rivelò anche una novità sconvolgente: per la prima volta, disse, la mafia si era quotata in Borsa. Quando, alla fine dell’intervento, Falcone si concesse un caffè al bar dell’albergo, insieme a Paolo Borsellino, l’aria si fece elettrica. Tutti volevano saperne di più. I due giudici, sorridendo, rifiutarono ogni ulteriore commento. Ma i più avveduti avevano comunque capito che il riferimento era diretto al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini. Ricordate le imprese del natante “Moro di Venezia”, che appassionò l’Italia dei velisti? E poi la scalata alla Montedison, la nascita e il fallimento di Enimont? È proprio all’ombra di questi nuovi affari che inizierà ad allungarsi sulla storia italiana l’ombra di Matteo Messina Denaro, detto “u siccu” (il magro), considerato uno dei latitanti più pericolosi al mondo. “U siccu” è il boss che ha mandato in soffitta bombe e lupare, preferendo decisamente listini e capitalizzazioni. Attenzione: l’ultimo fuggitivo del clan dei corleonesi ha effettivamente attraversato tutta la stagione terrorista a fianco di Totò Riina; è stato apertamente uno degli irriducibili comandanti dell’offensiva contro lo Stato, a suon di attentati e stragi, nel biennio ’92-’93. Ma poi è stato anche lesto a riposizionarsi, intravedendo per primo i nuovi business all’orizzonte. Sul “secco” si è detto tutto e il contrario di tutto: è come Diabolik, non si nasconde in Sicilia, gira il mondo, guida una Aston Martin armata di mitragliatori, come 007. Si è scritto persino che non esiste: è solo un simbolo, un fantasma.

Tutte leggende. Ora Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, già autore dell’inchiesta su “Mafia Capitale”, rimette il boss con i piedi per terra, citando proprio il caso Ferruzzi-mafia, già nella prima parte del suo “U siccu, Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi” (Rizzoli).

Affari, anzitutto grandi affari. “U siccu” ha fatto riemergere l’anima originaria di Cosa Nostra. Affari grandi e affari sporchi: per questo il ricercato numero uno, spiegano i suoi cacciatori, resta ancora oggi così pericoloso. La sua strategia non prevede più separazioni tra illegalità e istituzioni economico-finanziarie, tra politica e crimine, tra amministrazione centrale e poteri occulti. Una metamorfosi sistemica messa a punto già durante la lunga parentesi successiva alle stragi, quando dopo la cattura di Riina (gennaio 1993) Bernardo Provenzano ha governato Cosa Nostra siciliana di nuovo nell’ombra e nel silenzio, fino al suo arresto del 2006. Da quel giorno “u siccu” - ormai affrancato da ogni padrinaggio - ha proceduto da solo. Abilissimo e imprendibile.

U siccu. Matteo Messina Denaro l'ultimo dei Capi (Rizzoli)Chi è davvero Matteo Messina Denaro? Anzitutto, racconta Lirio Abbate, è la pietra di paragone della storia italiana. Se leggiamo attentamente le sue gesta, scopriamo che squadernano le nostre abituali ricostruzioni sul crollo della Prima Repubblica. Abbate mette in rilievo un dato, che si registra tra l’86 e l’87, gli anni del Maxiprocesso: la mafia fa confluire i suoi voti nelle liste elettorali dei socialisti e dei radicali di Pannella, non sentendosi più protetta da quei settori della Democrazia cristiana con cui era più abituata a “trattare”. A conferma, il 31 gennaio del 1992, la Cassazione mette il bollo definitivo alle condanne del Maxiprocesso. Cosa Nostra si sente definitivamente scaricata dai vecchi protettori. E si vendica. Vengono uccisi il potente esattore Ignazio Salvo e l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima. E intanto, il 17 febbraio del 1992, scoppia a Milano l’inchiesta Mani Pulite.

Ma che relazione c’è tra le due cose? Nel gennaio del 2020, ricorda ancora Abbate, in una clamorosa intervista a “L’Espresso”, l’ex pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro dice a Susanna Turco: «Mani Pulite è una storia che andrebbe riscritta . Mani Pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Falcone riceve riservatamente dal pentito Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia... Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio del 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». Michele Sindona, Roberto Calvi, Raul Gardini, tre casi clamorosi di alta finanza internazionale finiti poi in odor di mafia. È questo lo spessore vero dell’ultimo latitante siciliano. Quando il 20 settembre del 2013 arriva la notizia della confisca di tre milioni e mezzo di euro al re dell’energia alternativa Vito Nicastri , che ha impiantato nel trapanese centinaia di pale eoliche, imprenditore considerato vicino a Matteo Messina Denaro, si capisce che “u siccu” sta battendo quelle piste, che per lui non sono nuove. Già il 16 settembre del 1992, a pochi mesi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, in uno studio legale romano, era stato stretto un accordo tra algerini e maltesi per la costruzione di un complesso turistico da 1800 miliardi di lire. L’operazione, coordinata dai clan, serviva a riciclare il denaro del “secco”. Il grande latitante, nativo di Castelvetrano, figlio del boss Francesco, vera aristocrazia mafiosa, è stato un manager d’affari sin dalle origini. Bombe, stragi, guerre, solo quando occorre. Poi soprattutto “piccioli”. Quelli occorrono sempre.

Non esiste boss che abbia parlato più di Matteo Messina Denaro. Di lui sono state ritrovate lettere private, “pizzini” scambiati con Provenzano, un intero epistolario (sotto i suggestivi soprannomi di Alessio e Svetonio) intrattenuto con Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, accusato di favoreggiamento. Uno scambio di lettere durato quasi due anni, dal 2004 al 2006. Vaccarino si è sempre difeso sostenendo di operare per conto dei servizi segreti. La successiva scoperta del tradimento da parte di ufficiali della Dia ha scoperchiato una estesa rete di protezioni e complicità, complicata quanto un labirinto. Difficile distinguere chi lavora a catturarlo da chi, facendo finta di braccarlo, gioca nella sua stessa squadra. Ora Abbate aggiunge anche un significativo inedito: l’unico verbale ufficiale che raccoglie le dichiarazioni del boss quando, nel giugno dell’88, a 26 anni, venne fermato e interrogato. L’inchiesta di Abbate ci rivela la sua mezza dozzina di storie d’amore, la passione per la PlayStation e la musica classica, l’amore per le auto sportive, i rapporti con la madre e le quattro sorelle, l’esistenza di una figlia mai vista e dalla quale ha dovuto accettare scelte di vita non conformi alla ortodossia mafiosa. I tempi cambiano ma “u siccu” resta soprattutto un boss con il “cappuccio”. Trapani, il suo regno, è una miniera di logge non dichiarate. Una rete molto estesa, che ha fatto tornare il sospetto sull’esistenza, dentro Cosa Nostra, di un vertice segreto, un grado superiore, una “élite” chiamata a gestire enormi e intracciabili patrimoni.

C’è consenso, nel territorio, attorno al “padrino”? Come i grandi narco-leader messicani (gli Escobar, i Chapo) Messina Denaro non spreme la gente. Ha una regola: il “pizzo” lo pagano solo le grandi imprese. Il boss ha dato vita a una sorta di “welfare mafioso”: investe, aiuta, sostiene bisognosi e familiari dei detenuti, in cambio dell’invisibilità. Del “secco” non esistono impronte digitali, foto segnaletiche, registrazioni del timbro della voce. E nessuno che l’abbia descritto di recente. Nessuno, mai, che lo tradisca.

Il suo regno è stato imbottito di telecamere, microspie, registratori. Da anni, nel trapanese, ci si scherza. Microtelecamere e invisibili microfoni sono stati piazzati anche sulla lapide del padre Francesco. Una delle sorelle, in visita al cimitero con le zie, l’ha scoperto. «Nella tomba di papà c’è il Grande Fratello», ha commentato. Il padrino in fuga soffre di una malattia degenerativa della cornea, così è stato cercato anche nelle cliniche di Barcellona. Ma niente. Gli inquirenti hanno trovato tracce dei suoi viaggi d’affari (Austria, Svizzera, Grecia, Spagna, Tunisia), di collegamenti con Francia e Germania, di canali aperti con paesi produttori di cocaina. Si dilegua sempre in tempo. «Ha la forma dell’acqua, come il romanzo di Camilleri», annota Lirio Abbate.

E oggi? Attraverso Vito Nicastri, l’imprenditore delle pale eoliche condannato nel 2019 a nove anni, è emerso il nome di Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia passato alla Lega, esperto di ambiente. Arata ha scritto il programma leghista sull’energia e sosterrà di aver avuto un ruolo determinante nella nomina del senatore leghista Armando Siri a sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Conte I. Arata dirà al figlio, in una conversazione intercettata, che presto grazie a Siri saranno varate norme per favorire gli investimenti siciliani di Nicastri. Lo stesso figlio di Arata otterrà una consulenza a Palazzo Chigi. La Procura di Palermo definirà Arata “prestanome” di Nicastri e quest’ultimo “capofila” di una fitta rete che assicura “corsie preferenziali e concessioni” ai nuovi investimenti. Dietro i quali si staglia sempre l’ombra di Matteo Messina Denaro, l’ultimo imprendibile.

Il ruolo di Matteo Messina Denaro nelle stragi di Capaci e via D'Amelio. Il boss è sotto processo con l'accusa di essere uno dei mandanti degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino e degli uomini delle loro scorte. Lirio Abbate il 14 luglio 2020 su L'Espresso. Il capomafia trapanese Matteo Messina Denaro, 58 anni, ricercato dal 1993, è attualmente sotto processo a Caltanissetta perché accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Le fasi del processo sono ormai giunte alla conclusione, davanti ai giudici della Corte d’assise sono sfilati investigatori, testimoni di giustizia ed ex mafiosi. Hanno raccontato e mostrato il lato violento e criminale di Messina Denaro, il suo modo di essere capo e il ruolo di “assistente” di Salvatore Riina. E le decisioni sanguinarie prese per sostenere la leadership corleonese, tra cui l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Il processo ci restituisce una figura di stragista, carnefice, sanguinario che ha ucciso persone innocenti e bambini. All’epoca delle stragi Messina Denaro aveva 30 anni, e nel 1992 Cosa nostra sferra il suo micidiale attacco allo Stato, in risposta alle condanne del maxi processo», afferma il pm Gabriele Paci durante la requisitoria.

«Si è detto che Messina Denaro era troppo giovane a 30 anni per poter dire che fosse il mandante della strage perché nella mafia si fa carriera con gli anni. Ma è un luogo comune. Dal 1993 in poi Messina Denaro è, insieme a Brusca, i Graviano e Bagarella uno dei capi di Cosa nostra. Il 1993 è l’anno delle stragi, inizia con l’arresto di Riina e da quel momento in poi la mafia è governata da questo gruppo di persone che porta avanti la politica stragista», spiega il pm. «Da quelli che sono gli elementi di prova forniti, vedremo come questo status di Matteo Messina Denaro non verrà mai revocato. Rimarrà lui al vertice di Cosa nostra trapanese, e il suo peso politico aumenterà sempre all’interno di Cosa nostra», ha aggiunto. «Se Messina Denaro non avesse avallato la strategia stragista di Riina, decidendo di non mettersi contro lo Stato, Riina cosa avrebbe fatto?», si è chiesto il magistrato durante la requisitoria. «Intanto non avrebbe potuto contare sui trapanesi e non avrebbe potuto trascorrere parte della latitanza a Mazara del Vallo e Castelvetrano. Quindi il consenso dei trapanesi, nella persona di Matteo Messina Denaro, è un consenso fondamentale. Riina non avrebbe mai potuto ordinare quello che ha fatto senza di loro. Se tutti non gli fossero andati dietro lui non avrebbe potuto fare la guerra allo Stato, e quello che la sua mente diabolica aveva già elaborato». Senza dimenticare che anche Matteo Messina Denaro «partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi essere ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto nel trapanese, in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci». La sentenza è prevista entro la fine dell’estate. 

Il sì di Messina Denaro alle stragi del ’92 era importante. E lo era per gli appalti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 giugno 2020. Nella sua requisitoria al processo di Caltanissetta contro il boss superlatitante, il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha spiegato che il feudo dei Messina Denaro, in provincia di Trapani, era decisivo geopoliticamente per i grandi affari che venivano gestiti con le imprese del Nord. Matteo Messina Denaro, latitante fin dal 1993, è attualmente imputato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e di via D’Amelio. Il 19 giugno scorso il pm Gabriele Paci, in una requisitoria di oltre due ore, ha evidenziato tutti gli elementi che inchioderebbero il superlatitante. Precedentemente, il magistrato che nell’ufficio inquirente di Caltanissetta riveste funzioni di procuratore aggiunto si era dilungato a lungo sul Trapanese, il territorio in cui tutto si svolge. Ha insistito molto su quel punto, perché è la chiave di volta del collegamento tra i trapanesi e i corleonesi di Totò Riina. Da sottolineare che per “trapanesi” si intendono i mandamenti mafiosi di Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano. La geopolitica mafiosa dell’epoca è importante, per questo bisogna spiegarla. Totò Riina era il capo indiscusso, condivideva parte della sua fortissima influenza con Bernando Provenzano. Quest’ultimo, a sua volta, aveva un forte potere in alcune zone della Sicilia. Riina, che aveva ovviamente piazzato le proprie pedine dappertutto, aveva la roccaforte non solo nel Palermitano, ma, appunto, anche nell’area di Trapani. I principali collaboratori escussi durante il processo hanno delineato chiaramente che le maggiori azioni mafiose su ordine di Riina sono avvenute proprio in quel territorio. Ed è proprio quello trapanese che era, ed è, il feudo di Matteo Messina Denaro.

Custodi dei beni dei corleonesi. In realtà, il pm di Caltanissetta Gabriele Paci ha spiegato che il rapporto tra la mafia corleonese e quella trapanese era così fiduciario che i Messina Denaro (Francesco Messina Denaro e il figlio Matteo, il superlatitante), fin dagli anni 80, erano i custodi di buona parte dei beni di Riina e di Provenzano. Ecco perché c’era un’assidua frequentazione da parte dei Corleonesi del territorio del trapanese, eletto da Riina, e dagli altri protagonisti della stagione stragista, come luogo sicuro anche dopo le stragi del ’92. Ma a corroborare tutto ciò è il fatto che già alle prime Commissioni regionali, per esempio a quella dell’83, nelle riunioni cioè di quelli che erano veri e propri organi di vertice di Cosa nostra, competenti a decidere in tema di delitti eccellenti, era presente Francesco Messina Denaro, il padre dell’attuale latitante, con il ruolo di reggente della provincia di Trapani. Dagli inizi del 1991 in poi sarà il figlio Matteo a sostituirlo. Il padre sarà ritrovato cadavere il 30 novembre del 1998 alla periferia di Castelvetrano. Ma perché, secondo il pm Paci, l’allora capo dei capi Totò Riina – conosciuto per essere abituato a decidere lui e basta – avrebbe dovuto comunque avere l’assenso di Matteo Messina Denaro per deliberare le stragi di Capaci e di via D’Amelio dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Come detto, il feudo di Denaro era geopoliticamente importante per la mafia corleonese. Importante, però, soprattutto per gli affari. E si ritorna sempre lì, al discorso degli appalti. Non a caso, nel ’91, Falcone partecipò a un convengo dedicato proprio a mafia e appalti, sottolineando più volte che quello era, in assoluto, l’interesse più importante della mafia.

Quando Brusca parlò degli appalti. Ma non solo. Durante il processo Rostagno, lo stesso Giovanni Brusca disse: «Gli appalti erano il secondo mio interesse, dopo l’integrità e la sacralità di Cosa Nostra». Salvo poi, in maniera singolare, ritrattare con il tempo e dire che per loro quell’interesse non era poi così preponderante. «C’era un rapporto bilaterale – ha spiegato durante la requisitoria il pm Paci –, cioè i trapanesi fanno fortuna grazie a Riina e lui stesso deve la sua fortuna ai trapanesi». Ovvero, ha proseguito il pm, «Riina lo sa benissimo che i mazaresi erano tra i privilegiati nella spartizione degli appalti. C ’era il famoso Mastro Ciccio, mafioso potentissimo della famiglia di Agate Mariano che si occupava in particolare della spartizione degli appalti. Mazara del Vallo – ha sottolineato Paci –, su questo, non è arrivata mai seconda e quindi faceva anche comodo ai mazaresi essere particolarmente corrivi alla politica di Rina». Il procuratore aggiunto di Caltanissetta poi è ritornato nuovamente sulla questione evocando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino (conosciuto per essere il “ministro dei lavori pubblici” di Riina), sottolineando che «i beneficiari di questi grandi appalti, ovvero la politica del tavolino dove i grandi affari vengono gestiti dalle imprese del Nord che scendono, sono stati anche i mazaresi e gli uomini della provincia di Trapani». Ecco spiegato perché, secondo la requisitoria del pm di Caltanissetta, senza il consenso di Messina Denaro, il capo dei capi Riina non avrebbe mai potuto ordinare le stragi del ’ 92 e l’attacco allo Stato.

Le indagini di Borsellino. Ancora una volta ritorna il tema di mafia e appalti. In questo caso non come “genesi” delle stragi, ma come elemento importante che lega Matteo Messina Denaro e Totò Riina ad esse. Un dato è certo. Paolo Borsellino, quando era procuratore a Marsala, stava indagando proprio sugli appalti e non a caso volle avere copia del famoso dossier mafia-appalti, visionato e depositato da Giovanni Falcone prima che lasciasse la Procura di Palermo per andare a lavorare al ministero della Giustizia. Forse si spiega anche perché il colonnello della Dia di Caltanissetta Marco Zappalà, attraverso l’aiuto dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, stava cercando elementi analoghi. Nelle informative dei Ros che indagavano su loro due per conto della Procura di Palermo, compaiono diverse parti giustamente omissate. Non solo, tra queste spunta anche un riferimento ad Angelo Siino, colui che, ricordiamo, è stato coinvolto nel famoso dossier mafia-appalti, considerato di primaria importanza da Giovanni Falcone, così come da Paolo Borsellino fino al giorno in cui morì stritolato dal tritolo. A tal proposito ricordiamo che è in corso il processo contro Vaccarino, accusato dai pm di Palermo di aver favorito la mafia. Come? Con l’aver passato delle intercettazioni a Vincenzo Santangelo, titolare di un’agenzia funebre già condannato per mafia. Ricordiamo che gliele avrebbe date, via mail, il colonello Zappalà. Cosa contenevano? Un dialogo tra due personaggi convinti (erroneamente) che il Santangelo avesse omaggiato delle spese del funerale la famiglia del pentito Lorenzo Cimarosa. Nel corso della requisitoria dello scorso 26 maggio, il pm Pierangelo Padova ha affermato che Vaccarino, parlando con Santangelo, «non sapendo di essere intercettato, disse di Lorenzo Cimarosa “questo fango che si è pentito e si lanzò tutto”». Eppure Baldassare Lauria, legale dell’ex sindaco, nella stessa udienza del 26 maggio ha commentato così l’interpretazione del pm: «Se fosse vero, ma non lo è, sarebbe un ragionamento assolutamente suggestivo. Dico non lo è perché se voi leggete lo stralcio della conversazione che peraltro il pm vi indica in dialetto, vi rendete conto che Vaccarino ha detto l’esatto contrario». Il 2 luglio ci sarà la sentenza. Vaccarino, ricordiamo, nel passato fu accusato di far parte della mafia dal pentito Vincenzo Calcara. Su questi fatti venne assolto, rimanendogli però la condanna per traffico di droga. Su questo c’è l’istanza di revisione perché si basa sempre sulle parole di Calcara. Quest’ultimo viene punzecchiato anche dal pm Paci durante la requisitoria del processo a Matteo Messina Denaro dicendo che egli non ha mai fatto il nome del latitante al tempo in cui uccideva. Nel frattempo sono passati 27 anni e non si riesce a catturarlo nonostante in più fasi le operazioni giudiziarie gli abbiano fatto terra bruciata intorno, così come è avvenuto la scorsa settimana con l’arresto di due suoi favoreggiatori. 

Davide Milosa per "il Fatto quotidiano” il 24 gennaio 2020. Manager in Ferrari, plenipotenziari di Cosa Nostra, uomini legati alla 'ndrangheta, trafficanti di armi e droga, sequestratori. Sono tante oggi a Milano le figure che ruotano attorno ad alcuni narcos vicini a Matteo Messina Denaro. Eccola, dunque, la narcorete della primula rossa di Cosa Nostra sotto la Madonnina. Raccontata nell' inchiesta Eden 3 della Procura di Palermo che nel novembre scorso ha portato a tre arresti e a 19 indagati per un traffico di droga tra Campobello di Mazara, territorio del boss latitante da 27 anni, e il capoluogo lombardo. Reati contestati: traffico di droga e spaccio non aggravati dal metodo mafioso, anche se diversi indagati, secondo i pm, agivano per sostenere i detenuti della famiglia mafiosa vicina a Messina Denaro. Sei posizioni indagate sono state trasferite alla Procura di Milano che ha chiuso le indagini e dovrà chiedere il rinvio a giudizio o l' archiviazione. In questa storia ciò che conta non è tanto il reato quanto i nomi che ruotano attorno ai trafficanti siciliani. Di Campobello di Mazara sono Giacomo Tamburello, Nicolò Mistretta e l' ex avvocato Antonio Messina. I tre sono considerati i "vertici del sodalizio" vicino a Messina Denaro. Tutti hanno legami stretti con Milano e il suo hinterland. Ad esempio Peschiera Borromeo. Qui, ai tavolini del bar Black and White, l' ex avvocato Messina incontra il narcos Giuseppe Fidanzati, figlio di Gaetano già reggente della famiglia mafiosa dell' Acquasanta a Palermo. Fidanzati, anche lui indagato, parla di una persona chiamata "Iddu" incontrata alla stazione di Trapani. Per gli investigatori "Iddu" si "ritiene essere uno tra Matteo Messina Denaro o il nipote Francesco Guttadauro". Ripartiamo allora dall' autosalone Pegaso di viale Espinasse, già raccontato dal Fatto, e da Luigi Mendolicchio che qui, secondo la Procura di Catanzaro, faceva riunioni per affari di droga. Mendolicchio è indagato anche nel fascicolo siciliano. A lui è contestato un episodio di acquisto. Dalle carte emergono i suoi i legami con i vertici attraverso Massimo De Nuzzo, milanese, e, per come emerge dall' indagine Belgio 2 dei primi anni Novanta, già trafficante vicino alla cosca calabrese dei Di Giovine. Dirà Mistretta a De Nuzzo riferito a Mendolicchio: "Se lo vuoi chiamare ti do il numero che ha lui? Lo devi chiamare da una cabina". I due si incontreranno. Con loro c' è un' altra persona che con il telefono di De Nuzzo parla a Mistretta. Si tratta di Giuseppe Calabrò, detto "u Dutturicchiu", legato alle cosche di San Luca e in rapporti con Mendolicchio. Mistretta e Calabrò (non indagato in Eden 3) pianificano per vedersi. Dirà il calabrese: "Io ora sono a posto, sono libero, e sto qua a Milano". Mendolicchio, secondo i pm di Palermo, rappresenta "l' anello di congiunzione" tra i trafficanti vicini a Messina Denaro e il calabrese Vincenzo Stefanelli (oggi indagato), già coinvolto nel sequestro di Tullia Kauten (1981), legato alle 'ndrine liguri e a Calabrò. Tra gli acquirenti del gruppo siciliano ci sono anche Giovanni Brigante e Andrea De Curtis (indagati dalla Dda di Palermo). Entrambi sono figure note nel milieu malavitoso di Milano. Anche Brigante fu coinvolto nell' indagine Belgio 2. Secondo la Procura acquistava droga direttamente dal clan Di Giovine. Dirà Tamburello a Brigante: "Sappi che ne abbiamo, finito questo c' è pronto l' altro, io devo prendere un po' di soldi () cerchiamo anche contatti grossi". De Curtis, invece, sarà coinvolto nell' inchiesta Terra Bruciata e, secondo i collaboratori Vittorio Foschini e Giustino Fiorino, entrerà nel gruppo del siciliano Biagio Crisafulli detto Dentino, per anni il re di Quarto Oggiaro e in contatto con il gotha della 'ndrangheta lombarda. De Curtis e Tamburello saranno intercettati a discutere di partite di droga "perse". Tra gli acquirenti anche il rapinatore Andrea Sardina arrestato nel 2014 per un colpo da 163 mila euro alla società Valtrans. Durante la rapina Sardina indossava una pettorina della Guardia di finanza. Altro nome è il calabrese Giovanni Morabito. Con lui Tamburello pianifica una partita di 300 chili di hashish. Morabito, per i pm siciliani, è legato "all' articolazione milanese della 'ndrina Morabito" di Africo. Negli anni Novanta frequentava il ristorante Vico Equense ritenuto luogo di ritrovo degli uomini del boss Mimmo Branca legato alla cosca Libri di Reggio Calabria. Davanti al locale nel 1992 fu parcheggiata l' auto usata per l' omicidio di Carmine Carratù. Morabito risulta poi parente del narcotrafficante Leo Talia. In quegli anni Morabito acquistò una casa a Peschiera Borromeo, dove la Dda di Palermo ha fotografato gli incontri tra i trafficanti di Campobello di Mazara e il narcos siciliano Giuseppe Fidanzati. Insomma, nomi, contatti e luoghi di Milano sulle tracce di Matteo Messina Denaro.

Il generale Mario Mori: «Così bruciarono la cattura di Matteo Messina Denaro». Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'11 maggio 2020. L’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino aveva, per conto del Sisde diretto da Mario Mori, intrapreso un contatto epistolare con il superlatitante Matteo Messina Denaro. Dell’operazione in corso ne era messo a conoscenza Pietro Grasso, l’allora capo della Procura di Palermo. Ma una fuga di notizie ha vanificato l’operazione. L’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, è sotto processo con il colonnello dei carabinieri Marco Zappalà e l’appuntato Giuseppe Barcellona, con l’accusa di aver favorito la mafia e in particolare Matteo Messina Denaro. Gabriele Paci, procuratore aggiunto di Caltanissetta, è stato sentito come teste nel processo che si sta svolgendo presso il tribunale di Marsala. Domani sarà la volta dell’ex ufficiale dei Ros, Giuseppe De Donno. Sul Dubbio del 7 maggio scorso abbiamo riportato la deposizione del procuratore Paci, nella quale ha spiegato che la Procura aveva dato la delega al colonnello Zappalà per condurre indagini sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio nelle quali è attualmente imputato il superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma, soprattutto, aveva avuto la delega per rapportarsi con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, ritenuto fonte affidabile di importanti informazioni. I Pm Guido, Padova e Dessì della procura di Palermo che hanno fatto arrestare gli imputati, tra le altre cose, hanno scritto che, alla luce dei nuovi fatti, nel passato di Vaccarino si coglierebbero «ambiguità, zone d’ombra, dichiarazioni tanto reticenti quanto fuorvianti». A che cosa si riferiscono? Alla sua passata collaborazione con il Sisde per la cattura di Matteo Messina Denaro attraverso dei contatti epistolari. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e una indagine – poi subito archiviata – della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro. L’epistolario di “Alessio” (così invece amava firmarsi il super latitante), minuziosamente argomentato, talora orgoglioso e nello stesso tempo strategicamente vittimistico, è pubblico e si trova in un libro reperibile su Amazon. Il super boss esprimeva la condizione di una certa mafia siciliana sospesa tra l’antica fase contadina e quella metropolitana e transnazionale. Ma non solo. Matteo Messina Denaro cita Jorge Amado, scrive che la giustizia è marcia fin dalle fondamenta e dice di pensarla come Toni Negri. Non esita a bollare come «venditore di fumo» chi allora dirigeva il Paese, ovvero Silvio Berlusconi. Addirittura parla di questioni interiori. «Registro – scrive il boss in una delle sue missive – il travaglio interiore di un uomo che ha raggiunto livelli tanto elevati quanto non programmati, che dirige con ferma bacchetta la capacità dei singoli maestri». Segnali quasi di cedimento. Ma poi si riprende rimettendo al centro la sua persona, quasi un avvertimento: «Ancora si sentirà molto parlare di me, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere. Non saranno questi “buoni” e “integerrimi” della nostra epoca, in preda a fanatismo messianico, che riusciranno a fermare le idee di un uomo come me. Questo è un assioma». L’operazione del Sisde parte dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006 e ed era sotto la dirigenza del generale Mario Mori. Ma tale operazione non era tenuta all’oscuro all’autorità giudiziaria. Ogni volta che c’era un contatto tra Vaccarino e Matteo Messina Denaro, l’allora dirigente del Sisde Mori relazionava il tutto all’allora capo della procura di Palermo Pietro Grasso (ora senatore di Liberi e Uguali). Ma per capire meglio ci affidiamo alle parole dello stesso generale Mario Mori, sentito come testimone il mese scorso al tribunale di Marsala proprio durante il processo di cui è imputato Vaccarino.Alla domanda posta dall’avvocato Baldassarre Lauria che, assieme alla sua collega Giovanna Angelo, difende l’ex sindaco di Castelvetrano, Mario Mori spiega che Vaccarino stesso interessò il Sisde mettendosi a disposizione per una eventuale attività contro Cosa nostra. «Ci fu quindi – racconta Mori – un contatto diretto tra funzionari del servizio da me delegati e il signor Vaccarino, il qual prospettò l’ipotesi di attività in direzione del latitante Matteo Messina Denaro di cui conosceva personalmente anche il suo ambito di riferimento familistico e di amicizie». Il metodo è quello classico che Mori ha sempre adottato anche quando era ai Ros. Non solo catturare direttamente il latitante, ma anche individuare i suoi circuiti di fiancheggiamento e attività imprenditoriali illecite. «Attraverso quindi i contatti che il signor Vaccarino fu sollecitato a prendere nell’ambito delle sue conoscenze dell’entourage di Messina Denaro – spiega sempre Mori –, verso l’ottobre del 2004 arrivò una lettera al Vaccarino tramite un circuito specifico di corrispondenza applicato dal Messina Denaro e dai sui fiancheggiatori». Da lì quindi iniziò lo scambio epistolare che è durato circa due anni. Una operazione che, nonostante poi sia in seguito saltata, ha comunque prodotto dei risultati. Si sono identificate un certo numero di persone, in particolare riuscirono ad ottenere l’individuazione di un imprenditore che era colui che rappresentava gli interessi del superlatitante. Così come l’individuazione di Vincenzo Panicola, il cognato di Matteo Messina Denaro. Ma come mai l’operazione sfumò? È sempre Mori a spiegarlo. «Mentre era in corso questo scambio epistolare – racconta il generale -, nella primavera del 2006 viene catturato Bernardo Provenzano. Nel materiale di cui fu trovato in possesso emersero alcuni pizzini. Uno scambio tra lui e Matteo Messina Denaro, nel quale quest’ultimo segnalava il suo collegamento con Vaccarino». L’attività si fermò, teoricamente solo temporaneamente, perché lo stesso Messina Denaro scrisse una lettera a Vaccarino per dirgli che non poteva al momento più scrivergli visto che avevano arrestato Provenzano. Il generale Mori spiega che si recò da Pietro Grasso, che nel frattempo era diventato capo della Procura nazionale Antimafia, e spiegò la situazione. Grasso poi lo richiamò informandolo che la Procura aveva preso atto dell’importanza della collaborazione di Vaccarino, ma che riteneva di non volerlo trattare come fonte o collaboratore. A quel punto ci fu una fuga di notizie. Il nome di Vaccarino fu pubblicato su alcuni organi di informazione, la Procura di Palermo che, ricordiamo, non era più guidata da Grasso, aprì un’inchiesta su di lui per associazione mafiosa, subito dopo archiviata da ben nove PM di Palermo. L’avvocato Lauria ha posto una domanda ben precisa al generale Mori, ovvero se quell’indagine aperta nei confronti di Vaccarino abbia pregiudicato la cattura di Matteo Messina Denaro. «Se la collaborazione di Vaccarino non fosse stata esplicitata pubblicamente e fosse rimasta riservata, forse lo Sco o qualche altra polizia giudiziaria avrebbe potuto continuare a sfruttare la collaborazione di Vaccarino e raggiungere a migliori risultati». I fatti sono questi. Prima iniziò la fuga di notizie sul ritrovamento del nome di Vaccarino tra i pizzini sequestrati alla dimora di Provenzano il giorno che fu catturato. Poi partì l’indagine della Procura di Palermo ed emerse pubblicamente che Vaccarino collaborava con il Sisde. L’operazione quindi si vanificò. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera – ma questa volta minacciosa e rabbiosa – di Matteo Messina Denaro. «Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto – scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera – perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere».

Catanzaro, gli intrecci tra Lardieri e il generale Mariggiò e l’arresto del maresciallo Greco. Da  Iacchite l'1 Marzo 2020. E’ da qualche tempo ormai che sono emersi clamorosi sviluppi dalle vicende che riguardano l’arresto del maresciallo dei carabinieri forestali Carmine Greco detto Carminuzzo, avvenuto nel luglio 2018 ed eseguito su disposizione della Dda di Catanzaro. Partiamo dal fatto che il fedelissimo del procuratore Gratteri, il capitano dei carabinieri Gerardo Lardieri, non ha stanato, scoperto o snidato il maresciallo Greco, come si è creduto per parecchio tempo: la realtà dei fatti è un’altra. Carmine Greco teneva sotto scacco diverse persone tra carabinieri forestali ed alti funzionari di Calabria Verde, per aver scoperto una serie di mazzette ed estorsioni finalizzate alla concessione delle autorizzazioni per il disboscamento selvaggio della Sila cosentina e crotonese. Alcuni mesi prima del suo arresto, Carmine Greco litiga verbalmente con Gaetano Gorpia, colonnello dei carabinieri forestali di Cosenza. Secondo quanto riferiscono molte fonti, lo avrebbe sputtanato davanti a tutti per le sue malefatte ed i soldi che avrebbe intascato per le concessioni rilasciate riguardo il taglio dei boschi. Da allora inizia una faida intestina tra carabinieri forestali: Gorpia e la sua banda da un lato e Carmine Greco dall’altra. Gorpia corre ai ripari, informa Calabria Verde dell’accaduto con il Greco, e che quest’ultimo ha atti e prove in mano per fare esplodere una “bomba”. Il tutto avviene durante la famigerata operazione Stige condotta dalla Direzione Antimafia di Catanzaro, ma di tali fatti non vi è traccia negli atti processuali né ci sono intercettazioni telefoniche perché fino a quel momento il maresciallo Carmine Greco è ancora un illustre sconosciuto.

Il Generale Mariggiò. Il commissario straordinario di Calabria Verde, l’ex generale dei carabinieri Aloisio Mariggiò, tramite il comandante della Regione Carabinieri Calabria, convoca il ben noto capitano Gerardo Lardieri, all’epoca comandante del Noe calabrese, ed intima allo stesso di svolgere attività intercettiva nei confronti di Carmine Greco, servendosi proprio del colonnello Gorpia. In molti riferiscono che il Lardieri, fino ad oggi, non è mai stato in grado di sviluppare indagini di polizia giudiziaria di sua iniziativa. Il suo forte – affermano molte fonti – è fare il copia e incolla dei verbali dei collaboratori di giustizia e poi acquisire atti di polizia giudiziaria presso i Comandi dell’Arma dove è stato commesso il reato. In sostanza fare quadrare i conti con quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia. Arriviamo così ai primi incontri tra il Lardieri ed il Gorpia. Tanto per mettere in chiaro le cose: a Lardieri di Gorpia non gliene fregava un tubo. Al Lardieri era stato soltanto ordinato dalla Dda di Catanzaro di fare in modo di arrestare il Greco per screditare le indagini che lo stesso svolgeva su delega della procura di Castrovillari, per poi screditare, successivamente, la professionalità del procuratore Facciolla, notoriamente inviso ai poteri forti della Dda di Catanzaro. Di conseguenza, Gerardo Lardieri scriveva sotto dettatura e Gaetano Gorpia firmava i verbali senza neanche leggerne il contenuto.

Il maggiore Gerardo Lardieri. Dopo avere fatto arrestare Greco con l’ausilio determinante di prove artefatte, il Lardieri, su input dei magistrati della Dda di Catanzaro, ha continuato a fare accertamenti per fornire le prove affinché la procura di Salerno potesse ottenere una richiesta di misura cautelare nei confronti del procuratore di Castrovillari. A questo punto, è quasi spontaneo chiedersi: la procura di Salerno sa che dopo le false accuse artefatte dal Lardieri e firmate dal Gorpia, i due non parlavano più telefonicamente e si incontravano a Catanzaro o a Cosenza temendo di essere intercettati? La procura di Salerno sa che il Lardieri, nel corso delle festività di Capodanno, in cambio del favore ha preteso le migliori suite in località Cupone nella Sila cosentina per trascorrere le festività, unitamente a gentaglia istituzionale come lui? E non è finita qui: sapete perché a Reggio Calabria in un processo penale per falsa testimonianza e favoreggiamento alla ‘ndrangheta lui è stato assolto ed il colonnello Giardina condannato? E’ di dominio pubblico: Lardieri intratterrebbe una relazione con una nota giudice dell’Ufficio GIP/GUP di quel Tribunale.

Gratteri e Pignatone. All’epoca, il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e l’aggiunto erano Pignatone e Prestipino. Una mattina un maresciallo in servizio al Ros di Catanzaro si presenta al suo comandante e chiede di essere accompagnato dal procuratore capo, cioè il dottor Pignatone. Giunto al cospetto del predetto magistrato e del suo aggiunto, riferisce di avere avuto una notizia confidenziale che da lì a qualche giorno nel territorio di Sinopoli (RC) avrebbe trovato ospitalità il latitante Matteo Messina Denaro, in quanto bisognoso di terapie mediche presso una clinica di Villa San Giovanni. Pignatone e Prestipino ammoniscono il soggetto e il comandante del Ros che quella notizia non doveva essere portata a conoscenza di altri magistrati della procura. Sicuramente avevano fiutato che le notizie sulla cattura dei latitanti, nonostante fossero localizzati attraverso intercettazioni e attività tecniche, venivano comunicate ai Servizi Segreti ed attraverso la trasmissione della cosiddetta velina arrivavano milioni di euro poi divisi tra pochi. Il maresciallo mantiene la promessa fatta ai due magistrati, mentre il comandante del Ros avvisa subito Lardieri e lo manda ad informare Gratteri. Sarebbe stato un peccato perdere i soldi della taglia pendente su Matteo Messina Denaro. Gratteri allora avrebbe delegato verbalmente il Lardieri ed alcuni uomini di sua fiducia, a battere i territori di Sinopoli e Santa Eufemia d’Aspromonte per avere notizie certe ed intervenire, senza notiziare il procuratore capo o l’aggiunto di Reggio Calabria, visto che c’erano in ballo fior di milioni di euro ed era un peccato perderli. Sta di fatto che la presenza del Lardieri in quei territori a far domande circa un eventuale arrivo del Messina Denaro, costringe il capocosca degli Alvaro di Sinopoli ad inviare una “colomba bianca” (emissario) in Sicilia per annullare il soggiorno in Calabria in quanto i “mignu” (carabinieri) sapevano tutto. Principalmente hanno messo a rischio la vita del delatore e del maresciallo. Ma oltre il danno è arrivata anche la beffa: Matteo Messina Denaro è ancora uccel di bosco. La fratellanza tra ‘ndrangheta e mafia palermitana, del resto, ha origini lontane. La mafia siciliana per depistare l’omicidio del Generale Dalla Chiesa, fornì notizie confidenziali indicando un appartenente agli Alvaro di Sinopoli, che grazie ad un alibi di ferro, venne arrestato e successivamente scarcerato per non aver commesso il fatto. Ormai è storia…  Alla prossima.

Catanzaro, guerra tra procure. Le intercettazioni che scottano. Da Iacchite l'11 Maggio 2020. Se dovessimo sintetizzare in tre righe la rovente guerra dei magistrati del Distretto di Catanzaro potremmo scrivere che altro non è che un tentativo di copertura e distruzione di intercettazioni telefoniche regolarmente autorizzate dai Gip del Tribunale di Castrovillari. Perché ci sono intercettazioni che scottano e fanno tremare i palazzi del potere. Nelle predette intercettazioni ci sono parecchi “pezzi grossi” e tanto stato deviato. E c’è da precisare che un capitolo a parte va aperto per l’indagine sulla scalata – con annesso riciclaggio di denaro sporco e finanziamento illecito al Pd – de iGreco al Gruppo Novelli in Umbria, coordinata dalla procura di Castrovillari. Pure in questo caso con intercettazioni più che scottanti e che i soliti noti stanno cercando di “neutralizzare” in tutte le maniere. Anche quella di cui parliamo oggi, tuttavia, è una storia che vede protagonisti molti carabinieri e politici, oltre al solito Luberto e ai suoi compari iGreco. Si va dal capitano Lardieri, il fedelissimo di Gratteri, al generale dell’Arma in pensione Mariggiò, commissario “mascherato” di Calabria Verde, e si continua con il colonnello dei carabinieri forestali di Cosenza Gorpia e con l’immarcescibile generale Graziano, oggi di nuovo consigliere regionale, planando poi sulla classe politica: dalla Santelli ad Ennio Morrone, per finire – appunto – con la premiata ditta iGreco, Luberto&Aiello e c’è chi dice che ci sarebbe anche lui, Gratteri. Ovviamente perché “tirato per la giacca” dalla cricca che avrebbe voluto continuare a tessere la sua tela. Più di un magistrato della Dda di Catanzaro quasi quotidianamente aveva contatti telefonici con iGreco, in particolare con la sindaca sospesa di Cariati, e compare quale intermediaria anche la moglie del famigerato Luberto. Addirittura la sindaca paramafiosa un giorno, infastidita perché Gratteri non rispondeva al telefono, chiama un altro magistrato della Dda e questi le fornisce un numero riservato non di servizio. A chi era intestato questo numero riservato? Non è dato sapere, il pm di Castrovillari Luca Primicerio non è interessato a intercettare quel numero. Eppure grazie a questo stesso decreto di intercettazione vengono disposti arresti e sequestri nei confronti di Saverio e Filomena Greco. Qualcuno avvisa il corrottissimo Luberto di quello che ha in mano e che sta accertando la procura di Castrovillari. A Catanzaro, il braccio destro di Gratteri si sente braccato: addio cene con iGreco, con Lotti, Morra, e il Gattopardo del porto delle nebbie. Bisogna passare al contrattacco, bisogna distruggere costi quel che costi il procuratore di Castrovillari che ha in mano le intercettazioni dei colletti bianchi. L’alta magistratura “democratica” degli uffici che contano a Roma, sposa la tesi di Gratteri. Ma a questo punto sorge un ulteriore ostacolo: bisogna eliminare pure il procuratore Lupacchini perché se avoca a se il fascicolo di Facciolla sono cavoli amari per tutti. Ed effettivamente, come da copione, avviene pure il trasferimento di Lupacchini, facilitato da un’intervista che diventa il casus belli ufficiale. Ma il vero problema sta in quelle intercettazioni, che fanno parte dei procedimenti penali relativi agli arresti dell’ingegnere Caruso, del dottore Procopio e di Antonio Spadafora. Del fascicolo processuale Alimentitalia de iGreco. Del fascicolo processuale per indagini sugli incendi boschivi delegato ai carabinieri forestale di Trebisacce e a personale della sezione della Polizia Giudiziaria Aliquota Carabinieri di Castrovillari. Questi ultimi sono i veri protagonisti di tutto questo gran casino, che ad un certo punto è diventato il classico vaso di Pandora. Per gli appassionati del rito giuridico, si tratta di notizie già agli atti dei fascicoli processuali predetti, quasi tutti trasferiti alla Dda di Catanzaro, che sta cercando in tutti i modi di correre ai ripari. Per gli appassionati della Santelli (c’è sempre chi ha il gusto dell’orrido, dicono che fa tendenza…), vi basti sapere che c’è un ampio repertorio dei suoi intrallazzi con il solito Luberto, soprattutto sul Tirreno per salvare Mario Russo ma anche su Cosenza per proteggere Mario Occhiuto. Ormai è storia.

·         Chinnici e la nascita del Maxi processo.

“La politica vuol mettere la museruola alla magistratura”. Parola di Scarpinato. Il Dubbio il 29 luglio 2020. Il Procuratore Generale di Palermo Roberto Scarpinato non ha dubbi: la politica è all’attacco della magistratura: “Il vero cambiamento avverrà dall’interno della magistratura o non avverrà”. “La politica vuole mettere la museruola alla magistratura”. Ne è convinto il Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato a margine della commemorazione del giudice Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983, parlando del caso Palamara. “Il vero cambiamento – ha poi spiegato Scarpinato – avverrà dall’interno della magistratura o non avverrà” E alla domanda dell’Adnkronos se il Governo sta facendo bene sul fronte della giustizia, il magistrato che replicato: “Certamente il punto di partenza è la sfida ineludibile e una capacità di autoriforma della magistratura. In ogni caso dobbiamo verificare quali sono i progetti di legge”. Per quel che riguarda l’omicidio Chinnici, Scarpinato ha detto che “bisognerebbe rileggere la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta che ha condannato gli assassini di Rocco Chinnici perché lì è stata raccontata, purtroppo, una storia ancora poco conosciuta ed è la storia di un magistrato che non è stato ucciso soltanto dai soliti Riina o Brusca ma è stato ucciso dai colletti bianchi”. “La morte di Chinnici arrivò quando decise di alzare il livello dell’indagine oltre la mafia militare e si rese conto che i cugini Salvo erano l’anello di congiunzione fra la mafia militare ed il mondo economico e politico – dice – Dal quel momento, come descritto dalla sentenza, ci sono tutta una serie di tentativi di avvicinarlo. Attraverso amici di famiglia, attraverso vertici della polizia, attraverso vertici del palazzo di giustizia”. E ancora: “Chinnici dice a Falcone che poi lo riferirà al Consiglio superiore della magistratura che pensa che dentro il palazzo di giustizia c’è qualcuno che vuole la sua morte e per questo comincia a scrivere il suo diario segreto. Ecco, un omicidio maturato nel mondo dei colletti bianchi, commissionato dal mondo dei colletti bianchi, un omicidio di famiglia della borghesia mafiosa che ha governato questo paese”.

Scarpinato: “La politica mette museruola ai Pm”. Ma intanto lui prova a metterla ai giornalisti…Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Commemorando Rocco Chinnici – valoroso magistrato palermitano ucciso dalla mafia 37 anni fa, alla fine di luglio – il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha polemizzato, come ogni tanto gli succede, contro la politica che cerca sempre, secondo lui, di mettere la museruola ai magistrati. Ricopio alcune delle frasi che ha pronunciato Scarpinato, riprese dalle agenzie di stampa: «Un mondo politico che da tempo ha interessi a mettere la museruola alla magistratura (…) a subordinare la magistratura al potere esecutivo». «Il vero cambiamento nella magistratura avverrà all’interno della magistratura o non avverrà (…) occorre una autoriforma». Mi ha colpito questo discorso di Scarpinato, per due ragioni. Innanzitutto perché trovo improprio paragonare questi tempi a quelli (anche se non sono sicurissimo dell’intenzione di Scarpinato, che è vecchio quanto me, di paragonare oggi e ieri). Comunque lo si fa spessissimo, nella corrente polemica politica italiana. Basta pensare a un magistrato al quale sono particolarmente legato, come Nicola Gratteri, che ama accostare la sua figura a quella di Falcone. È un errore, perché in questo modo si violenta la storia. E ai giovani si consegna una idea paludata e distorta di quella che fu la battaglia contro la mafia negli anni di Chinnici e Falcone. Combattere la mafia, o più semplicemente indagare sulla mafia, trenta o quarant’anni fa era un’impresa temeraria. Ci si lasciava la pelle. Oggi ti applaudono: i giornali, i politici, ti chiamano in Tv, ti onorano. In quegli anni di fuoco ti tiravano tutti addosso, ti lasciavano solo, ti mettevano il silenziatore, ti esponevano a tutte le vendette. I magistrati, e anche i politici impegnati, e anche i giornalisti, cadevano come mosche. Chinnici, Costa, Terranova, e poi Dalla Chiesa, che era un carabiniere, De Mauro, che era un giornalista, e tanti leader della Dc e del Pci, sindacalisti, preti. I giornalisti che si occupavano di mafia erano pochi ed emarginati. Quelli de l’Unità, di Paese Sera, de l’Ora di Palermo. Pochi altri. I grandi giornali dubitavano persino che la mafia esistesse. Oggi le cose sono cambiate abbastanza; un giornalista che vuole un po’ di spazio sul palcoscenico ha bisogno della patente antimafia, e per ottenerla deve convincere un magistrato a concedergliela, o una delle tante associazioni ufficiali, o i 5 Stelle, o la Bindi. Gli stessi Pm fanno a gara per ottenere il timbro di antimafia sulle loro inchieste, sennò le inchieste valgono poco ed è anche più difficile portarle a termine, perché non si può ricorrere a tutti quegli strumenti che rendono le indagini più facili (trojan, intercettazioni, carcere duro, pentiti eccetera).  Pensate a “mafia capitale”, un giro di tangenti spacciato per il regno di Luciano Liggio. Conviene fare così: poi in Cassazione te lo smontano, ma intanto è andata. È una cosa molto scorretta, dal punto di vista politico e storico, accostare l’antimafia da operetta di oggi a quella feroce ed eroica dei primi quattro decenni del dopoguerra. La seconda ragione per la quale mi ha colpito questo intervento di Scarpinato è la parola «museruola». Mi sono chiesto: cosa intende per museruola Scarpinato? Qualcuno può citarmi delle inchieste avviate dalla magistratura e bloccate dalla politica? Può anche darsi che ci siano, ma io non le conosco. I principali partiti di governo di questi ultimi 25 anni, eccetto i 5 Stelle, sono stati tartassati dalle inchieste giudiziarie. Decine di esponenti politici sono stati azzerati e poi magari risultati innocenti. Alcuni partiti sono stati dimezzati. Silvio Berlusconi è stato messo sotto inchiesta quasi cento volte. Dov’era la museruola? E con che mezzo veniva applicata? L’ultima inchiesta su mafia e intrecci con il potere politico ed economico che io ricordi, e che è stata archiviata, è quella su mafia e appalti, avviata da Falcone e Borsellino, condotta dal generale Mori e poi archiviata dalla Procura di Palermo. Siamo all’inizio degli anni Novanta. Falcone e Borsellino finirono uccisi, il generale Mori è vivo ma lo hanno messo quattro volte sotto processo, tre volte è stato assolto, la quarta è ancora in corso. Ha ragione Scarpinato, forse, in questo caso – ma è un caso di molti anni fa – può darsi che in quella occasione la politica premette per mettere la museruola. Io non posso saperlo.  Scarpinato invece può saperlo, perché fu lui a firmare la richiesta di archiviazione di quella inchiesta, appena pochissimi giorni prima della morte di Borsellino, che invece chiedeva che quella inchiesta gli fosse assegnata. Se in quel caso ci sono state pressioni, allora Scarpinato dovrebbe denunciarle. Dire: questi esponenti politici, questi partiti, questi imprenditori ci hanno chiesto di farla finita. Altrimenti non capisco a quale altra inchiesta possa riferirsi. Comunque la questione della museruola mi lascia molto perplesso anche per un’altra ragione. Insieme al mio amico Damiano Aliprandi, quando lavoravamo per il quotidiano Il Dubbio, scrivemmo alcuni articoli proprio sull’inchiesta mafia e appalti. Argomento interessantissimo. Specialmente in relazione alla morte di Borsellino. Perché nel processo in corso a Palermo, contro il generale Mori, si sostiene che Borsellino fu ucciso per dare spazio alla trattativa Stato-Mafia. L’impressione mia e di Damiano era invece che il motivo fosse l’altro: bloccare il dossier mafia e appalti.  Non so chi abbia ragione. So che in quegli articoli domandammo proprio a Scarpinato di spiegare il perché della decisione di chiedere l’archiviazione (concessa poi, molto rapidamente, alla vigilia di Ferragosto di quello stesso anno: stiamo parlando del 1992). Scarpinato però non ci rispose, anzi ci querelò. Cioè chiese ai suoi colleghi giudici di processarci e di condannarci. Siamo stati rinviati a giudizio. Il processo è in corso, la pena massima prevista con tutte le aggravanti (se critichi un magistrato la pena aumenta di un terzo) può arrivare a sette anni. Ed essendo io un anziano signore di quasi settant’anni, vi dirò che mi secca parecchio l’idea di dover restare in prigione fino alla vigilia degli ottant’anni per aver fatto una domanda al dottor Scarpinato. (Per Damiano è diverso: lui ha poco più di trent’anni e a quaranta sarà fuori e potrà rifarsi una vita. Magari diventerà cancelliere…). E allora qui mi torna nelle orecchie quella parolina: museruola, museruola. Sapete, io colleziono querele di magistrati. Qualche nome? Scarpinato, appunto, Lo Forte, Gratteri, Di Matteo, Davigo (due volte), un altro membro del Csm che si chiama Marra, e poi naturalmente l’ex giudice Antonio Esposito e qualcun altro che adesso non ricordo. Voi sapete che se ti querela un politico puoi stare tranquillo, perché al 90 per cento vinci. Se ti querela un imprenditore vinci uguale. Se ti querela un magistrato le possibilità di non perdere sono tra l’1 e il 2 per cento. Più probabile l’1. A prescindere da quello che hai detto o scritto. Perché i magistrati querelano chi li critica? Non è difficile da capire: per intimidire. Peraltro ci riescono facilmente. L’idea è che la magistratura, per svolgere serenamente il proprio lavoro, per non dover sottostare alle pastoie dell’eccessivo garantismo, deve essere protetta dalle critiche. Capisco persino qual è il senso di questa idea (e capisco che possa essere ispirata da un modo un po’ contorto di coltivare il proprio senso del dovere). Su una cosa però non ho dubbi: nulla lede la libertà di stampa più di questa continua, incessante, opprimente attività intimidatoria e vessatoria di alcuni magistrati. Contro la quale non ci sono difese. O accetti la museruola, guaisci un po’ e poi ti inchini, o loro non ti mollano più.

Dossier mafia e appalti. Scarpinato mi porta a processo, ma contro Costituzione sarà a porte chiuse…Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Lunedì, ad Avezzano, inizierà un processo nel quale io sono imputato insieme al mio amico e collega Damiano Aliprandi, del Dubbio. Il processo è per diffamazione. I diffamati – i presunti diffamati – sono due magistrati famosi: Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Scarpinato è il Procuratore generale di Palermo, è un personaggio televisivo noto, è un commentatore piuttosto abituale del Fatto Quotidiano. Lo Forte è in pensione, ma è stato un Pm famoso anche lui. Damiano e io siamo accusati di aver chiesto conto dell’archiviazione del dossier mafia e appalti, proposta da Scarpinato e Lo Forte. Tra qualche riga proverò a spiegare meglio i termini della questione, prima però devo dirvi della decisione della Corte di Avezzano di “secretare” – se mi passate questo termine – l’udienza. Cosa è successo? Radio Radicale – come fa spesso – ha chiesto l’autorizzazione a seguire il processo e mandarlo in onda, rendendo in questo modo vivo il principio costituzionale della pubblicità del dibattimento. A Radio Radicale questa autorizzazione è sempre stata concessa. Stavolta invece il giudice ha deciso di vietare la trasmissione via radio. Perché? La motivazione è il Covid. Francamente non si capisce cosa c’entri il Covid. L’impressione – magari mi accuserete per questo di “sospetteria molesta” – è che Scarpinato abbia diritto a un processo riservato. Lasciamo stare la mia posizione di imputato, che mi pare ormai largamente compromessa. Provo ad esaminare la situazione da giornalista e da osservatore. Ci sono due magistrati molto celebri che accusano due giornalisti fastidiosi di essersi occupati di cose che non li riguardano. E li querelano. Ci sono un Gip e un Gup che danno ragione ai propri colleghi, anche se nessuno può capire in cosa consista la diffamazione (ammenochè, a sorpresa, non si scopra che l’archiviazione non è stata mai chiesta e ottenuta). E ora si svolge un processo – un pochino surreale – nel quale è evidente la ragione dei due giornalisti ma è anche evidente il fatto che – chiunque conosca queste cose ve lo può confermare – le possibilità che dei magistrati perdano una causa contro dei comuni cittadini, o addirittura dei giornalisti, sono vicine allo zero. È un fatto statistico. Se poi questi magistrati sono famosi, potenti, ben inseriti nel meccanismo delle correnti, coccolati dal sistema dei media più importanti, a partire dal Fatto e da alcune Tv, le possibilità per i poveri imputati di non soccombere svaniscono del tutto. Ora vi racconto bene in cosa consiste questo processo. Esisteva, tanti anni fa, il famoso dossier mafia-appalti. Era una super-inchiesta sulla mafia, avviata da Giovanni Falcone, condotta dai Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e che avrebbe dovuto finire nelle mani di Paolo Borsellino. Questa inchiesta, realizzata all’inizio degli anni Novanta, stava scoprendo tutti i legami tra la mafia siciliana e una rete di imprese e di potenze economiche del continente. Falcone ci teneva moltissimo. Anche Borsellino, che aveva cercato in tutti i modi di potersene occupare e che – poche settimane prima di morire – pare che avesse ottenuto la possibilità di essere effettivamente incaricato di seguire l’inchiesta. Borsellino riteneva che questo dossier fosse fondamentale. Anche Antonio Di Pietro, da Milano, ne aveva sentito parlare ed era molto interessato e ne aveva discusso con Borsellino. Benissimo. Arriviamo al luglio del 1992. Seguite le date. Giovanni Falcone, che aveva dato il via al dossier, viene ucciso il 23 maggio. Non è escluso che il dossier possa essere stato la causa della sentenza di morte emessa da Cosa Nostra contro Falcone. Il 13 luglio Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, improvvisamente, firmano la richiesta di archiviazione del dossier-Mori. Il 14 luglio – cioè il giorno dopo – il Procuratore di Palermo, Giammanco, convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, per discutere di varie questioni. C’è pure Borsellino. Scarpinato non c’è. Borsellino chiede notizie del dossier, esprime il dubbio che sia in corso una sottovalutazione del lavoro dei Ros, accenna al fatto che un pentito sta parlando, chiede una riunione ad hoc nei giorni successivi. Nessuno sa – o dice – che è stata già firmata la richiesta di archiviazione. 19 luglio: la mattina molto presto Giammanco telefona a Borsellino. Secondo la testimonianza della moglie di Borsellino, gli assicura che avrà lui la delega per seguire il dossier. Alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso e la sua scorta sterminata. Tre giorni dopo, il 22 luglio, la richiesta di archiviazione del dossier viene formalmente depositata. L’iter è velocissimo: il 14 agosto, giorno nel quale da due o tre secoli la Procura non ha mai lavorato, avviene l’eccezione: qualcuno lavora e l’archiviazione è accolta e definitiva. Il dossier scompare. Voi capite che questa vicenda è molto inquietante. Anche perché se non abbiamo sbagliato qualcosa in questa ricostruzione, è ragionevole il dubbio che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino sia stato il suo interesse per il dossier-Mori. Ipotesi diametralmente opposta a quella che viene sostenuta nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato -Mafia, nella quale – paradossalmente – Mori, cioè il carabiniere di fiducia prima di Dalla Chiesa e poi di Falcone e Borsellino, è imputato, e la tesi è che Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa e voleva fermarla. Ha un qualche interesse il confronto tra queste due tesi? Ha un qualche peso il fatto che la prima tesi sia supportata da molti elementi certi? Damiano e io avevamo posto queste domande, e chiesto a Scarpinato e Lo Forte perché avessero archiviato. Non ci hanno risposto: ci hanno querelato. E la querela, come vi ho già detto, è approdata a un vero e proprio processo che si svolgerà, di fatto, a porte chiuse, in violazione della Costituzione. Beh, ammetterete che la lezione da trarre è triste e chiara. In Italia esiste la libertà di stampa ma ha un limite invalicabile: la critica alla magistratura. O almeno, la critica a quel pezzo potente di magistratura che, solitamente, noi chiamiamo il partito dei Pm. Quella non è ammessa. È vilipendio, è lesa maestà.

Borsellino e verità nascoste: “Mafia e appalti” al tribunale di Avezzano. ESCLUSIVO - Improvvida querela per diffamazione rischia di squarciare alcuni dei misteri sulla morte di Paolo Borsellino. Polemica su pubblicità delle udienze: tribunale di Avezzano nega la diretta del processo su Radio radicale. Angelo Venti su Site.it il 20 Ottobre 2020. Si è tenuta ieri al Tribunale di Avezzano la prima udienza che vede come imputati per diffamazione a mezzo stampa i giornalisti Damiano Aliprandi e Piero Sansonetti de Il Dubbio. I presunti diffamati sono due magistrati di peso: il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, ora in pensione. Il processo è finito al tribunale di Avezzano per competenza territoriale poichè la testata, diffusa prevalentemente via internet, edita anche 8mila copie cartacee stampate in una rotativa di Carsoli. Un processo che farà discutere: al centro degli articoli incriminati l’archiviazione del dossier “Mafia e appalti“. Il tribunale marsicano nega la diretta del processo su Radio radicale. Di seguito la video intervista integrale rilasciata in esclusiva a SITe.it dall’avv. Simona Giannetti, difensore dei due giornalisti querelati.

Intervista esclusiva all’avv. Simona Giannetti, difensore dei giornalisti querelati.

La querela. I due imputati – il primo come autore degli articoli e il secondo come direttore responsabile della testata – sono stati querelati per una inchiesta giornalistica composta da una serie di articoli in cui si trattava del “dossier mafia e appalti”, frettolosamente archiviato proprio a cavallo della morte del giudice Borsellino, ucciso dalla mafia a Palermo nel luglio del ’92. E’ una vicenda inquietante. Se i due giornalisti non hanno sbagliato qualcosa nella loro ricostruzione, è ragionevole il dubbio che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino potrebbe essere stata il suo interesse per questo dossier. Una tesi, questa, opposta a quella sostenuta nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato -Mafia, secondo la quale Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa e voleva fermarla. Ha un qualche interesse il confronto tra queste due tesi? Effetto boomerang? In vista del processo, i due giornalisti hanno svolto delle indagini difensive. E arriva il colpo di scena. Nelle loro ricerche hanno recuperato i verbali delle audizioni dei Pm di Palermo, convocati tra il 28 e il 31 luglio ’92 dal Consiglio superiore della magistratura, che voleva capire cosa stesse succedendo in Procura intorno alla morte di Borsellino. Verbali che ora sono stati depositati al tribunale di Avezzano dall’avv. Simona Giannetti, difensore dei due giornalisti imputati.

Dai verbali di queste audizioni – a quanto pare mai cercati prima – emergono alcuni aspetti inediti e forse di fondamentale importanza. A suscitare un particolare interesse sono i passaggi relativi a una riunione convocata dal procuratore Giammanco il 14 luglio 1992 – cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino – per trattare di alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti, racket delle estorsioni”. Secondo le dichiarazioni di alcuni dei Pm auditi dal Csm e messe a verbale, da quella riunione sarebbe emerso anche il forte interesse di Borsellino per il dossier Mafia e appalti e il suo malcontento per le modalità con cui era stata gestita l’indagine. Il 23 luglio, appena 3 giorni dopo la morte di Borsellino, proprio per quell’indagine fu invece depositata la richiesta di archiviazione.

Radio radicale. Paradossalmente, il processo incardinato ad Avezzano proprio su denuncia dei Pm Scarpinato e Lo Forte, potrebbe ora contribuire a fare chiarezza su alcuni aspetti, non di poco conto, della vicenda che ha portato alla morte di Paolo Borsellino. Non è quindi un caso che Radio radicale, che ha seguito e messo in onda tutti i più importanti processi di mafia tenutisi in Italia, ha chiesto l’autorizzazione a registrare e trasmettere via radio tutte le fasi di questo di processo. Il tribunale di Avezzano, al momento, ha negato tale autorizzazione. E, per dirla tutta, si è tentato anche di impedire anche a site.it la presenza, prima sostenendo che si trattava di una camera di consiglio e poi invocando le misure anti covid 19: ovviamente, come unico giornalista presente in una udienza che deve essere pubblica, non si è abbandonata l’aula.

Tribunale di Avezzano, primo round. Ieri, lunedì 19 ottobre, si è tenuta la prima udienza dibattimentale al Tribunale di Avezzano: Giudice Daria Lombardi, pubblico ministero Lara Seccacini. A rappresentare le parti civili, i magistrati Scarpinato è Lo Forte, l’avv. Ettore Zanoni dello studio Smuraglia, mentre l’avv. Simona Giannetti difendeva i due giornalisti imputati, Aliprandi e Sansonetti. Strano ma vero, l’udienza è iniziata con l’accertare se si trattasse o meno di Camera di consiglio oppure no: l’intenzione era di tenere fuori pubblico e stampa? L’avvocato della difesa ha poi presentato una serie di eccezioni. Innanzitutto contro il divieto del tribunale alla registrazione delle udienze da parte di Radio radicale: sul punto, per inciso, non si è opposto nemmeno l’avvocato di parte civile. Altra eccezione avanzata dall’avv. Giannetti è sulla competenza territoriale del tribunale di Avezzano a trattare questo processo. Per la difesa, Il Dubbio è una testata diffusa prevalentemente via internet e solo successivamente vengono stampate le copie cartacee nella tipografia di Carsoli, quindi il giudice naturale non sarebbe quello di Avezzano ma dove risiede il server della testata. In particolare, l’avvocato difensore si è soffermato anche su eventuali profili di nullità del capo d’imputazione, giudicato troppo generico: non sarebbero state indicate con precisione le frasi ritenute diffamanti e, trattandosi di una inchiesta giornalistica composta da 8 articoli, sarebbe quindi impossibile difendersi nel merito. Il Pm Seccacini ha ribattuto alle eccezioni avanzate dalla difesa. Sulla pubblicità del processo, per il Pm “esiste la deroga a tale principio causa Covid” e ha respinto anche le .eccezioni sulla competenza territoriale. Sulla genericità delle accuse, la Seccacini ha risposto che “l’ampiezza e la complessità dei fatti non consente al Pm di formulare in breve il capo d’imputazione”. Il giudice Daria Lombardi si è riservata la decisione nel merito e ha fissato la lettura delle determinazioni assunte alla prossima udienza che si terrà il 30 ottobre 2020.

Da Gaetano Costa a Rocco Chinnici. La Repubblica il 9 luglio 2020. Proprio con riferimento all’omicidio del Dr. Costa appare opportuno richiamare le dichiarazioni rese dal consigliere istruttore Rocco Chinnici nel corso della seduta del 25/2/1982 dinanzi alla prima Commissione referente del C.S.M.(cfr.all.7, ord.27/11/1998, integr.fasc.dib.): "La morte di Costa mi ha veramente scioccato perché Costa era da appena due anni a Palermo e fu ucciso quando, presa coscienza di quello che era veramente l’ambiente palermitano, incominciò ad indirizzare un’azione veramente efficace nei confronti della mafia, Costa è stato ucciso per avere voluto compiere il proprio dovere di magistrato. Io ho nei confronti di Costa un ricordo di affetto e anche di rabbia per l’uccisione, perché lì la mafia, in quell’omicidio, ha dimostrato tutta la sua efferatezza, la mancanza di umanità e soprattutto la criminalità, con Costa".

"Palermo, in genere è una città sonnolenta: là gli Uffici Giudiziari - salvo la Procura perché interessata e un po’ l’Ufficio Istruzione perché indirettamente interessato - non si occupano di queste cose. I colleghi del civile, beati loro, e quelli del dibattimento queste cose non le seguono. Qualche collega che è andato via dall’Ufficio Istruzione ha detto: “io sono ritornato a vivere” con ciò nessuno vuole fare l’eroe o la vittima. L’Ufficio Istruzione ha quattro magistrati che si occupano veramente dell’Ufficio Istruzione, dei grossi processi e ci si preoccupa di lavorare e di portare avanti le istruzioni, questa è la verità sacrosanta. Non ho parlato mai con nessuno, salvo ieri con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sono i giudici impegnati molto vicino a me, del fatto che ero stato convocato, anche per ragioni di sicurezza perché io sono venuto qua e non viaggio come Rocco Chinnici ma con un altro cognome".

"Di fatto giudici ai quali posso affidare questo tipo di processi (e con ciò non voglio creare giudici di serie A e giudici di serie B) debbo dire che ho soltanto 2 o 3 al massimo giudici ai quali posso affidare questo tipo di processi perché ho un notevole carico di questo tipo di processi".

Dal verbale dell’audizione del consigliere Chinnici emerge chiaramente uno spaccato dell’ambiente palermitano come "sonnolente", sonnolenza che pare avesse contrassegnato anche gli ambienti giudiziari distintisi per una scarsa incisività. L’avvento del Procuratore della Repubblica Dr. Gaetano Costa, circondato da una certa diffidenza("ma con tanti magistrati palermitani proprio a lui dovevano mandare" cfr.aud.C.S.M.) perché estraneo all’ambiente palermitano, ma diffidente anche lui, uomo intelligente e soprattutto osservatore, che cercava di penetrare un pò in quello che era anche l’ambiente giudiziario del palazzo di giustizia che a lui era completamente sconosciuto, segnò una svolta nella gestione di quell'ufficio requirente, anche sotto il profilo di un rinnovato e significativo impulso alle indagini patrimoniali delegate alla Guardia di Finanza. Nel maggio del 1980 il Dr. Costa manifestò la sua vera vocazione contro la mafia in occasione del processo “mafia e droga”, allorchè andando in contrario avviso dei sostituti convalidò gli arresti di oltre cinquanta persone, di cui solo sei o sette sarebbero state prosciolte in istruttoria. Orbene, il quadro che si ricava dalle dichiarazioni del compianto magistrato è quello di un ufficio istruzione che condividendo i criteri di valutazione della prova del procuratore Costa nei processi di criminalità organizzata di tipo mafioso, era disponibile a svolgere una incisiva attività istruttoria quanto più possibile idonea a valorizzare ed arricchire il quadro probatorio originario esistente al momento della formalizzazione del processo; ma anche di un ufficio che poteva contare solo sulla spiccata professionalità e sull’impegno di due o tre magistrati che, non a caso, si identificavano nei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La rinnovata incisività dell'attività istruttoria del Dr. Chinnici, peraltro, risulta attestata anche dalle stesse iniziative investigative del consigliere istruttore il quale aveva cominciato a svolgere direttamente indagini bancarie e patrimoniali senza la mediazione della G.di F. acquisendo con provvedimenti di sequestro e/o ordini di esibizione la documentazione richiesta ovvero convocando i direttori degli istituti di credito.(cfr. verb. C.S.M. cit.). Fu quello un periodo in cui si registrarono più volte provvedimenti di rinvio a giudizio – citati dal dr. Chinnici nel corso dell’anzidetta audizione – adottati in difformità dalle richieste di proscioglimento dell’ufficio di Procura. Emblematico, oltre che carico di pregnante significazione, appare, pertanto, il tenore delle frequenti telefonate anonime intimidatorie ricevute dal consigliere istruttore, dallo stesso citate nel corso dell’audizione dinanzi al C.S.M, ed in particolare di quella nel corso della quale l’interlocutore chiedeva "che intenzioni ave (ha)lei di fare con i processi di Palermo?", laddove il riferimento ai processi di Palermo e non al "suo" ovvero ai "suoi" processi – di cui peraltro il consigliere era assegnatario – tradisce univocamente la preoccupazione per un nuovo modo di istruire i processi, per l’indirizzo e l’impronta che il dirigente di quell’importante ufficio aveva dato alle indagini contro la criminalità organizzata di tipo mafioso, tanto che si era diffusa la voce che l’amicizia con il Procuratore Costa e le affinità nei metodi investigativi e nei criteri di valutazione della prova indiziaria avesse indotto il dr. Chinnici ad “imporre” al dr. Falcone l’adozione di alcuni importanti provvedimenti restrittivi.(cfr. verb. cit).

Va peraltro ricordato che il dr. Rocco Chinnici aveva svolto le funzioni di Consigliere Istruttore Aggiunto presso  l'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, per assumerne poi la direzione nel dicembre dell'anno 1979, a seguito dell'omicidio del Dott. Cesare Terranova, già deputato nazionale del P.C.I e membro della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso. Il consigliere Chinnici ne raccolse, quindi, l'eredità spirituale, continuandone l’attività giudiziaria con lo stesso impegno profuso dal suo predecessore che si era distinto per la tenacia dimostrata nella lotta al fenomeno mafioso, soprattutto nei confronti della organizzazione imperante tra gli anni '60 - '70, e di Luciano Leggio in particolare. Il rinnovato impegno fatto registrare dall’attività giudiziaria svolta dall’ufficio istruzione dopo la nomina del dr. Chinnici aveva determinato una svolta decisiva nella lotta alla criminalità organizzata in un momento storico in cui le indagini venivano ancora svolte con metodi tradizionali e senza il devastante apporto probatorio dei collaboratori di giustizia, che si sarebbe rivelato decisivo negli anni successivi, ed in un ambiente definito “sonnolente” dallo stesso magistrato, sicchè le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo negli ultimi anni avevano ricevuto un notevole e incalzante sviluppo. Il tenace zelo profuso dal magistrato segnò una svolta in un panorama investigativo che negli anni precedenti aveva fatto registrare una sostanziale stasi, senza alcuna significativa acquisizione probatoria, sicchè i nuovi metodi di lavoro assunsero un valore innovativo e dirompente per gli equilibri delle cosche mafiose e per gli stessi vertici dell’organizzazione. Decisiva si era rivelata, inoltre, l’intuizione che la circolazione delle informazioni nell’ambito dello stesso ufficio ed il lavoro di gruppo avrebbero potuto fare registrare un significativo salto di qualità nelle indagini, perché ciò avrebbe creato le condizioni per cogliere le connessioni fra i vari fatti-reato ed individuare gli intrecci ed i collegamenti operativi tra i gruppi che secondo gli equilibri dell’epoca costituivano i gangli vitali della organizzazione. Il consigliere istruttore si fece pertanto promotore di moduli organizzativi che consentissero, sul presupposto del carattere unitario del fenomeno mafioso e della organizzazione "cosa nostra", un effettivo coordinamento delle indagini ed uno scambio delle informazioni tra i titolari dei procedimenti. Sul punto hanno deposto il dr. Aldo Rizzo, già giudice istruttore a Palermo, il quale ha sottolineato come questo sistema di lavoro innovativo costituisse motivo di vanto per il dr. Chinnici, ed il dr. Giuseppe Pignatone, all’epoca sostituto procuratore della repubblica, il quale ha evidenziato come quel modulo organizzativo, che oggi appare scontato e naturale, all'epoca apparisse rivoluzionario. Nel corso della deposizione resa in data 12/8/1983 al P.M. di Caltanissetta, il dr. Giovanni Falcone, aveva riferito quanto segue sul conto del consigliere istruttore: "Ho avuto modo di apprezzarne le spiccate capacità organizzative, l'elevata professionalità e soprattutto l'adamantina personalità ed umanità. Curava personalmente l'istruttoria di procedimenti penali non meno difficili e pericolosi, soleva ripetermi che correva gravissimi rischi; l'esito pienamente positivo dei più gravi procedimenti penali contro organizzazioni mafiose istruiti in questi anni lo induceva a ritenere che i pericoli si erano vieppiù accresciuti."

E peraltro, che il dr. Chinnici non si limitasse a svolgere un pur importante ruolo di direzione e coordinamento dell’ufficio ma che fosse assegnatario di alcuni importanti processi che istruiva personalmente risulta non solo dall’elenco acquisito nel corso delle indagini, ma anche dalle deposizioni rese dal Dr. Giovanni Falcone al P.M.(12/8/1983) ed alla corte di Assise di Caltanissetta (12/4/1984) nel corso del primo dibattimento celebratosi per la strage di via Pipitone Federico a carico di altri imputati e dal dr. Paolo Borsellino in data 4/8/1983 e 30/3/1984, nonché da quest’ultimo nel corso delle indagini preliminari in data 12/6/1991. Nel rinviare alle deposizioni rese sul punto dai magistrati Pignatone, Di Pisa e Motisi, dal funzionario della Polizia di Stato dr. Accordino e dal Col. dei CC Angiolo Pellegrini, appare opportuno ricordare, anche sulla scorta delle dichiarazioni del dr. Falcone, i principali processi di cui era titolare il dr. Chinnici: il procedimento contro Bontate Giovanni ed altri definito in primo grado pochi mesi prima della morte con severe condanne;

il procedimento contro La Mattina Nunzio ed altri, imputati del delitto di associazione per delinquere e traffico di stupefacenti, i cui mandati di cattura erano stati emessi nel 1981;

il procedimento contro Greco Michele ed altri, scaturito dal noto rapporto congiunto della Squadra Mobile e dei Carabinieri, depositato il 13.7.1982, instaurato a carico dei maggiori esponenti delle organizzazioni mafiose palermitane; trattasi del c.d. "processo dei 162" nel quale venivano delineate e ricostruite le dinamiche che avevano condotto alla c.d. guerra di mafia.

Il dr. Falcone aveva riferito che poco prima della strage il consigliere istruttore aveva emesso 37 mandati di cattura originati dalle dichiarazioni di un coimputato, dedicandosi al procedimento fino a qualche giorno prima della morte. Quest’ultimo processo, scaturito dal citato rapporto giudiziario, di cui si avrà modo di parlare diffusamente più avanti, dopo l’adozione di numerosi provvedimenti restrittivi da parte del consigliere istruttore aggiunto dr. Motisi (cfr.dep.) nella fase iniziale immediatamente successiva alla formalizzazione dell’istruttoria, venne istruito dal dr. Chinnici il quale, nel prosieguo delle indagini, acquisì ulteriori elementi che consentirono di consolidare ed arricchire il quadro probatorio e di emettere altri 37 mandati di cattura. Il  consigliere  istruttore  era  inoltre  titolare  delle  istruttorie  formali relative agli omicidi c.d. politici in danno dell’on. Pio la Torre e Piersanti Mattarella, mentre il dr.Giovanni Falcone era assegnatario del fascicolo relativo all’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Orbene, dalle deposizioni rese dal dr. Borsellino, sopra citate, è emerso che circolava insistentemente voce, tanto che un giornalista ne aveva chiesto conferma al teste, che il dr. Chinnici, fermamente convinto della unicità del movente e della riconducibilità di quegli omicidi ad un disegno strategico complessivo, intendeva riunire tutti quei processi assegnandoli a se stesso. Il 13 luglio 1983, appena 16 giorni prima della strage, il dr. Chinnici aveva anche coordinato un’operazione che era sfociata in numerosi mandati di cattura, nei confronti di alcuni personaggi di spicco di “cosa nostra”, tra i quali Riina Salvatore e Provenzano Bernardo per la strage del generale Dalla Chiesa. Nella nota trasmessa il 22/8/1983 dal Consigliere Istruttore Aggiunto dr. Motisi risultano elencati i processi di maggiore rilievo nel settore della criminalità organizzata, tra i quali spicca quello nell’ambito del quale il dr. Chinnici, due mesi prima della sua morte, emise alcuni mandati di cattura, in data 23 maggio 1983, nei confronti di alcuni esponenti mafiosi di rilievo, tra i quali gli odierni imputati Riina Salvatore, Provenzano Bernardo, Montalto Salvatore e numerosi altri, appartenenti a numerosi mandamenti (Grado, Fidanzati, Vernengo, Savoca, Greco, Cucuzza, Ciulla, Carollo, Profeta, Tinnirello, Badalamenti, Contorno, Calzetta, Graviano Benedetto). E peraltro, che le intuizioni investigative del Dr.Chinnici ed i nuovi moduli organizzativi dovettero preoccupare l’organizzazione mafiosa “Cosa nostra”, che si avviava a consolidare i propri assetti organizzativi, non costituisce solo una pur fondata ipotesi, ma risulta provato da una acquisizione processuale proveniente da una fonte interna al sodalizio, il collaboratore di giustizia Mutolo Gaspare il quale ha riferito (cfr. ud. 23.4.1999) che la deliberazione omicidiaria nei confronti del dr.Chinnici risale al 1982, e quindi ancor prima del suo arresto; dichiarazioni che avrebbero trovato una significativa conferma in quelle dell’imputato Brusca Giovanni. 

Chinnici e la strage “libanese”. Attilio Bolzoni, Sara Pasculli e Francesco Trotta. Sembrava Beirut. Ma la mattina del 29 luglio 1983 Palermo era peggio di Beirut. Un boato al centro della città, una colonna di fumo che si alza nel cielo, automobili sventrate, macerie, una voragine nell'asfalto. “Una strage alla libanese”, titolarono in prima pagina i giornali italiani. Un'autobomba per uccidere Rocco Chinnici, capo dell'ufficio ufficio istruzione del Tribunale, il giudice che aveva gettato il seme per far nascere il pool antimafia. I boss di Cosa Nostra avevano ucciso così uno dei suoi nemici più pericolosi. E insieme a lui il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e anche Stefano Li Sacchi, il portiere del palazzo dove abitava il magistrato. Da oggi e per circa trenta giorni sul nostro Blog pubblicheremo ampi stralci della sentenza di primo grado del “Chinnici Bis” (presidente della Corte d’assise di Caltanissetta Ottavio Sferlazza) che nel 2000 ha condannato all’ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Antonio e Francesco Madonia, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Salvatore e Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Matteo Motisi e Giuseppe Farinella. Nei successivi gradi di giudizio verranno assolti Motisi e Farinella mentre i collaboratori di giustizia, Giovan Battista Ferrante e Calogero Ganci saranno condannati a 18 anni, Francesco Paolo Anzelmo e Giovanni Brusca rispettivamente a 15 e 16 anni. La strage di Via Pipitone Federico rimane comunque una vicenda giudiziaria in qualche modo “incompiuta”. Sullo sfondo gli esattori di Salemi, i cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini d'onore meglio conosciuti come "i vicerè” della Sicilia, ricchissimi, potentissimi, legatissimi alla politica che al tempo comandava. I Salvo - uno (Nino) morto nel suo letto un paio di anni dopo la strage e l'altro (Ignazio) assassinato dai Corleonesi nel settembre 1993 -  erano entrati nel mirino delle indagini di Rocco Chinnici. Assolti in Cassazione anche Michele e Salvatore Greco - che erano stati condannati in primo grado - per vizi procedurali dalla prima sezione presieduta dal famoso giudice "ammazzasentenze” Corrado Carnevale. Nella strage “alla libanese” ci fu un unico sopravvissuto: Giovanni Paparcuri. Quella mattina di luglio del 1983 era l'autista di Rocco Chinnici, qualche anno dopo Paparcuri diventò l'esperto informatico del pool antimafia dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. A sostituire Chinnici arrivò da Firenze il consigliere Antonino Caponnetto. Con lui la nascita ufficiale di quella straordinaria avventura che portò alla celebrazione del maxi processo contro Cosa Nostra. I quattro giudici del pool erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra.

Hanno collaborato: Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Asia Rubbo.

Le indagini sugli esattori Salvo. La Repubblica il 5 luglio 2020. Il dottore Chinnici personalmente stava, diciamo, gestendo tutte le indagini relative a quella presentazione di un rapporto ormai quasi storico nelle vicende di mafia palermitana, il cosiddetto rapporto Greco Michele + 161. Un rapporto, tra l'altro, relativo a varie vicende di mafia, a vari omicidio, all'omicidio - tanto per fare alcuni esempi e per farvi capire l'importanza di quell'indagine - all'omicidio Reina, all'omicidio Mattarella, all'omicidio La Torre. I primi 88 mandati di cattura erano stati emessi proprio in relazione e a seguito di quella presentazione del rapporto dei 162. Il dottore Chinnici più volte, lo provano per esempio quei verbali che oggi sono stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento, verbali di dichiarazioni rese dal dottor Borsellino e dal dottor Falcone nell'immediatezza della strage di via Pipitone Federico, più volte aveva manifestato la sua precisa convinzione, desunta dai primi elementi di natura probatoria, che tutti quei delitti, tutti quei delitti eccellenti anche, fossero legati da un unico filo, da un unico movente ed in qualche modo riconducibili proprio alla attività dei cosiddetti corleonesi. Ancora, il dottore Chinnici, sempre sviluppando o nel tentativo di sviluppare appieno quel rapporto dei 162, stava indagando, e non ne faceva mistero, forse anche imprudentemente non ne faceva mistero, su quelli che erano i legami tra l'ala già conosciuta come ala militare di cosa nostra e due esponenti che, signori della Corte, mi rivolgo soprattutto ai giudici popolari, in quel periodo a Palermo, e chi ha vissuto a Palermo lo sa anche se non si è occupato come addetto ai lavori di queste cose, rappresentavano veramente la massima potenza che si potesse pensare in capo delle persone in Sicilia; mi riferisco a Nino ed Ignazio Salvo, i cugini Salvo di Salemi che poi dimostreremo, e lo hanno dimostrato in parte anche delle sentenze passate in giudicato, erano tra l'altro anche uomini d'onore della famiglia di Salemi, ma uomini d'onore che non esplicitavano ed esplicavano la loro attività soltanto nell'ambito della famiglia di Salemi ma erano assolutamente in stretto contatto con i vertici dell'organizzazione. Prima erano stati in stretto contatto operativo con i Bontate, con gli Inzerillo, con i Badalamenti; dopo, avendo forse fiutato il vento del cambiamento che la guerra di mafia aveva portato in seno all'organizzazione cosa nostra, erano diventati assolutamente un tutt'uno con i Riina, i Madonia, i Ganci, tutti quelli che poi rappresentano la cosiddetta fazione corleonese che prevale alla fine della guerra di mafia. Ebbene, il dottore Chinnici, già l'avete agli atti del fascicolo per il dibattimento, andava dicendo in quei giorni, in quei mesi che bisognava approfondire il rapporto e le indagini che il rapporto aveva già superficialmente prospettato proprio in relazione all'attività dei cugini Salvo; andava dicendo ad investigatori, colleghi, e andava esplicitando questa sua convinzione anche con deleghe di indagini che dietro i fatti di mafia più eclatanti in quel momento c'era, mi riferisco a... parole del dottor Borsellino, la mano dei cugini Salvo. Lo andava dicendo il dottore Chinnici nel 1983, non in un'epoca in cui poi tutti cominciarono a parlare, anche i giornali e anche, a seguito delle dichiarazioni di Buscetta e di altri pentiti, si cominciò molti anni dopo a parlare dei cugini Salvo come collusi colla mafia. Lo diceva il dottore Chinnici nel 1983. Ecco, allora, quella che noi riteniamo essere stata una componente preventiva dell'omicidio di un giudice la cui azione doveva necessariamente essere frenata, e frenata in una maniera talmente eclatante che servisse da monito anche a chi, come Giovanni Falcone in particolare, assecondava il dottore Chinnici, anche a chiunque altro in periodo in cui spesso l'azione e l'impegno della magistratura e delle forze dell'ordine nel contrasto a cosa nostra era piuttosto oscillante, servisse - dicevo - da monito anche a chi, invece, volesse fare sul serio. Noi abbiamo la possibilità ed abbiamo intenzione di dimostrare che a questo movente composto si ricollega un'attribuzione di responsabilità nei confronti dei mandanti così come individuati nella richiesta di rinvio a giudizio. A tal proposito noi intendiamo dimostrare che la decisione di uccidere il dottor Chinnici fu presa e deliberata dalla commissione provinciale di Palermo di “cosa nostra”, così come venutasi a determinare... e nella composizione venutasi a determinare al termine della cosiddetta guerra di mafia. In questo senso intendiamo appunto dimostrare che gli imputati che oggi rispondono nella loro qualità di mandanti erano tutti a vario titolo membri di quella commissione. Fin d'ora nell'esposizione introduttiva, secondo la nostra impostazione, mette conto sottolineare ed anticipare una cosa: noi dimostreremo che già nel 1982 proprio su input e disposizione precisa e volontà espressamente esplicitata dei cugini Salvo, in seguito ad una riunione che si tenne in contrada Dammusi tra i cugini Salvo, Riina, Bernardo Brusca e... non mi ricordo se Madonia Francesco o Madonia Antonino, in questo momento posso anche sbagliare, Giovanni Brusca, si diede l'incarico proprio a Giovanni Brusca, ad Antonino Madonia, a Pino Greco, detto "scarpa", successivamente ucciso, a Balduccio Di Maggio di studiare la possibilità di eliminare il dottor Chinnici già nell'estate del 1982 presso la di lui abitazione estiva a Salemi. A questo proposito e per questo scopo questi soggetti che ho detto, ed in particolare Bernardo Brusca, si recarono a Salemi, dai cugini Salvo ricevettero l'indicazione precisa della ubicazione della villa del dottor Chinnici e per alcuni giorni stazionarono lì per vedere come organizzare l'attentato che doveva essere compiuto con mezzi tradizionali, cioè attraverso l'esplosione della solita raffica di mitra o dei soliti colpi di pistola. In quel frangente quell'attentato così come già deliberato e organizzato non fu realizzato perchè il dottor Chinnici fruiva anche di una vigilanza dei Carabinieri anche durante il periodo di ferie e in qualche modo ciò comportò una difficoltà di esecuzione in quel luogo e con quelle modalità che comportò una sospensione della delibera di morte che già la commissione provinciale di cosa nostra aveva adottato nei confronti del dottor Chinnici. Nel 1983 la situazione, l'esigenza di eliminare il dottor Chinnici si ripresenta, si ripresenta ancora più urgente proprio in relazione alla attività più penetrante svolta nei confronti dei cugini Salvo e nei confronti di tutta cosa nostra e nuovamente, presidente, noi questo intendiamo dimostrarlo e lo intendiamo precisare fin da ora, nuovamente la commissione si riunì e nuovamente vennero attribuiti gli incarichi organizzativi ed esecutivi secondo lo schema che successivamente delineeremo, e stavolta si decise di porre in essere la strage pensata, o meglio l'omicidio pensato, attraverso delle vere e proprie modalità stragiste, cioè attraverso l'attivazione dell'autobomba in pieno centro a Palermo. Perchè, presidente e signori della Corte, fin d'ora ho precisato da questo punto di vista quello che intendiamo provare? Perchè dobbiamo inquadrare anche, e sarà nostro compito rendervi chiaro attraverso l'istruzione probatoria quello che sto affermando, il delitto Chinnici in un contesto di vicende di “cosa nostra” ben particolare. Attraverso i collaboratori di giustizia, ma non solo attraverso le loro dichiarazioni, proveremo che a partire dal 1981 a Palermo la fazione cosiddetta corleonese facente capo a Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, e che a Palermo aveva trovato validissimi alleati in Madonia Francesco, odierno imputato, Ganci Raffaele, odierno imputato, ed in altri soggetti odierni imputati, aveva portato a termine una vera e propria opera sistematica di sterminio di tutti coloro che erano precedentemente collegati ad altri capimandamento storici tipo Stefano Bontate, tipo Salvatore Inzerillo, tipo Badalamenti. Questa cosiddetta guerra di mafia fu portata avanti soprattutto attraverso le forze, i picciotti, gli uomini d'onore espressi dalle famiglie di questi soggetti; vi dimostreremo che, per esempio, i figli di Madonia Francesco, e in particolare Madonia Antonino, odierno imputato, fu uno dei principali artefici della maggior parte degli omicidi realizzatisi in numero di centinaia in quegli anni che vanno dall'81 alla fine dell'82. Vi dimostreremo che, per esempio, altri soggetti, i figli di Ganci Raffaele, Ganci Calogero, Ganci Domenico, il di loro cugino Anzelmo Francesco Paolo, non meno di Antonino Madonia, rappresentavano le braccia di quella forza tremenda che in quel momento era costituita dalla offensiva dei corleonesi. Vi dimostreremo che Giovanni Brusca, odierno imputato, non meno di Antonino Madonia, non meno di Calogero Ganci, di Mimmo Ganci, di Francesco Paolo Anselmo, contribuiva con decine e decine di omicidi al raggiungimento di quel fine di sterminio della fazione opposta. Vi dimostreremo che con la fine del 1982 storicamente si collega la guerra... la fine della guerra di mafia all'omicidio di Scaglione del 30 novembre del 1982 - Scaglione era un uomo d'onore della Noce, non mi riferisco all'ex procuratore ucciso nel 1970 - con il 30 novembre '82, comunque con la fine dell'82, la guerra di mafia ha fine e viene ricostituita “cosa nostra” e i mandamenti che compongono la struttura portante di “cosa nostra” a Palermo e provincia, secondo uno schema che prevedeva l'attribuzione di poteri nei mandamenti a tutti coloro i quali si erano schierati con Riina, Provenzano e i corleonesi. Vi dimostreremo che tra la fine dell'82 e il gennaio dell'83, in seguito proprio ad una riunione, sempre nella contrada Dammusi di San Giuseppe Jato, venne ricostituita la commissione provinciale di Palermo e tra l'altro vennero attribuiti, in questa sede di ricostituzione di tutta la struttura portante, dei mandamenti che prima non esistevano o che prima erano stati, seppure momentaneamente, cancellati. Guarda caso viene ripristinato il mandamento alla Noce, viene designato come capomandamento Ganci Raffaele. Guarda caso viene ampliato il territorio, già importante e ampio, facente capo al mandamento di Resuttana, quello .. alla cui guida, alla cui direzione, per usare un termine improprio, era come capomandamento Francesco Madonia. Sostanzialmente, con la ricostituzione dei mandamenti vengono premiati coloro i quali erano stati i più stretti alleati, anche alleati operativi, di Totò Riina, nella guerra di mafia da poco conclusasi. Il problema che dobbiamo fin da subito individuare: noi abbiamo, e ve l'ho già anticipato, una prima deliberazione che interviene nell'estate del 1982, quindi in costanza ancora di guerra, e quindi presumibilmente adottata, secondo le regole di cosa nostra adottata, dalla commissione provinciale di Palermo così come allora costituita. Abbiamo però una seconda nuova deliberazione che interviene soltanto qualche mese prima rispetto alla perpetrazione della strage del 29 luglio e che quindi, noi dimostreremo, è da attribuire alla commissione provinciale di Palermo, così come composta dopo la ricostituzione della commissione nel gennaio del 1983. E d'altra parte, signori della Corte, non poteva accadere altrimenti. Una cosa è deliberare l'omicidio di un magistrato, un omicidio eccellente, però fatto con sistemi tradizionali, attraverso l'esplosione di colpi di arma da fuoco, una cosa è decidere di attuare una vera e propria strage nel pieno centro di Palermo. Le regole di “cosa nostra”, che tra l'altro sono sancite nella sentenza ormai passata in giudicato, la nr. 80/92 che di qui a poco vi andremo a produrre, sono assolutamente chiare. La deliberazione dell'omicidio eccellente non può che essere fatta da tutti i capimandamento riuniti nella commissione provinciale di Palermo. Questa è una regola che noi riteniamo ancora valida, sicuramente valida, almeno fino all'epoca delle stragi del 1992, ancora più valida, ancora più pregnante, ancora più inderogabile nel 1983, nel momento in cui la commissione provinciale di Palermo a seguito della ricomposizione del gennaio '83 è nel momento di sua massima coesione e di suo massimo splendore. Riteniamo tra l'altro, e in questo senso comincio ad avviare l'esposizione introduttiva verso quello che attiene agli aspetti organizzativi, che la strage sia stata organizzata secondo dei canoni che poi vedremo essere soliti nella consumazione dei delitti eccellenti. Per la consumazione della strage furono incaricati uomini d'onore appartenenti a più mandamenti, non solo uomini d'onore appartenenti al territorio del mandamento dove la strage si sarebbe dovuta consumare, via Pipitone Federico, che ricade del mandamento di Resuttana, quello di Francesco Madonia, di Antonino Madonia, ma alla strage partecipano uomini d'onore del mandamento di San Giuseppe Jato, del mandamento di Resuttana, del mandamento della Noce, del mandamento di Ciaculli e del mandamento di San Lorenzo. Siamo in presenza, signori della Corte, dell'incarico operativo affidato proprio a quei soggetti che da poco rivestivano la qualità di capomandamento e che tale designazione avevano ricevuto come premio dell'apporto alla guerra di mafia. Mi riferisco alla Noce, mi riferisco a San Lorenzo e quindi al capomandamento Giacomo Giuseppe Gambino, mi riferisco a San Giuseppe... a San Giuseppe Jato, che, come abbiamo visto, aveva dato un apporto decisivo alla guerra di mafia, mi riferisco a quel Pino Greco "scarpa", capomandamento allora di Ciaculli che un apporto decisivo aveva dato alla guerra di mafia. Vedremo come la ripartizione del compito operativo ed organizzativo ha seguito uno schema ben preciso: quello della segmentazione tra gli incarichi dei vari mandamenti ma del rapporto costante e operativo tra gli uomini d'onore degli stessi mandamenti.

I racconti dei pentiti di Cosa Nostra. La Repubblica il 6 luglio 2020. L'impulso alle indagini in questo procedimento è stato dato dopo ben 13 anni di tempo rispetto alla data della strage, a seguito delle dichiarazioni che hanno reso alcuni collaboratori di Giustizia. Tuttavia già l'impianto accusatorio dell'83 consentiva di orientare le indagini nei confronti di questi soggetti che costituiscono gli esecutori materiali della strage. Le dichiarazioni che noi abbiamo acquisito e che vi proveremo attraverso l'esame degli imputati, e mi riferisco a Ganci Calogero, mi riferisco ad Anselmo Francesco Paolo, a Ferrante Giovan Battista e a Brusca Giovanni, consentono di ricostruire e quindi vi offriremo un quadro completo di quella che è stata la materiale esecuzione della strage. E in particolare noi vi proveremo come fu reperito l'esplosivo, chi trasportò l'esplosivo e in questo senso è Brusca che ci ha riferito e non solo, ma vorrei già indicare che le dichiarazioni del Brusca hanno trovato riscontro anche in quelli che erano atti pregressi, quali la perizia chimico - esplosivistica, perchè vedremo che il tipo di esplosivo di cui ci parlerà il collaboratore è veramente coincidente con le risultanze dei consulenti che allora venivano... erano state fatte, così come le modalità di collocamento dell'esplosivo.

Ancora, attraverso le dichiarazioni dei collaboratori noi proveremo come venne rubata la macchina. D'altra parte, che il furto fosse avvenuto in un'autoscuola e che fosse avvenuto con certe modalità è stato pienamente riscontrato attraverso le dichiarazioni dell'allora proprietario di questa autoscuola che si chiama Ribaudo Andrea e che ci ha effettivamente rappresentato che la macchina era stata posteggiata in doppia fila davanti all'autoscuola, con le chiavi inserite; è un particolare che noi rivedremo attraverso le dichiarazioni di uno dei collaboratori. Così come il fatto che la macchina recasse delle insegne lateralmente agli sportelli i... e che poi furono tolte in una traversa vicino al luogo dove ... la macchina era stata rubata ed effettivamente il titolare ci ha riferito questi particolari. Così come noi proveremo che le targhe .. che furono apposte poi successivamente nell'autobomba furono effettivamente prelevate nella notte tra il 28 e il 29, ciò per ovvie considerazioni, in modo da consentire agli attentatori di trasferire la macchina in tempo e ancor prima che il proprietario si accorgesse di questo furto. Purtroppo il proprietario si era accorto di questo furto ancor prima dell'attentato e purtroppo però le Forze di Polizia non diedero risalto a questa cosa e se si fossero accorti, poichè la denuncia fu verificata, fu presentata ... prima ancora della morte del dottore Chinnici, forse l'attentato si poteva anche sventare. Ancora, noi proveremo come venne materialmente trasferita questa autovettura che, una volta rubata e una volta che vennero …. tolte queste insegne laterali, fu portata presso un magazzino; prima ancora di essere portata in questo magazzino transitò però in una zona... in un terreno di proprietà dei Galatolo, ecco l'imputazione di Galatolo Vincenzo, e poi fu ancora trasferita in un magazzino; all'interno di questo magazzino ci fu chi procedette all'imbottitura, alla materiale predisposizione. Noi proveremo ... che tipo di telecomando sia stato utilizzato, che tipo di congegno fu predisposto all'interno dell'autovettura, così come proveremo che, una volta predisposta l'autovettura, furono fatte diverse prove di telecomando. Queste prove di telecomando vennero effettuate in diversi posti: e all'interno di questo magazzino e in questa tenuta dei Galatolo, addirittura la notte prima che il dottore Chinnici fosse ucciso. E ancor prima, proveremo che due degli odierni imputati, proprio per rilassarsi, erano andati a divertirsi, l'hanno chiamato un divertimento, presso un locale che era stato aperto da poco e che abbiamo riscontrato essere aperto proprio la notte tra il 28 e il 29. Sostanzialmente, attraverso la ricostruzione che noi vi porgeremo, attraverso la ricostruzione effettuata dai quattro collaboratori, vi proveremo come tutto fu fatto con assoluta precisione, perchè nulla fosse lasciato al caso, …. così come la prova effettuata proprio la notte del 28 - 29, così come il trasferimento nelle prime ore fatto con dei sistemi che sono consolidati, li abbiamo ritrovati nella strage di via d'Amelio: la macchina che è al centro con la staffetta in modo da evitare che possa urtare, per evitare una eventuale esplosione o che comunque possa camminare indisturbata perchè una eventuale presenza della polizia può portare a cercare di distogliere l'attenzione attraverso l'intervento di queste macchine che fanno da staffetta. Ed ancora, il posizionamento della macchina con dei particolari che veramente sono agghiaccianti. La macchina... il posto davanti all'abitazione del dottore Chinnici era stato già da tempo occupato, con ... un'attività svolta proprio dai nostri esecutori materiali e demandata prevalentemente alla famiglia dei Ganci e qua cito fra tutti Ganci Stefano che era una delle persone che avevano il compito di sostituire giornalmente ... per un certo numero di tempo lo spazio antistante l'abitazione con macchine anche non particolarmente piccole, perchè poi quella piccola, come ci spiegheranno i collaboratori, era stata posizionata in modo da lasciare uno spazio sufficie(nte)... abbastanza grande, cosicchè il dottore Chinnici dovesse prendere necessariamente quella strada per fare in modo che il colpo non andasse a vuoto. E ancora, gli accorgimenti fatti per trovare questo posto, le difficoltà a trovare questo posto, il successivo intervento con una telefonata, con un escamotage. E ancora la parte finale, la parte finale con Ferrante, che è un altro collaboratore, che è di particolare spessore. Cioè, io vorrei dire qua che questi nostri quattro collaboratori che sono interventi e che poi sono riscontrati …. come vedremo, da attività pregressa e da attività successiva, sono quattro protagonisti di allora, sono persone che hanno commesso i più gravi delitti che sono successi da vent'anni a questa parte, sono soggetti che si sono macchiati di delitti come la strage Chinnici, ma come anche l'omicidio Lima, come la strage di Capaci, come la strage del dottore Borsellino, come la strage di Ninni Cassarà. Quindi sono persone di particolare spessore, che parlano in un arco di tempo molto ravvicinato, sicchè è veramente difficile pensare che ci sia stato aggiustamento di dichiarazioni o che l'uno abbia saputo quello che diceva l'altro. E peraltro noi vi proveremo, attraverso tutti i particolari che vi forniremo, che esistono delle divergenze, questo è già fonte di genuinità, d'altra parte sono divergenze che nascono a tredici anni di distanza l'una dall'altra e che comunque non incrinano assolutamente quello che è il nucleo essenziale delle dichiarazioni che, poi potrete constatare, hanno ciascuno un'importanza particolare, perchè non sono dichiarazioni tutte uguali su tutte le varie fasi, cioè sono dichiarazioni che aggiungono particolari ad altri particolari.

Per esempio, Brusca ci parla di tanti particolari perchè vi ha partecipato personalmente. Ganci Calogero ci parlerà di altri particolari. Quindi direi un quadro probatorio, che noi vi offriremo, che verrà ovviamente arricchito dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di cui abbiamo chiesto l'esame e che chiediamo che poi sicura... illustrando le prove, io evidenzierò. Vorrei evidenziare l'importanza che avranno le dichiarazioni di Francesco Onorato, l'importanza che avranno le dichiarazioni dello stesso Vincenzo Sinacori, che .. già anche di recente, ed è un verbale che depositerò al più presto a disposizione degli avvocati, ha parlato del ruolo di protagonista e dello stretto contatto tra Riina e … Nino Madonia, che sostanzialmente è l'organizzatore di questa strage. Quindi, attraverso queste dichiarazioni noi quindi proveremo: qual è stato il ruolo di Galatolo; qual è stato il ruolo di Nino Madonia, che sostanzialmente è colui che preme il telecomando, è colui che si veste da muratore, sale sul cassone del camion che è stato portato sul posto a pochi metri di distanza dal luogo della strage ed aziona il telecomando e poi bussa violentemente sul cassone perchè il Ferrante ha avuto paura, ha visto questa grande esplosione, questo fumo, per dirgli di allontanarsi. Ed ancora noi vi proveremo come abbia avuto un ruolo decisivo Ganci Calogero; come abbia avuto un ruolo decisivo Anzelmo Francesco Paolo. Cioè sono soggetti, appartenenti alla Noce, che avevano già da allora un grosso spessore criminale e, purtroppo, attraverso le loro dichiarazioni, abbiamo capito che la strada che il dottore Chinnici aveva intrapreso per combattere “cosa nostra” era quella giusta e forse per questo è stato ucciso. Quindi, a conclusione di questa esposizione introduttiva, ecco, vorrei evidenziare anche il ruolo di Galatolo, perchè Galatolo è presente, non soltanto mettendo a disposizione locali di sua pertinenza perchè si svolga ... tutta la fase precedente e quindi la preparazione della strage, ma perchè Galatolo è un soggetto che ... la mattina del 29 luglio apre il magazzino e consente alla macchina che venga fuori. Noterete anche, attraverso le dichiarazioni, che Brusca si riferisce anche al collaboratore Balduccio Di Maggio.

Tutto questo è il quadro probatorio completo. L'ultima cosa che mi ricordava il collega, perchè pensavo di averla detta ma forse sono stata non troppo precisa, è il trasporto della macchina in via Pipitone Federico. Avevo già detto che era stato lasciato questo ampio spazio e... cioè, era stato predisposto lo spazio. La macchina viene materialmente collocata da Brusca Giovanni, il quale proprio ha cura di lasciare, come ho detto poco fa, essendo una piccola macchina, perchè è una 126, viene spostata in modo, dico, da consentire il passaggio e Brusca in quel momento attiva il congegno e poi ha cura di pulire con particolare precisione le eventuali impronte che avrebbe lasciato sulla macchina; dopodichè gli attentatori si allontanano e rimangono soltanto il camion con il Ferrante e con il Madonia, gli altri cominciano... pedinano tutta la zona circostante. Il pedinamento è fatto anche, ed è questo un particolare che ci riferirà Brusca, anche da Mario Prestifilippo e Pino Greco "scarpa". Gli altri alla fine, dopo avere verificato l'arrivo delle macchine, guardano lo spettacolo e si collocano esattamente alla fine della strada,  in una scalinata, dove siedono guardando, davanti alla chiesa di San Michele, dove siedono a guardare quello che sta succedendo. Quando si accorgono che tutto è andato bene, perchè per loro era un grande successo, si allontanano e ognuno torna alla propria abitazione come se nulla fosse successo. Questo è tutto il contenuto delle prove che noi vi offriremo e a questo punto io credo di avere completato la fase esecutiva e passo all'esame, cioè all'illustrazione delle prove testimoniali, proprio perchè sono strettamente collegate”.

Palermo come Beirut. La Repubblica il 7 luglio 2020. Alle ore 8,00 del 29 luglio 1983, nel centro di Palermo, veniva attivata, con un sistema di telecomando a distanza, una potente carica di esplosivo collocata all'interno del cofano anteriore di una Fiat 126 parcheggiata proprio in prossimità del portone d'ingresso dello stabile di via Pipitone Federico dove abitava il dr. Rocco Chinnici, Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo. L’autovettura all’interno della quale era stata collocata la carica esplosiva era stata rubata a Palermo nei giorni precedenti ed anche le targhe apposte a detta autovettura erano state asportate nella notte tra il 28 e il 29 luglio da altra autovettura dello stesso tipo di proprietà di tale Santonocito. La devastante esplosione provocava la morte del dr. Chinnici, dei militari dell’Arma dei carabinieri, componenti la scorta, maresciallo Mario Trapassi e appuntato Salvatore Bartolotta, del portiere dello stabile Stefano Lisacchi, nonchè il gravissimo ferimento dell'autista giudiziario Giovanni Paparcuri, rimasto per un lungo periodo in stato di coma, che si era recato, come ogni mattina, a prelevare il dr. Chinnici presso l’abitazione di via Pipitone Federico per accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Da dette lesioni sarebbe poi residuato a carico del Paparcuri l'indebolimento permanente della funzione uditiva. Lesioni più lievi riportavano molte altre persone venutesi a trovare nel raggio di azione della devastante onda d’urto, fra le quali altri Carabinieri addetti alla scorta del magistrato. L’esplosione provocava, altresì, una vera e propria devastazione in una vasta area circostante la zona teatro dell’attentato, con la distruzione e il danneggiamento degli stabili vicini, delle automobili parcheggiate, delle saracinesche di molti negozi ancora chiusi a quell'ora del mattino. Il primo spunto di riflessione offerto dallo scenario presentatosi agli occhi degli inquirenti era certamente costituito dal rilievo che si trattava del primo attentato ad un rappresentante delle istituzioni eseguito con modalità tipicamente terroristiche, mediante il sistema dell’auto-bomba. Purtroppo gli eventi successivi avrebbero dimostrato che non si era trattato dell’ultimo attentato ma la prima di una efferata serie di stragi culminate negli attentati di Capaci e via D’Amelio del 1992 nelle quali persero la vita il dr. Giovanni Falcone, la d.ssa Francesca Morvillo, il Dr. Paolo Borsellino e i poliziotti della loro scorta.

La strategia dei delitti eccellenti. La Repubblica l'8 luglio 2020. Il quadro probatorio emergente dal complesso degli elementi processualmente acquisiti consente di ritenere che nella fattispecie dedotta nel presente giudizio un particolare rilievo probatorio deve essere riconosciuto alla individuazione del movente [...]. La correlazione del movente, quale emerge dalle acquisizioni dibattimentali, con gli altri indizi consente di pervenire, nel quadro di una valutazione globale dell’insieme, all’affermazione che il complesso indiziario, per la certezza dei dati e per la loro univoca significazione, ha raggiunto la soglia della rilevanza della prova certa. Ed invero, come già ampiamente sopra anticipato, deve ritenersi pienamente provato che l’omicidio in esame è maturato in un contesto ed in un momento storico in cui l’assassinio del dr. Chinnici, per le funzioni giurisdizionali svolte in determinati processi, per l’impegno profuso, per la fermezza dimostrata, per il rigore morale che ebbe ad ispirarne l’attività professionale, divenne funzionale ad un interesse strategico complessivo di quella potente e pericolosissima organizzazione criminosa, tipicamente mafiosa, denominata “cosa nostra”, la cui "prova ontologica", come struttura associativa monolitica e gerarchicamente ordinata, può dirsi ormai pacificamente acquisita al patrimonio della coscienza collettiva, oltre che giudiziariamente, grazie alle rivelazioni di molteplici e convergenti fonti propalatorie, la cui attendibilità ha superato il vaglio dibattimentale di merito e di legittimità. Anche il ruolo strategico ed immanente della "commissione", inteso come organismo di vertice, racchiuso già nel significato semantico di "cupola" (molto più incisivo di quello espresso dal termine "commissione") risulta definito ed accertato significativamente anche in numerosi precedenti giudiziari (cfr., da ultimo, l'importante sentenza della S.C. Sez.I, 30/1/1992, n.80, acquisita agli atti, che ha definito gran parte delle posizioni processuali del procedimento a carico di Altadonna ed altri (inizialmente Abate Giovanni ed altri) noto come il maxiprocesso di Palermo. L’approfondita istruzione dibattimentale, volta alla individuazione di una causale adeguata all’efferatezza del delitto, i cui autori non hanno esitato a sacrificare alle ferree leggi dell’organizzazione, o comunque a mettere in grave pericolo, anche la vita di persone estranee, ha consentito di riscontrare positivamente l’assunto accusatorio della rilevanza e centralità probatoria del ruolo svolto dalla vittima nell’ufficio da lui diretto, sicchè la deliberazione stragista, seguita ai vani tentativi di infrenarne l’attività investigativa, costituisce esemplare dimostrazione della capacità dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” di condizionare anche l’esercizio di funzioni giurisdizionali, modulando, grazie ad una straordinaria capacità di adeguamento alle concrete situazioni, i propri interventi attraverso un abile e calibrato ricorso ai peculiari strumenti di sopraffazione che ne qualificano le modalità operative, tipicizzati dal legislatore nell’art.416 bis c.p. attraverso i ben noti paramentri, sufficientemente obiettivi e caratterizzanti, costituiti dalla forza intimidatrice del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà. È appena il caso di rilevare come il condizionamento del corretto funzionamento delle istituzioni, che rientra certamente tra le principali finalità perseguite dalle organizzazioni mafiose, non può prescindere da una capillare attività volta a favorire il terreno di coltura dell’omertà, che si sostanzia nel rifiuto incondizionato ed assoluto a collaborare con gli organi dello Stato, non solo per timore di rappresaglie ma anche per la tendenza a negare ogni legittimazione a qualsiasi interferenza dello Stato stesso. È stato acutamente rilevato che l'omertà è una forma di opposizione passiva alle istituzioni democratiche la quale si diffonde nel tessuto sociale nella misura in cui il dominio mafioso ne impone l'assimilazione con il ricorso al terrore ed alla intimidazione e con una capillare opera di educazione alla diffidenza verso le pubbliche istituzioni. Orbene, un disegno strategico complessivo così destabilizzante per le istituzioni democratiche non può non prevedere il ricorso a vere e proprie forme di terrorismo mafioso che colpiscono rappresentanti delle istituzioni e che prevedono l’eliminazione di uomini considerati pericolosi per l’assetto del potere mafioso al fine di salvaguardarne il perpetuarsi in un’ottica di “prevenzione generale”. La storia giudiziaria degli ultimi anni è costellata di gravissimi attentati a uomini delle istituzioni, ritenuti troppo pericolosi e professionalmente preparati sul piano investigativo e giudiziario, maturati sovente in momenti storici in cui le organizzazioni si sono trovate in difficoltà ed hanno avvertito l’esigenza di riaffermare il proprio potere egemonico sul territorio facendo ricorso, spesso come estrema ratio, all’assassinio di quanti con il loro quotidiano impegno ed il rifiuto di qualunque forma di condizionamento hanno dimostrato di avere operato una scelta chiara ed irreversibile in favore dei valori della legalità e della giustizia. In questo quadro, non può certamente dubitarsi che le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, per le eclatanti ed efferate modalità esecutive e per le figure emblematiche delle vittime, abbiano segnato il più alto livello di attacco militare allo Stato da parte di “cosa nostra” ed il momento più drammatico di una lucida strategia terroristica articolata nel corso degli ultimi tempi da detta organizzazione per riaffermare il primato e l'intangibilità del proprio potere criminale sia rispetto alla società civile ed alle istituzioni statali sia all'interno dello stesso sodalizio. Orbene, alla stregua delle risultanze processuali e delle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, risulta che già nel biennio 1979-1980 - e quindi in quel delicato momento storico in cui i precari equilibri esistenti in seno alla organizzazione mafiosa “cosa nostra” palermitana avrebbero ben presto portato alla c.d. guerra di mafia scoppiata con l’omicidio di Stefano Bontate, capo della “famiglia” di S.Maria di Gesù, consumato a Palermo in data 23/4/1981 - si verificarono gli omicidi di alcuni brillanti e coraggiosi investigatori, fra i quali rilevano, nel presente processo, quelli del dirigente della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano (21/7/1979), del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4/5/1980) e del Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa (6/8/1980). L’omicidio dell’ufficiale dell’Arma, il cui movente va individuato nella incisività delle indagini che il brillante investigatore stava svolgendo, sulla scia di quelle avviate dal commissario Boris Giuliano, su alcuni personaggi di spicco operanti nel territorio Altofonte, compreso nella giurisdizione della compagnia dei CC di Monreale, rientra certamente nel quadro di quell’attività criminosa volta a stroncare ogni tentativo delle istituzioni di prevenire e reprimere efficacemente sul piano investigativo i traffici illeciti delle organizzazioni mafiose, ma anche in quella strategia terroristica finalizzata a creare un clima di intimidazione diffusa ed a scoraggiare ulteriori azioni repressive delle istituzioni, facendo leva sui sentimenti di sfiducia e senso di sconfitta che normalmente conseguono alle lesioni inferte alla convivenza civile da gravi ed eclatanti fatti di sangue. Appare, pertanto, perfettamente coerente con la “logica” sottesa al disegno strategico destabilizzante della organizzazione mafiosa “cosa nostra” e con i metodi che ne hanno tradizionalmente connotato le modalità operative intervenire per condizionare dapprima le indagini e poi, se necessario, anche l’esito dei processi ai propri affiliati che dovessero essere coinvolti in fatti penalmente rilevanti e particolarmente gravi.

Mutolo: "Chinnici era da sempre nel mirino”. La Repubblica il 10 luglio 2020. Esigenze di propedeuticità espositiva rendono opportune alcune brevi considerazioni sulla personalità e sul ruolo svolto in seno all’organizzazione “cosa nostra” dal Mutolo, al fine di delibarne l’attendibilità, atteso che le sue dichiarazioni dovranno essere fra breve esaminate per inquadrare il contesto in cui è maturata l’iniziale determinazione criminosa nei confronti del consigliere Chinnici, rinviando la valutazione dell’attendibilità di altri collaboratori – ed in particolare di quelli che rivestono anche la posizione di imputati - alla specifica trattazione che sarà svolta nei capitoli riservati ad altri argomenti che hanno costituito oggetto del loro più specifico contributo probatorio.

MUTOLO Gaspare è stato affiliato nel 1973 alla famiglia di Partanna Mondello, del mandamento di Partanna Mondello, all’epoca retto da Riccobono. Particolarmente vicino a quest’ultimo, il Mutolo era stato in contatto con Riina il quale durante la latitanza si era fatto autorizzare da Provenzano e da Liggio, ad appoggiarsi alla famiglia di Partanna Mondello, per cui il collaboratore insieme a Micalizzi Salvatore era stato designato con il preciso incarico di “mettersi a disposizione” del Riina. Il suo patrimonio conoscitivo, quindi, appare particolarmente ricco di informazioni per la lunga militanza (circa ventanni) in “cosa nostra”, di cui aveva avuto modo di conoscere i personaggi di maggiore rilievo ed in particolare quelli vicini al Riina, fra i quali ha menzionato Nino Madonia, Pietro Vernengo, Franco Di Carlo, Pippo Gambino ed altri. Dopo avere fornito alcune informazioni sui periodi di detenzione che si riveleranno particolarmente utili in relazione a talune indicazioni circa i rapporti intrattenuti in carcere con altri uomini d’onore e le notizie apprese nei vari istituti, ha riferito di avere iniziato a collaborare nel giugno del 1992, precisando di non avere avuto alcuna possibilità di incontro con altri collaboratori se non in occasione di qualche spostamento per motivi di giustizia ma sempre sotto il costante controllo del personale di scorta.

Con riferimento alla fase iniziale della collaborazione ha riferito quanto segue: MUTOLO - Ecco, io dopo ... una volta o due volte, cioè dopo le prime volte che parlai con il magistrato Vigna della Procura di Firenze, va bene, ho detto espressamente che io volevo parlare con la Procura di Palermo e desideravo parlare però con il giudice Borsellino, perchè io, quando io collaboro già il giudice Falcone è morto, quindi l'unico giudice in cui io diciamo sono tranquillo perchè so che la mafia lo vuole uccidere è il giudice Borsellino, non perchè io non ho fiducia agli altri magistrati, quantomeno so che quel giudice Borsellino è un uomo che la mafia, insomma, lo cerca per ucciderlo ed io faccio espressione con richiesta di espressione propria con il giudice Vigna a dire: "Senta, io purtroppo, sì, sto collaborando con la Procura della Toscana però a me mi interessa, io sto collaborando perchè voglio parlare con la Procura di Palermo", va bene, però non è che io mi rendevo conto che il giudice Borsellino era a Marsala o a Trapani, io, insomma, . completamente ci  ho detto: "Io parlo con questa persona oppure non parlo".

Il Mutolo ha inoltre aggiunto: “Guardi, io quando .. ho deciso, dopo una grande meditazione, dopo un grande... cioè, riflessione, insomma, interna, io non è che avevo paura che i mafiosi .. mi potessero uccidere, questa è una cosa che non ho pensato mai e che non penso, è una cosa che... prima che mi uccidono meglio è, .. quindi, per me la paura non esisteva; io però volevo parlare con persone competenti. Quindi la persona più competente chi era? 'Nfina nel( fino al) 1991. Perchè la mia nasce nel '91, va bene. Il giudice Giovanni Falcone. Quindi, io cerco e mi metto in contatto con il giudice Falcone e il giudice Falcone gentilmente mi viene a trovare a Spoleto, credo il 16 dicembre del 1991, però io non è che capivo che il giudice non era più Giudice Istruttore di Palermo, che era passato a Roma, cioè, non è che capivo queste cose. Quindi, quando io vedo al giudice Falcone per dirci le gravità e che io volevo parlare a lui perchè sapevo che comunque il giudice Falcone - e mi dispiace, perchè... - era destinato a morire perchè la mafia vedeva in lui il persecutore, il nemico, il nemico da sconfiggere ….quindi le dico che io volevo parlare con lui, persona competente, persona che già aveva avuto, diciamo, personaggi come Buscetta, come Mannoia e come Contorno, perchè in quel periodo già questi collaboratori, diciamo và, però io a lui le dico, guardi, io oltre i fatti mafiosi, personaggi importanti, io so anche e ci faccio qualche nominativo di qualche persona delle Istituzioni, va bene, ci dico: "Guardi che il suo Ufficio è uno scolabrodo; guardi che appena c'è un ordine di cattura i mafiosi lo sanno, insomma..." e quindi io ci faccio i nominativi ma sempre diciamo con una riserva che non si doveva mettere niente per iscritto, perchè prima si dovevano togliere a questi criminali di in mezzo la strada.”

Sulla progressione della sua collaborazione il Mutolo ha fornito i seguenti chiarimenti:

P.M. - Al di là di queste motivazioni che lei ha dato sulla necessità di eliminare proprio il braccio armato di "Cosa Nostra" c'erano anche altre motivazioni che l'hanno portato a dare questo ordine di progressione delle sue dichiarazioni?

MUTOLO - Guardi, il braccio armato era questo, che io, insomma, togliendo il braccio armato, diciamo, i mafiosi importanti che avevano la decisione di fare qualsiasi cosa .. su Palermo ma sull'Italia, quindi io potevo affrontare con più serenità diciamo l'altro problema dei politici, dei magistrati, degli avvocati; cioè, io non capisco proprio, insomma... era questo il motivo in cui io ho voluto ed ho parlato, diciamo, principalmente del braccio armato mafioso.

Quanto ai motivi della scelta collaborativa, il Mutolo ha dichiarato quanto segue: MUTOLO - Guarda, i motivi sono stati ... principalmente sono questi: cioè, che io non mi vedevo più quel mafioso che io mi vedevo convinto nei primi anni, quando io sono stato ... a entrare in "Cosa Nostra", che andavo a uccidere, andavo a sequestrare, ... facevo io tutto per la mafia, perchè davo una giustificazione che comunque la mafia faceva... diciamo, c'era un motivo; i mafiosi erano persone perbene, i mafiosi avevano dei principi in cui non si toccavano le donne, non si toccavano i bambini; una persona che si comportava bene e veniva ucciso .. per un motivo, la famiglia era garantita. Insomma, c'era un codice d'onore e dopo io so che i mafiosi avevano amicizie in qualsiasi livello; certo, . dopo il 1978 - '79 le cose sono radicalmente capovolte, si uccidevano le persone soltanto perchè si volevano eliminare presunti rivali, ... non toccando dopo le donne, i bambini, insomma, e ancora... ancora oggi, insomma, nel giro di due giorni che sono stati uccisi due bambini; se si faceva questo al tempo dei Badalamenti, a tempi dei Calderoni, va bene, eh, certamente non si faceva questo. A Catania si è messo a fare questo dopo l'entrata del Santapaola. Il collaboratore ha dichiarato di avere confessato tutti i reati commessi, compresi gli omicidi di cui si era reso responsabile dal 1973 in poi, fornendo un contributo di notevole rilievo probatorio in ordine alla ricostruzione storica dell’evoluzione dell’organizzazione fin dal tempo del c.d. triumvirato. Non può dubitarsi che la scelta collaborativa sia stata determinata dalla progressiva non condivisione della strategia criminale dell’organizzazione e dei metodi di gestione dei suoi vertici, nonché dalla revisione critica di precedenti scelte di vita. Il suo contributo si è rivelato particolarmente significativo, come si avrà modo di dimostrare più avanti nel corso della presente trattazione, in relazione alla collocazione temporale del momento genetico del progetto criminoso nei confronti del dr.Chinnici e di altri uomini delle istituzioni rimasti vittime della strategia criminale di “cosa nostra”, con particolare riferimento alla prima metà del 1982. Sotto tale profilo le informazioni fornite, sulla scorta delle notizie apprese dal Riccobono prima di essere tratto in arresto – il Mutolo è stato libero dall'aprile 1981 al giugno 1982 - hanno trovato riscontro in argomenti di ordine logico che ne suffragano l’attendibilità, mentre le confidenze ricevute in carcere dal Madonia Francesco, del pari rilevanti, risultano suffragate anche dall’esito degli accertamenti compiuti sui vari periodi di detenzione sofferti da quest’ultimo e dal collaboratore. Tanto premesso, appare opportuno anticipare quanto costituirà oggetto di più approfondita disamina nel prosieguo della presente motivazione.

Mutolo ha testualmente dichiarato : “ Sì, sì, io ci dico che già nel 1982 - no nell'83, nell'82 - il dottor Chinnici si è salvato, non so per quale motivo, insomma; perchè non è, insomma, perchè la mafia magari guarda che deve uccidere a una persona, può nascere un contrattempo e... e viene rimandato, cioè non... però già dal millenovece... da giugno, ma anche di maggio, di aprile, del 1982 il dottor Chinnici era sotto, diciamo, la minaccia di essere ucciso, perchè già si sapeva che stava, diciamo... voleva cambiare l'andamento che c'era al Tribunale di... di Palermo e forse, secondo... secondo me, si è ritardato un anno, perchè dopo con l'incalzare del giudice Falcone, che ha messo a fare processi, che c'erano eh, eh, cioè un pe... per un qualche periodo la figura di questo giudice Chinnici magari è stata un pochettino accantonata, perchè avevano altro da fare. Però già io ci parlo del 1982, il dottor Chinnici si sapeva che voleva reinserire, va bene, quel concetto dell'associazione mafiosa che fa - purtroppo bisogna anche comprendere, va bene - tanta paura ai mafiosi, perchè logicamente hanno sempre il fianco scoperto, perchè un discorso è che imputano un omicidio o un'estorsione, un... qualsiasi cosa, un discorso è che tutti assieme fanno un mandato di cattura per associazione a delinquere e quindi questo è stato sempre il cruccio dei mafiosi, che  per un certo periodo avevano ottenuto questa tranquillitudine al Tribunale di Palermo.”

Un magistrato che faceva paura. La Repubblica l'11 luglio 2020. La tenace determinazione investigativa del dr. Chinnici risulta inequivocabilmente dal tenore della deposizione resa dal dr. Accordino cfr.ud.cit.) il quale ha dichiarato : "lui sostenne chiaramente e con forza che non intendeva rassegnarsi alla chiusura con esito negativo delle indagini su una serie di delitti; per cui fece riesumare, fece prendere dei fascicoli che magari erano messi da parte per cercare, anche con metodi balistici, anche con comparazioni balistiche, anche con contatti fra i vari organi che avevano esperito le indagini, tutti questi accertamenti per cercare di tirare fuori, alla luce di quella che era la sua convinzione, cioè di quella strategia unitaria della mafia che tendeva ad eliminare le persone che gli davano fastidio per la sua attività". Il teste ha precisato che questo convincimento era stato esternato pubblicamente dal dr. Chinnici: "lo diceva addirittura in pubblici dibattiti nelle scuole, perché lui aveva anche questa convinzione, che bisognava già dalle scuole, nelle scuole...partecipava a moltissimi incontri all'interno degli istituti scolastici per dire, per comunicare a queste nuove generazioni i concetti di legalità di giustizia di Stato, in contrapposizione alle ingiustizie alle prepotenze e agli assassini e ai delitti delle organizzazioni mafiose". Anche il col. Pellegrini (ud.15/6/1999) ha confermato la circostanza riferendo testualmente : "mi parlò, anche, e ne parlava non solamente a me, perché il Dott. Chinnici intanto era molto aperto, possiamo dire che il suo ufficio, da capo dell'Ufficio Istruzione, era sempre aperto, nel senso che chi voleva conferire con lui entrava liberamente. Mi parlò anche di alcuni progetti che aveva, proprio per provare la riconducibilità di tutti gli omicidi c.d. eccellenti ad un'unica matrice, di procedere alle perizie balistiche sulle armi usate negli omicidi più importanti di Palermo e quindi si consigliava e chiedeva anche se era possibile redigere, realizzare un archivio, di modo tale che nel momento in cui veniva sequestrata un'arma, si poteva vedere se quest'arma era stata usata par qualche omicidio......Queste sue idee di portare avanti l'indagine nei confronti dell'organizzazione criminale, non esprimeva solamente ai funzionari delle forze di polizia o ai suoi colleghi, ma le esprimeva in vari dibattiti che si tenevano sulle organizzazioni criminali, sulla lotta alla criminalità organizzata...tenne anche alcune lezioni all'Università...tutta la sua attività era protesa in questo senso: combattere la criminalità organizzata come fenomeno unico e responsabile di tutti i delitti, soprattutto di quelli eccellenti.”

Il dr. Giuseppe Pignatone (cfr. ud.16/4/1999) ha confermato il convincimento del consigliere istruttore in ordine al collegamento tra gli omicidi del gen. Dalla Chiesa e dell’on. Pio La Torre in quanto quest’ultimo era stato uno dei promotori della nomina del primo a Prefetto di Palermo, tanto che questi aveva anticipato la sua immissione in possesso proprio a seguito dell'omicidio dell’uomo politico. Il teste Pignatone ha inoltre riferito che il dr. Chinnici aveva avviato l'espletamento di una maxi-perizia comparativa sul materiale balistico rinvenuto e sequestrato in occasione di omicidi ritenuti di mafia avvenuti non solo a Palermo e provincia ma anche in altre province siciliane, rilevando che all'epoca, non essendo ancora maturata la collaborazione di Buscetta e Contorno, "era un'intuizione investigativa che poi la storia dimostrerà sostanzialmente esatta, ma mancavano i riscontri si sperava tramite questa perizia, così come tramite tanti altri tipi di indagine, di trovare dei riscontri a questa intuizione perché di questo si trattava nel 1983" .

Di questo intendimento erano a conoscenza numerose persone, non solo magistrati, poliziotti e cancellieri, ma anche altri soggetti estranei all’amministrazione della giustizia, perché il primo problema era stato quello di recuperare i fascicoli e sulla base di questi anche i reperti balistici, talvolta risalenti ad una decina anni addietro, sicchè fu necessaria una vasta ed articolata attività di reperimento del materiale balistico custodito in molteplici uffici, particolarmente complessa, che richiedeva mesi di preparazione e comportava una inevitabile diffusione della notizia.

Questa attività, iniziata nel giugno-luglio 1983, che si fondava su una felice intuizione investigativa del consigliere istruttore, fu portata a termine dopo la sua morte, con l'espletamento di una vasta perizia nell'ambito del primo maxi-processo che consentì di accertare il collegamento tra i fucili mitragliatori del tipo kalashnikov utilizzati per l’esecuzione degli omicidi in pregiudizio del gen. Dalla Chiesa, di Bontate Stefano, Inzerillo Salvatore ed il danneggiamento delle vetrine blindate della gioielleria Contino di via Libertà, eseguito proprio per verificarne la potenzialità lesiva.

Come sopra anticipato, dall’istruzione dibattimentale è emerso un interesse investigativo particolare del consigliere istruttore per il ruolo dei cugini Nino ed Ignazio Salvo nel quadro dei rapporti tra l’organizzazione “cosa nostra” e centri di potere politico ed economico di cui i noti esattori costituivano certamente espressione. È appena il caso di accennare brevemente, anticipando un tema che sarà più compiutamente sviluppato nel corso della presente sentenza, che il coinvolgimento dei Salvo nelle vicende connesse con la c.d. guerra di mafia scoppiata negli anni ’80 era ancorata ad un precisa emergenza investigativa costituita dal tenore di una intercettazione telefonica in data 11/6/1981 nel corso della quale tale Roberto – che sarebbe stato poi identificato per il noto collaboratore di giustizia Buscetta Tommaso, in quel momento residente in Brasile – veniva invitato dal suo interlocutore, tale l’ing. Lo Presti, parente dei Salvo, poi rimasto vittima di “lupara bianca”, a far rientro in Italia per sistemare le cose (“Cose troppo tinte ci sono qua…) con chiari riferimenti a “Nino” (Salvo) con il quale il Lo Presti diceva di avere parlato per organizzare il suo rientro. (“…Ma se lei comunque pensa di venire noi diciamo organizziamo la cosa….”).

Il dr. Borsellino, nel corso della deposizione resa il 30/3/1984 dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta, riferiva che qualche giorno prima della morte del dr. Chinnici, la Procura aveva richiesto la trasmissione della trascrizione di quella conversazione telefonica che si trovava allegata al fascicolo relativo all’omicidio del gen. Dalla Chiesa, richiesta che tuttavia il consigliere istruttore non aveva avuto il tempo di evadere.

Il famoso rapporto sui 162 mafiosi. La Repubblica il 12 luglio 2020. Il dr. Alberto Di Pisa (ud. 31/3/1999) ha riferito che il c.d. “rapporto dei 162” era stato presentato da organi investigativi congiunti e riguardava sia i gruppi “perdenti” che i “vincenti”, precisando che si trattava della prima grossa indagine concernente direttamente la fazione di “cosa nostra” dei c.d. corleonesi" e che il dr. Chinnici fino alla morte era stato l'unico interlocutore della Procura per quel processo; l'istruttoria fu chiusa nel 1985, dopo la sua morte. Il col. Angiolo Pellegrini (ud. 15/6/1999), ufficiale da sempre a stretto contatto con l'Ufficio Istruzione penale, quale comandante della I sezione del Nucleo Operativo Carabinieri, ha riferito che il dr.Chinnici "...aveva ereditato dal dott. Terranova una gran voglia di fare qualcosa di concreto nei confronti della criminalità organizzata, un fenomeno unico da combattere in maniera organica e anche se aveva istituito il pool antimafia di magistrati dell'Ufficio istruzione, egli continuava a dirigere le più importanti indagini, tenendo anche la titolarità di alcuni processi” ed ha ricordato il processo per i fatti-reato connessi con la ricostruzione del Belice, il processo per l'omicidio del giornalista Mario Francese, e quelli relativi agli omicidi dell’on. Piersanti Mattarella, dell'on. Pio La Torre e del Prefetto Dalla Chiesa. L’ufficiale ha aggiunto che il consigliere istruttore “Aveva l'idea che tutti questi omicidi fossero legati da un qualcosa e sicuramente tutti riconducibili alla criminalità organizzata e proprio per questa idea aveva approfondito indagini che riguardavano uno dei killer delle famiglie mafiose, Prestifilippo Mario". Quanto alla genesi del “rapporto dei 162”, consegnato alla Procura il 13 luglio 1982, il col Pellegrini ha precisato che il rapporto era nato “dall'emergenza determinata dalla guerra di mafia” ed era “il frutto dell'intuizione degli investigatori di ricostruire non più il singolo delitto e di individuare il singolo autore, ma di elaborare la situazione complessiva di cosa nostra esistente nei primi mesi dell'anno 1982; si concluse con la denuncia di 161 persone tra le quali Michele Greco che fino a quel momento era un personaggio particolarmente rispettato anche nella Palermo bene” ed ha aggiunto: “possiamo dire che il dott. Chinnici con la sua attività di lavoro aveva posto le basi del primo maxi processo perché da quel rapporto scaturirono poi altri successivi rapporti importanti e iniziò la collaborazione di Tommaso Buscetta il quale, oltre a confermare la ricostruzione della situazione criminale mafiosa operata dalle forze di Polizia, forniva ulteriori decisivi elementi che  conducevano alla scoperta dall'interno di questa organizzazione e che inchiodavano alle proprie responsabilità i cugini Salvo; da quel rapporto, e dal sacrificio della vita del giudice e degli altri servitori dello Stato, nacquero ottocento richieste di rinvio a giudizio e tre maxi processi”. Le concordi dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia consentono di ritenere che “cosa nostra” sapeva di quelle indagini e temeva quel rapporto; sul punto è appena il caso di ricordare che il Mutolo ha definito il Palazzo di Giustizia un colabrodo e che egli stesso aveva avuto diretta conferma dell'esistenza del rapporto da una conversazione con Riccobono Rosario dell'esistenza del rapporto. Anche il collaboratore di giustizia Cancemi ha più volte ribadito le molteplici possibilità per l’organizzazione di acquisire informazioni riservate Significative sono anche le dichiarazioni rese dall’imputato Brusca Giovanni (ud. 1/3/1999) che appare opportuno riportare testualmente:

P.M. - Lei ha detto: "Per ''cosa nostra” Chinnici era un individuo da eliminare, anche perchè in quel periodo stava facendo delle indagini sul famoso rapporto", etc. Come voi eravate a conoscenza? Erano già stati emessi i provvedimenti restrittivi?

Brusca - Non mi ricordo se già erano stati emessi, siccome...  sa perchè non mi ricordo? Perchè io non ero imputato, erano stati emessi, però forse li doveva firmare e poi non li ha firmati più, perchè su questo rapporto 162 c'è stata una lotta all'interno della Procura…

P.M. - E voi come eravate di queste... che erano poi dei segreti all'interno dell'Ufficio?

Brusca - Dottoressa, allora se crediamo, chiedo scusa, ai segreti di Pulcinella, senza offesa per nessuno. Ne conoscevano i Salvo, ne conosceva Salvatore Riina tramite altri canali.”

Come si avrà modo di precisare più avanti i Salvo erano a conoscenza di quelle indagini tanto che cercarono di "avvicinare" il consigliere istruttore.

Né lo stato di detenzione poteva costituire un ostacolo per “cosa nostra” all’acquisizione di informazioni riservate tanto che l’imputato Madonia Francesco informò il Mutolo dell’esistenza di quel rapporto e che sarebbero stati emessi i mandati di cattura.(cfr.Mutolo,ud.cit.).

Quanto poi alla irreprensibile dirittura morale del dr.Chinnici nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali, va rilevato che qualificate fonti probatorie hanno riferito circostanze probatoriamente rilevanti, facenti parte del personale patrimonio conoscitivo dei dichiaranti in quanto direttamente acquisite.

Di Carlo Francesco (ud. 15.2.1999), il cui profondo radicamento nella realtà mafiosa palermitana e la lunga militanza in “cosa nostra” ne conclamano la sicura affidabilità – in ordine alla quale si rinvia alle considerazioni che saranno svolte più avanti - ha riferito che “cosa nostra” sapeva bene che il dr. Chinnici era "irremovibile nelle cose, almeno aveva questa reputazione già da anni" e che egli stesso era stato incaricato personalmente di contattare il prof. Bonanno, originario di Misilmeri, padrino di battesimo o di cresima del magistrato, radiologo con studio nei pressi della stazione ferroviaria di Palermo.

Il collaboratore ha riferito che il medico fornì la seguente risposta: "guardate che conosco mio figlioccio, mi rispetta, lo voglio bene, ma quando si tratta di lavoro non c'è"; il Bonanno era andato comunque a trovare il dr. Chinnici il quale aveva risposto che avrebbe chiesto il proscioglimento soltanto se si fosse convinto dell'inesistenza delle prove a carico della persona raccomandata.

Il Bonanno era un vecchio e caro amico del consigliere Chinnici, anch'egli originario di Misilmeri ed effettivamente, come ha riferito il figlio del giudice, Chinnici Giovanni, (ud. 31/3/1999), era padrino di battesimo o di cresima del padre, precisando che tra le famiglie vi era stata una certa frequentazione con visite, come quelle che solitamente si fanno alle persone anziane.

Ciononostante i tentativi di avvicinamento, anche in epoca piuttosto recente rispetto all'attentato, non erano venuti meno, e sul punto l’imputato Brusca Giovanni (ud.1/3/1999) ha testualmente riferito : “In quel momento hanno detto: "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna", però sapevo che i Salvo avevano il problema con il dottor Chinnici, che lui indagava su di loro. Loro avevano fatto tanti tentativi di poter avvicinare il dottor Chinnici, ma non ci sono mai riusciti, cioè politicamente. …. me lo dicono i Salvo stessi; i Salvo, mio padre, Salvatore Riina. Capito? Al sud non c'è bisogno di... di fare tanti argomenti, cioè loro dice: "Abbiamo fatto tanti tentativi di poterlo avvicinare, ma non ci siamo mai riusciti".

Alla luce di quanto sopra esposto appare evidente l’interesse dell’organizzazione di eliminare un magistrato determinato e professionalmente preparato come il dr. Chinnici i cui innovativi metodi di lavoro potevano costituire un più efficace sistema di contrasto della criminalità organizzata, come risulta dalla deposizione resa dal dr. Accordino il quale ha riferito che il consigliere istruttore "aveva incoraggiato, aveva portato avanti la necessità di un sistema di indagine congiunta, di pool investigativi....con riferimento a magistrati e con riferimento a forze dell'ordine, in quanto giustamente lui sosteneva che di fronte a un fenomeno unitario gerarchico piramidale come la mafia occorre che lo Stato si organizzi in maniera analoga e non in maniera frammentaria con mille rivoli di indagine ognuno nelle mani di un magistrato che non sa quello che fa l'altro"(cfr.ud.1/6/1999). La circostanza è stata confermata anche dal teste dr. Aldo Rizzo, all'epoca parlamentare, con il quale il giudice Chinnici, in occasione degli incontri nei fine settimana, aveva avuto modo di parlare dei propri orientamenti sul piano organizzativo. A conferma del convincimento del consigliere istruttore in ordine alla matrice unitaria dei c.d. omicidi politici va rilevato che lo stesso magistrato lo aveva manifestato apertamente a colleghi ed investigatori, tanto che intendeva disporre una perizia balistica comparativa tra le armi utilizzate per l’esecuzione dei vari delitti.

Quei vicerè (mafiosi) della Sicilia. La Repubblica il 13 luglio 2020. Con riferimento all’interesse investigativo per i Salvo ed al loro coinvolgimento nelle vicende connesse con la guerra di mafia, va rilevato che il dr.Antonino Cassarà, già dirigente della Squadra Mobile  di Palermo, ucciso nell’agosto del 1985, nel corso della deposizione resa in data 20/3/1984 alla corte di Assise di Caltanissetta riferì di avere appreso dai sostituti procuratori della repubblica Di Pisa Alberto e Geraci Vincenzo, dopo la morte del consigliere Chinnici, dell’intendimento di quest’ultimo di emettere mandati di cattura nei confronti dei cugini Salvo i quali fino a quel momento erano destinatari di una comunicazione giudiziaria per il reato di cui all’art 416 bis c.p. nell’ambito del procedimento per la scomparsa dell’ing. Lo Presti, valorizzando detta posizione processuale. Anche il teste Accordino ha confermato che il dr.Chinnici aveva manifestato precise opinioni sui cugini Salvo (f.46, ud.cit) e sulla opportunità di arrestarli. In un contesto come quello sopra delineato non può sorprendere il clima di preoccupazione e di emarginazione che traspare dalle dichiarazioni rese al C.S.M. e da talune annotazioni figuranti nel diario del dr. Chinnici, atteso che, in un momento storico in cui le organizzazioni mafiose erano ancora indenni dagli effetti devastanti che il fenomeno della collaborazione avrebbe provocato sui tradizionali equilibri e sulla consolidata impunità dei suoi affiliati, il nuovo clima di impegno giudiziario, i nuovi metodi di indagine e, soprattutto, il diverso approccio culturale ed investigativo con il fenomeno mafioso non poteva non suscitare viva preoccupazione ed allarme nell’organizzazione mafiosa in un momento di riacquistata stabilità negli assetti organizzativi. Ma era soprattutto il rinnovato ed insolito impegno civile di un magistrato come il dr. Chinnici, a capo di un ufficio che costituiva, per il modello processuale vigente, il centro propulsore delle indagini in un’area geografica di primaria importanza strategica per ragioni storiche e sociali, che costituiva motivo di preoccupazione per i centri di potere politico-mafioso, atteso che il dr. Chinnici si era fatto promotore di iniziative sociali volte a favorire tra i giovani e soprattutto tra gli studenti lo sviluppo di un’autentica cultura della legalità. Ad avviso della Corte la partecipazione a dibattiti in pubblici convegni e nelle scuole depone per la presa di coscienza di quello che deve essere l'obiettivo privilegiato, innanzitutto, della scuola ed in genere di chiunque, privato o istituzione pubblica, abbia il compito di formare le coscienze dei giovani: educare per favorire la crescita di una coscienza collettiva che consenta una scelta chiara e consapevole in favore di quei valori in nome dei quali molti servitori dello stato hanno sacrificato la loro vita. Questi valori possono sintetizzarsi in una parola, carica di pregnante significazione civile e sociale : legalità, intesa quale valore etico che deve entrare a pieno titolo non solo nella deontologia di determinate categorie professionali che più specificatamente operano nel sociale, ma nello stile di vita di qualunque cittadino.

Egli aveva colto l'importanza che in una società civile e in uno stato di diritto la scuola, in ogni ordine e grado, assume sul piano della formazione delle coscienze, che devono essere orientate verso la formazione di una autentica cultura antimafiosa, e ciò nella piena consapevolezza che la battaglia sociale per una nuova moralità pubblica, di cui solo dopo le stragi del 1992 cominciano ad intravedersi i primi segnali di successo, non può prescindere da una crescita culturale e politica complessiva della società civile e delle istituzioni che deve manifestarsi attraverso l'impegno di tutti per un profondo risanamento del tessuto istituzionale, dell'organizzazione sociale e produttiva.

Estremamente significativo appare, sul punto, riportare le dichiarazioni rese dal teste Rizzo Aldo all’udienza del 18/1/1999: “ … per iniziativa, lo possiamo dire, di Rocco Chinnici fu creato il centro studi Cesare Terranova, centro che lui volle creare per onorare la memoria di un altro grande magistrato, di Cesare Terranova, e lui volle essere il segretario generale; mi impose, io direi, di essere il presidente di di questo centro. Perchè Rocco Chinnici concepiva il suo impegno per la legalità, per la Giustizia e contro la mafia, non soltanto come magistrato, cioè prestando servizio nel Palazzo di Giustizia. Riteneva che la lotta contro la mafia si dovesse portare fuori dal Palazzo di Giustizia, e quando lui sosteneva questa tesi era un periodo in cui ancora non c'era quel grande canto corale che poi si è sviluppato nel tempo e che ha consentito un coinvolgimento anche di grandi masse. A quel tempo c'era una grande sostanziale indifferenza all'esterno, eppure lui con notevole impegno ebbe a sviluppare questo suo lavoro con convegni, seminari, partecipando a tavole rotonde, non soltanto a Palermo, ma anche fuori Palermo, e volle creare questo centro Cesare Terranova, che voleva essere un punto di collegamento in fondo tra la Magistratura e l'ambiente esterno di Palermo”.

Alla stregua delle considerazioni che precedono e tenuto conto del fatto che le organizzazioni mafiose si sono progressivamente imposte e radicate nel tessuto sociale soprattutto nelle aree geografiche in cui più sensibilmente si è manifestata la crisi etico-sociale delle istituzioni, non può seriamente revocarsi in dubbio che il consigliere istruttore Chinnici - soprattutto per l’interesse investigativo, di cui non aveva fatto mistero, per il ruolo dei cugini Salvo - costituiva certamente un magistrato particolarmente “pericoloso” in un momento storico in cui la tradizionale impunità delle organizzazioni mafiose poteva essere messa in discussione da una maggiore incisività delle indagini e, soprattutto, dalla presa di coscienza del loro rapporto strutturale, ora parassitario, ora organico, ora simbiotico con gruppi e centri di potere politico- economico. La centralità del ruolo dei cugini Nino e Ignazio Salvo nella ricostruzione del movente della strage per cui è processo, come emerge univocamente dalle circostanziate dichiarazioni rese dall’imputato Brusca Giovanni, di cui si dirà più avanti, cominciava già a delinearsi nel corso delle indagini esperite nell’ambito del primo processo celebratosi nel 1984, imponendosi progressivamente, nel complessivo contesto probatorio, come una acquisizione processuale dotata di univoca valenza indiziante. Ed infatti, come sopra anticipato, nel corso delle indagini esperite in relazione al procedimento penale scaturito dal “rapporto dei 162”, ed in particolare nel corso di quelle relative all’omicidio di Salvatore Inzerillo (11/5/1981), il consigliere istruttore Chinnici cominciò ad acquisire i primi concreti elementi che deponevano per un coinvolgimento  operativo dei cugini Nino ed Ignazio Salvo nelle vicende connesse con la c.d. guerra di mafia scoppiata agli inizi degli anni ’80, elementi che solo successivamente, attraverso una complessa istruzione formale, ed in particolare dopo le circostanziate dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia Buscetta Tommaso e Contorno Salvatore, avrebbero consentito l’acquisizione di prove inconfutabili in ordine all’affiliazione   dei   predetti all’organizzazione   “cosa   nostra”, sì   da consentirne dapprima l’arresto con mandato in data 12/11/1984 e poi il rinvio a giudizio, con la nota sentenza-ordinanza dell’8/11/1985, dinanzi la corte di Assise di Palermo per rispondere del delitto di cui all’art.416 bis c.p., unitamente ad altri 474 imputati nell’ambito del c.d. primo maxi processo. Le successive acquisizioni processuali avrebbero consentito di delineare lo spessore criminale dei predetti cugini, uomini d’onore della “famiglia” di Salemi, ed il loro ruolo di raccordo, nel panorama politico siciliano, quali esponenti di spicco di un importante centro di potere politico-finanziario, tra l’organizzazione “cosa nostra” ed una certa classe politica, con conseguente notevole capacità di influire - grazie al tradizionale controllo, fin dagli anni ’60, di una larga fetta dell’elettorato trapanese - sulle scelte delle istituzioni politiche regionali a precipuo vantaggio del loro gruppo finanziario. L’interesse investigativo del dr.Chinnici per gli esattori di Salemi era ben noto negli ambienti investigativi e lo stesso magistrato non ne faceva mistero. Nel corso della deposizione in data 3/8/1983 il dr. Borsellino dichiarava testualmente: " Chinnici era convinto che ai fatti di mafia, almeno di un certo livello, fossero coinvolti anche gli esattori Salvo...contemporaneamente lamentava, ed era amareggiato per questo fatto che finiva con l'intralciare il rapido ed efficace svolgimento di attività, che nei confronti di costoro si agisse con i guanti gialli da parte di tutti ed anzi aggiunse nei loro confronti una volta, che se gli stessi elementi li avessero avuti nei confronti di altri, certamente si sarebbe proceduto". Lo stesso magistrato, nel corso della deposizione dibattimentale del 30/3/1984, dichiarava che il dr. Chinnici aveva chiesto pochi giorni prima della morte la trasmissione delle intercettazioni telefoniche allegate alla strage del generale Dalla Chiesa. Le intercettazioni riguardavano principalmente una conversazione tra l'Ing. Lo Presti - parente acquisito dei Salvo, avendo sposato una Corleo, poi rimasto vittima di lupara bianca nel settembre del 1982 - e Buscetta Tommaso, nel corso della quale si faceva riferimento ad un incontro tra quest’ultimo e Salvo Nino. Anche il dr. Giovanni Falcone, nel corso della deposizione dibattimentale resa all’udienza del 12/4/1984 nell’ambito del primo processo per la strage di via Pipitone Federico, aveva riferito che sul cadavere di Inzerillo Salvatore erano stati trovati appunti sui quali erano annotate le utenze telefoniche dell'ing. Lo Presti e di una società di Milano di cui era titolare Gaeta Carmelo, imputato per associazione mafiosa nel blitz di San Valentino. Come sopra anticipato, la telefonata tra il Lo Presti e Buscetta (Roberto) conteneva la richiesta a quest’ultimo di far rientro in Italia per tentare la riappacificazione tra le varie famiglie ed arginare la guerra di mafia in corso; il Lo Presti riferiva di parlare per conto di un certo Nino poi identificato in Salvo Antonino. Anche il Salvo Ignazio venne indiziato di associazione mafiosa sulla base di alcuni elementi emersi da conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza del Lo Presti nelle quali si faceva riferimento a tale Giuseppe, poi identificato nel predetto Salvo Ignazio.

Il dr. Antonino Cassarà, (cfr. dep. dib. 16-20-21 marzo 1984), ucciso nell'agosto 1985, riferì nel corso di quel dibattimento sul contenuto di dette intercettazioni telefoniche e sulla stretta contiguità tra i Salvo e gli esponenti mafiosi Bontate Stefano e Inzerillo Salvatore fino alla loro morte, precisando che successivamente i cugini Salvo si erano avvicinati al gruppo vincente facente capo a Greco Michele. Estremamente significativa appare la seguente dichiarazione del teste : "È inevitabile che gruppi finanziari dell'importanza di quello dei Salvo abbiano bisogno dell'appoggio della mafia per potere operare verificandosi una situazione qual è quella che si era verificata in quel particolare momento;...si sono verificati dei fatti particolari che sono appunto indicativi di questo avvicinamento dei Salvo al gruppo dei Greco e precisamente a Giuseppe Greco figlio di Michele". Il teste riferiva, altresì, che dopo la morte di Inzerillo i Salvo si erano improvvisamente allontanati in crociera per due mesi e mezzo, facendo addirittura rinviare il matrimonio di una nipote; a questo allontanamento gli inquirenti avevano attribuito il significato di un’attesa da parte dei Salvo che si ristabilisse la calma attraverso nuovi equilibri.

Il teste Di Pisa Alberto (verb. 31/3/1999), ha riferito che il dr.Chinnici era di Salemi e conosceva i Salvo, precisando che le citate intercettazioni telefoniche erano state acquisite qualche giorno prima della strage tanto che lo stesso magistrato aveva commentato con il collega Ayala la possibile esistenza di un nesso con l’attentato. Ha inoltre confermato l’intenzione del dr. Chinnici di arrestare i Salvo – determinazione, questa, che venne adottata solo dopo le rivelazioni di Buscetta, che li indicò come uomini d'onore – nonché l'abitudine del consigliere istruttore di esternare le sue convinzioni, tanto che ne aveva parlato con lui, con il collega Geraci e certamente con altri. Il teste ha altresì riferito che nel mese di luglio si era sparsa la voce che era andata smarrita una richiesta di cattura per i Salvo, circostanza appresa dal collega Signorino, sicchè si era recato insieme al dr. Geraci presso l’ufficio del consigliere istruttore il quale aveva smentito la notizia, aggiungendo tuttavia che il suo ufficio avrebbe comunque accolto qualunque richiesta della Procura in tale senso.

Ulteriori conferme sono state fornire dal teste Accordino, il quale nel corso della deposizione dibattimentale (ud.1/6/1999) ha testualmente dichiarato: "Il dr. Chinnici aveva più volte manifestato, non credo nemmeno in maniera diciamo nascosta, la sua convinzione che i cugini Salvo fossero dei personaggi... dei referenti molto importanti dell'organizzazione mafiosa. Più volte aveva manifestato anche la sua convinzione che i cugini Salvo dovessero essere colpiti da provvedimenti giudiziari....…Lo ha fatto sapere non soltanto a me, ma lo diceva in maniera, diciamo, anche abbastanza aperta; anche se nell'ambiente circolava la famosa battuta che chi tocca i Salvo muore, cioè che bisognava stare molto attenti, in quanto si trattava di persone, diciamo, di una certa pericolosità.... Era convinto che i Salvo erano degli importanti referenti delle famiglie mafiose emergenti".

Anche il teste Accordino ha riferito circa il contenuto dell'intercettazione telefonica riguardante l'ing. Lo Presti, ribadendo che il dr. Chinnici intendeva perseguire i Salvo per il reato di associazione mafiosa. Il quadro ricostruttivo sopra delineato in ordine alla centralità del ruolo dei Salvo nella presente vicenda processuale non può prescindere dalla deposizione del col. Pellegrini, dalla quale emerge una significativa circostanza che assume una particolare rilevanza probatoria se valutata in correlazione con le dichiarazioni dell’imputato Brusca Giovanni il quale, come si avrà modo di esporre più diffusamente nel prosieguo della motivazione, ha riferito di una riunione tra Salvo Nino, Brusca Bernardo e Riina Salvatore in contrada Dammusi, nell'estate 1982. Nel richiamare quanto sopra evidenziato in ordine alla rilevanza ed al contenuto della intercettazione telefonica più volte citata, di poco successiva all’omicidio Inzerillo, va rilevato che di quel contatto telefonico e dei relativi spunti investigativi, che avrebbero potuto gravemente compromettere il loro prestigio e la loro impunità, i Salvo dovettero essere stati informati attraverso i canali sui quali potevano contare, così come certamente dovettero temere l’adozione di provvedimenti restrittivi, tanto più che l’intendimento più volte manifestato in tale senso dal consigliere istruttore, sia pur nell’ambito dell’ambiente giudiziario, non pare fosse stato connotato dalla dovuta riservatezza. Il teste Pellegrini (ud. 15/6/1999, ff. 35 e segg.) ha riferito che : "si premeva un pò la magistratura perché emettesse dei provvedimenti nei confronti dei cugini Salvo.....due pareri diversi: mentre il dr. Falcone e alcuni funzionari anche delle forze di Polizia erano dell'idea che occorreva ancora di più approfondire questa indagine prima dell'emissione di un provvedimento restrittivo, d'altra parte altri magistrati e tra questi anche il dr. Chinnici era dell'avviso che si sarebbe potuto emettere anche in base alle circostanze che erano emerse nel corso delle indagini". È evidente che l'interesse investigativo del consigliere istruttore nei confronti dei cugini Salvo risale ad epoca immediatamente precedente all'incontro tra Salvo Antonino, Riina e Brusca, essendo stato il rapporto dei 162 depositato il 13.07.1982...

E peraltro, le preoccupazioni dei Salvo risultano ulteriormente confermate dal predetto teste il quale ha riferito di un episodio occorso in epoca in cui si celebrava il primo dibattimento per l’eccidio di Via Pipitone Federico. In relazione alle notizie riportate dalla stampa dell’epoca (cfr.articolo del Giornale di Sicilia acquisito agli atti) in ordine al contenuto delle deposizioni rese in quel processo dal dr. Cassarà e dal dr. D'Antona in ordine alla volontà del dr. Chinnici di emettere provvedimenti restrittivi nei confronti dei cugini Salvo, il teste Pellegrini ha riferito che ancor prima del dibattimento i Salvo avevano tentato inutilmente di avere un colloquio con lui, fino a quando il Salvo Antonino si era presentato nel suo ufficio lamentando che quelle indagini erano scaturite da un  interesse del Partito Comunista che, sfruttando la loro incriminazione, intendeva contrastare la D.C. in Sicilia e principalmente gli on. Lima e Gullotti; in quel contesto il Salvo aveva minacciato di sporgere querela nei confronti dell'autore del rapporto giudiziario che inopinatamente aveva inserito il suo nome e quello del cugino Ignazio. L'episodio di cui il quotidiano siciliano si era occupato, riguardava la testimonianza del dr. Cassarà il quale aveva confermato di avere appreso dal dr. Chinnici dell'intenzione di arrestare i due esattori; questa testimonianza, non confermata da altri funzionari, tra i quali il dr. D'Antona, era stata invece pienamente avvalorata dallo stesso ufficiale, destinatario delle stesse confidenze.

Sul punto il teste ha riferito: "..a me il dott. Chinnici lo aveva riferito personalmente. Aveva detto che avrebbe sicuramente arrestato i Salvo e come lo aveva detto a me lo sapevano parecchie persone dell'entourage e anche fuori dell'entourage della Procura e dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e allora dopo questa testimonianza, chiaramente ci fu un pò di polemica sui giornali e uscirono dei titoli nei confronti dei Salvo che furono chiamati i grandi gabellieri della Sicilia e cose varie" (cfr.ff. 45-46). Il col Pellegrini ha inoltre deposto sul contenuto di una conversazione telefonica intercettata tra l'avv. Guarrasi e Nino Salvo - la cui bobina non è stato possibile reperire (cfr.documentazione acquisita) - riferendo testualmente alcune delle frasi più significative pronunciate dagli interlocutori a commento della deposizione del dr. Cassarà: "ricomincia l'altalena e qui è difficile che ci siano smentite. Cosa ci vuole a fare questa puntatina? A me nessuno mi ha parlato, mi ha parlato, ma solo il defunto. però io lo...spavento...no spavento, lo schianto, perché faccio bile dentro di me...........Ti pare giusto? continua a dare timpulate a noialtri che gliel'abbiamo data prima di lui." L’importanza del ruolo dei cugini Salvo nel contesto politico-mafioso dell’epoca risulta conclamata univocamente dalle  concordi testimonianze di ufficiali di p.g. e collaboratori di giustizia, con particolare riferimento a quelle rese dal Di Carlo, in ordine alla consapevolezza dei Salvo circa le indagini condotte nei loro confronti  dal dr. Chinnici, e dal Brusca che ne ha delineato il ruolo nella fase di ideazione dell’attentato. I collaboratori escussi hanno riferito dell’affiliazione dei Salvo a “cosa nostra”, sottolineandone anche lo stretto rapporto politico con certi settori della D.C. siciliana facenti capo agli onorevoli Lima e Gullotti.

Il “problema” Ciancimino. La Repubblica il 14 luglio 2020. Quanto al ruolo dei cugini Salvo in seno all’organizzazione mafiosa, i collaboratori Di Carlo, Brusca e Siino ne hanno concordemente rilevato l'originaria vicinanza alla fazione rappresentata da Bontate, Inzerillo e Badalamenti, sottolineando la situazione di pericolo per la loro incolumità venutasi a determinare a seguito della guerra di mafia e del sopravvento del gruppo dei “corleonesi” ed il loro conseguente graduale avvicinamento al Riina, il quale aveva ritenuto più conveniente revocare la loro condanna a morte, preferendo allearsi con loro. La circostanza è pienamente coincidente con le risultanze investigative dell'epoca ed in particolare con la citata deposizione del dr.Cassarà circa il temporaneo allontanamento dei Salvo da Palermo, subito dopo l’omicidio Inzerillo, ed il rinvio della data già fissata delle nozze di una nipote, allora correttamente interpretato dagli inquirenti come la decisione di sottrarsi al pericolo di essere coinvolti nella sanguinosa strategia di sterminio degli avversari da parte del gruppo corleonese. Sulla personalità ed il ruolo dei Salvo appare opportuno ricordare le seguenti testuali dichiarazioni del collaboratore Di Carlo Francesco (ud. 25.2.1999), il quale, pur avendoli conosciuti fin dagli anni '60, ebbe piena contezza della loro affiliazione a “cosa nostra” a casa di Badalamenti Gaetano dopo la scarcerazione di quest'ultimo negli anni  '75 - '76 : "Erano i più forti veramente....oggi quando si parla dei Salvo specialmente processualmente….., c'è gente che li vuole fare diventare come due criminali qualsiasi. No, no, manovravano la politica siciliana perchè avevano quella filoandreottiana e dorotea a Trapani, infatti Ignazio aveva i dorotei che portavano nella provincia di Trapani, mentre Nino a Palermo, anche con Ignazio, portavano gli andreottiani. Ma erano veramente una potenza economica. Poi avendo alle spalle cosa nostra e cosa nostra a chi è molto ricco pur essendo un soldato semplice e che non può usufruire di...benefici , perché si interessavano su tutto, sia per come posti di lavoro, come Giustizia, qualsiasi cosa. Questi erano i Salvo" (cfr.f.100). Il Di Carlo ha riferito che dal 1978 in poi gli equilibri interni all'organizzazione erano cambiati e che a seguito del declino di Bontate ed Inzerillo, ai quali i Salvo erano legati, si era registrato il graduale avvicinamento dei due cugini a Greco Michele e successivamente, in concomitanza con l'allontanamento del Badalamenti, al gruppo dei corleonesi all'interno del quale avevano stretto legami con Provenzano Bernardo in cerca di nuovi appoggi politici. In quel contesto, già nell'estate 1982, i Salvo erano a conoscenza delle indagini sul loro conto da parte del consigliere Chinnici e secondo un metodo ormai collaudato dall’organizzazione si tentò dapprima il c.d. ”avvicinamento” tramite i parenti di Salemi della moglie del magistrato, evidentemente andato a vuoto, ("perché hanno trovato una roccia come si suole dire in Chinnici"- cfr. Di Carlo), per decretarne poi la morte. Il Di Carlo ha testualmente dichiarato : “E così il Salvo si è trovato a gestire questa situazione, voleva fare bella figura con Michele Greco. Da interessarsi si è trovato interessato diretto, perché Chinnici comincia a fare indagare sui Salvo e l'ultima volta che ho incontrato Nino Salvo mi ricordo che mi diceva che era avvelenato, nel senso di nervi, dicendo che il Chinnici aveva scatenato un'inchiesta sotto sotto su...su tutti i movimenti (bancari) di Salvo” (cfr.f.97), episodio collocato temporalmente nell'estate del 1982 allorchè i Salvo si allontanarono da Palermo.(f.105). Ed ha aggiunto: "Noi eravamo in condizioni, specialmente con i Salvo, con Lima di arrivare dovunque e allora potevamo arrivare dentro lo Stato, infatti quante volte si è stati a fare trasferire a qualcuno i Salvo proprio" (f. 251)

Il collaboratore ha altresì precisato che i profondi sentimenti di astio nutriti dai Salvo nei confronti del dr. Chinnici erano noti in seno a Cosa Nostra, riferendo delle confidenze ricevute da Riccobono Rosario, che a sua volta le aveva apprese da un funzionario della Polizia di Stato (f. 107), il quale con riferimento al consigliere istruttore gli avrebbe detto testualmente: "picca dura"(nel senso che avrebbe vissuto ancora per poco), perchè sapeva dell'interesse diretto dei Salvo e di Greco Michele, fino ad allora mai raggiunto da provvedimenti giudiziari.

In particolare il Riccobono sosteneva che il magistrato era destinato a morire per l'intraprendenza che aveva avuto iniziando a svolgere indagini nei confronti dei Salvo. Il Di Carlo ha altresì riferito di un incontro tra Salvo Antonino e Provenzano Bernardo a Bagheria nella fabbrica di chiodi di Greco Leonardo durato circa quattro ore, antecedente alle confidenze ricevute dal Riccobono, sempre dell'estate 1982. Evidentemente, superato il momento difficile che li aveva indotti ad allontanarsi da Palermo, i Salvo avevano cercato nuovi equilibri ed alleanze, sicchè "allora sono diventati nell'82 tutti corleonesi tutti hanno rialzato di nuovo la testa i Salvo"(cfr.Di Carlo).

Quanto ai rapporti tra i Salvo ed il Riina il collaboratore Cucuzza Salvatore (ud. 28/1/1999) ha riferito che "in quel periodo erano di totale abbandono nelle mani di Totò Riina; erano...prima erano molto vicini a Gaetano Badalamenti, parlo degli anni '70; poi nei primi anni '80, dopo il sequestro del suocero cominciò ad avvicinarsi a Totò Riina e dopo l'estromissione, diciamo di Gaetano Badalamenti, si è avvicinato a Riina. Comunque nella guerra si è schierato dalla parte di Totò Riina"(cfr.ff.92- 93).

Anche il collaboratore di giustizia Siino Angelo (ud. del 21/6/1999)- sulla cui personalità ed attendibilità intrinseca si rinvia alle considerazioni che saranno svolte più avanti - ha reso dichiarazioni di estremo interesse, riferendo di avere incontrato Salvo Antonino nell'ufficio del dr. Purpi, funzionario del 2° Distretto di Polizia a Palermo, prima ancora dell'omicidio di Bontate. In quell'occasione il Salvo si era rivolto al funzionario affinchè intercedesse per fargli ottenere un colloquio con il dr. Chinnici e all'arrivo del Siino aveva cambiato discorso. Su questo specifico tema appare opportuno riportare integralmente le dichiarazioni del collaboratore:

P.M. - Senta, io vorrei chiederle se lei, che ha frequentato e ambienti mafiosi e ambienti non mafiosi, avesse mai sentito parlare e in che termini, eventualmente, del dottore Chinnici.

SIINO - Sì, signora, io debbo dire proprio una cosa, che io ho avuto modo di sentire parlare del dottore Chinnici come personaggio originario di Misilmeri e, in un certo senso, personaggio inavvicinabile. Visto che il povero dottore Chinnici è morto lascio immaginare gli epiteti che si sfuggivano a personaggi di rilievo della mafia di Misilmeri, che io ben conoscevo, quale Gabriele Cammarata,…..Comunque, tutti personaggi di rilievo della mafia di Misilmeri, tutti morti in maniera violenta, che praticamente mi parlavano come di un grande, insomma, personaggio cattivo del dottore Chinnici, mi dicevano che era inavvicinabile... Mi dicevano che era inavvicinabile, mi dicevano che era arteriosclerotico, insomma si cercava di sminuire in ogni... in ogni modo e in ogni maniera la figura del povero dottore Chinnici. Devo dire che questa è una cosa, una chicca che le do ora: io ebbi modo di sentirne parlare anche di Nino Salvo, parlare proprio intorno al 1981 o '82, ancora vivente Stefano Bontade, nel senso che un giorno mi trovavo all'interno del secondo Distretto di Polizia, dove ero andato per questioni ... del mio porto d'armi, allora avevo sia il porto d'armi di fucile che il porto di pistola. Io ero molto amico del dottore Piero Purpi, vicequestore allora ... del secondo Distretto di Polizia e in quel periodo ebbi modo di vedere... c'era... entrando lì trovai Nino Salvo; io conoscevo molto bene Piero Purpi, eravamo abbastanza amici. E, praticamente, vidi che quando io arrivai Nino Salvo interruppe quello...  il discorso che aveva con Piero Purpi. Dopodichè... e allora ci disse: "Piero, me ne vado", ... e io rimasi con Piero Purpi e Piero Purpi mi disse: "Ma - dice - minchia, Nino sta impazzennu, pirchì vulissi ca io vado a parlare con il dottore Chinnici, ma assolutamente io non ci vado, perchè chiddu m'assicuta e mi butta dalle scale". Questo è quello che mi riferì e che mi ricordo.

P.M. ... il dottore Purpi le disse perchè Nino Salvo voleva che parlasse con il dottore Chinnici?

SIINO - ... non me lo disse, perchè praticamente, in un certo senso, il dottore Purpi era un personaggio, diciamo, sanguigno, era una persona (generosa), che praticamente gridava sempre quando parlava: "Oh, oh... ma chissu voli ca io vaiu a parlu a chiddu". Pero' io... .. non ho avuto modo di interferire in questa situazione, anche perchè avevo visto che come ero entrato io Nino Salvo aveva cambiato discorso.”

Il collaboratore ha, inoltre, dichiarato testualmente: “Chinnici non si faceva i fatti suoi, nel senso che si stava addentrando su certe situazioni che erano off limits, cioè nel senso che stava cercando di indagare quali erano i veri rapporti tra l'organizzazione militare della mafia e l'organizzazione politica ed economica....allora i Salvo reggevano l'economia siciliana nel senso che erano dei personaggi di tutto rilievo politico, imprenditoriale, mafioso ".

Il collaboratore ha inoltre delineato la potenza politica ed economica di quella famiglia, gli agganci di ogni tipo e la particolare vicinanza con l'On. Salvo Lima. Quanto  poi  ai  collegamenti  con “cosa nostra” ed alle nuove alleanze delineatesi dopo la morte di Stefano Bontate, il Siino ha riferito che dopo l'omicidio di quest’ultimo i Salvo erano passati "nelle mani" di Bernardo Brusca, che aveva delegato il figlio Giovanni. Questa significativa acquisizione processuale non solo suffraga l’attendibilità delle dichiarazioni dell’imputato Brusca Giovanni che ha riferito circa la propria frequentazione assidua dell’abitazione e degli uffici dei Salvo, ma chiarisce le ragioni per le quali, come si dirà più avanti, sia stato proprio il predetto Brusca ad accompagnare nell'estate del 1982 Salvo Antonino in contrada Dammusi per l'incontro con il proprio padre ed il Riina. Anche Brusca Emanuele (ud. 22.6.1999) ha confermato i contatti tra il Salvo ed il proprio padre, nonchè le frequenti visite del primo in contrada Dammusi dove, tra l'altro, trascorreva la latitanza il Riina nei primi anni '80. Le cointeressenze e gli stretti legami operativi tra i Salvo e “cosa nostra” risultano significativamente attestati da quanto riferito dal Brusca circa la loro sintomatica presenza in c.da Dammusi in concomitanza con il verificarsi di gravi delitti contro esponenti delle istituzioni dell'epoca, quali ad esempio gli omicidi La Torre e Dalla Chiesa. Sul punto il collaboratore ha testualmente dichiarato ( cfr. Brusca, ud. 2.3.1999, f. 154) "in quel momento vedevo i comportamenti con i Salvo e i comportamenti con gli uomini d'onore ...cioè man mano che si riunivano con i Salvo però si riunivano con altri capi mandamento a due a tre a quattro o uno e avvenivano sempre quasi nello stesso periodo, quindi una settimana, un giorno, due giorni. So solo e semplicemente che in quel momento, cioè così, con i...quando si incontravano con i Salvo dopo riunioni, incontri, succedevano i fatti ".(cfr.anche f.147,ud.1/3).

Gli equilibri politico-mafiosi delineatisi a seguito delle nuove alleanze erano perfettamente funzionali agli interessi di “cosa nostra” che attraverso i Salvo manteneva i contatti con settori del mondo politico ai quali poteva assicurare appoggi elettorali ricevendo a sua volta in cambio favori. Brusca ha peraltro chiarito i pessimi rapporti tra Riina e l’esponente politico Ciancimino, riferendo che il primo gli aveva detto "Non ne posso più di questo mio paesano", perchè a causa di quest’ultimo aveva commesso gli omicidi Mattarella, Reina e l'attentato al Sindaco Martellucci. Con specifico riferimento ai rapporti tra Cosa Nostra e certi settori della D.C. siciliana per il tramite dei Salvo, il collaboratore ha testualmente dichiarato: “Ma gli argomenti di discussione erano che loro (i Salvo) erano interessati principalmente nel mondo politico e Salvatore Riina aveva sempre problemi con Ciancimino; Ciancimino che politicamente lo volevano estromettere e con la forzatura di Salvatore Riina loro dovevano digerire all'interno della Democrazia Cristiana la presenza di Vito Ciancimino, perchè i Lima o i Salvo non volevano accettare... per la posizione che si era venuta a creare di Vito Ciancimino additato come mafioso, cioè lo volevano espellere, cioè allontanare dalla Democrazia Cristiana. Ma con l'intervento di Salvatore Riina dovevano, a forza maggiore, cioè sopportare queste persone. Quando poi ci fu l'elezione di Mario D'Acquisto loro sono intervenuti per fare votare Mario D'Acquisto, farlo mettere nella lista della D.C. come “limiano” e d'accordo con Salvatore Riina e in prima persona con i cugini Salvo e Salvatore Riina si è deciso di votare Mario D'Acquisto, e abbiamo votato Mario D'Acquisto”.(cfr.ff.135-136 ud.cit). “….c’erano all'interno della Democrazia Cristiana problemi, in particolar  modo  i  problemi  li  aveva  Ciancimino. Salvatore  Riina  li mandava a chiamare o loro(i Salvo) chiedevano l'appuntamento con Salvatore Riina per sanare questi disappunti o disaccordi all'interno della Democrazia Cristiana nella persona di Vito Ciancimino. Cioè, Salvatore Riina tanto è vero che a un dato punto si è stuffato di avere problemi per sostenere il Ciancimino, cioè perchè era Bernardo Provenzano che sosteneva di più il Ciancimino. E ad un dato punto il Salvatore Riina dice: "Non ne posso più io di questo mio paesano con il Ciancimino", perchè per causa sua Salvatore Riina aveva commesso degli omicidi e mi riferisco a quello Mattarella, mi riferisco a Reina e tanti altri piccoli fatti che loro avevano commesso e l'attentato al sindaco Martellucci. Quindi, questo per quanto riguarda il Riina. I Salvo venivano per lamentare comportamenti negativi nei confronti del Ciancimino o viceversa.” (cfr.ff.145-146).

Il Brusca ha riferito che nel 1982 la sua organizzazione aveva appoggiato l'on. Mario D'Acquisto facendo confluire su di lui circa 30000 voti. Il collegamento con la D.C. tramite i Salvo risulta inoltre confermato dalle dichiarazioni del Dr. Borsellino. Il Dr. Chinnici aveva avuto un colloquio con Lima, sollecitato dall'on. Silvio Coco, nel corso del quale il Lima gli aveva fatto presente che l’iniziativa giudiziaria concernente il Palazzo dei Congressi e l’arresto dell’imprenditore catanese Costanzo e Di Fresco, veniva considerata una forma di persecuzione per la D.C.; il magistrato aveva risposto che l'Ufficio Istruzione si interessava di fatti specifici contestati a determinate persone, senza che potesse avere rilevanza l'appartenenza politica. Intendeva quindi andare avanti ad ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Il quadro politico-mafioso di riferimento ed il sistema delle alleanze delineati da Brusca Giovanni (cfr. ud. 1.3.1999), appare connotato, inizialmente, negli anni '70, dalla vicinanza dei Salvo al gruppo facente capo a Badalamenti Gaetano, Greco Michele ed Inzerillo Salvatore, tanto che il Riina era solito indicare i Salvo come “sbirri”.

Nino e Ignazio al servizio dei Corleonesi. La Repubblica il 15 luglio 2020. Significativamente coincidente con quanto già dichiarato dal dr. Cassarà, nella deposizione sopra citata, risulta inoltre lo spostamento degli equilibri preesistenti registratosi dopo la “guerra di mafia” nel senso che, secondo quanto riferito dal Brusca, i Salvo si avvicinarono alle posizioni dei c.d. “vincenti” tramite Greco Michele. In questo nuovo contesto Brusca divenne il referente unico perché Riina diede l'ordine a tutti gli uomini d'onore di non rivolgersi più direttamente ai Salvo ma di filtrare gli incontri tramite il predetto collaboratore per chiedere favori e cortesie e fu lo stesso Brusca ad essere delegato dal padre Bernardo e dal Riina per riferire i messaggi e procurare gli appuntamenti. Gli argomenti di discussione concernevano prevalentemente l'interesse dell'organizzazione per il mondo politico, settore questo caratterizzato dai difficili rapporti tra Riina e Ciancimino. I Salvo avevano avuto inoltre l’incarico direttamente dal Riina di avvicinare i giudici del processo per l'omicidio del cap. Basile e si erano inoltre interessati per un esito favorevole del processo a carico dei Rimi, noti esponenti mafiosi di Alcamo(ff.137-138,ud.cit). Alla specifica domanda del P.M. se Riina avesse chiesto a Nino Salvo di attivarsi con alcuni giudici perchè sapeva che li conosceva personalmente o perchè sapeva che Salvo poteva contare su un personaggio politico tale da potere influenzare anche i magistrati, Brusca Giovanni ha testualmente dichiarato: “No, lui ci arrivava perchè... Salvatore Riina mi disse: "Lui direttamente o fai intervenire all'onorevole Lima", perchè politicamente ci potevano arrivare. Vuol dire che Salvatore Riina per dirmi questo in maniera sintetica vuol dire che lui sapeva che ci poteva arrivare per quello che vi ho detto. Cioè, nel senso: se io devo decidere il discorso  per me è così, siccome io vi devo raccontare quello che so, mi ha detto: "Vai da Nino Salvo e ci dici che interviene perchè lui può fare questo". Sennò quando mi dice: "Gli rompo le corna a lui e a tutti", anche se io gliel'ho detto in tono scherzoso, però nella sostanza c'era e ... e Nino Salvo si mette pure a ridere, dice: "Va bè - dici - ora io faccio la forzatura", perchè in primo tempo il Nino Salvo mi aveva fatto delle difficoltà, dici: "Ma ci vediamo, vediamoci, viene difficile, mi viene un pò duro". Io porto queste rimostranze a Salvatore Riina e mi  rimanda subito, tanto è vero che ci vado in giornata e... con la forzatura e Nino Salvo si attua per potere ottenere questi benefici, che poi sono... sono avvenuti, almeno in primo grado al processo.” Brusca ha inoltre riferito che nel periodo della guerra di mafia i referenti politici romani, tramite i Salvo, avevano invitato Riina a "darsi una calmata" proprio per evitare interventi legislativi pesanti, invito al quale questi aveva risposto facendo sapere attraverso lo stesso canale dei Salvo di "lasciarli fare”, in considerazione dei tanti favori fatti. Sul punto il collaboratore ha testualmente dichiarato : “ Poi il secondo input che io ho da parte loro fu... a Palermo c'era una... una grandissima... c'era una grandissima... i morti era due - tre - quattro al giorno, questo non me lo posso completamente dimenticare, che a Palermo a un dato punto il giornale "L'Ora", quelli che vendevano in mezzo alla strada e anche la TV, cioè i mezzi di informazione nell'82 davano... che contavano i morti, dici: "Siamo arrivati a cento nell'arco di pochi mesi", e a un dato punto questo fatto dal Governo centrale di Roma arriva una segnalazione, un input da parte dell'onorevole Andreotti, facendo sapere a Lima, Lima ai Salvo, i Salvo me lo dicono a me in prima persona e io lo porto a Salvatore Riina e mi dice di darci una calmata perchè lui era... sennò era costretto a prendere dei provvedimenti. Io vado da Salvatore Riina, gli dico questo particolare. Salvatore Riina mi ci rimanda, dici: "Fagli sapere che gli fanno sapere che ci lascia fare, che noi siamo a disposizione per tanti favori che gli abbiamo fatto". Ora, cosa si riferiva i favori io posso solo immaginarlo, però poi cosa... cosa abbiano fatto non glielo so dire. Dopo la strage Chinnici, dove loro(e cioè i Salvo, specificazione, questa, fornita a richiesta del presidente – f.142) erano responsabili in prima persona, parlando con me Ignazio Salvo questa volta...direttamente mi dice che dopo avere fatto una marea di, tra virgolette, sacrifici o di tentativi di potere salvare le esattorie uccidendo una serie di persone, l'ultimo credo che sia il dottor Chinnici, dopo una serie di tentativi non sono riusciti a poterli salvare e dici: "Prima che ce li... ce li tolgono è meglio che noi ce li... glieli diamo".(ff.140-143,ud.cit). Il collaboratore ha precisato che proprio in quel periodo erano frequenti in contrada Dammusi incontri tra Riina, Brusca Bernardo ed i cugini Nino ed Ignazio Salvo. Da quest’ultimo, dopo l’attentato al consigliere Chinnici, aveva appreso che i potenti esattori avevano fatto tanti sacrifici e si erano prestati per la realizzazione di vari fatti criminosi, l'ultimo dei quali l’omicidio per cui è processo per potere salvare le esattorie e che erano arrivati alla determinazione di cederle, prima che con qualche intervento giudiziario fossero loro tolte. ( “abbiamo ucciso il Dott. Chinnici, abbiamo fatto tanto, però non siamo riusciti a trattenercele - le esattorie - prima che ce li tolgono noi ce li diamo”). Il contributo probatorio di maggior rilievo fornito dal Brusca riguarda proprio la fase deliberativa e preparatoria della strage, con particolare riferimento al movente ed al pieno e diretto coinvolgimento dei cugini Salvo e di tutti gli esponenti di spicco che costituivano il vertice dell’organizzazione mafiosa. Nel corso dell’esame reso all’udienza dell’1/3/1999 Brusca ha testualmente riferito: “Le motivazioni sono che il dr. Chinnici doveva morire, credo perché dava fastidio a “cosa nostra”, aveva stilato il rapporto dei 162, aveva fatto qualche altro provvedimento. Ma quelli che insistevano di più per uccidere il dr. Chinnici erano i Salvo, in quanto il dr. Chinnici si era concentrato su di loro…. per indagare sulle esattorie ...e sui contatti politici....E in quel momento …. i Salvo erano in condizione di sapere tutto, avevano tanti informazioni, cioè funzionari, magistrati. Comunque credo che siano a conoscenza che il dr. Chinnici indagava su di loro. E da lì, cioè con le pressioni da parte di cosa nostra, perché per esempio c'è Antonio Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, tanti altri che spingevano per uccidere il dr. Chinnici, so solo e semplicemente che in una di quelle riunioni che io ho fatto con Salvatore Riina e mio padre ed i cugini Salvo dopo una lunga riunione che loro hanno avuto dentro questo caseggiato, quando escono, Ignazio Salvo esce e mi chiama e Salvatore Riina mi chiama in maniera euforica e Salvatore mi dice "mettiti a disposizione di don Antonino". Bene o male io già sapevo qual era l'argomento, perché mi doveva imparare dove abitava e tutto il resto. Però il motivo era perché il dr.Chinnici aveva preso di mira i Salvo sia nell'esattoria, nel mondo politico e stava cominciando ad indagare su di loro......perchè le esattorie erano fonte di guadagno dei Salvo e credo di sostentamento politico verso la corrente andreottiana. limiana, quella che era”. (ff. 157-158, ud.cit.).

Sul pieno coinvolgimento dei Salvo nella strage per cui è processo, secondo le dichiarazioni del Brusca, appare opportuno riportare testualmente il seguente brano dell’esame reso dal collaboratore all’udienza dell’1/3/1999(cfr.ff.160 e segg.):

P.M. - .… . Io volevo capire una cosa: questo fatto delle indagini del dottor Chinnici sull'esattoria, sulla gestione dell'esattoria, le viene detto proprio in esito a questa riunione a Dammusi?

BRUSCA - Mi viene detto in maniera molto sintetica prima e poi quando ho detto poco fa: quando Ignazio Salvo mi dice a me: "Abbiamo fatto tanto, cioè abbiamo ucciso anche il dottor Chinnici, però non siamo riusciti a trattenerceli", siccome erano continuamente indagati, dice: "Prima che ce li tolgono, noi ce li diamo".

P.M. - Quindi, lei dice sia prima... BRUSCA - Prima che dopo.

P.M che dopo.

BRUSCA - Senza bisogno di dire: "Abbiamo ucciso il dottor Chinnici, però i sacrifici che abbiamo fatto, cioè tutto quello che abbiamo fatto", ma in riferimento... Siccome io e lui eravamo oggetto, sapevamo di che cosa avevamo parlato, cioè lui mi fa riferimento a quel fatto senza... non c'è bisogno tra uomini d'onore cioè di dire: "Ah, abbiamo fatto l'omicidio di Chinnici". Non. non c'è bisogno ogni volta di fare questa trafila, ma in maniera sintetica ed allusiva si capisce di cosa stiamo parlando.

P.M. - E prima? A me interessa intanto prima, quando in contrada Dammusi c'è...

BRUSCA - Prima...

P.M questo incontro?

BRUSCA - Prima io gli posso dire che loro dici: "Finalmente – dici - è venuto il momento di romperci le corna a questo". Cioè, con molta euforia, cioè, sono venuti con entusiasmo, che finalmente era arrivato il momento di commettere questo omicidio. Quindi...

P.M. - E fanno riferimento al problema delle indagini sull'esattoria o si limitano a dire: "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna a questo"?

BRUSCA - In quel momento hanno detto: "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna", però sapevo che i Salvo avevano il problema con il dottor Chinnici, che lui indagava su... su di loro. Loro avevano fatto tanti tentativi di poter avvicinare il dottor Chinnici, ma non ci sono mai riusciti, cioè politicamente.

P.M. - E questo come le risulta, signor Brusca?

BRUSCA - Che me lo dicono i Salvo stessi; i Salvo, mio padre, Salvatore Riina. Capito? Al sud non c'è bisogno di... di fare tanti argomenti, cioè loro dice: "Abbiamo fatto tanti tentativi di poterlo avvicinare, ma non ci siamo mai riusciti".

La riunione è stata collocata dal Brusca a fine estate 1982 (“settembre- ottobre”), sulla base di riferimenti specifici che conferiscono attendibilità al racconto, inizialmente caratterizzato dall’incerto e fuorviante riferimento ad alcuni mesi prima della strage ( “sei-sette-otto mesi prima”) ma successivamente, dopo la contestazione del verbale in data 24/10/1997, pienamente confermativo di una precedente e più puntuale ricostruzione fondata sul rilievo che “Nino Salvo si trovava ancora vicino a Bagheria, dove hanno la villa estiva e che loro a Salemi di solito ci andavano per il periodo della vendemmia”(cfr.ff 165-166,ud.cit.). Uno o due giorni dopo al massimo ( “cioè il tempo di metterci d’accordo”) dall'incontro con Riina e Bernardo Brusca, Giovanni Brusca, a bordo della propria autovettura Volkswagen Golf aveva seguito fino a Salemi Nino Salvo che guidava la sua autovettura Mercedes; giunti presso la villa dei Salvo, poco distante da quella del dr. Chinnici, avevano posteggiato la Mercedes ed a bordo della Golf avevano perlustrato la zona dove era sita l'abitazione estiva del magistrato; percorrendo una vicina stradella asfaltata sita a circa 200 - 300 metri dalla villa – circostanza confermata dal teste Chinnici Giovanni - avevano notato che era ivi parcheggiata un'autovettura Alfa Sud dello stesso tipo di quelle in dotazione alla polizia. Secondo il racconto del Brusca (cfr.f.170,ud.cit.), questi, successivamente, si era recato nello stesso luogo qualche altra volta in compagnia di Antonino Madonia (almeno due volte) e di Pino Greco "scarpa" (un'altra volta); sia il Madonia che il Greco, che all'epoca, pur non rivestendo alcuna carica, aveva ruolo decisionale e di rilievo all'interno del mandamento di Ciaculli (che avrebbe successivamente retto dopo la destituzione di Michele Greco) erano pienamente consapevoli del significato di quella visita. L'azione, tuttavia, non era stata portata a compimento per le difficoltà di assicurarsi una fuga agevole, determinate dalla particolare situazione dei luoghi. Il Brusca ha precisato che la prima volta che si era recato nei pressi della villa di Salemi, aveva notato la presenza del dr. Chinnici.

Sulla scorta della documentazione acquisita, dalla quale è emerso che il consigliere istruttore nell’anno 1982 aveva fruito di un periodo di ferie a decorrere dai primi giorni del mese di agosto, ed alla luce delle indicazioni fornire dal Brusca la data della riunione può agevolmente collocarsi nel mese di agosto 1982. Sebbene l’originario progetto con le modalità sopra descritte non sia stato eseguito, il proposito criminoso non venne certamente revocato - essendone stata solo differita la realizzazione - attesa la “visita” nel palazzo del consigliere istruttore nel dicembre 1982 da parte del Madonia Antonino ( episodio che, più avanti, costituirà oggetto di specifica disamina) e le successive attività preparatorie che, secondo le stesse indicazioni del collaboratore, ebbero inizio qualche mese prima della strage. Anche con riferimento alla seconda fase le acquisizioni probatorie hanno consentito di accertare il coinvolgimento dei cugini Salvo, i quali misero a disposizione la loro autovettura per consentire una verifica della consistenza dei vetri blindati. Come si avrà modo di precisare più avanti, l’esecuzione del delitto venne solo differita, nel settembre 1982, per volontà del Riina che dovette privilegiare altre “operazioni” di prioritario interesse strategico, connesse con gli equilibri interni all’organizzazione, nelle quali certamente dovettero rientrare gli omicidi di Riccobono e Scaglione. Per mera esigenza di completezza espositiva va rilevato che sulla qualità di uomini d’onore della famiglia di Salemi rivestita dai Salvo hanno concordemente deposto, inoltre, i collaboratori di giustizia Contorno Salvatore (ud. 3/2/1999, ff.61-64), Anzelmo Francesco Paolo (ud.9/3/1999, ff.42-43; 92-93), Ganci Calogero (ud.24/3/1999, f.91), Cancemi Salvatore (ud.3/5/1999), Di Maggio Baldassare (ud.24/5/1999), Onorato Francesco (ud.25/5/1999).

La testimonianza di Giovanni Paparcuri. La Repubblica il 16 luglio 2020. Prima di passare all’esame della ricostruzione della fase preparatoria ed esecutiva dell’attentato, fornita dai collaboratori di giustizia che ne furono protagonisti, appare opportuno preliminarmente delineare un quadro topografico, quanto più possibile chiaro, della zona in cui la strage fu consumata, dell’apparato di sicurezza apprestato a tutela del consigliere istruttore, delle abitudini e degli spostamenti per recarsi al palazzo di giustizia ed, infine, dello scenario di distruzione presentatosi agli inquirenti subito dopo l’attentato, anche al fine di comprendere meglio il contenuto del racconto dei collaboratori e valutarne appieno l’attendibilità. Dalle deposizioni rese all’udienza del 18/1/1999 dai sottufficiali dell’Arma dei carabinieri Calvo Cesare e Amato Alfonso, componenti la scorta dell’autovettura blindata utilizzata dal dr. Chinnici, e Pecoraro Ignazio, componente l’equipaggio dell’autovettura di appoggio fornita ogni mattina dal Nucleo Radiomobile, è emerso che il consigliere istruttore era estremamente abitudinario, conduceva una vita molto riservata e ogni mattina si recava al Palazzo di giustizia tra le ore 8,00 e le ore 8,10 utilizzando per gli spostamenti l’autovettura blindata del Ministero di Grazia e Giustizia condotta da un autista giudiziario, a bordo della quale prendeva posto il militare di tutela, app.to Bartolotta, mentre una seconda autovettura Alfa Sud non blindata fungeva da scorta con un equipaggio composto dal m.llo Trapassi, con funzioni di caposcorta, dall’autista Calvo Cesare e dall’app.to Amato. L’autovettura blindata si poneva al centro della strada e mentre gli uomini si predisponevano, l’app.to Bartolotta si recava personalmente a prelevare il dr. Chinnici. La via Pipitone Federico era a senso unico di marcia con direzione dalla via Libertà verso la chiesa di San Michele. L’auto di scorta, invece, veniva posizionata nella parte a monte della via Pipitone Federico, all’altezza dell’incrocio con la via Villa Sperlinga; ciò consentiva di bloccare il transito nel senso di marcia e controllare l’eventuale afflusso in controsenso di persone e mezzi per evitare che qualcuno potesse avvicinare il giudice. Quasi ogni mattina, inoltre, a richiesta del caposcorta, veniva fornito l’ausilio di un’Alfetta del Nucleo Radiomobile il cui equipaggio, prima che il giudice uscisse di casa, provvedeva a bloccare il flusso veicolare proveniente dal lato mare ed in particolare dalla via Libertà fino alla traversa che incrociava la via Pipitone Federico nel punto più vicino all’abitazione del giudice (trattasi della via Prati, come risulta dalle piante della città di Palermo acquisite agli atti processuali - ud.29/3/2000).

Si è accertato che la mattina dell’attentato l’equipaggio dell’Alfetta era formato dal Vicebrigadiere Lo Nigro e dal Carabiniere Pecoraro. Non esisteva una zona di divieto di sosta con rimozione e le auto erano parcheggiate regolarmente ai lati della strada. All’epoca dei fatti, inoltre, non erano state ancora adottate le misure di “bonifica” preventiva della zona a rischio, per cui nessun accertamento veniva svolto sulle auto in sosta, mentre ogni accorgimento e misura di protezione erano finalizzati a prevenire il pericolo, o farvi fronte, di un eventuale conflitto a fuoco nel breve tragitto che il giudice percorreva dalla portineria del palazzo fino all’autovettura di servizio. Il quadro sopra delineato consente fondatamente di presumere che i soggetti incaricati dall’organizzazione di predisporre quanto necessario per la preparazione e l’esecuzione dell’efferato crimine erano perfettamente consapevoli delle difficoltà operative insite in un attentato di tipo tradizionale, ancorchè eseguito con armi da fuoco micidiali, e della inevitabilità di un conflitto a fuoco con i militari dell’Arma addetti alla tutela del magistrato, tanto da indurli ad accantonare l’originario progetto che aveva comportato delle prove pratiche di sparo contro un vetro blindato, come riferito dal Brusca. Da qui l’esigenza di privilegiare modalità esecutive più affidabili oltre che dotate di maggiore carica intimidatoria ed “esemplarità sanzionatoria”.

La situazione esistente al momento della terribile deflagrazione è stata descritta dal teste Calvo Ignazio il quale, dopo aver riferito che dopo una sosta al bar a circa duecento metri di distanza dall’abitazione del giudice, alle ore 7.55, tutti a carabinieri si spostarono sotto l’abitazione del giudice dove nel frattempo era arrivata l’autovettura blindata, ha testualmente dichiarato: “l’alfetta praticamente ferma davanti al portone, cioè dopo il marciapiede; lo sportello dove saliva il Dott. Chinnici aperto già; l’autista della blindata in macchina; il maresciallo Trapassi sul lato destro, entrando davanti al portone; l’App. Bartolotta sulla sinistra dello stesso portone: Io vicino all’autista, girato di spalle verso il portone e l’altro collega più avanti, diciamo, ...del portone, verso sopra, in modo da controllare che c’era un altro incrocio ed eventualmente di fermare qualche macchina e l’Alfetta a monte per bloccare un altro..diciamo, quel passaggio che dicevo prima. Erano le otto e dieci, questo me lo ricordo bene. Il maresciallo ci ha fatto segnale che il dottore stava per scendere ed allora tutti ci siamo messi come di solito guardinghi e si sentivano i passi del... perché c’è un androne; c’è l’androne, lui usciva dall’ascensore, si sentivano i passi, magari parlare un pochettino. E io appoggiato alla... alla macchina, in modo che quando il magistrato saliva sull’auto sentivo che lui era salito, allora potevo allontanarmi e finchè lui non saliva in macchina io non mi allontanavo. Appena lui ha messo piede nel marciapiede, fuori diciamo l’uscio... fuori il portone, c’è stata l’esplosione: Che in un primo momento sembrava un colpo di pistola, il classico colpo di pistola della 92 che abbiamo noi in dotazione, un rumore abbastanza forte e l’istinto mi portò, diciamo a chinarmi, perché pensavo che ci stavano sparando; vi era qualche... Ma subito dopo si... è iniziato un boato, un boato fortissimo, accompagnato da un forte calore, di cui pensai: ”Sto bruciando”. Mi sono ritrovato quasi a dieci metri dall’altra parte e non riuscivo a capire più nulla, non si riusciva a capire niente. Cioè vedevo gente che piangeva, gente...palazzi a terra, macchine bruciate, vetri dappertutto. Mi guardavo addosso, non riuscivo a capire se era colore, se era sangue, non... Guardavo il collega Amato, che era più distante di me e mi rendevo conto che lui era come se non ci fosse, non era neanche in sè, nonostante che lui era più distante. E niente, poi...poi non mi ricordo più nulla”.

Non meno drammatica è stata la deposizione dell’autista giudiziario Paparcuri Giovanni (ud.3.12.1998), il cui ultimo ricordo prima dell’esplosione è stato quello del dr. Chinnici che stava uscendo dal portone; poi ha aggiunto: ”niente, dell’esplosione non mi ricordo niente, se non solo dei colori intensi: un bianco intenso, un rosso intenso... Niente, non ho sentito ne boato e non ho sentito niente, perché... l’unica cosa bella in questi momenti è che si passa dalla vita alla morte e tu non senti niente. E poi mi sono risvegliato a terra pieno di sangue, con le dita che mi pendevano  ed  un  bel  pò  di cose. poi sono svenuto di nuovo. Il teste, che venne sbalzato fuori dall’autovettura, ha altresì dichiarato: “io ho capito che era successo qualche cosa, non so quanto tempo sia passato, mi sono ritrovato, appunto, a terra e vedevo la macchina blindata deformata sopra di me e con i vetri rotti e poi mi sono visto pieno di sangue”. Anche gli altri testi escussi, abitanti nello stesso stabile o in quelli adiacenti, hanno riferito le loro impressioni e sensazioni, i danni fisici e materiali riportati, fornendo la descrizione di un agghiacciante scenario di morte e devastazione.

Quanto alle prime indagini prontamente avviate dagli inquirenti, va rilevato che dalla deposizione del dr. Accordino (ud. 1.6.1999) è emerso che la prima telefonata pervenne al centralino del “113” alle ore 8,10 del 29 luglio 1983 cui seguì l’intervento immediato di tutte le Forze dell’ordine e della Polizia Scientifica. La prima intuizione investigativa deponeva per l’uso di una potente carica di esplosivo collocata nel cofano anteriore di una FIAT 126 di colore verde, la cui parte posteriore era rimasta pressochè intatta, mentre l’avantreno si era disintegrato; l’autovettura era stata proiettata a distanza di circa cinque metri dal punto dove l’esplosione aveva provocato un cratere all’altezza del civico n. 59 ove abitava il magistrato. Tutte le abitazioni circostanti erano state interessate dallo scoppio, tanto che pezzi metallici di autovetture erano stati proiettati a notevole distanza dal punto dell’esplosione ed in particolare il tettuccio dell’auto- bomba fu trovato nel pozzo-luce della portineria di un immobile sito in via Villa Sperlinga, proiettato a dodici metri di distanza dopo avere superato il palazzo di via Pipitone Federico alto 26 metri. L’Alfetta blindata a bordo della quale si trovava l’autista Paparcuri, unico superstite, presentava il tetto bombato. Nel rinviare alle risultanze del fascicolo dei rilievi tecnici e fotografici in ordine allo stato dei luoghi ed alla posizione dei cadaveri, va rilevato che il corpo del mar.llo Trapassi venne proiettato all’interno dell’androne; sul marciapiede, tra il civico 59 ed il civico 61, il corpo straziato del dr. Chinnici privo di abiti, con il volto sfigurato; a quattro metri di distanza dal giudice, il corpo dell’App. Bartolotta venne rinvenuto mutilato negli arti superiori e inferiori, mentre il cadavere del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi era stato spostato dai primi soccorritori a poca distanza nel tentativo di prestargli le prime cure. La situazione degli immobili circostanti appariva caratterizzata dalla presenza di numerose scalfitture sui muri determinate dalle schegge metalliche, mentre l’androne dello stabile sito al n. 59 era andato completamente distrutto. Numerose persone erano rimaste ferite oltre al Paparcuri ed ai carabinieri della scorta Lo Nigro, Amato e Pecoraro. Tra i reperti più significativi meritano di essere segnalati: le targhe apposte sull’auto-bomba (PA 426847), risultate rubate nella notte tra il 28 ed il 29 luglio 1983 dall’autovettura di Santonicito Salvatore che aveva sporto denuncia orale già alle ore 6.45 del 29 luglio 1983 ed il numero del telaio dal quale era stato possibile risalire al proprietario del mezzo, Ribaudo Andrea, titolare di una autoscuola, che aveva presentato denuncia alla Stazione CC di Uditore qualche ora dopo il furto avvenuto alle ore 11,30 del 27 luglio 1983, dinanzi all’Autoscuola sita in via Marino Magliocco. Il Col. Pellegrini (ud. 15/6/1999 ), redattore del rapporto giudiziario, ha così ricostruito lo scenario della strage di via Pipitone Federico: “macchine danneggiate, vetrine e saracinesche danneggiate, le mura dei palazzi circostanti sembravano colpiti da bombe da colpi di mitragliatrice e di fronte al portone dove c’era l’abitazione del dottore Chinnici c’era un... la strada risultava scavata, c’era una fossa profonda, abbastanza profonda e quindi si vedeva chiaramente che c’era stata una fortissima esplosione che aveva coinvolto per alcune decine di metri tutto ciò che esisteva sulla strada”.

Il cratere fu localizzato sotto il marciapiede di fronte all’ingresso dell’abitazione del magistrato, presentava un diametro di 70 cm. e circa 15 cm. di profondità; l’autobomba era rimasta disintegrata nella parte anteriore e proiettata a 5 metri di distanza dal cratere. La prima ipotesi privilegiata dagli inquirentei fu quella di una carica esplosiva collocata nel vano anteriore dell’autovettura FIAT 126 di colore verde attivata a distanza con un telecomando. La fondatezza dell’ipotesi sarebbe stata poi suffragata dall’esito degli accertamenti peritali esperiti da un collegio di esperti composto dal Ten. Col. Lombardi del CCIS e dal Cap. Di Matteo. I quesiti formulati concernevano la natura dell’esplosione, l’individuazione dei componenti di eventuali miscele, la quantità, il sistema di innesco, il sistema di attivazione della carica esplosiva, il numero del telaio e di motore del veicolo e quant’altro utile ai fini delle indagini. La relazione di consulenza, acquisita al fascicolo per il dibattimento, ha accertato alcuni elementi che conferiscono attendibilità, riscontrandone l’assunto, alle dichiarazioni rese sul punto dai collaboratori di giustizia personalmente coinvolti nell’esecuzione dell’attentato, ed in particolare:

l’ordigno esplosivo ebbe un raggio di azione di cento- centocinquanta metri lungo la via Pipitone Federico;

tra i frammenti rinvenuti anche a notevole distanza dal punto di scoppio, alcuni erano riconducibili alla struttura della FIAT 126, mentre altri pezzi metallici, pur dimostrando lo stesso stress termico – meccanico, non erano riconducibili all’autobomba;

il cratere del diametro di 90 - 100 centimetri, le deformazioni del terreno e del manto di asfalto ripiegato verso l’interno, portavano alla conclusione che la carica esplosiva non era a contatto con il manto stradale ma era sopraelevata rispetto allo stesso;

l’individuazione della FIAT 126 come autobomba era avvenuta sulla base della rilevanza e della natura dei danni rispetto a quelli individuati nella altre vetture parcheggiate sulla via; quelli della FIAT 126 erano più rilevanti;

la carica di esplosivo era stata collocata nel vano anteriore, poichè l’auto era rimasta integra nella struttura posteriore, nel motore e nella parte del vano con i mozzi delle ruote posteriori, il fascione posteriore dove era allocata la targa; tutto quanto facente parte della struttura anteriore risultava “assente, frammentato, disperso”, la FIAT 126 per effetto dell’esplosione era stata sbalzata a distanza di sette metri dal luogo dove era parcheggiata;

il motore dell’autobomba, perfettamente conservato aveva consentito l’individuazione del numero di serie (A0000137223) attraverso il quale era stato fatto l’abbinamento con il numero di telaio (A0046106), così pervenendosi all’identificazione del proprietario del mezzo; tra i frammenti repertati ne era stato, tra gli altri, rinvenuto uno con alcune cifre del numero del telaio così come individuato attraverso l’abbinamento con il numero di motore;

quanto ai due frammenti metallici apparentemente estranei all’autovettura, il primo di metallo pesante e con superfici lucenti, presentava un bordo curviforme alettato che ricordava la forma cilindrica; fu ipotizzato che avesse costituito parte della struttura del contenitore, sicuramente coinvolto, in quanto a diretto contatto con l’esplosivo;

le deformazioni, le morfologie ed i principi di fusione rilevati portavano a ritenere che il frammento fosse prossimo alla sorgente dell’esplosione; la forma di quel frammento era compatibile con quella di una bombola di gas per uso domestico;

la carica esplosiva, inserita in un contenitore metallico ( c.d. carica intasata) subiva per effetto dell’esplosione, un aumento della pressione e determinava effetti più dirompenti “sia per una completezza della reazione esotermica dell’esplosione e sia per la proiezione che poi parte del contenitore viene disintegrandosi ad esercitare, quindi sono due fattori che potenziano gli effetti”;

era perfettamente visibile il colore “verde oliva” della FIAT 126;

quanto al sistema di attivazione del congegno, i consulenti sulla base della dinamica dell’evento ( l’esplosione si era verificata nel momento in cui il dr. Chinnici era uscito dalla portineria dello stabile e si accingeva a scendere dal marciapiede) avevano ipotizzato l’impiego di un comando a distanza del tipo radiocomando come quelli adoperati per modellismo, in considerazione dell’affidabilità degli apparati il cui raggio di azione può in alcuni casi raggiungere i due chilometri; questo tipo di radiocomando era idoneo ad attivare la carica. Quanto, poi, all’apparato ricevente, veniva ipotizzato l’utilizzo di un apparato già fornito dalla casa costruttrice oppure un radiocomando che poteva essere costruito da una persona fornita di media preparazione in materia elettronica, acquisita anche attraverso la consultazione di riviste specializzate;

l’attivazione doveva essere a vista, perché l’obiettivo da colpire doveva essere sotto il controllo diretto di colui che avrebbe dovuto inviare il radio-impulso;

per predisporre il congegno non erano necessarie capacità tecniche elevate ma era sufficiente una media cultura di elettronica ed elettrotecnica;

quanto al tipo di esplosivo, alla quantità ed al metodo di analisi adoperato sui reperti per addivenire all’identificazione tipologica di quello utilizzato per la strage, la tecnica era quella, largamente usata in laboratorio, della “cromatografia su strato sottile”, metodo che consentiva di accertare innanzitutto se fosse stato adoperato un unico tipo o più tipi di esplosivo.

Le analisi erano state effettuate prevalentemente sui reperti dell’autobomba che, in quanto a contatto con l’esplosivo, offrivano maggiori garanzie di attendibilità. Tuttavia era stata sottoposta a campionamento ed a repertamento anche la borsa professionale che il dr. Chinnici aveva con sé al momento dello scoppio. Il lavaggio dei reperti era stato effettuato con acetone e con metodologie (quali, ad esempio, l’utilizzo di guanti), idonee ad evitare qualsivoglia involontario inquinamento e nello stesso tempo ciascun reperto era stato trattato singolarmente per scongiurare il pericolo di un inquinamento reciproco. Le analisi peritali consentirono di accertare che l’esplosivo adoperato per l’attentato era del tipo “tritolo” che, come ha precisato in dibattimento il cap Di Matteo, “è la versione civile dell’esplosivo di cava” aggiungendo che in campo civile il tritolo è miscelato con un sale inorganico, il nitrato di ammonio, in percentuali diverse che dipendono dal produttore, in quanto questa sostanza aumenta il potere deflagrante del tritolo”. A specifica domanda il C.T. ha precisato che in ogni caso le analisi non avrebbero potuto evidenziare l’eventuale presenza di “nitrato di ammonio” trattandosi di un composto dell’ammoniaca che alle elevate temperature si volatilizza. Quanto alle caratteristiche fisiche del tritolo, i consulenti hanno precisato che trattasi di esplosivo polverulento che, tuttavia, allorchè miscelato con il nitrato di ammonio, assume una aspetto granuloso ed una struttura di tipo salino (che si apprezza al contatto); se il nitrato di ammonio, al quale il tritolo viene miscelato, è in condizioni di buona purezza, la colorazione della miscela è bianca, viceversa assume un colore giallino. In ordine alla quantità di esplosivo adoperato per determinare gli effetti di quella esplosione, i consulenti hanno spiegato che la valutazione di 10 - 20 chilogrammi, in relazione allo stato dei luoghi e anche allo spazio all’interno del quale l’esplosivo era stato occultato, era relativa alla quantità minima necessaria per determinare quell’effetto, precisando che si trattava di un dato di orientamento, che doveva essere tenuto presente anche il sistema di intasamento e che la valutazione era stata effettuata in maniera estremamente approssimata. Hanno, infine, rilevato che per ampliare l’effetto deflagrante, sarebbe stato consigliabile riempire completamente il contenitore metallico, senza lasciare spazi, atteso che l’ossigeno viene fornito dal nitrato di ammonio, e che    non era necessario    chiudere ermeticamente il contenitore. Una più precisa determinazione quantitativa avrebbe richiesto l’esecuzione di prove da scoppio che non erano state espletate. È appena il caso di rilevare, anticipando quanto più avanti costituirà oggetto di una più specifica disamina, che le risultanze peritali hanno consentito di riscontrare le dichiarazioni dei collaboratori.

Giovanni Brusca e il piano criminale. La Repubblica il 17 luglio 2020. Uomo d’onore della famiglia di S.Giuseppe Jato e figlio di uno dei maggiori esponenti di “cosa nostra”, venne affiliato formalmente nel 1975 con un “padrino” prestigioso, Riina Salvatore, legato da forti vincoli di amicizia con il padre Bernardo, che tradizionalmente ne era stato uno dei più fedeli alleati tanto che dopo il trasferimento in Brasile del capomandamento Antonino Salamone, aveva assunto la reggenza prima quale sostituto e poi quale capo mandamento a tutti gli effetti del territorio di San Giuseppe Jato. L’esame della sua condotta, connotata da spiccate attitudini operative, consente di delinearne uno spessore criminale tra i più elevati all’interno dell’organizzazione, in seno alla quale ha progressivamente assunto un prestigio sempre maggiore, dapprima come semplice uomo d’onore alle dirette dipendenze di Riina e successivamente, a seguito dell’arresto del padre Bernardo, come sostituto di quest’ultimo il quale, nel 1982, dopo l’eliminazione degli avversari interni, aveva assunto dapprima la carica di “rappresentante” dell’anzidetta “famiglia”, succedendo a Scaglione Salvatore e nel 1983 quella di capomandamento. La sua vicinanza a Riina, favorita dai vincoli di sangue con il padre Bernardo, elemento di spicco dell’organizzazione, a sua volta legato al primo da una solidissima amicizia, ha consentito al Brusca Giovanni di acquisire un rilevante patrimonio di conoscenze che gli ha consentito di ricostruire le fasi e le ragioni della c.d. guerra di mafia alla quale partecipò attivamente, nonché i rapporti tra l’organizzazione e centri di potere politico ed economico, tra i quali i Salvo. È appena il caso di ricordare che la vicinanza al Riina si estrinsecava anche in una assidua frequentazione in quanto il Brusca accompagnava il padre “per tutta la Sicilia; stessa cosa per Salvatore Riina. Anzi per un periodo più per Riina che per mio padre”(cfr.f.23,ud.1/3/99). Peraltro anche il fratello Emanuele nonché uno zio materno, un cugino del padre, Mario, ed il di lui figlio Calogero avevano assunto la qualità di uomini d’onore. […]  Con riferimento alla strage per cui è processo ha precisato che nella prima fase, nel corso dei colloqui investigativi, si era limitato a dare indicazioni sommarie (“No, solo sommariamente, cioè: "Sono responsabile e posso parlare della strage Chinnici”). […] Passando ora alla specifica disamina della ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato fornita dal Brusca e ricollegandoci a quanto sopra evidenziato in ordine all’abbandono dell’originario progetto esecutivo per l’inadeguatezza delle vie di fuga e degli appoggi logistici nella zona di Salemi (ff.7-8,ud.2/3), va sottolineato che il Brusca ha ipotizzato che il temporaneo accantonamento dell’esecuzione della strage sia da ascrivere al fatto che si era in piena guerra di mafia e la presenza di qualche “scappato” in zona talvolta imponeva repentine modifiche di piani criminosi, non escludendo, peraltro, che possa avervi contribuito l’esecuzione della strage di via Isidoro Carini in danno del prefetto Dalla Chiesa. Il Brusca ha riferito che la ripresa operativa del progetto criminoso risale al maggio 1983 e comunque a circa 15-20 giorni prima della strage, senza essere tuttavia in grado di fornire indicazioni temporali precise (“ non glielo so dire con precisione comunque un pò di tempo prima”) allorchè gli venne affidato dal Riina o dal padre l’incarico di reperire un vetro blindato per effettuare sullo stesso una prova di sfondamento. Dopo avere personalmente verificato, unitamente a Madonia Antonino, la consistenza di tale tipo di vetro, esaminando presso il fondo Pipitone dei Galatolo quelli montati sull’autovettura blindata Alfa 6, che i Salvo avevano a tal fine messo temporaneamente a loro disposizione, il primo si assunse l’incarico di reperirne uno tramite la “famiglia” napoletana dei Nuvoletta. Non è stato in grado di precisare se fu uno degli affiliati a tale gruppo mafioso che provvide a recapitare il vetro ovvero se di ciò ebbe ad occuparsi lo stesso Madonia, recandosi a prelevarlo personalmente nel napoletano e portandolo poi a S.Giuseppe Jato, dove furono eseguite le prove. Insieme al Madonia e al Di Maggio, che aveva frattanto predisposto un telaio per appoggiare a terra il vetro, si era recato presso una cava abusiva di proprietà della famiglia Di Maggio, sita in territorio di San Giuseppe Jato e con un fucile Kalashnikov avevano effettuato prove di sfondamento con esito positivo. Subito dopo si erano trasferiti, ad eccezione del Madonia, in contrada Dammusi dove il padre Bernardo, alla presenza anche di Salvatore Lazio, aveva distrutto definitivamente il vetro, colpendolo con un fucile di grosso calibro. Trascorsi alcuni giorni il progetto criminoso subì delle modifiche nelle modalità esecutive (ff.23-24, ud.2/3) e si era cominciato a parlare di auto-bomba. Il Brusca ha attribuito l’ideazione di tale tipo di attentato a Madonia Antonino, previo concerto con il Riina e con il padre Bernardo, prendendo spunto da analoghi fatti commessi nel napoletano. Proseguendo nel suo racconto il collaboratore ha riferito che da quel momento lo scambio di informazioni era divenuto continuo ed egli aveva ricevuto l’incarico di reperire l’esplosivo, di procurare una bombola di gas da riempire con l’esplosivo e di portare il tutto a Palermo. Frattanto, qualche giorno prima che gli venisse assegnato quell’incarico, aveva assistito alla prove di funzionamento di un telecomando in contrada Dammusi ove a tal fine erano giunti Madonia Antonino, Ganci Raffaele e Gambino Giuseppe Giacomo; in quell’occasione era stato il Madonia a portare un telecomando dello stesso tipo di quello poi utilizzato per la strage di Capaci e normalmente impiegato nell’aeromodellismo. Il Brusca ha così descritto le caratteristiche tecniche e strutturali del congegno ricetrasmittente (ud.2.3.1999.f.29): “Dunque, la ricevente era combinata in una cassetta... una scatoletta di legno, piccola scatoletta di legno larga dieci - quindici centimetri, dodici, quadrato o rettangolare leggermente, alta sette - otto - nove - dieci centimetri, ma non più di tanto, dove c'era montato il servo, che sarebbe un motorino che faceva girare una levetta per poi andare a fare il contatto con il detonatore, un chiodo per fare il... il falso conta... cioè il falso contatto, per poi fare esplodere il telecomando; poi c'erano le batterie sia per fare funzionare il servo sia per alimentare... cioè, per dare la carica al chiodo e fare poi il contatto per poi dare l'impulso al... al detonatore elettrico e scoppiare. E credo che abbia... anche su questo ho fatto pure uno schizzetto su... su un pezzo di carta. Poi c'era... e con l'antenna, era un filo... un filo... proprio un filo di colore nero, se non ricordo male, proprio finissimo che faceva da antenna, che poi siccome l'ho montato io questo apparecchio usciva dallo sportello e l'ho fatto scendere nel... nel correntino della... della 126. .. la trasmittente era un piccolo apparecchio... cioè un piccolo apparecchio, un... anche una specie di scatoletta con due... due levette e un'antenna centrale, se non ricordo male di colore argento o nero - argento. Sono passati tantissimi anni, quindi... però in linea di massima era colore nero - argento e anche su questo ho fatto pure un altro... in linea di massima uno schizzetto”. Ha inoltre precisato che per effettuare questa prova il Madonia e Lazio Salvatore si erano allontanati a circa trecento metri di distanza, recandosi nella proprietà limitrofa di tale Campione, mentre gli altri presenti, e cioè il Gambino, Ganci Raffaele e suo padre Bernardo, avevano il compito di verificare se il detonatore, posto a debita distanza dalla ricevente e che lui stesso provvedeva a montare e smontare, esplodesse a seguito dell’impulso proveniente dalla trasmittente. Alla specifica domanda del P.M. se tutti i presenti fossero perfettamente consapevoli che quel telecomando sarebbe stato utilizzato per l’attentato al dr. Chinnici, il Brusca ha così risposto (ff. 36-37- ud.2/3) : “Al centouno per cento che era destinato al dottor Chinnici”.

P.M. - Lei era presente, sentì anche fare ai presenti discussioni con riferimento al dottore Chinnici? Cioè, sentì proprio dei discorsi specifici in questo senso?

BRUSCA: - Dottoressa, non c'era ogni volta bisogno di far il nome del dottor Chinnici. Bastava una volta, due volte, quindi poi il progetto era quello e non si parlava più, non c'era bisogno più di fare il... il nome.

P.M. : - E al momento di questa prova qualcuno dei presenti aveva già previsto in quale luogo si sarebbe realizzato l'attentato?

BRUSCA : - Sì, si sapeva che già era previsto, cioè davanti la porta, quando lui usciva da casa, .. a Palermo.; cioè davanti l'abitazione, cioè la porta dove lui usciva, la portineria. E c'era chi aveva studiato le abitudini, cioè i movimenti, quando entrava, quando usciva.

P.M.: - E lei come l'ha appreso questo fatto?

BRUSCA : - L'ho appreso perchè poi si è parlato che si stava preparando questo attentato a Palermo e già c'era tutto pronto, si conoscevano le abitudini. Però io non sapevo sino alla mattina quando sono arrivato, non conoscevo le altre persone che erano dedicati a questo tipo di attività.

Ha inoltre precisato che fino al momento del trasporto dell’esplosivo a Palermo, le persone che più frequentemente si recavano a San Giuseppe Jato, “per questo e per altri fatti”, erano Raffaele Ganci, Giuseppe Giacomo Gambino e Antonino Madonia, “quindi per i preparativi poi se la sbrigavano loro, cioè delegare o chiedere altri aiuti, ognuno poi metteva le sue persone a disposizione”. Quanto al reperimento dell’esplosivo, il collaboratore ha dichiarato che la richiesta era stata fatta dallo zio Brusca Mariuccio ad un parente, tale Piediscalzi Franco, fuochino presso la cava INCO di Modesto Giuseppe, persona a disposizione già da tempo dell’organizzazione mafiosa e che la consegna gli era stata fatta personalmente dal Piediscalzi presso la cava; l’esplosivo era stato poi custodito per un paio di giorni in contrada Dammusi. A specifica domanda ha precisato che del quantitativo necessario “si parlò in famiglia” e “l’argomento come prima cosa l’affrontò Mariuccio Brusca…noi abbiamo chiesto un bel pò di polvere e ce ne ha dato un bel pò”. Quanto poi al tipo di esplosivo, il Brusca ha chiarito che non ne fu richiesto uno specifico, ma essendo il Piediscalzi un “fuochino” aveva la possibilità “nel momento in cui lo collocava, non lo collocava tutto, ne toglieva una parte e lo conservava.. cioè lo detraeva dall’esplosione che lui faceva in generale”

L’esplosivo consegnato in due sacchetti del tipo di quelli utilizzati per il sale chimico presentava le seguenti caratteristiche:

BRUSCA :“ No, era tipo granuloso, un bianco leggermente scuro; .. non rotondo, ma era un pò sformato, non era proprio rotondo a palline, però granuloso. Credo che ho fatto sul punto, un paio di mesi fa, tre mesi fa, con dei consulenti da parte vostra, sul punto ho specificato nel dettaglio il tipo di esplosivo che io ho maneggiato per Capaci.

P.M. : - Per Capaci?

BRUSCA : - ... siccome per Capaci sono stati adoperati tipo di esplosivo e siccome stesso materiale che è adoperato per il dottor Chinnici, è stato adoperato per Capaci, quindi siccome in quella occasione sono stati adoperati diversi qualità, però una era quella del dottor Chinnici, in parte era uguale a quella del dottor Falcone. O perlomeno la fonte era la stessa, poi non so se il... quella di allora era la stessa ditta fornitrice che... che il Piediscalzi ci aveva dato.”

In ordina alla fase di confezionamento e trasporto dell’esplosivo, il Brusca ha riferito quanto segue. La quantità contenuta nei sacchetti era all’incirca di 40-50-60 chilogrammi. Egli aveva richiesto al Di Maggio di costruire una scatola in ferro con un’apertura nella parte superiore, fornendogli anche le dimensioni – preventivamente concordate con Madonia Antonino - e facendogli presente che avrebbe dovuto essere collocata nel portabagagli di una FIAT 126. Frattanto aveva reperito in un garage di contrada Dammusi una bombola di gas e dopo averne svitato il rubinetto, collaborato dal Di Maggio all’interno dell’officina meccanica di quest’ultimo, aveva provveduto a riempire la bombola, collocando la rimanente parte di esplosivo in due scatole di “aspor”, e sistemando il tutto (bombola, scatole e scatola metallica) nel portabagagli dell’autovettura Golf del Di Maggio. Nelle prime ore del pomeriggio del giorno antecedente la strage, messosi alla guida della predetta autovettura, preceduto dal Di Maggio che gli batteva la strada a bordo della FIAT UNO intestata al fratello Giuseppe, si erano diretto a Palermo, recandosi in una traversa della via Ammiraglio Rizzo, davanti all’esercizio commerciale “Gammicchia gomme”, dove aveva appuntamento con il Madonia. A quel punto il DI Maggio, dopo avere offerto la propria disponibilità a rimanere qualora la sua presenza fosse stata utile, si era allontanato; subito dopo il Brusca a bordo della GOLF ed il Madonia a bordo di una FIAT UNO si erano introdotti in uno scantinato, sito nelle vicinanze in una traversa della via Ammiraglio Rizzo, all’interno del quale aveva notato una FIAT 126 di colore “verde oliva” poi utilizzata per compiere l’attentato; non ricordava se in quell’occasione fosse presente anche Ganci Calogero o se fosse sopraggiunto dopo.

Erano, quindi, iniziate le operazioni di preparazione e collocazione dell’ordigno esplosivo, che il collaboratore ha così descritto:

“ BRUSCA: - Dunque, da quel momento in poi subito ci siamo messi in moto per cominciare a preparare, cioè passare i fili, montare tutta la ricevente, posizionare la bombola dell'esplosivo.

P.M. : - Cominciamo con il posizionamento dell'esplosivo. Dove l'avete collocato e se avete utilizzato determinati accorgimenti.

BRUSCA: - Dunque, mi ricordo che abbiamo messo prima la bombola di gas, poi questa scatola di cart... questa scatola di ferro e nel mezzo dei due, di laterale, abbiamo messo del cartone non farli sbattere, cioè non fargli fare attrito eventualmente qualche imprevisto strada facendo.

P.M. : - Avete tolto la ruota di scorta?

BRUSCA : - Non me lo ricordo, dottoressa, non... è un particolare che non... non mi ricordo.

P.M. - Che altra attività avete fatto, compiuto sulla macchina oltre a collocare l'esplosivo?

BRUSCA : - Poi abbiamo passato... cioè dovevamo passare i fili... i fili dall'interno della macchina; abbiamo dovuto passare il detonato... cioè i fili del detonatore che si doveva andare a posizionare dentro il cofano della macchina, cioè dovevamo prendere il detonatore e poi infilarlo dentro...

P.M. : - Chi ve li aveva forniti i detonatori?

BRUSCA: - Sempre Franco Piediscalzi, sempre la stessa ditta. Quindi abbiamo perso un bel pò di tempo per potere fare tutto questo tipo di lavoro. La ricevente l'abbiamo collocata proprio sotto il seggiolino della macchina.

P.M.: - Seggiolino... BRUSCA: - Guida.

P.M.: - ... lato guida? BRUSCA : - Lato guida, sì.

P.M.: - Avete collocato anche un'antenna?

BRUSCA: - L'antenna era quella a filino, ricoperta di plastica, che poi l'abbiamo fatto fuoriuscire per quattro - cinque centimetri tra sportello e correntino della macchina.” Dopo avere precisato, a specifica domanda, che il detonatore, anch’esso fornito dal Piediscalzi, era stato collocato la mattina successiva dopo una breve sosta, prima di posteggiare l’auto dinanzi allo stabile del Dott. Chinnici - attività, questa, di cui si parlerà più avanti – il Brusca ha riferito che durante la preparazione dell’auto-bomba curata da lui e dal Madonia era presente anche Ganci Calogero, pur non  ricordando se si trovasse già all’interno del garage o fosse sopraggiunto dopo il loro arrivo, mentre “Enzo Galatolo andava e veniva”, portando acqua, attrezzi ed altro materiale necessario; non ricordava se in quella circostanza avesse notato la presenza di Anzelmo Paolo,  certamente visto successivamente. Tutta l’attività “per assemblare dentro la macchina i pezzi” li aveva impegnatati per 4-5-6 ore ed era stata ultimata “tardissimo”, senza essere tuttavia in grado di precisare l’orario esatto. Ricordava che subito dopo insieme al Madonia aveva rubato le targhe di un’auto che l’indomani mattina, prima di uscire dal garage, avevano montato sulla FIAT 126; le targhe erano state asportate nel corso della notte(“era notte fonda”) da un’altra FIAT 126 posteggiata in una traversa della via Sampolo di fronte ad alcuni negozi, precisando che nei pressi vi era un panificio ed un Hotel. Subito dopo, insieme al Madonia, erano andati a dormire per qualche ora in un appartamento sito in via D’Amelio, curando di mettere la sveglia per le ore 5,30 ed attivando altresì la sveglia telefonica.

A specifica domanda se oltre alle prove di funzionamento del telecomando in c.da Dammusi ne avessero effettuato altre in luoghi diversi ed in particolare nello scantinato, dichiarava testualmente (ff.65- 66):

BRUSCA : - Non me lo ricordo. Cioè, nello scantinato sì, il funzionamento dentro lo scantinato cioè lo abbiamo fatto qualche prova, se funzionava, c'era qualche .. cioè qualche stupida... no stupidaggine, qualche cosa che non funzionava, ma era cosa momentanea. Cioè, abbiamo fatto le prove, ma subito li abbiamo...

P.M.: - E dopo queste prove all'interno dello scantinato lei ricorda se avete effettuato altre prove in altri posti prima proprio dell'attentato?

BRUSCA - Dottoressa, non me lo ricordo, cioè proprio...

P.M. : - Ricorda se nel corso della notte, prima o dopo il furto delle targhe, lei si è nuovamente recato a fondo Pipitone?

BRUSCA : - Dottoressa, non me lo ricordo se io sia andato in fondo Pipitone, ..non sono in condizioni nè di escludere nè di confermarlo, perchè non ho un ricordo ben preciso.”

Ha inoltre riferito che la mattina della strage insieme al Madonia, a bordo della Fiat Uno, si spostarono dall’appartamento di via D’Amelio – dove la sera precedente aveva posteggiato la Golf – al garage in cui era custodita la FIAT 126, precisando che Galatolo Vincenzo aveva aperto la saracinesca. Dopo avere montato le targhe rubate si era messo alla guida della FIAT 126, mentre il Madonia con la FIAT Uno aveva fatto da battistrada fino alla via Pipitone Federico. Giunto sulla strada, aveva avuto modo di vedere a circa cento metri di distanza, all’altezza della Fiera del Mediterraneo, il Gambino Giacomo Giuseppe e Ganci Raffaele nella via Ammiraglio Rizzo, a bordo di un’autovettura, i quali si erano subito allontanati certamente per perlustrare la strada. Poco prima di arrivare nella via Pipitone Federico si era fermato, era sceso dall’auto, e dopo avere aperto il cofano aveva inserito il detonatore nella bombola del gas; ripresa la marcia, giunto nel luogo della strage, aveva notato Ganci Calogero e Anzelmo Francesco Paolo, all’interno di un’autovettura bianca, probabilmente una FIAT 127 o una GOLF, che stavano liberando il posteggio dinanzi all’abitazione del dr. Chinnici per far posto alla FIAT 126. Secondo le istruzioni ricevute dal Madonia, aveva quindi provveduto ad occupare il posto lasciato libero, avendo cura di posteggiare l’auto- bomba in posizione orizzontale e cioè parallela rispetto al marciapiede, lasciando altresì uno spazio davanti la parte anteriore dell’autovettura e si era trattenuto all’interno dell’abitacolo per effettuare alcune operazioni.

All’udienza del 2/3/1999 il Brusca ha così descritto la fase sopra menzionata:

BRUSCA - Esce Calogero Ganci ed entro io. Entro io e posiziono la macchina, già stabilito, in modo che il dottor Chinnici quando  esce dal portone esca proprio davanti alla 126. Cioè, lascio proprio  lo spazio, perchè c'erano due piante, cioè due vasi con delle piante posteggiati davanti la portineria e io posiziono la 126 in maniera che il dottor Chinnici appena usciva di casa non doveva svirgolare fra le macchine. Cioè, direttamente dalla portineria si andava a mettere in macchina, cioè proprio in modo che passasse proprio davanti alla 126. Io esco, chiudo... cioè, esco con molta cautela, perché c'era già tutto azionato. L'unica cosa che faccio è che quando scendo dalla macchina alzo il sediolino; siccome preventivamente avevamo preso... dove c'era il chiodo avevamo messo un tubicino di plastica per ricoprire il chiodo di ferro in modo che se succedeva qualche falso contatto, qualche cosa, il contatto, cioè la levetta che avevamo costruito antecedentemente non andava a fare contatto o se si muoveva c'era l'isolante, che era questo tubicino di ferro. Alzo l'isolante di gomma, cioè che sarebbe come lo spessore era questo, il tubicino che si adoperava per i motorini per la benzina, non so  se lei ne ha presente. Dopodichè io alzo il sediolino, tolgo questa custodia, alzo il sediolino, prendo l'antenna, la faccio fuoriuscire dalla macchina tre - quattro - cinque centimetri proprio sotto lo sportello; chiudo lo sportello con molta calma, lo appoggio e poi per chiuderlo definitivamente con... di dietro cioè lo spingo e siccome l'avevo toccato con le mani, cioè, faccio in modo che tolgo pure le impronte digitali, perchè non sapevo se usciva, se non riusciva tutto. E avevo un pezza per non farla vedere, che se qualcuno possibilmente affacciava dal balcone non la faccio notare. Dopodichè scendo da questa macchina, la chiudo regolarmente e me ne vado. Me ne vado... in un primo tempo ricordavo che me n'ero andato a piedi verso via Libertà.

P.M. : - Come l'ha chiusa la... lo sportello...?

BRUSCA : - L'occhietto... cioè, l'occhiello l'ho appoggiato e poi...

P.M. : - Poggiato, perfetto.

BRUSCA : - ... e l'ho spinto con il di dietro, cioè in maniera da chiudersi definitivamente……Per non dargli lo botto.”

Sceso dall’auto, dopo avere percorso 30-40-50 metri fino al luogo in cui era posteggiato il camion ed in cui notò la presenza del Ferrante, era salito sull’auto del Ganci e dell’Anzelmo che lo avevano accompagnato “verso la via Libertà” (f.80) e più precisamente nelle immediate vicinanze del camion, nei pressi del quale era posteggiata la FIAT Uno prima condotta dal Madonia nella fase di trasferimento dal garage al luogo dell’attentato. Era quindi salito su tale ultima autovettura, a bordo della quale si trovava ancora il Madonia, il quale subito si era collocato sul cassone del camion, probabilmente un modello FIAT 110, alla guida del quale aveva riconosciuto Giovan Battista Ferrante. Sul punto Brusca ha precisato che in realtà quella era la prima volta che vedeva il Ferrante, uomo d’onore che non conosceva e che rivide successivamente, riconoscendolo, in occasione dell’omicidio di Puccio Pietro. Precisava che il camion era posteggiato nella via Pipitone Federico, con direzione di marcia verso la chiesa di S.Michele, a circa cento- centocinquanta - duecento metri dalla FIAT 126 - rispetto alla quale era collocato più a sud e cioè più vicino alla via Libertà - sul lato opposto rispetto a quello dove era posteggiata l’auto-bomba ed era accostato ad un’impalcatura e distaccato rispetto al marciapiede. Sul cassone del camion vi erano bidoni di calce e materiale per l’edilizia ed il Madonia era vestito da muratore, con canottiera e pantaloncini corti. Per evitare di destare sospetti sostando a bordo dell’autovettura aveva effettuato dei giri di perlustrazione nella zona, nel corso dei quali aveva notato la presenza di altri uomini d’onore che effettuavano lo stesso servizio: Pino Greco detto “Scarpa” assieme a Vincenzo Puccio a bordo di una SIMCA Talbot ed Enzo Galatolo a bordo di una Lancia Beta coupè di colore azzurro. Ad un certo punto aveva notato l’arrivo delle auto del servizio di scorta al Dott. Chinnici ed i Carabinieri avevano provveduto a chiudere la strada bloccando il traffico nelle due traverse che, a monte ed a valle, intersecavano quel tratto della Via Pipitone Federico dove era ubicata l’abitazione del giudice. A quel punto aveva posteggiato la FIAT Uno dietro al camion e il Madonia, che era già salito sul camion portando con sè il telecomando custodito all’interno di una busta di plastica, si era posto sul cassone dietro la cabina con le mani appoggiate sulla c.d. “forca”, aveva premuto il telecomando ed “era successo il finimondo”. Ha precisato che il Madonia si era collocato a ridosso della cabina la cui altezza consentiva al primo di sporgere con il capo oltre il tettuccio e di avere quindi una comoda visuale. Il telecomando aveva le dimensioni di circa venti centimetri ed un’altezza di circa 5-6-7 centimetri, ed era del tipo di quello utilizzato per gli impulsi a distanza delle macchinette-giocattolo, con le levette, di colore argento metallizzato. Ha inoltre riferito di avere notato il Madonia nell’atto di richiudere l’antenna del telecomando, mentre il camion si era mosso repentinamente imboccando una traversa sulla destra e dopo avere percorso pochi metri aveva effettuato una sosta per consentire al Madonia di scendere e di salire sull’auto guidata dallo stesso Brusca. Giunti in via D’Amelio, il Brusca aveva posteggiato la FIAT Uno e si era recato con la propria Golf presso uno studio notarile sito nei pressi del palazzo di giustizia per stipulare un atto; dichiarava di non ricordare il nome del notaio precisando tuttavia di avere appreso frattanto che era morto suicida. Il Madonia era poi salito su un’Alfa Beta coupé, che il Brusca non è stato in grado di precisare se fosse quella del Galatolo o quella dello stesso Madonia, possedendo entrambi un’autovettura dello stesso tipo. Il quadro ricostruttivo della fase esecutiva della strage offerto dal Brusca appare qualificato, ad avviso della corte, da indubbi connotati di originalità e specificità che depongono per la provenienza delle informazioni fornite da un patrimonio di conoscenze proprio del collaboratore, non essendo ravvisabile, anche alla luce della ricostruzione fornita dagli altri coimputati, di cui si dirà più avanti, né una pedissequa ripetitività né un mero recepimento manipolatorio del racconto degli altri protagonisti della stessa fase. Quanto, poi, all’attendibilità intrinseca, sub specie della coerenza e della costanza delle dichiarazioni, va innanzitutto rilevato che molte delle contestazioni mosse dalla difesa in sede di controesame devono ritenersi ampiamente superate alla luce dei plausibili chiarimenti forniti dallo stesso imputato, con particolare riferimento ai seguenti punti(cfr.ud.3/3). […]

Va peraltro rilevato che nel verbale in data 24/10/1997(f.20) il Brusca aveva riferito della presenza del Galatolo indicandolo come colui che aveva aperto la saracinesca. Il 13/8/1996, inoltre, a distanza di due giorni dal primo interrogatorio, Brusca, mentre parlava di altri fatti, aveva riferito spontaneamente: "A proposito della strage Chinnici ho ricordato ieri sera che probabilmente ho visto anche Enzo Galatolo all'interno dello scantinato, di cui ho già detto, il giorno della consumazione della strage. Se non ricordo male entrò per portarci dell'acqua e subito dopo andò via. Ho rivisto il Galatolo anche l'indomani mattina nella zona in cui fu consumata la strage. Preciso di averlo visto con una Lancia Beta Coupè". (cfr.f.50, ud.3/3/1999 e verbali acquisiti ex art.503 c.p.p.). Alla domanda della difesa se fosse rimasto a dormire in via D'Amelio nel “covo” di Antonino Madonia o fosse andato nel fondo Pipitone, il Brusca ha ribadito di avere dormito nella casa di Madonia e di non ricordare di essere andato nel fondo Pipitone, pur affermando di non poterlo escludere.(“ Non sono neppure in condizioni di poterlo escludere perchè non me lo ricordo... non lo escludo perchè non me lo ricordo. Io escludo una cosa quando sono sicuro”). Anche in ordine alle prove del telecomando ed in particolare alla domanda se oltre che in contrada Dammusi fosse stato provato altre volte, il Brusca ha ribadito testualmente: “Io ho detto, ho dichiarato che mi ricordo solo quello in contrada Dammusi, poi  dentro  lo  scantinato  abbiamo  fatto  qualche  prova così, momentanea. In altri posti non mi ricordo. Non lo posso neanche escludere perchè non me lo ricordo”.

Nel corso del controesame, con riferimento al furto delle targhe ed alla sostituzione di quelle originarie della Fiat 126 con quelle sottratte nel corso della notte(nelle prime ore del 29 luglio) unitamente al Madonia, la difesa ha contestato il contenuto del verbale in data 11 agosto 1996 dal quale risulta (pag.13) che "a questo punto il Pubblico Ministero formula altre domande a specificazione di quanto sin qui dichiarato e lo stesso risponde….Non è in grado di riferire chi si era occupato della 126 nè se ci fosse stata una sostituzione di targhe nè il modello delle targhe montate sopra", ciò che contrasta con quanto dichiarato sia in dibattimento che nel corso dell’interrogatorio reso al P.M. il 24 ottobre '97, e cioè di essersi attivato unitamente ad Antonino Madonia prima per il furto delle targhe e poi la loro sostituzione.

Invitato a fornire chiarimenti, il Brusca ha dichiarato: “ Signor Presidente, che non ho rubato la 126, non so chi l'ha rubata; non mi ricordo delle targhe, non mi ricordavo del furto delle targhe. A forza poi di ricordare piccoli particolari, mi sono ricordato di avere rubato le targhe assieme ad Antonino Madonia e della sostituzione della macchina... cioè della macchina, delle... delle targhe prima di uscire dal garage. Questo particolare. Tutto il resto, 126, che targhe aveva, non me li ricordo, Signor Presidente. Credo che siano quelle vecchie, però non me lo ricordo con... con certezza”.

Nel corso del controesame, su sollecitazione della difesa, il Brusca, confermando quanto dichiarato nel corso dell’udienza precedente, ha ribadito che subito dopo la collocazione della FIAT 126 si diresse verso la chiesa di S.Michele, ammettendo di avere inizialmente (verb.11/8/1996) fornito una versione parzialmente diversa: […] A quel punto la difesa ha contestato all’imputato il verbale in data 13/6/1997 dal quale risulta che il Brusca aveva dichiarato testualmente: “… essendo che stiamo fermi in via Pipitone Federico facciamo ogni tanto qualche giro per non stare fermi sempre in un punto, io e Antonino Madonia".

Invitato a precisare se i giri intorno all’isolato li avesse fatti da solo, il Brusca ha dichiarato : “ Signor Presidente, io li ho fatti da solo. Ripeto, non escluso che ne abbia fatto qualcuno con Antonino Madonia, ma li ho fatti da solo e facevo qualche giro; passavo dalla macchina, cioè dov'era posteggiata la macchina, tenevo sempre sotto controllo la macchina, non mi muovevo da là. Cioè, io se facevo... il tempo di girare l'angolo, però ero sempre là, sulla zona, non è che mi allontanavo o mi spostavo che me ne andavo al Politeama o me ne andavo a piazza Leone. Il tempo di fare la traversa e giravo, cioè non stavo fermo. Ogni dieci minuti - un quarto d'ora mettevo in moto e facevo un giretto, ma era... in sostanza ero sempre là.”

Quanto all’orario di arrivo del camion, il collaboratore ha dichiarato:

BRUSCA “Il camion non l'ho visto arrivare. Gli posso dire che il camion era lì, però se era arrivato prima, un'ora, due ore, tre ore, cinque ore, non... se è pernottato là...

PRESIDENTE: - Quindi, lei lo ha trovato lì il camion.

BRUSCA : - Sì, me lo ri... e quando sono sceso dalla macchina con i due l'ho trovato lì.

AVV. IMPELLIZZERI: - E a che ora l'ha visto?

BRUSCA: - Avvocato, io sono arrivato intorno alle sei e mezza - sette meno un quarto - sette meno venti, non... non è che mi sono puntato l'orologio. Sicuramente prima delle sette che cominciasse il traffico, che aprissero le portinerie, che prima di aprire le portinerie noi dovevamo essere già sul posto, che di solito le portinerie aprono alle sette - sette e un quarto - sette e dieci. Almeno questo mi fu stato detto.

AVV. IMPELLIZZERI: - Quindi quando voi facevate i giri attorno all'isolato il camion era lì?

BRUSCA: - Quando io facevo i giri e dopo che sono sceso dalla macchina con Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci il camion l'ho trovato lì. Dopodichè io mi sono messo in macchina nella macchina di Antonino Madonia e ho fatto quell'attività che poco fa ho detto.

Altro punto di contrasto con precedenti dichiarazioni, oggetto di specifica contestazione da parte della difesa, riguarda l’autovettura con la quale il Madonia ed il Brusca si sarebbero allontanati dalla via Pipitone Federico subito dopo l’esplosione per raggiungere via D’Amelio. Il collaboratore ha infatti ribadito di avere raggiunto la Via D’Amelio con il Madonia a bordo di una sola autovettura, la FIAT uno più volte citata, mentre nel corso dell’interrogatorio reso il 24 ottobre '97 aveva riferito della presenza di un'altra macchina con la quale sarebbe andato via Antonino Madonia.

A pag. 29 del citato verbale, infatti, il Brusca aveva dichiarato: "Dottoressa, io sono rimasto sul punto cento per cento e tanto è vero che io era d'accordo con Antonino Madonia che appena il Ferrante fra un pò di... cioè appena si fa l'attentato Antonino Madonia scende dal camion,  lo prendo io e poi gli consegno la macchina che Enzo Galatolo aveva portato per mettersi a sua disposizione. Io e Antonino. Io con la Fiat Uno ed Antonino Madonia con la Lancia Beta ci rechiamo in via D'Amelio. Io posteggio la Fiat Uno e subito me ne vado; poi non so loro cosa hanno fatto e cosa non hanno fatto".

Alla contestazione Brusca ha fornito la seguente risposta: “ Sì, ho capito. Io ho visto... no, l'ho chiarito ieri. Ho visto la presenza di Enzo Galatolo. Siccome mi ricordavo che Enzo Galatolo, avevo pensato che se n'era andato con Antonino Madonia, ma invece Antonino Madonia se n'è andato con me, mi ricordo che se n'è andato con me. Siamo arrivati in via D'Amelio, la presenza di Enzo Galatolo sul posto l'ha visto, la... era con la Lancia Beta e pensavo che se n'era andato con Antonino Madonia, cioè Enzo Galatolo e Antonino Madonia, invece no, ricordo che Antonino Madonia se n'è andato con me. Siamo arrivati sul posto, abbiamo posteggiato la macchina; io ho preso la mia macchina e me ne sono andato, cioè la mia, quella di Di Maggio che era una Golf, che poi ho dato a mio fratello Emanuele e se n'è andato, che io sono rimasto con la mia macchina, con la macchina di... di mio fratello, dopodichè ci siamo divisi, cioè ognuno per la sua strada.”

Va peraltro rilevato che la versione fornita in dibattimento è conforme a quella resa in precedenza al GIP nell’interrogatorio in data 13/6/1997, nel corso del quale aveva riferito di avere raggiunto la via D’Amelio insieme al Madonia a bordo della FIAT Uno. Successivamente, il ricordo di avere visto la Lancia Beta nel luogo della strage aveva fuorviato la sua ricostruzione mnemonica inducendolo a ritenere che il Madonia si fosse servito di quell’autovettura per allontanarsi dalla via Pipitone Federico ( “successivamente avevo fatto questa valutazione. La Lancia c'è, l'ho visto sul territorio e avevo pensato che se ne stava andando Antonino Madonia con Enzo Galatolo; invece ricordo che Antonino Madonia se n'è andato con me e la Lancia c'è,  Enzo Galatolo c'è. Pensavo che aveva avuto questo compito, ma Antonino Madonia se ne viene con me”). Alla luce di quanto sopra evidenziato appare chiaro che, anche in relazione a taluni punti significativi della ricostruzione della fase preparatoria ed esecutiva della strage, la “formazione progressiva” degli elementi di prova forniti dal Brusca non tradisce affatto un tardivo e strumentale recepimento manipolatorio di dichiarazioni rese da altri correi, frattanto apprese, ma sottende, piuttosto, un fisiologico processo di memorizzazione tanto più plausibile quanto più, come nel caso del Brusca, il vissuto criminale sia intenso ed il correlativo patrimonio conoscitivo ricco di contenuti descrittivi. Tanto più, poi, eventuali lacune mnemoniche devono ritenersi fisiologicamente assorbibili in quel margine di incertezza ricostruttiva che discende dal tempo frattanto trascorso e dalla enorme ricchezza dei particolari di cui si compone il patrimonio conoscitivo del soggetto, quando, come nel caso di specie, il successivo ricordo di un elemento descrittivo sia del tutto spontaneo e non già il frutto della “suggestiva” contestazione di altre fonti di prova alle quali il collaboratore decida di allinearsi compiacentemente. Non può non rilevarsi, inoltre, che il Brusca ha offerto ulteriori elementi probatori del tutto nuovi rispetto alle propalazioni degli altri collaboratori, in relazione alla specificità del ruolo svolto nella fase preparatoria ed esecutiva, fornendo una ricostruzione connotata da indubbi profili di originalità ed autonomia che, da una parte, hanno trovato riscontro in elementi idonei a suffragarne l’attendibilità, e, dall’altra, depongono per la provenienza delle sue dichiarazioni dal bagaglio proprio del dichiarante, con esclusione di qualsivoglia pedissequa ripetitività o “contaminatio”. Sotto altro profilo, le pur innegabili discrasie con quanto riferito dagli altri chiamanti in correità, che saranno compiutamente analizzate più avanti, anche in relazione a fasi o segmenti della condotta criminosa connotati dal contestuale protagonismo dei dichiaranti, depongono per l’assenza di reciproche influenze e di successivo allineamento di elementi e dettagli in origine divergenti in ciascuna propalazione. Il quadro ricostruttivo offerto dalle sue dichiarazioni ha consentito di far luce non solo sul movente e sui rapporti tra “cosa nostra” e centri di potere politico-economico, ma altresì di accertare la provenienza ed il tipo di esplosivo, le modalità della preparazione dell’auto-bomba, il furto delle targhe apposte alla FIAT 126, contribuendo, quindi, ad arricchire un quadro probatorio che senza il suo apporto sarebbe stato destinato a rimanere inevitabilmente lacunoso. Non può inoltre tacersi che la collaborazione del Brusca si è rivelata estremamente significativa - in relazione al prestigio goduto ed alla centralità del ruolo operativo rivestito, avuto riguardo al rilievo della sua famiglia di sangue ed alla particolare vicinanza al Riina - per la ricostruzione dei meccanismi operativi della “commissione” e per l’identificazione dei suoi componenti. La sua lunga militanza nell’organizzazione, connotata da quella particolare posizione sopra ricordata che ne ha favorito una cognizione e valutazione delle dinamiche interne da un osservatorio privilegiato, ha inoltre consentito al suo patrimonio informativo di acquisire una enorme mole di conoscenze anche in ordine alla c.d. guerra di mafia, sicchè il suo contributo probatorio si è rivelato particolarmente prezioso in relazione alla ricostruzione delle alleanze, delle contrapposizioni ed in genere degli equilibri interni fino all’assunzione della incontrastata e definitiva preminenza gerarchica da parte del Riina. Brusca ha inoltre chiarito le ragioni non solo delle diverse modalità esecutive della strage rispetto all’originario progetto che prevedeva un attentato nella casa di villeggiatura in Salemi, ma anche della decisione di sospenderne temporaneamente l’esecuzione per privilegiare altre esigenze prioritarie connesse con le dinamiche interne a “cosa nostra” in quel momento storico, per poi riprenderlo con rinnovato impegno operativo prevedendo, per la prima volta, ben più eclatanti e devastanti modalità “perché si è voluto dare un’impronta forte”(cfr.f.132, ud.3/3/1999). Non può peraltro essere sottaciuto che le propalazioni del Brusca, il cui protagonismo operativo ha connotato tutte le fasi del progetto criminoso, ha costantemente assunto i caratteri tipici della incondizionata chiamata in correità, senza atteggiamenti riduttivi nei confronti della propria responsabilità, né compiacenti nei confronti di altri correi ed in particolare del padre Bernardo. Alla stregua delle considerazioni che precedono va rilevato che le pur innegabili reticenze ed omissioni, peraltro ammesse dallo stesso imputato, nella fase iniziale della sua collaborazione, sulla quale hanno pesantemente influito le vicende relative alla ripresa dell’attività criminosa nel suo territorio di origine da parte dei collaboratori di giustizia Di Matteo, la Barbera e Di Maggio, quest’ultimo considerato suo nemico personale e della sua famiglia, non autorizzano a screditarne l’attendibilità complessiva, disconoscendone il rilevante apporto probatorio, ma impongono una doverosa particolare cautela nella valutazione della sua attendibilità, in applicazione del principio della frazionabilità della stessa, valorizzando quelle parti del racconto propalatorio che risultino positivamente riscontrate e certamente immuni dal sospetto di inquinamento, di fraudolente concertazioni o tardivo allineamento alle dichiarazioni di altri correi. […].

Il faccia a faccia fra Brusca e Di Maggio. La Repubblica il 18 luglio 2020. […] Come sopra anticipato, i contrasti tra le dichiarazioni del Brusca e del Di Maggio su circostanze dotate di notevole rilevanza probatoria hanno indotto la Corte a disporre d’ufficio un confronto tra i due collaboratori svoltosi a Roma con la comparizione personale di entrambi. […] In ordine alle ragioni che avevano determinato il progressivo deterioramento dei loro rapporti, appare opportuno ricordare che il Brusca ha riferito che il Di Maggio aveva iniziato una relazione con tale Elisa Scalici, che avrebbe poi sposato, la quale aveva avuto in precedenza un “flirt” con lo stesso Brusca. Poiché il Di Maggio era già coniugato con figli, lo aveva più volte invitato ad interrompere la relazione perché contraria alle regole di Cosa Nostra. Brusca lamentava altresì che il Di Maggio spendeva il suo nome per favorire gli incontri con la donna e poichè la circostanza era nota all’organizzazione questo comportamento aveva notevolmente indisposto il Brusca che peraltro era fidanzato; quest’ultimo lo aveva pertanto richiamato con toni decisi, intimandogli “o la finisci o te la faccio finire”. […] Il Brusca ha ricordato al Di Maggio, invitandolo ad uno sforzo di memoria, che alla fine, ogni volta che gli erano state contestate le sue dichiarazioni, per vari motivi era stato costretto ad ammettere le circostanze dapprima negate, ed il contraddittore, di rimando:

DI MAGGIO - “dipende e... sei costretto... ...in che cosa? Mica  posso dire tutto quello che dici tu”.

[...] Nel corso del confronto il Brusca ha incalzato il suo contraddittore contestandogli altri episodi in relazione ai quali le sue chiamate in correità - per esempio nei confronti di tale Virga Vincenzo per un quadruplice omicidio in pregiudizio di tale Barbaro ed altri di Alcamo – nonostante la negazione del Di Maggio, avevano poi trovato riscontro in quelle di altro collaboratore, Sinacori Vincenzo.(cfr.f.108) [...] Dal confronto sono inoltre emerse le seguenti posizioni su specifici punti che possono essere schematicamente così sintetizzati:

- Di Maggio ha chiarito che al di là dei motivi strettamente personali ed altri collegati alla gestione del mandamento da parte sua, non ve ne sono altri da rappresentare in ordine ai sentimenti di astio e odio che il Brusca nutrirebbe nei suoi confronti. (“lui sa benissimo, Signor Pubblico Ministero, non posso scendere ai fatti personali”).

- Di Maggio ha precisato di non avere mai in precedenza riferito ai Pubblici Ministeri nisseni dell’occultamento del vetro blindato sul quale erano state fatte prove di sfondamento.

- Di Maggio ha dichiarato che durante le fasi preparatorie di un omicidio il Brusca talvolta gli riferiva preventivamente quale fosse l’obiettivo da colpire, talaltra “c'erano momenti che … si andava sul posto ed arrivati sul posto poi diceva: "dobbiamo commettere questo omicidio".

- Brusca ha confermato che quando il Di Maggio gli batteva la strada per trasferire oggetti vari o per altri motivi, questi ne conosceva sempre il motivo.

- Dopo avere precisato che il suo primo arresto successivo alla strage di via Pipitone Federico risaliva al 29 settembre '84, Brusca ha escluso di avere effettuato un trasferimento di esplosivo con consegna a Vincenzo Milazzo, negando categoricamente, in particolare, ogni fornitura in relazione all’attentato al sostituto procuratore della Repubblica di Trapani dr. Carlo Palermo ( commesso in località Pizzolungo, il 2/4/1985) anche in considerazione del fatto che a quell’epoca si trovava a Linosa, quale soggiornante obbligato. Non ha escluso invece la consegna di armi prima della esecuzione di omicidi, antecedentemente al suo arresto, atteso che in territorio di Alcamo ne avevano consumati molti.

- Di Maggio ha per contro sostenuto che il trasferimento di esplosivo fu eseguito prima che Brusca fosse arrestato. Alla domanda se sul punto intendesse rettificare quanto dichiarato in precedenza, e cioè che la consegna dell’esplosivo risaliva ad epoca immediatamente precedente alla strage di Pizzolungo, il Di Maggio ha testualmente dichiarato: “diciamo l'attentato quando è avvenuto di preciso non mi ricordo, però mi ricordo l'attentato è stato o che lui era stato arrestato o era, diciamo al confine, a Linosa, però la polvere da sparo è stata portata prima che Vincenzo Milazzo si doveva organizzare, e tutte ste belle cose”. Non è stato in grado di precisare quanto tempo prima fosse stato fornito l’esplosivo.

A fronte di queste accuse il Brusca ha replicato ribadendo di essere stato arrestato il 29 settembre 1984 e di essere rimasto in stato di detenzione fino al 14 marzo del 1985, raggiungendo entro le 24 ore successive alla scarcerazione l’isola di Linosa. Sul punto ha precisato di essere stato accompagnato a Porto Empedocle per imbarcarsi da Siino Angelo e dallo stesso Di Maggio, il quale ha spontaneamente ricordato la circostanza al Brusca. Nel corso del soggiorno obbligato aveva fruito di un permesso di tre giorni per il matrimonio del fratello in data 5 luglio 1985, rimanendo ininterrottamente lontano da S. G. Jato fino al 31/1/1986. In considerazione del contrasto emergente tra quanto dichiarato in precedenza, secondo cui l’esplosivo era stato consegnato dal Brusca pochi giorni prima della "strage di Pizzolungo", e quanto sostenuto in sede di confronto ("prima che tu fossi arrestato"), al Di Maggio venivano richiesti i seguenti chiarimenti:

DI MAGGIO - ...però il discorso è che il mio ricordo va diventando sempre più lucido e più ne parliamo più lucido diventa.

PRESIDENTE: - tenga conto che, dico questa consegna sarebbe avvenuta un anno prima della Strage, cioè un anno prima, insomma...

DI MAGGIO - sì, sei mesi prima...

PRESIDENTE: - ...sì.

DI MAGGIO - ...sette mesi prima.

PRESIDENTE: - lei ha chiaro questo ricordo?

DI MAGGIO - sì, sì, abbiamo...

BRUSCA : - e serviva per Carlo Palermo?

DI MAGGIO - sì, sì, perché l'e... e infatti quando è successo...

BRUSCA - va bene, va bene.

P.M.: - ……quindi lei ricorda con precisione che questo esplosivo fu consegnato prima dell'arresto di Brusca, quindi questo è un nuovo fatto, mi conferma questo dato?

DI MAGGIO - sì, sì.

P.M.: - ..…lei sta riferendo che l'esplosivo fu consegnato a Milazzo, io vorrei sapere se lei nel momento in cui trasferiva l'esplosivo a Milazzo, assieme a Brusca come si sta affermando, sapeva che quell'esplosivo doveva essere finalizzato a commettere l'attentato in danno del Giudice Carlo Palermo?

DI MAGGIO - no, io non lo sapevo il discorso, perché neanche sapevo, in quel momento stavamo trasportando esplosivo, quando nel momento che si è alzato cofano per aiutarlo ed allora là lui ha detto “questo ho trovato, esplosivo, più di questo non ti ho potuto trovare” e là è una fase prima, successivamente quando è successo il fatto il padre si è sollevato dalla sedia, quando ha sentito la notizia, dicendo: "Vincenzo ce l'ha fatta"... ed allora io collego il discorso che abbiamo portato l'esplosivo e il fatto del Giudice Palermo.

P.M.: - il padre di chi?

DI MAGGIO  - di Giovanni Brusca.

P.M.: - ma le disse il padre di Giovanni Brusca parlando... oltre a quella frase "Vincenzo ce l'ha fatta", "in questa cosa c'entra pure mio figlio?", le fece qualche collegamento?

DI MAGGIO - no, no.

Circa le ragioni che avrebbero potuto indurre il Di Maggio a negare ogni coinvolgimento nella strage per cui è processo il Brusca ha dichiarato di non essere a conoscenza di fatti specifici che potessero spiegare questo atteggiamento, ma di potere fare solo deduzioni personali. Con riferimento alla ferita riportata all’arcata sopracciliare a causa del rinculo del fucile, Brusca ha precisato, a specifica domanda, che in quella circostanza, collocata nell’86-’87, non era presente Angelo Siino e che avevano provato un M16 - che dovrebbe essere stato ritrovato in contrada Giambascio attualmente ancora otturato, perché un proiettile si era messo di traverso - un Kalashnicov e un 358,( non 303) che era un fucile da caccia per elefanti di grosso calibro. Poiché disponevano di un solo cannocchiale ne richiesero un altro al Siino, appassionato di armi, il quale gli spiegò anche il funzionamento. Non ricordava di avere riferito a quest’ultimo dell’infortunio occorsogli, ma non escludeva che lo stesso potesse averne notato i segni. A fronte di queste precisazioni il Di Maggio sosteneva che il fatto andava collocato nel periodo antecedente l’arresto del Brusca nel 1984, ma non era in grado di precisare se prima o dopo la strage. A domanda del Brusca se fosse stata fatta prima la prova col fucile munito di cannocchiale o quella con il Bazooka, il Di Maggio ha dichiarato: “è prima della prova del Bazooka, perché alla prova del Bazooka tu non c'eri”. Il Brusca a quel punto replicava, precisando : “ eh infatti, siccome non c'ero e siccome le prove delle armi è stata fatta dopo, quindi mi ricordo benissimo, avevo una Suzuki, siamo saliti in montagna con il mio suzukino, che lui l'aveva pure... ne avevamo due, uno lui e uno io, e me lo ricordo benissimo. Lo abbiamo fatto io senza patente, però mi rischiavo di camminare ugualmente”.

Anche dopo questa nuova indicazione del Brusca, il Di Maggio confermava la data in precedenza fornita. Richiesto di specificare il mese in cui sarebbe stata eseguita la prova delle armi, il Brusca ha dichiarato di non essere in condizioni di precisarlo, aggiungendo quanto segue: “Io le posso dire che avevo una Suzuki che mi ha venduto Miceli Giuseppe e che io, per i tre anni di sorveglianza speciale, essendo che evitavo le strade principali, camminavo cioè in mezzo ai vigneti, terreno, cioè prendevo le strade più... più disastrose per evitare posti di blocco, siccome lo ricordo benissimo questa Suzuki l'ho avuta dopo che sono ritornato da Linosa (31/1/1986) in quanto mi hanno ritirato la patente, il fatto è avvenuto nell'87/'88, però non le so dire con precisione quando è avvenuto”. Richiesto di precisare se ricordasse la circostanza della scalfitura al muro di una abitazione sita nei pressi, il Di Maggio ha sostanzialmente confermato la circostanza.( “al muro diciamo di cinta che c'era per portare dentro la casa, quello sì. Ma se è arrivato fino al cancello, quello non mi ricordo….. ho detto ha sfondato il vetro, la lamiera e è andato a finire nel muro”). Per quanto riguarda, infine, i frequenti accompagnamenti nei pressi dell’esercizio commerciale “Gammicchia”, riferiti dal Brusca, il Di Maggio ha dichiarato: “…in quel periodo '82/'83 io diciamo, gli battevo spesso la strada e andavo là, successivamente mi sembra poche volte, forse ci siamo andati da Galatolo. “ no, tutti questi accompagnamenti che sono successi in quel periodo... il periodo per dire dopo l'81, così. Va bene, fino all'84 perché lui era la…”. L’insanabile contrasto tra le dichiarazioni dei predetti collaboratori impone alla corte di valutarne l’attendibilità con particolare attenzione e rigore, tenendo conto dell’eventuale interesse del Brusca a coinvolgere calunniosamente il Di Maggio nella fase preparatoria e quello di quest’ultimo a respingere ogni addebito. Nel rinviare alle dichiarazioni del Brusca in ordine al ruolo del Di Maggio nella preparazione della bombola e della scatola di ferro, nel trasferimento dell’esplosivo a Palermo ed infine in ordine alla sua presenza in c.da Dammusi in occasione di una prova di funzionamento del telecomando, va subito rilevato che sebbene il Di Maggio abbia confessato molti delitti comuni, è plausibile ritenere che egli abbia voluto tacere un così grave reato in danno di uomini delle istituzioni, così come peraltro solo tardivamente aveva ammesso il proprio coinvolgimento nell’attentato contro la villa dell’ex sindaco di Palermo Elda Pucci.

Il DI Maggio, inoltre, mentre collaborava con l’A.G. si riorganizzava nel territorio ritornando a San Giuseppe Jato e commettendo nuovi omicidi. Va inoltre rilevato che se il Brusca avesse effettivamente accusato ingiustamente il Di Maggio dei gravissimi fatti per cui è processo, molto verosimilmente nella successiva fase della sua evoluzione collaborativa avrebbe finito per palesare il vero, così come si è avuto modo di registrare in relazione ad altri episodi in ordine ai quali il Brusca ha ammesso la propria iniziale compiacente reticenza ovvero le false accuse. Ma a prescindere dalle considerazioni di ordine logico sopra svolte, ciò che appare decisivo è il rilievo che in sede di confronto gli argomenti addotti dal Brusca a sostegno del proprio assunto si sono rivelati ben più convincenti, non solo sul piano della costanza e coerenza logica interna della ricostruzione di alcune fasi del comune vissuto criminale, ma soprattutto risultano suffragate da elementi obiettivi che in relazione ad alcuni fatti specifici conferiscono al racconto del Brusca connotati di ben maggiore attendibilità anche alla stregua di valutazioni di ordine logico. Ed invero, il prospettato coinvolgimento del Brusca nel trasporto e nella fornitura di esplosivo al Milazzo Vincenzo per l’esecuzione dell’attentato al dr. Carlo Palermo, commesso il 2/4/1985, non solo non appare suffragato da elementi di riscontro, ma risulta addirittura smentito da alcune circostanze che rendono estremamente improbabile il protagonismo che il Di Maggio gli ha attribuito. È appena il caso di rilevare, infatti, che la verificata insostenibilità della iniziale datazione del fatto - collocato in epoca immediatamente precedente la strage di Pizzolungo, a causa dello stato di detenzione del Brusca dal 29/7/1984 al 14/3/1985, seguito dalla immediata partenza per il soggiorno obbligato nell’isola di Linosa - ha costretto il Di Maggio a retrodatare la condotta attribuita al Brusca al mese di settembre 1984, sostenendo altresì che questi era consapevole che l’esplosivo trasportato sarebbe stato utilizzato per l’attentato al dr. Palermo. Dalla nota del C.S.M. trasmessa in data 12.1.2000, è emerso che quel magistrato aveva presentato la domanda di trasferimento alla Procura della Repubblica di Trapani soltanto il 2.11.1984, sicchè appare evidente che nel settembre del 1984 l’attentato non avrebbe potuto essere già stato programmato, né ovviamente essere pervenuto addirittura ad una fase preparatoria avanzata, in quanto la determinazione del dr. Palermo doveva ancora essere presa. Altra imprecisione che incrina fortemente l’attendibilità del Di Maggio attiene all’epoca del ferimento del Brusca all’arcata sopracciliare mentre effettuava una prova da sparo con un fucile di grosso calibro. Il Di Maggio ha insistito nel collocare l’episodio in epoca antecedente alla strage del dr. Chinnici, correlandolo ad atti preparatori diretti  proprio ad individuare le armi idonee ad eseguire l’attentato in danno del consigliere istruttore, mentre il Brusca ha riferito l’episodio all’anno 1989. Sul punto deve rilevarsi che le indicazioni fornite dal collaboratore di giustizia Siino Angelo, di cui è stato a tal fine disposto un nuovo esame, hanno consentito di verificare positivamente quanto affermato sul punto dal Brusca, atteso che il Siino ha infatti riferito che quelle prove erano finalizzate ad alcune verifiche operative per attentati in pregiudizio dei giudici Falcone e Borsellino. Estremamente significativa appare, inoltre, l’inverosimiglianza dell’assunto del Di Maggio in ordine all’incarico ricevuto dal Brusca di predisporre una bombola di gas, opportunamente modificata e poi non più richiesta dal committente perché non più necessaria, nel tentativo di smentirne l’assunto, atteso che il Brusca, pur ammettendo l’episodio, ha tuttavia fornito plausibili giustificazioni per dimostrare che la richiesta effettivamente rivolta al Di Maggio, in altra epoca, di costruire una bombola rispondente alle caratteristiche tecniche descritte da quest’ultimo era finalizzata alla predisposizione di un “secretaire”, atteso che l’apertura della bombola, recidendo con il flex la parte superiore quasi a farne una sorta di coperchio, la rendeva assolutamente inidonea a qualsiasi utilizzazione per il confezionamento di un ordigno esplosivo per l’impossibilità di collocarvi i detonatori e per la mancanza del necessario “intasamento”.

La “cantata” di Calogero Ganci. La Repubblica il 19 luglio 2020. In relazione alla fase preparatoria ed al pieno coinvolgimento di alcuni componenti del proprio nucleo familiare, facente capo a Ganci Raffaele, un decisivo contributo probatorio è stato fornito proprio dal figlio di quest’ultimo, Calogero, il quale ha consentito di fare piena luce anche sull’apporto operativo fornito da altri coimputati, integrando significativamente le dichiarazioni del Brusca e l’ampia confessione che sarebbe stata resa dal Ferrante Giovan Battista ed Anzelmo Francesco Paolo. Le dichiarazioni di Ganci Calogero non solo hanno consentito di acquisire un contributo di eccezionale rilevanza per la ricostruzione dei fatti, ma hanno altresì permesso di delineare più chiaramente la fase preparatoria dell’attentato, con particolare riferimento all’attività di reperimento e di costante disponibilità dello spazio utilizzato per posteggiare l’auto-bomba, per avervi egli stesso direttamente partecipato, consentendo di chiarire alcune fasi del programma criminoso. Uomo d’onore della famiglia della Noce e figlio di Raffaele, capo dell’omonimo mandamento e fedelissimo alleato di Riina, Ganci Calogero fu ritualmente affiliato a "Cosa Nostra" nel 1980 all’interno di un magazzino sito in Via della Resurrezione, di proprietà di Salvatore Scaglione, apprendendo in quell'occasione che questi era il rappresentante della famiglia mentre “Pippo” Calò, presente, era il capomandamento. [...] Tanto premesso, va rilevato che il contributo probatorio fornito dal Ganci in ordine alla ricostruzione della fase preparatoria della strage appare qualificato da una rilevanza particolarmente significativa. Le dichiarazioni rese e le chiamate di correo effettuate dal Ganci devono ritenersi pienamente attendibili. Ed invero, il suo apporto collaborativo si è contraddistinto per peculiare e rara genuinità, spontaneità, disinteresse, costanza, ricchezza di dettagli, precisione, coerenza logica interna del racconto e incondizionata disponibilità. Come già sopra rilevato, ai fini della valutazione dell'attendibilità' intrinseca, particolare rilevanza deve essere riconosciuta alla ammissione di responsabilità in ordine allo stesso fatto-reato narrato. Sotto tale profilo non può essere sottaciuta la circostanza che il Ganci abbia confessato fatti criminosi tra i più gravi ed efferati dell’ultimo quindicennio di storia criminale del nostro Paese, ai quali egli stesso ha partecipato e per i quali, in taluni casi, non era neppure indagato. Va peraltro rilevato, sotto il profilo del disinteresse, che dagli atti non è dato desumere l'esistenza di qualsivoglia sentimento di astio nei confronti degli accusati, sicchè può fondatamente escludersi che le sue propalazioni accusatorie siano state mosse da propositi di vendetta o, comunque, dalla volontà di danneggiare o calunniare i chiamati. Non può, inoltre, essere sottaciuto che il ruolo rivestito in seno alla famiglia mafiosa di appartenenza e i rapporti intrattenuti con noti personaggi di spicco di "cosa nostra", fra i quali il suo stesso genitore, giustificano la conoscenza da parte del Ganci di una enorme mole di fatti e circostanze specifici concernenti la vita e l'evoluzione dell'organizzazione, segnate dalla commissione di una lunghissima serie di gravissimi fatti-reato, molti dei quali contro l'incolumità individuale. La sua attendibilità, pertanto, risulta suffragata dalla sua lunga militanza operativa in uno dei “gruppi di fuoco” più spietati ed efficienti di “cosa nostra”, sin dal 1980, e, segnatamente, al gruppo che ne ha costituito tradizionalmente la roccaforte ed uno dei gangli vitali. Tutto il racconto, invero, appare qualificato dalla puntigliosa ricostruzione, con dovizia di particolari, di episodi criminosi riconducibili alla spietata strategia criminosa di cosa nostra, ciò che conferisce al racconto stesso anche alla stregua di criteri di razionalità e plausibilità, caratteri di attendibilità, avuto riguardo anche alla accertata compatibilità con le acquisizioni investigative già a disposizione degli organi inquirenti. Alla stregua degli elementi processualmente acquisiti la collaborazione del predetto appare il frutto di una autonoma e spontanea autodeterminazione le cui motivazioni, secondo quanto dallo stesso prospettato sulla base di convincenti argomentazioni meritevoli di apprezzamento sul piano logico, vanno ricondotte ad un processo interiore di revisione critica di precedenti scelte di vita e di recupero progressivo di valori umani e sociali dapprima sacrificati alle ferree leggi vigenti all'interno della organizzazione criminosa di cui faceva parte. Và altresì rilevato che nella vasta gamma degli adeguati riscontri normalmente valorizzati in funzione della valutazione dell'attendibilità intrinseca, una doverosa preferenza deve essere accordata, conformemente ad un costante orientamento giurisprudenziale, al confessato personale coinvolgimento del dichiarante nello stesso fatto- reato narrato, specie in relazione ad episodi criminosi altrimenti destinati all'impunità. In particolare ha reso ampia ammissione, tra gli altri, in ordine gli omicidi di Bontate Stefano ( 23 aprile 1981), di Inzerillo Salvatore ( 11 maggio 1981), del vicequestore Cassarà Antonino e dell'agente Antiocchia Roberto (6 agosto 1985) nonché delle stragi di via Isidoro Carini (nella quale il 3 settembre 1982, venivano uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta), della circonvallazione (in cui il 16 giugno 1982, venivano uccisi il boss catanese Ferlito Alfio, tre Carabinieri e l'autista, durante una traduzione da Enna a Trapani), oltre alla strage di via Pipitone Federico. Quanto, poi, agli specifici fatti per cui è processo, la convergenza di molte chiamate in correità e la sostanziale coincidenza delle propalazioni del Ganci in ordine ad taluni episodi con le dichiarazioni di altri collaboratori coimputati contribuisce a corroborare vieppiù la valenza probatoria del suo apporto probatorio. È appena il caso di rilevare come lo stesso contesto spazio-temporale in cui è maturata la collaborazione del Ganci, ristretto dal giugno 1993, consente fondatamente di escludere ogni ipotesi di collusione o reciproco condizionamento psicologico con altri collaboratori, atteso che il suo proposito collaborativo è maturato in carcere, durante la sottoposizione al rigido regime carcerario previsto dall’art. 41 bis O.P.. Venendo ora agli specifici fatti oggetto del presente processo ed al ruolo avuto dal Ganci, le dichiarazioni rese dal collaboratore possono essere così sintetizzate. L’imputato ha riferito di avere ricevuto l’incarico dal padre e dal Gambino Giuseppe Giacomo di mettersi a disposizione di Antonino Madonia, il quale gli aveva poi indicato l'abitazione del dr. Chinnici sita in via Pipitone Federico, spiegandogli che bisognava tenere uno spazio di posteggio sempre fisso e disponibile davanti la portineria dello stabile ove abitava il magistrato. Aveva appreso, pertanto, anche le modalità dell’attentato che avrebbe dovuto essere eseguito per mezzo di un'auto-bomba. L’incarico gli era stato affidato nella sua macelleria di via Lancia di Brolo, alla presenza dei suoi fratelli Stefano e Domenico e del cugino Anzelmo Paolo, e consisteva nel reperimento di un’autovettura di  piccola cilindrata, “come una 126 ovvero una 500 che avrebbe dovuto essere messa a disposizione del Madonia. Messosi alla ricerca di quel tipo di autovettura, ne fu adocchiata una, modello 126, di pertinenza di un’autoscuola, sita in una via che il collaboratore ha indicato, con qualche incertezza, come via Migliaccia, (“…una cosa del genere, comunque è una strada che congiunge via Lancia di Brolo e via Campolo). È appena il caso di rilevare che trattasi della Via Migliaccio che effettivamente incrocia la Via Campolo, come può agevolmente evincersi dal settore “H4” della pianta della città di Palermo acquisita all’udienza del 29/3/2000, in cui esisteva una autoscuola (cfr.Pianta F.M.B. ). L’imputato ha comunque fornito una dettagliata descrizione della zona e dell’itinerario che in base al senso di circolazione del traffico veicolare bisognava seguire per raggiungere la via in cui era ubicata l’autoscuola, perfettamente conforme alla risultanze planimetriche.(cfr. anche settore “C 9” di altra pianta della città – I.A.C. - allegata agli atti). [...]

Il Ganci ha fornito la seguente descrizione: “ Allora, questo garage era un garage... diciamo, grezzo, le mura erano grezze, tutte in calce, a terra incementato, pieno di pilastri ed era una forma tipo triangolare, diciamo, non... non era retto, ecco; era un garage di circa cinquecento metri quadrati, una cosa del genere”. Ha precisato che vi erano custoditi “macchine e borsoni con le armi” ed era stato usato tante volte “sia per le guerre di mafia e sia per commettere omicidi” come nel caso degli omicidi Dalla Chiesa e Cassarà, in occasione dei quali vi avevano custodito e poi prelevato autovetture e motociclette. Quanto alle targhe, ha aggiunto che : “poi si rubavano due targhe di due macchine diverse, si tagliavano a metà, si attaccavano dietro... si attaccavano... o meglio, si spaccavano le targhe a metà, si attaccavano con della colla, quindi, il bostick e cose varie, e le due targhe unite e si formava una targa nuova…; io mi ricordo pure che nella macchina che poi è stata prelevata, la 126, c'era anche le targhette della scritta autoscuola e queste ci furono tolte, e ci furono messe anche le targhe, come io ho detto, con quel procedimento, mi ricordo pure che ci fu tolta anche la ruota di scorta per fare posto alla bombola del gas”. All’ulteriore domanda circa l’autore del furto della 126 il Ganci ha ribadito l’incertezza del ricordo, trattandosi di una attività molto frequente, e non ha escluso che potesse avervi provveduto lui stesso […]. Il Ganci non è stato in grado di precisare quando venne esattamente rubata l’autovettura rispetto all’attentato, ma ricordava di averla notata “in doppia fila, messa quasi... quasi... quasi vicina. All'autoscuola, accanto c'è la pasticceria Oscar", che loro spesso frequentavamo. […] Riprendendo la ricostruzione dell’attività preparatoria, l’imputato non è stato in grado di precisare quando il Madonia Antonino lo condusse presso lo stabile del magistrato, ma ha riferito che quando giunse davanti la portineria, insieme al cugino Paolo Anzelmo, vi trovò già un’autovettura posteggiata che fu spostata per far posto ad un’altra. In quella circostanza il Madonia disse loro di ripetere una o due volte al giorno quell’operazione per evitare che vi sostasse sempre la stessa autovettura, attività che il Ganci ha riferito di aver svolto un paio di volte insieme al cugino Anzelmo, nel senso che uno provvedeva a spostare quella posteggiata e l’altro collocava nel posto lasciato libero una autovettura diversa. L’attività sopra descritta veniva svolta normalmente la mattina ed all’ora di pranzo in concomitanza con gli orari di chiusura della portineria per evitare di essere notati dal portiere e l’incarico era stato affidato alla sua famiglia, nel senso che vi provvedevano senza una particolare alternanza predeterminata lo stesso Ganci Calogero ed il cugino Anzelmo, ovvero quest’ultimo con Ganci Raffaele ed ancora uno dei suoi fratelli, Domenico o Stefano, precisando che in quel periodo lui lavorava nella macelleria di Via Lancia di Brolo con il fratello Stefano, per cui non si potevano mai assentare contemporaneamente. L’autovettura FIAT 126 rubata era di colore “azzurro chiaro, azzurrino chiaro” e sugli sportelli presentava una targhetta con l’indicazione "autoscuola" e la relativa denominazione. Sull’attività svolta all’interno del garage il Ganci ha riferito quanto segue: “ la macchina fu portata nel garage di Madonia ed io ci cambiai le targhe, mi ricordo, Madonia mi ci fece levare anche la ruota di scorta, ha preso la bombola, e in quell'occasione eravamo io, Brusca Giovanni e Madonia Antonino e, se non ricordo male, anche mio cugino Paolo, anche se, diciamo, non me lo ricordo tanto bene se lui c'era in quell'occasione o no, ... e io notai questa bombola che ci mancava... dove va la manopola del gas...” Dopo avere precisato, a specifica domanda, che la bombola era vuota e di essere entrato nel garage un paio di giorni prima della strage, ha descritto la seguente attività svoltasi all’interno di quel locale : GANCI : - E allora, mi ricordo di preciso che il Madonia chiese al Brusca il funzionamento di come avveniva il contatto per fare avvenire l'esplosione, e il Brusca con questo motorino, perchè era un motorino elettrico, in mano ha indicato, dice: "Lo vedi questo chiodo? Questo chiodo girando su questo asse arriva al punto che tocca un'altra cosa, qui avviene la scintilla e avviene l'esplosione", io mi ricordo anche questo particolare, dottoressa. […] Il Ganci ha inoltre precisato che quando quella mattina si recò per i preparativi della strage nello scantinato e il Madonia chiese informazioni sul motorino, non fu fatta all'interno dello scantinato la prova di funzionamento. […] Dopo avere precisato di non avere partecipato alle operazioni di preparazione materiale dell'auto-bomba, ha chiarito che al fine di effettuare una prova di collocazione della bombola nel vano portabagagli della 126 il Madonia gli chiese di togliere la ruota di scorta perchè “dava impaccio alla bombola”, le cui dimensioni erano quelle del tipo da venticinque chili. La bombola, inoltre, era stata modificata nel senso che era priva della manopola che serve per aprire l’erogatore del gas e “c'era solo il buchetto”. Con riferimento al “giardino” dei Galatolo sito nel “fondo Pipitone”, già citato, il Ganci ha fornito le seguenti ulteriori informazioni e precisazioni: GANCI : - il fondo Pipitone era un luogo chiamato fondo Pipitone dove abitavano la famiglia Galatolo, io le parlo: Enzo Galatolo, Giuseppe Galatolo, (Fontana) Stefano, Galatolo Angelino, Raffaele Galatolo, cioè, sono uomini d'onore della famiglia dell'Acqua Santa che abitavano lì(del mandamento di Resuttana); era un luogo di ritrovo nostro; quando io, per dire, capitava che dovevo cercare a Madonia lo andavo a cercare lì, e quello era un luogo dove, come ripeto, noi  abbiamo usato per tante azioni criminali, ecco, diciamo, attività criminali e... e noi lo chiamavamo "al giardino", però, il giardino si... (intendeva) dire il fondo Pipitone; (vi) si arriva dal... la via dove c'è il cantiere navale e... si arriva alla manifattura tabacchi, ... si prosegue per altri cinquanta metri, sulla sinistra c'è una traversa, si entra in questa traversa e alla fine... quasi alla fine della strada c'è un altro vicoletto sempre sulla sinistra e si accede qua all'abitazione dei Galatolo. Dove c'è un edificio di circa quattro - cinque piani al pianoterra c'è un'entrata, che è tipo... è un garage e da questo garage poi c'è una porticina che si accede a un giardino interno, quindi, all'interno di... alle spalle di questo edificio, dove c'è.. c'è o c'era, non lo so, uno spiazzo di circa un centinaio di metri .. poi c'è un locale ... dove si poteva anche mangiare, c'era un frigorifero, .. un tavolo, un tavolo lungo, una tettoia pure all'esterno, e poi sul lato destro, proprio sul muro di cinta c'è tipo... tipo un bagno.

L’imputato ha precisato che gli incontri e le riunioni avvenivano proprio all’interno di quel locale, dotato di un tavolo con le sedie, fornendone una dettagliata descrizione. Vincenzo Galatolo era il rappresentante della famiglia dell'Acquasanta ed il fondo Pipitone era “il punto di ritrovo del Madonia” sicchè era il luogo dove normalmente lo si poteva cercare. Quanto allo scantinato in cui fu ricoverata la Fiat 126, il Ganci ha precisato di sconoscere a chi fosse intestato, ma era nella disponibilità tanto del Madonia che del Galatolo che ne possedevano le chiavi. Proseguendo nella esposizione dell’attività preparatoria, il Ganci ha riferito che trascorsi un paio di giorni dalle operazioni effettuate all’interno del garage, il Madonia gli diede appuntamento per le tre o quattro del mattino presso il fondo Pipitone dove erano presenti suo padre Raffaele, il Gambino, e Paolo Anzelmo. […] Con riferimento alla prova del telecomando effettuata nel fondo Pipitone, cui il Ganci aveva in precedenza accennato, l’imputato, a specifica domanda del P.M., ha precisato che la stessa aveva avuto luogo “nell'arco di qualche paio di giorni”; […]. Si erano pertanto spostati dal fondo dei Galatolo formando un corteo di autovetture composto come segue : egli era in macchina con il cugino Paolo Anselmo, Nino Madonia con il Brusca ed Enzo Galatolo con un'altra macchina. Giunti all'altezza della traversina che conduceva al garage, il Galatolo, il Madonia ed il Brusca si immisero in detta strada per raggiungere il garage da cui prelevarono la FIAT 126. Il Madonia si mise alla testa del corteo, seguito dalla 126 condotta dal Brusca ed ancora più indietro dal Ganci Calogero e dall’Anzelmo a bordo di altra autovettura, seguiti dal Ganci Raffaele, fino alla via Pipitone Federico. Con riferimento al proprio padre, in sede di controesame, preciserà che nel momento in cui la 126 uscì dal garage lo stesso era presente ma non lo aveva più visto nel momento in cui erano partiti da quel posto verso la via Pipitone Federico; il padre si era poi incontrato con il Gambino in quella traversina dove lo aveva rivisto insieme a quest’ultimo con la R5.( cfr.f.212,ud.17/3) Ha quindi ribadito che il corteo era composto da tre autovetture disposte nell’ordine sopra precisato.(ff.111-112,ud.cit). Ha inoltre precisato che il Galatolo aveva avuto il compito di aprire e richiudere il garage, mentre il Madonia ed il Brusca erano usciti dal garage, rispettivamente, a bordo della sua autovettura e della FIAT 126. Quanto al Galatolo, ha dichiarato di non averlo più visto e che, per quanto a sua conoscenza, era rientrato al fondo Pipitone, escludendo di averlo rivisto nelle ore successive. Richiesto di precisare l’itinerario seguito per raggiungere la Via Pipitone Federico, il Ganci ha dichiarato di avere percorso la Via Ammiraglio Rizzo e giunti in Via Libertà avevano imboccato la via Petrarca o la Via Pirandello; giunti in via Pipitone Federico avevano svoltato all’altezza della “Pasticceria Svizzera” per poi raggiungere l’abitazione del magistrato. […]

Alla specifica domanda su chi avesse provveduto a liberare il posto poi occupato dalla 126 guidata dal Brusca, il Ganci ha fornito la seguente risposta: GANCI “Guardi, io mi ricordo o il Nino Madonia o il Paolo Anzelmo, uno dei due. A quel punto il P.M. ha contestato all’imputato il diverso tenore delle dichiarazioni rese nel verbale in data 12/8/1996(f.13);

P.M. Lei così dichiara: "Il Nino Madonia diciamo si è fermato prima; capisce? Chiaramente si fermò in qualche traversa nei dintorni, ma io non lo so dove lui si è fermato. Quindi che successe? Che noi avevamo il compito di levare la macchina pulita dalla portineria. Non mi ricordo se fui io o fu Paolo a prelevare la macchina davanti la portineria. Nel momento in cui uscì la macchina, lasciò libero il posto, il Brusca si ci infilò e piazzò la macchina, la 126".

GANCI : - ... Io confermo quello (ho detto) nel verbale, però, ripeto, siccome le direttive cioè era... a noi ce le dava il Nino Madonia e come ripeto, mi ricordo anche il fatto che diciamo si sono fermati in questa traversina prima dell'edificio, dove lì... io (ho avuto modo)... ho visto poi il Giuseppe Giacomo Gambino, anche se l'ho intravisto, non mi sono fermato nè a parlare nè a conversare con lui. [… ]

Quanto all’attività di cancellazione di eventuali impronte digitali, il collaboratore ha precisato che il Brusca aveva pulito sia la “parte interna” che la maniglia esterna dello sportello. Non è stato in grado di precisare, stante il tempo trascorso, se il Brusca si fosse allontanato “con la macchina che portava il Madonia, perchè forse era la sua macchina”, ma era certo che si fosse comunque allontanato a bordo di un’autovettura perché poi non lo aveva più visto. Insieme al cugino aveva poi fatto il giro del fabbricato e passando davanti la pasticceria aveva notato Nino Madonia che scendeva dalla cabina di un “Leoncino” di colore rosso - sul cui cassone vi erano “dei bidoni di calce” e “dei tavoloni questi di edilizia” - e dopo qualche minuto lo aveva visto salire sul cassone con un telecomando in mano. Avendo notato che il Madonia aveva allungato l’antenna e, quindi, avendo intuito che tutto era pronto, si era diretto verso la Piazza San Michele, dove c'è l’omonima chiesa, percorrendo la via Pipitone Federico e passando davanti l’edificio del magistrato. Il camion era posizionato sulla via Pipitone Federico, quasi ad angolo con altra via che incrociava la prima, forse la via Luigi Pirandello, o la via Petrarca, ad una distanza dall’auto-bomba di circa 80-100 metri. A specifica domanda sulla posizione esatta del “Leoncino” rispetto alla pasticceria, tenendo presente la direzione di marcia dalla via Libertà verso la chiesa di San Michele, il collaboratore ha dichiarato che provenendo dalla via Libertà e svoltando sulla via Pipitone Federico la pasticceria era ubicata dopo un paio di isolati e quindi a non più di cento metri, mentre il camion era posteggiato, nella stessa direttrice di marcia prima descritta, sulla sinistra proprio davanti le saracinesche della pasticceria stessa, “quasi in doppia fila perchè è più largo di una macchina”, e quindi, dal lato opposto della strada rispetto alla 126 posta sulla destra. Ha ulteriormente precisato di avere notato sul cassone del camion “uno o due bidoni, questi che si usano dove si ci mette la calce ..da 200 litri” ed un tavolone largo una ventina di centimetri con uno spessore di 5 cm, del tipo di quelli usati per erigere i ponteggi quando bisogna eseguire lavori alle facciate dei palazzi; era lungo 4 metri ed era collocato tutto all’interno del cassone “con la punta che usciva verso la cabina del leoncino”. […] Insieme al cugino si era collocato sulla parte più alta della gradinata della chiesa ed in quel frangente aveva notato sopraggiungere il Gambino a bordo della R5 sulla quale, poco dopo, aveva preso posto l’Anzelmo (f.30, ud.17/3) dal quale si era pertanto separato rimanendo al proprio posto ad una distanza di circa 150 metri dall’auto- bomba. Trascorsa all’incirca mezzora, aveva sentito arrivare le macchine di servizio e dopo dieci minuti si era verificata l’esplosione; si era quindi allontanato con il cugino Paolo recandosi in via Lancia di Brolo, dopo essersi fermato per qualche minuto nella macelleria di Via Lo Iacono dove si trovava il padre Raffaele. Precisava che durante la fase di perlustrazione e fino al momento dell’esplosione non si era allontanato da quella zona tranne che, forse, per consumare un caffè in un bar sito all’angolo tra la via Pipitone Federico e la piazza San Michele. Il Ganci ha inoltre riferito che ancor prima della strage conosceva il coimputato Ferrante G.Battista, precisando che, pur avendo avuto “la sensazione che dietro il camion” vi fosse un’altra persona, tuttavia non ne aveva potuto rilevare l’identità perché lui si trovava in macchina. Aveva conosciuto il Ferrante qualche anno prima di quell’estate perché avevano fatto “la guerra di mafia”, partecipando insieme ad altri - tra i quali Biondo “il corto”, Biondo “il lungo”, Biondino Salvatore, Buffa Salvatore e Buffa Giuseppe – all’omicidio di tale Nicoletti, uomo d’onore di Partanna Mondello, nel novembre del 1982. Con lo stesso Ferrante avevano partecipato ad altri gravissimi fatti tra i quali la strage di Capaci, “quella della Circonvallazione e quella di viale Croce Rossa”(omicidio del dr.Cassarà). L’imputato ha riferito di avere avuto la piena consapevolezza del progetto criminoso e dell’impiego della 126 per l’attentato nel momento in cui aveva notato la bombola di gas vuota ed aveva sentito parlare tra loro il Brusca ed il Madonia. Invitato a precisare i tempi delle fasi dell’operazione, il Ganci ha dichiarato che l’attività di periodica sostituzione delle autovetture “pulite” davanti l’abitazione del magistrato, alla quale lui aveva partecipato due o tre volte, era iniziata qualche settimana prima della strage e che il furto dell’autovettura era già stato consumato; sul punto, tuttavia, non ha escluso di ricordare male[…].

La “famiglia” della Noce. La Repubblica il 20 luglio 2020. Anzelmo Francesco Paolo rivestiva il ruolo di vice rappresentante della “famiglia” della Noce, la quale, prima del 1983, faceva parte del mandamento di Porta Nuova il cui rappresentante era Calò Giuseppe. Nel novembre del 1982, conclusasi con la vittoria della fazione corleonese la fase più acuta della c.d. seconda guerra di mafia,  all’interno di Cosa Nostra si era proceduto alla ricostituzione delle “famiglie”, con nuovi assetti nelle cariche di vertice, con particolare riferimento a quelle famiglie i cui capi erano stati in precedenza schierati con la c.d. mafia perdente. Ganci Raffaele, da sempre legato da solidi rapporti di amicizia a Riina Salvatore, di cui ha sempre costituito uno dei più fedeli alleati, era stato eletto rappresentante con votazione unanime degli “uomini d’onore” della “famiglia” della Noce, mentre l’Anzelmo era stato nominato suo vice. Nel gennaio del 1983 la fedeltà del Ganci era stata premiata con l’attribuzione allo stesso della carica di capomandamento, essendo stata la “famiglia” della Noce scorporata dal mandamento di Porta Nuova. La stretta vicinanza dello Anzelmo ad uno degli uomini d’onore che maggiormente aveva contribuito all’attuazione ed affermazione della strategia criminale perseguita dal Riina ne aveva ben presto comportato il coinvolgimento in alcuni dei più efferati delitti che avevano rappresentato l’esempio più evidente della strategia di attacco alle istituzione, fra i quali gli omicidi del Capitano dei Carabinieri D’Aleo e del Commissario Cassarà, nonché la c.d. strage della Circonvallazione  di Palermo, in cui vennero uccisi il boss catanese Ferlito Alfio e gli uomini addetti alla sua traduzione dal carcere, e l’omicidio del Generale Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo. Oltre a riferire su fatti costituenti reato, con numerose chiamate in reità e correità, l’Anzelmo ha fornito un notevole contributo informativo in ordine alla consistenza del proprio patrimonio mobiliare ed immobiliare, con particolare riferimento ai beni di provenienza illecita, intestati a prestanomi, non solo di sua pertinenza ma anche appartenenti ai componenti della famiglia Ganci (Calogero. Mimmo, Raffaele e Stefano Ganci), consentendo l’adozione di provvedimenti di sequestro.

Ha inoltre riferito notizie probatoriamente rilevanti sul conto di imprenditori vicini a “cosa nostra” ed in genere su fatti di criminalità economica ed imprenditoriale. Nel quadro di una complessiva valutazione della personalità dell’Anzelmo e di alcuni profili della sua attendibilità intrinseca non può peraltro essere sottaciuto che al momento della decisione di collaborare il predetto rivestiva la posizione processuale di imputato nell’ambito del c.d. processo “Agrigento” in cui era stato colpito da provvedimento restrittivo per associazione mafiosa ed una “scomparsa”(c.d. lupara bianca), ma la sua collaborazione era stata decisiva perché lo stesso Balduccio Di Maggio, per le particolari modalità di quel sequestro di persona non avrebbe potuto chiamarlo in correità anche per l’evento letale, sicchè il quadro probatorio era tale da consentirgli apprezzabili margini di difesa. […] Ha inoltre precisato che nell'ambito del processo “Agrigento”- definito nei suoi confronti con sentenza di condanna frattanto divenuta irrevocabile perché da lui non appellata - prima di rendere l'esame dibattimentale non aveva avuto modo di conferire con il proprio difensore e che dall’inizio della collaborazione fino al momento della revoca della misura cautelare era trascorso più di un anno, nel corso del quale(dal 12 luglio '96 al 14 agosto del 1997) era rimasto “chiuso in una stanza da solo”, priva di finestre, senza poter vedere “nemmeno il cielo” e senza alcun contatto umano tranne che con gli agenti di  custodia perchè era ospitato in una struttura destinata esclusivamente a lui. Quanto poi agli altri gravi episodi delittuosi confessati, ed in particolare ai fatti omicidiari (cap. D’Aleo, dr. Cassarà, strage della circonvallazione) l’Anzelmo non era stato chiamato in causa da altri collaboratori. Ha inoltre dichiarato che mentre era a conoscenza della collaborazione del Ganci, per esserne stato informato preventivamente dallo stesso, nulla era in grado di riferire in ordine ai tempi della collaborazione del Ferrante né in particolare se avesse iniziato a collaborare prima di lui. La scelta collaborativa dell’Anzelmo, maturata, come sopra ricordato, poco dopo quella del Ganci, è stata contraddistinta da un rilevante contributo probatorio fornito proprio in ordine ai delitti sopra citati. Sebbene non possa disconoscersi che la decisione del cugino dovette esercitare una indubbia influenza sulla scelta dell’Anzelmo, ciò non ne incrina affatto l’autonomia del patrimonio conoscitivo e la rilevanza del contributo probatorio fornito nel presente processo. Ed invero, mentre da una parte la sua collaborazione appare contraddistinta da una innegabile disponibilità incondizionata a confessare i crimini più efferati senza atteggiamenti riduttivi in ordine alla propria responsabilità, dall’altra, il breve incontro con il Ganci, sopra ricordato, prima dell’inizio della loro collaborazione, non può certamente averne compromesso l’autonomia, attesa l’ampiezza della collaborazione su un rilevante numero di fatti criminosi ed in particolare la circostanza che l’Anzelmo nulla ha riferito in ordine alla preparazione delle stragi del 1992: ciò che depone univocamente per l’assenza di pedissequa ripetitività rispetto al racconto di altri collaboratori. Anche il quadro ricostruttivo della fase esecutiva della strage offerto dall’Anzelmo appare qualificato, ad avviso della corte, da indubbi connotati di originalità e specificità che depongono per la provenienza delle informazioni fornite da un patrimonio di conoscenze proprio del collaboratore, non essendo ravvisabile, anche alla luce della ricostruzione fornita dagli altri coimputati, un mero recepimento manipolatorio del racconto degli altri protagonisti della stessa fase. La mancata partecipazione dell’Anzelmo alle fasi organizzativa ed esecutiva delle stragi di Capaci e di via D’Amelio non appare in contrasto né con l’importanza del suo ruolo all’interno del mandamento della Noce né con la sua vicinanza a Ganci Raffaele, ove si consideri che il grave effetto disarticolante prodotto all’interno della rigida e monolitica struttura dell’organizzazione dal fenomeno della “collaborazione” indusse i vertici della stessa ed in particolare il Riina ad introdurre la regola di una sempre più ferrea “compartimentazione” dei ruoli di ciascuno dei partecipanti a un disegno criminoso. Anzelmo ha dichiarato di essere stato “combinato” nel marzo-aprile del 1980 nella famiglia della Noce in una proprietà di Salvatore Scaglione, che all'epoca era il rappresentante, insieme ad altri sette: Mimmo Ganci, Pippo Spina, Franco Spina, Totò Severino, Enzo (Mistreri) e Aurelio Sciarabba. A quell’epoca la famiglia della Noce era aggregata al mandamento di Porta Nuova, con a capo Pippo Calò che era anche il rappresentante dell’omonima famiglia. L’Anzelmo apparteneva ad un famiglia di sangue mafiosa in quanto i fratelli del padre, Rosario e Vincenzo, erano tutti uomini d’onore e vi erano anche rapporti di parentela con la famiglia Ganci in quanto lo zio Anzelmo Rosario (capodecina), fratello del padre, Giuseppe, aveva sposato Spina Caterina, sorella di Spina Giuseppina, moglie di Ganci Raffaele. […] Dopo avere illustrato i periodi di detenzione ha riferito di avere ucciso nel 1984, per ordine di Ganci Raffaele, lo zio, Anzelmo Salvatore, fratello del padre, perché aveva iniziato a collaborare, reato per il quale venne tratto in arresto il 7 marzo del 1989 in esecuzione di un mandato di cattura del 1986 dopo un lungo periodo di latitanza. L’omicidio era stato consumato a casa della vittima dove erano presenti alcuni familiari, uno dei quali dapprima aveva fornito elementi a suo carico che aveva poi ritrattato. Dopo diciotto mesi di custodia cautelare, infatti, venne prosciolto per non aver commesso il fatto e scarcerato il 7 settembre del 1990; rientrato a Palermo venne arrestato per l’ultima volta il 10 giugno del 1993 insieme a Ganci Raffaele e Ganci Calogero nell’ambito della "Operazione Corleone", il cui processo venne poi chiamato "Agrigento" dal nome del capolista. Nel 1995, durante la detenzione, a seguito della riapertura delle indagini per l’omicidio dello zio, venne raggiunto da un nuovo provvedimento restrittivo. Richiesto di chiarire i motivi della scelta collaborativa, l’Anzelmo ha dichiarato quanto segue:

P.M. - Lei quando ha iniziato a collaborare?

ANZELMO - Io a luglio '96.

P.M. - Ci sono stati dei motivi particolari che l'hanno indotta a collaborare?

ANZELMO - Sì, ci sono stati, diciamo, dei motivi particolari, perchè... ho maturato questa decisione, principalmente diciamo per... perchè io venivo da questa famiglia mafiosa e quindi da piccolo avevo vissuto quest'aria, cioè non è che potevo diventare ingegnere. E questo dovevo diventare perchè... fin da bambini i miei zii, anche mio padre, per dire, che non era uomo d'onore però diciamo c'era questa avversità con le Forze dell'Ordine, e quindi diciamo che ho vissuto diciamo in questo clima ed era una cosa naturale che io sarei finito per come sono finito. E quindi diciamo che poi cominciai a pensare, diciamo, dopo, quando mi hanno arrestato, cominciai a pensare a mio figlio Pippo, che porta il nome di mio padre, e... io a mio figlio lo avevo fatto crescere mentre che c'ero io in libertà, diciamo, in una gabbia dorata, fuori di tutto, senza... invece ora, venendo a mancare io, pensavo che mio figlio sarebbe stato avvicinato dai parenti e magari diciamo portato, diciamo, in una via diversa di quella che io ci stavo insegnando, visto che avevo fatto questa esperienza, che c'ero entrato io in questa storia. E poi diciamo perchè non... in poche parole, non mi ci riconoscevo più in questa situazione,  ma la cosa principale è stata questa del mio bambino che non volevo che...Quando sono stato arrestato io nel '93 mio figlio aveva 11 anni, quando nel '96 già ne aveva quasi 15. Quindi diciamo che l'età era quella già da cominciare a tenerlo d'occhio e quindi io, se c'ero io fuori, sicuramente magari potevo fare qualche cosa ma essendo in carcere io che potevo fare? E quindi questa situazione non mi faceva dormire la notte, avevo gli incubi; poi - le ripeto - non mi ci riconoscevo più. Poi ho visto pure al processo "Agrigento" la videoconferenza di Santino Di Matteo che si scagliava contro Giovanni Brusca per il discorso di suo figlio e quindi diciamo... ho detto, và...

P.M. : - Perchè lei non si riconosceva più in "Cosa Nostra"?

ANZELMO : - Perchè... non... non mi ci riconoscevo più perchè vedevo diciamo che non c'era più... più nessuna cosa, và, anche questo... questo fatto del figlio di Santino Di Matteo, del bambino; cioè io, io per dire, quando mio zio collaborò e si decise.…... che doveva morire mio zio Salvatore, io se volevo mi potevo pure rifiutare, per dire, và, "Zù Raffaele, mandiamoci a un altro" e invece io no, ci sono andato io propria perchè sapevo che a casa di mio zio c'erano i bambini e se ci andava un altro non è che sapevo quello che faceva; io, invece, a rischio di andarmi a prendere l'ergastolo, ci sono salito io in casa di mio zio, davanti a mia zia, davanti ai miei cugini e ai miei cuginetti e ci ho sparato io a suo padre proprio per... per evitare diciamo di... di toccare i bambini; i bambini che colpa avevano? Che c'entravano i bambini? Non è che a me Ganci Raffaele mi impose che ci dovevo andare io.

P.M. : - Senta, la sua collaborazione è precedente o successiva a  quella di Calogero Ganci?

ANZELMO : - No, successiva, anche perchè io con Calogero Ganci, proprio in virtù dei discorsi che noi avevamo in carcere, perchè mentre che eravamo detenuti, eravamo messi pure nella stessa cella, per certi periodi diciamo, qua, nel processo "Agrigento", per i discorsi che avevamo avuto e lui lo vedeva che io ero stanco, lui mi mandò a chiamare per dire: "Vedi che io sto collaborando", però io in quel momento, preso alla sprovvista, ci dissi: "No, lasciami stare a me", anche perchè prima dovevo avere pure la certezza se mia moglie e i miei figli mi seguivano, sennò se io... mia moglie e i miei figli non... non mi seguivano, io non... non li mettevo diciamo in difficoltà a mia moglie e i miei figli.” [...]

Ma in realtà il lento processo interiore di revisione critica di precedenti scelte di vita, con particolare riferimento ai fatti omicidiari, aveva già cominciato a manifestare i primi segnali di disagio durante un periodo di detenzione nel 1989. Ed infatti, dopo avere riferito che l’ultimo omicidio commesso per conto di “cosa nostra” risaliva al 1987- duplice omicidio Caccamo – Gallarate – l’Anzelmo ha dichiarato quanto segue:

ANZELMO : - No, poi a me, diciamo, nel... il 7 marzo dell'89 mi hanno arrestato, perchè io, come ho detto, ero latitante e io sono stato detenuto per diciotto mesi, perchè sono stato scarcerato il 7 settembre del 1990, e mentre che ero detenuto avevo detto in me e me che non dovevo uccidere più nessuno; basta, ero... non dovevo uccidere più. Infatti poi, quando io sono stato scarcerato, nel '91, Ganci Raffaele mi mandò un appuntamento da... dal cugino di Totò Cancemi, qua, da Carmelino Cancemi, che c'ha un deposito di... che lui fa lavori di sbancamento qua, vicino al "Baby Luna", una mattina presto, e là, diciamo, io trovai a Ganci Raffaele, a Totò Cancemi, Ciccio La Marca, Giovanni Brusca, Santino Madonia, Giuseppe Graviano, Pietro Salerno e qualche altro, e dovevamo andare a commettere un omicidio ai danni di un alcamese, che in quel periodo c'era questa situazione di Alcamo, che si doveva andare a visitare, perchè forse era rimasto ferito in un precedente attentato; si doveva andare a visitare al civico e ci dovevo sparare io e Ciccio La Marca, e gli altri, diciamo, servivano come copertura. Fortunatamente quel giorno non arrivò questo e quindi si rinviò l'appuntamento per... fra quindici giorni. Io, forte di quella promessa che avevo fatto e sapendo che fra quindici giorni mi sarei dovuto presentare là, sono partito, me ne sono andato a Merano, nel Veneto, e mi sono andato a ricoverare che c'ho una lussazione nella spalla, dove per un... perchè avevo fatto questa promessa che non dovevo uccidere più a nessuno. E quindi, diciamo, non... in quell'appuntamento poi io ero ricoverato, non so pure nemmeno come finì.

P.M. : - Ma com'era maturata questa sua intenzione durante il periodo di detenzione di non partecipare più ad omicidi?

ANZELMO : - E perchè non avevo... non ne volevo... cercavo il modo possibile di... di tirarmi fuori, anche se non è che era facile tirarsi fuori, però ne avevo fatti tanti, tanti ne avevo fatto, tantissimi.

P.M.: - Lei questa sua, diciamo, decisione o questa sua volontà la comunicò in qualche modo a qualcuno?

ANZELMO : - No, assolutamente, assolutamente.

P.M. : - Ma a lei è stato chiesto di attivarsi in qualche modo per le stragi del '92? Mi riferisco alla strage in danno del dottor Falcone e a quella in danno del dottor Borsellino.

ANZELMO : - No, no, io non... non c'entro niente, e meno male.

P.M. : - Ma lei in quel periodo era a conoscenza di eventuali attività di altri appartenenti alla famiglia della Noce o era stato tenuto, diciamo, al di fuori da questa situazione?

ANZELMO : - No, io diciamo che poi, dal '90 in poi, quando sono stato scarcerato, mi sono occupato più che altro degli... degli affari della famiglia, che curavo gli interessi con i costruttori dove noi eravamo interessati, e quindi diciamo che per questa situazione Ganci Raffaele non mi chiamò, anche se per la strage di Capaci lui sapeva che io avevo un lavoro... stavo facendo un albergo a Terrasini e lui mi disse di... di non prendere l'autostrada. [...]

Sui tempi della collaborazione rispetto a quella del cugino Ganci Calogero e del Ferrante, che lo precedettero sia pur di poco tempo, e sulla eventuale conoscenza dello loro dichiarazioni, l’Anzelmo ha dichiarato:

ANZELMO : - “No, ma io non lo sapevo che collaborava Ferrante Giovan Battista. Non lo so quando quando cominciò a collaborare Ferrante Giovan Battista”.

Ha decisamente escluso di avere avuto la possibilità di conoscere, anche sulla base di resoconti giornalistici, il contenuto delle dichiarazioni rese dai predetti sui fatti più gravi: ANZELMO: - No, ma forse non mi sono spiegato. Io di Giovanni Ferrante, l'ho saputo dopo che collaboravo io che lui collaborava. Io non è che sapevo che lui collaborava, Giovanni Ferrante. Anche, anche perchè non so quando cominciò lui a collaborare Ferrante. Io, io ho collaborato a luglio, lui non lo so quando iniziò a collaborare”.

Quanto al Ganci ed alla conoscenza delle sue dichiarazioni sulla strage per cui è processo, ha precisato : ANZELMO: - No, come facevo...? Cioè, non è che avevo ricevuto niente io. Non avevo... non è che avevo io... che avevo ricevuto mandato di cattura, io niente avevo ricevuto”.

Sul ruolo rivestito in seno al mandamento il collaboratore ha dichiarato di essere stato nominato sottocapo della famiglia della Noce nel dicembre 1982, precisando che nel 1987, dopo l’arresto di Ganci Raffaele, aveva retto il mandamento per circa un anno insieme a Ganci Domenico, senza tuttavia assumere formalmente alcuna carica. Ha spiegato che quella di sottocapo non è una carica elettiva, perchè venivano eletti solo il rappresentante e il consigliere, mentre il sottocapo era scelto dal rappresentante quale persona di sua massima fiducia. Nel caso di specie, poiché la famiglia Ganci esprimeva già il capomandamento, Ganci Raffaele per una precisa regola interna non poteva nominare uno dei suoi figli e, pertanto, aveva nominato l’Anzelmo che aveva sempre trattato quasi come un figlio. Appare opportuno, a questo punto, al fine di introdurre il tema della fase esecutiva e del ruolo svolto dall’imputato in esame, accennare brevemente, anticipando quanto sarà più diffusamente esposto nella parte dedicata alla fase deliberativa, alle modalità delle riunioni del massimo organo deliberativo di cosa nostra, la commissione provinciale.

L'ordine partito dalla macelleria dei Ganci. La Repubblica il 21 luglio 2020. L’Anzelmo ha dichiarato che dette riunioni venivano tenute in vari luoghi, ed in particolare “ a Dammusi, a San Giuseppe Jato, a borgo Molara da Raffaele Ganci, a San Lorenzo”. Ha aggiunto che nei primi periodi le riunioni si facevano in forma plenaria; a seguito delle dichiarazioni di Buscetta e dei mandati di cattura che seguirono si era evitato, per ragioni di sicurezza, di concentrare troppe persone in uno stesso luogo e si era preferito procedere a gruppi in giorni diversi con modalità tali che comunque era assicurato il pieno coinvolgimento di tutti i componenti. Nel periodo della strage che ci occupa, vale a dire nel 1983, (“quando ci fu il fatto del dottore Chinnici”) le riunioni avvenivano in forma plenaria. Alla domanda se avesse avuto modo di constatare personalmente la partecipazione di tutti i capimandamento alle riunioni, l’Anzelmo ha fornito la seguente risposta:

ANZELMO : - Ma per quelle che io mi ricordo sì.

P.M. : - Lei come mai ha potuto constatarlo?

ANZELMO : - E perchè diciamo che quando c'erano queste riunioni, per dire, si svolgeva la riunione, che le voglio dire, a borgo Molara da Ganci Raffaele, e noi eravamo là e lo andavamo a prendere e lo portavamo, per dire, nella sede, diciamo, qua a borgo... a borgo Molara, per dire; e a noi ci potevano dare l'incarico, per dire, di andare a prendere a Pippo Calò per portarlo a borgo Molara, Pippo Calò e ce lo portavamo. Quindi è per questo. Poi ci eravamo presenti anche là a livello che 'u zì Raffaele, per dire, poi ci diceva a noi: "Fate 'u cafè", oppure restavano a mangiare là e quindi accendevamo il fuoco e si arrostiva. Questa era la situazione, perchè noi non è che avevamo nessun titolo per entrare là dentro e partecipare alla riunione.

P.M.: - Le è mai capitato di conoscere qual era stato l'argomento oggetto della riunione?

ANZELMO : - No, io poi le cose le apprendevo da Ganci Raffaele. Sì, specialmente trattandosi di queste cose poi c'era Ganci Raffaele, per dire, che me lo diceva. A livello, per dire, quando ci fu la situazione del dottore Cassarà mi disse: "Noi ci dobbiamo interessare del dottor Cassarà; gli altri ciacuddari si interessano di 'u dutturi Montana", cioè perchè qua fu una cosa quasi in contemporanea. Altrettanto poi fu per il dottore Chinnici: lui mi disse quello che dovevamo fare e quello che non dovevamo fare.

P.M. - Ecco, ricorda, se riesce a ricordarlo ovviamente, che cosa le disse con riferimento a Chinnici il Ganci Raffaele?

ANZELMO : - Niente, il Ganci Raffaele fu in macelleria, io mi ricordo, questo discorso che lui ce lo portò.

P.M. : - No, lei parla della fase esecutiva?

ANZELMO : - No, io parlo della fase, diciamo, di quando fu messo al corrente che doveva essere ucciso il Consigliere Istruttore Chinnici.

P.M. : - Sì, su questo ora ci torneremo, perchè dobbiamo poi affrontare la fase esecutiva organicamente. Le chiedevo: lei è a conoscenza di una riunione nel corso della quale si deliberò di uccidere il dottore Chinnici?

ANZELMO : - No, io se ci... quando fu questa riunione non la so, dottoressa.

P.M.:- Quando e ad opera di chi lei per la prima volta sente parlare del progetto di uccidere il dottor Chinnici?

ANZELMO : - Io la prima volta ne sento parlare da Ganci Raffaele, un quindici - venti giorni prima, mentre eravamo in macelleria qui, in via Lancia di Brolo, che a quell'epoca la gestiva Calogero Ganci e Stefano Ganci, perchè Mimmo Ganci stava nell'altra macelleria di via Lo  Iacono, lui ci mette a conoscenza di questo progetto e ci dice che il nostro compito è solo quello di prendere il posteggio e di rubare una macchina di piccola cilindrata: o una Cinquecento o una 126. E quindi, diciamo, io qua vengo a conoscenza di questa situazione.

P.M. : - Volevo innanzitutto capire se questa macelleria di via Lancia di Brolo veniva utilizzata normalmente per questo tipo di incontri e per questo tipo di discorsi da voi componenti della famiglia.

ANZELMO : - Sì, sì, a voglia. Sì, era punto di incontro; a voglia.

P.M.: - Mi dica una cosa: lei riesce a ricordare con precisione i presenti a quella conversazione?

ANZELMO: - Io, Ganci Raffaele sicuro, Calogero e Stefano. Mimmo no, Mimmo no, Mimmo... non lo ricordo a Mimmo.

P.M. : - La presenza di Calogero Ganci e di Stefano Ganci la ricorda con certezza?

ANZELMO: - Sì, diciamo che è sì, anche perchè poi questa situazione l'abbiamo svolta insieme.

P.M. : - In questa circostanza vi viene già specificato... le viene già specificato a che cosa doveva servire quell'attività di procurare il posteggio e chi doveva essere vittima dell'attentato?

ANZELMO : - Sì, a me, le ripeto, io in questa circostanza venni messo a conoscenza del progetto di uccidere il dottore Chinnici e le ripeto che il nostro compito era quello di prendere il posteggio e di posteggiare la macchina. Invece poi anche all'epilogo io sono stato presente poi.

P.M. : - Raffaele Ganci in quella circostanza vi disse quando dovevate rubare la macchina?

ANZELMO : - No, lui in un primo momento ci disse che i nostri compiti erano questi, ma la cosa principale che dovevamo fare era quella di riuscire a prendere il posteggio, la prima cosa che si doveva fare.

P.M. : - E per quanto riguarda il furto?

ANZELMO : - Di cominciare, diciamo, a vedere di potere trovare una macchina, cioè di tenerla sott'occhio una macchina per vedere il momento in cui si sarebbe dovuta prendere, così si poteva prendere. Già noi avevamo sott'occhio la macchina, questo era il discorso. Ma la cosa principale in quel momento era quella di riuscire a prendere il posteggio sotto l'abitazione del dottore Chinnici.”

In ordine a quest’ultima attività l’Anzelmo ha riferito che l’incarico era stato assunto proprio da lui e dal Ganci Raffaele, precisando che nei primi giorni era stato impossibile occupare il posto per la costante presenza di macchine posteggiate e per l’impossibilità, per ragioni di prudenza, di “stare là tutto il giorno .. così, a girare a zonzo, ... con il rischio di essere notati”. Dopo avere precisato, a specifica domanda, di essersi recato per la prima volta sotto l’abitazione del magistrato accompagnato dal Ganci, che evidentemente conosceva il posto, l’Anzelmo ha continuato la sua narrazione riferendo che dopo un paio di giorni di vani tentativi avevano notato, proprio davanti l'ingresso dello stabile del dr. Chinnici, la presenza di un camioncino semiscoperto di una ditta di trasporti, sul quale figurava scritto un numero di telefono ed un indirizzo corrispondente ad una via, forse sita all’angolo con la via Pipitone Federico. A quel punto, “alzando l'ingegno”, avevano pensato di telefonare a quel numero ed alla interlocutrice che aveva risposto lo stesso Anzelmo si era qualificato come potenziale cliente, richiedendo l’invio del furgone per trasportare una lavatrice che assumeva di avere comprato presso la ditta Migliore, sita nei pressi del cinema ''Jolly'' e della stazione Notarbartolo. Avendo la ditta aderito alla richiesta, non appena il furgone lasciò il posto fu possibile al Ganci piazzarvi un’autovettura “proprio davanti l'androne….di dove scendeva il Consigliere Istruttore Chinnici”. (cfr.f.92).

In relazione alle dimensioni dello spazio da occupare, l’Anzelmo ha precisato che il Ganci aveva dato delle precise indicazioni nel senso che doveva trattarsi di un posteggio in grado di contenere un’autovettura a quattro sportelli; invitato a chiarire come ciò si conciliasse con l’indicazione di rubare un’autovettura di piccola cilindrata del tipo Fiat 500 o 126, l’Anzelmo ha fornito la seguente risposta:

ANZELMO : - Certo, il motivo era che noi, prendendo il posteggio con la macchina quattro sportelli, eravamo sicuri così che la macchina... posteggiando poi la macchina, o la Cinquecento o la 126, ma in questo caso poi fu la 126, perchè noi rubammo poi una 126, eravamo sicuri che il cofano davanti andasse a finire propria dove... dove doveva passare il Consigliere Istruttore Chinnici; cioè, la buttavamo più indietro possibile in modo che il cofano rimaneva là. Avevamo lo spazio, cioè, in poche parole, per poterla posteggiare per come doveva andare posteggiata. Non so se mi sono spiegato.”

Il collaboratore non è stato in grado di ricordare quale fosse il tipo di autovettura che aveva occupato per prima quello spazio lasciato dal furgone; ha comunque precisato che tutte le autovetture utilizzate a quel fine erano “pulite”, cioè non di provenienza furtiva, a quattro sportelli e per evitare di destare sospetti e far sì che fossero sempre diverse, se necessario, ne chiedevano in prestito qualcuna. Avevano avuto, inoltre, l’accortezza di spostare e sostituire ogni giorno le autovetture senza orari prestabiliti, adempimento che veniva curato di volta in volta da due persone – una per spostare l’auto dal posteggio e l’altra per occupare subito il posto - esclusivamente appartenenti alla famiglia della Noce ed in particolare da lui stesso, da Raffaele, Calogero e Stefano Ganci e, forse, qualche altro.( “solo noi della Noce, non ci ha messo mano nessuno”). Questa attività si era protratta per circa “sei, sette, otto giorni”, fino a quando Ganci Raffaele non disse loro che si poteva rubare la macchina di piccola cilindrata.

A specifica domanda ha dichiarato che nel periodo in cui unitamente ai fratelli Stefano e Calogero Ganci si erano attivati per la “conservazione del posteggio”, tutti e tre erano ben consapevoli delle finalità dell’operazione e dell’obiettivo da colpire. (cfr.ff.27-28,ud. 9/3/1999). In ordine al ruolo svolto in questa fase da Mimmo Ganci, l’Anzelmo ha ribadito di essere sicuro che il predetto non fosse presente nel momento in cui Ganci Raffaele nella macelleria di via lancia di Brolo aveva dato le disposizioni sopra ricordate né in occasione delle sostituzioni delle autovetture. […] Ha inoltre precisato che l’ordine di rubare l’autovettura era stato dato “fra i due e i quattro giorni prima dell'attentato” e Ganci Raffaele ne aveva parlato proprio con lui. (“Ne parlò con me e io ci sono andato con Stefano a rubare la macchina. La... la rubò lui la macchina”). Non ha escluso che fossero presenti Calogero e Stefano; era certo comunque della propria presenza e del fatto che poi lui stesso era andato a rubare l’auto con Stefano Ganci, collocando il furto fra i due e i quattro giorni prima dell'attentato (“l'abbiamo rubata quasi all'ultimo la macchina”).

Alla specifica domanda in ordine all’intervallo di tempo intercorso tra l’ordine e la materiale esecuzione del furto, l’imputato ha ribadito quanto segue: ANZELMO : - Ma noi quando Ganci Raffaele ci dà l'incarico noi ci mettiamo subito, diciamo, alla ricerca di potere prendere questa macchina e quando, diciamo... ora le ripeto, non posso essere preciso se fu due giorni prima o tre giorni prima, o quattro giorni prima. Noi ci mettiamo in condizione e gli rubiamo questa macchina. La troviamo posteggiata là con le chiavi inserite nel cruscotto e ce le portiamo. Però le ripeto, non posso essere più preciso, non mi ricordo, diciamo, se sono due - tre giorni, quattro giorni prima di rubare... di... dell'attentato.”

L’imputato ha anche chiarito le ragioni per le quali Stefano Ganci aveva ritenuto che fosse opportuno asportare proprio quell’autovettura da lui notata, precisando che la stessa si presentava “sempre con le chiavi inserite nel cruscotto e questa era la cosa che ( “a noi”) interessava”. […] Il collaboratore ha aggiunto che il furto era stato commesso “fra le (ore) undici e le dodici” e che l’autovettura era posteggiata in doppia fila con le chiavi appese, precisando altresì che quel giorno la stessa era stata utilizzata per fare scuola guida in una traversa di via Leonardo Da Vinci, la via Galileo Galilei, circostanza da loro notata in quanto avevano dovuta seguirla per poi approfittare del momento in cui, rientrata, era stata lasciata incustodita, in doppia fila e con le chiavi inserite. A seguito di sollecitazione del ricordo (verb.23/7/1996) confermava che il colore dell’autovettura rubata era verde.

L’imputato ha così riferito la fase successiva: “Stefano è sceso dalla macchina, quella pulita, si è messo alla guida; io mi sono messo davanti, poi l'ho passato, e siamo andati dove c'è il cinema "Jolly", in questa via, via Di Maria. C'era... c'è pure una traversa che non spuntava all'epoca, ora non lo so se spunta, comunque era… credo che non spunta, perchè c'era la ferrovia, e abbiamo lasciato la macchina qua. Siamo andati da Pino Di Napoli, che aveva l'officina di elettrauto in una traversa di via Terrasanta; l'ho fatto venire e c'ho fatto levare, diciamo, le tabelle della scuola guida. L'abbiamo chiusa e ce ne siamo riandati in macelleria. Ce l'ho detto a Ganci Raffaele, mi sono incontrato con Ganci Raffaele, che avevamo preso la macchina; siamo andati a riprenderla questa macchina e ce la siamo andati a lasciare ad Enzo Galatolo, dicendoci: "Questa è per il dottore". Il dottore è Nino Madonia”. […] Dopo avere ribadito che fino alla via Generale Di Maria la Fiat 126 era stata condotta da Stefano Ganci, ha precisato che anche lui successivamente aveva avuto l’opportunità di guidarla quando l’aveva portata dal Galatolo. L’Anzelmo ed il Ganci Stefano erano quindi rientrati nella macelleria di via Lancia di Brolo ed avevano atteso l’arrivo di Ganci Raffaele - con il quale erano soliti incontrasi in quell’esercizio commerciale – informandolo che avevano rubato l’autovettura e che il Di Napoli aveva tolto le insegne. L’Anzelmo ed il Ganci Raffaele si erano quindi recati nel posto in cui la 126 era stata lasciata ed ivi giunti, come precedentemente concordato, il primo si era messo alla guida dell’utilitaria ed aveva seguito il Ganci che gli batteva la strada con altra autovettura fino a casa del Galatolo presso il quale avevano lasciato l’autovettura dicendogli “questa è per il dottore"; ciò era avvenuto nel primo pomeriggio.

Ha precisato di non avere fatto caso se la 126 fosse munita di doppi comandi. Il collaboratore ha fornito, inoltre, specifiche indicazioni topografiche in ordine all’abitazione del Galatolo, […]. Precisava di essersi più volte recato in quel posto, utilizzato come “punto di riferimento” dopo l’esecuzione di omicidi fra i quali ricordava quello in pregiudizio del Prefetto Dalla Chiesa. Per quanto riguarda le fasi successive, l’Anzelmo ha riferito di ricordare benissimo che Ganci Raffaele, il 28 luglio, disse a lui ed al figlio Calogero che quella stessa notte, intorno alle ore due-tre, dovevano recarsi là dove avevano lasciato l’autovettura, e cioè presso i Galatolo, dove avrebbero trovato “u dutturi” e Giovanni Brusca. Ha precisato di ricordare bene la circostanza perché proprio  per  quella sera con il Ganci Calogero avevano già programmato di assistere alla manifestazione canora “Cantamare” che avrebbe dovuto tenersi a Mondello, sicchè inizialmente avevano ritenuto di doverla disertare. Ma quando fu loro precisato l’orario dell’appuntamento convennero sul fatto che avrebbero potuto parteciparvi lo stesso. Al termine della manifestazione, intorno alle ore 23,30-24,00 si erano recati in via Mariano Accardi, dove abitava Calogero Ganci da sposato, e le rispettive mogli avevano pensato di dormire insieme per non rimanere da sole. L’Anzelmo ed il Ganci Calogero si erano quindi recati in un locale sito in località Monte Pellegrino, denominato "Brasil", dove avevano incontrato Pippo Spina e Franco Spina, trattenendovisi per bere qualcosa fino alle ore 2,00–3,00, per poi raggiungere a bordo di una sola autovettura quella “casetta” nella disponibilità di Enzo Galatolo.

Qui avevano trovato, oltre al Galatolo, anche Giovanni Brusca e Nino Madonia. Non è stato in grado di precisare con esattezza l’orario in cui giunsero al fondo Pipitone, ribadiva tuttavia che l’appuntamento era stato fissato intorno a quell’ora. L’incontro era avvenuto “all'interno di questa casetta” e “non nel fabbricato dove abitavano loro, ma di fronte al fabbricato” in un piccolo caseggiato al pianoterra, con due stanze. Come disposto dal Ganci Raffaele avevano avuto cura di portare con loro la chiave dell’autovettura che era rimasta posteggiata in Via Pipitone Federico. Appena entrato, in una sorta di saletta da pranzo, aveva notato un telecomando su “una tavola” del tipo di quelle che vengono usate in carpenteria “con un grosso chiodo piantato al centro e poi c'era un altro chiodo con un congegno”. […] Quanto al funzionamento ha riferito che : “Forse... forse delle levette aveva, mi sembra. Però io non è che... le ripeto, non è che l'ho vista tanto. L'ho vista in questa situazione, poi ho visto che Giovanni Brusca uscì; fece questa situazione e io vidi che quando lui uscì questo chiodo girava e andava a toccare questo chiodo piantato al centro, che era un chiodo bello grosso quello del centro, mentre l'altro chiodo, diciamo, quello che girava era quello proprio per piantare le tavole di carpentieri, mentre l'altro, diciamo, era un chiodo quello più grosso”. La larghezza della tavola si aggirava intorno ai dodici-quindici centimetri e lo spessore di due - tre centimetri; il congegno, ad avviso dell’Anzelmo, era di tipo artigianale. Ha inoltre riferito che quando Giovanni Brusca entrò Nino Madonia lo rassicurò dicendo "Tutto a posto". Continuando nella sua narrazione dei fatti, il collaboratore ha dichiarato che dopo la prova tecnica sopradescritta, trascorsa un’ora o un’ora e mezza, lui, Calogero Ganci ed Enzo Galatolo erano rimasti in quel posto, mentre Nino Madonia e Giovanni Brusca si erano allontanati, assentandosi comunque per circa un’ora. Intorno alle “sei, sei e un quarto, sei e venti” del mattino, Giovanni Brusca ed Enzo Galatolo si erano spostati per andare a prendere la Fiat 126 che era custodita in un garage, nella disponibilità di quest’ultimo, ubicato all'ingresso della via Ammiraglio Rizzo, “dal lato, diciamo, Fiera”(del Mediterraneo).

[…]  Continuando nella ricostruzione dei fatti, l’Anzelmo ha riferito quanto segue: “Niente, alle palme io vedo a Giovanni Brusca sulla 126; solo a Giovanni Brusca, perchè Enzo Galatolo se ne va e ci va ad aspettare di nuovo in quel posto dove eravamo... da dove eravamo partiti, ed io, Ganci Calogero e Nino Madonia siamo in una macchina che ci battiamo la strada a Giovanni Brusca per andare in via Pipitone Federico.” Escludeva di avere visto in quel posto (“alle palme”) anche il Ganci Raffaele, che invece aveva incontrato successivamente nei pressi della Chiesa di S. Michele.(f.94,ud.9/3/1999). Il collaboratore non è stato in grado di precisare a che ora ciò si fosse verificato ma ha aggiunto che quella fase si era svolta “di mattina” perchè avevano “il problema del portiere”, nel senso che avrebbero dovuto completare l’operazione di collocazione della 126 prima delle ore sette e cioè prima che il portiere dello stabile aprisse la portineria e iniziasse a fare le pulizie, precisando, sul punto, di non sapere se qualcuno si fosse preoccupato nei giorni precedenti di accertare con precisione l’orario di apertura, ma che, tuttavia, ciò costituiva un dato di comune esperienza. L’Anzelmo non ha saputo precisare con quale autovettura lui stesso, Calogero Ganci e Nino Madonia avessero battuto la strada a Giovanni Brusca, escludendo tuttavia che si trattasse di quella con la quale nel corso della notte lui ed il Ganci avevano raggiunto il “fondo Pipitone”.

Richiesto di precisare il percorso seguito per raggiungere la via Pipitone Federico, ha dichiarato: “Mah... quindi, noi siamo dove ci sono le palme, in via Ammiraglio Rizzo; saliamo per andare verso via Libertà, attraversiamo via Libertà e ci immettiamo in una traversa che poi, diciamo, andiamo ad incrociare via Pipitone Federico e qua ci fermiamo. Io mi ricordo questo particolare, che noi qua ci fermiamo propria dove c'era questa traversa di via Pipitone Federico, perchè io mi sono preoccupato, e credo che forse pure Calogero Ganci si è preoccupato, perchè Giovanni Brusca propria si accostò con il davanti propria, con il davanti della 126 di dietro la macchina dove eravamo noi. Io dissi: "Giusto giusto qua si deve venire a fermare? Non si può fermare cinque metri - sei metri... sei metri prima?"

P.M. - A che distanza eravate dalla via Pipitone Federico suppergiù?

ANZELMO : - Niente, noi siamo... siamo proprio all'incrocio di via Pipitone Federico noi ci fermiamo; venendo da questa strada, diciamo, che abbiamo preso dalla via Libertà poi. Perchè via Pipitone Federico è così e noi veniamo di qua, quindi c'è questo... questo incrocio. Quindi ci fermiamo qua; non mi ricordo se scendo io o se scende Calogero. Spostiamo la macchina, Giovanni Brusca già si mette in direzione di andare a posteggiare, ma credo che Calogero, diciamo, fu che spostò la macchina. Sì, sì, credo che Calogero fu che spostò la macchina.

[…] P.M. : - Cioè, siccome noi non la vediamo, le volevo chiedere: la posteggia in maniera diciamo regolare, parallela al marciapiede?

ANZELMO : - Parallela al marciapiede la posteggia. Bè, non mi veniva la parola. Propria la posteggia parallela al marciapiede. Sta un pò là dentro, perde un paio di minuti là dentro, non mi ricordo quanto; scende, perchè ce l'ho qua, propria qua, davanti gli occhi ce l'ho. C'è questa signora affacciata, lui scende, chiude la macchina piano piano, la chiude a chiave, .. si ci appoggia con il fondoschiena e l'asciuga, diciamo, tipo per levarci le impronte da... le impronte dalle maniglie.

P.M. : - Lei dice: perde un pò di tempo. Ma perde un pò di tempo così, per perdere tempo o per fare qualcosa?

ANZELMO : - No, deve perdere del tempo perchè deve collegare, dottore Di Matteo, non è che lui partì che c'era tutte cose... Quindi, ha dovuto collegare dei fili che io non so, perchè non... non ne capisco niente di questa situazione. Ha dovuto collegare dei fili per mettere, diciamo, tutto a posto, diciamo, in modo che poi con il telecomando si ci dava l'impulso.

P.M. : - Quanto tempo impiegò Brusca dopo avere posteggiatola macchina, prima di scendere dalla macchina?…Per chiuderla.

ANZELMO : - Ma che le voglio dire, cinque, sette, otto minuti, cioè non è che impiegò... poco impiegò, non è che impiegò tanto. E mi ricordo che lui scese, accostò lo sportello propria piano, poi lo spinse con... con la mano che...

P.M.:- Adesso le volevo chiedere questo: ma in questo frangente, mentre Brusca posteggia e collega quello che doveva collegare, dove vi trovavate lei, Calogero Ganci e Antonino Madonia?

ANZELMO : - Io e Nino Madonia eravamo, diciamo, dov'è che ci eravamo fermati, qua, all'incrocio di via Pipitone Federico. Calogero Ganci prese la macchina; ora non mi ricordo se... se ritornò a marcia indietro verso questa strada o uscì in via Giacomo Leopardi e fece il giro, non me lo ricordo in questo momento.

P.M. : - E lei rimase con Nino Madonia?

ANZELMO - Sì, poi quando venne Calogero Ganci sono sceso e mi sono messo con Calogero Ganci e Giovanni Brusca con... con Nino Madonia.

P.M. : - Cosa succede dopo? Allora, lei dice: "Giovanni Brusca va con Nino Madonia - mi pare che lei ha detto - e io con Calogero Ganci". Che cosa succede?

ANZELMO : - Niente, andiamo, dice... andiamo di nuovo da Enzo Galatolo. Rimaniamo che con Nino Madonia ci vediamo prima delle otto presso la chiesa di San Michele. Io... Giovanni Brusca se ne va, non lo vedo più io a Giovanni Brusca. E quindi io e Calogero Ganci ce ne andiamo; ci riprendiamo pure la macchina con cui ci eravamo andati, perchè a questo punto non ne avevamo più una, ne avevamo due, perchè avevamo preso la macchina pure che era posteggiata davanti all'abitazione del dottore Chinnici. Ce ne andiamo e poi, prima delle otto, ci siamo visti verso la chiesa di San Michele, e qua vedo pure a Pippo Gambino, Ganci Raffaele e Giovanni Ferrante con un camion, e Nino Madonia, ovviamente.”

A specifica domanda il collaboratore ha dichiarato che nel momento in cui la 126 fu posteggiata davanti l’ingresso dello stabile la portineria era ancora chiusa e che quell’operazione era stata compiuta prima delle ore 7,00 con un certo margine di anticipo anche perché il Brusca non doveva limitarsi a posteggiare l’autovettura ed andar via, ma doveva “perdere del tempo dentro la macchina, anche se erano minuti, cinque, sei, sette, otto..”, e non poteva escludersi che il portiere, se presente, avrebbe potuto notare quei movimenti sospetti compiuti dal Brusca “abbassandosi nel sedile”. [...]

Ha riferito che prima di quella mattina non era a conoscenza dell’identità del soggetto incaricato di azionare il telecomando. Quanto agli spostamenti successivi all’esplosione, il collaboratore ha riferito di essersi recato insieme al Calogero Ganci nella macelleria di via Lancia di Brolo. Ricollegandosi a quanto in precedenza appena accennato in ordine alla presenza del Madonia nell’androne dello stabile del magistrato, il collaboratore, a specifica domanda del P.M., riferiva che il coimputato era stato notato da un vecchio compagno di scuola, circostanza da lui appresa prima della strage in occasione di commenti fatti con Ganci Raffaele e Pippo Gambino in ordine a quella “imprudenza” del Madonia; non escludeva di avere commentato l’episodio anche con Calogero Ganci e Domenico Ganci con i quali si dicevano tutto ( “ci dicevamo tutto, non avevamo problemi di niente, và, non è che ci tenevamo le cose di nascosto”). Poiché l’Anzelmo non era stato in grado di fornire più precise indicazioni di ordine temporale, il P.M. ne sollecitava il ricordo con la contestazione di precedenti dichiarazioni rese sul punto, tratte dal verbale in data 4/12/1996, […].

A specifica domanda il collaboratore ha precisato che nel momento in cui vide salire il Madonia a bordo del camion questi teneva in mano un telecomando, avvolto nel giornale. Con riferimento al momento in cui giunsero le autovetture di servizio, l’Anzelmo, dopo aver ribadito che già si trovava sui gradini della Chiesa in un favorevole punto di osservazione, ha dichiarato quanto segue: “Ma io mi ricordo che i Carabinieri subito sono scesi dalla macchina, me lo ricordo questo. Ora non mi ricordo chi c'era di davanti, in questo momento non ricordo chi c'era, se c'era la macchina civile davanti o i Carabinieri. Non mi ricordo. Credo che i Carabinieri c'erano davanti. E  la macchina, diciamo, si andò a posizionare propria là davanti l'ingresso, e quando scese il dottore Chinnici passò propria... perchè, le ripeto, che noi avevamo il posteggio per una macchina quattro sportelli, per poter buttare più indietro possibile la 126 e lasciarci lo spazio, diciamo, così il dottore Chinnici sarebbe passato propria davanti al cofano della 126. Diciamo che appena poi scese il dottore Chinnici poi successe il finimondo, propria ci fu un finimondo là.”

Ha inoltre dichiarato che quando gli era stato conferito l’incarico di prendere il posteggio e poi di rubare la macchina, non ricordava di avere chiesto o comunque commentato con Raffaele Ganci o con altri le ragioni per le quali si era scelto quel tipo di attentato, cui per la prima volta si era fatto ricorso, né chi lo avesse proposto, precisando inoltre di ignorare chi avesse procurato l’esplosivo. Non escludeva, comunque, di averne parlato successivamente nell’ambito della famiglia della Noce e ricordava che una volta Ganci Raffaele aveva incaricato proprio lui ed il figlio Mimmo Ganci di recarsi in un posto dove avrebbero loro spiegato come confezionare un ordigno esplosivo, “perchè era venuto a mancare Giovanni Brusca che forse si trovava al soggiorno obbligato o era arrestato”- essendo stati frattanto emessi i mandati di cattura a seguito delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta - e si commentava “che era rimasto solo Nino Madonia che sapeva fare queste... queste situazioni”. Quell’incarico, che poi non aveva avuto seguito, secondo l’Anzelmo doveva essere collocato in epoca successiva alla strage per cui è processo perchè sicuramente era passato del tempo e frattanto Brusca era stato arrestato o inviato al soggiorno obbligato. Il collaboratore ha precisato che in quell’occasione non gli fu detto quale fosse il progetto criminoso essendosi il Ganci Raffaele limitato a dire che lui e Mimmo dovevano “andare in un posto che ci dovevano spiegare come si doveva fare per mettere in atto una situazione tipo quella del dottore Chinnici”. Con riferimento alla dimestichezza del Brusca con gli esplosivi ha chiarito che personalmente non gli constava che il predetto fosse un esperto del settore e che quella era stata la prima volta in cui aveva avuto modo di constatarne una certa competenza. Quanto al movente dell’omicidio del consigliere Chinnici, l’Anzelmo ha dichiarato che era stato ucciso “per la sua inavvicinabilità, perché non era acchiappabile” ed ha precisato che in relazione agli omicidi “eccellenti” ai quali aveva partecipato non sempre era stato messo al corrente preventivamente delle motivazioni. Talvolta però Ganci Raffaele lo aveva informato, come nel caso dell’omicidio del commissario Cassarà, la cui uccisione era stata determinata dal fatto che il funzionario aveva detto che “Pino Greco e Mario Prestifilippo non li doveva prendere vivi ma li doveva ammazzare”. È appena il caso di rilevare come l’attendibilità intrinseca dell’Anzelmo, in relazione alla chiamata in correità nei confronti del Ganci Domenico, non possa essere incrinata da taluni dissapori registratisi in certi periodi in seno al mandamento, in ordine ai quali il collaboratore ha fornito serene ed obiettive valutazioni suscettibili di favorevole apprezzamento. [...]

Il quadro probatorio acquisito sul punto, pertanto, consente di affermare che lo schieramento che per un certo periodo di tempo aveva cominciato ad incrinare i rapporti all’interno della famiglia Ganci (Domenico e Stefano Ganci e Galliano da una parte, Raffaele e  Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, dall’altra) era all’epoca dell’inizio della collaborazione già venuto meno. La spaccatura era stata generata da dissapori sorti tra Ganci Domenico ed il padre all’epoca in cui quest’ultimo era agli arresti domiciliari ed intendeva tornare in possesso del suo ruolo decisionale e di supremazia all’interno del mandamento della Noce, ruolo delegato precedentemente al figlio Domenico. Ma tale dissidio, sanato completamente già all’epoca delle stragi del ’92, non può essere addotto a sostegno della tesi di una eventuale vendetta da parte dell’Anzelmo nei confronti di esponenti della famiglia che il collaboratore, tra l’altro, nell’ultimo periodo di latitanza (1993) aveva ospitato in immobili nella propria disponibilità.

Nel presente processo il collaboratore non solo ha fornito rilevanti indicazioni probatorie sull’esecuzione dell’attentato, avendovi preso parte da protagonista, ma il suo patrimonio conoscitivo si è rivelato prezioso anche in ordine alle fondamentali regole organizzative di Cosa Nostra ed alla composizione dei suoi organi di vertice, trattandosi di fonte che, per il suo ruolo e per la specifica attività criminale svolta nel settore dei c.d. omicidi eccellenti, può certamente considerarsi qualificata ed aggiornata sino all’epoca del suo arresto avvenuto nel giugno 1993. In relazione alle persone coinvolte nell’attività di sostituzione delle autovetture posteggiate davanti l’abitazione del consigliere istruttore la difesa di Ganci Stefano, in sede di controesame, dopo aver chiesto conferma all’Anzelmo della sua partecipazione unitamente a Calogero, Stefano e Raffaele Ganci a questi spostamenti, ottenendo risposta affermativa ( “Questi quattro sicuro, sì, sì. Non sono sicuro di altri, però io, Calogero, Stefano e Raffaele li abbiamo fatti questi spostamenti delle macchine pulite”), chiedeva di contestare il verbale del 23.07.1996 ( pag. 6) dal quale risultava che in quella sede il collaboratore non era stato in grado di ricordare chi avesse fatto quegli spostamenti( "Io non è che mi ricordo bene chi fece tutti questi spostamenti"); il pubblico ministero integrava la contestazione dando integrale lettura dell’intero brano di quel verbale dal quale emergeva la seguente ben più completa risposta: ''L'abbiamo curata noi questa situazionè'". "Sì, sì, noi della Noce, noi della Noce". "E quando lei parla di ''noi della Nocè' ricorda in particolare se ci fossero i figli di Raffaele Ganci, ad esempio?" "Ma guardi, quelli che diciamo che eravamo, diciamo, proprio i più stretti eravamo proprio io, Mimmo, Calogero, Stefano".

Anche dal verbale in data 4 dicembre 1996 (f.5), quindi ancor prima dell'emissione dell'ordinanza di custodia cautelare, risultava la seguente risposta: “Ora è in grado di dirci chi, in particolare, partecipò a questa attività?" "Guardi, per quelli che io mi ricordo, io sono sicuro Calogero Ganci e Stefano Ganci. Franco Spina e Pippo Spina penso pure sicuro. Mimmo Ganci non ce l'ho presente, perchè solo noi siamo stati, cioè noi nel senso di parentela, perchè noi, la nostra famiglia era composta di numerosi uomini d'onore, però di questa situazione ce ne siamo occupati solo ed esclusivamente noi, nel senso, diciamo, di parentela".

Ed ancora, sempre nello stesso contesto di quel verbale, (pag. 9), l’Anzelmo aveva dichiarato: “Intanto la situazione si sapeva nell'ambito della famiglia? Era noto che era in programma un attentato al dottore Chinnici?",  Francesco Paolo Anzelmo: "Guardi, quello che io posso dire, quello che era sicuro che lo sapevamo ero io, Mimmo, Calogero e Stefano. Questi lo sapevamo per certo che l'obiettivo era il dottore Chinnici. Questi quattro nominativi io glieli do per certo che lo sapevamo, però mio compare, che sarebbe Franco Spina e Pippo Spina, io non mi ricordo se gliene ho parlato, però loro in questa situazione sono intervenuti solo ed esclusivamente in questa fase, posteggiare e spostare le macchine  pulite".

In esito alle citate emergenze processuali il P.M. chiedeva che la contestazione non venisse ammessa e la difesa ne revocava la richiesta.(cfr.ff.50-56). A specifica domanda precisava che lo spostamento delle autovetture veniva effettuato “minimo una volta al giorno” e non escludeva che ciò avvenisse più volte per non destare sospetti (f.57); non era in grado di ricordare quante volte egli vi avesse preso parte, forse tre o quattro volte. Ha inoltre chiarito che le modalità di sostituzione delle autovetture non erano disciplinate in modo predeterminato, neppure in relazione all’identità dei    soggetti che avrebbero dovuto di volta in volta parteciparvi, purchè comunque vi si provvedesse almeno una volta al giorno. Anche le fasce orarie non erano predeterminate - per esempio in relazione alla presenza o meno del portiere dello stabile - perchè trattandosi di autovetture “pulite” l’operazione veniva svolta “con una certa tranquillità ed alla luce del sole”. Nulla è stato in grado riferire in ordine ad eventuali informazioni assunte dall’organizzazione sul conto del portiere dello stabile, con specifico riferimento alla di lui personalità, né se fosse stato sollevato il problema dell’eventuale coinvolgimento dello stesso nell’esplosione. Su alcune circostanze oggetto di specifiche domande l’Anzelmo ha fornito ulteriori chiarimenti dichiarando quanto segue. Nella zona teatro della strage quella mattina non aveva notato la presenza di Galatolo Vincenzo né di una Lancia Beta Coupè, precisando di non sapere se qualche uomo d’onore disponesse di un tale tipo di autovettura. Quando giunse in via Pipitone Federico a bordo di un’autovettura condotta dal Madonia il Ganci, che si trovava insieme a loro, scese e provvide a spostare l’autovettura posteggiata davanti l’abitazione del magistrato per far posto a Brusca alla guida della 126. Precisava di non ricordare con certezza se il Ganci, spostando la macchina, avesse fatto marcia indietro dirigendosi verso di lui che era rimasto nell’autovettura con il Madonia ovvero se avesse fatto il “giro dell’isolato uscendo dalla Via Leopardi”. Ribadiva, comunque, di essere poi salito sull’autovettura condotta dal Ganci, mentre il Brusca aveva preso posto a bordo di quella alla cui guida era rimasto il Madonia, dirigendosi tutti e quattro al fondo Pipitone. Quanto alla presenza del Madonia sul camion, precisava di averlo visto all’interno della cabina “in questi paraggi, tra la via Pipitone Federico e piazza S.Michele” ed in quello stesso posto aveva visto per la prima volta il Ferrante al volante del camion, […].

Nel corso dell’esame condotto dal presidente veniva mostrata al collaboratore una cartina planimetrica della città di Palermo sulla quale l’Anzelmo segnava con una matita il punto in cui era stato posteggiato il camion, localizzato nell’isolato compreso tra la Via Pirandello e la Via Tasso (cfr.f.43,ud.10/3), indicando altresì nella Via Prati la traversa in cui era ubicato l’ufficio di quella ditta di trasporti alla quale aveva telefonato per indurre il conducente a spostare il proprio automezzo. Un ulteriore chiarimento veniva fornito dall’Anzelmo in ordine all’epoca in cui andava collocata la “leggerezza” che sarebbe stata commessa dal Madonia facendosi notare nell’androne del palazzo in cui abitava il consigliere istruttore, precisando sul punto che l’episodio si era certamente verificato prima della strage mentre non era in grado di ricordare se prima o dopo che gli venisse conferito l’incarico di partecipare alla preparazione ed esecuzione dell’attentato.(cfr.ff.49-50, ud.10/3). Era certo comunque, in base al tenore dei commenti che aveva sentito fare a Gambino Giuseppe e Ganci Raffaele, che si era trattato certamente di un “sopralluogo” connesso con una attività preparatoria, pur dichiarando di sconoscere se fosse correlato ad eventuali diverse modalità di esecuzione dell’attentato.

Ferrante, uomo d'onore sempre pronto. La Repubblica il 22 luglio 2020. Uomo d’onore della famiglia di S.Lorenzo, Ferrante Giovan Battista ha riferito di essere stato ritualmente combinato nel dicembre del 1980 – insieme ai fratelli Salvatore e Girolamo Biondino e Isidoro Faraone - alla presenza di Rosario Riccobono, allora capomandamento di Partanna Mondello, che gli aveva fatto da padrino. La cerimonia si era svolta presso l’abitazione di Salvatore Buffa, rappresentante della famiglia di San Lorenzo, sita a Villa Adriana, in una località chiamata “Convitto” (“Convitto nazionale”) della zona di S.Lorenzo, dove attualmente è ubicato il Commissariato di Pubblica Sicurezza. Erano presenti, oltre a tutta la famiglia di San Lorenzo, altri quattro capimandamento - Rosario Riccobono, Stefano Bontate, Totuccio Inzerillo e Michele Greco – ciascuno dei quali aveva fatto da padrino ai quattro affiliati di quel giorno. Il collaboratore ha riferito che a quell’epoca la famiglia di San Lorenzo faceva parte del mandamento di Partanna Mondello, unitamente alle famiglie di Carini e Villagrazia di Carini, che costituivano unico territorio, di Capaci, che comprendeva anche Isola delle Femmine, di Sferracavallo, che comprendeva nel proprio territorio anche Sferracavallo, Tommaso Natale e Cardillo, ed infine la famiglia di Partanna Mondello, che comprendeva anche Mondello e Pallavicino. La cerimonia a si era svolta rispettando il solito rituale che comprendeva anche alcune spiegazioni sulla struttura organizzativa, le cariche e le regole fondamentali di "Cosa Nostra". All’epoca della sua affiliazione la carica di rappresentante era rivestita da Totò Buffa, da non confondere con l’omonimo cugino, chiamato "Nerone", mentre il sottocapo era Pippo Gambino. Dopo avere spiegato il numero delle famiglie, che di regola componevano il mandamento (almeno tre), il ruolo dei capimandamento e della commissione, ha riferito che anche suo padre era un uomo d'onore della stessa famiglia così come due zii, fratelli del padre. Anche il nonno paterno, i fratelli di quest’ultimo ed altri parenti erano stati affiliati a cosa nostra, fra i quali tale Matranga Antonino, sposato con una zia paterna, ucciso a Milano, era stato il capomandamento di Resuttana. La sua affiliazione aveva costituito un fatto quasi ineluttabile, appartenendo ad una famiglia di sangue mafiosa ed essendo peraltro l’unico figlio maschio. Quanto all’evoluzione degli assetti organizzativi del suo mandamento, il Ferrante ha dichiarato che Rosario Riccobono, di cui non ha saputo indicare eventuali cariche rivestite prima della sua affiliazione, cartamente dall'80 sino all'82 era stato il suo capomandamento. Dopo la sua uccisione avvenuta verso la fine del 1982 la famiglia di San Lorenzo era stata sciolta ed a seguito di nuove elezioni - di cui ha spiegato le modalità - era stato eletto rappresentante della famiglia Pippo Gambino, mentre Mario Troia e Pino Buffa avevano assunto la carica, rispettivamente, di consigliere e sottocapo; il mandamento si era quindi chiamato San Lorenzo. […] Quanto alle ragioni dell’omicidio di Riccobono, il Ferrante ha dichiarato che andavano ricercate nella sua “vicinanza” alle posizioni di Stefano Bontate e Tano Badalamenti i quali venivano considerati avversari della fazione c.d. corleonese, termine con il quale si indicava lo schieramento che si riconosceva nelle posizioni di Riina. Ha aggiunto che lo stesso Rosario Riccobono era contrario alla sua affiliazione perché considerato, unitamente al Gambino, corleonese; in realtà su queste posizioni era schierata tutta la famiglia tranne una parte minoritaria costituita dai fratelli Pedone. Nulla di specifico era in grado di riferire in ordine alle modalità ed agli autori dell’omicidio del Riccobono, tranne il fatto di aver saputo - forse dal Gambino- che era stato ucciso durante una “mangiata”. Riferiva che in quello stesso periodo erano state uccise, o comunque scomparse, diverse persone, fra le quali il genero del Riccobono, e Salvatore Scaglione, che rivestiva la carica di capomandamento. Tratto in arresto l'11 novembre del 1993 per la strage di Capaci ed associazione mafiosa (processo Agrigento +61), il Ferrante ha iniziato a collaborare nel luglio del 1996. Ha tuttavia precisato che inizialmente la sua intenzione non era quella di collaborare pienamente, ma di dissociarsi e, quindi, ammettere soltanto le proprie responsabilità senza chiamare in correità nessun altro, con la speranza che altri lo seguissero in questa scelta; in una prima fase, infatti, non era riuscito a superare le remore ad accusare altri. (“Il discorso di chiamare in correità altri in un primo momento non...  diciamo che mi veniva un pò difficile da... da superare”). Questa determinazione era stata mantenuta per un certo periodo sul presupposto che in ogni caso la moglie ed i figli sarebbero stati allontanati da Palermo anche con la semplice dissociazione. Resosi conto che le sue aspettative erano andate deluse aveva deciso di collaborare per favorire il trasferimento della sua famiglia. Sul punto ha dichiarato quanto segue: “... il fatto, diciamo, di fare allontanare i miei figli da Palermo era quello che praticamente tutte le volte che venivano al colloquio, quindi una volta al mese, li vedevo ogni volta sempre più grandi e avevo, diciamo, il terrore che un giorno potevano finire anche involontariamente dove sono andato a finire io, quindi in "cosa nostra". Questa è stata una delle cause principali. E poi altra causa che, diciamo, mi ha spinto pienamente a collaborare è stato il fatto, diciamo, di avere conosciuto Pietro Scotto, che era imputato, diciamo, per la strage di via D'Amelio e che io, per le mie conoscenze, ritenevo innocente”. Con specifico riferimento alle preoccupazioni che anche i figli potessero, ineluttabilmente, essere fagocitati dalla cultura mafiosa e dalla stessa organizzazione, appare opportuno riportare integralmente il seguente brano dell’esame del Ferrante, perché esso appare univocamente sintomatico della estrema difficoltà di scalfire l’educazione ed il sistema di orientamento valoriale acquisito nei primi anni di vita (cfr.ff.88-89, ud.26/3/1999).

[…] FERRANTE : - ... è chiaro, sicuramente, perchè a maggior ragione, visto che il padre, quindi io, sarei rimasto praticamente in carcere per sempre e quindi avrei fatto... avrei per sempre continuato a fare l'uomo d'onore, è chiaro che i miei figli avrebbero avuto sicuramente una... una chance in più, ma le dico... le aggiungo anche un'altra cosa: quando io ho cominciato a collaborare proprio mio figlio il grande, che allora... allora aveva all'incirca forse... forse meno di tredici anni, la prima cosa che mi ha detto, mi ha detto pure: "Tu ti sei fatto sbirro". E ripeto, a mio figlio... a mio figlio io non avevo insegnato assolutamente niente sino ad allora e quindi si figuri; ma già era praticamente, non lo so, forse l'aria che si respirava, tutto il contesto della... della nostra vita praticamente era basato lì, anche se io, a dire il vero, stavo molto tempo a lavorare, quindi mi allontanavo un pò da... sempre diciamo, da quell'ambiente. Ma lo vivevo perchè i miei genitori, quindi mio padre, tutti i miei zii, tutti i miei amici erano... erano in "Cosa Nostra" e quindi ovunque... ovunque mi giravo vedevo persone che erano tutte in Cosa Nostra."

[…]  Nel corso del controesame il Ferrante ha anche ammesso che già in altri periodi della sua militanza in “cosa nostra” aveva cominciato ad avvertire disagi per la sua appartenenza al sodalizio ed il bisogno di allontanarsene. Sul punto ha dichiarato testualmente: FERRANTE : - ... a dire il vero ho cercato diverse volte di uscire da "Cosa Nostra". Uno... per la verità, uno degli episodi e .. io non lo ricordo di averlo... cioè, non so se l'ho detto proprio in questo processo o l'ho detto in altri processi, non lo ricordo. Praticamente quando io ho detto che anche il portiere praticamente era morto, cioè quindi una persona innocente era morta a causa, diciamo, di questo attentato, il Pippo Gambino ha avuto una brusca, diciamo, un pò... una reazione un pò cattiva nei miei confronti, dicendomi che io non avrei dovuto per nessun motivo al mondo permettermi più di fare..., di dire una cosa del genere; anzi, mi disse, dice: "Per questa volta ti sei permesso a dirlo a me - dice - non ti rischiare mai più a dire una cosa del genere". Quindi, già allora avevo pensato di cercare di andare via da "Cosa Nostra". Successivamente c'è stata un'altra occasione: praticamente avevo detto che volevo andare via da Palermo perchè il lavoro non andava molto bene e quindi volevo allontanarmi da Palermo. È chiaro che il motivo era quello lì, cercare di andarmene, quindi non avere più a che fare con "Cosa Nostra", quindi con loro. E il Pippo Gambino, sempre in un'occasione del genere, scherzando, mi disse, dice: "Non... - dice - va bè, se... se non ti va di stare qui - dici - ti faccio andare... vuoi andare in America? - dici - Ti faccio andare da Saro... da Saro Naimo". Saro Naimo è un uomo d'onore della nostra stessa famiglia di San Lorenzo, e anche lì, praticamente, sarei stato... cioè, non sarei stato nella padella, ma sarei rimasto sicuramente nella brace. Quindi non avrei fatto un salto di qualità. Quindi, diverse volte ho provato ad uscire da "Cosa Nostra", ma da "Cosa Nostra" non credo sia possibile, anche perchè ho esperienze dirette di persone che solo perchè hanno avuto qualche disappunto ci sono rimaste secche, quindi, cioè, sono stati praticamente uccisi. ”

Ha inoltre precisato che tra la iniziale determinazione di dissociarsi a quella di piena collaborazione era trascorso un breve lasso di tempo -  una settimana o poco più – e che aveva immediatamente riferito quanto a sua conoscenza sui più gravi fatti tra i quali le stragi di via Pipitone Federico, di Capaci, di via Croce Rossa, di via D’Amelio, l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima e tanti altri omicidi meno noti. Con specifico riferimento alla strage del dr. Borsellino e della scorta ha dichiarato, anche alla luce di quanto appreso successivamente, di essere stato il primo collaboratore a parlarne (“adesso lo posso dire che il Cancemi non ne aveva affatto parlato”). Il Ferrante ha fornito anche qualche informazione sullo specifico ruolo svolto in relazione ad altri gravi fatti criminosi, ed in particolare: per l’omicidio dell’on. Lima aveva ricevuto disposizioni di individuare la zona, le strade e le vie di fuga nonché di informare telefonicamente circa l'arrivo e la partenza della vittima; in occasione dell’omicidio del dr. Cassarà aveva usato un'auto rubata per bloccare l'uscita del palazzo di via Croce Rossa, per evitare qualsiasi tipo di fuga da quello stabile; per la strage di Capaci, infine, il suo ruolo era stato quello di cercare un posto idoneo per collocare l'esplosivo, anche se poi ne era stato scelto uno diverso, eseguire “le prove a velocità”, ricevere la telefonata e quindi avvicinarsi all'aeroporto per vedere la macchina che passava e segnalarla in tempo. Riferiva, inoltre, di avere partecipato ad altri omicidi fra i quali quello di un imprenditore, l'ingegnere Luigi Rainieri, di tale Emanuele Piazza “che diceva di essere dei Servizi Segreti”, di uno dei fratelli Puccio, che lavorava al cimitero dei Rotoli, e di altri soggetti meno noti. A specifica domanda ha precisato che in relazione alle stragi per le quali aveva ammesso il proprio coinvolgimento, al momento della collaborazione non era stato ancora chiamato in correità da altri soggetti né gli erano stati notificati provvedimenti restrittivi, e che per l’omicidio dell’on. Lima era stato il primo a fornire un rilevante contributo probatorio. Ulteriori rilevanti contributi probatori hanno riguardato l’indicazione di luoghi di custodia di armi, esplosivi, detonatori, agende ed appunti in codice concernenti le estorsioni commesse nel territorio di San Lorenzo, beni acquistati illecitamente sia di carattere personale che appartenenti alla famiglia mafiosa di S.Lorenzo. Ha riferito di avere frattanto riportato numerose condanne con il riconoscimento delle attenuanti generiche e di quella speciale prevista per i collaboratori, come nel caso del processo per gli omicidi dell'on. Lima e del dr. Cassarà.

Come si prepara una strage. La Repubblica il 23 luglio 2020. Con specifico riferimento alla strage per cui è processo, che il collaboratore ha collocato tra la fine di luglio e l’agosto del 1983 anche grazie al ricordo che in quell’anno si era recato in Brasile per vedere il carnevale, il collaboratore ha dichiarato quanto segue. A quell’epoca svolgeva l’attività di autotrasportatore e guidava personalmente il suo camion. Aveva già commesso omicidi per conto di “cosa nostra” su incarico di Pippo Gambino anche perchè suo padre gli aveva detto di fare tutto quello che gli veniva richiesto da quest’ultimo, con il quale aveva assidua frequentazione, incontrandolo almeno due volte la settimana presso l’abitazione di Salvatore Buffa ovvero presso un magazzino nella disponibilità di Mario Troia, ubicato sotto l'abitazione del fratello, Enzo Troia, vicino all'ospedale “Cervello”. Ha riferito che il suo coinvolgimento nella strage di Via Pipitone Federico risaliva al giorno precedente all’evento- forse la sera o il pomeriggio del giorno prima - allorchè il Gambino gli disse che l'indomani mattina “avevano(mo) da fare una cosa, quindi c'era da fare”, locuzione, questa, che nel gergo di "cosa nostra" “chiaramente significa sempre affari illeciti”. Il Gambino non gli aveva detto cosa si dovesse fare, ma solo che l'indomani mattina doveva farsi trovare di buon’ora - intorno alle ore sette - in un certo posto sito “nelle vicinanze di un parcheggio che si trovava ….in via Regione Siciliana, .. all'altezza del Motel Agip, e quindi, andando ... in direzione da Palermo verso Punta Raisi sul lato destro”. Riferiva di non ricordare il nome della piazza o della via, ma per consentirne l’individuazione precisava che a quel tempo nelle vicinanze c'era l’esercizio commerciale "Pavan Elettronica"; si trattava di un piazzale abbastanza ampio con un parcheggio, forse anche custodito, di camion e autocarri, che conosceva bene perché vi si era recato qualche volta per accompagnare il Pippo Gambino a qualche appuntamento con Raffaele Ganci. A specifica domanda chiariva che, conformemente alla prassi comportamentale degli uomini d’onore, non aveva chiesto al Gambino cosa si dovesse fare, anche perché questi nulla gli aveva detto al riguardo e quindi non poteva essere lui a chiedere. Recatosi all’appuntamento con la Golf GTI di colore metallizzato di cui disponeva si era incontrato con il Gambino, intorno alle ore sette del mattino e comunque “di buon mattino”, il quale gli disse che avrebbe dovuto seguirlo alla guida di un camion a bordo del quale ad un certo punto del percorso sarebbe salito Nino Madonia, raccomandandogli di fare tutto quello che quest’ultimo gli avrebbe detto. Non ricordava se il camion fosse all’interno del “recinto, quindi del posteggio o fuori”; era certo però che le chiavi erano appese per cui dopo avere posteggiato l’autovettura aveva seguito il Gambino. Riferiva che il Gambino si era presentato in quel posto da solo a bordo di una Renault 5 TX, di cui possedeva tre esemplari di colore diverso - tutte acquistate presso la concessionaria “Indomar” nei pressi del Motel AGIP ed intestate a persone defunte - oltre ad una Mercedes; ricordava il modello particolare perchè diverse volte aveva guidato quelle  autovetture ed era l'unica della serie che aveva il servosterzo, ma non era in grado di precisare se fosse quella verde o l'altra, forse, amaranto, mentre non ricordava il colore della terza. Il camion era del tipo “Leoncino” ribaltabile e sul cassone posteriore vi erano dei fusti in lamiera da duecento litri che si usano per trasportare la calce e delle tavole, tipica attrezzatura per l’edilizia, già usate. Descriveva la struttura del camion, precisando che era composto da una cabina ed un cassone ribaltabile sul quale c’era “ …un arco in ferro con la rete metallica che è chiamato, appunto, paracabina e serve proprio a salvaguardare la parte posteriore della cabina, fornita di un grosso oblò o due oblò che servono a guardare nella parte posteriore” ed attraverso i quali si “vede perfettamente cosa c'è nel cassone”. Il Ferrante ha inoltre riferito di avere notevole dimestichezza con i camions e che pur essendo abituato a condurre automezzi ben più grossi di quello non aveva avuto alcun problema a guidare quel Leoncino. A specifica domanda ha dichiarato di non essere in grado di precisare per quanto tempo si trattennero in quel posto, ma certamente si era trattato di pochi minuti. Quanto all’itinerario seguito, il collaboratore ha dichiarato di poter indicare come punto di riferimento villa Sperlinga, nel senso che erano transitati nelle vicinanze di detta villa dirigendosi verso il centro della città, ma non era in grado di precisare quali strade avessero percorso, essendo quasi tutte simili; era certo però che proprio nei pressi di villa Sperlinga, si era fermato per fare salire a bordo il Madonia, il quale si era fatto trovare a piedi “all'angolo” e dopo avere scambiato qualche parola con il Gambino – colloquio che non aveva avuto la possibilità di percepire - aveva preso posto nella cabina. Non sapeva con quale mezzo e con chi il Madonia fosse giunto in quel posto, avendolo egli trovato a piedi da solo sul marciapiede ad aspettarli. Dichiarava di non essere in grado di quantificare i minuti impiegati per raggiungere il luogo di incontro con il Madonia, riferendo tuttavia che a quell’ora non c’era traffico anche perchè si era in piena estate. Il Ferrante ha dichiarato che allora conosceva già da tempo Nino Madonia anche perché in precedenza insieme a lui ed al fratello Salvo Madonia avevano collocato una bomba all'ippodromo sotto una scala. Pur non essendo in grado di collocare nel tempo l’episodio criminoso, ribadiva comunque di conoscere il Nino Madonia fin da ragazzo. Ha inoltre riferito che quella mattina l’abbigliamento del Madonia era insolito perchè indossava “dei jeans e una maglietta praticamente sporchi di calce. Era... era praticamente vestito …come un muratore”, precisando che in quelle condizioni non lo aveva mai visto “nè prima nè dopo”. A specifica domanda non era in grado di precisare se indossasse dei pantaloni lunghi o corti, ma era certo che fossero molto consumati, sporchi e del tipo jeans; si trattava, cioè, di un tipico abbigliamento da lavoro del tutto insolito per il Madonia.(f.116,ud.26/3). Il Madonia teneva in mano un sacchetto di plastica – “ tipo questi della spesa che si fanno nei vari supermercati” - ed appena salito sulla cabina gli aveva riferito “dove dovevano(mo) andare”; il Gambino frattanto si era allontanato e lo aveva rivisto successivamente nella zona dell’attentato, così come altre persone tra le quali Ganci Raffaele, Brusca Giovanni e Francesco Paolo Anzelmo. Con specifico riferimento a quest’ultimo, in sede di controesame, ha precisato di averlo visto insieme a Pippo Gambino, mentre il Ganci Raffaele ricordava di averlo notato da solo; non escludeva, però, di avere visto anche quest’ultimo, una volta, con il Gambino.(f.112,ud.26/3).

Non ricordava, invece, di avere notato la presenza di Ganci Calogero. Nel ricostruire l’itinerario seguito, il Ferrante, dopo avere precisato di non conoscere bene i nomi delle vie, perché in quella zona “sembrano tutte uguali”, ha testualmente riferito: “... in quel punto sembrano tutte uguali, a partire, diciamo, da via Notarbartolo ad arrivare a villa Sperlinga. Cioè, non riesco a quantificare quante traverse ci sono. Comunque posso dirle che praticamente noi siamo andati in direzione da via Libertà in direzione nord, quindi, diciamo, da Monte Pellegrino in direzione nord. Seguivamo questa strada. Poi ho appreso chiaramente quando ci siamo fermati che si trattava di via Pipitone Federico, ma io, cioè, sino ad allora non sapevo come si chiamava quella strada…..Era il Madonia che praticamente mi ha indicato che strada dovevamo fare e dove praticamente dovevamo fermarci. Difatti da quando l'ho preso sino al posto dove ci siamo fermati, praticamente diciamo che era molto... molto vicino. Ricordo soltanto che il senso di marcia era quello, diciamo, a salire proprio dalla via Libertà, anche se noi non siamo andati, diciamo, in via Libertà per arrivare proprio in quel posto. Quel posto che poi, chiaramente, adesso posso... posso indicare con precisione perchè si trattava del palazzo, quindi della portineria dove poi c'è stata l'esplosione. E posso dirle con certezza che noi ci siamo fermati... praticamente c'è il portone, quindi dell'ingresso dove poi è scoppiata la bomba, una traversa che ricordo che non si poteva girare sulla destra e quindi ancora prima, praticamente, ci siamo fermati noi. Credo che in linea d'aria, diciamo, da lì a dove è successo il fatto potevano esserci, non lo so, trenta - quaranta metri, ma non... non di più.”

A specifica domanda ha quantificato in circa un chilometro la distanza percorsa dal luogo dell’incontro con il Madonia e quello dell’attentato, precisando inoltre di non avere visto inizialmente cosa contenesse quel sacchetto. Ha inoltre riferito che durante il tragitto, prima di posteggiare il camion, il Madonia gli aveva detto che dopo “il botto” avrebbero dovuto allontanarsi immediatamente da quel posto. Il Ferrante ha tuttavia precisato che l’attrezzatura presente sul cassone del camion lo aveva indotto a ritenere che l’attentato sarebbe stato eseguito con altre modalità in quanto aveva pensato che i bidoni potessero contenere “un fucile o un lanciamissili o qualcosa del genere”, aggiungendo che lo stesso Madonia, durante la sosta in quel posto, gli aveva riferito “che già era da una settimana che spostavano macchine e che mettevano praticamente delle macchine, sempre le stesse... cioè, sempre lo stesso tipo di macchina per non fare allarmare nessuno”, ma che non gli “aveva assolutamente preannunciato nient'altro”, né spiegato le finalità di quelle sostituzioni di autovetture, ipotizzando, al riguardo, che il Madonia forse riteneva che Pippo Gambino lo avesse informato del piano esecutivo. Quanto alla posizione del camion durante la sosta nella via Pipitone Federico, il collaboratore ha precisato che il mezzo era posteggiato “nello stesso lato della portineria” con “direzione che va da via Libertà verso il viale Michelangelo, quindi verso nord” con “le spalle al mare… e quindi anche a via Libertà”, aggiungendo testualmente: “..senza nessun tipo di precauzione, anche perchè poi dovevamo... cioè, appena ci sarebbe stato il botto praticamente dovevamo andare via subito e credo che sia stato lasciato addirittura in... in doppia fila, ma ripeto, non c'era problema di traffico, quindi non abbiamo trovato nessun tipo di problema a lasciarlo in quel modo lì”. Nel corso dell’esame condotto dal presidente il Ferrante non ha escluso che il camion fosse stato posteggiato sul lato sinistro, dichiarando testualmente (f.99, ud.26/3): “ Poi... poi per la verità, se è stato sul lato sinistro, cioè se poi era sul lato sinistro, diciamo, della portineria io onestamente non lo so, perchè, ripeto, da lì non ci sono mai più passato”. Ha inoltre precisato di avere posteggiato in quel posto in base alle indicazioni del Madonia e che “la visibilità era praticamente totale, perchè ……dal camion che generalmente è più alto di un'autovettura si riesce a vedere chiaramente meglio, quindi si vedeva perfettamente tutta la strada che c'era davanti”. Con riferimento ai minuti successivi alla sosta con il camion nel posto sopra descritto ed alle persone notate nella zona dell’attentato, il Ferrante ha riferito di avere notato “un movimento di macchine” ed il Brusca posteggiare un’autovettura, di cui non ha saputo precisare il tipo - “proprio vicino alla portineria dove il Nino Madonia guardava continuamente e diceva che, praticamente, era quello lì il posto….” - dopo di che si era diretto a piedi “dalla parte della portineria” verso il camion (“verso di noi”) senza tuttavia raggiungerlo (“ma non è venuto direttamente lì da noi”), in quanto aveva imboccato una traversa, sulla destra, forse a senso unico. Nel corso dell’esame condotto dal presidente, il Ferrante, richiesto di precisare se il riferimento alla svolta a destra operata dal Brusca mentre procedeva a piedi verso il camion dovesse essere inteso rispetto al punto di osservazione dello stesso dichiarante ovvero rispetto alla stessa direzione di marcia del Brusca, ha precisato quanto segue (ff.102-3, ud.26/3): “Perchè praticamente, cioè, l'ho visto scendere a piedi e poi, praticamente, se... se ne è andato, diciamo, da una traversa che era a senso unico, quindi ha gi... a destra….Allora, il Brusca mi veniva di fronte, perché scendeva, quindi, alla mia destra….Ricordo che non potevo girare sulla destra……Allora praticamente scendendo il Brusca girò alla sua sinistra”. È chiaro pertanto che il Ferrante aveva inizialmente fatto riferimento al proprio punto di osservazione e che la traversa in questione era a senso unico e con divieto di svolta a destra rispetto alla propria direzione di marcia. Continuando nella sua narrazione delle fasi successive,  il collaboratore ha dichiarato che appena giunse un’Alfetta blindata Nino Madonia scese dalla cabina del camion e salì sul cassone, portando con sé il sacchetto. Trascorsi pochi minuti si era verificata l’esplosione, descritta dal Ferrante come un momento in cui “si è oscurato tutto, cioè praticamente non si vedeva più niente…..”, dopodichè il Nino Madonia aveva cominciato a bussare alla cabina del camion, ed egli, voltatosi indietro, aveva notato il predetto che “era intento..... a richiudere l'antenna del telecomando e metterla nel sacchetto”.

Nino Madonia era quindi risalito nella cabina ed egli aveva messo in moto il camion. Il Ferrante ha ipotizzato che in quel frangente dovette essersi verificato un malinteso perchè egli aveva ritenuto che il Nino Madonia dovesse prendere posto sulla cabina per poi andare via, “invece forse lui intendeva che dovevamo andare via praticamente immediatamente dopo il botto, quindi lui sarebbe rimasto sul cassone del camion”, e ciò aveva desunto dal fatto che il Madonia, dopo avere richiuso l’antenna, aveva cominciato “a dare pugni sulla cabina del camion”. Sulla struttura e sulle dimensioni del telecomando il Ferrante ha dichiarato di poter fornire “indicazioni molto generiche”, precisando che l'antenna “era di quella tipo a stilo, quindi quella che si richiude su se stessa. Il telecomando…. era di colore nero, piuttosto voluminoso”, precisando che aveva avuto modo di rilevarne le dimensioni “dal sacchetto” vedendolo solo per qualche istante.( “questo è quello che ho... ho visto così, in un attimo”). A specifica domanda circa l’itinerario e la direzione seguiti per allontanarsi subito dopo l’esplosione, il Ferrante ha dichiarato: “Quando ci siamo allontanati ricordo che praticamente abbiamo fatto una strada, appunto, che girava sul lato sinistro, quindi nuovamente a sinistra e praticamente siamo ripassati da via Pipitone Federico, la traversa più in giù;….. abbiamo attraversato ... di nuovo la via Pipitone Federico non dal posto dov'eravamo, diciamo dalla traversa più vicina a via Libertà, ecco, per intenderci”.

Su indicazioni dello stesso Madonia si era quindi diretto verso Villa Sperlinga nei pressi della quale il predetto era sceso dal camion portando con sé il sacchetto; precisava di avere lasciato il Madonia grosso modo là dove lo aveva prelevato prima, di non avere avuto “né il tempo né l’occasione” di notare in quel posto la presenza di altre persone conosciute ad attenderlo né di una autovettura precedentemente lasciata in sosta dallo stesso Madonia. Frattanto era sopraggiunto anche il Gambino il quale gli aveva “battuto la strada” fino al posteggio in cui avevano precedentemente prelevato il camion, dirigendosi poi, su indicazione del primo, ciascuno con la propria autovettura, a casa di Mario Troia. Escludeva di essere passato da Piazza Leoni e dalla “Statua” di Piazza Vittorio Veneto. Rettificando quanto in precedenza dichiarato, il Ferrante ha riferito quanto segue:

FERRANTE : - “Adesso devo fare alcune precisazioni che forse non avevo fatto precedentemente, perchè quando siamo arrivati a casa di Mario Troia praticamente siamo... siamo rimasti lì, non so, qualche... sicuramente qualche... qualche ora.

P.M. : - "Siamo rimasti" chi? Chi eravate?

FERRANTE : - Eh, siamo rimasti, appunto, io e Pippo Gambino e il Mario Troia era lì. Mentre prima avevo detto che il Mario Troia non era presente praticamente a quando avevamo parlato e a quello che si era detto, la cosa non risponde a realtà. La realtà è, praticamente, che Mario Troia ho capito perfettamente che era a conoscenza del fatto anche se Mario Troia lì non c'era. Ma quando siamo ritornati, praticamente, Mario Troia era a conoscenza, diciamo, di quello che era successo o quello che doveva succedere. Questo... questo glielo devo dire, perchè credo che precedentemente non... non ne avevo parlato.

P.M.: - Ma signor Ferrante, non ne aveva parlato perchè era un'omissione frutto di una dimenticanza o per altre ragioni?

FERRANTE : - No, a dire il vero all'inizio non ricordavo effettivamente i discorsi che c'erano stati con Pippo Gambino e il Mario Troia. Poi c'era il fatto, chiaramente, che non è una scusante, ma c'era il fatto che praticamente il Mario Troia era una persona ancora libera, anzi era latitante e avevo, diciamo, approfi... no approfittato del fatto che io non ne avevo parlato; avevo approfittato del fatto che non avevo ricordato veramente questi... questi particolari.

PRESIDENTE: - Lo vuole chiarire meglio, scusi?

FERRANTE : - Sì. E allora, io a Mario Troia... anche perchè successivamente Mario Troia l'avevo chiamato in causa per altri fatti di sangue. E questo, diciamo, che precedentemente quando ne avevo parlato, avevo dimenticato la presenza e alcuni discorsi che c'erano stati con Mario Troia. Quindi diciamo che è stato questo il fatto che... diciamo, ne avevo approfittato del fatto che non ne avevo parlato, ma... adesso, chiaramente, il discorso devo dirlo in modo completo.

P.M. : - Cioè, lei quando lo ha ricordato che Mario Troia, parlando con voi, si dimostrava perfettamente a conoscenza di quello che era successo?

FERRANTE : - L'ho ricordato successivamente per alcuni particolari. Per alcuni particolari e perchè il Mario Troia, praticamente, poi doveva mandare qualcuno a riprendere il camioncino che era rimasto praticamente lì, quindi nel parcheggio.

P.M. : - Ecco, lo ha ricordato dopo. Io volevo capire, anche per comprendere bene il senso di queste sue dichiarazioni: lei è stato interrogato sul punto, sull'omicidio, sulla strage del dottor Chinnici, dei Carabinieri e della sua scorta, il 16 luglio del '96, quindi nella prima fase della sua collaborazione. Lei questo particolare della conoscenza di Mariano Troia, di Mario Troia, lo ha ricordato dopo il luglio '96 o già lo ricordava a quel momento e non lo ha voluto indicare perchè il Troia era latitante?

FERRANTE : - No, forse non... non sono stato molto chiaro. Io quando ho parlato di questo fatto, non ricordavo la presenza... non la presenza, perchè, ripeto, la presenza lì, il Mario Troia, non... non la ricordo perchè non c'è stato. Ho ricordato successivamente  alcuni...  cioè, il particolare soprattutto del fatto che il camion lo doveva andare a... cioè, lo doveva mandare a riprendere il Mario Troia. E chiaramente questo... da questo capisco che il Mario Troia, praticamente, era a conoscenza del... di quello che era successo. E diciamo che mi andava bene soprattutto per il fatto che il Mario Troia era latitante, e quindi avrebbe potuto in ogni caso creare... avrebbe potuto fare qualcosa, diciamo, nei confronti forse della mia famiglia. Anche perchè, ripeto, i miei vivono ancora a Palermo. Ma già, precedentemente, il...

FERRANTE (dopo una breve interruzione del collegamento) - Sì, volevo aggiungere che... cioè, il fatto che lo abbia dimenticato in precedenza è reale, anche perchè, ripeto, poi il Mario Troia l'ho chiamato in causa per altri fatti sicuramente non... non meno gravi di questo. Quindi, ripeto, è stato questo il fatto. Ma ripeto, poi, avendo ricordato alcuni particolari, è chiaro che adesso questa è la sede per... per dire tutto quello che... che ricordo.

PRESIDENTE: - Il Pubblico Ministero però le aveva chiesto se alla data in cui aveva reso un certo interrogatorio, mi pare nel luglio del '96, lei in quella sede era già consapevole del fatto di... Aveva già ricordato meglio o a quella data effettivamente i suoi ricordi non erano ancora certi?

FERRANTE : - No, no.

PRESIDENTE: - E se ne ricordò dopo.

FERRANTE : - No, a quella data non ricordavo la presenza di... di Mario Troia. Difatti non ricordavo... cioè, alcune delle cose che credo di avere ricordato in più rispetto a quella data, anche perchè credo che a parte quell'interrogatorio non... non ce ne siano stati altri su questo... su questo fatto. Alcuni particolari ricordo che... che ho detto adesso in più, credo che siano il fatto che il Nino Madonia mi abbia detto che già da qualche settimana spostavano i mezzi, e dal fatto che, ripeto, Mario  Troia sapeva... cioè, doveva andare praticamente... doveva andare a fare... a prendere il mezzo che era rimasto lì. Quindi, questi sono i particolari che... che ho ricordato e che ho detto in questa sede, perchè è chiaro che questa è la sede che... dove avrei dovuto aggiungere questi particolari. Perchè prima non credo che ci sia stata altra occasione a parte quella del novan... del luglio '96, mi pare.

P.M.: - Quindi, per chiudere sul punto e per capirci bene definitivamente, lei quando dice: "Ho approfittato", intende riferirsi al fatto che noi non siamo venuti più ad interrogarla sul punto e quindi lei non... non ci ha mandato a dire che voleva rendere ulteriori dichiarazioni. In questo senso ne ha approfittato?

FERRANTE : - E... sapendo che ero imputato in questo processo è chiaro che in questa sede avrei potuto, praticamente... dire gli altri ricordi che avevo, appunto, ricordato.

P.M. : - L'unica circostanza... o meglio, la circostanza che le fa capire che il Troia fosse già a conoscenza di quello che era successo, è soltanto quella del fatto che doveva mandare a recuperare il camion oppure dal contesto del discorso lei capisce che il Mario Troia era a conoscenza di quello che era successo, dell'obiettivo che era stato eliminato?

FERRANTE : - No, il particolare, diciamo, con precisione che mi fa ricordare con esattezza, diciamo, che il Mario Troia sapeva qualcosa è... scaturisce proprio dal fatto che lui doveva mandare qualcuno a ritirare quel mezzo lì. Poi qualche altro particolare, diciamo, che mi fa ricordare, ma quello è avvenuto, praticamente, credo proprio quando c'è stato... mi pare l'edizione del giornale "L'Ora", che era nel primo pomeriggio. Allora, mi pare, che il giornale "L'Ora" la prima edizione usciva... cioè l'edizione usciva credo alle 14.00, alle 15.00 del pomeriggio, e parlando, diciamo, di quello che era successo, il Pippo Gambino e il Mario... ma più che altro il Pippo Gambino veramente, perchè io ho rappresentato il fatto che cioè in quell'occasione, praticamente, era morto anche il portiere che, secondo me, non c'entrava assolutamente niente. E il Pippo Gambino, praticamente, mi ha detto che era tutto calcolato, perchè il portiere era un carabiniere. Non so se era realmente un ex carabiniere o carabiniere nel modo in cui si comportava.

P.M. : - Lo disse Gambino questo, ha detto?

FERRANTE : - Sì, è stato un discorso che, praticamente, disse Gambino, ma Mario Troia era lì. Ma questo è stato nel pomeriggio. Cioè, praticamente, quando è uscita l'edizione del giornale”.

Il collaboratore ha spiegato anche le ragioni per le quali la scelta era caduta sulla sua persona per svolgere quel compito, precisando che nessun altro della “famiglia” sapeva guidare mezzi pesanti, ed in particolare Salvatore Biondino che, a quanto pare, avrebbe dovuto essere incaricato, mentre il Gambino, che pur sapeva condurre mezzi pesanti, già all'epoca soffriva di dolori alle ginocchia e molto spesso aveva delle difficoltà pure a scendere dall'autovettura, sicchè, era presumibile, ad avviso del Ferrante, che per tale ragione fosse stato ritenuto inidoneo a fronteggiare eventuali situazioni di emergenza ed esigenze di fuga. Quanto al tipo di esplosivo il collaboratore non ha saputo fornire alcuna indicazione, mentre in ordine al telecomando ha precisato che lo stesso era fornito di qualche leva che aveva intravisto, perché sporgente, quando si era girato verso il cassone sul quale si era posizionato il Madonia.

Il collaboratore è stato inoltre esaminato su altri specifici punti. Innanzitutto ha fornito ulteriori conferme in ordine alla funzione di base logistica ed operativa del fondo Pipitone, sito nel quartiere dell’Acquasanta vicino la “manifattura tabacchi”, dove abitava Galatolo Vincenzo, uomo d’onore del mandamento di Resuttana nel cui territorio era ubicato quell’immobile (detto "'u bagghiceddu"), più volte utilizzato in occasione di fatti criminosi fra i quali l’omicidio Puccio e la strage di via Croce Rossa, nonché per riunioni, quantomeno a far data dai primi del 1983 e cioè da quando il Gambino era stata nominato capomandamento (“quando si diceva: "Hammu a ghiri a 'u bagghiceddu" si intendeva proprio casa di Enzo Galatolo”). Riferiva di avere più volte visto il Madonia Nino in quel fondo dalla fine del 1982-inizio 1983 in occasione degli anzidetti episodi criminosi per la cui esecuzione erano partiti da quel posto. Sul ruolo di quest’ultimo in occasione dell’attentato dinamitardo all’ippodromo, sopra ricordato, il Ferrante ha riferito innanzitutto che si era trattato chiaramente di un attentato a scopo di estorsione nei confronti della società che gestiva l'ippodromo ed inoltre che il suo coinvolgimento insieme al Madonia andava ricollegato alla contiguità territoriale dei rispettivi mandamenti e delle famiglie corrispondenti (San Lorenzo e Resuttana), nella cui area di influenza ricadevano alcune zone limitrofe come, ad esempio, la Favorita e una parte della via Belgio. In occasione di quell’attentato era stato usato un ordigno esplosivo preparato dai Madonia, collocato sotto una scala, e la miccia era stata attivata dallo stesso Madonia. Ha inoltre riferito che con quest’ultimo aveva commesso numerosi reati tra i quali il sequestro di Claudio Fiorentino.

[...] A specifica domanda ha dichiarato che nulla gli constava circa la presenza del Madonia nello stabile del dr.Chinnici per eseguire un eventuale sopralluogo prima della strage, né di ciò aveva sentito parlare tramite organi di informazione. Nel corso dell’esame condotto dal presidente il collaboratore ha dichiarato di non sapere che l’obiettivo dell’attentato fosse il consigliere Istruttore Rocco Chinnici, né che le modalità esecutive sarebbero state quelle sopra descritte, assumendo di aver appreso l’identità della vittima solo dai giornali e che, pur nella piena consapevolezza di partecipare ad una azione criminosa di tipo omicidiario, in realtà si rese conto che si trattava di un attentato con ordigno esplosivo quando vide il  telecomando in mano al Madonia e si verificò la devastante deflagrazione. Sul punto appare opportuno riportare il seguente brano:

PRESIDENTE: - ….quando lei apprende del progetto di eliminare il dottore Chinnici? O se preferisce, quando lei si rende conto che l'obiettivo è il dottore Chinnici?

FERRANTE : - No, io del dottore Chinnici, cioè quindi della persona, cioè proprio della persona fisica e del nome del dottore Chinnici io lo apprendo quando, praticamente, vedo nel giornale che si trattava del dottore Chinnici, ma io neanche il nome avevo mai sentito. Cioè, a parte che non mi è stato detto, quindi dalla mattina a quando è successo il... l'attentato, ma non... onestamente non lo avevo mai sentito dire neanche prima il... diciamo, il nome del dottore Chinnici, quindi... non lo conoscevo neanche di nome.

PRESIDENTE: - Quindi, in sostanza, mentre lei era al volante del camion e aveva accanto Nino Madonia, lei non gli chiese: "Ma che cosa ci stiamo a fare qui? Chi è l'obiettivo del nostro... del nostro progetto criminoso?" Lei neanche in quel momento sapeva che l'obiettivo era il Consigliere Istruttore Chinnici.

FERRANTE : - No, assolutamente. Ripeto, io ho semplicemente eseguito... anche perchè a Nino Madonia, essendo una persona... anche se la conoscevo... la conoscevo bene, ma essendo una persona estranea alla nostra famiglia io non avrei avuto neanche il diritto di chiedere: "Ma che stiamo andando a fare?" Perchè... perchè la persona che me lo avrebbe dovuto dire, in ogni caso, non era Nino Madonia, ma mi avrebbe dovuto informare Pippo Gambino, cosa che non ha fatto; non ha fatto perchè abitualmente non... si faceva così. Ma ripeto, io la persona del dottore Chinnici non... cioè, prima non lo avevo mai sentito dire.

PRESIDENTE: - Quindi, in sostanza, le si è reso conto di avere partecipato alla strage in cui perse la vita il dottore Chinnici soltanto quando lo seppe dai giornali, in sostanza.

FERRANTE : - Mi sono reso conto di avere partecipato alla strage quando, praticamente, è saltato tutto in aria.

PRESIDENTE: - Che la vittima fosse il dottore Chinnici lo ha saputo dopo.

FERRANTE : - L'ho appreso dopo.

PRESIDENTE: - Senta, per quanto riguarda invece le modalità esecutive, lei si rese conto che si trattava di una carica esplosiva che sarebbe stata attivata con un telecomando soltanto quando vide il Madonia con il telecomando in mano o già prima si era reso conto di qualcosa del genere?

FERRANTE : - No, io mi sono reso conto quando contestualmente ho visto... ho visto esplodere praticamente, diciamo, la... la bomba e poi mi sono reso conto, è chiaro che... cioè, era... era matematico per me, quando ho visto il... diciamo, il telecomando, avere capito che si trattava di una... di una bomba a distanza. Ma ripeto, io sino a quel momento potevo pure immaginare che si trattava anche di un... di un lanciamissili o... o di sparare dal... diciamo, dal... da sopra il camion con... con qualche fucile. Anche perchè, ripeto, già di fucili mitragliatori, tipo kalashnikov o altre armi, tipo lanciarazzi, cioè quelle lì le... le avevamo quelle... quelle armi, e tra l'altro... No, però, va bè, questo diciamo della prova del lanciarazzi che ha fatto proprio Nino Madonia è stata... è stata, diciamo, sicuramente dopo, ma già i kalashnikov praticamente li avevamo, quindi potevo immaginare che si sarebbe usata un'arma del genere. Cioè, il fatto dell'autobomba a distanza non lo immaginavo, ecco.

PRESIDENTE: - …..mentre il Madonia le stava seduto accanto nella cabina, prima che scendesse, prima che lei vedesse in mano al Madonia il telecomando quando... vide anche l'antenna, mi pare che lei ha detto. Prima di quel momento si era...... reso conto che il Madonia aveva un incarico specifico, di carattere strettamente esecutivo o non ancora ebbe consapevolezza di questo?

FERRANTE : - No... va bè, avevo capito che... che poteva essere lui quello che materialmente avrebbe... avrebbe dovuto... dovuto sparare, ma ripeto, quello lì io... sì, quello lo pensavo, ma di altro no.

PRESIDENTE: - Quindi lei, voglio dire, in sostanza, in quel preciso momento poteva anche pensare che si potesse trattare di un'azione omicidiaria con armi tradizionali? O si rese conto...... che comunque si trattava di modalità particolarmente, diciamo... che avrebbero potuto mettere in pericolo l'incolumità pubblica o poteva anche ritenere che si trattasse di un omicidio di tipo tradizionale, con fucili di precisione, con armi da fuoco corte? Ecco, quale fu la sua... la consapevolezza che lei ebbe in quel momento?

FERRANTE : - Io dal fatto che il Pippo Gambino mi aveva battuto la... la strada sino a... diciamo, a quando Nino Madonia è salito e dal fatto che poi, diciamo, li... lo avevo visto girare e avevo visto altre persone, quello che esclusivamente pensavo era che si potevano usare soltanto delle armi. Cioè, allora non si spiegava altrimenti perchè il bidone, cioè i bidoni alti se non quello di nascondere delle armi lunghe. Cioè, quello era... quello immaginavo io, almeno quella era la mia convinzione sino a quel momento”. […].

Tanti pentiti e una sola verità. La Repubblica il 24 luglio 2020. Dopo avere esposto, con ampia sintesi, la ricostruzione della fase esecutiva secondo la narrazione dei diretti protagonisti, appare opportuno riportare schematicamente le innegabili divergenze rilevabili nel loro racconto, per poi passare alla valutazione inferenziale della rilevanza probatoria delle discrasie, al fine di verificare se, dal confronto tra le dichiarazioni, emergano elementi tali da incrinare sensibilmente la loro sostanziale affidabilità ovvero se risulti comunque dimostrata la complessiva convergenza di esse nei rispettivi nuclei fondamentali. Procedendo secondo l’ordine cronologico degli avvenimenti narrati, i punti di più evidente contrasto possono essere così sintetizzati.

Ganci Calogero ha riferito di essere stato incaricato - in unico contesto o in due diverse occasioni - dal padre Raffaele e da Gambino Giacomo Giuseppe di mettersi a disposizione di Madonia Antonino, incarico conferitogli mentre si trovava nella macelleria di via Lancia di Brolo alla presenza del fratello Stefano, del fratello Domenico e del cugino Anzelmo Francesco Paolo; quest’ultimo, invece, pur confermando l’episodio nelle sue linee essenziali, non ha citato la presenza di Ganci Domenico, né l’invito a mettersi a disposizione del Madonia, ribadendo tuttavia la piena consapevolezza del progetto criminoso da parte del predetto Ganci, avendone parlato con lui con assoluta certezza. Del tutto marginali e comunque perfettamente giustificabili, atteso il gran numero di furti commessi ed il tempo trascorso, appaiono le incertezza del Ganci Calogero in ordine all’identità dei soggetti che avevano “adocchiato” la Fiat 126 dell’autoscuola - se cioè lui stesso ed il cugino Anzelmo, ovvero quest’ultimo ed il fratello Stefano - a fronte delle univoche dichiarazioni rese sul punto dall’Anzelmo che ha attribuito a Ganci Stefano l’individuazione della autovettura ed il furto a quest’ultimo ed a se stesso, mentre il Ganci Calogero, come sopra ricordato, ha rivendicato la paternità dell’asportazione dell’autovettura, pur non escludendo, a seguito di contestazioni, che l’autore materiale del furto potesse essere stato il fratello Stefano. In realtà, come sopra compiutamente ricostruito, vi fu una fase di avvistamento protrattasi per più ore, con definitiva asportazione da parte di Ganci Stefano ed Anzelmo; univocamente sintomatica del cattivo ricordo del Ganci appare, peraltro, la circostanza che questi ha dimostrato di non saper nulla dell’operazione di smontaggio delle insegne dell’autoscuola eseguita dal Di Napoli, riferita dall’Anzelmo, assumendo di avere notato quelle insegne già staccate all’interno del garage (cfr.f.84, ud.24/3/1999).

D’altra parte, la versione fornita sul punto dall’Anzelmo appare più veritiera alla luce dei numerosi particolari forniti, avendo egli evidenziato le fasi del furto, fornito indicazioni sul luogo dove l’auto venne inizialmente posteggiata per potere procedere alla rimozione delle insegne dell’autoscuola, sull’identità del soggetto che aveva svolto tale operazione, sul successivo trasporto del mezzo al Fondo Pipitone e, soprattutto, sulla data di commissione del furto - due - tre giorni prima della strage - che ha trovato puntuale riscontro nella denuncia di furto sporta dal titolare dell’autoscuola Ribaudo Andrea. È certamente da escludere che il Ganci Calogero abbia inteso sminuire la responsabilità del fratello attribuendosi un ruolo mai svolto. Sul punto si rinvia a quanto già rilevato in ordine al tenore delle convincenti dichiarazioni rese dal Ganci, il quale non solo ha spiegato le ragioni della mancanza di un ricordo preciso, ma ha anche sottolineato che non aveva alcun interesse a “coprire” le responsabilità del fratello Stefano che pure aveva accusato di altri gravi delitti.

Ganci Calogero, a seguito di contestazioni, sopra ricordate, ha ribadito che la notte che precedette la strage non era stata eseguita alcuna prova di funzionamento del telecomando presso il fondo Pipitone, assumendo che probabilmente nel corso del verbale in data 2/8/1996 era stato forse frainteso ovvero si era espresso male, in quanto non ricordava che quella notte fossero state effettuate prove, eseguite invece qualche giorno prima. In realtà, nonostante la rettifica dibattimentale da parte del Ganci, va rilevato che anche l’Anzelmo, nel corso del suo esame, ha fatto specifico riferimento ad una prova eseguita nel corso di quella notte, riferendo di avere notato, in una sorta di saletta da pranzo, un telecomando su “una tavola” del tipo di quelle che vengono usate in carpenteria “con un grosso chiodo piantato al centro e poi c'era un altro chiodo con un congegno”. In quell’occasione aveva visto Giovanni Brusca nell’atto di prendere il telecomando, uscire fuori ed eseguire una prova; a quel punto aveva notato “.. questa tavola con questo chiodo piantato al centro, con un altro chiodo messo così, che con un marchingegno pressando lui il telecomando girava e andava a toccare questo chiodo piantato al centro”. Il Ganci e l’Anzelmo hanno concordemente confermato che nel corso della notte antecedente alla strage il Madonia ed il Brusca si erano allontanati dal fondo Pipitone per eseguire “altri accorgimenti nella macchina”; il loro racconto invece diverge in ordine alla composizione del corteo e degli equipaggi delle autovetture che partirono dal garage di via Ammiraglio Rizzo per dirigersi in via Pipitone Federico.

Il Ganci ha riferito che il Madonia si mise alla testa del corteo, seguito dalla 126 condotta dal Brusca ed ancora più indietro da lui stesso e dall’Anzelmo a bordo di altra autovettura, seguiti dal Ganci Raffaele, fino alla via Pipitone Federico. Con riferimento al proprio padre, in sede di controesame, preciserà che nel momento in cui la 126 uscì dal garage lo stesso era presente ma non lo aveva più visto nel momento in cui erano partiti da quel posto verso la via Pipitone Federico; il padre si era poi incontrato con il Gambino in quella traversina dove lo aveva rivisto insieme a quest’ultimo con la R5.( cfr.f.212,ud.17/3) Ha quindi ribadito che il corteo era composto da tre autovetture disposte nell’ordine sopra precisato.(ff.111-112,ud.cit).

L’Anzelmo, invece, ha riferito che, giunto alle “palme“, aveva visto Giovanni Brusca sulla 126 da solo, perchè Enzo Galatolo frattanto aveva fatto ritorno al fondo Pipitone, mentre lui stesso, Ganci Calogero e Nino Madonia a bordo di una stessa autovettura avevano battuto la strada a Giovanni Brusca per andare in via Pipitone Federico. Escludeva di avere visto in quel posto(“alle palme”) anche il Ganci Raffaele, che invece aveva incontrato successivamente nei pressi della Chiesa di S.Michele.(f.94,ud.9/3/1999). Entrambi tuttavia hanno riferito l’episodio della mancata collisione con l’autovettura condotta dal Brusca che li precedeva.

Un altro punto di divergenza tra il Ganci e l’Anzelmo riguarda l’avvistamento del camion. Il primo ha dichiarato di avere effettuato alcuni giri nella zona insieme al cugino Anzelmo e, passando davanti la pasticceria, aveva visto posizionato nella via Pipitone Federico, ad angolo con la via Pirandello, quasi in doppia fila, a circa 80-100 metri in linea d’aria dal luogo dove era stata posteggiata l’autobomba, e sul lato opposto rispetto a quello della FIAT 126, un camion leoncino di colore rosso, nella cabina del quale aveva preso posto il Madonia Antonino che, poco dopo, si era spostato sul cassone dello stesso automezzo sul quale erano collocati bidoni da 200 litri ed altro materiale edile.

L’Anzelmo, invece, ha innanzitutto riferito di un momentaneo rientro al fondo Pipitone, insieme al Ganci- che però non fa cenno della circostanza - ciascuno a bordo di una autovettura, per fare poi ritorno in via Pipitone Federico dove, nei pressi della chiesa di S.Michele, aveva notato oltre a Pippo Gambino e Ganci Raffaele, anche Giovanni Ferrante e Nino Madonia con un camion; ma entrambi concordano sul fatto di essersi collocati sulla gradinata della chiesa. Ciò stante, appare verosimile presumere che mentre il Ganci ha parlato degli ultimi momenti che precedettero l’esplosione quando il camion era già collocato nella posizione definitiva, l’Anzelmo invece ha fatto riferimento ad una fase precedente.

Vero è che, in effetti, il Ferrante, conducente del mezzo, non ha fatto cenno ad un passaggio con il camion nei pressi della Chiesa, ma bisogna pur tuttavia considerare che lo stesso ha più volte ribadito di non conoscere bene quella zona e che appare molto probabile che l’avvistamento del camion da parte dell’Anzelmo con a bordo il Ferrante ed il Madonia in quel posto vada correlato con un passaggio di questi ultimi due in quella zona nella fase transito dal luogo in cui il Madonia era stato preso a bordo a quello teatro della strage. È appena il caso di rilevare, infatti, che il Ferrante ha dichiarato di essersi fermato nei pressi di villa Sperlinga per fare salire sul camion il Madonia e che da un attento esame delle cartine topografiche della città, acquisite agli atti, può agevolmente rilevarsi l’estrema vicinanza tra alcune strade che costeggiano la Villa Sperlinga, la Piazza S.Michele Arcangelo e la zona dell’attentato, con particolare riguardo alle vie Giuseppe Giusti ed Alfredo Giovanni Cesareo che incrociano le vie G. Leopardi e F.sco Lo Jacono, tutte contigue ed in qualche modo probabilmente ricadenti nell’itinerario seguito dal Ferrante e dallo stesso ricostruito con estrema difficoltà ed approssimazione per la scarsa conoscenza dei luoghi e delle traverse che “in quel punto sembrano tutte uguali, a partire da via Notarbartolo ad arrivare a villa Sperlinga”. (cfr. Ferrante).

Con riferimento al momento dell’avvistamento del camion da parte dell’Anzelmo appare opportuno rilevare come sia estremamente fuorviante la frase testuale di quest’ultimo secondo cui “ prima delle otto, ci siamo visti verso la chiesa di San Michele, e qua vedo pure a Pippo Gambino, Ganci Raffaele e Giovanni Ferrante con un camion, e Nino Madonia, ovviamente”, atteso che essa potrebbe indurre a ritenere che tutti i predetti fossero a bordo del camion- circostanza che non trova alcun riscontro nella ricostruzione fornita dal Ferrante, conducente del mezzo - mentre è evidente la funzione di iato che il collaboratore ha inteso attribuire alla congiunzione per accomunare gli ultimi due soggetti citati(Ferrante e Madonia) correlandoli all’automezzo, all’interno della cui cabina, peraltro, non avrebbero potuto prendere posto quattro persone.

Tanto premesso in ordine alle divergenze più significative riscontrate nel quadro ricostruttivo emergente dal racconto dei collaboratori sopra citati, rileva la Corte che pregiudiziale ad una corretta valutazione di sintesi delle versioni fornite appare l’esame delle modalità di trasferimento dell’autovettura carica di esplosivo dal garage sito in una traversa della via Ammiraglio Rizzo al luogo dell’attentato, al fine di verificare, in relazione alle fasi immediatamente successive, quale possa essere l’ipotesi più attendibile alla stregua di criteri di rigida e corretta conseguenzialità logica, non senza aver fin d’ora fatto rilevare come le pur evidenti discrasie, anche su punti di un certo rilievo fattuale, non appaiono univocamente sintomatiche di mendacio, né di tentativo mal riuscito di reciproco e pedissequo recepimento manipolatorio.

Vero è, per contro, che gli articolati racconti, qualificati da una notevole ricchezza di contenuti descrittivi, non potevano restare immuni dal pericolo che il lungo lasso di tempo frattanto trascorso dal fatto – ben oltre tredici anni alla data dell’inizio della collaborazione – potesse dar luogo ad imprecisioni, sovrapposizione di ricordi, smagliature e discrasie le quali, lungi dall’apparire come indici rivelatori di inattendibilità, depongono, piuttosto, non solo per l’assenza di fenomeni di “contaminatio” e di pedissequa ripetitività, ma altresì per la derivazione originale di ciascuna dichiarazione dal proprio autore.

Un’attenta valutazione del racconto dei collaboratori esaminati induce la Corte a ritenere che l’ipotesi più attendibile in ordine alle modalità dello spostamento dal luogo in cui era stata custodita la Fiat 126 carica di esplosivo alla via Pipitone Federico sia quella correlabile con la versione fornita dall’Anzelmo, il quale, come sopra esposto, ha riferito che,  giunto alle “palme“, aveva visto Giovanni Brusca sulla 126 da solo, perchè Enzo Galatolo frattanto aveva fatto ritorno al fondo Pipitone, mentre lui stesso, Ganci Calogero e Nino Madonia a bordo di una sola autovettura avevano battuto la strada a Giovanni Brusca per andare in via Pipitone Federico. Tutto ciò, invero, appare molto più credibile, innanzitutto perché rende più verosimile la riferita mancata collisione tra le autovetture che procedevano in fila, determinata da un repentino rallentamento della marcia da parte del Madonia, il quale era l’unico fra i tre occupanti l’autovettura a conoscere i dettagli tecnici del progetto criminoso e quindi la necessità di dover ancora collegare i detonatori. Se Ganci, come lo stesso ha riferito, vide il cenno di Madonia a Brusca(“c’era il Madonia che faceva segnale dalla macchina davanti, tipo…o di fermarsi, comunque, faceva segnali”), deve presumersi necessariamente che i due si trovassero a bordo della stessa autovettura, perché se il primo si fosse trovato su una terza autovettura che seguiva la 126 guidata dal Brusca non avrebbe potuto vedere i segnali del Madonia che procedeva alla testa della fila. Il contatto sfiorato trova una plausibile spiegazione nel fatto che il Brusca, forse un pò distratto, continuava la propria marcia, sicchè la frenata di Madonia avrebbe potuto comportare il rischio di una collisione. Significativo appare il fatto che gli unici a ricordare con preoccupazione l’episodio sono l’Anzelmo ed il Ganci perché solo loro non sapevano che l’esplosivo non poteva comportare alcun rischio nel caso di tamponamento, atteso che il detonatore non era stato ancora innescato. Da parte sua il Brusca non aveva di che temere e non ha, quindi, conservato alcun ricordo dell’episodio, anche perché Anzelmo e Ganci commentarono tra loro lo scampato pericolo e non esternarono ad altri la loro preoccupazione. È da ritenere che in occasione di questa fermata l’Anzelmo ed il  Ganci siano scesi ed a piedi abbiano raggiunto la macchina da spostare - per far posto alla 126 guidata dal Brusca - con il normale atteggiamento di chi va a prelevare la propria autovettura in sosta, senza destare alcun sospetto in un eventuale osservatore.

Ben più macchinosa e meno discreta si sarebbe rivelata l’operazione se vi fosse stata una terza autovettura da parcheggiare o dalla quale, comunque - secondo la versione del Ganci- sarebbe dovuto scendere l’Anzelmo per spostare quella posteggiata dinanzi la portineria. Non appare logico, peraltro, l’assunto del Ganci – che ha riferito di una terza auto sulla quale aveva preso posto il solo Madonia alla testa del corteo - secondo cui il Madonia avrebbe lasciato la sua macchina nei dintorni per dare direttive ad Anzelmo, il quale, a sua volta, avrebbe lasciato non si sa dove la macchina spostata e poi sarebbe nuovamente salito sull’autovettura del Ganci, e frattanto sarebbe ricomparso il Madonia con la sua macchina sulla quale avrebbe preso posto Brusca. Le modalità operative si rivelano molto più semplici e funzionali alla buona riuscita della fase esecutiva, ipotizzando che il corteo fosse formato da due sole macchine e che le azioni di ciascuno dei protagonisti si siano svolte nel seguente modo. Mentre Brusca, dopo una breve sosta all’angolo o comunque nei pressi della via Pipitone Federico, innescava il detonatore aprendo il cofano, Ganci e Anzelmo si dirigevano a piedi verso il palazzo del dr.Chinnici e spostavano l’autovettura per far posto alla 126; frattanto il Madonia proseguiva con la sua auto in direzione della pasticceria posteggiandola nelle immediate vicinanze, là dove, di lì a poco, sarebbe stata trovata dal Brusca, proprio dietro il camion condotto dal Ferrante. Il Brusca posteggiava la 126 davanti la portineria e dopo avere compiuto le operazioni sopra descritte si avviava a piedi in direzione del camion imboccando, prima di averlo raggiunto, una traversa dove trovava ad attenderlo l’Anzelmo ed il Ganci con i quali effettuava alcuni giri di controllo nella zona. Frattanto il Madonia raggiungeva a piedi il vicino posto in cui si sarebbe incontrato con il Ferrante, salendo a bordo del camion e dirigendosi con lo stesso verso il luogo in cui si sarebbero posizionati  per attivare la carica a distanza, e collocandosi infine davanti l’autovettura Fiat Uno che lo stesso Madonia poco prima aveva posteggiato nei pressi della pasticceria.

L’ipotesi che il Madonia abbia molto probabilmente raggiunto a piedi il luogo dell’appuntamento con il Ferrante risulta suffragato dal rilievo che lo stesso, dopo l’esplosione, si allontanò dalla via Pipitone Federico con il Ferrante a bordo del camion dal quale discese per prendere posto sull’autovettura del Brusca che li seguiva ed insieme al quale raggiunse la Via D’Amelio che era stata la loro base logistica la notte precedente. Sotto tale profilo appare evidente come nell’economia della fase esecutiva la presenza di una autovettura dietro il camion fosse perfettamente funzionale all’esigenza del Brusca di allontanarsi repentinamente dopo l’esplosione - evitando nell’immediatezza di far scendere il Madonia dal cassone per farlo salire sulla Fiat Uno - e prenderlo a bordo in un posto più distante, dovendo entrambi raggiungere la via D’Amelio, mentre il Ferrante aveva un ben diverso itinerario: ne costituisce riscontro di ordine logico il concitato bussare con i pugni contro l’oblò della cabina da parte del Madonia per sollecitare il Ferrante ad una partenza quanto più veloce possibile da quella zona senza attendere che egli scendesse dal cassone. Non può peraltro escludersi che il Madonia, dopo avere lasciato la Fiat Uno nei pressi della pasticceria, abbia raggiunto a piedi la vicinissima Chiesa e che ivi abbia potuto incontrarsi con qualche altro uomo d’onore (per es. Ganci Raffaele), della cui presenza in zona, giova ricordarlo, ha pur riferito il Brusca (Galatolo Vincenzo, Puccio Vincenzo e Pino Greco, detto “Scarpa”), che potrebbe averlo accompagnato nel luogo dell’appuntamento - dove il Ferrante, come è noto, ha riferito di averlo trovato a piedi – per fare subito rientro nella piazza S.Michele. La dinamica sopra descritta consente di ritenere plausibile il racconto del Ferrante il quale, come sopra ricordato, ha riferito di avere notato “un movimento di macchine”, e cioè il Brusca che parcheggiava la 126, che effettuava gli ultimi preparativi e si attardava per far sparire eventuali impronte dalla carrozzeria, scendendo infine dall’autovettura e dirigendosi verso di lui. È appena il caso di rilevare che anche il Brusca ha riferito di essersi avviato a piedi verso il camion e di essere stato accompagnato proprio a ridosso del Leoncino dal Ganci e dall’Anzelmo, sebbene questi non abbiano fatto cenno della circostanza; occorre tuttavia osservare che il Ferrante ha confermato di avere visto il Brusca sparire alla sua vista in una traversa mentre procedeva a piedi verso di lui, sicchè non può escludersi che quest’ultimo abbia effettivamente trovato il Ganci e l’Anzelmo in una traversa ed abbia fatto con loro qualche giro di perlustrazione. È da escludere, invece, che vi si stato un temporaneo rientro al Fondo Pipitone da parte del Ganci e dell’Anzelmo - di cui solo quest’ultimo parla e non anche il primo – ed il successivo appuntamento, poco prima delle ore 8,00, nei pressi della chiesa di San Michele: può fondatamente presumersi che l’Anzelmo confonda un episodio che avvenne dopo per una sovrapposizione di ricordi. Il rientro, invero, non appare funzionale ad alcuna esigenza operativa in quella delicata fase che precedette di poco l’attivazione della carica esplosiva, chè anzi avrebbe potuto danneggiare l’esecuzione del progetto, e contrasta insanabilmente con le dichiarazioni di tutti i collaboratori che hanno indicato come presenti costantemente ed insieme le coppie Madonia- Brusca e Ganci- Anzelmo, ove si consideri che lo stesso Ganci ha dichiarato di non essersi mai separato dal cugino se non per pochi istanti. Non può peraltro essere sottaciuto che le giustificazioni fornite dall’Anzelmo, sopra riportate, in ordine alle esigenze sottese al temporaneo rientro al fondo dei Galatolo non appaiono del tutto plausibili e depongono per un impreciso ricordo.

Illogico appare altresì quell’affollato appuntamento di tutti quanti nei pressi della Chiesa di San Michele, compreso il camion con a bordo il Ferrante ed il Madonia, tanto più ove si consideri che l’incontro è stato collocato poco prima delle 8,00 (7,30-740-7,45) mentre il camion a quell’ora era già all’altezza della pasticceria svizzera e non si mosse da lì. Anzelmo evidentemente vide, come tutti gli altri, il camion e Ferrante quando spostò la macchina e sovrappone ricordi. Alla stregua della supposta ricostruzione, risulta evidente come sia soltanto apparente la discrasia rilevabile nel racconto dei collaboratori protagonisti della fase esecutiva in ordine ai movimenti del Madonia nel luogo teatro della strage, atteso che mentre il Ferrante, come sopra ricordato, ha sostenuto che il predetto era rimasto sempre con lui, altri coimputati vi hanno attribuito condotte che sembrerebbero postulare una separazione del primo dal conducente del camion. È appena il caso di rilevare, infatti, che le azioni poste in essere dal Madonia dal momento del trasferimento dal garage al luogo della strage vanno collocate in una fase temporale antecedente all’incontro con il Ferrante, dal quale effettivamente non si separò fino a quando non discese dalla cabina per collocarsi sul cassone. Va tuttavia osservato che anche l’assunto del Brusca di avere trovato  il Madonia a bordo della Fiat Uno posteggiata dietro il camion, poco prima dell’esplosione, appare perfettamente compatibile con i movimenti di quest’ultimo prima di salire sul cassone, non potendosi escludere che sceso dalla cabina abbia preso posto per poco tempo sulla Fiat Uno in attesa del Brusca, il quale ha infatti dichiarato che appena salito su detta autovettura il Madonia ne discese per posizionarsi sul cassone del Leoncino.

I riscontri sulle voci dal di dentro. La Repubblica il 25 luglio 2020. Nel quadro di una valutazione comparativa dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori esaminati non può essere sottaciuta la fase relativa al confezionamento della carica esplosiva in ordine alla quale si sono registrate delle discrasie tra la versione fornita dal Brusca e quella del Ganci. Va subito rilevato che la descrizione fornita dal Brusca in ordine alle caratteristiche morfologiche e cromatiche dell’esplosivo (“ tipo granuloso, un bianco leggermente scuro.… non rotondo, ma era un pò sformato, non era proprio rotondo a palline, però granuloso”) appare perfettamente conforme a quelle che, secondo dati di comune esperienza oltre che di specifiche acquisizioni processuali, sono le caratteristiche dell’esplosivo da cava, normalmente costituito per circa il 20% da tritolo e per circa l’80% da nitrato di ammonio; il primo si presenta come una polvere di colore marrone-nocciola, il secondo ha la consistenza e la forma di pallini del tipo di quelli che costituiscono la carica delle cartucce per fucili da caccia. È fin troppo ovvio che, miscelando le due sostanze, il tritolo, polverulento, si deposita sulla superficie dei pallini, facendo loro assumere una colorazione tendente al marrone-nocciola, compatibile con il “bianco leggermente scuro” di cui ha parlato il Brusca. Va infine ricordato che il detonatore ha la funzione di provocare l’onda d’urto che innesca l’esplosivo, mentre il nitrato di ammonio fornisce ossigeno alla miscela esplosiva. Tanto premesso, va ricordato che in ordine alla fase di confezionamento e trasporto dell’esplosivo, il Brusca ha riferito quanto segue. La quantità complessiva contenuta nei sacchetti era all’incirca di 40- 50-60 chilogrammi. Egli aveva richiesto al Di Maggio di costruire una scatola in ferro con un’apertura nella parte superiore, fornendogli anche le dimensioni – preventivamente concordate con Madonia Antonino - e facendogli presente che avrebbe dovuto essere collocata nel portabagagli di una FIAT 126. Frattanto aveva reperito in un garage di contrada Dammusi una bombola di gas e dopo averne svitato il rubinetto, collaborato dal Di Maggio all’interno dell’officina meccanica di quest’ultimo, aveva provveduto a riempirla, collocando la rimanente parte di esplosivo in due scatole di “aspor”, e sistemando il tutto (bombola, scatole e scatola metallica) nel portabagagli dell’autovettura Golf del Di Maggio. Nelle prime ore del pomeriggio del giorno precedente alla strage, messosi alla guida della predetta autovettura, preceduto dal Di Maggio che gli batteva la strada a bordo della Fiat Uno intestata al fratello Giuseppe, si erano diretto a Palermo, recandosi in una traversa della via Ammiraglio Rizzo, dinanzi all’esercizio commerciale “Gammicchia gomme”, dove aveva appuntamento con il Madonia. A quel punto il Di Maggio, dopo avere offerto la propria disponibilità a rimanere qualora la sua presenza fosse stata utile, si era allontanato; subito dopo il Brusca a bordo della Golf ed il Madonia a bordo di una Fiat Uno si erano introdotti in uno scantinato, sito nelle vicinanze in una traversa della via Ammiraglio Rizzo, all’interno del quale aveva notato una Fiat 126 di colore “verde oliva” poi utilizzata per compiere l’attentato; non ricordava se in quell’occasione fosse presente anche Ganci Calogero o se fosse sopraggiunto. Erano, quindi, iniziate le operazioni di preparazione e collocazione dell’ordigno esplosivo, che il collaboratore ha dettagliatamente così descritto. Avevano dapprima collocato la bombola di gas e poi la scatola di ferro, inserendo tra i due contenitori del cartone non evitare urti e attrito. Non ricordava se avevano tolto la ruota di scorta dall’apposito alloggiamento di cui era fornito il cofano di quel modello di 126. Descriva inoltre le attività di passaggio dei fili del detonatore e di sistemazione dell’apparato ricevente proprio sotto il seggiolino del lato guida della macchina, nonché dell’antenna “a filino, ricoperta di plastica”, che avevano fatto “fuoriuscire per quattro - cinque centimetri tra sportello e correntino della macchina.” Il Brusca ha riferito che durante la preparazione dell’auto-bomba curata da lui e dal Madonia era presente anche Ganci Calogero, pur non ricordando se si trovasse già all’interno del garage o fosse sopraggiunto dopo il loro arrivo, mentre “Enzo Galatolo andava e veniva”, portando acqua, attrezzi ed altro materiale necessario; non ricordava se in quella circostanza avesse notato la presenza di Anselmo Paolo, certamente visto successivamente. Tutta l’attività “per assemblare dentro la macchina i pezzi” li aveva impegnatati per 4-5-6-ore ed era stata ultimata “tardissimo”, senza essere tuttavia in grado di precisare l’orario esatto. Il Ganci Calogero ha testualmente riferito: “ la macchina fu portata nel garage di Madonia ed io ci cambiai le targhe, mi ricordo, Madonia mi ci fece levare anche la ruota di scorta, ha preso la bombola, e in quell'occasione eravamo io, Brusca Giovanni e Madonia Antonino e, se non ricordo male, anche mio cugino Paolo, anche se, diciamo, non me lo ricordo tanto bene se lui c'era in quell'occasione o no, ... e io notai questa bombola che ci mancava... dove va la manopola del gas...” Dopo avere precisato, a specifica domanda, che la bombola era vuota e di essere entrato nel garage un paio di giorni prima della strage, ha descritto la seguente attività svoltasi all’interno di quel locale: “No, fu una visita che abbiamo fatto perchè il Madonia o ci mandò a chiamare, non lo so cosa. comunque noi ci siamo recati lì e perchè.. io quando vidi la bombola del gas ancora era vuota, non era stata ancora, diciamo, riempita e mi ricordo il fatto che il Madonia chiese al Brusca il funzionamento di questo motorino, .. “.

I contrasti tra il Brusca, che sostiene di essersi recato nel garage con la bombola già piena di esplosivo e di avere per la prima volta in presenza di Ganci collocato la bombola nel vano portabagagli, ed il Ganci, che riferisce dell’esigenza prospettata dal Madonia di togliere la ruota di scorta sembrerebbe deporre per l’organizzazione di una fase così delicata, improntata ad una certa approssimazione e aleatorietà. Ad avviso della Corte, invece, il Ganci sovrappone il ricordo di due diversi momenti. Il primo è quello nel quale era presente solo lui e Madonia (e non anche Brusca e Anzelmo) e nel quale è verosimile che effettivamente il Madonia gli abbia detto di togliere la ruota di scorta perché dava intralcio, in un contesto in cui evidentemente stavano effettuando delle verifiche preventive. Ciò rende verosimili le ben più precise indicazioni che il Brusca dovette ricevere dal Madonia il giorno prima allorchè gli furono fornite addirittura le dimensioni della cassetta e della bombola. È significativo il fatto che inizialmente gli avessero più genericamente parlato di un barattolo e di una cassetta. Ciò spiega la ragione per la quale Brusca non ricorda che sia stato necessario togliere in sua presenza la ruota di scorta per collocare la bombola. Non è pensabile, infatti, che Brusca giunga al garage con una bombola piena di esplosivo prima di aver verificato la capacità del vano portabagagli; è verosimile che dapprima vi sia stata una verifica da parte del Madonia e del Ganci – ciò che, peraltro, potrebbe spiegare la ragione per la quale quest’ultimo ha ricordo di una bombola vuota - e che in esito a tale prova al Brusca sia stato dato l’incarico di predisporre una bombola ed una cassetta di una certa dimensione. Il secondo incontro che Ganci sovrappone a quello di cui sopra è quello in cui avviene la prova del telecomando, ma che si verifica la notte antecedente all’attentato; di esso peraltro ha parlato anche l’Anzelmo, dato per presente anche alla prova della ruota di scorta, circostanza che invece quest’ultimo non ricorda. Ciò consentirebbe di spiegare certe presenze che Ganci erroneamente colloca nel garage, quando prova la ruota di scorta (e cioè Anzelmo e Brusca). Brusca ha confezionato con il Madonia l’auto-bomba e non ha ricordato di essere andato a Fondo Pipitone (anche se non lo ha escluso); il Ganci e l’Anzelmo invece lo hanno indicano come presente due volte presso il fondo Pipitone con Madonia (una prima volta hanno riferito di averli visti arrivare e che, dopo un certo periodo di tempo si erano allontanati per una o due ore, facendo poi nuovamente ritorno). Il contrasto, ad avviso della Corte, si spiega con un errato ricordo di Brusca, che non risponde alla logica di una così delicata operazione. Certamente dopo aver terminato – “tardissimo”, secondo il Brusca - il confezionamento dell’auto-bomba ed avere già verificato la corretta disposizione del detonatore, il Madonia ed il Brusca andarono a rubare le targhe asportandole da altra Fiat 126 posteggiata in una traversa della via S.Polo; è appena il caso di rilevare che quest’ultima autovettura, di proprietà di Santonocito, fu infatti parcheggiata alle 23,50 e il furto fu scoperto alle 6,00. I due, quindi, si recarono all’appuntamento presso il fondo Pipitone con Anzelmo, Ganci Raffaele e Calogero, Pippo Gambino e Galatolo: ciò peraltro appare perfettamente plausibile e funzionale all’esigenza di far sapere ai predetti che tutto era a posto. Per dimostrarlo dovettero far vedere come funzionava il telecomando; la prova è ricordata sia da Calogero Ganci sia da Anzelmo, i quali rimasero sorpresi dal meccanismo perché era la prima volta che lo vedevano. Il Brusca invece, che aveva già fatto le più importanti prove in c.da Dammusi, non ha conservato alcun ricordo di quella eseguita nel fondo dei Galatolo, la cui marginale rilevanza per lui, a quel punto, non ne ha facilitato la memorizzazione; univocamente sintomatico appare, sul punto, la circostanza che, richiesto di precisare se avesse effettuato altre prove a Palermo, abbia significativamente dichiarato di non avere fatto vere e proprie prove, ma piccoli controlli. Quando Brusca e Madonia si allontanarono – Ganci non ha saputo dire per quanto tempo ed ha supposto che fossero andati a sistemare la macchina mentre l’Anzelmo ha parlato di 1-2 ore – è verosimile che siano andati a riposare nell’appartamento di via D’Amelio, circostanza in ordine alla quale Brusca ha dimostrato di conservare un ricordo molto preciso e che oltretutto appare molto plausibile in considerazione della giornata intensa e del delicato impegno che li attendeva. Altrettanto verosimile è che Madonia e Brusca abbiano fatto ritorno al fondo Pipitone per avvisare che erano pronti e per portarsi dietro Galatolo che doveva aprire la saracinesca del garage di Via Porretti.

Le indagini sull'esplosivo. La Repubblica il 26 luglio 2020. La valutazione della attendibilità del Brusca in ordine alla carica esplosiva, con particolare riguardo al quantitativo utilizzato in relazione alla capacità dei contenitori, ha richiesto una verifica dibattimentale in ordine alla possibilità di alloggiamento di una bombola di gas nel cofano anteriore di una Fiat 126. Prima di passare alla specifica disamina delle risultanze processuali, appare opportuno preliminarmente riassumere sinteticamente le dichiarazioni rese dal Brusca sul punto. Come già sopra esposto nella parte relativa alle dichiarazioni rese dal Brusca, il collaboratore ha riferito che la quantità di esplosivo fornita (“due mezzi sacchetti”) si aggirava intorno ai “cinquanta, sessanta chili, quaranta chili”, e di avere riempito una bombola di gas per usi domestici con un piccolo imbuto, svitandone il rubinetto. Il quantitativo residuo era stato inserito, per dissimularne la reale natura, all’interno di due scatole di “aspor”, prodotto chimico che viene impiegato per irrorare il vigneto, ciascuna delle quali poteva contenere “venticinque chili o quindici chili di materiale”. Il contenitore predisposto dal Di Maggio, costituito da una cassetta di ferro, “da trenta o quaranta centimetri, alta quindici-venti”, era stato successivamente riempito a Palermo, sicchè l’ordigno esplosivo, nel suo definitivo confezionamento, era risultato costituito dalla bombola e dalla scatola di ferro. Per completezza espositiva va rilevato che a specifica domanda il Brusca ha dichiarato che la bombola era del tipo “da venticinque chili, la più grossa” (f.142, ud.3/3) e che nel corso del controesame gli è stato contestato che nel verbale in data 11/8/1996 aveva dichiarato che “l’esplosivo era per quantità tra i settanta ed i novanta chili”, senza far cenno della bombola come contenitore usato durante il trasferimento a bordo della Golf (cfr.f.31,ud.cit.). Va tuttavia osservato che nel corso di altro verbale in data 24/10/1997 il Brusca spontaneamente aveva fatto menzione della bombola anche con riferimento alla fase del trasporto e che in dibattimento (f.33) il collaboratore ha fornito le seguenti giustificazioni in ordine all’iniziale omissione: “ Signor Presidente, debbo chiarire alla Corte che non lo sa. Io inizialmente ho avuto una... una fase di collaborazione molto travagliata, sia per problemi interni sia per problemi di tensione. E onestamente non me lo ricordavo, avevo dei ricordi un pò... un pò offuscati. Man mano, con il tempo, sia per problemi miei sia man mano che mi andavo ricordando, avevo la... la coscienza di avvertire chi di competenza: "Guarda, ho sbagliato su questo, ma la situazione è così". E man mano che andava affiorando io li andavo dicendo i fatti, Signor Presidente. Eh, se questa è una colpa, mi dispiace, ho sbagliato, però nel tempo io ho avuto la possibilità di chiarire e verificare i fatti”.

Tanto premesso, osserva la Corte che le incertezze mnemoniche del Brusca appaiono ampiamente giustificate sia dal lungo lasso di tempo trascorso dai fatti che dalla specificità dei dati oggetto della narrazione, non essendo agevole ricordare e indicare con precisione le dimensioni di un contenitore e la quantità di una sostanza, soprattutto quando, come nel caso di specie, l’incertezza rimanga comunque compresa tra misure di una certa consistenza ed il dubbio non investa grandezze diametralmente opposte e pertanto tale da rendere non plausibile il dubbio tra le alternative prospettate. La fondatezza del superiore assunto risulta peraltro suffragata dal rilievo che un calcolo, sia pur approssimativo, della probabile capacità dei contenitori utilizzati per il confezionamento dell’ordigno rende del tutto verosimili i dati forniti e la compatibilità degli stessi con alcune emergenze processuali. Le verifiche dibattimentali hanno consentito di accertare innanzitutto che l’unica bombola collocabile nel cofano anteriore di una 126 è quella da 10 kg. e più precisamente quelle ritratte nelle fotografie nn.1, 2, 3, 6,7, 9 e 10 allegate al verbale di udienza del 29/3/2000 e contraddistinta dalle sigle “A” ed “A1”. Un rapido ed agevole calcolo consente di affermare che una bombola di quella dimensioni, pari a cm. 65 di altezza e cm. 25 di diametro (cfr. dep. teste Catalano, f.32, ud.29/3/2000) può contenere circa 32 Kg. di esplosivo costituito da quel tipo di miscela composta da pallini aventi le dimensioni sopra ricordate. Una cassetta delle dimensioni di 10x10x30 ne può contenere circa 3 Kg., mentre una avente le dimensioni 20x20x40 ne può contenere all’incirca Kg.16. Orbene, se si considera che il Brusca ha fatto riferimento ad una cassetta “da trenta o quaranta centimetri, alta quindici-venti” e che nel cofano di una Fiat 126, dopo avere collocato la bombola nel modo raffigurato nelle foto nn.9 e 10 in atti, residua una profondità di cm.20 ed un’altezza di cm.30, appare evidente che nello spazio citato può essere inserita una cassetta avente dimensioni molto prossime a quelle indicate dal collaboratore e, quindi, con una capacità di circa 16 kg. Ne deriva che la quantità complessiva di sostanza esplodente utilizzata per l’attentato dovette essere di circa 48 Kg, quantità che non discosta di molto da quella che, con una certa plausibile approssimazione, il Brusca ha indicato in “cinquanta, sessanta chili, quaranta chili”.

L’assunto del Brusca ha inoltre trovato riscontro nelle risultanze degli accertamenti tecnici eseguiti nel corso delle indagini preliminari. È appena il caso di ricordare che le analisi peritali consentirono di accertare che l’esplosivo adoperato per l’attentato era del tipo “tritolo” che, come ha precisato in dibattimento il cap Di Matteo, “è la versione civile dell’esplosivo di cava” aggiungendo che in campo civile il tritolo è miscelato con un sale inorganico, il nitrato di ammonio, in percentuali diverse che dipendono dal produttore, in quanto questa sostanza aumenta il potere deflagrante del tritolo”. A specifica domanda il C.T. ha precisato che in ogni caso le analisi non avrebbero potuto evidenziare l’eventuale presenza di “nitrato di ammonio” trattandosi di un composto dell’ammoniaca che alle elevate temperature si volatilizza. Quanto alle caratteristiche fisiche del tritolo, i consulenti hanno precisato che trattasi di esplosivo polverulento che, tuttavia, allorchè miscelato con il nitrato di ammonio, assume una aspetto granuloso e la struttura di tipo salino (che si apprezza al contatto); se il nitrato di ammonio, al quale il tritolo viene miscelato, è in condizioni di buona purezza, la colorazione della miscela è bianca, viceversa assume un colore giallino. In ordine alla quantità di esplosivo adoperato per determinare gli effetti di quella esplosione, i consulenti hanno spiegato che la valutazione di 10 - 20 chilogrammi, in relazione allo stato dei luoghi e anche allo spazio all’interno del quale l’esplosivo era stato occultato, era relativa alla quantità minima necessaria per determinare quell’effetto, precisando che si trattava di un dato di orientamento, che doveva essere tenuto presente anche il sistema di intasamento e che la valutazione era stata effettuata in maniera estremamente approssimata. Hanno, infine, rilevato che per ampliare l’effetto deflagrante, sarebbe stato consigliabile riempire completamente il contenitore metallico, senza lasciare spazi, atteso che l’ossigeno viene fornito dal nitrato di ammonio, e che non era necessario chiudere ermeticamente il contenitore. Una più precisa determinazione quantitativa avrebbe richiesto l’esecuzione di prove da scoppio che non erano state espletate. [...]

Un altro specifico punto di contrasto è rilevabile in ordine alla sostituzione delle targhe della Fiat 126, atteso che il Ganci ha dichiarato di avervi provveduto personalmente (“ci cambiai le targhe” - ff.128,129 e 143, ud.15/3), mentre il Brusca ha riferito di avere rubato delle targhe insieme al Madonia la stessa notte dell’attentato asportandole da altra Fiat 126 posteggiata in una traversa della via Sampolo, di proprietà di Santonocito. Il contrasto, invero, potrebbe essere soltanto apparente, atteso che il Ganci, il quale ha fornito una dettagliata descrizione della tecnica utilizzata per la sostituzione delle targhe delle numerose autovetture rubate per l’esecuzione di innumerevoli reati, potrebbe avere confuso uno dei molteplici interventi eseguiti nel corso della sua carriera criminale. Ma non può affatto escludersi che, dopo una prima sostituzione, la notte dell’attentato sia stato deciso di eseguire il furto di altre targhe, sia per evitare il ricorso alle modalità di assemblaggio con l’impiego di una tavoletta di legno e di mastice “bostick”, descritte dal Ganci, e quindi ogni rischio di riconoscibilità in relazione alla delicatezza del progetto criminoso che consigliava l’applicazione di targhe integrali, sia per l'esigenza di un furto che per essere stato perpetrato nelle prime ore del mattino ed a poche ore di distanza dal reato-fine dava sufficienti garanzie che quelle targhe non avrebbero potuto essere ricercate di lì a poco né inserite in un terminale. Sotto tale profilo appare significativo il fatto che il furto sia stato casualmente scoperto qualche ora dopo solo perché il figlio del proprietario doveva partire con il pulman per raggiungere la sede (Trapani) dove stava espletando il servizio militare. L’attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori esaminati, protagonisti della fase esecutiva della strage, sia pur con ruoli diversi in relazione ad autonomi segmenti attuativi del progetto criminoso, risulta suffragata non solo dal reciproco riscontro che deriva dalla sostanziale convergenza delle rispettive chiamate in correità nei loro nuclei fondamentali, coincidenza che ne rafforza sinergicamente l’attendibilità estrinseca, ma altresì da una serie di idonei elementi oggettivi di riscontro estrinseco.

Meritano in particolare di essere segnalate le seguenti emergenze processuali. Ribaudo Andrea, proprietario della FIAT 126 oggetto del furto e titolare dell’omonima autoscuola, ha riferito che la mattina del 27 luglio 1983, quindi due giorni prima della strage, nel momento della asportazione, l’autovettura si trovava posteggiata in doppia fila dinanzi all’autoscuola, con gli sportelli aperti e le chiavi - come era loro abitudine - nel porta oggetti o nella tasca laterale, o inserite nel quadro di accensione e, comunque, all’interno dell’abitacolo, precisando che tale prassi traeva origine dal fatto che tra una lezione e l’altra di scuola guida intercorrevano pochi minuti. L’auto era di colore verde bottiglia, aveva i doppi comandi ed era munita di tabelle applicate sul paraurti che indicavano l’uso cui era destinata; non è stato in grado di precisare se le insegne dell’epoca recanti l’indicazione “scuola guida” fossero adesive o apposte con ganci e facilmente staccabili. Ha riferito, inoltre, di avere presentato regolare denuncia ai carabinieri della Stazione Palermo-Uditore nell’immediatezza del fatto oralmente ed il giorno dopo il furto aveva formalizzato la denuncia (cfr.ud.13/1/1999)

L’indicazione temporale fornita dal teste in ordine alla data del furto riscontra le dichiarazioni rese sul punto dall’Anzelmo, mentre consente di attribuire a cattivo ricordo l’assunto del Ganci che ha collocato il furto ad una settimana prima. Longo Gaetana (ud. cit.) all’epoca impiegata presso l’autoscuola Ribaudo, ha confermato che l’auto era posteggiata in doppia fila ed aperta con le chiavi collocate lateralmente o nel portaoggetti, precisando che anche in altre occasioni era accaduto che le chiavi fossero state lasciate inserite nel quadro di accensione. Ha inoltre riferito che il giorno del furto vi era stata già una lezione di guida e dopo pochi minuti se ne sarebbe dovuta tenere un’altra; di essersi accorta del furto quasi subito dopo e di avere avvisato il titolare il quale l’indomani mattina aveva presentato la denuncia. L’autovettura recava le insegne della scuola guida che erano apposte con ganci al paraurti, ciò che consente di ritenere giustificato l’intervento del Di Napoli che non doveva limitarsi a rimuovere le insegne, ma anche a togliere i ganci con l’ausilio di una pinza o altro utensile. Come già sopra anticipato, anche il furto delle targhe apposte alla Fiat 126 ha trovato riscontro nelle dichiarazioni del teste Santonocito Salvatore, titolare nel 1983 di un panifico ubicato in Via Imperatore Federico, nr. 65, il quale ha riferito che l’autovettura Fiat 126 tg PA 426847 era intestata a lui ma era nella disponibilità del figlio che l’aveva posteggiata sotto la propria abitazione sita in via Vincenzo Fuches dopo la mezzanotte. Il furto era stato eseguito sicuramente dopo tale ora e prima delle ore quattro della stessa notte quando l’altro figlio, che stava espletando il servizio militare a Trapani e ogni mattina alle sei prendeva il pullman  per recarsi in quella città, era sceso da casa e si era accorto della sottrazione; lo stesso figlio si era recato al Commissariato rappresentando verbalmente l’accaduto ma non aveva potuto presentare la denuncia subito perché gli era stato riferito che a quell’ora gli uffici erano chiuse al pubblico. Lo stratagemma riferito dall’Anzelmo per indurre il proprietario del camioncino semiscoperto di una ditta di trasporti, sul quale figurava scritto un numero di telefono, a spostare il mezzo posteggiato proprio davanti l'ingresso dello stabile del dr. Chinnici ha trovato riscontro nella significativa deposizione di Maceo Francesco. Secondo quanto riferito dal collaboratore avevano pensato di telefonare a quel numero ed alla interlocutrice che aveva risposto lo stesso Anzelmo si era qualificato come potenziale cliente, richiedendo l’invio del furgone per trasportare una lavatrice che assumeva di avere comprato presso la ditta Migliore, sita nei pressi del cinema ''Jolly'' e della stazione Notarbartolo. Avendo la ditta aderito alla richiesta, non appena il furgone lasciò il posto fu possibile al Ganci piazzarvi un’autovettura “proprio davanti l'androne….di dove scendeva il Consigliere Istruttore Chinnici”. Il teste Maceo, all’epoca dei fatti titolare di una ditta per il trasporto di cose, sentito all’udienza dell’1/4/1999, pur essendo visibilmente impaurito e piuttosto restio ad ammettere i fatti, non ha potuto fare a meno di ammettere che era solito posteggiare il proprio furgone Fiat 241 di colore grigio, a poca distanza dal civico 59 della via Pipitone Federico. La circostanza è stata confermata anche dal figlio del consigliere Chinnici, Giovanni, il quale ha ricordato di avere notato il mezzo generalmente posteggiato nella via Pipitone Federico, all’angolo con la via Prati proprio dinanzi alla portineria, ma di non potere escludere che il furgone qualche volta abbia stazionato dinanzi al portone di ingresso della sua abitazione. Il teste Maceo ha tuttavia ammesso che sul furgone era apposta una targa in plastica indicante il recapito telefonico della ditta, coincidente con quello della propria abitazione, riscontrando peraltro la circostanza della voce femminile cui ha fatto riferimento l’Anzelmo, atteso che il teste ha dichiarato che effettivamente le telefonate venivano ricevute dalla propria moglie alla quale egli telefonava per sapere se ci fosse qualche trasporto da effettuare. È appena il caso di osservare che le telefonate dovessero essere effettuate più volte durante l’arco della giornata, non essendo credibile che il titolare – come dallo stesso sostenuto - conoscesse delle richieste pervenutegli soltanto la sera quando rincasava, potendo pervenire anche richieste aventi carattere di urgenza che non avrebbero potuto essere soddisfatte con conseguente perdita di occasioni di lavoro e danno economico. Ulteriori riscontri sono stati acquisiti in ordine al concorde assunto di Ganci ed Anzelmo di avere partecipato ad una manifestazione canora la sera precedente alla strage, essendo stato accertato l’effettivo svolgimento della nota manifestazione “Cantamare, nei giorni 28 e 29 luglio 1983 in località Mondello, presso il campo sportivo “Castellucci”. È stato altresì individuato il locale denominato “Brasil” che effettivamente, nel luglio 1983 era in esercizio nella via Pietro Bonanno di Palermo. Il titolare, Orestano Fausto, ha riferito che il locale, negli anni ‘82 - ‘83 era aperto nei mesi estivi e certamente nelle sere del venerdì, precisando che l’accesso al pubblico, che secondo i  programmi gestionali avrebbe dovuto essere selezionato, in realtà non lo era a causa dell’elevato numero di presenze soprattutto nei giorni di venerdì e sabato e della sostanziale assenza di controlli quando egli stesso non era presente, trattandosi di attività demandata a dipendenti che potevano decidere con ampi margini di discrezionalità. Dato il tempo trascorso, non è stato possibile reperire presso la SIAE la documentazione fiscale riguardante l’apertura del locale nella notte tra il 28 ed il 29 luglio; tuttavia risultano regolarmente corrisposti i diritti d’autore per l’intero arco del mese di luglio 1983, circostanza questa che conferma che il locale era regolarmente aperto al pubblico.

In relazione agli itinerari descritti dai collaboratori, è stato accertato che nell’anno 1983 la via Pipitone Federico era percorribile a senso unico con direzione via Libertà - via Nunzio Morello. Risulta, inoltre, positivamente riscontrato che dai gradini della chiesa di San Michele è ben visibile il luogo in cui si verificò la deflagrazione e che all’epoca la chiesa era già munita di recinzione con un cancello di ingresso che già dalle ore 7,00 dei periodi estivi era regolarmente aperto per consentire l’accesso ai fedeli, come confermato in dibattimento dal parroco. È stato accertato che nel luogo indicato dal Ferrante come quello in cui egli trovò l’autocarro da lui stesso portato in via Pipitone Federico, si trova effettivamente un parcheggio per autovetture e mezzi pesanti che dal 1981 è condotto in locazione da una società di pertinenza di tale Ganci Antonino, primo cugino dell’imputato Ganci Raffaele. Quanto alle dichiarazioni di Brusca Giovanni, va rilevato che l’istruzione dibattimentale ha consentito di riscontrare numerose circostanze dallo stesso riferite. Innanzitutto, con riferimento all’attività di osservazione degli spostamenti del consigliere istruttore Chinnici nell’estate del 1982, la certificazione del Presidente del Tribunale di Palermo del 3.6.1999 ha confermato che il magistrato nell’agosto di quell’anno aveva fruito di un periodo di ferie; tale periodo, come ha riferito il figlio  Giovanni, lo aveva trascorso nella villa di Salemi, come era solito fare ogni anno. Dalla deposizione del teste si rileva che la descrizione dell’immobile dallo stesso fornita coincide con quella del Brusca, con particolare riferimento all’ubicazione ed alla visibilità della casa sia dalla strada statale sia dalla stradella interpoderale asfaltata privata, ma priva di recinzioni e quindi con accesso libero a chiunque. Anche nel corso di quell’estate effettivamente erano state predisposte misure di protezione a tutela del magistrato, affidate ai carabinieri del luogo che si alternavano con turni nell’arco dell’intera giornata. Il servizio veniva espletato prevalentemente da militari dell’Arma in abiti civili che stazionavano con automezzi posteggiati lateralmente alla villa, ubicata nella stessa contrada in cui i cugini Salvo possedevano un villino. Il teste Giovanni Chinnici ha riferito che effettivamente, all’epoca della strage, dinanzi al portone di ingresso erano stati appena posti a dimora due alberi con due piccole aiuole. Oltre a quanto sopra evidenziato in ordine ai significativi riscontri acquisiti in esito agli accertamenti esperiti dai consulenti tecnici, appare estremamente significativa l’indicazione dagli stessi fornita sulla possibile provenienza del frammento metallico repertato, che, per le caratteristiche strutturali e morfologiche, ben può essere riconducibile  ad una bombola di gas adoperata per contenere l’esplosivo. Infine, con riferimento ai doppi comandi della Fiat 126 sottratta all’autoscuola, occorre evidenziare come nessuno dei collaboratori, ad eccezione del Ganci, abbia avuto un ricordo preciso della circostanza. Tuttavia può fondatamente presumersi che il Brusca non abbia avuto contezza dell’esistenza dei doppi comandi in quanto tutti i lavori erano concentrati nel vano anteriore portabagagli e per la collocazione dell’antenna e della ricevente erano stati effettuati esclusivamente nella parte anteriore sinistra dell’abitacolo. Alla stregua delle considerazioni che precedono può conclusivamente ritenersi ampiamente provata la complessiva attendibilità dei collaboratori esaminati, avendo le discrasie su alcuni punti, sopra rilevate, trovato plausibili giustificazioni, sicchè esse appaiono addirittura attestative della reciproca autonomia delle varie propalazioni in quanto "fisiologicamente assorbibili in quel margine di disarmonia normalmente presente nel raccordo tra più elementi rappresentativi" (cfr. Cass.n.80/92)

Ed invero, ad avviso della Corte, le divergenze sono state analizzate criticamente e spiegate sia in relazione alle ragioni che alla natura di esse, alla stregua di criteri logici e dei principi di coerenza interna e di ragionevolezza, ed in esito alla analitica disamina sopra esposta può ritenersi che le singole propalazioni non solo non siano in contraddizione ma sostanzialmente coincidenti nel nucleo centrale del racconto e presentano altresì elementi specifici che, potendo essere conosciuti soltanto da persone che sono state protagoniste dei fatti narrati, dimostrano una conoscenza non relativa a notizie di dominio pubblico. Non può non ribadirsi come per una corretta valutazione inferenziale delle divergenze assuma un particolare rilievo la circostanza che il racconto abbia per oggetto fatti accaduti nel 1983 e, quindi, ben 13 anni prima dell’inizio della loro collaborazione risalente al 1996. Non disconosce la Corte che la partecipazione alla fase preparatoria ed esecutiva di un gravissimo attentato, peraltro eseguito con particolari modalità di tipo terroristico in danno di un magistrato, con conseguenze devastanti, non può non lasciare nella memoria tracce precise e difficilmente cancellabili. È altrettanto vero però gli odierni imputati-collaboratori, che di quell’efferato delitto sono stati diretti protagonisti, hanno un vissuto criminale contrassegnato da una lunga militanza in “cosa nostra”, nel corso della quale hanno perpetrato una incredibile serie di delitti rientranti ormai in un sistema di vita abituale, connotata anche dalla ripetitività di molte condotte, sostanzialmente simili, quale ad esempio quella del furto delle autovetture, le quali, per essere di volta in volta comunque correlate teleologicamente alla realizzazione di più ampi ed articolati disegni criminosi, in cui si inseriscono come tasselli operativi secondo una precisa distribuzione di compiti, ben possono dar luogo a fisiologici fenomeni di incontrollabile ed inconsapevole confusione o sovrapposizione di ricordi. Di ciò la Corte ha dato contezza, di volta in volta, alla stregua di criteri di ragionevolezza e verosimiglianza, soprattutto quando la versione che appariva meno immune dal sospetto di essere  stata fuorviata inconsapevolmente da imprecisione mnemonica, risultava smentita da argomenti di ordine logico ovvero da un terzo soggetto che, direttamente o indirettamente, forniva riscontro a quella insanabilmente divergente dalla prima: così si è ritenuto, ad esempio, di relegare nell’ambito della fisiologia dei meccanismi mnemonici l’asserito temporaneo rientro al fondo Pipitone, riferito dall’Anzelmo e non anche dal Ganci che secondo il primo ne era stato contestuale protagonista; e così pure per l’identità dell’autore della materiale sottrazione della 126 dell’autoscuola ed inoltre per la sostituzione delle targhe di detta autovettura. Altro decisivo rilievo causale nel meccanismo di sovrapposizione dei ricordi deve essere riconosciuto alla particolare ricchezza dei contenuti descrittivi delle singole propalazioni, sovente connotate da dovizia di particolari, ovvero dall’articolato sviluppo delle condotta o delle singole azioni che la compongono - snodantesi attraverso itinerari, tappe intermedie, molteplicità di personaggi, mutevolezza di coautori in relazione ad autonomi e sovente ripetitivi segmenti di una medesima azione criminosa - ed, infine, come nel caso di specie, da un ampio contesto temporale nel quale gli episodi narrati si inseriscono in rapida successione a lungo protrattasi nel corso delle varie fasi del progetto criminoso.

In un contesto narrativo così articolato e variegato non può prescindersi, inoltre, dalla autonomia e dalla sia pur parziale diversità dei ruoli svolti nelle singole fasi, sicchè il patrimonio conoscitivo appare ragionevolmente differenziato sia in relazione alla rilevanza del ruolo rivestito in seno all’organizzazione, sia in relazione all’eventuale maggiore o minore tasso di coinvolgimento nel fatto criminoso, mentre la sostanziale coincidenza nel nucleo centrale dei rispettivi racconti in ordine ai momenti di contestuale coinvolgimento e le pur presenti discrasie depongono per l’assenza di fenomeni di contaminatio e di pedissequa ripetitività. Sotto altro profilo va rilevato che il coinvolgimento dei quattro collaboratori nella strage per cui è processo, sia pur con ruoli diversi, ma tutti di primaria importanza, appare perfettamente plausibile e compatibile con la particolare rilevanza operativa che ha tradizionalmente connotato i rispettivi mandamenti di appartenenza. La specifica disamina svolta nel corso della esposizione del racconto di ciascuno dei collaboratori sopra esaminati in ordine alla reciproca autonomia ha tenuto conto delle opportunità di incontro tra il Ganci e l’Anzelmo nella stessa cella fino a poco tempo prima dell’inizio della collaborazione del primo (ma comunque non dopo l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria di Trapani, Montalto), delle ammissioni del Ganci in ordine al reciproco sfogo con il cugino in un periodo di disagio esistenziale per avere rovinato la loro vita e dell’incontro con il fratello Domenico ed il cugino Francesco Paolo per tentare di convincerli a collaborare, svoltosi in una caserma dei Carabinieri di Caltanissetta in presenza di militari dell’Arma e della Polizia Penitenziaria. Tutto ciò non può certamente averne compromesso l’autonomia del patrimonio conoscitivo e la rilevanza del rispettivo contributo probatorio fornito nel presente processo, come si desume dall’ampiezza della collaborazione su un rilevante numero di fatti criminosi ed in particolare dalla circostanza che, ad esempio, lo Anzelmo nulla ha riferito in ordine alla preparazione delle stragi del 1992: ciò che depone univocamente per l’assenza di compiacente e pedissequa ripetitività rispetto al racconto di altri collaboratori. Dalla documentazione prodotta dal P.M. ed acquisita ex art.507 c.p.p. è emerso che effettivamente il Ganci e l’Anzelmo furono condetenuti per alcuni giorni dell’anno 1996 nella stessa sezione del carcere dell’Ucciardone (sez.IX), negli stessi piani ma in celle diverse, se si eccettua l’unica volta dall’8 al 10/3/1996 in cui i due trascorsero due giorni assieme nella cella n. 11 (cfr. nota della Direzione Casa Circondariale di Palermo in data 2/6/1999; doc. n. 14 - richieste ex art. 507 c.p.p.). Non può peraltro essere sottaciuta la sostanziale convergenza in  ordine al coinvolgimento di altri soggetti chiamati in correità dai predetti collaboratori, con particolare riferimento al ruolo svolto da Gambino Giacomo Giuseppe, Ganci Raffaele, Madonia Antonino, Galatolo Vincenzo e Ganci Stefano.

Nino Madonia, il fedelissimo dei Corleonesi. La Repubblica il 27 luglio 2020. La posizione processuale di Madonia Antonino merita una specifica disamina sia in considerazione del ruolo di particolare rilievo che lo stesso ha assunto nella fase esecutiva e preparatoria dell’attentato, sia in relazione all’alibi che l’imputato ha addotto e che ha comportato una lunga e complessa verifica dibattimentale anche attraverso l’attivazione di una rogatoria internazionale. Il protagonismo dell’imputato, connotato da una pressoché costante presenza nelle fase esecutiva della strage, appare coerente con la sua personalità, con la spiccata propensione a svolgere ruoli operativi ed infine con l’appartenenza ad uno dei mandamenti più fedeli e vicini al Riina. Il pieno coinvolgimento del Madonia nei fatti per cui è processo risulta incontrovertibilmente conclamato dalle concordi chiamate in correità dei collaboratori esaminati nelle pagine precedenti, la cui attendibilità è stata rigorosamente vagliata alla stregua dei criteri elaborati dalla giurisprudenza dominante, e che si atteggiano tutte come dichiarazioni accusatorie provenienti da soggetti che sono stati protagonisti in prima persona dei fatti narrati. Le loro dichiarazioni accusatorie appaiono del tutto immuni dal sospetto di malanimo, non essendo stati acquisiti elementi che depongano per l’esistenza di sentimenti di astio o rancore nei confronti dell’accusato, ovvero per intese fraudolente volte a creare fittizie convergenze o compiacenti accordi simulatori. Va peraltro rilevato che le chiamate in correità sopra analiticamente esaminate hanno trovato un significativo riscontro in una emergenza processuale che depone per il coinvolgimento del Madonia nella fase preparatoria di un progetto criminoso nei confronti del consigliere istruttore che già nel dicembre del 1982 era pervenuto ad uno stadio operativo, atteso che, per le ragioni che da qui a poco saranno esposte, la inquietante presenza dell’imputato nell’androne del palazzo ove abitava il giudice Chinnici non ha trovato plausibili giustificazioni che valgano a conferirle caratteri di sicura liceità. Già nell’immediatezza dell’attentato, nel corso delle prime indagini, il teste Romano Edoardo, legato da rapporti di amicizia alla famiglia Chinnici aveva dichiarato alla Procuratore della Repubblica di Caltanissetta di avere incontrato l’imputato nel mese di dicembre 1982, qualche giorno dopo la celebrazione del matrimonio della figlia del giudice, nell’androne dello stabile in cui abitava il dott. Chinnici, al quale lo stesso teste era legato da rapporti di familiarità.

Nel corso dell’udienza in data 13/1/1999 il teste ha precisato che con la famiglia Chinnici vi erano rapporti di lontana parentela e di frequentazione, soprattutto con i figli del giudice, che chiamava affettuosamente zio Rocco; tali rapporti si erano sempre più intensificati negli ultimi tempi e in occasione di ricorrenze e di festività era sua abitudine recarsi presso l’abitazione del magistrato. Il Madonia era conosciuto dal Romano in quanto avevano frequentato la stessa classe negli ultimi anni del liceo scientifico presso l’Istituto Galileo Galilei. Il teste ha riferito che nel corso dell’ultimo anno di liceo (anno scolastico 1970 - 71) il Madonia era stato arrestato perché “sospettato di avere messo delle bombe”, precisando di avere appreso la notizia assieme ai compagni di classe al rientro dalle vacanze di Natale e tutti erano rimasti particolarmente colpiti. Ha inoltre riferito che qualche giorno dopo la ripresa delle lezioni i Carabinieri si erano presentati presso la sua abitazione e lo avevano invitato a seguirli in Caserma; spiegava le ragioni di quell’intervento con l’arresto del Madonia perché prima dell’inizio delle vacanze di Natale, tutti i compagni della classe avevano deciso di organizzare una cena che avrebbe dovuto tenersi a Palermo nel villino di un compagno con la partecipazione dei docenti per lo scambio di auguri. All’ultimo momento, per l’indisponibilità di quell’immobile, la cena si era svolta presso il villino di campagna dello stesso Romano a Gibilrossa senza la presenza dei professori che avevano preferito non partecipare in considerazione del lungo tratto di strada da percorrere ed in quell’occasione era presente anche il Madonia che dopo appena pochi giorni era stato tratto in arresto. Il Romano aveva chiarito agli investigatori la propria estraneità alla vicenda che aveva coinvolto il compagno di classe. Il teste ha dichiarato di avere rivisto l’imputato nei viali del Policlinico dopo qualche anno ed avevano avuto modo di salutarsi amichevolmente; in quella circostanza il Madonia gli aveva comunicato che la vicenda giudiziaria si era conclusa bene, che si trovava al Policlinico perchè stava frequentando le lezioni del corso di laurea della facoltà di medicina e chirurgia alla quale si era iscritto dopo avere conseguito la maturità studiando in carcere. Ha riferito di avere sempre considerato il Madonia un compagno affettuoso e disponibile con tutti, tanto che nell’ultimo anno di scuola, prima dell’arresto, il predetto, già munito di patente di guida, era disponibile ad accompagnare i compagni a casa. Dopo l’episodio del policlinico, in un giorno festivo – la portineria, infatti, era chiusa - e più precisamente qualche giorno dopo il matrimonio di una delle figlie del consigliere Chinnici, si era recato presso l’abitazione del giudice assieme alla moglie ed alla figlia. Dopo avere citofonato, era appena entrato nel portone di ingresso per dirigersi verso l’ascensore quando aveva notato una persona che aveva arrestato la chiusura del portone e gli si era avvicinata salutandolo; si trattava del Madonia Antonino con il quale si era intrattenuto a scambiare poche battute. In quella circostanza il teste gli aveva presentato la moglie ed a richiesta del Madonia aveva riferito che si trovava in quel luogo per fare visita ad un parente omonimo; a sua volta il Madonia aveva rappresentato di essersi recato da amici inquilini di quello stabile per giocare a carte. Appena salito il Romano aveva riferito l’episodio al dr. Chinnici, che gli era sembrato particolarmente allarmato, tanto che si era messo subito in contatto con diverse persone e subito dopo era sopraggiunto il personale di scorta che aveva provveduto ad ispezionare il palazzo senza alcun esito.

Il magistrato in quella circostanza aveva manifestato preoccupazione e timore per l’incolumità del figlio Giovanni che era uscito con amici. Il teste dopo quella sera non aveva saputo più nulla; subito dopo la notizia dell’attentato, che aveva appreso dalla radio, aveva ascoltato le altre notizie diffuse dai mezzi di informazione; nel corso della trasmissione di un’emittente locale l’allora vice-sindaco di Palermo, aveva rievocato l’episodio del dicembre 1982, facendo il suo nome e creandogli motivi di preoccupazione per la propria incolumità, anche perché negli anni precedenti la famiglia Madonia, come aveva avuto modo di apprendere dalla lettura dei giornali, era rimasta coinvolta in episodi penalmente rilevanti. Precisava di non avere avuto dubbi sull’identità del Madonia, anche perché era stato quest’ultimo a riconoscerlo per primo ed a salutarlo. Va subito rilevato che l’episodio riferito dal teste Romano ha trovato riscontro in alcune emergenze processuali, prima fra tutte l’annotazione sul diario del magistrato ucciso nel cui animo quell’inquietante presenza aveva suscitato viva preoccupazione, essendo stata posta in relazione con il procedimento per strage a carico del Madonia ed altri suoi familiari che lo stesso dr. Chinnici aveva istruito ordinandone il rinvio a giudizio, come risulta dalla documentazione acquisita.

Va inoltre osservato che sulla presenza dell’imputato nell’androne dello stabile di via Pipitone Federico, 59, hanno riferito numerosi testi che avevano appreso del fatto ancora prima della strage. Il teste Chinnici Giovanni (cfr. ud. 31/3/1999) ha riferito della forte preoccupazione manifestata dal padre quella sera stessa dell’episodio allorché, rientrato a casa, lo aveva visto visibilmente turbato e ciò contrariamente al solito, in quanto lo stesso, nell’ambito familiare, aveva sempre mantenuto un atteggiamento di serenità, evitando di parlare di episodi collegati alla propria attività giudiziaria. Quella sera il padre lo aveva addirittura rimproverato per essere rincasato tardi, mentre in realtà quello era un orario di rientro del tutto abituale; in quell’occasione il genitore gli aveva riferito che era stato visto all’interno dello stabile un pregiudicato, una persona la cui presenza riteneva pericolosa.(“era turbato, preoccupato era assolutamente insolito vederlo turbato, sconvolto”). Anche il teste Di Pisa Alberto(ud.31/3/1999) ha confermato che l’episodio aveva seriamente preoccupato il magistrato, riferendo altresì che negli ultimi tempi il consigliere istruttore camminava armato, evidenziando una certa preoccupazione. Lo stesso Chinnici aveva confidato al teste l’episodio riguardante il Madonia circa venti giorni prima della strage.

Il teste Honorati, già comandante del nucleo operativo dei CC di Palermo (ud.21/7/1999) ha riferito di avere attivato ricerche nei confronti del Madonia e la documentazione acquisita agli atti attesta che effettivamente il 23/12/1982 venne inviata una richiesta di informazioni tramite l’INTERPOL alla quale non seguì alcuna risposta. Tuttavia le indagini, avviate diversi giorni dopo quell’episodio - avvenuto, come attesta il diario del magistrato, il 6.12.1982 - non avrebbero in alcun modo consentito l’accertamento di alcun elemento specifico sulla effettiva presenza in Germania in quella data del Madonia. L’episodio, comunque, dovette avere allarmato il Madonia che se da un lato, come si preciserà più avanti, aveva rassicurato il Riina, dall’altro, non aveva omesso di attivarsi per sostenere fin da allora la tesi della sua permanenza stabile in Germania, come risulta dalle dichiarazioni rese dal dr Borsellino e dal dr. Falcone.

Il primo ha riferito che subito dopo l’episodio, il legale dei Madonia si era premurato di rappresentargli che il suo assistito si trovava in Germania.

Il secondo, nel citato verbale dell’agosto 1983, aveva riferito questa circostanza e della preoccupazione manifestata dal giudice per quel fatto. La difesa ha prospettato, attraverso le contestazioni, che in realtà il teste Romano non abbia mai individuato compiutamente il Madonia allorché venne sentito dalla Procura di Caltanissetta subito dopo l’attentato, in quanto non sarebbe stato mai indicato il nome dell’imputato.

L’argomentazione è priva di fondamento ove si consideri che l’unico compagno di scuola del Romano a nome Madonia era proprio l’odierno imputato il quale, pur negando ostinatamente l’episodio, non ha potuto negare sia la comune frequenza del corso scolastico, sia la frequentazione dell’Ing. Romano così come quella degli altri compagni per occasioni sportive e per divertimenti vari tra i quali la cena a Gibilrossa. Va peraltro rilevato che la documentazione acquisita attesta che l’imputato ed il teste frequentarono la stessa sezione degli ultimi due anni del liceo scientifico e che il Madonia era effettivamente iscritto alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dall’anno 1972 e che aveva sostenuto tre esami(cfr.all.4 elenco P.M.- ord.15/10/1999). Quanto riferito dal Romano in ordine all’incontro nell’androne ed alle stesse modalità con le quali il Madonia ebbe a farsi riconoscere dal primo potrebbe indurre a qualche perplessità, sul rilievo che il Madonia non avrebbe avuto alcun interesse ad esporsi facendosi, quasi ostentatamente, riconoscere dal suo vecchio compagno di scuola, il quale poteva, in ipotesi, non averne rilevato affatto la presenza.

Una più attenta valutazione del contesto in cui l’incontro ebbe a verificarsi e soprattutto delle presumibili finalità illecite perseguite, inducono, per contro, a ritenere fondatamente che il comportamento del Madonia, apparentemente incauto e maldestro, in realtà sia stato necessitato dall’esigenza di approfittare dell’ingresso di quel visitatore per introdursi nello stabile senza dover citofonare a chi, non conoscendolo, probabilmente non gli avrebbe aperto, potendosi ragionevolmente escludersi, anche alla luce delle indagini condotte sul conto dei condomini, che il Madonia fosse atteso da qualche famiglia in quello stabile. Ed invero il teste Honorati ha testualmente riferito: “…intanto facemmo accertamenti su tutte le famiglie che abitavano nello stabile per verificare se ci fossero delle possibilità di connessione o di contatti con l'Antonino. In effetti gli accertamenti che facemmo furono negativi, cioè non c'era nessun motivo plausibile per cui l'Antonino si trovasse lì, perchè non doveva avere dei collegamenti con le famiglie. Io ne parlai anche col Consigliere Chinnici che anche lui, che poi conosceva tutti gli inquilini dello stabile, escluse che ci potessero essere dei riferimenti”. La fondatezza del superiore assunto appare suffragata, anche alla stregua di valutazioni logiche ed appropriate, dalla significativa circostanza che il Madonia dovette, con repentina mossa, arrestare con la mano il meccanismo di chiusura automatica del portone che stava richiudendosi alle spalle del Romano, il quale, pertanto, doveva trovarsi ancora nelle immediate adiacenze del portone. A quel punto, come è normale che accada in simili circostanze - tanto più che si era in ora serale ed in periodo invernale - il visitatore entrato per ultimo istintivamente dovette voltarsi all’indietro incrociando lo sguardo del Madonia, che stava varcando la soglia di ingresso, inducendolo inconsapevolmente a “giocare d’anticipo”, essendo quest’ultimo certo o comunque preoccupato di essere stato riconosciuto da colui che anch’egli dovette subito riconoscere come un vecchio compagno di scuola, cercando in tal modo di dimostrare che non aveva nulla da nascondere e da temere, sebbene consapevole che la sua presenza non avrebbe mancato di destare quantomeno una certa sorpresa, se non un inquietante sospetto, nel Romano.

È appena il caso di rilevare, peraltro, che il riconoscimento o comunque il convincimento dell’elevata probabilità di essere stato riconosciuto appariva plausibile se si considera che in quel contesto temporale certamente uno dei coniugi Romano, appena entrati, dovette accendere la luce dell’androne. Alla stregua delle considerazioni che precedono ed alla luce del quadro probatorio delineatosi a seguito delle dichiarazioni rese dai collaboratori protagonisti della fase esecutiva, appare evidente come quella presenza, inizialmente solo inquietante, abbia progressivamente perduto quell’originaria equivocità ontologicamente propria dell’indizio isolatamente considerato, per assumere i caratteri tipici dell’indizio grave e preciso, nonché, nel quadro di una valutazione complessiva degli elementi acquisiti, anche quello della concordanza, la quale esprime la confluenza degli indizi verso una univocità indicativa che dia la certezza logica della esistenza del fatto da provare. Ed invero, quella presenza attesta vieppiù il ruolo spiccatamente operativo assunto dal Madonia nella realizzazione dell’attentato per cui è processo e si ricollega probabilmente ad una fase in cui non può escludersi che il progetto criminoso prevedesse modalità esecutive rispetto alle quali un sopralluogo poteva apparire necessario e comunque funzionale alla buona riuscita dell’operazione. Ulteriore riscontro alla storicità di quell’episodio, ostinatamente negato dall’imputato, è costituito dalle concordi dichiarazioni rese sul punto dai collaboratori di giustizia Anzelmo e Brusca, i quali hanno riferito che l’incontro tra il Madonia ed il compagno di scuola era stato negativamente commentato negli ambienti di “cosa nostra” ed in particolare tra lo stesso Anzelmo, Giuseppe Giacomo Gambino, Ganci Raffaele ed i figli di quest’ultimo, i quali avevano considerato una leggerezza il fatto che il Madonia si fosse recato presso lo stabile in cui abitava il dr. Chinnici, così esponendosi ad un possibile riconoscimento, come poi effettivamente accadde. L’Anzelmo sul punto ha dichiarato, in particolare, di avere appreso la circostanza prima della strage e di averne parlato con Ganci Raffaele e Pippo Gambino; non escludeva di avere commentato l’episodio anche con Ganci Calogero e Ganci Domenico. Non era in grado di precisare quanto tempo prima della strage ne avesse sentito parlare e pertanto il P.M. per sollecitarne il ricordo procedeva alla contestazione […]. A seguito della contestazione, l’Anzelmo dichiarava:

ANZELMO - E non è che ho detto qualche cosa... Pippo Gambino e Ganci Raffaele me lo ricordo, infatti ho detto con Calogero e Domenico non lo escludo, perchè infatti ho ripetuto che non c'erano segreti fra di noi.

PRESIDENTE: - Può chiarire meglio in relazione a questo verbale di cui il Pubblico Ministero le ha dato lettura, quando lei sentì parlare di questa imprudenza, come lei l'ha chiamata? Prima o dopo la strage?

ANZELMO - Ma io non mi ricordo se fu contestualme(nte)... una  cosa del genere o fu... io non me lo ricordo di preciso, ma ne ho sentito parlare di questa situazione, però non... non riesco, diciamo, a dire se fu contestualmente, se fu prima, se fu dopo. Non... non riesco a ricordarlo.

Sullo stesso episodio, all’udienza del 3/3/1999, Brusca Giovanni ha dichiarato:

PRESIDENTE - Senta, lei è a conoscenza di sopralluoghi, chiamiamoli così, fatti da uomini d'onore nello stabile del dottore Chinnici?

BRUSCA - L'ho saputo dopo che Antonino Madonia...

PRESIDENTE - Ha saputo da chi? Quando?

BRUSCA - All'interno di "Cosa Nostra", non mi ricordo se Salvatore Riina o da qualche altro, ma dopo che hanno indagato su Antonino Madonia, che Antonino Madonia era andato per andare a visionare propria dentro la scala, dentro lo stabile, non so per quale motivo, cioè voleva adoperare un altro sistema, ecco, il discorso è che possibilmente lui avrebbe voluto farlo, non lo so, escogitare di farlo nella scala o nella... nell'ascensore. Non lo so cosa... cosa dirgli. So solo che lui è stato visto da un parente, da un parente del Chinnici...che poi questo lo ha riferito alla Polizia.

PRESIDENTE: - Lei questo lo ha saputo prima della sua collaborazione?

BRUSCA - Sì, l'ho saputo...

PRESIDENTE: - E in che epoca è in grado di collocare...?

BRUSCA - Signor Presidente, subito dopo, non... non più tardi si è saputo di questa notizia.

PRESIDENTE - Ah, dopo la strage?

BRUSCA - Dopo la strage, quando poi la Polizia ha cominciato a fare questi... queste indagini. No, di prima non sapevo niente io.

PRESIDENTE: - Dico, ma lei l'ha saputo da notizie di stampa o l'ha saputo all'interno di "Cosa Nostra"?

BRUSCA - No, all'interno di "Cosa Nostra".

PRESIDENTE: - È in grado di ricordare da chi l'ha saputo?

BRUSCA - Guardi, in quel momento le uniche persone con cui io parlavo di più era Salvatore Riina o mio padre; più di loro non parlavo.

PRESIDENTE - Con il Madonia Antonino ha avuto modo di parlare di questo fatto?

BRUSCA - No, credo di no, mai. Di questo fatto, dopo che è stato fatto, non abbiamo più commentato nè con lui e con nessuno. C'è stato questo imprevisto, diciamo imprevisto che era successo e Salvatore  Riina diceva: "Mè cumpari - perchè lo chiamava cumpari ad Antonino, ecco, più di una volta lo ha chiamato "il mio compare" - ha avuto questo imprevisto", però niente di... di...

PRESIDENTE - "Ha avuto questo imprevisto" che vuole dire?

BRUSCA - Imprevisto che è stato notato da un parente del Chinnici in quanto compagno di scuola.

PRESIDENTE- Quanto tempo dopo la strage lei ebbe modo... ebbe questo colloquio con il Riina?

BRUSCA - Signor Presidente, non Glielo so dire: un mese, due mesi, tre mesi. Non Glielo so dire, comunque subito dopo.

PRESIDENTE- Lei ne aveva già parlato di questo fatto nel corso delle indagini preliminari o è la prima volta che ne parla?

BRUSCA - No, l'avevo detto.

PRESIDENTE - L'aveva già detto?

BRUSCA - L'avevo... anche se nei ricordi, però l'avevo già detto. Ci dovrebbe essere qualche passo in proposito. Dottoressa, se guardate bene ci deve essere. No, ve l'ho detto, sicuro.

L'alibi che non regge. La Repubblica il 28 luglio 2020. Il nucleo centrale della linea difensiva sostenuta dal Madonia Antonino per smentire le convergenti chiamate in correità nei suoi confronti risulta costituito dall’assunto di avere vissuto per molti anni in Germania dove svolgeva regolare attività lavorativa, deducendo altresì un alibi per il giorno della strage ed assumendo di essere stato sottoposto ad un controllo da parte della polizia tedesca nella città di Costanza, ove all’epoca risiedeva. Sulla presenza del Madonia in Germania, sulla assiduità della sua permanenza in quel paese e sui motivi della stessa i collaboratori Anzelmo e Brusca hanno reso concordi dichiarazioni nel senso del carattere fittizio e di copertura dell’attività lavorativa svolta all’estero dal coimputato e, comunque, sulla sua costante presenza a Palermo, [...]. Il quadro probatorio emergente dagli elementi acquisiti sul punto consente di ritenere ampiamente provato che il tentativo difensivo dell’imputato di accreditare la tesi della costante presenza in Germania deve ritenersi pienamente fallito, essendo stato smentito dalle concordi ed attendibili dichiarazioni rese dai collaboratori esaminati, la cui autonomia ne suffraga l’attendibilità. Ed invero, tutte le fonti referenti sono state concordi nell’escludere che il Madonia fosse costantemente assente dalla Sicilia per curare i suoi affari illeciti in Germania, essendo vero il contrario, come dimostrato dal protagonismo operativo che ne ha qualificato la condotta nelle più efferate imprese criminali degli anni ’80. La sua pressochè costante presenza in Sicilia, interrotta da saltuari viaggi in Germania, appare perfettamente compatibile con una distanza percorribile in poche ore - lo stesso imputato ha parlato di tre ore – tanto più ove si consideri che la città di Costanza, dove nel luglio del 1983 il Madonia avrebbe risieduto, dista appena 40 Km. da Zurigo, città che anche all’epoca era ben collegata con voli giornalieri con l’Italia, con coincidenze per Palermo. Tralasciando per il momento il tema specifico degli accertamenti esperiti tramite rogatoria internazionale, del cui esito si dirà più avanti, la Corte ritiene possibile, alla luce dell’episodio occorso al Madonia nel dicembre del 1982, che l’imputato abbia avvertito la necessità di precostituirsi un alibi, raggiungendo la Germania subito dopo la strage, senza che tuttavia una eventuale accertata presenza in quel paese alle ore 14,00-14,30 - come dedotto dallo stesso Madonia - valga ad escluderne la possibilità di una effettiva partecipazione alla fase esecutiva dell’attentato, atteso che dalle ore 8,00 del mattino l’imputato avrebbe avuto tutto il tempo per raggiungere in aereo quel paese in un orario compatibile con l’asserito controllo di polizia delle ore 14,00. Non pare alla Corte che le argomentazioni difensive addotte a sostegno della prospettata inattendibilità dei collaboratori esaminati, sul rilievo delle tardive propalazioni in ordine a quella che è stata definita una “attività di copertura” all’estero, colgano nel segno, atteso che, come gli stessi hanno chiarito con plausibili considerazioni nel corso del rispettivo controesame, non avevano avuto l’opportunità di riferire prima il particolare dei viaggi in Germania del Madonia, atteso che gli inquirenti non erano in possesso di elementi di conoscenza sul punto e, quindi, non avrebbero avuto alcun motivo di formulare domande sull’argomento. Non può essere sottaciuto che i collaboratori sono stati sentiti sull’argomento per la prima volta in dibattimento e tutti concordemente hanno fatto riferimento ai rapporti di cointeressenza tra il Madonia e Vito Roberto Palazzolo, alla saltuaria permanenza dell’imputato in Germania e ad una attività di copertura nel settore dei preziosi che avrebbe potuto essere sfruttata nel caso di coinvolgimento in procedimenti penali, e ciò, ovviamente, non in relazione ad eventuali chiamate in correità da parte di collaboratori, essendo il relativo fenomeno ancora troppo lontano, ma in ottemperanza a regole di normale prudenza che nascevano dalla consapevolezza che gli organi di polizia ben avrebbero potuto orientare le indagini nei suoi confronti. Va peraltro rilevato che il Madonia Antonino non era affatto sconosciuto alle forze dell’ordine, e non soltanto per l’episodio delle bombe di Capodanno. Tutta la famiglia, invero, già da anni costituiva oggetto di attenzione investigativa sia in relazione all’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale, ucciso il 4/5/1980, per il quale erano stati tratti in arresto, nella quasi flagranza, Puccio Vincenzo, Bonanno Armando e Madonia Giuseppe, fratello dell’odierno imputato, sia per le indagini che avevano già determinato l’arresto del padre, Madonia Francesco e dei fratelli Salvatore e Giuseppe, per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso. In un contesto come quello sopra delineato appare del tutto plausibile la predisposizione di un espediente difensivo che potesse plausibilmente far leva su una frequente presenza in Germania giustificata da cointeressenze in attività economiche formalmente lecite, documentalmente dimostrabili. Estremamente significativo appare l’episodio  dell’ingresso clandestino nel carcere dell’Ucciardone riferito da Ganci Calogero (cfr.ud.17/3), il quale ha dichiarato che nel 1981 mentre erano in corso dei lavori edili all’interno dell’istituto, consistenti nella demolizione della camera mortuaria mediante l’impiego di pale meccaniche di tale Rizzuto, un camionista, Bonura Giuseppe, che era abilitato ad entrare per effettuare trasporti di sabbia, gli aveva consentito di accedere all’interno del carcere con il camion facendogli indossare una tuta da meccanico e consentendogli di incontrare Madonia Francesco, Madonia Giuseppe e Bonanno Armando. Successivamente lo stesso Bonura aveva fatto entrare con lo stesso stratagemma il Madonia Antonino il quale aveva avuto così l’opportunità di incontrarsi con il padre. L’espediente dimostra la volontà del Madonia di non lasciare tracce documentali, attraverso le annotazioni nei registri dei colloqui, della sua presenza a Palermo, atteso che dalla documentazione ufficiale acquisita non risulta che abbia fruito di colloqui con il genitore, sebbene potesse legittimamente richiedere il rilascio della relativa autorizzazione. Sulla scorta della documentazione acquisita e delle deposizioni rese (cfr.ud.20 e 27/10/1999) dai testi De Gesu Gianfranco e Drogo Michele, rispettivamente direttore ed ispettore della polizia penitenziaria presso la Casa Circondariale di Palermo risulta provata la circostanza riferita dal Ganci in ordine ai lavori edili eseguiti tra la fine del 1981 e l’inizio del 1982 all’interno di quell’istituto per la realizzazione di un'area attrezzata e per lo svolgimento di attività sportiva e ricreativa. Il teste Rizzuto Eugenio (ud.22/12/1999), titolare di una ditta di movimento terra con mansioni di “palista” ed autista, pur sostenendo di non ricordare di essersi avvalso della collaborazione di un autotrasportatore di nome Bonura Giuseppe ( “in questo momento non ce l'ho presente, .. Magari se lo vedo, se... Non so cosa dirle”), ha tuttavia ammesso di avere effettuato lavori all’interno del carcere dell’Ucciardone nel periodo sopra citato avvalendosi della collaborazione di soggetti di cui non è stato in grado di riferire i nomi. L’attendibilità delle dichiarazioni rese dal Ganci sull’episodio in esame risulta comunque suffragata, complessivamente, oltre che dalle acquisizioni processuali sopra illustrate, anche dalla personalità del Rizzuto il quale ha confermato di essere stato tratto in arresto nel 1993 insieme Ganci Raffaele, Ganci Domenico ed Anzelmo Francesco Paolo nonché di essere stato sottoposto a misura di prevenzione personale e patrimoniale, essendo stato ritenuto un prestanome dei Ganci. Per quanto riguarda gli specifici accertamenti disposti in ordine all’alibi prospettato dall’imputato, va preliminarmente rilevato, che secondo le acquisizioni processuali, il controllo che il Madonia assume di avere subito da parte della polizia tedesca il 29 luglio 1983, non solo non risulta provato, ma non aveva neppure ragione di essere disposto a quella data, atteso che le indagini sulla presenza del predetto in Germania furono attivate per la prima volta con la nota della Squadra Mobile di Palermo in data 30.7.1983 – acquisita all’udienza del 15/6/1999 – ed il relativo esito venne comunicato ufficialmente con nota dell’INTERPOL n. 123/409756/57.9.102/22 del 4.8.1983, acquisita agli atti sia nell’originario testo in lingua tedesca, sia nel testo in lingua italiana integralmente trasfuso nella nota dell’INTERPOL in data 18/10/1999, trasmessa in evasione della richiesta formulata dalla Corte con nota n.19/98 del 16/10/1999. Le superiori emergenze processuali consentono innanzitutto  di ritenere sufficientemente provato che anche nel caso in cui le autorità tedesche avessero svolto indagini sul conto del Madonia, a richiesta dell’autorità giudiziaria o di polizia, in ogni caso le stesse non sarebbero state attivate se non dopo la richiesta ufficiale del 30 luglio 1983, che peraltro appare abbastanza tempestiva rispetto all’evento del giorno prima che vi aveva dato causa, soprattutto se valutata in relazione ai tempi minimi per organizzare e coordinare le indagini dopo un fatto di così devastante gravità. È appena il caso di rilevare come sia del tutto indimostrata ed indimostrabile l’ipotesi ventilata dalla difesa – chiaramente funzionale all’accredito dell’asserito controllo in data 29/7/1983 dedotto dall’imputato - di una possibile richiesta formulata da organi investigativi italiani a quelli tedeschi per le vie brevi – per esempio telefonicamente - nell’immediatezza della strage, atteso che non risulta acquisito alcun elemento obiettivo che valga a suffragarne la fondatezza, tanto più ove si consideri che normalmente i rapporti di cooperazione internazionale tra organi di polizia stranieri sono connotati dal rigoroso rispetto formale di regole e canali ufficiali di comunicazione, e solo negli ultimi anni sono stati sensibilmente snelliti e resi più rapidi ed efficienti. Il teste Honorati ha chiarito che nello stesso mese in cui era stata notata la presenza del Madonia nello stabile di via Pipitone Federico, alla fine di dicembre, parlando di quell’episodio con i colleghi della Squadra Mobile, era venuto a conoscenza che l’imputato era stato controllato a Palermo nell'aprile dell'82 ed era stato poi denunciato per guida senza patente perché scaduta; in quella circostanza agli agenti operanti il Madonia aveva riferito di non essere più residente in Italia, ma di  trovarsi in Germania, fornendo anche un indirizzo. Per tale motivo nel dicembre 1983 era stata inoltrata quella richiesta all’Interpol, poi rimasta inevasa. La questione era stata poi ripresa il giorno della strage, o in quelli immediatamente successivi, proprio in considerazione del ricordo di quell’episodio, e l’ufficiale redasse un appunto, datato 1/8/1983, “da mettere agli atti per la verifica, per le indagini che si potessero fare”. A specifica domanda della difesa il teste ha precisato che nell’immediatezza della strage non furono attivate ricerche perchè sapevano che il Madonia era irreperibile e non avevano “riferimenti dove andarlo a cercare”, dichiarando testualmente: “No, niente, accertamenti diretti non ce ne furono, soltanto che io riferii agli altri collaboratori che facevano indagine di questo precedente che c'era stato e che, quindi, poteva essere un soggetto da considerare nello sviluppo poi delle indagini”. La difesa ha cercato di prospettare surrettiziamente che il giorno stesso della strage potessero essere stati attivati accertamenti presso le autorità di polizia tedesche attraverso canali informali, ponendo specifiche domande sul punto al teste, il quale, pur ammettendo che nella prassi può talvolta accadere di richiedere notizie per le vie brevi, ha tuttavia precisato che ciò presuppone l’esistenza di canali personali di conoscenza tra il funzionario italiano ed il collega straniero. Ha tuttavia escluso di avere attivato con siffatte modalità canali informativi per richiedere ad organi collaterali della polizia tedesca accertamenti urgenti sul conto del Madonia subito dopo la strage. Traendo spunto, inoltre, dalla locuzione figurante nell’ultimo capoverso della nota più volte citata del 23/12/1982 – laddove si faceva riferimento ad un “accertato” trasferimento del Madonia in Germania ("Lo stesso in Palermo è irreperibile…. Poichè è stato accertato che lo stesso si sarebbe trasferito in Germania……) – la difesa in sede di esame ha insistito per avere chiarimenti sulla natura di tale accertamento che, se positivamente riscontrato, avrebbe fornito una conferma all’assunto dell’imputato di avere risieduto stabilmente in quel paese. Il teste ha tuttavia chiarito che in realtà, ad onta della impropria locuzione adoperata nella nota, l’asserita residenza estera non aveva costituito oggetto di specifico accertamento, ma era piuttosto una circostanza dedotta dall’imputato che era stata “accettata” e cioè “tenuta per buona” sulla scorta di quanto riferito dall’interessato in occasione di quel controllo di polizia nell’aprile ’82. [...]

Un ulteriore dato processuale estremamente significativo per escludere che il giorno stesso della strage siano stati attivati accertamenti tramite richieste informali ad organi investigativi tedeschi è costituito dalla stessa data dell’appunto redatto dall’allora cap. Honorati, se posto in relazione con la risposta dallo stesso fornita ad una specifica domanda posta dal pubblico ministero:

P.M. - Ha detto di non ricordare il momento in cui il Madonia, cioè il momento in cui si parlò del Madonia, se lo stesso giorno, il giorno successivo, la sera della strage.

TESTE HONORATI: - Io, facendo una ricostruzione, credo che se ne parlò il giorno stesso, tant'è vero che l'appunto che poi ho presentato agli atti è del giorno successivo, del primo agosto, quindi se n'è parlato nell'immediatezza.

P.M. - Quindi, sostanzialmente, io vorrei chiedere questo: se voi - questa è la domanda che le vorrei fare - il giorno della strage avete effettuato ricerche per verificare se il Madonia fosse o meno a Palermo.

TESTE HONORATI: - No.

È appena il caso di rilevare che l’appunto reca la data del 1° agosto 1983 e, quindi, non del giorno successivo bensì di tre giorni dopo la strage, mentre la prima richiesta ufficiale all’Interpol fu inoltrata con il telex del 30/7/1983, e quindi abbastanza tempestivamente se valutata in relazione al fisiologico “ritardo” connesso con i tempi minimi per avviare e coordinare quella complessa attività investigativa che un strage così efferata, la prima commessa con quelle modalità, dovette certamente comportare.  Non può peraltro essere trascurato un dato significativo acquisito agli atti, che sembra smentire l’ipotesi di una possibile richiesta informale ed urgente, costituito dallo stesso tenore del telex CAT.M.1/83 datato 30/7/1983 trasmesso dalla Squadra Mobile di Palermo al Centro CRIMINALPOL-INTERPOL di Roma – acquisito all’udienza del 15/6/1999 - dal quale si desume chiaramente che la richiesta di accertamenti da esperire in Germania non aveva per oggetto la specifica verifica di un alibi per il giorno della strage, quanto piuttosto l’effettiva residenza in quel paese e se il Madonia si fosse allontanato nel corso di quell’anno dalla località in cui risultava svolgere attività lavorativa. […]. […] Come sopra anticipato, un dato estremamente inquietante è costituito dalla sintomatica tardività che ha connotato la prospettazione dell’alibi, soprattutto se si considera che se fosse vero il controllo operato da organi di polizia tedeschi alle ore 14,00 del 29/7/1983 il Madonia non avrebbe mancato di farlo rilevare tempestivamente nel corso del primo interrogatorio di garanzia, atteso il decisivo valore probatorio che avrebbe assunto per la sua linea difensiva l’esito positivo di una immediata verifica attraverso affidabili canali ufficiali, i quali, proprio perché costituiti da organi pubblici e, peraltro, stranieri – ben più immuni, pertanto, dal sospetto di persecutorie impostazioni investigative – avrebbero certamente evaso attendibilmente eventuali specifiche richieste di accertamenti da parte delle autorità italiane. […] Ed invero l’imputato, richiesto di spiegare come mai non avesse dedotto l’alibi nell’immediatezza del primo interrogatorio reso all’autorità giudiziaria, ha sostanzialmente dichiarato che aveva ritenuto inopportuno scoprire le carte anticipatamente per timore che, come accaduto in altra precedente vicenda giudiziaria, il quadro probatorio venisse artificiosamente modificato in suo danno per superare e neutralizzare gli argomenti difensivi addotti.

Appare opportuno riportare integralmente alcuni brani dell’esame dibattimentale:

AVV. IMPELLIZZERI: - Sì. Lei oggi sta rassegnando alla Corte questa sua presenza nel giorno della strage, questo alibi, chiamiamolo così, in termini giuridici. Io le chiedo questo: lei è stato catturato, è in custodia cautelare ancora per questo fatto. Le ricorderà perfettamente  che è stato interrogato con tutte le garanzie previste dalla Legge penale. Lei, prima di oggi, ha mai rassegnato al G.I.P. o all'Autorità Giudiziaria questo alibi che lei oggi sta narrando alla Corte?

IMPUT. MADONIA: - No, no, non l'ho mai rassegnato e, anzi, sono stato, diciamo, ... restio a parlarne anche con i legali, per la verità, ecco.

AVV. IMPELLIZZERI: - Ecco, quindi lei al G.I.P. in sede di interrogatorio non parlò di questo alibi.

IMPUT. MADONIA: - No.

AVV. IMPELLIZZERI: - Si rifiutò di rispondere, si avvalse della facoltà di non rispondere o rispose parzialmente?

Cosa ricorda lei di quell'interrogatorio?

IMPUT. MADONIA: - Io quello che ricordo dell'interrogatorio è che mi protestai innocente e nello stesso tempo, diciamo, lamentai, diciamo, e denuncia con forza la fuga di notizie che era avvenuta con la pubblicazione, diciamo, del... delle dichiarazioni quasi per intero nel... nel tempo, diciamo, ecco, a fare fede dal 21 giugno del 1996 da parte dei collaboratori. Io per prima cosa mi riferisco alle dichiarazioni di Ganci Calogero, che furono, diciamo, divulgate per mezzo di stampa e ancora di più, diciamo, con i mezzi televisivi. Quando mi riferisco ai mezzi televisivi mi riferisco al... alla TV, diciamo, sia quelle nazionali, primo... il primo canale, il secondo canale, Rai 3, che trasmette i notiziari regionali, e poi tutte le... le TV, diciamo, locali con... con tutto quello che era stato, diciamo così, stato dichiarato dal collaboratore; in questo caso era stato prima il Ganci Calogero, e con... con filmati che riproducevano i luoghi, diciamo, dov'era avvenuto l'attentato.

AVV. IMPELLIZZERI: - Quindi, lei prima di essere catturato e quindi prima che le si notificasse questo ordine di custodia cautelare lei aveva appreso da questi mezzi di divulgazione che si parlava della strage Chinnici, che si parlava pure di lei, di questa strage?

IMPUT. MADONIA: - Io intendo... intendo precisare che io non è che fui catturato, io mi trovavo in stato di detenzione.

AVV. IMPELLIZZERI: - Sì, certamente.

IMPUT. MADONIA: - Precisiamolo questo, eh?

AVV. IMPELLIZZERI: - È pacifico questo.

IMPUT. MADONIA: - Io mi trovavo in stato di deten... Io mi... E no, è importantissimo questo, perchè c'è una bella differenza, perchè se uno è catturato bene o male in questo caso, diciamo, rispondendo solamente di questo... di questa accusa e magari, diciamo così, subito dimostra la propria innocenza, diciamo, chiarisce tanti particolare. Io invece mi trovavo in stato di detenzione con una pen... con una sentenza definitiva.

AVV. IMPELLIZZERI: - Scusi, signor Madonia, io molto imprudentemente ho anticipato una domanda, quindi alcuni argomenti di esame e le chiedo scusa. Cioè, io desideravo sapere un altro argomento, ed è questo, e cioè volevo sapere: che lei è in stato di detenzione è assolutamente pacifico, la Corte lo sa perchè ha la sua posizione giuridica. Io desideravo sapere questo: cioè, prima che le inoltra... Quando io intendo catturato non intendo dire che dallo stato di libertà è stato portato in uno stato di detenzione; intendevo dire: quando le fu notificato l'ordine di custodia, cioè prima che le fosse notificato questo altro ordine di custodia, premesso che lei era già detenuto, quindi quando ancora non era indagato e quindi catturato per la strage Chinnici, lei sentiva parlare televisione e giornali di questa strage, del suo nome? Prima ancora che lei fosse davanti ad una Autorità Giudiziaria che le contestava di essere esecutore della strage. Sono stato chiaro adesso?

IMPUT. MADONIA: - Sin dal ven... Sì, è stato chiarissimo, forse sono stato infelice io nello spiegarmi e ora cerco di precisare. Sin dal 21 giugno 1996 io mi trovavo ristretto nel carcere dell'Ucciardone.

AVV. IMPELLIZZERI: - Sì.

IMPUT. MADONIA: - Nona sezione. E da quel giorno cominciarono ad arrivare i giornali, perchè i giornali li segnavo quotidianamente, il "Giornale di Sicilia". Poi c'era un... l'apparecchio TV e cominciarono a divulgare le dichiarazioni del collaboratore Ganci Calogero che mi accusava, che spiegava, diciamo, il compito, il presunto compito che avevo avuto e tutto quello che era nelle dichiarazioni che poi lessi in seguito...

AVV. IMPELLIZZERI: - Ho capito.

IMPUT. MADONIA: - ... quando dopo mi fu notificato. Perchè la misura cautelare mi pare che fu emessa a distanza non so se di un anno, credo, ma prima...

AVV. IMPELLIZZERI: - È agli atti, la relata di notifica...

IMPUT. MADONIA: - ... nel '97.

AVV. IMPELLIZZERI: - ... è agli atti.

IMPUT. MADONIA: - Giugno del '97.

AVV. IMPELLIZZERI: - Giugno '97 è l'ordinanza di notifica.

IMPUT. MADONIA: - Ecco, sì, perfetto.

AVV. IMPELLIZZERI: - Senta, la relata di notifica è del giugno '97, non ricordo adesso il giorno esatto. Quindi lei un anno prima sente parlare della strage a causa di questa divulgazione. Ora le chiedo questo, tornando all'argomento precedente: ci fu una... ci furono delle ragioni per cui lei non intese rassegnare questo alibi al G.I.P. nella immediatezza dell'arresto e dell'interrogatorio?

IMPUT. MADONIA: - Io avevo avuto, diciamo, una... una esperienza negativa pregressa sia giudiziaria e processuale che mi portarono a prendere questa decisione, forse corroborato dal fatto che non dovevo uscire, ecco, al carcere. Forse questo, diciamo, mi portò, diciamo, a...

AVV. IMPELLIZZERI: - Facciamo una piccola parentesi: non doveva uscire.

IMPUT. MADONIA: - No, per carità.

AVV. IMPELLIZZERI: - Lei era detenuto definitivo?

IMPUT. MADONIA: - Sì, definitivo con la condanna a ventidue anni.

AVV. IMPELLIZZERI: - Ventidue anni. È il famoso "Big John", no?

IMPUT. MADONIA: - Sì, infatti quando lei sta facendo riferimento a questo procedimento, diciamo, perchè, diciamo, questa mia esperienza processuale, diciamo, negativa pregressa, diciamo, si riferisce proprio a questa... a questo procedimento, diciamo, chiamato "Big John", in cui fui tratto in arresto perchè accusato di avere importato in Italia dalla Colombia seicento chilogrammi di cocaina e di averla sbarcata, diciamo, sulle coste siciliane nel gennaio del 1988. Non so se riesce a... La mia voce arriva?

AVV. IMPELLIZZERI: - Chiarissima.

IMPUT. MADONIA: - Nel 1988. Le accuse... le accuse, diciamo, per cui ero stato tratto in arresto provenivano... questa misura cautelare fu emessa nel febbraio del 1990, perchè è importante... i tempi sono importanti. Nel 1990 fui colpito ad questa misura cautelare. Queste, diciamo, le accuse per cui ero stato tratto in arresto provenivano dal collaboratore Giuseppe Cuffaro o Cuffaro, che aveva dichiarato che avevo fatto questo grosso traffico di stupefacenti e che mi aveva visto più volte nel... nell'anno 1988, nel mese di maggio e nel mese di giugno a Palermo e che con lui personalmente, diciamo, avevo partecipato ed aveva assistito lui personalmente ad una animata discussione avvenuta in una casetta di fondo Pipitone, alla presenza di alcuni personaggi, perchè... tra cui Galatolo Vincenzo. Ed in queste riunioni, usando, diciamo, la mia autorevolezza, avevo risolto dei problemi che erano sorti per il pagamento dello stupefacente. Tale riunione, secondo gli inquirenti ed i magistrati, perchè, diciamo, ho ricevuto la misura cautelare, quindi chiaramente l'ho letta, era avvenuta questa... diciamo, questa collocazione temporale era avvenuta per mezzo di biglietti aerei e la tumulazione della salma di una zia del Galatolo, al cimitero dei Rotoli, era stata collocata temporalmente nel luglio del 1988. In questo periodo io ero detenuto, infatti ero stato arrestato, tratto in arresto il 5 maggio del 1987 e poi sono stato scarcerato il 6 di novembre del 1988.

AVV. IMPELLIZZERI: - Quindi, quando le venne mossa...

IMPUT. MADONIA: - Quindi non potevo presiedere...

AVV. IMPELLIZZERI: - ... la prima accusa la si vedeva protagonista...

IMPUT. MADONIA: - No, non potevo...

AVV. IMPELLIZZERI: - ... nel periodo che lei era detenuto.

IMPUT. MADONIA: - ... non potevo presiedere quel... non potevo presiedere quella riunione. Per la verità, quando fui interrogato mi avvalsi della facoltà di non rispondere, in quella occasione, però devo dire veramente che scioccamente parlai con i miei legali. Dico scioccamente, facendo presente, ricordando che, così, questa notizia che ero detenuto si mise in circolo e poi cambiarono le carte, si cambiarono le carte. Però c'è da fare presente, diciamo, che chiaramente non potevo avere incontrato il Cuffaro nè a maggio nè a giugno nè a luglio del 1988 nella casetta di fondo Pipitone, e quello che è strano proprio, che da allora poi tutti i collaboratori, diciamo, perchè poi questo processo, diciamo, vennero ascoltati i collaboratori e a cominciare da Marche... da Mutolo, Marchese ed altri cominciarono a rifinire, diciamo, sulle mie presenze, presunte presenze in questo fondo Pipitone.

AVV. IMPELLIZZERI: - Presenze in un periodo che la vedevano però detenuto, mi pare di capire, no?

IMPUT. MADONIA: - Sì, perchè tutto questo nasce da una premessa errata.

AVV. IMPELLIZZERI: - Ecco.

IMPUT. MADONIA: - Perchè per dare spalla, conforto alle dichiarazioni del Cuffaro era necessario, diciamo, qualcuno che avvalorasse, diciamo, questa mia, diciamo, frequentazione con i Galatolo e con... e con questo luogo, diciamo, famigerato in questo caso ora è divenuto. Che tutti parlano del fondo Pipitone.

AVV. IMPELLIZZERI: - Ecco, non per fare la storia di quel processo, ma le chiedo solamente: poi, nel tempo, lei avvertì se l'accusa si spostò su alti capisaldi, su altri argomenti più forti di questo?

IMPUT. MADONIA: - Sì, ci spostiamo...

AVV. IMPELLIZZERI: - Ecco.

IMPUT. MADONIA: - Si spostò che poi non fui più l'artefice principale, lo sbarcatore, colui che, diciamo, gestì in prima persona queste riunioni, questi, diciamo... per sanare questi... queste problematiche, diciamo, di recupero dei soldi e lo sbarco, ma divenni poi mandante, ecco.

AVV. IMPELLIZZERI: - Mandante.

Orbene, a prescindere dal rilievo che appare davvero inverosimile assumere un atteggiamento rinunciatario - pur potendo dedurre un alibi che avrebbe potuto essere confermato da organi immuni dal sospetto di compiacenza - scegliendo di avvalersi della facoltà di non rispondere, per il semplice fatto di trovarsi in stato di detenzione in espiazione di pena, atteso che una condanna a pena detentiva temporanea, benchè lunga (anni 22 - c.d. processo Big John), non può mai costituire un valido motivo per rinunciare a difendersi da una gravissima accusa di strage che potrebbe comportare la pena dell’ergastolo, ciò che appare decisivo è la considerazione che l’eventuale “autorevole” conferma dell’alibi, che avesse riscontrato la sua presenza in Germania appena sei oro dopo la strage, avrebbe comportato una clamorosa smentita dell’assunto dei collaboratori di giustizia, difficilmente recuperabile attraverso una strumentale modificazione della chiamata in correità, la quale avrebbe assunto i caratteri della incontrovertibile inattendibilità, sicchè poteva ragionevolmente ritenersi scongiurato il pericolo di una insostenibile artificiosa immutazione del titolo di responsabilità (dal concorso materiale a quello morale). Alla stregua delle considerazioni che precedono non può seriamente revocarsi in dubbio che l’imputato abbia tentato abilmente di precostituirsi un alibi, facendo leva su un dato anagrafico, in parte documentabile, costituito da una più o meno costante presenza all’estero, e deducendo di essere stato sottoposto ad un controllo di polizia “richiesto dall’Italia”, come gli sarebbe stato precisato a sua richiesta dai due agenti operanti(cfr. f.148, ud.21/7). Quel che è certo è che di quel controllo non v’è traccia agli atti delle autorità di polizia dei Paesi interessati, neppure in quel telex (4/8/1983) di appena sei giorni dopo la strage. in cui sarebbe stato logico attendersi che ve ne fosse cenno se una richiesta, in ipotesi anche informale, fosse stata inoltrata dall’Italia su un dato così rilevante dal punto di vista investigativo, tanto più ove si consideri che secondo l’assunto difensivo del Madonia quel controllo si sarebbe protratto ancora per tre giorni in modo più “discreto”, avendo notato la presenza di autovettura della “polizei” nei pressi della sua abitazione, pur senza essere seguito. Per mera esigenza di completezza espositiva va infine ricordato che un tema di prova sul quale la difesa del Madonia ha molto insistito, per incrinare l’attendibilità delle convergenti chiamate in correità nei confronti del predetto imputato, è costituito dalla possibile refluenza sulla genuinità del rispettivo patrimonio conoscitivo di resoconti giornalistici e comunque della conoscenza, ottenuta aliunde, del contenuto delle propalazioni rese in precedenza da altri collaboratori. Nel rinviare alle considerazioni già svolte nella sede opportuna in ordine alla ritenuta irrilevanza di alcuni periodi di condetenzione e di altre occasioni di incontri per motivi processuali (per esempio, in aula nel corso dei dibattimenti), va qui preliminarmente ribadito, richiamando sul punto un costante orientamento della S.C., che non possono ritenersi aprioristicamente inattendibili le dichiarazioni di quei collaboratori di giustizia che, in relazione al tempo del loro contributo investigativo, possano già essere a conoscenza di quelle di altri collaboranti perchè rese pubbliche nel corso di dibattimenti e/o divulgate da organi di informazione. La Suprema Corte ha affermato il principio che la pubblicazione ufficiale di precedenti propalazioni accusatorie di altri soggetti non può, per ciò solo, inficiare l'attendibilità di quelle successive, soprattutto quando in queste ultime siano ravvisabili "elementi di novità e originalità” e, comunque, in assenza di "altri e comprovati elementi che depongano nel senso del recepimento manipolatorio" di quelle anteriori da parte di quelle posteriori. Cio stante, neppure l'accertata conoscenza delle prime propalazioni è di ostacolo all'accredito dell'originalità di quelle successive, ancorchè di contenuto per lo più conforme, la cui autonoma provenienza dal bagaglio proprio del dichiarante può essere accertata - sul piano soggettivo come su quello oggettivo - in vario modo, non escluso il rilievo di ordine logico concernente "il radicamento dei due propalanti nella realtà criminale mafiosa, con la connessa possibilità di conoscenze di prima mano" (cfr. Cass. Sez. I n. 80/l992 cit. ), sicchè l'eventuale convergenza di dichiarazioni accusatorie rese in epoca diversa da parte di soggetti organicamente inseriti in sodalizi criminosi di stampo mafioso, soprattutto se con ruoli di un certo rilievo, non autorizza, per ciò solo, il sospetto della cosiddetta "contaminatio" e della non autonoma origine di quelle successive. Nel merito va osservato che dall’esame dei quotidiani prodotti dalla difesa si rileva la pubblicazione solo di stralci delle dichiarazioni del Ganci, circostanza, questa, inidonea a compromettere l’autonomia del patrimonio conoscitivo dei collaboratori ed a far presumere fondatamente un recepimento manipolatorio per accusare falsamente gli altri imputati, tra i quali lo stesso Madonia, atteso che la già rilevata ricchezza dei contenuti descrittivi dei loro racconti, l’ampiezza della loro collaborazione e la straordinaria dovizia di particolari depongono univocamente per l’autonoma provenienza dal bagaglio proprio dei dichiaranti in quanto diretti protagonisti dei fatti narrati. Ed invero, l’analitica disamina delle dichiarazioni rese dai collaboratori esaminati ed i riscontri acquisiti hanno consentito di fugare ogni dubbio sulla genuinità dei loro racconti, troppo vasti ed articolati per essere il frutto di invenzioni o di calunniose manipolazioni di informazioni acquisite aliunde. Non può inoltre essere trascurato il dato significativo della assoluta mancanza di elementi che possano in qualche modo autorizzare il sospetto che le chiamate in correità nei confronti del Madonia siano state ispirate da intenti persecutori, per dar sfogo a sentimenti di astio e rancore, che né il Madonia né la difesa hanno prospettato, attesi gli ottimi rapporti intercorsi tra i soggetti in questione. In particolare, dal contesto probatorio è emersa la sussistenza di una più che ventennale amicizia tra il Madonia ed il Brusca, notoriamente apprezzati dal Riina, non solo per gli stretti vincoli che lo legavano ai rispettivi genitori, ma anche per le loro indiscusse doti e capacità altamente criminali, che ne avevano comportato l’impiego operativo nelle imprese più eclatanti e rischiose della strategia criminosa di “cosa nostra”, con conseguente progressiva assunzione di un ruolo di prestigio sempre maggiore all’interno dell’organizzazione, con funzioni anche supplenti rispetto ai loro padri. Né possono tacersi i costanti rapporti operativi, sempre mantenuti nel corso degli anni, tra i collaboratori Ganci Calogero ed Anzelmo Francesco Paolo e la comune partecipazione a numerosi delitti. Per quanto riguarda, inoltre, il Ferrante ed il Ganci va rilevato che la difesa del Madonia, nel corso del controesame, ha insistito nel formulare domande volte ad accertare l’eventuale lettura da parte dei collaboratori di atti notificati al Madonia durante periodi di comune detenzione, chiedendo in particolare al primo se avesse redatto per conto di quest’ultimo reclamo avverso il decreto di sottoposizione al regime di cui all’art.41 bis O.P. Orbene, premesso che il Ferrante, pur negando di avere redatto motivi di reclamo, non ha escluso di avere letto quel provvedimento ministeriale (cfr.f.68,ud.26/3), ritiene la corte del tutto ininfluente la circostanza che dal contenuto di quest’ultimo atto si rilevi l’attribuzione al Madonia  della condotta di attivazione della carica esplosiva mediante telecomando, non potendo inferirsene per ciò solo, che il predetto collaboratore abbia recepito la notizia costruendo artificiosamente la chiamata in correità nei confronti del Madonia. La surrettizia e maliziosa prospettazione difensiva non ha tuttavia colto nel segno, atteso che la scarna menzione nel decreto ministeriale delle dichiarazioni del Di Maggio - il quale, come si ricorderà, ha  riferito dello sfogo di Brusca Bernardo e del risentimento di costui nei confronti del Riina, rivendicando i “meriti” del figlio Giovanni che aveva portato “la macchina davanti la casa di Chinnici” mentre il Madonia aveva premuto il telecomando – appare del tutto inidonea a svalutare la conducenza probatoria della ben maggiore ricchezza descrittiva della ricostruzione del Ferrante in ordine a quel segmento della condotta esecutiva di cui fu un protagonista e diretto testimone unitamente al Madonia. È appena il caso di ricordare il significativo particolare dell’insolito abbigliamento da muratore del Madonia, riferito dal Ferrante, di cui non fa menzione il decreto ministeriale, circostanza peraltro non riferita dal Ganci e quindi non pubblicata nel giugno 1996, sicchè ogni tentativo di insinuare una “contaminatio” della genuinità del racconto del Ferrante e l’artificiosità di una calunniosa costruzione accusatoria è destinato inevitabilmente all’insuccesso, atteso che l’argomento difensivo, del tutto disancorato dalle emergenze processuali, non si sottrae a censure, rivelando tutta la sua fragilità ed inconducenza probatoria.

Tutti gli uomini della strage. La Repubblica il 29 luglio 2020. Il quadro probatorio fin qui delineato consente di ritenere pienamente provato il coinvolgimento ed il ruolo penalmente rilevante di alcuni componenti della “famiglia” della Noce nella fase esecutiva della strage, come risulta dalle chiamate in correità, innanzitutto di un componente, Ganci Calogero, legato da vincoli di sangue agli stretti congiunti Raffaele e Stefano Ganci, nonché dell’Anzelmo e di Brusca Giovanni, i quali hanno concordemente indicato Ganci Raffele come colui che diede le prime disposizioni ed indicazioni sulla necessità di reperire un’autovettura di piccole dimensioni e di tenere costantemente occupato uno spazio lungo il marciapiede antistante il portone dello stabile di via Pipitone Federico. Altrettanto concorde è la chiamata in correità nei confronti del Madonia Antonino che anche in occasione di questo efferato crimine non fece mancare il proprio apporto, conformemente alle sue spiccate attitudini operative. La distribuzione dei ruoli rispecchia rigorosamente le gerarchie e le cariche rivestite nel sodalizio al tempo dei fatti oggetto del presente processo. Nel rinviare a quanto sarà esposto più avanti in ordine alla fase deliberativa ed al ruolo assunto dal Ganci Raffaele anche in relazione al momento ideativo, conformemente alla carica di capomandamento rivestita, è qui sufficiente richiamare brevemente il significativo protagonismo del predetto imputato in alcuni rilevanti momenti che hanno scandito l’articolato sviluppo dalla fase esecutiva, dall’affidamento ai figli dell’incarico di rubare una piccola utilitaria, al trasferimento della stessa al fondo Pipitone, provvedendovi personalmente, all’occupazione per la prima volta del posto antistante il portone del palazzo della vittima, fino alla fase terminale dell’esplosione con una sintomatica presenza sul luogo teatro della strage, quasi a rappresentare la volontà dei vertici dell’organizzazione e al contempo rafforzare la determinazione operativa dei gregari. Quanto al Ganci Stefano, sono state già ampiamente esposte le dichiarazioni rese dall’Anzelmo e dal Ganci Calogero, i quali hanno attribuito anche a quest’ultimo un ruolo esecutivo, estrinsecatosi nell’individuazione e nel successivo furto della FIAT 126 destinata a trasportare ed occultare la carica esplosiva, nonchè nell’attività espletata sotto l’abitazione della vittima di tenere occupato, giornalmente con autovetture “pulite” e sempre diverse, lo spazio destinato alla collocazione della Fiat 126. Su tali attività le dichiarazioni dell’Anzelmo concordano sostanzialmente con quelle del Ganci. Nel rinviare alle argomentazioni sopra svolte in ordine alle divergenze rilevate sull’autore della materiale sottrazione della Fiat 126 ed alle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di privilegiare la versione dell’Anzelmo, in considerazione della plausibili difficoltà mnemoniche del Ganci Calogero di enucleare da una attività criminosa molto frequente proprio l’episodio relativo al furto della Fiat 126 lasciata incustodita davanti l’autoscuola, va osservato che la responsabilità di Ganci Stefano non discende esclusivamente dal provato concorso nel furto dell’autovettura dell’autoscuola Ribaudo, ma anche dal contributo penalmente rilevante dallo stesso fornito in quella attività preparatoria della fase esecutiva che è stata puntualmente decritta dal fratello e dall’Anzelmo. Ma ancor prima del suo concreto attivarsi attraverso la personale partecipazione a segmenti operativi di quella fase, si è registrata la sua sintomatica presenza nel luogo e nel momento dell’incarico che il di lui padre Raffaele conferì agli uomini d’onore presenti all’interno della macelleria di via Lancia di Brolo, gestita proprio dai fratelli Stefano e Calogero, circostanza, questa, che se valutata in relazione al profondo radicamento del Ganci Stefano nella realtà criminale mafiosa in cui tutto il suo nucleo familiare era inserito - peraltro con la recente assunzione di un ruolo di vertice da parte del capofamiglia, destinato di lì a poco a diventare uno degli esponenti di maggior spicco dell’organizzazione e dei più fedeli alleati di Riina – non può non assumere i caratteri tipici di quella forma, anche tacita, di accettazione di un mandato criminoso e di disponibilità operativa in relazione allo specifico incarico conferito, con conseguente piena consapevolezza non solo della finalità di quel furto e del disegno strategico complessivo nel quale si inseriva, in uno al reperimento dello spazio da occupare in via Pipitone Federico, ma anche della non marginalità del proprio ruolo e della necessità per il sodalizio di avvalersi della sua collaborazione. Sotto tale ultimo profilo appare opportuno ricordare che in quel periodo la macelleria di via Lancia di Brolo era gestita proprio dai fratelli Calogero e Stefano Ganci, sicchè il furto che il padre ebbe a commissionare e le connesse attività non potevano non coinvolgere anche il figlio Stefano, tenuto conto che l’impegno operativo non era limitato a poche ore ma si sarebbe inevitabilmente protratto per alcuni giorni, come dimostrato dalla ricostruzione di quella fase sopra esposta, sicchè era necessario quantomeno un avvicendamento tra i due fratelli, dovendo uno dei due assicurare la continuità della gestione di quell’esercizio commerciale. Non può inoltre essere trascurato, sotto il profilo del dolo, che in quel contesto spazio-temporale, Ganci Raffaele, in presenza di Gambino Giuseppe Giacomo, informò del progetto di uccidere il dr. Chinnici i figli Stefano e Calogero e l’Anzelmo. […] Né può dubitarsi della consapevolezza del Ganci Stefano di cooperare con altri alla realizzazione di un progetto criminoso di cui gli era ben noto l’obiettivo, essendone stato informato nella macelleria nel momento in cui ricevette le disposizioni operative dal padre ed avendo lo stesso Anzelmo ribadito espressamente la circostanza a specifica domanda (cfr.ud. 9/3/1999):

P.M. : - Sì, sì, questo già l'aveva detto. Ma nel momento in cui Stefano Ganci conserva il posteggio e nel momento in cui ruba la macchina, Stefano Ganci è consapevole che...?

ANZELMO : - Sì, sappiamo a cosa deve servire, certo che sappiamo a cosa... a cosa deve servire, a voglia.”

Ricollegandoci a quanto già evidenziato in ordine alle incertezza mnemoniche di Ganci Calogero sullo specifico ruolo svolto dal fratello Stefano in tale fase ed alle convincenti argomentazioni dallo stesso addotte per fugare ogni possibile dubbio circa eventuali atteggiamenti compiacentemente riduttivi ravvisabili nel suo racconto per alleggerire la posizione del congiunto, va ancora evidenziato che le difficoltà del collaboratore di fornire concreti elementi su quella attività può ben spiegarsi, ad avviso della Corte, con il ruolo di cogestione della macelleria dagli stessi svolto che ne ha concretamente impedito un contestuale protagonismo nel compimento di singole attività esecutive. [...] In ogni caso appare decisivo il rilievo che, secondo quanto riferito dall’Anzelmo, proprio il Ganci Stefano aveva adocchiato la Fiat 126 dell’autoscuola, individuandola perché era sempre con le chiavi inserite nel cruscotto, ed insieme a lui aveva commesso il furto con le modalità già indicate. Avuto riguardo ai criteri di attribuzione della responsabilità concorsuale, nella condotta del Ganci Stefano si ravvisano certamente gli estremi obiettivi e subiettivi richiesti per la configurabilità a suo carico di un concorso materiale nel reato di strage e negli altri reati connessi, atteso che il predetto ha fornito un contributo penalmente rilevante anche alla realizzazione dei fatti-reato in esame nella fase preparatoria con un apporto che ha, da un lato, indubbiamente rafforzato il proposito criminoso di quelli che hanno curato materialmente l'esecuzione dell’attentato e, dall'altro, agevolato la stessa azione degli esecutori materiali che da quell'apporto hanno tratto un maggior senso di sicurezza. Nel richiamare le considerazioni sopra svolte in ordine al valore univocamente sintomatico della sua presenza nella macelleria in occasione del conferimento dell’incarico da parte del padre ed alla ravvisabilità dei caratteri tipici di una sostanziale accettazione di un mandato criminoso e di tacita disponibilità operativa, non può essere sottaciuto che, a prescindere dalla condotta esecutiva posta in essere nei giorni successivi, già quella presenza appare sufficiente ad integrare gli estremi di una delle forme in cui può concretamente atteggiarsi il concorso morale, soprattutto quando, come nel caso di specie, il recepimento concerna disposizioni impartite da chi occupi una posizione di supremazia all’interno di una organizzazione rigidamente gerarchizzata come “cosa nostra” e per, di più, sia anche rivestito dell’autorità che deriva dal ruolo di padre all’interno della famiglia di sangue. L’etica dell’ordine e dell’obbedienza all’interno della famiglia mafiosa, come è noto, è caratterizzata dalla sottomissione dei figli maschi al capo famiglia. Ed invero, nessuno può seriamente mettere in dubbio che all’interno della famiglia di sangue mafiosa i figli vengono educati ad interiorizzare l’obbedienza come valore supremo ed a rinunciare alla propria autonomia di giudizio sul valore o disvalore degli ordini impartiti; ciò che costituisce l’humus su cui innestare una cultura mafiosa, favorendone la trasmissione dei “valori” che ne costituiscono la struttura portante, vale a dire l’obbedienza, l’omertà, la sopportazione, la fedeltà, il familismo amorale, l’autoritarismo, il verticismo. Tanto premesso, va osservato che in tema di concorso di persone nel reato, ricorre il concorso morale tutte le volte che il ruolo di un soggetto diverso da quello il quale curerà materialmente l'esecuzione del reato, si profili nella fase preparatoria ed ideativa del reato, rafforzando nell'altro il proposito ed il disegno criminoso, indicando i mezzi per portarlo a compimento ovvero assicurando l'assistenza e l'aiuto prima e dopo la sua consumazione. In tali casi il giudice deve indicare il rapporto di causalità efficiente tra l'attività incentivante del concorrente morale e quella posta in essere dall'autore materiale del reato.(cfr.Cass. Pen, Sez.III, 4/10/1983, n.7845, Ciriello). La giurisprudenza assolutamente dominante ha altresì evidenziato che il concorso morale nel reato è ravvisabile non soltanto nel caso di preventivo accordo, ma anche in ogni ipotesi in cui la presenza del compartecipe sia diretta ad incoraggiare l'azione delittuosa e a  dimostrare una volontà comune a quella dell'autore materiale, sicchè il proposito di quest'ultimo risulti agevolato o rafforzato dalla suddetta presenza. (Cass.Sez.II, 22/5/1982,n.5137). Alla stregua di tali criteri autorevolmente elaborati dalla S.C., che ormai costituiscono jus receptum in dottrina ed in giurisprudenza, certamente dotato di rilevante causalità efficiente appare incontestabilmente l'apporto del Ganci Stefano nella fase preparatoria. Ma ciò che appare davvero decisivo è il rilievo che la presenza dell’imputato nel contesto spazio-temporale in cui venne definita l’attività assegnata al gruppo di cui lo stesso faceva parte, con la consapevolezza che quell’attività era univocamente funzionale alla consumazione di attentato in danno del dr.Chinnici, già di per sè certamente costituisce una adesione al programma delittuoso deliberato nelle sue linee essenziali ed ormai pervenuto alla fase esecutiva in attesa del solo momento propizio per renderlo concretamente operativo. L'apporto eziologico, infatti, può atteggiarsi anche in termini di semplice utilità o di maggiore sicurezza rispetto al risultato finale, atteso che è sufficiente un qualsiasi contributo che favorisca o renda più probabile l'evento. È appena il caso di rilevare, infatti, che anche la partecipazione dell’imputato a quella fase prodromica - peraltro molto importante nel quadro di quella distribuzione di compiti - nei giorni immediatamente precedenti alla strage, a prescindere dallo specifico ruolo concretamente svolto la mattina del 29/7/1983, ha certamente rafforzato la complessiva potenzialità operativa del gruppo di cui faceva parte. Basti pensare che l'assenza del Ganci avrebbe reso necessaria una diversa composizione dei gruppi deputati allo svolgimento di quel ruolo. Sotto tale profilo, dunque, al Ganci Stefano non potrebbe essere riconosciuta neppure la configurabilità dell'attenuante della minima partecipazione, la quale può essere concessa solo allorquando l'importanza causale dell'attività di uno dei correi sia stata oggettivamente e soggettivamente minima. […]  Alla stregua delle considerazioni che precedono risulta evidente che il quadro probatorio emergente dal complesso degli elementi processualmente acquisiti consente di ravvisare anche nella condotta del Ganci Stefano un contributo penalmente rilevante alla verificazione dei fatti-reato materialmente posti in essere da altri affiliati allo stessa organizzazione; condotta certamente sorretta dalla volontà e dalla consapevolezza di contribuire con il proprio operato alla realizzazione comune e dalla conoscenza o rappresentazione dell'azione altrui. Va infine ricordato che Ganci Stefano era stato ritualmente combinato già alla fine del 1982, come riferito dal fratello Calogero (tra la fine dell’82 e l’inizio dell’83, secondo i ricordi dell’Anzelmo) e quindi prima ancora della strage. Egli aveva già commesso omicidi e nel tempo il suo prestigio era aumentato tanto che dopo l’arresto dei suoi familiari, per volere del padre, resse il mandamento della Noce.

Quel chiacchierone di Enzo Galatolo. La Repubblica il 30 luglio 2020. Notevole si è rivelato anche il contributo causale fornito all’intera operazione criminosa da Galatolo Vincenzo, capo della famiglia mafiosa dell’Acquasanta, facente parte nel mandamento di Resuttana. Il ruolo dell’imputato, infatti, si è estrinsecato non solo in un significativo protagonismo operativo, ma anche nella predisposizione delle basi logistiche indispensabili per la preparazione dell’attentato. Appare opportuno rilevare che il Galatolo, pur essendo stato arrestato il 7/5/1983, venne scarcerato in data 1/6/1983, in tempo utile per partecipare attivamente alle fasi preparatoria ed esecutiva della strage. Tutti e quattro i collaboratori esaminati, che rivestono la posizione di coimputati e che risultano a pieno titolo personalmente coinvolti nella fase esecutiva dell’attentato, hanno concordemente riferito del coinvolgimento operativo del Galatolo in tutte le fasi più significative dell’attuazione del progetto criminoso. Ed invero, nel rinviare all’analitica disamina delle chiamate in correità sopra svolta, è qui sufficiente ricordare che il Galatolo è risultato presente in tutte le fasi più significative dell’attuazione del progetto criminoso ed in particolare:

nel momento in cui Ganci Raffaele ed Anzelmo Francesco Paolo consegnarono presso il fondo Pipitone la Fiat 126 rubata, con il messaggio che “è per il dottore”;

nel momento in cui presso lo stesso immobile venne effettuata la prova di funzionamento del telecomando; nel momento del caricamento dell’ordigno esplosivo nel cofano dell’autovettura nel magazzino di via Porretti, di sua proprietà, attivandosi per procurare gli attrezzi necessari ad effettuare l’operazione;

la notte precedente alla strage allorchè, nel predetto fondo si riunirono Madonia, Brusca e Ganci Raffaele, Anzelmo e Gambino.

Lo stesso Galatolo, inoltre, provvide nelle prime ore della mattina del 29 luglio ad aprire la saracinesca del magazzino dove era custodita l’auto-bomba e a richiuderla dopo che la Fiat 126 venne portata fuori dal Brusca, attivandosi altresì nei minuti successivi a presidiare la zona dell’attentato a bordo di una Lancia Beta coupé. Le convergenti chiamate in correità sopra esaminate hanno trovato riscontro anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Onorato Francesco, capo della famiglia di Partanna Mondello, inserito nell’organizzazione criminale dalla fine degli anni ‘70 ed uomo d’onore di stretta fiducia del Gambino prima e del Biondino successivamente. L’Onorato ha riferito delle confidenze ricevute dallo stesso Galatolo in un periodo di comune detenzione presso l’ottava sezione del carcere dell’Ucciardone mentre stavano trascorrendo insieme l’ora d’aria. Non era infrequente che il Galatolo parlasse di fatti criminosi con l’Onorato sia perché li legavano un’antica conoscenza ed ottimi rapporti, sia perché il primo non disdegnava, anche contravvenendo alle più elementari regole di riservatezza che l’appartenenza a “cosa nostra” imponeva, di compiacersi, vantandosene, della sua vicinanza alla famiglia Madonia e delle attività criminali che aveva commesso e che gli avevano consentito di acquisire sempre maggiore prestigio nell’ambito dell’organizzazione. L’Onorato ha testualmente dichiarato che : ”Enzo Galatolo è un tipo che con quelli stretti stretti, diciamo che si vanta, si...si piace che la gloria, che lui se lo corteggiano” e sotto tale profilo il collaboratore era senz’altro un interlocutore privilegiato del Galatolo, per la reciproca stima e per il comune coinvolgimento in fatti omicidiari. All’udienza del 25/5/1999 l’Onorato ha riferito quanto segue in ordine alle confidenze ricevute dal Galatolo:

P.M. : - Successivamente alla morte del dottore Chinnici lei ebbe modo di apprendere nell'ambiente qualche informazione con riferimento agli esecutori materiali della strage?

ONORATO : - No, come esecutore materiale della strage ho sentito da lui stesso che mi ha detto che lui un minuto prima, se passava Angelo Noto, Angelo Noto era un uomo d'onore che era imparentato con altri uomini d'onore, che non mi ricordo con chi, comunque, non mi ricordo neanche di quale famiglia era questo Angelo Noto, forse di Salami, comunque, non mi ricordo, e che eravamo in carcere con Enzo Galatolo, all'ottava sezione dell'Ucciardone, nell'87, che c'era questo Angelo Noto pure e siccome lui ci... ci faceva antipatia a questo Angelo Noto, ma non... più che altro lui, Enzo Galatolo, per far sapere e per fare vedere che lui ha sempre partecipato in cose importanti, di alto livello, prendeva sempre delle... dei discorsi affinchè andavano a finire che lui era sempre un grande uomo d'onore e che aveva partecipato in grande cose.

In sostanza mi aveva detto che, mentre che eravamo lì alla ottava sezione, che questo Angelo Noto era passato qualche due minuti - tre minuti prima di scoppiare la bomba dov'è che è stata fatta la strage, dice: "È stato un peccato, perchè se passava allo stesso momento - dice - facevamo puru... ci facevamo saltare la testa pure a Angelo Noto", parlava di questo Angelo Noto, dice che è stato fortunato... E poi mi ha raccontato che aveva partecipato in questa strage di Chinnici.

P.M. : - Quindi Enzo Galatolo in quell'occasione le riferì di essere responsabile della strage del dottore Chinnici?

ONORATO : - Sì, sì.

P.M. : - Le disse qua...

ONORATO : - Ma non solo questo, Enzo Galatolo parlava... Enzo Galatolo parlava sempre con me, quando andavamo tipo a Villa Igea la sera a bere qualcosa, appena si beveva qualche bottiglia, scusando la frase, qualche bottiglia di champagne iniziava a parlare che lui aveva strangolato a questi, che aveva ammazzato a quelli, e raccontava tutta la sua storia, ma erano sempre cose di ogni sera. Si figuri che io certe sere non scendevo perchè già sapevo quello che mi doveva raccontare, che a me mi dava fastidio.

P.M. : - Ma, per quella che è la sua esperienza, il Galatolo le ha mai inventato cose che non aveva fatto o diceva la verità?

ONORATO : - No, no, diceva la verità, per carità, perchè era uno che nelle cose... ne aveva fatti, non è che... anche perchè con me aveva qualche omicidio pure, avevamo degli omicidi assieme e, quindi, con me parlava e c'era un rapporto di intimo, un rapporto che mi conosce da quando eravamo bambini, quando io ero bambino mi ha cresciuto lui e, quindi, eravamo in buoni rapporti e mi raccontava tutta questa situazione.

P.M. : - Io vorrei capire, vorrei che lei chiarisse bene quali sono state le parole che le ha detto il Galatolo, se le ha spiegato che ruolo aveva avuto nella strage del dottore Chinnici.

ONORATO : - No, che lui era stato presente alla strage, no il ruolo. Che lui era stato presente, che era lì, che quando passò questo Angelo Noto "era meglio - dice - se passava qualche minuto prima", dice, perchè lo avevano visto passare a questo Angelo Noto prima di scoppiare la bomba.

P.M. : - Quindi che il Galatolo era presente sul luogo della strage nel momento in cui si è verificata la strage?

ONORATO : - Sì, sì.

L’attendibilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore risulta suffragata dall’esito degli accertamenti esperiti presso la Casa Circondariale di Palermo (cfr.nota nr. 11787 in data 2/6/1999 di detto istituto) da cui risulta che effettivamente nel 1987 il Galatolo, l’Onorato ed il Noto furono contestualmente ristretti presso l’ottava sezione dal 24/7/1987 al 17/8/1987.

Tutti i collaboratori esaminati in dibattimento hanno fornito concordi indicazioni sull’inserimento dell’imputato in “cosa nostra” e sul coinvolgimento dello stesso in mumerosi delitti per conto dell’organizzazione e di Madonia Antonino in particolare, del quale il Galatolo da sempre è stato fedelissimo esecutore di ordini. Va ricordato che Di Carlo ha riferito che i Galatolo fin dagli anni ’70 erano molto legati a Riccobono Rosario e che successivamente si avvicinarono ai Madonia divenendone fedelissimi alleati. Cucuzza Salvatore (ud.28/1/1999) ha dichiarato quanto segue:

P.M. : - Senta, mi vuole dire qual era il rapporto di Galatolo Vincenzo con i Madonia nell'83?

CUCUZZA : - Mah, era ottimo e fino... bè, era... era il capo della famiglia dell'Acqua Santa il Galatolo, quindi era più che buono.

P.M. : - E con Madonia Antonino in particolare c'erano rapporti assidui, di frequentazione? Anche nella commissione di attività illecite.

CUCUZZA : - No, commissione di attività illecite... erano molto vicini, molto amici, insomma; si... i Madonia erano sempre all'Acqua Santa, quindi gravitavano in quella... in quella zona, quindi c'erano dei rapporti buoni anche con... con Nino Madonia, con Carollo.

Brusca Giovanni ha riferito che il Galatolo era stato sempre un punto di riferimento dei Madonia e che lui stesso si recava sistematicamente al Fondo Pipitone perché proprio quell’immobile Madonia Antonino aveva indicato come punto di riferimento. Dello stesso tenore sono le dichiarazioni rese sul punto dall’Onorato, il quale ha testualmente affermato: “quando io dovevo parlare con Nino Madonia lo andavo a trovare a vicolo Pipitone dai Galatolo”. Va peraltro ricordato che secondo le concordi dichiarazioni di diversi collaboratori più volte il fondo Pipitone era stato utilizzato come base logistica da cui erano partiti gli esecutori materiali di gravi fatti omicidiari, fra i quali quello in pregiudizio dell’on. Pio La Torre( cfr. Cucuzza) e di Puccio Pietro, nei pressi del cimitero dei Rotoli, lo stesso giorno in cui era stato ucciso all’interno del carcere il fratello Puccio Vincenzo (cfr.Brusca). Tutti i collaboratori, inoltre, hanno fornito univoci elementi in ordine all’utilizzazione di quell’immobile anche per incontri e riunioni tra uomini d’onore. Gli accertamenti di P.G. hanno consentito di accertare che alla famiglia Galatolo appartiene la palazzina sita all’estremità del Fondo Pipitone, ubicato a breve distanza dal magazzino di via Porretti, di cui la Corte ha visionato le immagini in udienza nel corso della deposizione dell’Ag. Sanfilippo Felice. Non può infine essere sottaciuto che le dichiarazioni dei collaboratori hanno trovato riscontro nell’esito di altri accertamenti di P.G. esperiti al fine di localizzare il magazzino sito nella traversa di via Ammiraglio Rizzo, individuata nella via Porretti (cfr.piante della città di Palermo acquisite), dai quali è emerso che al numero civico 5 di detta via si trova la struttura di cui tutti i collaboratori-imputati hanno fornito ampia descrizione e che risulta essere stata venduta alla società che ne è attuale proprietaria, proprio dal Galatolo Vincenzo, Enea Rosa e Scardina Angela, rispettivamente moglie e cognata del primo. Va infine ricordato che proprio da quel magazzino, come hanno concordemente riferito il Ganci e l’Anzelmo, era partito il gruppo di fuoco che aveva operato in occasione della strage di viale Croce Rossa, in cui rimase ucciso il commissario di P.S. Antonino Cassarà; quell’immobile era stato sistematicamente utilizzato durante la guerra di mafia come ricovero di mezzi rubati da impiegare per commettere gli omicidi e per occultare armi, munizioni, targhe rubate ed altro. Sul ruolo dei Galatolo l’Onorato ha riferito quanto segue: ”i Galatolo erano padroni assoluti di tutta la zona dell’Acquasanta, via Ammiraglio Rizzo e come si dice, Arenella, anche se loro non erano padroni diretti, ma erano i padroni di potere usufruire di qualsiasi cosa che volevano.....avevano garage, magazzini che erano tutti a disposizione sia dei Madonia che dei Galatolo”. Per le considerazioni sopraesposte e sulla base degli univoci elementi probatori acquisiti, può ritenersi pienamente provato il coinvolgimento del Galatolo nella strage ed il contributo causale penalmente rilevante alla determinazione dell’evento.

La Cupola si riunisce e decide. La Repubblica il 31 luglio 2020. Come già ampiamente esposto nel paragrafo dedicato all’individuazione del movente della strage, deve ritenersi pienamente provato che essa è maturata in un contesto ed in un momento storico in cui l’assassinio del dr. Chinnici, per le funzioni giurisdizionali svolte in determinati processi, per l’impegno profuso, per la fermezza dimostrata e per il rigore morale che ebbe ad ispirarne l’attività professionale, divenne funzionale ad un interesse strategico complessivo di quella potente e pericolosissima organizzazione criminosa, tipicamente mafiosa, denominata "Cosa Nostra", la cui "prova ontologica", come struttura associativa monolitica e gerarchicamente ordinata, può dirsi ormai pacificamente acquisita al patrimonio della coscienza collettiva, oltre che giudiziariamente, grazie alle rivelazioni di molteplici e convergenti fonti propalatorie, la cui attendibilità ha superato il vaglio dibattimentale e di legittimità. L’approfondita istruzione dibattimentale ha consentito di riscontrare positivamente la rilevanza e la centralità probatoria, ai fini dell’individuazione della causale, del ruolo svolto dalla vittima nell’ufficio da lui diretto. Ed infatti, sono già state evidenziate, attraverso la puntuale disamina di una molteplicità di fonti probatorie, le seguenti acquisizioni processuali che convergono univocamente per la progressiva maturazione all’interno di “cosa nostra” di una ferma ed irrevocabile determinazione criminosa, alimentata in particolare:

Dalla rinnovata incisività dell’attività istruttoria del consigliere Chinnici e dallo straordinario impegno fatto registrare dall’attività giudiziaria svolta da quell’ufficio dopo la sua nomina, che avevano segnato una svolta decisiva nella lotta alla criminalità organizzata in un momento storico in cui le indagini venivano ancora svolte con metodi tradizionali e senza il devastante apporto probatorio dei collaboratori di giustizia, che si sarebbe rivelato decisivo negli anni successivi ed in un ambiente definito “sonnolente” dallo stesso magistrato, sicchè le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo negli ultimi anni avevano ricevuto un notevole e incalzante sviluppo.

Dal tenace zelo profuso dal magistrato che segnò una svolta in un panorama investigativo che negli anni precedenti aveva fatto registrare una sostanziale stasi, senza alcuna significativa acquisizione probatoria, sicchè i nuovi metodi di lavoro assunsero un valore innovativo e dirompente per gli equilibri delle cosche mafiose e per gli stessi vertici dell’organizzazione.

Dalla decisiva intuizione che la circolazione delle informazioni nell’ambito dello stesso ufficio ed il lavoro di gruppo avrebbero potuto fare registrare un significativo salto di qualità nelle indagini, perché ciò avrebbe creato le condizioni per cogliere le connessioni fra i vari fatti-reato ed individuare gli intrecci ed i collegamenti operativi tra i gruppi che secondo gli equilibri dell’epoca costituivano i gangli vitali della organizzazione.

Dalla promozione di moduli organizzativi che consentissero, sul presupposto del carattere unitario del fenomeno mafioso e della organizzazione “cosa nostra”, un effettivo coordinamento delle indagini ed uno scambio delle informazioni tra i titolari dei procedimenti.

Dalle accertate preoccupazioni che le intuizioni investigative del consigliere Chinnici ed i nuovi moduli organizzativi provocarono all’interno dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra”, che si avviava a consolidare i propri assetti organizzativi; (cfr. Mutolo -ud. 23.4.1999 e le significative conferme di Brusca Giovanni);

Dal rinnovato ed insolito impegno civile di un magistrato, come il dr. Chinnici, a capo di un ufficio che costituiva, per il modello processuale previgente, il centro propulsore delle indagini in un’area geografica di primaria importanza strategica per ragioni storiche e sociali, sicchè la partecipazione a dibattiti in pubblici convegni e nelle scuole non poteva non costituire motivo di preoccupazione per i centri di potere politico-mafioso, atteso che il dr. Chinnici si era fatto promotore di iniziative sociali volte a favorire tra i giovani e soprattutto tra gli studenti lo sviluppo di un’autentica cultura della legalità.

Tutto questo, peraltro, si inseriva in un contesto in cui il quadro politico-mafioso di riferimento ed il sistema delle alleanze - delineati da Brusca Giovanni (cfr.ud. 1.3.1999) – erano connotati dal progressivo spostamento degli equilibri preesistenti, nel senso che dopo la “guerra di mafia” i Salvo si erano avvicinati alle posizioni dei c.d. “vincenti” tramite Greco Michele.

Alla stregua delle considerazioni che precedono non può seriamente dubitarsi non solo del coinvolgimento di “cosa nostra”- attesa l’accertata responsabilità nella fase esecutiva di soggetti, anche di spicco, affiliati a quel sodalizio – ma anche della riconducibilità della strage ad un interesse strategico dell’organizzazione: ciò ripropone il tema della riferibilità, in punto di rilevanza penale, della deliberazione omicidiaria alla “commissione”, intesa come organismo di vertice, il cui ruolo strategico ed immanente, racchiuso già nel significato semantico di "cupola" - molto più incisivo di quello espresso dal termine "commissione" - risulta definito ed accertato significativamente anche in numerosi precedenti giudiziari [...].

In particolare è necessario accertare se i componenti di detto organismo di vertice, di cui non sia stata già provata ad altro titolo la penale responsabilità, debbano rispondere dei fatti-reato oggetto delle imputazioni a titolo di concorso morale, quali mandanti. Come è noto, alla luce delle convergenti ed univoche dichiarazioni rese da numerosi collaboratori di giustizia - da quelli per così dire storici (Buscetta, Contorno, Calderone, Marino Mannoia ed altri) fino a quelli di ben più recente dissociazione, che hanno fornito un contributo probatorio di eccezionale rilevanza anche alle indagini relative alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio del 1992 - risulta provato che a tale organismo di vertice è sempre stato riconosciuto un ruolo di assoluta preminenza ed una competenza funzionale specifica ed esclusiva in ordine alle decisioni aventi per oggetto questioni rientranti in un interesse strategico complessivo dell'organizzazione, fra le quali in  primo luogo l'eventuale determinazione di attentare alla vita di rappresentanti delle istituzioni, e ciò in considerazione del fatto che i delitti cosiddetti "eccellenti" determinano normalmente una forte reazione repressiva dello Stato che può nuocere agli interessi del sodalizio. Una corretta metodologia logico-giuridica impone pertanto di accertare, preliminarmente, l’operatività di quella regola “istituzionale” all’epoca della strage per cui è processo e se, nel caso di specie, sia stata rispettata o vi siano elementi che possano deporre per una deviazione da essa, come è talvolta accaduto nel corso della storia criminale di “cosa nostra”; in secondo luogo se gli odierni imputati rivestissero la qualità di componenti di quell’organismo di vertice ed infine se ciascun componente sia stato posto nelle condizioni di esprimere validamente un consenso penalmente rilevante, sia pur nelle forme particolari che le peculiari modalità operative ed i moduli organizzativi dell’associazione consentivano, estendendo l’indagine anche a quei soggetti eventualmente detenuti all’epoca della deliberazione. Al riguardo tutti i collaboratori sono stati concordi nel riferire che alle deliberazioni della commissione partecipavano i capimandamento ed eventualmente i loro sostituti nel caso di impedimento dei primi per detenzione o sottoposizione ad altri provvedimenti limitativi della libertà personale. Il sostituto era inoltre tenuto, per regola indefettibile, ad informare preventivamente il titolare per conoscerne la volontà e manifestarla in seno all'organo collegiale ed a tal fine venivano utilizzati tutti i canali diretti o indiretti idonei a prendere contatti con i rappresentanti in stato di detenzione(colloqui con familiari e difensori che siano a loro volta "uomini d'onore").

Orbene, va rilevato che alla stregua delle complessive acquisizioni processuali e segnatamente delle concordi dichiarazioni rese sul punto da tutti i collaboratori, può ritenersi pienamente provato che nessun delitto coinvolgente gli interessi strategici dell'intera organizzazione avrebbe potuto essere eseguito senza una preventiva deliberazione collegiale della commissione, ancorchè non attuata attraverso una rituale e formale riunione plenaria dell'organo, ma nel senso della necessità almeno di un preventivo coinvolgimento informativo dei capi-mandamento, i quali peraltro, da una certa data in poi, non venivano riuniti dal Riina tutti insieme e nello stesso luogo ma sovente per gruppi separati ed in luoghi diversi. Nè può dubitarsi che la strage per cui è processo, per le eclatanti ed efferate modalità esecutive e per la figura emblematica della vittima, abbia segnato, in quel momento storico, uno dei più alti livelli di attacco terroristico allo Stato da parte di "cosa nostra" registrati fino ad allora  per riaffermare il primato e l'intangibilità del proprio potere criminale sia rispetto alla società civile ed alle istituzioni statali sia all'interno dello stesso sodalizio. Evidente appare, pertanto, il coinvolgimento di interessi strategici dell'intera organizzazione nell'operazione stragista di Via Pipitone Federico, che avrebbe potuto comprometterne, a pochi mesi di distanza da quella di via Isidoro Carini contro il prefetto Dalla Chiesa, la tradizionale impunita operatività in relazione alle prevedibili forti reazioni delle istituzioni, anche sull'onda emotiva dello sdegno dell'opinione pubblica, e, quindi, la necessità di un consenso preventivo del massimo organo deliberativo, ancorchè espresso in quella forma di consenso tacito o di manifestazione preventiva di un generico sostegno morale che, secondo l'autorevole orientamento espresso dalla S.C., assume un’efficienza causale penalmente rilevante nella misura in cui, risolvendosi nella "rimozione di un ostacolo riposto nelle perverse regole della mafia" e quindi in un omesso divieto, può assumere la forma dell’approvazione ovvero dell’implicita autorizzazione penalmente rilevanti, le quali integrano gli estremi dell’istigazione o del rafforzamento dell'altrui volontà omicida. Orbene, suscettibile di essere adeguatamente valorizzato come indice rivelatore della sostanziale convergenza preventiva della volontà dei capi-mandamento, ancorchè in ipotesi manifestata nella forma del consenso tacito o della approvazione implicita, appare nel caso di specie, conformemente all'autorevole opinione espressa anche sul punto dalla citata sentenza della S.C., non solo la straordinaria rilevanza dell'evento omicidiario ma altresì la successiva assenza di punizioni nell'ambito del sodalizio, dato, questo, secondo i collaboratori, ordinariamente significativo di un preventivo assenso della cupola. Tale significativa emergenza processuale, soprattutto se valutata anche in relazione al momento storico in cui è maturata la decisione della strage ed agli equilibri esistenti all'interno dell'organizzazione, caratterizzati da una sostanziale unità di intenti intorno alla figura di primo piano del Riina, consente fondatamente di escludere che il grave attentato possa essere stato il frutto di un’autonoma e non plebiscitaria determinazione di una fazione o di un gruppo all'interno dell'organizzazione, atteso che all'epoca vigeva una sostanziale coesione interna ed i compiti istituzionali della commissione, tra cui le preventive deliberazioni di delitti eccellenti, non risultano turbati e stravolti dall'insorgere di fenomeni straordinari che, in altri momenti storici, avevano fatto registrare anomale deviazioni dalle regole del codice mafioso ed il progressivo esautoramento del potere effettivo dell'organismo in favore di gruppi emergenti con mire egemoniche. Quanto poi al rispetto, anche nel caso di specie, della regola indefettibile dell'obbligo della preventiva informazione di tutti i capi- mandamento, in linea con l'eccezionale importanza strategica rivestita dal progetto criminoso in esame, va rilevato che lo stesso momento storico in cui la strage di Via Pipitone Federico venne consumata consente di ritenere fondatamente che si fosse ormai pervenuti ad una fase di così elevato grado di stabiltà nella evoluzione dei rapporti di  forza interni all’organizzazione da escludere la sussistenza di concrete esigenze di derogare ad una regola la cui violazione sarebbe sfuggita alla rigida logica delle dinamiche criminali del sodalizio.

Un attentato che cambia Cosa Nostra. La Repubblica l'1 agosto 2020. Orbene, per comprendere appieno la fondatezza del superiore assunto, non può prescindersi da una sia pur rapida ricostruzione storica dell’evoluzione di “cosa nostra”, tanto più necessaria ove si consideri, da una parte, che ciò consentirà di individuare quei momenti in cui la precarietà degli equilibri interni e la sanguinosa situazione di conflitto tra opposte fazioni hanno fatto registrare significative deroghe alla regola della collegialità e di apprezzarne il carattere di eccezionalità, e dall’altra, che proprio dal momento storico di transizione tra vecchi assetti organizzativi e nuovi equilibri in cui è maturata la determinazione criminosa e la successiva esecuzione della strage potranno trarsi utile indicazioni in ordine all’operatività di quella regola. Sul punto, fra i collaboratori esaminati nel presente dibattimento un significativo apporto probatorio è stato fornito da Di Carlo Francesco, Siino Angelo e Cucuzza Salvatore, il cui prezioso patrimonio conoscitivo appare adeguato al rispettivo livello di inserimento nell’organizzazione ed alla natura dei rapporti con esponenti di spicco della stessa. Ed infatti, il primo per la lunga militanza in cosa nostra ne ha vissuto le fasi più conflittuali, inserito nel gruppo dei c.d. vincenti; il secondo, benchè non formalmente uomo d’onore, era stato molto vicino a Stefano Bontate; il terzo, infine, reggente della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, aveva fatto parte del gruppo di fuoco che partecipò attivamente alla sanguinosa guerra di mafia. Tanto premesso, va rilevato che una ricostruzione della evoluzione storica di “cosa nostra” non può prescindere dal rilevante contributo probatorio fornito dal collaboratore di giustizia Buscetta Tommaso, la cui antica miltanza in Cosa Nostra e l’accertata attendibilità nell’ambito del c.d maxiprocesso, conferiscono al suo racconto una sicura affidabilità che deriva anche dal profondo radicamento del propalante nella realtà criminale mafiosa, dalla sua vicinanza ad esponenti di spicco e dal prestigio acquisito all’interno dell’organizzazione. E peraltro, le dichiarazioni del Buscetta hanno trovato significativo riscontro anche nelle dichiarazioni rese da Contorno Salvatore, la cui attendibilità è stata altrettanto positivamente delibata nel citato maxiprocesso, e dallo stesso Di Carlo Francesco, esaminato all’udienza del 15/2/1999, il cui contributo probatorio appare adeguato alla consistenza del suo patrimonio conoscitivo in relazione al ruolo rivestito in seno a “cosa nostra”. Uomo d’onore della famiglia di Altofonte, rientrante nel mandamento di S.Giuseppe Jato, diretto da Brusca Bernardo, poi sostituito dal figlio Giovanni, il Di Carlo ha dichiarato di essere stato affilato dalla metà degli anni 60 fino al 1996, ricoprendo la carica di consigliere, sottocapo ed anche rappresentante(dalla fine del 1975 fino agli inizi del 1978). Dimessosi volontariamente da tale carica il Brusca ebbe a nominare tre reggenti: il fratello dello stesso collaboratore, Di Carlo Andrea, Ottavio Gioè, padre del più noto Antonino Gioè, e Di Matteo Giuseppe, inteso Piddu Mezzanasca, padre dell’attuale collaboratore Di Matteo Mario Santo. Ha inoltre dichiarato di essersi dimesso per divergenze circa i suoi metodi di gestione della famiglia in quanto non voleva che nel suo territorio si perpetrassero omicidi ed estorsioni. Dopo le dimissioni fu messo alle dirette ed esclusive dipendenze di Brusca Bernardo e della commissione provinciale di Palermo, vale a dire fin dall’inizio della sua costituzione avvenuta nel 1974. Il Di Carlo ha riferito degli ottimi rapporti con Brusca e Riina, intimamente legati tra loro tanto da essere “unica persona”, e di avere intensificato i rapporti con il Riina negli anni ‘71-72 allorchè ebbe ad ospitarlo insieme alla moglie e la primogenita di pochi mesi nella propria abitazione durante la latitanza. […] Il Di Carlo ha riferito di avere iniziato la collaborazione nel giugno 1996, data in cui aveva già scontato 12 anni della condanna inflittagli, pari ad anni 25, due dei quali condonati, e, quindi, maturato il periodo minimo trascorso il quale una convenzione internazionale consente di espiare in Italia la pena residua. In particolare, sui motivi della collaborazione il Di Carlo ha dichiarato quanto segue:

P.M. - Sì. Senta, lei quindi ha scritto questa lettera al dottore Natoli e quando ha iniziato a collaborare. E ci vuole spiegare quali sono stati i motivi della sua collaborazione?

DI CARLO - Bè, i motivi, sa, sono tanti. A parte tutto il cambiamento che c'è stato in "Cosa Nostra", perchè non riconoscevo più... a parte tutto non facevo più parte di "Cosa Nostra", ma visto quello che c'era, c'era da vergognarsi, perchè poi i giornali inglesi parlavano di molte - andavano nel plurale - uccisione di bambini, di donne, dello Stato in ginocchio, di Giudici, di tutto questo. […] L'ho detto pure per telefono a qualcuno ci riferisse [a Giovanni Brusca ndr.] che lasciasse stare i bambini; i bambini e le donne in "Cosa Nostra" non si toccano; che un bambino che cosa può cambiare? Comunque, speravo che almeno ci avrebbe... mentre non ho fatto niente. Le cose sappiamo tutti come sono andate, ma mi è venuto uno sconcerto di dentro. A parte tutto quello che dicevano i giornali, ho voluto dare un taglio, che nella mia generazione non deve fare più parte di "Cosa Nostra", perchè abbiamo vissuto sempre di "Cosa Nostra", da nonni, avi e da zii e sempre. Nella mia generazione figli dei figli, nipoti con eh... non debbono esistere più. E solo in questo modo può essere di non esistere più "Cosa Nostra" nella mia generazione, perchè a me "Cosa Nostra" mi ha rovinato; potevo essere  un imprenditore, i mie amicizie che avevo; ero nella Palermo bene. Mi ha rovinato famiglia, tutto, a parte... perchè il carcere non mi faceva impressione, perchè sono un uomo che so vivere dovunque, e così ho preso la decisione. Ma no per il carcere, perchè stavo finendo, poteva essere un anno più, un anno meno; altre imputazioni possono parlare di quello che vogliono, non c'è niente, perchè io sapevo che i reati si pagano in "Cosa Nostra" e allora ho saputo sempre gestire. Se era per me fino al '78 i miei fratelli non avevano messo un dito nell'acqua, non avevano fatto niente, come tanti non i miei fratelli soli, ma come tanti di Altofonte. L'omicidi dopo hanno cominciato. Se era per me rimanevano puliti, perchè o si pagano in "Cosa Nostra" o si pagano con la Giustizia i reati. Allora meno ne fa, meglio è. Questa era la mia posizione.”””

Le dichiarazioni del Di Carlo, il cui patrimonio conoscitivo risulta connotato da indubbi profili di novità ed originalità, si sono rivelate probatoriamente rilevanti e per la loro precisione e genuinità meritano di essere adeguatamente valorizzati. Il collaboratore, inoltre, è stato diretto protagonista di alcuni episodi narrati e con particolare riferimento al periodo antecedente al suo allontanamento dall’organizzazione particolare valore probatorio deve essere riconosciuto al suo contributo, perché frutto dell’esperienza diretta vissuta all’interno del sodalizio, connotata, anche per la posizione rivestita, da stretti e frequenti rapporti con esponenti di spicco dell’organizzazione. Quanto al SIINO, […] Fin dall'infanzia aveva avuto frequentazioni con esponenti del mondo della mafia a causa della sua provenienza familiare, essendo il nonno un esponente mafioso di grossissimo rilievo. Uno zio, inoltre, Salvatore Celeste, fin da ragazzino lo portava sempre in giro anche nella provincia di Caltanissetta dove aveva avuto modo di conoscere tutti i più grossi esponenti del mondo mafioso, quali ad esempio Giuseppe Genco Russo, ed altri esponenti importanti dell'organizzazione mafiosa nissena e di altre province. A specifica domanda ha riferito di avere conosciuto negli anni ‘50 il noto esponente mafioso Madonia Francesco di Vallelunga, in quanto era molto amico di suo zio Celeste Salvatore, nonché il di lui figlio Giuseppe Piddu Madonia, di cui era molto amico. Quest’ultimo, di qualche anno più piccolo di lui, lo aveva conosciuto fin da giovanissimo e successivamente si erano nuovamente incontrati per questioni inerenti la distribuzione degli appalti nel nisseno e nell'ennese. Ha inoltre dichiarato di avere avuto fin da giovane rapporti con tutti gli esponenti di vertice dell'associazione criminale mafiosa di tutte le provincie siciliane e di essere venuto parecchie volte nel nisseno per discutere di questioni inerenti grossissimi abigeati, che allora venivano consumati nei confronti di proprietari terrieri, per esempio per la restituzione degli animali. Aveva conosciuto molto bene Stefano Bontate, esponente della triade mafiosa che reggeva negli anni '70 “cosa nostra" ed essendo molto amici andavano spesso in giro non solo per la Sicilia ma anche per tutta la penisola sicchè aveva avuto modo di conoscere i rappresentanti di "cosa nostra" della cosiddetta ala corleonese. Per gli stretti vincoli di amicizia con il Bontate aveva potuto raccoglierne gli sfoghi contro il Riina – “qualche giorno a questo Riina gli sparo in bocca e non se ne parla più”- il quale grazie agli infiltrati nella famiglia di S.Maria di Gesù, tra i quali il Pullarà, aveva potuto organizzare la sua vendetta. Trasferitosi verso la fine degli anni ’70 a Catania aveva avuto l’opportunità di conoscere tutti i rappresentanti di vertice della famiglia mafiosa catanese. Rientrato a Palermo nel 1984 si era occupato della gestione degli appalti, dapprima per conto della politica, e successivamente, dopo l’inserimento della organizzazione "Cosa Nostra" in quel settore, se ne era occupato fino al '91 per conto dell’organizzazione. Ha precisato che in particolare nel nisseno era stato “cooptato” da Giuseppe Madonia il quale gli diede l'incarico di supervisione a tutti gli appalti di Caltanissetta. In ordine alle sue specifiche funzioni in seno all’organizzazione ha precisato che si trattava di un ruolo di collegamento tra imprenditori, mafiosi, politici, per la pianificazione della spartizione e gestione degli appalti “con i vari capiprovincia, capi di mandamento e capi dei paesi”, ciò che gli aveva consentito di avere una “conoscenza precisa degli organigramma mafiosi”, perchè aveva “questo ingratissimo compito di andare a distribuire questa massa di denaro”. Tale “ruolo istituzionale” all'interno dell'organizzazione "Cosa Nostra" era stato assunto nel 1987 e ciò gli aveva consentito di avere contatti con tutti gli esponenti di "Cosa Nostra" palermitana, precisando di avere conosciuto in particolare il Provenzano, Bernardo Brusca, Di Maggio, Giovanni Brusca, Geraci, Farinella, vale a dire quelli che erano i rappresentanti di vertice della organizzazione. […] Quanto ai motivi della decisione di collaborare il Siino ha dichiarato:

SIINO - Ma io iniziai a collaborare immediatamente, perchè stanco di essere accusato dai cosiddetti uomini d'onore di cose effettivamente che io non avevo commesso, e poi era per me ormai doveroso chiarire qual era stato effettivamente il ruolo e il personaggio e i riferimenti che avevo avuto in tutte queste mie vicissitudini. Praticamente ero ridotto allo spasimo, ero ridotto allo stremo; non sapevo più che fare, perché continuavano a piovermi mandati di cattura addosso su istanza di personaggi che poi erano stati i veri ispiratori di questa situazione. Proprio c'era una specie di tiro al bersaglio, e allora ho cercato di chiarire e poi stava per essere ... in un certo senso coinvolto mio figlio in tutta questa situazione, cosa che io non potevo assolutamente permettere. E poi per me era ormai imprescindibile chiarire qual era il mio vero ruolo . in questa situazione.”

[…] Dopo avere precisato che le richieste estorsive (“continuavano a subissarmi di richieste di denaro”) erano state rivolte dal Brusca e dal “suo accolito Vito Vitale”, anche nei confronti dei suoi familiari, ha dichiarato che per sottrarsi a questa situazione aveva deciso di lasciare la Sicilia, avendo intuito che la situazione si era fatta pericolosa anche per la sua incolumità, perché “sapeva troppe cose” ed avrebbe fatto  “la stessa fine di Lima e dei Salvo”. Sul punto ha ulteriormente precisato: “Sì, esattamente, già cominciarono nei confronti dei miei parenti nel 1994 e da lì io andai su tutte le furie. Perchè praticamente ho fatto questo tipo di discorso: signori miei, io sono in galera da quattro - cinque anni, mi hanno dato il 41 bis - e, mi creda, allora era 41 bis, Signor Presidente, non era quello di ora - e praticamente, e io avevo sofferto le pene dell'inferno, ero ammalato, mi ero ammalato, avevo fatto tutto quello che dicevano loro, gli avevo fatto guadagnare miliardi, avevo fatto quello che avevano voluto e malgrado ciò "mi fate le estorsioni"? Ma questa veramente è una porcheria. Per cui, evidentemente, cominciai a... il mio pensiero primo è stato quello come cercare di poterli fregare. […] Ha infine riferito che sulla decisione di collaborare aveva influito anche la preoccupazione che il figlio potesse coinvolto negli stessi affari illeciti, […].

Significativo si è rivelato anche il contributo probatorio afferto dal collaboratore di giustizia Cucuzza Salvatore. Uomo d’onore della famiglia di Borgo Vecchio, facente parte del mandamento di Porta Nuova, il Cucuzza ha riferito di essere stato ritualmente combinato nel '75 e di avere subito un periodo di detenzione dal '75 al luglio '79, con una breve parentesi di latitanza, a seguito di evasione dall’ospedale, trascorsa con Rosario Riccobono. Dopo un lungo periodi di libertà dal 20 luglio 1979 al settembre del 1983, era stato nuovamente arrestato e scarcerato nel giugno '94. Ha riferito che la famiglia del Borgo Vecchio era capeggiata da Leopoldo Cancelliere e dopo la destituzione di questi egli ne aveva assuntola reggenza fin dagli inizi del 1980 mantenendola ininterrottamente (“Fino... Ma, diciamo sempre, perchè nessuno me l'ha... me l'ha mai tolta, quando le poche volte che sono uscito uscivo sempre con quella carica”). Ha inoltre dichiarato che durante “la guerra di mafia”, nella primavera dell'81, quindi dopo la morte di Stefano Bontate, erano stati costituiti alcuni gruppi di fuoco ed egli aveva fatto parte di quello di Ciaculli, con Pino Greco, Lucchese Giuseppe, Prestifilippo ed i Marchese, precisando le aggregazioni in seno a tali gruppi prescindevano dal mandamento di appartenenza, tanto che pur facendo parte del mandamento di Porta Nuova era stato designato per “rinforzare quel gruppo con l'autorizzazione, naturalmente, di Pippo Calò”

Quale componente di quel gruppo di fuoco, fino al 1983, aveva commesso numerosi omicidi. Ha precisato di essere stato colpito dal mandato di cattura scaturito dal c.d.  rapporto  dei  162, il  cui procedimento,  inizialmente  istruito  dal consigliere Chinnici, era poi confluito, a seguito delle dichiarazioni di Buscetta, nel c.d. maxiprocesso che era stato istruito dal dr.Falcone. Sebbene imputato di circa “duecento capi di imputazione” ed in particolare di tutti gli omicidi commessi durante la guerra di mafia, ha riferito che quel criterio di attribuzione della responsabilità era stato poi disatteso sicchè, non rivestendo il ruolo di capomandamento (“questa impostazione è caduta non ero capomandamento, per cui  non rispondevo a livello decisionale”) era stato condannato per il tentato omicidio Contorno e per associazione a delinquere con l'aggravante di “capo” . […] Dalle concordi dichiarazioni dei predetti collaboratori - la cui attendibilità, ad avviso della corte, merita di essere positivamente valutata – nonché dalle sentenze acquisite agli atti, ed in particolare da quella n.80/92 della S.C. e di merito, divenute irrevocabili, che ne costituiscono il presupposto, risulta che la prima commissione provinciale venne costituita negli anni '57-'58 per coordinare l'attività delle varie cosche, articolate in famiglie, ciascuna delle quali controllava una parte del territorio della provincia. I poteri di tale organo erano quelli strettamente necessari allo svolgimento di funzioni di coordinamento, la cui “delega” da parte delle famiglie, ciascuna delle quali sovrana nell’ambito del territorio di competenza, era scaturita dalla necessità di affidare ad un organismo sovraordinato il potere di prevenire l'insorgere di conflitti che sarebbero potuti derivare dal progressivo aumento dei traffici illeciti e dal connesso ampliamento del raggio di azione di ciascuna famiglia aldilà del proprio territorio. A differenza dei poteri che avrebbe assunto negli anni successivi, quelli di cui la commissione era originariamente titolare erano limitati e strettamente correlati allo svolgimento di funzioni di coordinamento, peraltro adeguati alle scarse esigenze organizzative del tempo, con esclusione di poteri di disposizione implicanti significative limitazioni dell’autonomia decisionale delle famiglie, come, ad esempio, la facoltà di avvalersi dell'opera di un "soldato" senza ottenere il previo assenso del suo "capofamiglia". Univocamente sintomatico della sostanziale parità di ciascuno dei componenti di tale organo rappresentativo, composto da tredici membri in rappresentanza delle "famiglie" più cospicue di ciascun mandamento, appare la circostanza che al Greco Salvatore, della "famiglia" di Ciaculli, che la presiedeva, era stata attribuita la carica di segretario, il cui compito si limitava a diramare gli inviti per le riunioni, a richiesta dei vari membri. La commissione, tuttavia, non riuscì a comporre i contrasti, rimasti a lungo latenti, da una parte, tra i fratelli Salvatore ed Antonio La Barbera - il primo capomandamento di Palermo Centro, che raggruppava, oltre all'omonima "famiglia", anche quelle del Borgo e di Porta Nuova – e, dall'altro, Cavataio Michele, Matranga Antonio, Troia Mariano e Manno Salvatore, rispettivamente a capo dei mandamenti di Acquasanta, Resuttana, San Lorenzo e Boccadifalco. Poiché i La Barbera, giovani ed ambiziosi, aspiravano ad assumere una posizione di maggior rilievo in seno alla commissione avevano chiesto il rispetto della regola, allora vigente ma di fatto disapplicata, che vietava il cumulo delle cariche di "capofamiglia" e di capomandamento, sperando in tal modo che la commissione fosse composta da soggetti meno anziani ed autorevoli di quelli che dirigevano le più importanti "famiglie". Gli altri capimandamento sopra citati si erano quindi alleati tra loro per contrastare le mire dei La Barbera ed ispirati dal Cavataio decisero di uccidere altri componenti della commissione che si trovavano in posizione neutrale, per poi farne ricadere la colpa sugli avversari. In attuazione di tale strategia si registrarono gli omicidi di Di Pisa Calcedonio (Natale 1962), capomandamento della Noce, che si stava apprestando ad abbandonare la carica di "capofamiglia" per poter mantenere il suo posto nella commissione e successivamente quelli di Manzella Cesare, che aveva già ceduto la sua carica di "capofamiglia" di Cinisi a Badalamenti Gaetano, e di Di Peri Giovanni, della "famiglia" di Villabate. La responsabilità di tali omicidi venne fatta ricadere sui La Barbera e così la commissione, al cui interno, come si è detto, alcuni dei capimandamento si erano segretamente accordati tra loro, decise lo "scioglimento" delle "famiglie" di Porta Nuova e di Palermo Centro e di punire con la morte i La Barbera. In occasione di uno degli attentati eseguiti, anche a mezzo di ordigni esplosivi, nel tentativo di uccidere Prestifilppo Salvatore, si era verificata la ben nota strage di Ciaculli in cui, a seguito della esplosione un'autovettura Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo, erano rimasti uccisi sette militari. L’immediata reazione degli organi dello stato seguita sull’onda emotiva dello sdegno dell’opinione pubblica determinò una crisi in cosa nostra, che venne temporaneamente sciolta. Durante l’operatività della prima commissione, pertanto, si era registrata l'adozione di una strategia fondata su intese segrete tra alcuni componenti di quell’organismo a danno di una minoranza, sia pure agguerrita, strategia che sarebbe stata successivamente ripresa e perfezionata dai cortonesi e che aveva reso a quel tempo inevitabile l'esplodere della c.d. prima guerra di mafia tra il 1962 ed il 1963, conflitto questo che a differenza di quello successivo aveva visto contrapporsi in modo compatto una "famiglia" mafiosa alle altre. Con il graduale attenuarsi dell'attività repressiva degli organi statali, soprattutto dopo il processo di Catanzaro, risoltosi in senso sostanzialmente favorevole agli interessi dell'organizzazione, cosa nostra aveva cominciato a ricostituire le sue strutture ed aveva avvertito subito l'esigenza di un organismo direttivo centralizzato che fosse in grado di evitare il ripetersi della conflittualità che ne aveva determinato la crisi. In attesa che si pervenisse alla completa costituzione di tutte le "famiglie" mafiose e dei vari mandamenti, la direzione di Cosa nostra  era stata assunta da un triumvirato, che aveva operato dal 1970 al 1975, formato da Bontate Stefano, della "famiglia" di Santa Maria del Gesù, Badalamenti Gaetano, della "famiglia" di Cinisi e Riina Salvatore, quest'ultimo in sostituzione di Leggio Luciano, rappresentante della "famiglia" di Corleone. L’esigenza prioritaria avvertita dall'organizzazione era stata quella di chiudere  i  conti  con  il  Cavataio,  principale  responsabile  della prima guerra di mafia e della lunga catena di omicidi che aveva provocato la reazione dello Stato, la cui strategia era stata frattanto scoperta, atteso che la strage di Ciaculli si era verificata quando uno dei fratelli La Barbera era stato ucciso e l'altro era rimasto gravemente ferito in un attentato a Milano, sicché non era stato più possibile far ricadere su di loro le responsabilità di quel grave fatto di sangue. Il progetto omicidiario in danno del Cavataio venne attuato con la c.d. strage di Viale Lazio a Palermo ad opera di un “gruppo di fuoco” di cui facevano parte un componente della "famiglia" del Bontate, uno della "famiglia" di Di Cristina Giuseppe di Riesi, che nutriva ambiziose pretese anche in relazione alle questioni che riguardavano le famiglie palermitane, ed uno della "famiglia" di Corleone, Bagarella Calogero, fratello di Leoluca, che rimase ucciso per la reazione della vittima designata. Rimasto temporaneamente solo alla guida del triumvirato per l'arresto del Bontate e del Badalamenti, il Riina incominciò a manifestare il proprio temperamento e la sua ostilità nei confronti dei primi due, organizzando il sequestro a scopo di estorsione di Cassina Luciano, sequestro che rappresentava non solo una palese violazione della regola vigente in cosa nostra di non effettuare questo tipo di reati in Sicilia per evitare di attirare nell'Isola l'attenzione delle forze dell'ordine, ma anche una chiara manifestazione dell'incapacità di Bontate e Badalamenti, che avevano sempre curato i rapporti con la classe imprenditoriale palermitana più inserita nel settore dei pubblici appalti, da cui derivavano all'organizzazione cospicui guadagni, di mantenere la gestione di tali rapporti. Questo episodio contribuì in modo decisivo ad alimentare quel clima di tensione tra il Riina e gli altri due esponenti dell’organismo di vertice, che sarebbe poi esploso nella seconda guerra di mafia, ma che venne temporaneamente sopito dall'intervento del Leggio, frattanto subentrato nel triumvirato al Riina.

Un altro grave episodio, verificatosi nel 1971 con l’omicidio del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione, ucciso dal Leggio, segnò una grave violazione della regola della collegialità delle decisioni, essendo il delitto maturato a causa delle iniziative giudiziarie intraprese dalla vittima nei confronti di quest’ultimo, senza che fosse stato acquisito il preventivo assenso degli altri due triumviri, che di ciò ebbero a dolersi. È appena il caso di rilevare come in relazione a tale delitto, dati i rapporti esistenti tra il rappresentante corleonese e gli altri due componenti l’organo direttivo, sarebbe stato illogico attendersi che il Leggio avesse chiesto il loro assenso per un omicidio che rispondeva solo ad un suo specifico interesse e dal quale sarebbero potute derivare gravi conseguenze negative anche per gli altri.

Un altro omicidio ai danni di un funzionario dello Stato fu quello commesso nel gennaio del 1974 in danno del maresciallo della Polizia di Stato in pensione Angelo Sorino, ucciso nella zona di San Lorenzo all'insaputa del Bontate, che ne chiese conto al capofamiglia Giacalone Filippo, il quale, dopo aver svolto delle indagini, aveva riferito al Bontate che autore dell'omicidio era stato Leoluca Bagarella. Poco tempo dopo il Giacalone era scomparso ed il Bontate aveva confidato al Buscetta di sospettare che i corleonesi fossero responsabili di tale scomparsa.

Altro grave episodio destinato ad alimentare la tensione tra i corleonesi ed il duo Bontate-Badalamenti fu il sequestro di Luigi Corleo, suocero dell'esattore Salvo Antonino, all'epoca vicino a questi ultimi, che non riuscirono ad ottenere neanche la restituzione del cadavere della vittima. La commissione provinciale venne ricostituita nel 1975, affidando la presidenza al Badalamenti, ben presto sostituito in tale carica - con il pretesto che egli doveva essere punito perché si sarebbe vantato di essere il "capo" di cosa nostra - da Greco Michele, ben più gradito ai corleonesi, mentre il Badalamenti sarebbe stato poi espulso da cosa nostra nel 1978 per motivi mai ben chiariti. Gli anni della direzione formale della commissione da parte del Greco furono anche quelli che fecero registrare vari "omicidi eccellenti" ed in cui si acuirono i contrasti tra lo schieramento in cui si delineava con sempre maggiore chiarezza l'egemonia dei corleonesi guidati dal Riina (subentrato al Leggio dopo l'arresto di quest'ultimo nel maggio del 1974) e quello contrapposto facente capo a Bontate ed a Salvatore Inzerillo, rappresentante della "famiglia" di Passo di Rigano.

Nell'agosto del 1977 venne ucciso a Ficuzza, nel territorio di Corleone, il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo.

L'omicidio dell’ufficiale era già stato vanamente richiesto dai corleonesi nel 1975 a Bontate ed a Di Cristina, nel territorio del quale all'epoca il militare operava, essendo stato autore delle indagini che avevano determinato il rinvio a giudizio del Leggio dinanzi alla Corte d'Assise di Catanzaro, ma il mancato consenso era servito solo a  ritardare la vendetta da parte dei corleonesi. Dopo l'omicidio, alle richieste di spiegazione da parte del Bontate e del Di Cristina, il Greco aveva potuto solo far presente di essere stato tenuto all'oscuro di tale iniziativa omicidiaria, che pure aveva poi appreso essere stata eseguita da un componente della sua stessa "famiglia" e cioè quel Giuseppe Greco "scarpuzzedda", che svolse il ruolo di spietato killer dei corleonesi sino a quando non venne a sua volta ucciso dagli stessi. Il Di Cristina aveva chiesto spiegazioni a Greco Michele di tale omicidio e delle ragioni per cui non era stata consultata la commissione regionale e questi, dopo aver parlato con il Riina, gli aveva riferito che secondo quest'ultimo "per uccidere gli sbirri" non era necessaria alcuna autorizzazione. Per tale risposta il Di Cristina e Calderone Giuseppe, rappresentante della "famiglia" di Catania, avevano significativamente rimproverato al Greco di essere un burattino nelle mani dei corleonesi.

Questi ultimi due sarebbero stati poi uccisi rispettivamente a Palermo il 30 maggio 1978 ed a Catania l'8 settembre 1978. Alle vibrate proteste del Bontate e dello Inzerillo, che in seno alla commissione avevano lamentato che tale organo non era stato consultato per l'omicidio del Di Cristina, per di più consumato in un territorio controllato dallo stesso Inzerillo, il Greco aveva giustificato l'episodio facendo presente che la vittima aveva meritato la morte perché confidente dei Carabinieri e che comunque la vicenda era legata a contrasti interni alla "famiglia" di Caltanissetta. In realtà il Di Cristina aveva iniziato ad avere degli incontri con il Cap. Pettinato, Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Gela, circa una settimana dopo l'omicidio del rivale Madonia Francesco di Vallelunga, commesso l'8 aprile 1978 e dopo che alcuni mesi prima, il 21/11/1977, i suoi amici Di Fede e Napolitano erano rimesti uccisi in un agguato chiaramente diretto contro di lui. Il Di Cristina, resosi conto di essere ormai obiettivo di una determinazione omicidiaria assunta dai corleonesi, aveva compiuto l’ultimo disperato tentativo di sottrarsi alla morte riferendo all’ufficiale notizie circa i fatti criminosi commessi dallo schieramento a lui avverso sperando che i suoi nemici potessero essere tratti in arresto prima di dare esecuzione al progetto omicidiario in suo danno. Come risulta dalle sentenze emesse nel corso del c.d. maxi processo (cfr.Cass.n.80/92), che hanno accertato la responsabilità del Riina, del Provenzano e degli altri componenti della commissione a questi più vicini, l’omicidio del Di Cristina era stato deciso dalla fazione egemonizzata dai corleonesi ai danni dello schieramento avversario, con il preventivo assenso solo dei componenti del primo schieramento e con la certezza di ottenere poi in sede di riunione della commissione una formale ratifica di tale operato che mettesse in minoranza le obiezioni dello schieramento opposto.

Appare, infatti, evidente che i corleonesi non avrebbero potuto commettere un così grave omicidio se non avessero saputo di poter contare sul consenso della maggioranza, consenso che ovviamente dovette essere ricercato prima dell'esecuzione dell'omicidio, per non rischiare di essere smentiti dal voto contrario della commissione. In tale ipotesi, infatti, la sconfessione dell'operato dei responsabili dell'omicidio avrebbe avuto quale unica sanzione possibile la morte, data la gravità della violazione della citata regola. Con il preventivo consenso della maggioranza della commissione, invece, avrebbe potuto essere addotta qualsiasi giustificazione – per esempio, quella, solo in parte vera, che faceva leva sul ruolo della vittima di confidente dei carabinieri - con la certezza che essa sarebbe stata accettata e che la fazione avversaria avrebbe dovuto inchinarsi alla volontà dell'organo di vertice espressa dalla sua maggioranza. Il 21/7/1979 era stato ucciso il Commissario Boris Giuliano, omicidio per il quale nel citato maxiprocesso è stata accertata la responsabilità dei componenti della commissione filocorleonesi. Erano seguiti l’omicidio del Consigliere istruttore Cesare Terranova (25/9/1979) ed il 4/5/1980 quello del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale.

A questo punto appariva imminente lo scontro aperto tra le due fazioni e l’inizio della c.d. seconda guerra di mafia. Per esigenze di completezza e chiarezza espositiva, appare opportuno rilevare, sia pur molto sinteticamente, che il tenace zelo investigativo dell’ufficiale dell’Arma si inseriva nel solco tracciato dal vice-questore Boris Giuliano e che le indagini di entrambi segnarono una svolta in un panorama investigativo che nel decennio precedente aveva fatto registrare una sostanziale stasi, senza alcuna significativa acquisizione probatoria, sicchè, pur ancora in assenza di quello che sarebbe stato il devastante apporto probatorio dei collaboratori di giustizia, le indagini avviate dal primo e proseguite dal secondo assunsero un valore innovativo e dirompente per gli equilibri delle cosche mafiose e per gli stessi vertici dell’organizzazione. Ed infatti, proprio partendo dai risultati delle indagini avviate dal Dr.Giuliano - ed in particolare dalla scoperta di un covo in Corso dei Mille di Palermo, di altro covo in Via Pecori Giraldi e dal sequestro presso l’aeroporto di punta Raisi (18/6/1979) di due valigie provenienti dagli U.S.A. e contenenti circa 500.000 $, costituente il corrispettivo di una grossa fornitura di eroina spedita dal gruppo Badalamenti-Bontate - dopo l’uccisione del funzionario gli inquirenti redassero il rapporto giudiziario del 25/10/1979 nel quale vennero evidenziati i collegamenti operativi tra alcuni esponenti mafiosi tra i quali Marchese Vincenzo, Bagarella Leoluca, cognato di Riina Salvatore (“famiglia” di Corleone), Anzelmo Rosario, i fratelli Di Carlo della “famiglia” di Altofonte, Bentivegna Giacomo e Gioè Antonino della stessa cosca. Le emergenze investigative evidenziate nel citato rapporto del 25/10/1979 avrebbero trovato significative conferme, dunque, nelle rivelazioni dei primi collaboratori in ordine agli stretti legami operativi tra le “famiglie” di Partitico, San Giuseppe Jato, Altofonte, Resuttana, San Lorenzo, Ciaculli e Corso dei Mille. Nel quadro di queste nuove alleanze un ruolo centrale fu svolto dal Riina Salvatore, il quale, facendo leva sulla sua carismatica figura, aveva da tempo introdotto modalità operative con più spiccate connotazioni terroristiche, ripristinando tra l’altro il ricorso ai sequestri di persona per finanziare il traffico di stupefacenti e derogando alla regola della collegialità delle decisioni della commissione in occasione di taluni gravi delitti. Anche l’omicidio del capitano Basile, secondo le concordi dichiarazioni dei collaboratori Buscetta, Contorno e Marino Mannoia costituì una deroga a quella regola, non essendo stato deliberato nel pieno rispetto della collegialità della commissione, tant’è che, come sopra ricordato, Bontate ed Inzerillo protestarono vivacemente con il Greco Michele - contestandogli la partecipazione di un esecutore materiale, il Puccio, affilato alla sua famiglia - il quale finì poi con l’ammettere che l’ufficiale andava eliminato per la sua tenacia investigativa. E peraltro, che il Bontate e l’Inzerillo non fossero stati informati della decisione omicidiaria nei confronti dell’ufficiale può desumersi anche alla stregua di valutazioni di ordine logico, atteso che il capitano Basile aveva concentrato e orientato i propri sforzi investigativi nei confronti delle “famiglie” di Corleone, San Giuseppe Jato, Altofonte, Resuttana, San Lorenzo, Ciaculli e Corso dei Mille, notoriamente collegate tra loro ed avverse al gruppo Bontate-Inzerillo, i quali pertanto non avevano alcun interesse a distogliere le attenzioni investigative dell’Arma da quel gruppo. D’altra parte il Riina, nel perseguire la strategia terroristica di cui era fautore, era portatore di un preciso interesse all’eliminazione di quel pericoloso investigatore nonchè alla stessa reazione repressiva delle istituzioni che avrebbero coinvolto inevitabilmente anche la fazione contrapposta: ciò che ebbe a verificarsi con l’arresto di 53 indiziati di associazione per delinquere affilati prevalentemente alla famiglia dell’Inzerillo, il quale, per dimostrare analoga capacità di determinarsi autonomamente senza informare la commissione, fece uccidere il procuratore della repubblica dell’epoca Dr.Gaetano Costa, che aveva convalidato i fermi. L’imponente mole di indizi acquisiti nel corso del processo a carico degli imputati dell’omicidio del capitano Basile non poteva non condurre all’affermazione della responsabilità penale del Madonia Giuseppe, quale esecutore materiale, essendo frattanto deceduti il Puccio ed il Bonanno, nonchè del Riina e del Madonia Francesco ed altri……...Risulta sufficientemente provato, pertanto, alla stregua delle risultanze processuali acquisite, e segnatamente delle sentenze irrevocabili fra le quali merita di essere citata quella della S.C. sez. I del 30/1/1992, n.80 che ha definito irrevocabilmente gran parte delle posizioni processuali del procedimento a carico di Abate Giovanni ed altri noto come il c.d. maxiprocesso di Palermo, che fino all’anno 1981, epoca dell’omicidio di Stefano Bontate (23/4/1981), che segnò l’inizio della c.d. guerra di mafia, le ferree leggi dell’unanimismo delle deliberazioni della commissione avevano fatto registrare delle significative deroghe e violazioni riconducibili alle diversità di strategie criminali perseguite dalle due fazioni contrapposte formatesi all’interno dell’organismo direttivo : quella c.d. dei corleonesi ed i loro alleati e quella costituita da Bontate, Inzerillo (capomandamento di Uditore, ucciso nel 1981) e Badalamenti. L’estromissione di quest’ultimo, ma non anche del Bontate per la sua tenace resistenza ad oltranza, determinò la nomina a capo della commissione di Greco Michele, concordemente definito dai collaboratori personaggio debole e poco autorevole, non in grado di ricostituire l’omogeneità dell’organizzazione e ristabilire il rispetto della regola della collegialità delle deliberazioni. Ben presto i corleonesi riuscirono ad assicurarsi il controllo egemonico dell’organizzazione attraverso l’eliminazione di tutti i componenti avversi, sostituendoli con uomini di fiducia. I pur significativi episodi di deviazione dalla regola della collegialità delle decisioni appaiono comunque correlati a periodi storici connotati da una netta contrapposizione tra opposte fazioni all’interno dell’organizzazione oppure da specifici comportamenti di singoli associati, ed i gravi fatti omicidiari che di quella deroga costituiscono espressione appaiono pur sempre funzionali alle mire egemoniche di uno schieramento sull’altro. Così è avvenuto, in primo luogo, per gli omicidi di personaggi di spicco dell’organizzazione (per es. Di Cristina) in relazione ai quali il rispetto della regola ed il preventivo assenso dell’organismo di vertice erano di per sé incompatibili con lo stesso oggetto della deliberazione che aveva come obiettivo l’eliminazione punitiva di un avversario, sicchè la successiva riunione della commissione – come quella tenutasi a “Favarella”, dopo l’esecuzione dell’omicidio Di Cristina, nel corso della quale si era registrata la protesta del Bontate e dell’Inzerillo – non può non evocare l’idea di una funzione di ratifica. Va tuttavia rilevato che la crisi del 1978 era stata determinata dal coinvolgimento del Di Cristina nell’uccisione del Madonia e dalle accertate responsabilità del Badalamenti, per tale ragione espulso, mentre il Bontate aveva sfidato chiunque a addurre prove certe a suo carico. Orbene, tali avvenimenti, contrassegnati da un episodico contrasto ai margini della figura del Di Cristina, non avevano determinato un’aperta rottura degli equilibri, se è vero che l’organizzazione aveva finito con il trovare nelle sue “sedi istituzionali”, attraverso inchieste e processi, la fisiologica soluzione dei conflitti. Gli assetti organizzativi del sodalizio erano quindi così saldamente legati alle regole fisiologiche di funzionamento che anche l’innesto di momenti di crisi, dovute a specifici comportamenti degli associati, ne restava normalmente assorbito. Ma anche per gli omicidi di alcuni uomini delle istituzioni il dissenso della “minoranza”, non preventivamente informata della determinazione omicidiaria, era correlabile a diversità di strategie ovvero alla carenza di un interesse specifico di una fazione e per converso ad un forte movente(per es. vendetta ) per quella maggioritaria filocorleonese. Ed invero, alcuni omicidi eccellenti, come sopra ricordato, sembrano rispondere ad una perversa strategia di contrapposizione, per esempio per dimostrare ad una parte avversa di essere tanto forti da poter commettere un delitto eclatante (per es. l’omicidio del Procuratore della Repubblica Costa) o, perfino, per far ricadere la colpa sugli altri.

Tutto il potere a Totò Riina. La Repubblica il 2 agosto 2020. Dalle dichiarazioni dei collaboratori risulta che il Riina, anche nel periodo in cui ebbe inizio l’eliminazione fisica dei suoi nemici, finalizzata ad imporsi egemonicamente creando le condizioni per costituire una commissione integralmente filocorleonese, aveva continuato ad indire regolarmente le riunioni della Commissione - cercando di assicurarsene la maggioranza e facendo leva sulla propria abilità dialettica - per continuare a rispettare le regole democratiche dell'organizzazione, perché il principio del rispetto delle regole non era mai venuto meno neanche nei periodi più difficili. Sul punto appare utile riportare le dichiarazioni di Cucuzza Salvatore e Di Carlo Francesco. Il primo, partendo dall'omicidio di Graziano Angelo, sottocapo della famiglia di Borgo Vecchio, ucciso per volontà di Bontate e dei suoi alleati senza alcun permesso nella Commissione, ha riferito che anche in quel periodo, per le condanne a morte di personaggi delle istituzioni, era necessaria la deliberazione di quell’organismo centrale (cfr.ud. 28/1/1999):

CUCUZZA: - Bè, io posso dire che sono stato testimone involontario, diciamo, perchè la persona che mi ha combinato in "Cosa Nostra" era Angelo Graziano, sottocapo della famiglia di Borgo Vecchio, ed è stato ucciso per volontà di Stefano Bontate e altri personaggi senza mettersi a posto con la commissione. Perchè allora si poteva farlo e poi riferirlo in commissione se le cose erano di urgenza. E quell'anno, che era, mi pare, il '77, la commissione decise che tutti i fatti importanti che riguardavano uomini d'onore o comunque persone importanti delle Istituzioni doveva passare della commissione.

P.M. : - Ci vuole spiegare questa decisione? Cioè, lei ci ha spiegato i motivi, . e li comprendo in questo momento con riferimento ad altri uomini d'onore. Nei confronti degli uomini delle Istituzioni perchè era necessario che fosse la commissione a deliberare?

CUCUZZA : - Perchè era una responsabilità che nessuno da solo si può prendere o si poteva prendere, perchè le conseguenze di un fatto così, diciamo, di rilevanza diciamo nazionale, poteva creare spaccature interno a "Cosa Nostra", perchè poi ci sarebbero state delle reazioni e ognuno, non essendo informato, poteva benissimo attaccare chi aveva fatto questo... questa situazione. Quindi, proprio queste decisioni, quelli di toccare personaggi comunque della vita politica o delle Istituzioni era... era, diciamo, a parte regola, ma era pure prudente fare partecipare a tutti e assumersi le responsabilità di quello che poi poteva succedere.

P.M. : - Lei ci può dire se questa regola, cioè riguardante gli omicidi degli uomini delle Istituzioni, è stata sempre rispettata?

CUCUZZA : - Eh, che io sappia è stata sempre rispettata.

P.M. : - Lei sulla base di quali circostanze, di quali fatti fa questa affermazione?

CUCUZZA : - Bè, perchè quando qualcuno viene lasciato fuori o comunque messo in disparte, significa che è morto, non c'è più. Insomma, o reagisce o muore, perchè se una persona che fa parte della commissione non viene informato preventivamente come tutti gli altri, sicuramente qualcosa non funziona.

Altra conferma proviene dalle dichiarazioni di Di Carlo, che visse in Sicilia fino alla fine dell'anno 1982 (ud.15/2/1999):

P.M.: - … lei più volte ha fatto riferimento alle regole di "Cosa Nostra" e all'osservanza delle regole. Allora io vorrei chiederle: lei, nel corso degli anni di militanza in "Cosa Nostra", ha potuto constatare l'osservanza di queste regole?

DI CARLO : - E guai a non osservare le regole in quel periodo. Io parlo sempre prima della guerra di mafia, dottoressa Palma. Poi, dall'83 in poi non lo so che succede; no non lo so, so quello che succede più o meno, ma non lo so, visto la... la potenza. Pure non cambiando niente, perchè in "Cosa Nostra" non cambia niente; cambiano gli uomini, però le regole sono quelle.………

DI CARLO - Poi c'è il fattore che ha più... più potere Riina - va bene? - e ognuno si accoda (invece) qualcuno contestare, per come faceva con Michele Greco e tutti quelli che c'erano dire: "Ma che fa, non possiamo lasciare stare? Ma che fa, si deve arrivare a questo?" Capace con Reina per la paura dicevano subito sì. Questa è la differenza, ma c'erano le persone lo stesso, il governo c'era lo stesso.

P.M. Lei poco fa ha parlato di omicidi eccellenti. Con riferimento

agli omicidi eccellenti, per quella che è stata la sua esperienza quindi concreta in "Cosa Nostra", lei ha constatato se le regole che  riguardavano gli omicidi eccellenti siano state sempre rispettate?

DI CARLO - Certo che sono state rispettate; e chi si poteva permettere? Non si faceva nemmeno l'omicidio no quello di Cosa. di "Cosa Nostra", uomini di "Cosa Nostra", ma la gente era così preoccupata, nel senso preoccupata di dare conto e ragione alla commissione, al suo capomandamento, che nemmeno toccava più a nessuno di quelli che non erano "Cosa Nostra", gente normale; figuriamoci un un omicidio eccellente.

P.M. - Ci può riferire, sulla base della sua conoscenza, casi in cui è stata la commissione provinciale di "Cosa Nostra" a deliberare omicidi eccellenti? E ci vuole indicare quali, in quali casi ha stabilito di uccidere queste persone, questi personaggi delle Istituzioni.

DI CARLO   - Ma io posso cominciare da quando nel '75 già.   che ancora capo... '75 - fine '74, non mi ricordo bene, comunque '75, mi sembra, quando volevano uccidere il Giudice Terranova. A portare il discorso, perchè c'è sempre uno che lo porta, chi ci interessa, era il capomandamento, sarebbe Totuccio Riina, che lo voleva questo omicidio Luciano Liggio. Nel '75 le cose nella commissione erano un pò differente, coordinatore era Badalamenti all'inizio del '75, filo corleonesi ce n'erano di meno, non c'erano man... due - tre mandamenti, che poi sono diventati intimi con Totuccio Riina, e Badalamenti si è imputato di dire no; Badalamenti, Stefano Bontade, Gigino "'u pizzuto". Tantissime persone più moderate. Infatti non si è fatto perchè c'hanno detto: "Altrimenti ci dici al mio compare - che era Badalamenti, rivolgendosi a Luciano Liggio - ci fai sapere al mio compare che siamo usciti adesso di galera, di confino, in mezzo ai guai. Ci rimettiamo nei guai ammazzando una persona dello Stato?" Perchè in quel periodo non era solo Giudice Terranova, in quel periodo era vicesegretario della commissione, là, che cosa era; commissione antimafia, era il vice, perciò aveva una carica istituzionale.Un politico eletto nel Partito Comunista. Insomma, sarebbe stato un... Dici: "A meno che se lo fa fuori della Sicilia, là pensano magari sono stati i terroristi". E così, ma subito la commissione qualsiasi cosa, specialmente a livello di Stato. Poi c'è stato il colonnello Russo,  poi c'è stato il... il giornalista, c'è stato il politico Riina... Reina, con la E, non Riina, perchè Riina... Reina, Michele Reina si chiamasse; c'è stato il capitano Basile, c'è stato... prima del capitano Basile c'è stato nel '79 finalmente il Terranova, perchè ha avuto la maggioranza, poteva fare e sfare di più nella commissione, chi aveva richiesto l'omicidio Terranova; infatti muore... muore il Vicequestore Giuliano, perchè ha scoperto l'appartamento di via Pecore Gerardi, di Bagarella. Sempre voluti da loro, però nella commissione andavano, non si... non si parla oggi di questo...

P.M.- Senta, quindi sostanzialmente lei ha detto che quando c'era il triunvirato la decisione di uccidere Terranova non passò. No, no, chiedo scusa, che in commissione la decisione di uccidere Terranova inizialmente non passò e poi passò nel '79.

DI CARLO : - Certo.

P.M.- Lei ha avuto conoscenza della deliberazione e come mai alla fine Terranova... cioè, fu dato il via per uccidere il dottore Terranova?

DI CARLO - Ma certo, perchè nel '75 non è passato perchè avevano minoranza e Badalamenti era Badalamenti nel '75 e Bontade era Bontade, come altri. Nel '79 già Badalamenti è fuori di "Cosa Nostra" addirittura, perchè succedono tante cose. Stefano Bontade (è molto) debolito per tutta una situazione di cose. Mandamenti avevano aumentato, avevano aumentato però a favore di Reina. Reina si sentiva una potenza in quel periodo, aveva debolito tutto, specialmente aveva messo fuori a Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade con la coda in mezzo le gambe, scusate l'espressione. Certo, al '79 passa e mi ricordo che era felice e contento e poi l'hanno fatto.

Il collaboratore ha fornito un esempio concreto del principio di rispetto delle regole, in virtù del quale nel 1975 il mancato raggiungimento della maggioranza aveva precluso l’esecuzione dell’omicidio del giudice Terranova , deliberato per contro nel 1979 per i mutati rapporti di forza all’interno dell’organismo di vertice. Alla domanda se il Riina avesse violato le regole di funzionamento della commissione, il Di Carlo ha fornito le seguenti precisazioni:

DI CARLO - Reina regole non ne violava, Reina violava qualche regola quando ... sapeva se era qualcuno di "Cosa Nostra" che avrebbe potuto prendere il fucile per venirci a sparare a noialtri, e allora segretamente quelli più intimi andavamo ad ammazzarlo e poi cercavamo con gli altri per vedere chi era stato, com'è stato per Di Cristina e altri. Ma leggi Reina non ne violava su quelle cose che lui, anzi, si vantava; che solo i corleonesi si toglievano ... le spine dei dita, ammazzando gente che ci avevano fatto male, a gente che arrestavano persone. Perchè per loro questa gente non doveva arrestare, questa gente... il colonnello Russo si doveva fare... non lo so che doveva fare. Come il capitano Basile: appena ha toccato i corleonesi subito ha detto ... a Michele Greco che si doveva togliere questo pensiero, perchè era andato ad arrestare il capitano Basile a Bologna due dei corleonesi, della propria famiglia di Reina. Questi erano. Ma non saltava le regole, si saltavano i regole quando dovevano fare posizione dentro "Cosa Nostra". Di ammazzare qualcuno senza fare sapere niente.

P.M. - Volevo tornare un attimo sull'omicidio del dottor Terranova. Le volevo fare una domanda specifica: lei sa se poco prima dell'omicidio, che lei ha già detto essere avvenuto nel '79, vi fu una nuova riunione della commissione per decidere su quel fatto delittuoso?

DI CARLO : - Sì che lo so, me l'hanno detto. Non... non mi ricordo se ero quella mattina andato a Favarella, però mi ricordo, se n'è parlato con più di uno dei capomandamento. Ma l'avevo... non è stato giorni prima, è stato molto prima.

P.M. - Lei non ricorda con chi ne parlò? Chi le disse che quella volta era passata la decisione di uccidere il dottor Terranova?

DI CARLO - Ma prima ne ho parlato... perchè parlando di quella volta ne è passa... era passata, mi sembra che ne ho parlato addirittura direttamente con Reina, ma anche con Bernardo Brusca; ne ho parlato  sia prima e sia dopo, perchè io quel giorno proprio che è morto Terranova non c'ero a Palermo. L'indomani mi vedo con Bernardo Brusca e ... ci chiedo così, no per chiedere, più o meno chi l'aveva fatto, visto che era nel mandamento di 'u zù Ciccio. E mi ha dato la risposta che mi ha dato.

P.M. : - Sempre in riferimento agli omicidi cosiddetti eccellenti, lei ricorda quando fu ucciso il Procuratore Costa?

DI CARLO - Sì, mi ricordo, è stato il 6 agosto dell'80, mi sembra. P.M. - Lei ha conoscenze su questo omicidio? Mi riferisco naturalmente al problema se anche per quell'omicidio intervenne delibera della commissione o meno.

DI CARLO - Pure essendoci già nella commissione, come dire, una... una situazione, infatti dopo mesi o sei mesi, quando è stato, ha cominciato nell'81 a succedere quello che è successo. Pur essendoci quello che era là nel... nell'80, mi ricordo che era stato l'Inzerillo e Bontade a chiedere questa situazione nella commissione, per quello che mi hanno raccontato. Anche un altro capomandamento, Rosario Riccobono, mi ha raccontato tutto e ... il suo sottocapo, che in quel periodo eravamo quasi sempre assieme, perchè stavamo facendo un traffico; infatti poco fa ho detto che avevo dato quasi 500 miloni, 300 mila dollari.

P.M. - Chi era il sottocapo di Rosario Riccobono?

DI CARLO - Salvatore Micalizzi.

P.M.- E queste persone cosa le hanno raccontato sulla deliberazione dell'omicidio del Giudice Costa?

DI CARLO - Il fatto che là ... l'aveva chiesto Totuccio Inzerillo perchè non so quanti mesi prima ci aveva arrestato quasi mezza famiglia; mezza famiglia di "Cosa Nostra", a parte che ce ne aveva pure di sangue, mi sembra. E responsabile ritenevano il Procuratore Costa, perchè si era sparsa la voce tramite funzionari di Polizia, tramite qualche avvocato che avevano loro, propri avvocati difensori, ci dicevano non c'era niente nel processo e il Procuratore si aveva preso questa responsabilità, mentre i Sostituti non avevano voluto firmare. E allora Inzerillo impuntava i piedi dicendo che era una cosa personale, con Michele Greco ed altri, ma da parte dei corleonesi ha trovato spazio, perchè erano contenti quando cominciavano ad ammazzare persone dello Stato. Loro avevano sempre quella idea, erano stati criticati per richiedere questi discorsi, perciò una volta che lo richiedevano proprio gli avversari erano felicissimi.

P.M. - Quindi, lei dice: "Fu portata in commissione da Inzerillo". Ma le volevo chiedere: per quello che è a sua conoscenza, intervenne la decisione della commissione per l'omicidio Costa?

DI CARLO - Eh, se si porta non è che possono fare... altrimenti non l'avrebbe fatto. Se si porta, una volta che... sa, o se l'avrebbe fatto non avrebbe saputo mai niente nessuno e l'avrebbimo cercato chi poteva essere stato. Tutti quelli di "Cosa Nostra". Ma una volta che si porta e che si avvisa la commissione non è che si ci porta e poi si fa o vuole... o se vuole o non vuole. Addirittura per alcuni omicidi eccellenti il Di Carlo, nel ribadire l'osservanza del principio del rispetto delle regole, ha riferito che non soltanto la Commissione provinciale, ma addirittura quella regionale era stata investita della deliberazione, fornendo l'esempio dell'omicidio del Presidente della Regione, Piersanti Mattarella.

P.M. - Senta, per completare un poco il quadro degli omicidi eccellenti, diciamo, di poco precedenti quello di cui ci stiamo occupando, le volevo chiedere, sinteticamente, chiaramente, se lei sa per l'omicidio Mattarella, il presidente della Regione Mattarella, se intervenne una decisione della commissione provinciale di "Cosa Nostra".

DI CARLO - Ma quella, per quello che mi risulta, io pensavo che era quella provinciale, ma poi, in seguito, per discorsi che sono nati, Carmelo Colletti mi dice che era stato messo al corrente, per situazioni che non so se vuole che glielo spiego, mi ha detto, dice: "Ma come? Perchè Stefano si lamenta?" Che ancora c'era vivo Stefano Bontade. "Veramente - dici - non siamo stati tutti d'accordo? - Dici – Perchè adesso dice che ci stiamo rovinando tutti, fra un pò siamo tutti rovinati?" E da là ho saputo che era pure la commissione regionale che l'avevano informata Carmelo Colletti, Nitto Santapaola, che c'era "cavadduzzu" in quel periodo come... Nitto Santapaola era il rappresentante, ma come capomandamento era suo cugino.

Come sopra ricordato, l’estromissione di Badalamenti determinò la nomina a capo della commissione di Greco Michele, concordemente definito dai collaboratori personaggio debole e poco autorevole, non in grado di ricostituire l’omogeneità dell’organizzazione e ristabilire il rispetto della regola della collegialità delle deliberazioni. Ben presto i corleonesi riuscirono ad assicurasi il controllo egemonico della organizzazione attraverso l’eliminazione di tutti i componenti avversi, sostituendoli con uomini di fiducia. In particolare, l’assenza dall’Italia di Salamone Antonino determinò la cooptazione in seno alla commissione di Brusca Bernardo, molto vicino al gruppo dei corleonesi, il cui maggiore esponente, Riina Salvatore poteva contare anche sugli stretti rapporti di amicizia con Geraci Nenè, capo mandamento di Partinico, e Madonia Francesco, al punto che il figlio di questi, Giuseppe, appena sedicenne fu affilato a Cosa Nostra avendo come padrino proprio il Riina. Occorre adesso esaminare i fatti che precedettero la costituzione di quella compatta ed omogenea commissione provinciale di cosa nostra che si insediò nel gennaio 1983, consentendo la realizzazione di una sostanziale unità di intenti intorno alla figura di Riina. Il collaboratore Cucuzza (cfr. ud. 28/1/1999), ha parlato di una guerra fredda fra fazioni all'interno della commissione: da una parte Riina, Gambino Giuseppe Giacomo, Greco Michele, Greco Pino ed i Madonia e dall'altra Badalamenti, Bontate ed Inzerillo. Ha riferito, inoltre, di scontri dialettici che culminarono nella condanna a morte del Riina da parte della fazione contrapposta, non portata a termine per la soffiata di qualcuno degli uomini di Inzerillo, precisando che il Riina aveva vinto tutte le battaglie in commissione. Appare opportuno riportare integralmente alcuni brani significativi delle sue dichiarazioni:

CUCUZZA - Bè, io posso dire che... intanto com'è iniziata. È iniziata perchè intanto c'era una spaccatura in "Cosa Nostra", non propriamente guerra, comunque una guerra fredda tra due fazioni, che erano quelli di... di Totò Riina da una parte e Gaetano Badalamenti dall'altra con Stefano Bontate, Inzerillo, alcuni dei Greco, Greco di Ciaculli. Poi da questa parte c'era Riina, Giuseppe Giacomo Gambino, Michele Greco, Pino Greco, i Madonia. Insomma, c'erano queste ... due blocchi che si fronteggiavano in commissione. C'erano degli scontri dialettici e all'inizio degli anni '80 questo gruppo, gruppo di Riina primeggiava in commissione, tanto che alcuni mandamenti, si verifica nei primi anni '80, si sono organizzati diversamente, com'erano tanti anni prima. Per esempio, se fu costituito il mandamento di Porta Nuova, che era, diciamo, quello di Palermo centro; fu costituito il mandamento di Resuttana, che prima era accorpato a quello di Rosario Riccobono. Altri mandamenti sono ritornati come erano molto tempo prima, perchè in commissione c'erano argomenti portati da Salvatore Riina che facevano presa, comunque aveva la meglio in commissione... Tanto che poi succede che nel '78, per un errore fatto da Gaetano Badalamenti, qui non sto a dilungare, sulla morte di Di Cristina, succede la morte di Ciccio Madonia, il padre di Pippo Madonia di Caltanissetta, estromettono Gaetano Badalamenti e questo dal '78 in poi cerca di fomentare, di creare qualche situazione contro Totò Riina, e trova alleati Stefano Bontate, Inzerillo, Buscetta, che poi si aggrega a questo gruppo, Nicola Greco, Pino Greco. Insomma, questo è l'inizio. E decide Stefano Bontate di uccidere Totò Riina, avendosi prima coperto le spalle, avendo un gruppo dietro di sè, di uccidere Riina in commissione addirittura e poi spiegarne i motivi. Solo che è successo che ... dall'altra parte qualcuno vicino a Inzerillo, credo, o comunque... oppure a Stefano Bontate, rivela tutto a Totò Riina.Totò Riina, sapendo questo, fa le contromosse e qui succede la guerra, perchè si aspetta il momento buono e si uccide prima a Stefano Bontate. E quindi questa è la guerra, così comincia. Quando è finita, bè, si può dire che il grosso nell'83 già tutti quelli perdenti sono tutti  scappati  e  diciamo  che  non  c'è proprio  una  vera  e propria guerra.  si cominciano  a rassettare alcune cose interne, quindi poi  questo tutta la...in sintesi, diciamo, poi...…………………

P.M. - E infatti. La domanda specifica è questa: nel corso di questa guerra... Lei intanto... è una domanda superflua, però purtroppo gliela devo fare. Lei ha parlato di commissione. Io vorrei sapere se negli anni '80, nei primi anni '80, questa commissione provinciale di "Cosa Nostra" funzionava regolarmente.

CUCUZZA - Prima della guerra di mafia?

P.M. - Prima della guerra di mafia.

CUCUZZA - Certo, perchè tutte le battaglie che ha vinto Totò Riina le ha vinte in commissione prima. Era questa prima la disputa. Là si faceva.

P.M. - Durante la guerra di mafia cos'è successo?

CUCUZZA- Bè, durante la guerra di mafia diciamo che .. la parte in guerra decise, la parte più... diciamo, più stretta, quelli che più comandavano, quelli che avevano in mano la situazione della guerra hanno deciso di sopprimere tutti quelli che erano, secondo loro, contrari. Quindi, poi c'è stata una nuova maggioranza, diciamo, altre... dopo la guerra si costituì il mandamento, quello di... di Totò Riina, quello dei vincenti.

Anche Brusca Giovanni ha riferito della contrapposizione di due distinte fazioni, del progetto omicidiario di Bontate nei confronti del Riina, fallito per il tradimento di Montalto Salvatore e Buscemi Salvatore, di dissapori collegati ad affari illeciti, al traffico di stupefacenti ed a questioni di interesse politico, precisando che una delle accuse che il Riina muoveva agli avversari era proprio il mancato rispetto delle regole, che viceversa egli continuava a rispettare.

Ha inoltre dichiarato che, conclusasi con la vittoria del Riina la sanguinosa contrapposizione, tra la fine del 1982 e l’inizio del 1983 erano state ridisegnate le famiglie ed i mandamenti, premiando per la loro fedeltà ed il contributo rilevante al successo della linea del vincitore, il Gambino, Ganci Raffaele, Madonia Francesco, Buscemi Salvatore e Montalto Salvatore, che avevano assunto la carica di capomandamento, rispettivamente, di San Lorenzo, della Noce, di Resuttana, di Boccadifalco e Villabate, nonché Calò Giuseppe, Motisi Matteo e Rotolo Antonino. Il Brusca ha rivendicato un preciso ruolo operativo nel corso di quella campagna di sterminio degli avversari, unitamente a Madonia Antonino, Ganci Raffaele ed i figli, Buscemi Salvatore e Montalto Salvatore. Sul punto il collaboratore ha dichiarato quanto segue (ud. 1/3/1999):

BRUSCA - Cioè, questi contrasti all'interno. E perchè Salvatore Riina, per esempio, contrastava il Badalamenti, il Bontade, Inzerillo, che allora avevano dato un appoggio al cosiddetto caso Sindona... tutta una serie di fatti  che  Salvatore  Riina  non  condivideva  e  sapeva  e  loro andavano avanti senza portare avanti... cioè, senza fare sapere a tutta l'organizzazione "Cosa Nostra" cosa loro stavano facendo. Quindi, c'erano queste... tutti questi giochi sotto banco, che a un dato punto scoppiò con la guerra di mafia.

P.M. - Questo mancato rispetto, secondo quello che dice lei, in queste occasioni, della regola della deliberazione della commissione, ha avuto una qualche influenza sul nascere della guerra di mafia?

BRUSCA- Ma era uno... uno dei motivi per cui si scoppiò la guerra di mafia, perchè Salvatore Riina accusava proprio il clan avversario, che non rispettavano le regole di "Cosa Nostra" e facevano tutto di testa loro, secondo quello che diceva Salvatore Riina. E con quello che ho detto, per quello che sapevo, perchè io sapevo questa parte, non conoscevo l'altra... l'altra parte, cioè quindi fu opera di scontro perchè non c'erano più le regole, cioè non si rispettavano più le regole. E, ripeto, come ho detto in altre occasioni, uno dei motivi per cui si andò alla guerra di mafia è perchè non si rispettavano più le regole.

P.M. - E cioè, cosa vuole dire? Chi è che... c'era una fazione che voleva il ripristino di queste regole in partico...?

BRUSCA - Ma uno... uno di quelli che propria rispettava e pretendeva il rispetto delle regole era Salvatore Riina.

P.M. - Questa guerra di mafia quando ebbe termine?

BRUSCA - La guerra di mafia, per quelle che sono le mie conoscenze, non ha avuto mai termine, perchè ancora ci sono degli elementi che vanno ricercati, chi ne ha la possibilità di poterli ricercare e trovarli, se si trovano. Uno è stato arrestato, che è Giovannello Greco, però all'interno di "Cosa Nostra" poi, quelli rimanenti in Sicila, bene o male, una sistemazione... cioè, ... una sistemazione interna la... si è data con .. i ricomponimenti delle famiglie, cioè .. un equilbrio già è stato dato, anche con l'occhio a questi scappati o altre persone che potevano ritornare a commettere reato o a vendicarsi, secondo ... le sue conoscenze o i suoi fatti che a loro... gli venivano accusati.

P.M. - Quando lei parla di ricomposizione delle famiglie, parla di ricomposizione ... delle famiglie dopo che cosa?

BRUSCA -... dei capimandamento. Cioè dopo che tanti capimandamento erano stati uccisi, alcuni mandamenti sciolti... cioè, i mandamenti sciolti, c'è reggenza... che era un pò... si era un pò scombussolata la provincia palermitana e ... altre province, quella che si ricompose .. fu la provincia palermitana e poi tanti altri.. capiprovincia si sono riassettati e a Palermo sono stati fatti .. nuovi capimandamenti, nuovi mandamenti e avvenne fine '82 - inizio '93.

P.M. - Inizio '83. BRUSCA - '83, sì.

P.M. - Senta, intanto nella guerra di mafia vera e propria, .. in tutta quella serie di omicidi che, è un fatto notorio, ci furono tra l'81 e l'82, quali sono stati i soggetti e le famiglie che si sono alleate con la fazione corleonese e che materialmente davano un apporto maggiore all'eliminazione dei nemici?

BRUSCA- Ma quelli vicini a Salvatore Riina, a cominciare di quelli di San Giuseppe Jato, Giuseppe Giacomo Gambino, che poi divenne capomandamento... San Lorenzo; Raffaele Ganci, la Noce, che prima non era capomandamento, lo divenne dopo; i Madonia di Resuttana, all'interno della famiglia di Passo di Rigano o Boccadifalco, come si vuol chiamare, che all'inizio c'era Salvatore .. Inzerillo, quando questo venne eliminato, venne eliminato subito, la reggenza venne data a Buscemi, a Salvatore Buscemi e a Montalto se non ricordo male, anche se poi a Montalto gli fu dato il mandamento ex Bagheria, cioè Villabate, perchè prima il mandamento era Bagheria, poi fu da Bagheria spostato a Villabate e gli fu il dato il mandamento. Cioè, quindi tutte queste persone erano con Salvatore Riina e davano la vita per Salvatore Riina. Cioè... Giuseppe Calò, che era uno di quelli assieme a Salvatore Riina, che inizialmente doveva morire e poi tutta  una serie di persone ... che man mano si scoprivano e venivano eliminati. Comunque, in quel momento, che io mi ricordi, erano questi: Matteo Motisi, con Matteo Motisi e con... come si... chiamato "baffalo", Giuseppe Ro... Antonino Rotolo.

P.M. - Come si era appresa, da parte vostra, diciamo, da parte della fazione corleonese, la notizia che l'altra fazione voleva eliminare, stava preparando l'uccisione di Salvatore Riina e Pippo Calò?

BRUSCA- E si apprese, le prime notizie li ha fatte avere a Salvatore Riina il Giuseppe Montalto... Salvatore Montalto, credo assieme al Buscemi, ma non preciso che volevano uccidere lui, dici: "Ma vedi che c'è in atto qualche cosa di grosso e di pesante" e siccome Salvatore Riina aveva ricevuto degli appuntamenti, a questi appuntamenti .. non c'è voluto andare e si capì che il progetto era .. nei suoi confronti, di Giuseppe Giacomo Gambino e Giuseppe Calò. Perchè dico questo? Perchè Salvatore Riina aveva fatto un traffico di droga assieme all'Inzerillo e l'aveva invitato con Giuseppe Giacomo Gambino a andarsi a ritirare i soldi. Siccome Salvatore Riina era venuto a conoscenza di questo progetto omicidiario nei suoi confronti o perlomeno c'era un progetto grosso in atto, lui non c'è voluto andare. Dopo... poi si è scoperto che addirittura quello è stato un secondo tentativo, perchè un primo tentativo lo avevano fatto all'uscita della Favarella, di Michele Greco, solo che in quell'occasione, Salvatore Riina di questo fatto se ne vanta sempre, che invece di prendere la solita strada in quell'occasione cambiò strada e non fu eliminato per questo motivo. Ma già i primi tentativi sono stati fatti, cioè è stato fatto in quell'occasione. Il secondo quando gli avevano dato l'appuntamento. Ma da lì a poco noi abbiamo ucciso Stefano Bontade e da lì poi tutto il resto, a cominciare da Inzerillo e c'è stata poi una mattanza non indifferente.

P.M. - Quindi, in occasione dell'invito che Inzerillo aveva fatto a Riina di andarlo a trovare per spartire il provento del traffico di stupefacenti, chi è che fece sapere a Riina che era meglio non andare?

BRUSCA - Il Montalto, Salvatore Montalto. Cioè, mancava solo il nome, si capiva che era per... per lui, perchè già all'interno di "Cosa Nostra" si vedeva che c'era tensione a duemila all'ora. Cioè, di duemila watt, no duemila all'ora, cioè, c'era quest'alta tensione.

P.M. - La mano esecutiva in questa guerra di mafia, senza fare riferimento chiaramente ai singoli omicidi, ma in genere c'erano dei soggetti, dei killer che più degli altri andavano sparando contro la fazione nemica?

BRUSCA - Ma allora c'era Giuseppe Greco "scarpa", c'era Antonino Madonia, c'ero io, per quello che potevo ero sempre nel mezzo, Raffaele Ganci con i suoi figli, Buscemi, c'era Montalto, c'erano .. un pò tutti, eravamo tutti a disposizione; poi c'era il Marchese, ci siamo messi tutti,... chi per un verso e chi per un altro verso, un pò tutti a dare la guerra … contro a questo gruppo.”

La Cosa Nostra che diventa la Cosa sua. La Repubblica il 3 agosto 2020. Il progetto omicidiario della fazione facente capo al Bontate per sovvertire gli equilibri di potere fino ad allora stabilizzati è stato confermato dal collaboratore Anzelmo Francesco Paolo, il quale ha riferito della decisione del Riina di vendicarsi con l'eliminazione di tutti coloro che avevano contribuito a sostenere quella strategia. In questo contesto e per queste ragioni erano stati uccisi il Bontate, l'Inzerillo e tutti i loro alleati, fino all'epilogo del 30 novembre 1982, allorchè erano stati eliminati Riccobono Rosario, Scaglione Salvatore, Micalizzi ed altri. Dopo quella data, in una villa a Baida, alla presenza di tutti i capimandamento della commissione provinciale, erano stati assegnati i mandamenti della Noce, di San Lorenzo e di Boccadifalco rispettivamente a Ganci Raffaele, a Gambino Giuseppe Giacomo e a Buscemi Salvatore. L’Anzelmo ha riferito quanto segue(ud.8/3/1999):

P.M.- Senta, io vorrei spiegato un pò che cosa succede durante la guerra di mafia, ... siccome a noi interessa poi l'83, cioè, la strage Chinnici, io vorrei che lei mi spiegasse come avvenne la guerra di mafia, quali furono le motivazioni che determinarono questa guerra e quando si può dire che ci... si può stabilire una data X di fine di questa guerra di mafia.

ANZELMO - Ma la fine ce l'ho detto poco fa, il 30 novembre del 1982, l'inizio comincia con l'omicidio di Stefano Bontade, ma non è con l'omicidio di Stefano Bontade, veramente l'inizio inizia con la scomparsa di Piddu Panno.

P.M. - Eh, quali sono i motivi che determinano l'uccisione di Stefano Bontade e la scomparsa di Piddu Panno?

ANZELMO - I motivi che determinano la scomparsa di... di Stefano Bon... eh, la scomparsa ... di Piddu Panno a noi ci viene detto ca... non aveva acconsentito al piano ... che doveva fare Stefano Bontà [= Bontate] che doveva uccidere a Totò Riina, e quindi noi, diciamo, ci mettiamo in cerca ... di Stefano Bontade, infatti poi è stato ucciso; quindi, i motivi, diciamo, per quello che ci viene detto a noi sono questi, diciamo, che Stefano Bontade, Totuccio Inzerillo stavano... avevano preso questa decisione ... di eliminare, diciamo, a Totò Riina.

P.M. - Sì, e quindi, questo fu la... furono le motivazioni che determinarono la guerra di mafia?

ANZELMO - E queste sono .. le motivazioni ... che determinarono l'uccisione di Stefano Bontade, di Totuccio Inzerillo, .. di Nino Badalamenti, e di tutti gli altri che sono caduti, fino al 30 novembre '82, quando si conclude con l'epilogo di Saro Riccobono, Totò Scaglione e altri, Micalizzi e altri.

P.M. - Lei ha partecipato materialmente all'uccisione di persone che erano schierate contro di voi?

ANZELMO - Sì, sì. Sì.

P.M. - Parliamo, quindi, del 30 novembre '82; che succede? La commissione, ecco, durante questo periodo continuava a funzionare e, in particolare, i mandamenti continuavano ad esistere?

ANZELMO - Certo che i mandamenti continuavano ad esistere, da quando il mandamento di Santa Maria di Gesù, che era stato sciolto ed era stato aggregato a Partinico da Nenè Geraci, e quello di Boccadifalco che, con l'uccisione .. di (Totuccio) Inzerillo era sciolto pure, i mandamenti tutti funzionavano, .. e quello di San Giovanni Gemini cù Gigino Pizzuto che fu ammazzato pure Gigino Pizzuto, tutti funzionavano i mandamenti.

ANZELMO -... ad eccezione di quello di Santa Maria di Gesù con Stefano Bontà che era stato ucciso ed era stato aggregato a Partinico; quello di... di Totuccio Inzerillo che era stato ucciso ... e quello di Gigino Pizzuto di San Giovanni Gemini, poi i capimandamenti tutti…al loro posto sono rimasti fino al 30 novembre '82 che poi è stato ucciso pure il capomandamento di Partanna Mondello, Saro Riccobono.

P.M. - Ecco, dopo il 30 novembre del 1982 cosa successe? Cioè, oltre... lei ha detto che nel gennaio '83 si formò il mandamento della Noce; ci vuole spiegare in che circostanza si riformò il mandamento della Noce e se ci furono anche delle altre decisioni adottate nell'ambito, sempre di... riguardanti sempre i mandamenti?

ANZELMO - Sì, come le dicevo io, poi noi ... a dicembre fecimo la famiglia, si fecero le cariche della famiglia e poi a gennaio '83 a noi ci fu conferito il mandamento unitamente al mandamento di Boccadifalco nella persona di Totò Buscemi e al mandamento non più di Partanna Mondello ma di San Lorenzo a Pippo Gambino. E quindi, ne... sono stati creati, diciamo, i mandamenti, diciamo, quello di Santa Maria di Gesù non fu creato, fu lasciato aggregato a Partinico; i mandamenti furono ricreati, quello di Partanna Mondello che prese il nome di San Lorenzo; la Noce che fu creato, diciamo, ex novo, perchè non c'era e quello di Boccadifalco è rinato di nuovo mandamento .. nella persona di.... ed è stato affidato alla persona di Totò Buscemi.

P.M. - Senta, chi fu nominato capomandamento di San Lorenzo? ANZELMO - Pippo Gambino.

P.M. - Lei ha detto... quindi, si formarono questi tre mandamenti, San Lorenzo, la Noce e Boccadifalco, dove ci... se ci fu, ci dica se ci fu una cerimonia, una riunione...

ANZELMO - Sì.

P.M. dove si svolse e alla presenza di chi?

ANZELMO - Ci fu una riunione qua, in una villa (a) Baida, che non sono in grado, diciamo, di spiegare ma sono in grado .. di andarci perchè la so dov'è, alla presenza di tutti i capimandamenti della commissione provinciale di Palermo e furono conferiti questi tre mandamenti. Ora, a noi il mandamento doveva rinascere per com’era prima, quindi Noce, Malaspina e Uditore, senonchè, diciamo, che Totò Buscemi, Boccadifalco, chiese il favore di l'Uditore tenerselo lui, e a noi cederci un'altra famiglia e a noi ... ci ha ceduto la famiglia di Altarello di Baida, e quindi il mandamento della Noce era composto dalla famiglia della Noce, dalla famiglia di Malaspina, non aveva più l'Uditore ma aveva acquisito la famiglia di Altarello di Baida.

P.M. - Mentre Uditore rimase a Boccadifalco. ANZELMO - Mentre Uditore rimase a Boccadifalco.

All’udienza del 10/3/1999 l’Anzelmo ha fornito ulteriori chiarimenti :

PRESIDENTE: - Ho capito. Io, chiaramente, seguo un pò l'ordine dei miei appunti, quindi magari non ci sarà un ordine organico ma ripercorre, riproduce un pò l'ordine dell'esame del P.M. e anche del controesame dei difensori. Lei ha accennato alla morte di tale Panno.

ANZELMO- Sì.

PRESIDENTE: - Perchè si sarebbe rifiutato di uccidere Riina. Ma chi l'ha ucciso Panno?

ANZELMO - Per quello che ci hanno comunicato a noi...

PRESIDENTE: - No, non mi... mi interessa sapere quale schieramento.

ANZELMO - Eh, stavo... per quello che ci è stato comunicato a noi, Panno, in un primo momento a noi ci venne detto che... perchè dopo la scomparsa di Panno ci fu una riunione di tutta la commissione a Favarella, c'era presente Stefano Bontade, c'erano presenti tutti i capimandamento; al che là si stabilì diciamo che il Panno era stato vittima di un ergastolano di Altavilla Milizia (Milicia), un certo Parisi. E infatti furono presi dei provvedimenti che anche io ho partecipato a un omicidio ad Altavilla Milicia ai danni di un macellaio, perchè era vicino a questo ergastolano. Ma il discorso diciamo non fu così. Perchè Totò Riina diede questa parvenza a Stefano Bontade di credere a quello che dicevano e quindi mise mano, dice: "Me la sbrigo io, metto mano io per questi", però non ci ha creduto, cioè fu solamente uno... uno sviamento, perchè a noi ci venne detto che il Panno l'aveva ucciso Stefano Bontade. Non so se sono stato chi...

PRESIDENTE: - Cioè, vorrei capire: se questo Panno si era rifiutato di uccidere Riina è perchè evidentemente aveva ricevuto un mandato dal gruppo Bontate - Badalamenti, per intenderci, che era contrapposto, chiamiamoli così, ai corleonesi...

ANZELMO - Cioè...

PRESIDENTE: - ...la morte di Panno è stata una punizione per questo rifiuto, quindi devo presumere che la determinazione di ucciderlo è venuta dal gruppo Bontate o è stata una vendetta di Riina per il proposito...?

ANZELMO - No, no, per quei... io Le sto dicendo questo, cioè in questa riunione di commissione, che io non ho partecipato, ma che però diciamo poi fui messo a conoscenza di questa storia, infatti diciamo noi abbiamo preso questa strada per dimostrarci che quello che aveva portato Stefano Bontà [= Bontate], cioè che lui diceva che la mano di uccidere a Panno veniva da questo ergastolano......Totò Riina diciamo mise mano con tutti... con quelli che erano vicini a questo ergastolo, ma fu solamente uno stratagemma per far sì che si... che credessero che Riina ci aveva creduto che... che era questo. invece, Riina ce lo imputava a Stefano Bontade questo discorso. E infatti diciamo poi di qui nel... perchè Panno scompare a marzo '81, aprile '81 morì Stefano.

Sostanzialmente conformi alle dichiarazioni dell’Anzelmo sono quelle rese dal Ganci Calogero sulle cause della c.d. guerra di mafia, il quale ha riferito di un progetto omicidiario del Bontate nei confronti del Riina per ragioni economiche ed in particolare per ragioni connesse ad un grosso traffico di stupefacenti. Il Ganci ha fornito una precisa descrizione dei mandamenti in cui si articolava il territorio della provincia di Palermo, indicando quelli fedeli al Riina e quelli avversi, all’interno dei quali tuttavia quest’ultimo poteva contare su fedeli alleati che lo informavano di qualunque decisione fosse stata presa contro di lui. All’udienza del 15/3/1999 Ganci Calogero ha dichiarato:

P.M. - Senta, lei è stato combinato nell'80, quindi lei ha - ce l'ha anche detto - partecipato alla guerra di mafia. Allora io vorrei capire, se può spiegarlo, anche se sinteticamente, quali sono le ragioni che hanno portato alla guerra di mafia.

GANCI - Ma, guardi, le ragioni, le ragioni di quelle che io ho appreso ed ho saputo sono state che il... il Riina si sentiva minacciato, minacciato nel senso che lo volessero uccidere lo Stefano Bontade e... con l'Inzerillo, il Riccobono e cose varie, e Badalamenti e... e lo stesso Stefano Bontade nei... nei riguardi del Riina. Mi ricordo che quando fu ucciso Giuseppe Panno e siamo attorno il febbraio - marzo dell'81, già diciamo il Riina non cominciò ad andare  più a Favarella; lo stesso Stefano Bontade lì non veniva. Cioè, tutti questi movimenti che... per Riina erano strani e .. e da lì si cominciò a capire che diciamo... c'era qualcosa che bolleva in pentola. Ma le ragioni vero e proprio .. che io ho appreso, anche il fatto del... che il Bontade e l'Inzerillo avevano in mano la gestione del traffico di stupefacenti ... diciamo che mandavano l'eroina all'estero. E che diciamo facevano partecipare a tutti gli altri capimandamento con la... la partecipazione in... finanziaria. Cioè, per dire, ci dicevano al mandamento di Corleone: "Tu mi devi, mi devi dare - per dire - 100 miloni, ... equivale a 5 chili di eroina". Questa eroina veniva mandata poi in America e quei 5 chili di eroina che in Italia erano 100 miloni poi venivano, ... arrivavano qui, per dire, 500 miloni, perchè in America la vendita di eroina era quasi il triplo. E... tutto questo ... che ho appreso e sapevo. Mentre il Riina voleva partecipare, diciamo... voleva conoscere magari i canali quali erano. Tutte queste cose. E... c'erano delle gelosie, ecco, su questo, su questo fatto. Poi magari il Riina diceva che lui non trafficava in eroina, mentre quando ci fu l'uccisione di... quando ci fu che andarono... arrestarono al Bagarella e trovarono un bigliettino con una bolletta ... con l'indirizzo di una casa, lì ... in quell'appartamento si trovò 5 chili di eroina. Quindi... il Riina diciamo era in difetto che lui diceva che ... non trafficava in eroina, cioè c'erano tut... diciamo queste cose che erano... erano nate: gelosie, e... mi spiego, dottoressa?

P.M. - Sì.

GANCI - Diciamo che la guerra di mafia più che altro è partita dal traffico ... di stupefacenti e... mi ricordo pure, addirittura, che Riina una volta in una riunione, quando fu ucciso il Salvatore Inzerillo, lui disse, dice: "Lui s'immaginava che io non l'ammazzavo perchè avanzavo 600 milioni", che venivano dal (traffico) di stupefacenti; e... cioè io queste cose le ho apprese... , stando sempre vicino a Riina, a mio padre, cioè... mi spiego?

P.M. - Senta, .. questi dissapori, queste discordie che nascevano, lei dice, che avevano avuto origine dal traffico di stupefacenti, cosa comportarono materialmente? Cioè, si crearono delle fazioni? Ci vuole indicare come si divise "Cosa Nostra"?

GANCI - Come ripeto, diciamo, la... diciamo... certe famiglie, come per dire la famiglia della Guadagna, famiglia di... Passo di Rigano, e... famiglia di... Villanate, la famiglia ... di Riccobono; poi c'è... c'è un altro fatto, per dire, che Badalamenti a quell'epoca, nell'80 e... io ho appreso che ... era stato buttato fuori famiglia, però si sapeva che il Bontade e l'Inzerillo avevano contatti, che di regola in "Cosa Nostra", quando una persona è messa fuori famiglia, ... non si ci deve dare più confidenza; ora, e... quindi, tutte queste cose e ... si... nasceva attrito, nascevano discussioni, e.       mentre diciamo, come ripeto, il gruppo che si è creato è stato quello di Bontade, Inzerillo, Badalamenti e... Riccobono e.   e poi altre famiglie che (componevano) i mandamenti; mentre nel nostro gruppo  eravamo... Corleone  e  la  Noce, e... San  Lorenzo, Resuttana e...C'è, c'è da dire un'altra cosa: che noi all'interno dei mandamenti avversari avevamo delle persone che erano... .. fedeli a Riina, come per dire Rotolo .. Andrea Rotolo che faceva parte della famiglia di Pagliarelli, quindi nel mandamento .. della Guadagna e.   rapportava tutto quello che accadeva in quel mandamento a Riina; lo stesso nel mandamento di... Boccadifalco, lì avevamo... Salvatore Buscemi e Angelo La Barbera che ci davano notizie ... sull'Inzerillo e...

P.M. - Senta, allora io vorrei mettere un pò d'ordine e cominciare intanto ad indicare, lei così li riepiloga tutti in un unico contesto, quali mandamenti e quindi quali capimandamento erano vicini a Riina e appoggiavano Riina; poi parliamo dei personaggi che, invece, all'interno di altri mandamenti che erano avversari di Riina erano in realtà uomini di fiducia di Riina. Quindi parliamo prima dei mandamenti che appoggiavano Riina in questa, diciamo... in queste discordie che s'erano create all'interno di "Cosa Nostra".

GANCI - Allora, io più... più che mandamenti, diciamo, e... mandamento ce n'è qualcuno che appoggiava...... appoggiavano Riina, quindi ne... c'era Resuttana che appoggiava a Riina... ... San Giuseppe Jato che appoggiava, appoggiava Riina, Partinico che appoggiava Riina e... questi erano, dottoressa...

P.M. - Quando lei parla di Resuttana...a chi si riferisce...in particolare? Chi era il capomandamento?

GANCI - Allora, nel mandamento di Resuttana era Francesco Madonia allora... che appoggiava Riina; nel mandamento di... Partinico era Nenè Geraci il vecchio, nel mandamento di San Giuseppe Jato c'era... era Antonio Salamone però lui non c'era e... lui era il capomandamento però diciamo quello che gestiva il mandamento era Bernardo Brusca; poi c'era il mandamento di Ciaculli: Michele Greco, che appoggiava Riina; nel mandamento di Porta Nuova era Pippo Calò che appoggiava Riina e... e questo. Mentre in varie famiglie, per dire, perchè per noi Scaglione Salvatore negli ultimi tempi si cominciò a schierare... con noi, perchè ha visto, per dire, ... dopo l'uccisione di Bontade lui si cominciò a schierare con noi ma diciamo... il Riina non... non ci perdonava che lui era stato un (fedele) di Badalamenti e... quindi noi eravamo, per dire... persone, diciamo, che ... facevamo capire allo Scaglione che... il Riina con lui non ce l'aveva; mi spiego? Lo stesso era il Gambino Giuseppe, perchè Gambino Giuseppe all'epoca era ... un uomo d'onore...

P.M. - ... aspetti un attimo signor Ganci, mi scusi se la interrompo. Quindi all'interno della famiglia della Noce, Scaglione Salvatore soltanto negli ultimi tempi si avvicinò a Riina? E tutti gli altri componenti della famiglia della Noce, quindi i vari Ganci, Anzelmo, Spina, appoggiavano Riina?

GANCI - Esatto.

P.M.- Esatto. Andiamo poi, lei ha parlato di Gambino, e Gambino a quale mandamento apparteneva e qual era il comportamento di Gambino?

GANCI - Allora, Gambino apparteneva al mandamento di Partanna Mondello e... che a capo ... c'era Rosario Riccobono; e... però era lui che... diciamo era... appoggiava... appoggiava il... il Riina e... e basta. Poi  lui ... cominciò a combinare alcuni ragazzi come il Biondino Salvatore, il Biondo Salvatore, il Biondo Salvatore il lungo, il Giovanni Ferrante, questi ragazzi sono nati, diciamo... vicino a Gambino... quindi appoggiavano il Riina; mi spiego?

P.M.: - Vuole dire il nome di Gambino? Perchè non l'ha ancora detto. GANCI - Allora, Gambino Giacomo Giuseppe.

P.M.: - Sì. Passiamo anche al mandamento di Passo di Rigano, che lei ha detto, allora era... il cui capomandamento allora era Inzerillo; lei poco fa stava facendo dei cenni, però poi abbiamo proceduto con ordine, ci vuole dire se all'interno di questo mandamento c'erano personaggi che appoggiavano Riina?

GANCI: - Sì, e... le persone che appoggiavano Riina era... Montalto Salvatore, e... La Barbera Michelangelo... e Buscemi Salvatore.

P.M.: - Mi dica una cosa: Montalto Salvatore a quale mandamento, a quale famiglia apparteneva?

GANCI: - Prima apparteneva al mandamento di... alla famiglia di... di Boccadifalco...

P.M.: - Sì.

GANCI: - ...quindi mandamento di Passo di Rigano e... poi, dopo la guerra di mafia, ci è stato concesso... siccome lui è nativo di Villabate, ci è stato concesso... è messo a capomandamento di Villabate.

P.M.: - Sì. Adesso, poi... lo affronteremo anche questo. Quindi abbiamo... lei ci ha dato l'indicazione, credo, di tutti i mandamenti, no... volevo chiederle: esisteva nel corso della guerra di mafia il mandamento di San Mauro Castelverde?

GANCI: - Sì, San Mauro Castelverde e di Caccamo, che... di Caccamo c'era Ciccio Intile, o meglio, Francesco Intile, mentre a San Mauro Castelverde c'era... Peppino Farinella.

P.M.: - Questi signori, il Farinella e l'Intile, come si schierarono nella guerra di mafia?

GANCI: - Queste erano pure persone vicine a Riina.

P.M.: - Vorrei ora capire... ecco, lei poi ha parlato di personaggi, diciamo, infiltrati nel mandamento di Stefano Bontade; intanto di quale mandamento parliamo e chi erano queste persone che sostanzialmente appoggiavano Riina di nascosto?

GANCI: - Allora, il mandamento di Stefano Bontade era... era il mandamento della Guadagna che faceva parte della famiglia di Pagliarelli cui... un uomo d'onore chiamato Antonino Rotolo era infiltrato ... di Riina.

Anche Cancemi ha riferito che la guerra di mafia aveva avuto origine per contrasti tra Bontate, Inzerillo, Badalamenti, Riccobono ed il Riina, il quale aveva deciso la loro eliminazione dopo essere sfuggito alla morte decretata da quegli avversari grazie alle informazioni preziose di Salvatore Montalto. Il collaborarore ha fornito una precisa elencazione dei capimandamento che si erano schierati con il Riina e sul punto ha dichiarato quanto segue (ud.3/5/1999):

P.M.: - Vuole spiegare alla Corte, ecco, il significato della guerra di mafia, la storia di quella che viene definita guerra di mafia?

CANCEMI: - Ma guardi, diciamo, usiamo la parola guerra di mafia; è stato, diciamo... il significato è stato perchè ci sono stati dei contrasti che si sono opposti, per dire, come Stefano Bontade, come Inzerillo, si sono opposti a TotòRiina, a Bernardo Provenzano, a Michele Greco e ad altri, diciamo; si sono opposti delle decisioni che pigliavano e quindi l'hanno eliminato. Quindi, ci sono stati questi contrasti fra loro e quindi è successa questa guerra.

P.M.: - Adesso, signor Cancemi, anche se lei è stanco, lei mi deve spiegare quello che poco fa ha semplicemente detto per cenni, e cioè cosa succede nell'82. Voglio capire bene perchè avviene la cosiddetta guerra di mafia e che cosa muta negli organigrammi di "Cosa Nostra" a seguito della guerra di mafia. Cerchi di essere più preciso possibile.

CANCEMI: - Ma guardi, io... guardi, la guerra di mafia, cominciamo così, diciamo, è stata per quelle cose che ho detto, che questi si sono opposti, questi intendo Stefano Bontade, Inzerillo, Riccobono, Badalamenti, diciamo anche poi io ho sentito che avevano fatto qualche... qualche omicidio, avevano ordinato qualche omicidio e il Riina non l'ha digerito, quindi, diciamo, si sono creati questi contrasti, diciamo, per arrivare alla guerra, chiamiamola così, questa guerra.

P.M.: - Mi scusi, signor Cancemi, che omicidi erano stati commessi che Riina, come lei ha dichiarato, non aveva digerito?

CANCEMI: - Io, quello che ricordo, di... uno dei Madonia, di Caltanissetta, e qualche altra cosa che c'era stata, e Riina non... non c'è andata bene questa cosa, quindi sono creati queste... queste situazione, che lui si vantava, Riina, che lo volevano prendere in giro, accollando la colpa ad altri, diceva un certo "furmiculuni", che era stato... ci dicevano che era stato un certo "furmiculuni" e lui non ci ha creduto, diciamo, e sono nati i primi contrasti, diciamo, fra loro.

P.M.: - Senta, io vorrei che lei ricordasse anche il nome di quell'altro di Catania che era stato ucciso.

CANCEMI: - Sì, c'è stato un altro, però in questo momento non mi ricordo. Può darsi che più avanti mi viene e lo dirò l'altro.……

CANCEMI: - Comunque questa è stata la scintilla, diciamo, dove io ho saputo che Riina si vantava; queste cose li raccontava quasi sempre, diciamo, che c'era stato queste... questi omicidi che lui non l'aveva digerito, perchè loro dicevano, loro sempre Badalamenti, Stefano Bontade ed altri, che erano stati commessi di 'stu certo "furmiculuni" e quindi lui non c'ha creduto e quindi poi sono arrivati dove sono arrivati, che sappiamo tutti.

P.M.: - Per sollecitare i suoi ricordi, io le do lettura di un verbale del 24 marzo del 1994. Allora: tutte le notizie...

CANCEMI: - Sì.

P.M.: - E si parla dell'omicidio di Di Cristina; lei dice da chi apprende queste notizie e dice: "Nonchè dallo stesso Riina, il quale non perdeva occasione per riprendere tali discorsi nel corso delle riunioni a cui ho partecipato. Egli iniziava dagli omicidi di Madonia Francesco, detto Ciccino, capo della provincia di Caltanissetta, e di Calderone Giuseppe, detto ''cannarozzo", capo della provincia di Catania". Ricorda adesso di avere fatto i nomi di queste due persone?

CANCEMI: - Eh, sì, sì.

P.M.: - A seguito di questi due omicidi...

CANCEMI: - Esattamente.

P.M.: - Sì. A seguito di questi due omicidi Riina cosa ottenne dalla commissione? Cosa riuscì ad ottenere?

CANCEMI: - Mah, io mi ricordo che lui ci dicevano che non erano stati loro, diciamo, e ci attribuiva questi omicidi a questo "furmiculuni", ci dicevano; non so se è scritto anche nei verbali, perchè mi sembra che l'ho detto questo "furmiculuni".

P.M.: - Sì. Io vorrei che lei però chiarisse loro chi sono, signor CANCEMI. Attribuiva la responsabil... cioè, loro non ammettevano la responsabiltà. Quando parla di "loro" a chi si riferisce?

CANCEMI: - Sì, esattamente, esattamente. Io mi riferisco a Stefano Bontade, allora c'era ancora Badalamenti, Riccobono, Michele Greco, che lui diceva: "Loro possono prendere in giro 'u zù Michele - dice - ma a me no, a cu 'a cuntanu 'stu discorso che era stato 'stu ''furmiculunì'". Loro intendo la cordata avverso dei corleonesi.

P.M.: - Ecco, vede, signor Cancemi, che ci stiamo arrivando piano piano, perchè se lei non lo capisce... non lo spiega bene, la Corte non è in condizioni di percepire tutto il suo discorso. Lei parla di cordata, cioè era la fazione opposta alla cordata dei corleonesi. Ci vuole indicare nuovamente i nomi? Lei ha parlato di Badalamenti, Riccobono, Salamone, Greco e però io credo che ci...

CANCEMI: - Stefano Bontade.

P.M. - Stefano Bontade e ci sia anche qualche altra persona.

CANCEMI - Inzerillo, Inzerillo Salvatore e qualche altro sicuramente.

P.M. - Di questi soggetti qualcuno ebbe... cioè, nei confronti di questi soggetti fu adottata qualche decisione? Nei confronti di qualcuno di questi soggetti.

CANCEMI - Sì, poi c'è stata la decisione che hanno messo fuori famiglia Badalamenti.

P.M.: - Successivamente, dopo... CANCEMI: - E poi Riina e...

P.M.: - Dopo che è stato messo fuori famiglia Badalamenti...

CANCEMI: - Fino a poi...

P.M.: - ... che cosa è successo?

CANCEMI: - Ma poi è successo che, diciamo, come, diciamo, al capo della commissione ci hanno messo a Michele Greco; quello che so io.

P.M.- Perchè, Badalamenti era il capo della commissione provinciale? CANCEMI: - Sì, prima di... prima di Michele Greco sì, era lui.

P.M. - Lei ha detto che il Riina riteneva che potessero prendere in giro Michele Greco, ma non certamente lui. Che cosa è succe...

CANCEMI - Diceva lui.

P.M : - Sì. Cosa successe subito dopo?

CANCEMI: - Mah, subito dopo successe che poi, diciamo, questa cosa... ci hanno messo, appunto, Michele Greco a capo della commissione e questa cosa è durata qualche annetto a tirare avanti, due anni, così, e poi è arrivato, diciamo, che ha... che avevano mandato un appuntamento al Riina perchè lo volevano ammazzare, che lui si vantava che è stato furbo, che non è andato all'appuntamento e ci ha mandato a Pippo Gambino e ci ha mandato a Raffaele Ganci, tutti e due, che quando sono andati nella tenuta di Salvatore Inzerillo, nella zona di Boccadifalco, che ci aveva una tenuta di proprietà questo Inzerillo, e quindi ci sono andati Ganci e Gambino e lui non c'è andato perchè dici che si ha mangiato la foglia, che c'era qualche cosa; però lui non si ha mangiato niente, perchè a lui l'ha avvisato... c'è stato che l'ha avvisato Montalto Salvatore e c'era qualche cosa che non andava, quindi ci ha mandato a quelli due. E poi quelli hanno venuto a raccontare che, appunto, sono saltati dal muro, erano nascosti su... sotto 'i piante dei mandarini, perchè ci sembrava che era arrivato lui con la macchina con Pippo Gambino. Invece quando poi sono arrivati là hanno visto che lui non c'era e hanno fatto finta di niente. Questo è un racconto che poi hanno fatto Pippo Gambino e Raffaele Ganci quando sono ritornati dall'appuntamento, perchè l'obiettivo era Riina, non  potevano ammazzare a quelli due, perchè sennò poi Riina ci veniva più difficile. Quindi, dopo di questo il Riina è andato al contrattacco.

P.M.: - Aspetti un attimo, signor Cancemi, mettiamo un pò di ordine in questo episodio. Il Riina avrebbe dovuto andare ad un appuntamento da chi?

CANCEMI: - Da Stefano Bontade e da Salvatore Inzerillo, che ci avevano mandato un appuntamento che ci volevano parlare, e lui non c'è andato perchè, quello che so io, c'è stato che c'ha fatto sapere qualche cosa il Montalto Salvatore, e ci ha mandato a Pippo Gambino e Ganci Raffaele in quell'appuntamento; lui non c'è andato. Quindi, dopo questo appuntamento che quelli ci sono... ci hanno raccontato che, appunto, hanno visto saltare persone dal muro, nascoste sopra... sotto i mandarini, cose, lui ha capito che c'era un tranello per lui, diciamo, per... per strangolarlo. E lui è andato al contrattacco, e il primo che c'è riuscito ad ammazzare è stato Stefano Bontade.

P.M.: - Adesso io vorrei che lei...

CANCEMI: - Quindi siamo arrivati nell'omicidio Bontade.

P.M.: - Sì, ora ci arriviamo all'omicidio Bontade. Lei poc'anzi, indicando Inzerillo, Bontade, Riccobono, Salamone e lo stesso Michele Greco e Badalamenti tra la fazione opposta, ha detto che esisteva una cordata corleonese. Ci spiega chi faceva parte in quel momento della cordata corleonese e che cosa intende lei con questo termine?

CANCEMI: - Mah, io con questo termine intendo che erano persone di Totò Riina; la cordata questa intendo, che erano persone di Totò Riina, e quindi in quel periodo queste persone che erano con Totò Riina, come Bernardo Provenzano, come Pippo Calò, come Ganci Raffaele, come Pippo Gambino, come Ciccio Madonia, come Bernardo Brusca e altri.

P.M.: - Quindi, mi scusi un attimo, signor Cancemi, ce li ripeta tutti quelli che facevano parte della cordata corleonese già da prima che si formasse la commissione.

CANCEMI: - Sì, il Calò, il Ganci Raffaele, il Pippo Gambino, Ciccio Madonia, Bernardo Brusca e qualche altro che magari mi sfugge momentaneamente.

P.M.: - Ciccio Madonia lei ci ha già detto che ruolo aveva; il Gambino e il Ganci ci ha detto e anche Brusca ce l'ha detto. Io volevo sapere: in quel momento, ad esempio, il capomandamento di Partinico, Antonino Geraci, come si collocava? Faceva parte della cordata corleonese?

CANCEMI: - Al cento per cento.

P.M.: - Il capomandamento di Caccamo, Ciccio Intile, faceva parte della cordata corleonese?

CANCEMI: - Sì. Io, diciamo, di quelli che ho detto, l'ho detto con assoluta certezza. Questo .. questo di Caccamo credo anche di sì, perchè lui, diciamo, sennò faceva pure la fine degli altri.

P.M.: - Il capomandamento di San Mauro Castelverde, Peppino Farinella, faceva parte di questa cordata corleonese?

CANCEMI: - La risposta è pure come quella che ho dato prima.

P.M.: - Senta, successivamente, lei stava dicendo, fu ucciso Bontade Stefano. Ci spieghi quando venne ucciso, per volere di chi e che significato aveva questa morto di Bontade. Chi diede la soffiata della presenza di Bontade nel posto in cui fu ucciso?

CANCEMI: - Sì, io... il significato è perchè lui ha voluto colpire il più forte, perchè lo riteneva il più forte Stefano Bontade e quindi è stato il primo ad ucciderlo. Poi io quello che ho sentito qualche cosa, dice che... ho sentito che la soffiata... che questo si stava spostando, doveva uscire da dove è uscito per andare in un altro posto, Stefano Bontade, e io ho saputo che qualche cosa ce l'ha detto Lo Iacono Francesco, che è un componente della famiglia di Stefano Bontade, e qualche altro, c'è stato pure qualche altro che ha fatto sapere pure qualche cosa.

P.M.: - Senta, dopo la morte di Stefano Bontade cosa accadde nel mandamento della Guadagna?

CANCEMI: - Mah, dopo la morte di Stefano Bontade, diciamo, io che mi ricordo, c'è stata una reggenza, che reggeva il mandamento sotto dipendenza di Bernardo Brusca, San Giuseppe Jato, quindi erano...

P.M.: - Quindi sotto San Giuseppe Jato? Ecco.

CANCEMI: - Dipendevano da... dipendevano da lui il Giovanni Pullarà, appunto il Lo Iacono Pietro e un altro che al momento non mi viene il nome. Però sempre sotto dipendenza di San Giuseppe Jato.

P.M.: - Senta, il Bontade, se lei lo ricorda, in che anno venne ucciso? CANCEMI: - Nell'81.

P.M.: - Successivamente furono commessi altri omicidi in questa operazione di pulizia?

CANCEMI: - Sì, poi c'è stato subito... mi sembra che c'è stato quello di Inzerillo, Salvatore Inzerillo e poi, via via, tutto quello che sappiamo.

P.M.: - Ecco, parliamo…

CANCEMI: - Diciamo, gli omicidi che ci sono stati. P.M.: - ... di questo omicidio di Salvatore Inzerillo. CANCEMI: - Ma dopo Stefano Bontade...

P.M.: - Parliamo di questo omicidio di Salvatore Inzerillo. Io vorrei sapere quando avvenne, se ci fu qualcuno che diede la soffiata e cosa successe nel mandamento di Boccadifalco.

CANCEMI: - Sì, la soffiata sempre è stato ... il Montalto, che sapeva che andava nell'amante e quindi c'ha dato la battuta che andava nell'amante l'Inzerillo. Soffiata che è venuta, quello che ho saputo io, da Salvatore... Salvatore Montalto. Dopo c'è stata... appunto, c'è stata la reggenza pure, dopo la morte di Inzerillo a Boccadifalco e i reggenti erano un certo Brusca Giuseppe, Giovanni Marcianò e Michelangelo La Barbera; allora era... era ancora reggente, prima di fare il mandamento, dopo la morte di Inzerillo.

Alla stregua delle dichiarazioni dei collaboratori sopracitate può senz’altro ritenersi che le cause della c.d. guerra di mafia vanno ricercate in fattori di carattere economico e che gli avversari del Riina tentarono inutilmente di frenarne l'ascesa decretandone la condanna a morte, senza tuttavia riuscire nell’intento perché la congiura venne scoperta grazie alle informazioni fornite dagli "infiltrati” nelle fila dei mandamenti avversi, fedeli al Riina, ed in particolare Montalto Salvatore e Buscemi Salvatore nel mandamento di Boccadifalco, Gambino Giuseppe Giacomo nel mandamento di San Lorenzo, Ganci Raffaele all'interno della famiglia della Noce. Grazie al loro decisivo contributo fu possibile portare a termine l'opera di sterminio culminata negli omicidi di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Rosario Riccobono e Salvatore Scaglione. Si trattò di una sanguinosa contrapposizione che interessò trasversalmente le diverse famiglie mafiose, sicchè gli uomini d’onore alleati del Riina all'interno delle famiglie dirette dai capi della fazione avversa, consentirono a quest’ultimo di conoscere in anticipo le mosse degli avversari e di prevenirle. Ciò peraltro consentì di evitare lo smantellamento delle famiglie dirette dai c.d. perdenti, in quanto fu possibile mantenere quelle strutture, eliminandone i componenti inaffidabili e procedendo sul finire del 1982, secondo le convergenti dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, a nuove elezioni per la copertura delle cariche di vertice nelle predette famiglie, dove naturalmente risultarono elette solo persone inserite nella fazione vincente e fedeli alla linea di Riina. I corleonesi riuscirono, dunque, ad assicurarsi il controllo egemonico della organizzazione attraverso l’eliminazione di tutti i componenti che non ne condividevano la strategia e la sostituzione con uomini di fiducia, così creando le condizioni per la costituzione di quella compatta ed omogenea commissione provinciale di cosa nostra che si insediò nel gennaio 1983 e consentendo la realizzazione di una sostanziale unità di intenti intorno alla figura di Riina, la cui egemonia all’interno dell’organizzazione, per durata e spessore, fece registrare un sostanziale unanimismo di vertice mai registratosi in precedenza nella storia di cosa nostra. Tutti i capi mandamento erano, infatti, persone vicine al Riina e molti di loro avevano preso parte attivamente alla guerra di mafia fornendo un contributo determinante per la sua affermazione. Da quel momento il Riina non solo potè giovarsi dell’assenza di fazioni contrapposte ma, almeno nella provincia palermitana, evitò che si formassero nuovi schieramenti o che assumessero troppo peso altri personaggi, stroncandone sul nascere ogni velleità egemonica – come nel caso di Puccio Vincenzo - che potesse mettere in discussione il suo incontrastato predominio ed i suoi metodi di gestione. Prima di passare allo specifico esame della composizione dei mandamenti e, quindi, della “commissione” all’epoca dei fatti per cui è processo, appare opportuno accertare preliminarmente se e con quali modalità il massimo organo deliberante dell’organizzazione si sia riunito nel periodo storico di interesse ai fini della decisione e se, in relazione allo specifico “delitto eccellente” oggetto delle imputazioni ascritte agli odierni imputati, la regola “istituzionale” che riservava alla esclusiva competenza funzionale della “cupola” abbia concretamente operato, onde inferirne la configurabilità del concorso morale, quali mandanti, a carico dei suoi componenti.

Lo “zio Totò” e la guerra contro lo Stato. La Repubblica il 4 agosto 2020. Alla stregua delle superiori emergenze processuali e segnatamente di quanto riferito dal Ganci in ordine all’osservanza da parte del Riina dell’obbligo di informare di volta in volta i capimandamento dell’esito delle riunioni “frazionate” precedentemente tenutesi con altri gruppi di componenti l’organismo di vertice, nonché delle dichiarazioni rese dal Brusca - il quale ha riferito di avere personalmente constatato che capimandamento non presenti a riunioni di cui egli aveva avuto contezza avevano poi preso parte alla fase organizzativa di un delitto eccellente - rileva il collegio che univoche acquisizioni probatorie depongono per la vigenza all'epoca della strage di via Pipitone Federico della regola della collegialità di certe decisioni, quelle cioè coinvolgenti l’interesse dell’intera organizzazione, per cui tutti i membri della commissione dovevano essere messi in condizione di esprimere il loro parere in ordine alle questioni di rilevante interesse collettivo, quale la deliberazione di un omicidio c.d. eccellente, essendone mutate solo le modalità di attuazione. Il quadro probatorio emergente dal complesso delle acquisizioni processuali depone altresì, univocamente, per l’operatività, all’epoca della strage che ci occupa, di una commissione provinciale connotata da spiccati caratteri di omogeneità ed unitarietà di intenti, attesa la sostanziale condivisione delle scelte strategiche di cui il Riina, esponente ormai carismatico dell’organizzazione, si faceva fautore unitamente ad altri personaggi a lui fedeli e del pari prestigiosi, quali il Provenzano ed il Brusca Bernardo che, dopo il suo arresto, aveva conferito al primo una delega in bianco per il suo mandamento. Va peraltro osservato che l’egemonia “corleonese” non ha comportato un esautoramento dei poteri della commissione, né un disconoscimento delle prerogative che le regole istituzionali di funzionamento degli organi rappresentativi attribuivano, ai vari livelli, ai capiprovincia, ai capimandamento e anche semplicemente ai vari rappresentanti delle famiglie mafiose. Il Brusca ha infatti dichiarato testualmente : "Riina bussava anche se doveva venire per la sciocchezza, per la stupidaggine nel mio mandamento e bussava anche quando doveva andare per la  stupidaggine, negli altri mandamenti". È appena il caso di osservare, peraltro, che dopo il riassetto degli equilibri interni a cosa nostra con la costituzione di una commissione tutta filocorleonese, il rispetto della regola della collegialità delle decisioni di rilevante interesse strategico era anche funzionale all’esigenza di prevenire malcontenti e rilievi critici che avrebbero potuto compromettere l’ormai realizzata unitarietà di intenti e la indiscussa posizione egemonica assunta dal Riina, il quale, anche per questo, non aveva alcun interesse a deviazioni dalla fisiologia dei meccanismi decisionali che avrebbero potuto incoraggiare o favorire la formazione di pericolosi e destabilizzanti dissensi e, quindi, di possibili schieramenti avversi: tutto ciò appare perfettamente coerente con l’astuzia tattica che molteplici fonti probatorie hanno concordemente riconosciuto al Riina ed al suo alter ego Provenzano. Ciò stante, nel richiamare le considerazioni sopra svolte in ordine al movente della strage per cui è processo ed alla eccezionale importanza strategica rivestita dal progetto criminoso in esame, va quindi ribadita la piena operatività dell'obbligo inderogabile, anche per lo stesso Riina, della preventiva informazione di tutti i capi-mandamento, compresi quelli in stato di detenzione, sicchè in mancanza di elementi probatori certi di segno contrario, deponenti univocamente per una deroga ad una norma interna da sempre rispettata e tanto più da osservare nel caso di specie - rivestendo la decisione dell'eccidio del giudice certamente una grave scelta strategica assunta da “cosa nostra”, in quanto foriera di gravissime reazioni istituzionali - deve ritenersi che alla straordinaria rilevanza della determinazione omicida non poteva non corrispondere una deliberazione assunta al più alto livello decisionale, la commissione appunto, la sola in grado di maturare e deliberare, da una posizione non soggetta a controllo e quindi senza debolezze e tentennamenti, un delitto di tale gravità e spessore. Nè avrebbe pregio il rilievo che in taluni casi, riferiti da qualche collaboratore, determinazioni criminose di tipo omicidiario siano state adottate senza informare preventivamente il capomandamento territorialmente competente in relazione alla zona di esecuzione del delitto, onde inferirne un preteso progressivo esautoramento della commissione da parte del Riina e degli uomini a lui fedeli e, conseguentemente, il possibile mancato coinvolgimento decisionale di detto organismo rispetto al grave fatto per cui è processo. Va al riguardo rilevato, infatti, che i pur innegabili episodi in cui quella regola pare sia stata derogata afferiscono comunque ad eventi omicidiari di portata di gran lunga inferiore alla strage per cui è processo la cui rilevanza strategica, giova ripeterlo, per la stessa vita dell'organizzazione postulava per contro l'imprescindibile esigenza di assicurarsi preventivamente il più largo consenso possibile al più alto livello decisionale e, quindi, impone logicamente l'opposta ragionevole e fondata presunzione che nel caso di specie quella regola sia stata rispettata in pieno. Nè il superiore assunto può essere relegato ad una mera illazione o congettura, chè anzi risulta ancorato ad incontrovertibili emergenze processuali che ne suffragano la fondatezza oltre che ad argomenti di ordine logico. Ed infatti, la già rilevata omogenea fisionomia assunta dalla commissione tra la seconda metà del 1982 e gli inizi del 1983  costituisce una ulteriore conferma logica della operatività di quella regola di "collegialità" anche in un periodo, come quello che interessa ai fini della presente disamina, in cui già cominciavano a profilarsi in seno al vertice dell'organizzazione equilibri caratterizzati da linee evolutive tendenzialmente egemoniche in favore del Riina e dei suoi uomini più fidati, che ne condividevano tutte le scelte strategiche, fino alla definitiva consacrazione della linea corleonese come quella vincente. Tutto ciò mal si concilia, ad avviso del Collegio, con un ipotetico esautoramento, a quella data, dei poteri della commissione e con una altamente improbabile autonoma determinazione da parte del Riina in ordine a quell'eclatante eccidio per cui è processo. Vero è piuttosto che, al più, potrà ammettersi che, in considerazione della posizione di assoluto prestigio assunta dal Riina, costui abbia svolto un ruolo di promotore dell'efferato progetto criminoso e che alla sua determinazione criminosa abbiano fornito un contributo penalmente rilevante, in termini anche soltanto di rafforzamento, non solo la previa consapevolezza di poter fare affidamento sulla incondizionata adesione degli altri componenti la commissione - i quali, proprio perchè a lui molto vicini ne condividevano le scelte strategiche - ma anche l'approvazione, ottenuta sia pur nella forma del consenso tacito. E peraltro, le emergenze processuali offrono anche in punto di fatto interessanti spunti di riflessione in ordine alla sicura configurabilità in capo alla commissione della fattispecie plurisoggettiva contestata, atteso che già da alcuni mesi l'eliminazione fisica del giudice Chinnici costituiva un obiettivo strategico di “cosa nostra”, per ragioni di intuitiva evidenza, tanto da avere costituito oggetto non solo di esplicite dichiarazioni di intenti da parte del Riina, che non avevano fatto registrare alcun dissenso, ma addirittura motivo di attività preparatoria estrinsecatasi in prove da sparo con armi micidiali (cfr.Brusca cit.). Orbene, non v'è chi non veda come tali comportamenti, processualmente provati dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori, depongano univocamente per un progetto criminoso sostanzialmente deliberato nelle sue linee essenziali, meditato e maturato progressivamente in seno all'organizzazione, ancorchè qualificato dalla presumibile prospettazione di un evento sospensivamente condizionante, quale ad esempio l'attesa del momento storico-politico più propizio, progetto rispetto al quale l'assenza di qualsivoglia dissenso penalmente rilevante non può non risolversi, anche in relazione ad una attuazione notevolmente differita nel tempo, in un contributo in termini di sicura efficienza causale rispetto all'evento. Se dunque il momento storico in cui si inserisce quel progetto stragista era caratterizzato da una forte coesione all’interno del massimo organo deliberativo e dall’assenza di fazioni contrapposte o anche soltanto di soggetti portatori di specifici interessi contrari alla realizzazione di quel disegno criminoso, appare chiaro che non v’era per il Riina e per i suoi più fedeli alleati alcun interesse ad eludere il rispetto delle regole istituzionali, essendo per contro portatori dell’interesse opposto ad osservarle. Si sono, per contro, già ampiamente esposte le ragioni sottese ad un forte ed adeguato movente condivisibile da parte di tutti i mandamenti, direttamente correlabile all’incisiva attività giudiziaria intrapresa dall’ufficio istruzione di Palermo sotto la direzione del consigliere Chinnici, i cui riflessi negativi per gli interessi dell’intera organizzazione coinvolgevano indistintamente tutte le famiglie mafiose. Né avrebbe pregio il rilievo che il Riina avrebbe potuto determinarsi per un non coinvolgimento dell’intera commissione per timore di eventuali forti dissensi correlati al pericolo di una decisa risposta dell'apparato repressivo dello Stato, atteso che ben più gravi, invece, sarebbero state le conseguenze che potevano scaturire da una violazione della regola della collegialità. E peraltro, quella preoccupazione – che tuttavia non aveva mai impedito a “cosa nostra” gravi determinazioni omicidiarie contro uomini delle istituzioni - non costituiva un decisivo deterrente, nè una forte remora alla realizzazione del progetto stragista, atteso che il diretto interesse dei cugini Salvo all'eliminazione del consigliere istruttore avrebbe garantito la copertura politica necessaria a fugare i timori di una legislazione repressiva. Come sopra rilevato, sicuro indice rivelatore della sostanziale convergenza preventiva della volontà dei capimandamento appare, anche nel caso di specie, la successiva assenza di punizioni nell'ambito del sodalizio, dato, questo, univocamente sintomatico di un preventivo assenso della “cupola”. L'istruzione dibattimentale, infatti, non solo ha consentito di escludere che vi siano state reazioni e punizioni, ma ha offerto elementi di segno contrario, desumibili dalle dichiarazioni rese sul punto dal Cancemi il quale ha riferito (ud.3/5/1999) delle espressioni di soddisfazione di Calò e di Ganci Raffaele, accompagnate da commenti volgari - forse le stesse frasi di cui ha parlato il collaboratore La Marca Francesco, che aveva assistito ad una conversazione tra il Cancemi ed il predetto Ganci – nonché delle "mezze battutine, mezze paroline" di Gambino Giuseppe Giacomo. Trattasi di espressioni che non sottendono affatto un dissenso ovvero un disappunto per la deliberazione della morte del consigliere Chinnici, bensì una sostanziale soddisfatta adesione per la realizzazione di quell’obiettivo, chiaramente desumibile dalle seguenti testuali parole usate dal Cancemi: "gioivano, diciamo, anche da Pippo Gambino qualche...vedevo che erano diversi, diciamo di prima, erano contenti và, che avevano ottenuto questo risultato"(cfr. f.110 ud. cit.) Estremamente significative ed univocamente indicative della forte compattezza raggiunta in quel periodo storico dalla commissione provinciale di Palermo appaiono le dichiarazioni rese dal Cancemi, il quale ha riferito che, dopo la guerra di mafia, e quindi proprio nell'anno della strage, "in ogni mandamento c'erano un Riina ed un Provenzano", precisando, con riferimento ai capimandamento dell’epoca, quanto segue:

".. .Quelle erano tutte persone di Riina, attenzione, tutte persone messe là da Riina Salvatore, tutte persone di sua fiducia. Quindi non ci piove, perché lui veniva di un passato; quindi non poteva mettere una persona sbagliata in un mandamento, assolutamente. Lui, Riina, che è più furbo di una volpe, che fa, andava a commettere un errore di questo?" (cfr.ud. cit.f. 91).

Lo stesso collaboratore ha inoltre riferito che ogni deliberazione della commissione veniva adottata all'unanimità, dichiarando testualmente (f.137, ud.cit.):

CANCEMI- "non ho mai assistito a una cosa diversa, una cosa che qualcuno si è ribellato, assolutamente".

P.M.:- Per quelle che sono le confidenze, ammesso che ci siano, fattele dal Calò e dal Ganci, questa unanimità, questo accordo complessivo, cioè di tutti da parte dei componenti della commissione, era vigente anche negli anni in cui è stato ucciso il dott. Chinnici?

CANCEMI: - Eh, dottoressa, guardi, è più forte ancora se andiamo a quella data, perché, diciamo, era una formazione nuova che aveva messo nei mandamenti Riina, quindi era più forte ancora, diciamo. Non è che magari possiamo pensare andando negli anni avanti magari qualcuno... che questo non c'è stato, attenzione; che questo, ripeto, non c'è stato. Quindi è più forte ancora in quegli anni erano la cosa più...più unita.

Ulteriore argomento di ordine logico che depone per il necessario coinvolgimento di tutta la commissione è il rilievo che le modalità terroristiche della strage dimostrano la precisa volontà di sferrare un attacco militare alle istituzioni, lanciando una sfida che trovava riscontro solo nell’attentato di alcuni mesi prima contro il prefetto Dalla Chiesa, con un chiaro intento di gravissima intimidazione per quanti avessero voluto proseguire, con pari impegno ed incisività, l’attività giudiziaria intrapresa dalla vittima. Ciò dimostra che “cosa nostra” aveva piena consapevolezza della gravità dello scontro con lo Stato e dell’ambiziosa strategia terroristica che per la prima volta veniva attuata con quelle efferate e devastanti modalità, sicchè non è assolutamente pensabile che un progetto criminoso così carico di pregnante significazione politica e foriero di pericolose risposte da parte degli apparati repressivi statuali potesse prescindere dall’appoggio unanime del massimo organo deliberativo dell’organizzazione ed essere gestito da una ristretta minoranza, sebbene diretta da un personaggio forte e carismatico. Se, dunque, la strage di Via Pipitone Federico rientra certamente fra i delitti c.d. eccellenti per la cui deliberazione operava una riserva esclusiva di competenza funzionale del massimo organo decisionale, occorre adesso accertare se quella regola istituzionale sia stata concretamente osservata nel caso di specie. Su tale specifico tema sono state sopra esposte le ragioni per le quali, ad avviso della corte, numerosi indici rivelatori depongano per l’operatività della regola all’epoca del fatto che ci occupa e con specifico riferimento alla strage, ragioni che attengono alla particolare natura del movente, al contesto politico-mafioso in cui il grave fatto si inserisce ed infine alla stessa “omogeneità ideologica e strategica” della commissione che rende del tutto insostenibile l’ipotesi di una possibile deviazione dalla regola stessa. Ulteriore indice rivelatore suscettibile di essere valorizzato indiziariamente è costituito dal coinvolgimento operativo di più mandamenti e di quello personale di alcuni capi, tra i quali Riina Salvatore, Ganci Raffaele e Gambino Giuseppe Giacomo, nonché di alcuni uomini d’onore destinati ad assumere ruoli di vertice, come il Brusca Giovanni ed il Madonia Antonino, peraltro figli di personaggi di spicco dell’organizzazione e capimandamento tra i più fedeli alleati del Riina, quali il Brusca Bernardo ed il Madonia Francesco. Tale dato significativo è riscontrabile anche in relazione ad altri omicidi eccellenti commessi nello stesso periodo storico, come risulta dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia esaminati nel corso del dibattimento. Fra costoro merita di essere ricordato l’Anzelmo, il quale ha confermato (cfr. ud. 8/3/1999, f.74) che la regola della competenza esclusiva della commissione per la deliberazione di detti delitti era stata sempre rispettata, citando gli omicidi del commissario Cassarà e del Cap. D’Aleo, per i quali, così come per la strage che ci occupa, più mandamenti erano stati delegati e direttamente coinvolti nella fase esecutiva. In particolare, per l’omicidio dell’ufficiale dell’Arma, commesso appena un mese prima della strage per cui è processo, il collaboratore ha evidenziato come fossero stati coinvolti uomini d’onore appartenenti ai tre mandamenti che avevano subito una modifica al vertice nel gennaio 1983 con la designazione di Ganci Raffaele, Gambino Giuseppe Giacomo e di Buscemi Salvatore. L’Anzelmo ha testualmente dichiarato quanto segue:

P.M.: - E per quella che è la sua esperienza dovuta alla lunga militanza in "Cosa Nostra", lei ha potuto constatare se questa regola, cioè della deliberazione da parte della commissione provinciale degli omicidi eccellenti, è stata sempre rispettata?

ANZELMO - Ma io le ripeto, come ci ho risposto poco fa, io ho fatto tanti omicidi eccellenti e... io ho fatto, allora, cominciamoci di qua: io ho fatto tanti omicidi e li facevo io con quelli della Noce o con quelli che appartenevano al mio mandamento; mentre gli omicidi diciamo di queste persone, diciamo... chiama... eccellenti, diciamo, magistrati, poliziotti, carabinieri, io non... non è che li facevo io e altri soldati diciamo della mia famiglia o del mio mandamento, li ho fatti sempre con altri esponenti di diversi mandamenti.

P.M.: - E questo che significa?

ANZELMO - Eh, appunto, questo che signi...? Significa diciamo che questi... è una situazione che è stabilita dalla commissione, cioè, perchè, ma sennò, come ho fatto io quell'omicidio, che me lo andavo a fare io e Calogero Ganci, ci potevo andare pure io e Calogero Ganci a fare quell'omicidio. Cioè, non so se mi sto... se mi sto spiegando.

P.M.: - Senta, e allora per scendere nel caso concreto, lei ha detto: ho fatto molti omicidi eccellenti; ci vuole dire, senza però entrare nel particolare, con quali mandamenti lei ha commesso l'omicidio Cassarà?

ANZELMO - No, io... io l'omicidio Cassarà l'ho commesso, allora eravamo: Noce, Resuttana, San Lorenzo, Porta Nuova, Pagliarelli.

P.M.: - L'omicidio del capitano D'Aleo.

ANZELMO - L'omicidio del capitano D'Aleo, che è stato, se non ricordo male, il primo omicidio eccellente nel 1983, guardi caso, l'abbiamo commesso: Noce, San Lorenzo e Boccadifalco. I tre mandamenti che erano stati creati a gennaio '83.

Ricollegandoci alle argomentazioni sopra svolte in ordine alle ragioni di ordine logico che militano a favore della presunzione di operatività di quella regola anche in un periodo, come quello oggetto della presente disamina, caratterizzato da una sostanziale coesione ed omogeneità interna, vanno ricordate le dichiarazioni rese sul punto dai collaboratori di giustizia. Il Cucuzza (cfr.ud.28/1/1999), nel ribadire che nessuno degli uomini d'onore avrebbe potuto assumere singolarmente la decisione di commettere un omicidio eccellente, ha evidenziato che non poteva essere commesso alcun omicidio di uomini delle istituzioni senza l'unanime consenso dell'intera commissione, precisando di non avere avuto contezza di alcun dissenso dopo la perpetrazione della strage e di avere al contrario raccolto elementi di segno contrario: Appare opportuno riportare i seguenti brani delle sue dichiarazioni:

P.M.: - Senta, lei ha detto di avere avuto la conferma che la strage era stata posta in essere da "Cosa Nostra" per questo episodio. Allora io le domando: secondo quella che è la sua esperienza diretta, questa... la volontà di uccidere il dottore Chinnici può essere derivata soltanto da queste due pers... cioè, da Giuseppe Giacomo Gambino con il quale lei ha avuto questo dialogo in occasione della strage o la volontà di uccidere il dottore Chinnici è stata voluta da altri? Ed eventualmente da chi?

CUCUZZA - Mah, senta, io posso parlare di regola, perchè quello che sapevo l'ho detto.

P.M.: - Sì, e anche di regola, però sulla base anche della sua esperienza essendo lei stato anche reggente di un mandamento.

CUCUZZA - Naturalmente. Io dico questo: nessuno di noi solo perchè riceve un torto, un presunto torto da un magistrato lo uccide, perchè viene ucciso a sua volta. Cioè, non può uno farsi giustizia da solo. È un'organizzazione, quindi se c'è qualcuno che viene trattato male è l'associazione che deve tutelarlo, cioè non è una persona che si fa giustizia da sè. Anche quando uno in mezzo la strada mi dà uno schiaffo e io voglio soddisfazione, vado dal mio capomandamento. Se un uomo d'onore mi tratta male vado dal mio capomandamento e il mio capomandamento lo propone in commissione e se ho ragione mi danno soddisfazione. Quindi, un fatto di un magistrato che comunque non ha fatto male ad una singola persona, male in senso come si ragiona in "Cosa Nostra", voglio dire, e quindi non è un fatto personale e non può essere un fatto personale, perchè anche i fatti personali sono discussi a vari livelli.

P.M.: - Dopo la morte del dottore Chinnici, visto che lei rivestiva questo ruolo anche di capofamiglia, quindi anche un ruolo di... diciamo, gerarchico diverso dagli altri uomini d'onore, lei ha sentito fatti, è venuto a conoscenza di fatti attraverso i quali ha compreso che qualcuno dei capimandamento aveva dissentito dall'adottare questa decisione?

CUCUZZA - Sì. Io durante... cioè, dopo l'omicidio... la strage Chinnici non ho sentito dissensi, ma quando ho sentito qualche cosa era per dire che in realtà se lo meritava; solo questo. Quindi, ne parlavo con "scarpuzzedda", con lo stesso Gambino delle cose che combinava, secondo la nostra ottica, naturalmente. Ma dissensi non ce n'erano e onestamente devo dire che era difficile che qualcuno potesse dissentire.

P.M.: - Senta, nel caso in cui... Questa è soltanto la regola, quindi non le chiedo... sulla base delle regole. Se ci fosse stato ipoteticamente qualche dissenso, cioè se qualcuno... o se qualcuno...

Anzi, le faccio prima un'altra domanda. Secondo le regole che lei ci ha detto, tutti dovevano essere informati. Le chiedo: tutti dovevano adottare la decisione?

CUCUZZA - No, potevano... potevano pure discutere là per giorni e giorni, ma poi alla fine dovevano arrivare ... ad un risultato unanime, perchè se c'era qualcuno che dissentiva portava delle motivazioni. Poi, ... se qualcuno non convinceva cosa... la commissione, la commissione decideva anche con il suo voto. Se riusciva a convincere del contrario poteva succedere che non uccidevano il... il magistrato o comunque l'uomo dello Stato.

P.M.: - E se si fosse presa la decisione di uccidere il dottore Chinnici senza informare qualche capomandamento, secondo le regole di "Cosa Nostra" ci sarebbe stata qualche conseguenza? Ed eventualmente di che tipo?

AVV. MICALIZZI: - Presidente, c'è opposizione per le ragioni che già ho manifestato nella precedente opposizione.

PRESIDENTE: - Pubblico Ministero, veda di formularle in modo diverso.

P.M.: - Presidente, queste sono le regole e quindi io le sto chiedendo sotto il profilo delle regole, poi passo al fatto. Allora, lei è a conoscenza se qualcuno dei capimandamento, con riferimento alla strage Chinnici, non sia stato informato?

CUCUZZA - No, non mi risulta a me, non ci sono stati particolarmente discorsi con me specialmente, non... non ho sentito niente di del genere.

Anche Brusca Giovanni ha più volte ribadito la necessità del rispetto delle regole e l'effettiva vigenza di quel principio, affermando che addirittura veniva chiesto il permesso per entrare in un altro territorio o per altre cose non particolarmente rilevanti, precisando che dopo la strage nessuno aveva fatto commenti critici o manifestato risentimento o disappunto per quanto accaduto. Pur non potendo fornire prova diretta della collegialità delle decisioni, tuttavia citando come esempio l'eliminazione dei due capimandamento, Scaglione e Riccobono, ha prospettato che quella decisione fosse stata deliberata dall'organo di vertice in considerazione del fatto che al momento dell'uccisione dei predetti erano presenti Motisi Matteo, Gambino Giuseppe Giacomo, Madonia Antonino, Greco Giuseppe scarpa", Brusca Bernardo, Riina Salvatore e  Calò  Giuseppe,  desumendo pertanto che se costoro erano presenti al momento della fase esecutiva, avevano dovuto necessariamente deliberare la morte in precedente occasione (cfr.ud. 1/3/1999). Il collaboratore ha dichiarato quanto segue:

P.M. - Signor BRUSCA, io mi riferisco con precisione al periodo da fine '82 - primi dell'83, dalla ricomposizione dei mandamenti in poi. A lei risulta che la regola sulla competenza della commissione per gli omicidi eccellenti dall'inizio '83 in poi sia mai stata violata?

BRUSCA - Ripeto, non glielo so... non... come regola... dottor Di Matteo, io parlo di fatti pratici che io vivevo in prima persona. Le regole venivano rispettate, però che sia successa una commissione a (largo raggio) per decidere una cosa del genere, questo non lo so e non glielo posso dire. Le regole venivano rispettate, cioè tutto veniva rispettato, cioè quando si doveva entrare dentro un altro territorio veniva chiesto il permesso, ma che si parlava di qualunque cosa, cioè dalla più piccola alla più grande, cioè la regola veniva rispettata, non solo di... dell'omicidio eccellente, ma proprio delle stupidaggini.

P.M. - Ecco, allora proprio perchè io le devo chiedere fatti, lei poc'anzi ha detto che per un determinato periodo, diciamo anteguerra di mafia, lei ha sentito delle lamentele da una parte e dall'altra, perchè, per esempio, per l'omicidio Costa aveva provveduto una determinata parte senza che altri capimandamento ne sapessero niente, viceversa per l'omicidio del colonnello Russo. Ho capito bene?

BRUSCA - Sì.

P.M. - Ora, dopo l'inizio dell'83, lei che è stato in "Cosa Nostra", con quel ruolo importante che ci ha spiegato, ha mai sentito lamentele di questo tipo? Cioè: "È stato ammazzato, è stato ucciso", per esempio, "il dottor Cassarà, il dottor Montana" e... e tanti altri...

BRUSCA - No, no.

P.M. - ...il dottor Falcone? E se... e c'è mai stata una lamentela di questo tipo, che lei ha percepito, con altri capimandamento?

BRUSCA - No, non c'era nessun risentimento, non c'era nessuna lamentela, non c'era nessun... nessun commento, non c'era nessuna... nessuna critica, non c'è stato niente per niente, si andava lì, ci si andava tranquilli, si andava senza nessun problema.

P.M. - Poco fa le avevo fatto una domanda composita, lei ha risposto alla seconda parte ma non alla prima. Le è stato spiegato il perchè della regola per cui la commissione doveva decidere sugli omicidi eccellenti?

BRUSCA - Ma le regole erano perchè un fatto eclatante automaticamente andava a ricadere un pò su tutti i capimandamento, su tutti gli uomini d'onore, cioè ne risentiva la provincia, ne risentiva la Sicilia, cioè, perchè da che mondo è mondo la Sicilia era sempre stata additata come mafia, quindi bene o male attirava l'attenzione o quantomeno era un fatto eclatante, poi può... può darsi... possibilmente qualcuno lo conoscevo, ci avevo contatti, dipende il fatto; quindi si doveva decidere unitariamente quello che si doveva fare. All’udienza del 3/3/1999, ha riferito:

PRESIDENTE: - Senta, in che epoca noi possiamo collocare, anche se forse ha già risposto a questa domanda, possiamo collocare, diciamo, il ricompattamento delle posizioni e il ripristino delle regole della collegialità delle decisioni della commissione?

BRUSCA - Signor Presidente, dopo la morte di Stefano Bontade, dopo che si sono chiarite un pò le idee, chi era da una parte, chi dall'altra parte, secondo me le regole già cominciavano a funzionare.

PRESIDENTE: - E in che anni siamo?

BRUSCA - '82 - '83. Per esempio, io. Gli posso dire quando è stato ucciso Stefano... Saro Riccobono, io non ho visto nessuna... nessuna tavola rotonda, però ho visto molti capimandamento che poi hanno partecipato realmente all'omicidio di Riccobono.

PRESIDENTE: - Che vuol dire questo? Cosa... Ci chiarisca meglio questo passaggio.

BRUSCA - Cioè, io non so... non so se c'è stata una seduta a ta... cioè, come si suol dire, tra gli altri capimandamento che dovevano eliminare i due capimandamento, che sarebbe il Scaglione e il Riccobono, e quindi poi di questa riunione io non ne so niente perchè non l'ho vista, però al momento delittuoso io ho visto la presenza di Matteo Motisi, la presenza di Giuseppe Giacomo Gambino, Antonino Madonia, Giuseppe Greco "scarpa", però ognuno per i suoi versi, cioè ognuno per la sua posizione: mio padre, Salvatore Riina, aveva partecipato... no, no, in questa occasione Bernardo Provenzano no. Giuseppe Calò. Cioè, avevano partecipato tanti capimandamento che io prima non avevo mai visto assieme. Quindi vuol dire che in diverse occasioni di questa decisione se ne parlò in... in occasione, ripeto, non so se tutti assieme o a due a due o a tre.

L’Anzelmo, con riferimento all'omicidio del Cap. D'Aleo, ha evidenziato come i tre mandamenti delegati all'esecuzione dell'omicidio non avessero alcun interesse diretto alla commissione di quel delitto, interesse invece ben più pregnante per il mandamento di San Giuseppe Jato; da ciò aveva desunto l'osservanza in quel caso del principio della deliberazione da parte della commissione provinciale di “cosa nostra” cui era seguita, secondo le normali modalità operative dell'organizzazione, la delega ad uomini appartenenti a vari mandamenti, anche se non portatori di uno specifico e diretto interesse, proprio al fine di realizzare il coinvolgimento di tutti nella commissione di quel grave fatto. All’udienza del 9/3/1999, il predetto collaboratore ha dichiarato:

AVV. LA BLASCA: - Siccome lei ha parlato anche di regole di "Cosa Nostra". Secondo le regole che lei conosce, occorreva la deliberazione della commissione provinciale di Palermo per commettere questo omicidio?

ANZELMO - Ma... ma sicuramente. Ma mi scusi un attimo, il capitano D'Aleo, allora alla Noce nemmeno lo conoscevamo; a San Lorenzo e il capitano D'Aleo non ci indagava, perchè il capitano D'Aleo era di Monreale; a Boccadifalco lo stesso. Cioè, quale interesse avevamo questi tre mandamenti ad andare ad ammazzare questo benedetto capitano D'Aleo?

AVV. LA BLASCA: - A chi interessava allora la morte del capitano D'Aleo, scusi? C'era qualche mandamento in particolare a cui interessava?

ANZELMO - Ma sicuramente, l'avrà portato in commissione, l'hanno vagliata, l'hanno accettata e c'è stata affidata a noi. Io propria questo le sto dicendo, cioè siamo andati ad uccidere il capitano D'Aleo insieme ad altri due Carabinieri, tre mandamenti che non avevamo niente a che... a che spartire con il capitano D'Aleo. Cioè, non... nemmeno lo conoscevamo.

AVV. LA BLASCA: - Sì, questo l'ho capito, signor Anzelmo, fin qui c'ero arrivato anch'io. La mia domanda era un'altra. L'uccisione del capitano D'Aleo poteva interessare uno specifico mandamento?

ANZELMO - Ma poteva interessare uno specifico mandamento, ne poteva interessare qualche altro di più, cioè io... io so solo questo che le sto dicendo: che per uccidere il capitano D'Aleo ci voleva la... la  riunione di commissione. E se...

AVV. LA BLASCA: - Lei sa se questo omicidio interessasse al mandamento di San Giuseppe Jato?

ANZELMO - Sicuramente.

Dichiarazioni sostanzialmente conformi, sul punto, ha reso anche Ganci Calogero:

P.M.: - Questo, ritengo che lei stia facendo riferimento in questo momento alla fase esecutiva dell'omicidio, all'organizzazione dell'omicidio. Io volevo chiederle: per gli omicidi eccellenti era suo padre che, per esempio, decideva di poterli commettere da solo o venivano adottate, bisognava rispettare determinate regole e quali erano queste regole per gli omicidi eccellenti?

GANCI - No, no, guardi, prima di tutto che per commettere un omicidio del genere c'era una decisione della commissione. La commissione, come ho sempre detto, è un... l'organo, diciamo, principale che... dove fanno parte tutti i capi, i capimandamenti. Per commettere questi omicidi c'è una decisione della commissione. Quindi, tutti i vari mandamenti sono a conoscenza e decidono dell'omicidio.”

Le emergenze processuali, pertanto, attestano con assoluta chiarezza che nel periodo in esame l'osservanza delle regole istituzionali che presiedevano alle procedure deliberative dei reati “strategici” era stata rigorosamente rispettata, atteso che, peraltro, non risultano indici rivelatori di dissensi o lamentele in seno all’organizzazione. Appare opportuno rilevare che con riferimento a questo argomento alcuni collaboratori, tra i quali l’Anzelmo e l’Onorato hanno confermato che il rispetto di quella regola non era venuto meno neanche in epoca successiva alla strage di via Pipitone Federico. Il primo, infatti, nel ribadire che sino all'epoca del suo arresto, avvenuto nel novembre 1993 e quindi anche a dieci anni di distanza dall’attentato al consigliere Chinnici, vigeva la regola della competenza della commissione per gli omicidi in esame, ha riferito che nel periodo natalizio del 1990 egli stesso aveva partecipato, a seguito di una sua scarcerazione, nella villa di tale Guddo Girolamo, sita nei pressi villa Serena a Palermo ad una riunione della commissione, alla quale il Riina lo aveva convocato per salutarlo, indetta per discutere alla presenza di tutti gli altri capimandamento, tra i quali Ganci Raffaele, Cancemi, Graviano Filippo, Biondino, La Barbera Michelangelo, dell’uccisione di persone vicine al collaboratore Contorno Salvatore, sospettate di dare appoggio a quest'ultimo contro i vertici corleonesi. Anche Onorato Francesco (ud. 25/5/1999) ha confermato che la commissione si riuniva quando doveva deliberare fatti di particolare rilevanza tra i quali gli omicidi eccellenti perché "domani nessuno vuole detto: mi hai rovinato, oppure chi hai rovinato perché siamo tutti d'accordo", precisando di avere appreso ciò Riccobono Rosario e Micalizzi Salvatore, ai quali era particolarmente vicino. Il collaboratore ha fornito inoltre un esempio eloquente di dissenso all'interno della commissione che aveva impedito al Riina di realizzare il proposito di uccidere il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Appare opportuno rilevare che l’Onorato ha riferito di essere stato un uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello e formalmente affiliato (“combinato”) nel 1980, epoca in cui il relativo territorio costituiva mandamento con a capo Rosario Riccobono e sottocapo Salvatore Micalizzi. Arrestato nell’ottobre 1984, era stato scarcerato dopo due anni e dieci mesi in data il 17 agosto del 1987. Nel 1992 era stato emesso nei suoi confronti un provvedimento restrittivo per l'omicidio dell’on. Salvo Lima e dopo un anno di latitanza era stato arrestato il 26 novembre '93. Aveva iniziato a collaborare l’11/9/1996 mentre si trovava detenuto. Sulle ragioni della decisione di collaborare con la giustizia l’Onorato ha dichiarato quanto segue:

ONORATO : - Ma le motivazioni perchè io ho collaborato era perchè non mi rivedevo più in questa organizzazione "cosa nostra" e per dare  un futuro ai miei figli e per evitare che entrassero a fare parte di questa organizzazione.

P.M. - Senta, quando lei ha iniziato a collaborare sostanzialmente, oltre al delitto dell'onorevole Lima, lei aveva altri titoli di reato?

ONORATO - No, io quando ho iniziato a collaborare non l'avevo l'omicidio Lima, perchè mi era stato tolto dalla... Cassazione. Sono andato in Cassazione prima di collaborare e ero rimasto solamente con l'associazione 416 bis. Poi avevo un'altra custodia cautelare per quanto riguardava l'omicidio di Nino Badalamenti del 1981 dov'è che ero imputato assieme con Anselmo e Ganci Calogero e altre persone.

P.M. - Senta, quando lei ha iniziato a collaborare vuole spiegare alla Corte di quali delitti si è autoaccusato, i delitti piu' gravi?

ONORATO - Sì, mi sono autoaccusato io, come esecutore materiale, dell'omicidio Salvo Lima, mi sono accusato della scomparsa di Emanuele Piazza, un agente del S.I.S.D.E., dell'omicidio dei fratelli Pedone, dell'omicidio dei fratelli Ceusa, persone che abitavano a Cerda, territorio di Caccamo, l'omicidio di Paolo Gaeta, l'omicidio di un certo Noto, ... gli omicidi dei cugini Graffagnino, una serie di scomparse dello Zen, che andavano dal 1978 - '79 fino alla mia detenzione, che neanche conosco queste persone perchè non li conoscevo, li portavano lì mentre che io ero appena combinato e neanche li conoscevo, erano persone dello Zen, persone che rubavano senza autorizzazione di "Cosa Nostra" e che venivano strangolati nel quartiere di Partanna Mondello……C'è l'omicidio pure ... di un certo D'Agostino, imprenditore D'Agostino.

P.M. - E complessivamente quanti omicidi ha commesso lei, signor Onorato?

ONORATO - Ma... non lo so, questi dello Zen saranno persone che... per due - tre anni sono stati fatti questi omicidi, persone che neanche conoscevo, una trentina, più a... una cinquantina.

P.M. - Tra questi omicidi che lei ha commesso ce ne sono alcuni inquadrabili nella cosiddetta guerra di mafia che si e' verificata negli anni '80, nei primi anni '80?

ONORATO - Sì, c'è stato l'omicidio Badalamenti, l'omicidio di un certo Gallina, che è stato pure ucciso a Carini, l'omicidio di Nino Badalamenti, poi il mandamento di Rosario Riccobono si è interessato anche degli altri omicidi che interessavano alla guerra di mafia da... c'era Emanuele D'Agostino che era venuto a Partanna Mondello ed è stato strangolato, che faceva parte anche della guerra di "Cosa Nostra".

P.M. - Lei ha fornito contributo anche su fatti in merito ai quali non è direttamente coinvolto?

ONORATO FRANCESCO: - Sì, sì. Io mi sono anche accusato, a parte questo discorso, mi sono dimenticato a dirgli che ho partecipato anche all'attentato... al fallito attentato dell'Addaura.

Il collaboratore ha inoltre riferito di avere assunto la reggenza della famiglia mafiosa nel 1987, appena uscito dal carcere, allorchè si era incontrato con Armando Bonanno all'Arenella, dove lo stesso trascorreva la sua latitanza, Salvatore Biondino e Salvatore Biondo, "il corto"; in quell’occasione gli era stata conferita la reggenza da Salvatore Biondino, che all’epoca rivestiva la carica di sostituto del Gambino, detenuto, a capo del mandamento di San Lorenzo, precisando che era stato quest’ultimo a volere la sua reggenza in considerazione dei rapporti di estrema fiducia che intercorrevano tra loro. L’Onorato ha infine chiarito che l’omicidio dell’on. Lima era stato eseguito nel suo territorio ed anche per tale motivo egli aveva avuto il ruolo di esecutore materiale unitamente a tale Giovanni D'Angelo, uomo d'onore della famiglia di Partanna Mondello, che aveva guidato la motocicletta.

Le paure dei Salvo e poi la mattanza. La Repubblica il 5 agosto 2020. Nella parte dedicata alla ricostruzione del movente e della fase genetica del progetto stragista si è evidenziato come sulla scorta delle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, la cui attendibilità risulta suffragata dalla puntuale disamina dell’incisiva attività investigativa svolta dal predetto magistrato e dalle deposizioni rese da investigatori e colleghi della vittima, sia stato possibile accertare che, già nell'estate 1982, i Salvo erano a conoscenza delle indagini sul loro conto da parte del consigliere Chinnici e, secondo un metodo ormai collaudato dall’organizzazione, si era tentato dapprima il c.d. ”avvicinamento” tramite i parenti di Salemi della moglie del magistrato, evidentemente andato a vuoto, ( "perché hanno trovato una roccia come si suole dire in Chinnici"- cfr. Di Carlo), per decretarne poi la morte. Il Di Carlo ha testualmente dichiarato : “E così il Salvo si è trovato a gestire questa situazione, voleva fare bella figura con Michele Greco. Da interessarsi si è trovato interessato diretto, perché Chinnici comincia a fare indagare sui Salvo e l'ultima volta che ho incontrato Nino Salvo mi ricordo che mi diceva che era avvelenato, nel senso di nervi, dicendo che il Chinnici aveva scatenato un'inchiesta sotto su...su tutti i movimenti (bancari) di Salvo” (cfr.f.97), episodio collocato temporalmente nell'estate del 1982 allorchè i Salvo si allontanarono da Palermo.(f.105).

Ed ha aggiunto: "Noi eravamo in condizioni, specialmente con i Salvo, con Lima di arrivare dovunque e allora potevamo arrivare dentro lo Stato, infatti quante volte si è stati a fare trasferire a qualcuno i Salvo proprio" (f. 251)

Il collaboratore ha altresì precisato che i profondi sentimenti di astio nutriti dai Salvo nei confronti del dr.Chinnici erano noti in seno a “cosa nostra”, riferendo delle confidenze ricevute da Riccobono Rosario - che a sua volta le aveva apprese da un funzionario della Polizia di Stato (f. 107) - il quale con riferimento al consigliere istruttore gli avrebbe detto testualmente: "picca dura"(nel senso che avrebbe vissuto ancora per poco), perchè sapeva dell'interesse diretto dei Salvo e di Greco Michele, fino ad allora mai raggiunto da provvedimenti giudiziari.

In particolare il Riccobono sosteneva che il magistrato era destinato a morire per l'intraprendenza che aveva avuto iniziando a svolgere indagini nei confronti dei Salvo. Il Di Carlo ha altresì riferito di un incontro tra Salvo Antonino e Provenzano Bernardo a Bagheria nella fabbrica di chiodi di Greco Leonardo, durato circa quattro ore, antecedente alle confidenze ricevute dal Riccobono, sempre nell'estate 1982. Brusca Giovanni, in particolare, ha consentito una precisa collocazione temporale della riunione in c.da Dammusi a seguito della quale il Riina lo aveva chiamato ed in maniera euforica gli aveva detto : "mettiti a disposizione di don Antonino"( si ricorderà anche la significativa frase "Finalmente è arrivato il momento di romperci le corna a questo".) La riunione è stata collocata dal Brusca a fine estate 1982 (“settembre- ottobre”), sulla base di riferimenti specifici che conferiscono attendibilità al racconto, inizialmente caratterizzato dall’incerto e fuorviante riferimento ad alcuni mesi prima della strage ( “sei-sette-otto mesi prima”) ma successivamente, dopo la contestazione del verbale in data 24/10/1997, pienamente confermativo di una precedente e più puntuale ricostruzione fondata sul rilievo che “Nino Salvo si trovava ancora vicino a Bagheria, dove hanno la villa estiva e che loro a Salemi di solito ci andavano per il periodo della vendemmia”. Non più di uno o due giorni dopo ( “cioè il tempo di metterci d’accordo”) l'incontro con Riina e Bernardo Brusca, Giovanni Brusca, a bordo della propria autovettura Volkswagen Golf aveva seguito fino a Salemi Nino Salvo, che lo precedeva alla guida della sua autovettura Mercedes, per eseguire un primo sopralluogo. L'azione, tuttavia, non era stata portata a compimento per le difficoltà di assicurarsi una fuga agevole, determinate dalla particolare situazione dei luoghi. Il Brusca ha precisato che la prima volta che si era recato nei pressi della villa di Salemi, aveva notato la presenza del dott. Chinnici. Come si ricorderà, sulla scorta della documentazione acquisita, dalla quale è emerso che il consigliere istruttore nell’anno 1982 aveva fruito di un periodo di ferie a decorrere dai primi giorni del mese di agosto, ed alla luce delle indicazioni fornire dal Brusca, la data della riunione può agevolmente collocarsi nel mese di agosto 1982. Sebbene l’originario progetto, con le modalità sopra descritte, non sia stato eseguito, il proposito criminoso non venne certamente revocato - essendone stata solo differita la realizzazione – come può desumersi dalla presenza del Madonia Antonino nel palazzo del consigliere istruttore nel dicembre 1982 e dalle successive attività preparatorie che, secondo le stesse indicazioni del collaboratore, ebbero inizio qualche mese prima della strage. L’esecuzione del delitto venne solo rinviata, nel settembre 1982, per volontà del Riina che molto probabilmente dovette privilegiare altre “operazioni” di prioritario interesse strategico, connesse con gli equilibri interni all’organizzazione, tra le quali certamente rientrarono gli omicidi di Riccobono e Scaglione.

Ricollegandoci a quanto sopra evidenziato in ordine all’abbandono dell’originario progetto esecutivo per l’inadeguatezza delle vie di fuga e degli appoggi logistici nella zona di Salemi (ff.7-8, ud.2/3), è appena il caso di rilevare che il Brusca ha ipotizzato che il temporaneo accantonamento dell’esecuzione della strage sia da ascrivere al fatto che si era in piena guerra di mafia e la presenza di qualche “scappato” in zona talvolta imponeva repentine modifiche di piani criminosi, non escludendo, peraltro, che possa avervi contribuito anche l’esecuzione della strage di via Isidoro Carini nei confronti del prefetto Dalla Chiesa. Come già ricordato, il collaboratore di giustizia Mutolo Gaspare ha riferito (cfr. ud. 23.4.1999) che la deliberazione omicidiaria nei confronti del dr. Chinnici risaliva al 1982, e quindi ancor prima del suo arresto. Il Mutolo era stato messo al corrente di ciò da Riccobono Rosario non genericamente, ma con specifico riferimento ad una deliberazione della commissione. Sul punto il collaboratore ha riferito quanto segue:

P.M. - Sì. Lei ha fatto cenno più volte a questo rapporto intimo che c'era fra lei ed il Riccobono. Le chiedo se lei è mai venuto a conoscenza di affari, di argomenti che venivano trattati in commissione.

MUTOLO - Guardi, se io prima che mi... io vengo arrestato già sapevo che il dottore... il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa doveva essere ucciso, che Pio La Torre doveva essere ucciso. In quel periodo anche il dottor Chinnici doveva essere ucciso, perchè... e me lo dice il Riccobono, perchè in quel periodo quello che guarda, diciamo, i movimenti del dottor Chinnici è un certo Lino Spatola, il capofamiglia . di Cardillo - Tommaso Natale. Quindi Riccobono non è che aveva con me segreti ... mi raccontò che, quando è morto Stefano Bontate, lui si salvò perchè l'indomani mattina andò da Michele Greco, insieme a Micalizzi Salvatore, per dire: "Ma cosa sta succedendo?", perchè lui non sapeva niente. …Dopo ci raccontò, e infatti abbiamo commentato la cosa un pochettino negativamente, quando Salvatore Riina avvicina di nuovo a Riccobono insieme a Gambino Giacomo Giuseppe e le parla male di Michele Greco. Io sono libero, insomma, e Riccobono non ha voluto a nessuno presente; quindi facevano qualche cosa strettamente personale, però ci ha detto che già Riina incominciava a parlare male di Michele Greco. Michele Greco, essendo capomandame... cioè coordinatore, dicendo che lui usciva ogni tanto a andare a salutare gli amici, invece altri non si muovevano, perchè avevano preoccupazioni che qualcuno poteva tirare qualche scopettata, qualche cosa.

P.M. - Quando il Riccobono le fa presente che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa dev'essere ucciso, gliene parla come un fatto così o come una decisione che lui ha appreso o che è stata adottata in seno alla commissione?

MUTOLO - No, no, come... come un fatto che già era stata presa in commissione.

P.M. - Lei ha fatto un analogo esempio con riferimento alla morte del dottore Chinnici. Questa stessa domanda... questa stessa risposta vale anche per il dottore Chinnici?

MUTOLO - Sì, sì, io ci dico che già nel 1982 - no nell'83, nell'82 - il dottor Chinnici si è salvato, non so per quale motivo, insomma; perchè non è, insomma, perchè la mafia magari guarda che deve uccidere a una persona, può nascere un contrattempo e... e viene rimandato, cioè non... però già dal millenovece... da giugno, ma anche di maggio, di aprile, del 1982 il dottor Chinnici era sotto, diciamo, la minaccia di essere ucciso, perchè già si sapeva che stava, diciamo... voleva cambiare l'andamento che c'era al Tribunale di... di Palermo e forse, secondo... secondo me, si è ritardato un anno, perchè dopo con l'incalzare del Giudice Falcone, che ha messo a fare processi, che c'erano eh, eh, cioè un pe... per un qualche periodo la figura di questo Giudice Chinnici magari è stata un pochettino accantonata, perchè avevano altro da fare. Però già io ci parlo del 1982, il dottor Chinnici si sapeva che voleva reinserire, va bene, quel concetto dell'associazione mafiosa che fa - purtroppo bisogna anche comprendere, va bene - tanta paura ai mafiosi, perchè logicamente hanno sempre il fianco scoperto, perchè un discorso è che imputano un omicidio o un'estorsione, un... qualsiasi cosa, un discorso è che tutti assieme fanno un mandato di cattura per associazione a delinquere e quindi questo è stato sempre il cruccio dei mafiosi, che  per un certo periodo avevano ottenuto questa tranquillitudine al Tribunale di Palermo.

P.M. - Io su questo argomento, appunto, vorrei... questo argomento lo affronterò ora organicamente. Non ho però compreso il tenore della sua risposta, con riferimento alla mia domanda se, così come lei ha detto per la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu la commissione a deliberare la morte del dottore Chinnici, se lei lo apprese da Riccobono in questi termini o se lo apprese viceversa...

MUTOLO - Sissignore, sì. Già la commissione aveva... anzi, Riccobono mi disse, quando avevano deciso di uccidere al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dice: "Vediamo chi prende il suo posto". Quindi... cioè era già un discorso non personale del Riccobono, cioè perchè Riccobono e nessun altro capomandamento poteva prendere, diciamo, una decisione del genere; c'era una commissione per deliberare alcuni omicidi, in cui sicuramente... logicamente erano abituati male i signori mafiosi, che c'era la contropartita dello Stato, ma per due mesi, per tre mesi, cioè quattro chiacchiere nei giornali, cioè non... non c'era stata mai una decisione dello Stato per veramente... ad affrontare il fenomeno. Comunque, .. anche quel piccolo contrattempo loro però volevano essere tranquilli che nessuno poteva dire: "Per Michele Greco la colpa è..."; no, era commissione in cui era tutta, diciamo... tutti i mafiosi, perchè la commissione rappresentava tutta la mafia che c'era a Palermo.

Ulteriore conferma della collegialità della decisione è fornita dalle confidenze che il Mutolo ricevette dal Madonia Francesco nel giugno 1982 e dal coinvolgimento nella fase preparatoria del figlio di quest’ultimo, Antonino, all'epoca sostituto del padre, che, come riferito dal Brusca, si era recato con questi a Salemi per verificare lo stato dei luoghi. Lo stesso Brusca, come già ricordato, ha riferito di essersi recato in quel paese anche con Pino Greco "scarpa", del mandamento di Ciaculli. Non può essere sottaciuto che la partecipazione del Riccobono alla deliberazione costituisce una significativa conferma del rispetto delle regole da parte del Riina, ove si consideri che il primo faceva parte di una fazione con la quale intercorrevano rapporti conflittuali e che qualche mese dopo sarebbe stato addirittura eliminato, ciò che depone univocamente per la operatività ed il rispetto del principio della collegialità anche in un periodo storico contrassegnato da un clima di minore compattezza ed unitarietà strategica in seno al massimo organo deliberativo dell’organizzazione. L’istruttoria dibattimentale non ha offerto elementi probatori certi in ordine alle ragioni che indussero “cosa nostra” a differire l’esecuzione del progetto omicidiario nei confronti del giudice Chinnici. Può solo fondatamente ipotizzarsi l’esigenza di privilegiare obiettivi ritenuti prioritari sia sul fronte interno - in relazione ai nuovi assetti che stavano già profilandosi e che imponevano una accelerazione del processo di eliminazione degli ultimi più autorevoli esponenti della fazione avversa – sia su quello esterno dello scontro con lo Stato. È noto, infatti, che la venuta a Palermo del generale Dalla Chiesa, in qualità di prefetto, preceduta da un'autentica campagna pubblicitaria per la popolarità del personaggio, reduce dalla vittoria sul terrorismo brigatista, fu affrettata in conseguenza del clamoroso omicidio dell'onorevole Pio La Torre, commesso con modalità terroristiche, in un periodo in cui i fatti di sangue si susseguivano con frequenza impressionante. Detta nomina avrebbe potuto colpire positivamente l'opinione pubblica, apparendo come una svolta decisiva del Governo nella lotta alla criminalità mafiosa, malgrado i limiti istituzionali di una prefettura non fossero adeguati ai peculiari significati che erano stati attribuiti a quella nomina e rischiassero, anzi, di farli apparire velleitari. E tuttavia, con il suo grande prestigio e con la sua energica personalità, il generale Dalla Chiesa aveva subito scosso l'ambiente ed era venuto al centro dell'attenzione, costituendo, già solo per questo, un grave pericolo per la criminalità mafiosa e potendo, peraltro rendersi ancora più pericoloso in un prossimo futuro, allorchè gli fossero stati conferiti quei poteri di coordinamento e direzione da lui richiesti. Come risulta dalle sentenze in atti, mentre il nuovo prefetto muoveva i primi passi e suscitava preoccupazioni negli ambienti criminali, nel c.d. "triangolo della morte" (Bagheria-Casteldaccia-Altavilla) era scoppiata una violentissima faida, con una lunga serie di omicidi, attribuibili, come poi si sarebbe appreso, alla cosca di Corso dei Mille, capeggiata da Filippo Marchese; in particolare, fra il 3 ed il 7 agosto 1982 erano state uccise 10 persone. Il 10 agosto al Giornale di Sicilia era pervenuta una telefonata anonima del seguente tenore: "siamo l'equipe dei killers del triangolo della morte; l'operazione da noi chiamata "Carlo Alberto", in omaggio al prefetto, con l'operazione di stamani l'abbiamo quasi conclusa, dico quasi conclusa. Se non pubblicate questo messaggio, uno di voi morirà". Il 4 settembre, giorno successivo alla uccisione del prefetto, alla redazione palermitana del giornale "La Sicilia" un'altra telefonata aggiungeva: "L'operazione Carlo Alberto si è conclusa". I giudici di merito (cfr.C.Ass.App. sent. Bruno +14, in sede di rinvio da Cass. N.80/92) e la S.C. che ne ha confermato le statuizioni, non hanno mancato di sottolineare l'importanza delle due telefonate, anzitutto perchè esse rendevano evidente che la strage di via Carini era stata ideata ed organizzata quanto meno nei primi di agosto 1982; e, soprattutto, per la preordinata intenzione da parte degli anonimi di farsi riconoscere come ideatori dell'unica strategia attestata dalla connessione logica e lessicale dei due comunicati, il primo tendente a lasciare aperto e proiettato per l'avvenire il messaggio implicito; l'ultimo, chiaramente costituente la dimostrazione della serietà della prima sfida. In dette sentenze, inoltre, è stato poi puntualmente rilevato "che in quel momento le cosche vincenti avevano sostanzialmente riaffermato il loro predominio incondizionato, avendo drasticamente allontanato gli intrusi o gli scomodi e soppresso i responsabili del fallito "blitz" dell'anno precedente; e che, se una strategia poteva ulteriormente profilarsi nella loro prospettiva, strategia nella quale collocare l'operazione Dalla Chiesa, questa non poteva essere motivata che dall'esigenza di sottolineare, con tracotante dimostrazione di forza, il traguardo di potere raggiunto, ovvero da quella di paralizzare un grave pericolo incombente e rappresentato dal nuovo prefetto”. Appare, pertanto, verosimile presumere un momentaneo accantonamento del progetto omicidiario nei confronti del consigliere Chinnici a causa dell’impegno operativo dell’attentato al prefetto Dalla Chiesa e del preminente interesse di darvi immediata attuazione con priorità rispetto ad altri disegni criminosi che, sebbene altrettanto rilevanti sotto il profilo strategico, tuttavia apparivano forse connotati, in quel preciso momento storico, da una minore valenza “politica” rispetto al significato intimidatorio e di tracotante sfida alle istituzioni immediatamente percepibile da parte dell’opinione pubblica e dello Stato nell’uccisione del generale, se posto in relazione con l’immediatezza dell’eccidio rispetto all’invio in Sicilia del prefetto ed al suo arrivo, con una settimana di anticipo rispetto al previsto, proprio il giorno dopo l’uccisione del parlamentare comunista. Probabilmente la strage del Generale Dalla Chiesa aveva sconsigliato ulteriori avvenimenti eclatanti, ma è altrettanto verosimile che la necessità di porre fine al più presto alle ostilità interne, con la previa eliminazione degli ultimi più autorevoli esponenti della fazione avversa - Rosario Riccobono e Salvatore Scaglione – possa avere consigliato il rinvio dell'esecuzione. Non può peraltro essere sottaciuto che la successiva strage di via Pipitone Federico segnò, coerentemente, un’ulteriore “escalation” terroristica nel quadro di quella strategia di tracotante e spavaldo attacco frontale allo stato. Nel periodo compreso tra la fine del mese di dicembre 1982 e gli inizi del 1983, la definitiva eliminazione degli avversari e la ricostituzione di quei mandamenti fino ad allora non direttamente controllati dalla fazione filocorleonese, segnarono l’inizio di una nuova stagione per “cosa nostra” caratterizzata da una omogeneità di posizioni ed unità di intenti attorno alle figure più carismatiche, il Riina ed il Provenzano, le cui strategie non trovavano più ostacoli in commissione, senza che ciò facesse venire meno, per le ragioni sopra esposte, l’interesse al rispetto formale della collegialità delle decisioni per gli omicidi c.d. strategici o eccellenti, sussistendo per contro l’interesse opposto ad evitare l’insorgere di dissensi o rilievi critici che avrebbero potuto incrinare il loro potere egemonico. La deliberazione omicidiaria della commissione nei confronti del dr. Chinnici era stata già adottata nel 1982, ma secondo le concordi indicazioni fornite dai collaboratori esaminati, la commissione, nella sua nuova composizione, doveva essere nuovamente posta nelle condizioni di confermare quella condanna a morte, almeno per quanto riguardava i nuovi capimandamento e cioè Ganci Raffaele, Buscemi Salvatore e Gambino Giuseppe Giacomo. Sul punto appare opportuno riportare le seguenti dichiarazioni rese dai collaboratori. CANCEMI, all’udienza del 7/5/1999 ha riferito quanto segue:

P.M. - E le volevo fare un'altra domanda: nel caso in cui la commissione avesse deliberato la morte di una persona importante, uno degli omicidi che erano di competenza della commissione, e nel frattempo fosse cambiato l'organigramma di "Cosa Nostra", nel senso che nel frattempo erano stati nominati altri capimandamento, nuovi capimandamento, magari perchè quelli precedenti erano deceduti, cosa faceva Riina? La decisione già presa la metteva in atto o doveva in ogni caso portare a conoscenza dei nuovi capimandamento questa decisione?

CANCEMI - Ma lui faceva tutte e due cose, la metteva in atto e contemporaneamente informava, diciamo, ... se c'era qualche cosa, come ha detto lei, a quello nuovo.

P.M. - Ecco, io vorrei capire se il capo nuovo doveva semplicemente prendere atto di una decisione già presa o doveva esprimere anche lui il suo consenso, il suo parere.

CANCEMI - Ma, guardi, allora qua sempre ripetiamo le stesse cose. Attenzione, quando Riina ha formato i nuovi mandamenti e ci ha messo persone di fiducia sue nei vari mandamenti non aveva problemi Riina, Riina aveva problemi che manteneva la forma che ci... ci diceva le cose e tutto era per come diceva lui, non c'era nessuno che si opponeva e diceva: "No, 'sta cosa non si deve fare". Quindi la cosa funzionava così, perchè quelle erano persone sue, erano... Riina era uno e Riina erano tanti.

L’ANZELMO (cfr. ud. 8/3/1999) ha dichiarato:

P.M. - Secondo la sua esperienza in "Cosa Nostra" e secondo le regole di "Cosa Nostra", se fosse stata adottata una riunione negli anni precedenti, una deliberazione di uccidere il dottore Chinnici negli anni precedenti e nel frattempo fossero cambiati i capimandamento o ne fossero stati... fossero stati ricostituiti alcuni mandamenti, i nuovi capimandamento dovevano essere messi a conoscenza della deliberazione?

ANZELMO - Certo che dovevano essere messi a conoscenza. Lo potevano essere messi a conoscenza, per dire, solo informativamente, per dire; se ormai era stato deciso questo e si doveva fare questa operazione potevano essere messi a conoscenza, per dire, addirittura di farci partecipare a qualcuno della sua famiglia, per dire. Mi segue quello che voglio dire?

P.M. - Sì. No, ma io volevo capire questo: se il nuovo capomandamento non fosse stato consenziente cosa sarebbe successo?

ANZELMO - E che doveva succedere? Io non la so questa situazione perchè non mi ci sono trovato, ma...[…].

Il MUTOLO (ud. 23/4/1999) ha riferito:

P.M. - Le devo anche chiedere, sulla base di quelle che sono state le sue risposte, se. cioè le devo porgere questa domanda: lei ha parlato che dopo... di avere sentito dell'ordine da parte di "Cosa Nostra" di uccidere il dottore Chinnici ancora prima del suo arresto del giugno dell'82. Lei poi, successivamente, ha detto che, dopo la morte di Rosario Scaglione. di Rosario Riccobono e di Salvatore Scaglione, furono creati due nuovi capimandamento, indicandoli in Gambino Giacomo Giuseppe ed in Raffaele Ganci. Secondo le regole di "Cosa Nostra"...

MUTOLO - Sissignore.

P.M. - Secondo le regole di "Cosa Nostra", questi due capimandamento nuovi, nel caso in cui la deliberazione fosse stata allontanata nel tempo, come nella specie avvenne per la morte del dottore Chinnici, che avvenne nel luglio dell'83, dovevano essere messi a conoscenza di questa decisione della commissione di uccidere il dottore Chinnici?

MUTOLO - Certamente sì.

P.M. - Perchè dice così?

MUTOLO - Ma, a parte che... a parte che però questi personaggi sapevano cinquanta volte più le cose che sapevo io della commissione, cioè non... ma, diciamo, già loro, facendo segretamente già parte, diciamo, della commissione, dopo ufficialmente logicamente sapevano tutto.

Il DI CARLO sul punto ha dichiarato quanto segue (cfr. ud. 15/2/1999):

P.M. - Vorrei chiederle un'altra cosa: nel caso in cui la commissione provinciale di "Cosa Nostra" si riunisca per deliberare un omicidio eccellente e se successivamente si modifichi in qualche modo l'organigramma, nel senso che nel frattempo vengano creati nuovi mandamenti o viene nominato un nuovo capomandamento  perchè magari quello precedente è morto, cosa succede in "Cosa Nostra"? Questa deliberazione che è stata presa rimane ferma o deve essere adottata una nuova deliberazione?

DI CARLO - Ma come le dicevo prima, questa commissione si riunisce spesso e volentieri, una volta à simana, ogni quindici giorni massimo. Se sono passati anni e si è cambiata nella commissione, appena si riuniscono che debbono farli, che sono preparati che fra tre mesi - quattro mesi si deve fare, dici: "Noi quando c'era ancora il... Tizio o il tuo capomandamento antico, prima che morisse, avevamo preso questa attenzione; adesso ci sono due - tre nuovi, abbiamo preso questo. Che ne pensate?" "Ma per noi altri pure va bene". Però non è che non si ci dice niente perchè passa il discorso di prima, il contratto, chiamiamolo contratto di prima. C'è la nuova commissione, se ne riparla: "Stiamo vedendo di eliminare Tizio. L'avevamo già pensato, adesso mi sembra che abbiamo possibilità, perchè fa questa strada, non è più scortato, non è più con le macchine blindate". Dipende il soggetto. Oppure: "Non ha più quella carica, adesso se n'è andato in pensione, se n'è andato in villeggiatura".

P.M. - Quindi, sostanzialmente...

DI CARLO - E i nuovi lo sanno in questo modo.

P.M. - Sostanzialmente, ci vuole... è necessario acquisire il consenso da parte del capomandamento o basta l'informazione del nuovo capomandamento?

DI CARLO - Mah, dipende, perchè per quello che io ho saputo dopo che non si potevano... hanno cercato di modificare un pò, nel senso che invece di riunirsi come una volta, che c'erano un sacco di persone, per evitare ci mandava pure due... due capimandamenti ad informare tutti, per vedere se erano d'accordo invece di riunirsi tutti. Va bene? Ma lo sanno, deve dare il consenso o no, deve essere informato. Allora che capomandamento è?

Il Brusca (ud. 1/3/1999) ha fornito le seguenti risposte:

P.M. - Le volevo fare un'ultima domanda in merito all'argomento regole di "Cosa Nostra". Volevo capire una cosa: se tra il momento in cui viene presa una decisione, per esempio per un fatto di competenza della commissione, e il momento in cui poi quella decisione viene eseguita passa, per qualsiasi ragione, un pò di tempo e subentrano dei nuovi capimandamento, cambia la composizione della commissione, per quella che è la sua conoscenza ed esperienza, i nuovi capimandamento vengono consultati, vengono messi al corrente della decisione già presa?

BRUSCA - Vengono messi a conoscenza di una decisione già presa. Per esempio, capita che si deve mettere in atto il fatto esecutivo di quella operazione, vengono messi a conoscenza i nuovi capimandamento, o perchè devono partecipare o perchè vengono messi a conoscenza di quello che si deve fare e... e in quell'occasione poi può dire... può dire sì, può dire no. Se è no va... viene, gli viene detto: "Vai dal tuo capomandamento e ti vai a informare", cioè quindi viene messo a co... viene messo a conoscenza per la persona nuova che prende il posto di una cosa decisa molto tempo prima, perchè una volta decisa non si può più tornare indietro, tranne che deve spiegare il motivo per cui non si deve tornare indietro, cioè, si deve... si deve tornare indietro o non si deve fare più quel... quel fatto criminoso, dipende che cosa sia.”

Ad avviso della corte, a prescindere dalle concordi dichiarazioni rese dai collaboratori in ordine alla necessità “ordinamentale” di porre i nuovi capimandamento nelle condizioni di essere informati ed esprimere il parere su una deliberazione già adottata da una commissione in diversa composizione, è da ritenere che, nel caso di specie, anche il mutato contesto storico rispetto alla originaria deliberazione, soprattutto dopo l’omicidio del prefetto dalla Chiesa, e le nuove modalità esecutive dell’attentato, che frattanto aveva assunto connotati più spiccatamente terroristici, imponevano l’opportunità di rivisitare la questione, coinvolgendo anche i nuovi soggetti frattanto cooptati nel massimo organo deliberativo dell’organizzazione, atteso che anche le devastanti implicazioni dell’uso, per la prima volta, di una potente carica esplosiva in una pubblica via, non potevano non costituire un valido motivo di confronto dialettico per le gravi conseguenze di cui erano foriere sul piano della reazione degli apparati repressivi della Stato. Ma in realtà l’istruzione dibattimentale ha offerto indicazioni probatorie nel senso che la riunione fu indetta e che tutti i capimandamento vennero resi edotti della situazione. Il Cancemi infatti ha riferito di due riunioni "allargate", quasi plenarie - una tenutasi a contrada Dammusi, l'altra a Piano dell'Occhio, in immobili nella disponibilità di Brusca Bernardo - nel corso delle quali la commissione provinciale, avrebbe confermato la deliberazione omicidiaria. Le riunioni di cui il Cancemi era venuto a conoscenza, per avervi accompagnato il proprio capomandamento Giuseppe Calò, si sarebbero svolte a pochi giorni di distanza l'una dall'altra "in periodo in cui c'era caldo ed ancora non erano chiuse le scuole"; quella tenutasi in contrada Dammusi si era svolta in una casa del Brusca, nei pressi di un capannone dove erano custodite macchine agricole, si era protratta per più di due ore ed erano presenti: il Calò, il Riina, Greco Michele, Geraci Nenè, Buscemi Salvatore, Pippo Gambino, Madonia Francesco accompagnato dal figlio Antonino, Motisi Matteo accompagnato da Nino Rotolo, Ganci Raffaele ed Intile Francesco. Il collaboratore ha precisato di non avere appreso subito dopo quell'incontro quale fosse stato l'argomento oggetto di discussione; tuttavia dopo la strage, traendo spunto da "mezze battute" del Ganci Raffaele e del Calò – i quali aveva espresso apprezzamenti poco lusinghieri nei confronti del magistrato – aveva collegato quei commenti alla riunione, inferendone che la stessa aveva riguardato l’omicidio del consigliere istruttore Chinnici. Appare opportuno riportare integralmente le dichiarazioni rese sul punto dal collaboratore (cfr.ud. 3/5/1999):

[…] P.M. - Dico, ma lei nel corso dell'esame che si è svolto tre giorni fa c'ha detto che la riunione di San Giuseppe Jato era una riunione collegata all'omicidio, alla morte del dottore Chinnici, perchè lei ha ciò appreso dopo la strage.

Io vorrei chiederle questo: questo suo ricordo di questo collegamento è un ricordo che lei ha avuto nel momento in cui io le ho formulato questa domanda? L'aveva mai ricordato prima?

CANCEMI - No, io non l'avevo mai ricordato, questo l'ho ricordato, diciamo, ripeto, come ho detto prima, ho scavato in questi giorni nei miei ricordi, se io ricordavo altre cose per... per dirle, diciamo, e ho ricordato che c'è stata quest'altra riunione a Piano dell'Occhio.

P.M. - Sì, ma la mia domanda si riferiva anche alla prima riunione, cioè al collegamento della prima riunione con la strage Chinnici. Io le chiedevo se questo è stato pure un suo ricordo di questi giorni.

CANCEMI - Sì, è stato un mio ricordo di questi giorni di quello che è successo. Io... i discorsi che io ho saputo dopo sono stati con queste due riunioni, sicuramente, perchè ... Calò non me l'ha detto quello che hanno discusso nè là e nè là, però poi quelle cose che mi ha detto sia Calò sia Ganci e sia Pippo Gambino sono della strage Chinnici, non c'è dubbio che c'erano state queste due riunioni per questo motivo, con assoluta certezza.

P.M. - Senta, signor Cancemi, ci sono altri ricordi che lei vuole ora dire alla Corte che le sono venuti in questi giorni, cioè qualche altro elemento particolare prima che io chiuda l'esame, che vuole riferire? Cioè, c'è qualche altra cosa che...?

CANCEMI - No, in questo momento non ho nessun ricordo, diciamo. Mi sono concentrato dopo questo esame di ricordare in quel periodo, perchè in quel periodo, diciamo, c'è stata pure che Calò passava della mia macelleria in via Tasca Lanza e lui mi diceva che aveva... aveva riunione a Ciaculli, sempre pure in quel periodi, e si riunivano a Ciaculli nella tenuta di Michele Greco. Questo, diciamo, pure succedeva pure in quel periodo.

P.M. - Volevo farle un'ultima domanda. Questa riunione a Piano dell'Occhio si è svolta di mattina o di pomeriggio?

CANCEMI - Ma mi ricordo che è stata nel primo... nel primo pomeriggio, ho questi ricordi.

P.M. - Lei ricorda quanto è durata? Se riesce a fare mente locale. CANCEMI - Ma credo un paio d'ore, così, un paio d'ore.”

Con riferimento al ruolo di accompagnatore del Calò svolto dal Cancemi va rilevato che ciò si era verificato più volte in quanto il capo mandamento di Porta Nuova risiedeva a Roma ma spesso, in concomitanza con impegni di particolare importanza della commissione, faceva rientro a Palermo per parteciparvi personalmente e veniva accompagnato alle riunioni dal Cancemi, circostanza riscontrata attraverso le dichiarazioni di altri collaboratori, tra i quali Anzelmo, Ganci e Di Carlo. Appare opportuno rilevare che nella prima elencazione dei capimandamento presenti alla riunione in contrada Dammusi, il Cancemi ha menzionato anche Stefano Bontate: si tratta con assoluta evidenza di un mero lapsus del collaboratore, giustificato dalla stanchezza più volte manifestata ed evidenziata attraverso richieste di sospensione dell'esame nel corso di quell'udienza. Ed infatti, subito dopo il P.M. aveva formulato diverse domande dirette a reiterare e specificare i nomi dei partecipanti ed il Cancemi ha reiterato tutti i nomi ad eccezione del Bontate. Ne costituisce conferma la circostanza che nel corso dell'esame svoltosi all’udienza successiva, allorchè il Cancemi ha precisato che alla riunione di Piano dell'Occhio erano presenti le stesse persone già individuate in Contrada Dammusi, non ha fatto menzione del Bontate. E che si sia trattato di un evidente errore lo si rileva dalla lettura dello stesso verbale del 3/5/1999 quando il Cancemi ha riferito della sorte del mandamento della Guadagna dopo l'uccisione di Stefano Bontate e degli altri omicidi dei suoi più fidati amici, collocando temporalmente gli episodi ai quali era seguita la formazione della nuova commissione, anche questa collocata con assoluta certezza tra la fine del 1982 e gli inizi del 1983. Non disconosce la Corte che il ritardo con cui il Cancemi ha riferito della seconda riunione e del collegamento deduttivo che lo stesso ha fatto tra le riunioni stesse ed i commenti di alcuni uomini d’onore subito dopo la strage nei confronti del magistrato ucciso può suscitare qualche perplessità. Ciò peraltro ha costituito oggetto di specifica contestazione nel corso del controesame da parte della difesa, di cui appare opportuno riportare testualmente alcuni brani, non senza aver prima fatto rilevare come le giustificazioni addotte dal collaboratore in ordine alle ragioni dell’iniziale silenzio sul punto appaiano plausibili e che non costituisce necessariamente indice di inattendibilità di una chiamata in reità la circostanza che la stessa si attui in progressione e che si arricchisca nel tempo, anche sulla scorta di collegamenti postumi di ordine logico tra accadimenti, inizialmente non valorizzati perché non connotati da particolari specificità che ne consentano una immediata correlazione con altri fatti. […] Tanto premesso sull’evoluzione del contributo probatorio fornito dal collaboratore in esame in ordine alla strage di via Pipitone Federico, la Corte rileva che il ritardo con cui il Cancemi ha riferito della seconda riunione non costituisce necessariamente indice di inattendibilità, atteso che la chiamata in reità ben può attuarsi in progressione ed arricchirsi nel tempo, tanto più quando, come nel caso di specie, il propalante non sia stato protagonista di specifici episodi direttamente correlati alla fase deliberativa o esecutiva dell’attentato – nel qual caso l’iniziale assunto di non conoscere alcunchè di quel grave evento non si sottrarrebbe a rilievi e fondate riserve in punto di attendibilità – ma si sia limitato ad accompagnare il capomandamento, Calò Giuseppe, a riunioni della commissione, attività del tutto abituale in relazione al ruolo di sostituto rivestito a quell’epoca e, peraltro, senza parteciparvi o comunque conoscerne l’oggetto. Appare pertanto del tutto plausibile che solo in occasione di un più approfondito esame dibattimentale sullo specifico “thema probandum” ed in un contesto espositivo concernente le riunioni della commissione e le modalità delle stesse, il collaboratore abbia ricordato e spontaneamente riferito un fatto sulla scorta di collegamenti postumi di ordine logico tra accadimenti (le frequenti riunioni), inizialmente non valorizzati perché non connotati da particolari specificità che ne consentissero una immediata correlazione con altri fatti, resa per contro possibile dal collegamento deduttivo tra le riunioni tenutesi in quel periodo ed i commenti di alcuni uomini d’onore nei confronti del magistrato ucciso subito dopo la strage. Alla stregua delle considerazioni che precedono, non si è in presenza di un iniziale sospetto silenzio su fatti e circostanze specifici e di un tardivo ricordo, non altrimenti spiegabile se non con una deliberata scelta di compiacere gli inquirenti ovvero di “protagonismo collaborativo”, bensì di una postuma contestualizzazione e correlazione di eventi, perfettamente compatibile con l’iniziale assunto di non essere in grado di riferire alcunchè sulla strage (cfr. interr. 26/3/1997al P.M.: "No, non sono a conoscenza di particolari in ordine a quella strage. Del resto, all'epoca dei fatti, non ero ancora neppure reggente  del mandamento in quanto Pippo Calò era libero e pienamente operativo”). Né possono trarsi argomenti a favore della tesi del mendacio in ordine all’effettivo svolgimento di quella riunione dalla circostanza che il Brusca Giovanni non ne abbia riferito, atteso che questi all'epoca non conosceva - come lui stesso ha dichiarato - quale fosse l'oggetto di discussione delle singole riunioni, anche perchè proprio in quel periodo il padre Bernardo era libero e nel pieno esercizio del suo ruolo direttivo nel mandamento di San Giuseppe Jato. Va peraltro rilevato che il ricordo del Cancemi sulla presenza di Brusca Giovanni in occasione della prima riunione tenutasi in contrada Dammusi non è stato così deciso e netto, avendo, per contro, manifestato incertezza sul punto, così come in relazione alla presenza di altri soggetti, mentre nei confronti di altri capimandamento intervenuti non ha evidenziato alcun dubbio. Lo stesso Brusca, peraltro, non ha escluso che vi siano state riunioni “allargate” aggiungendo di non averne ricordo, anche se ha più volte ribadito che in contrada Dammusi aveva visto diverse volte numerosi capimandamento. Non può inoltre essere sottaciuto che il Brusca all'epoca era un semplice uomo d'onore, anche se già fortemente in ascesa, ed è verosimile che il padre non gli comunicasse l’oggetto della discussione nel corso delle riunioni. Ne costituisce conferma il rilievo che il predetto collaboratore ha dimostrato di essere a conoscenza, riferendone, dei fatti di cui era stato protagonista in prima persona ( per es. i collegamenti con i  cugini Salvo), mentre di altri episodi ha riferito nei limiti in cui vi era stato direttamente coinvolto. È appena il caso di ricordare che il Brusca ha dichiarato di avere avuto conferma del rispetto della regola della collegialità delle deliberazioni della commissione attraverso la constatazione del coinvolgimento di più mandamenti nelle fasi esecutive, ancorchè non direttamente interessati all’esecuzione del delitto, e non già attraverso le confidenze del padre. Alla stregua delle considerazioni che precedono può fondatamente ritenersi che le riunioni di cui ha riferito il Cancemi abbiano avuto luogo sotto forma di riunioni “allargate” in relazione alla particolare affidabilità e sicurezza dei luoghi prescelti e che i capimandamento non presenti siano stati coinvolti con le modalità già riferite nel corso delle c.d. riunioni a gruppetti. Significativa appare, comunque, la circostanza che in quelle riunioni fossero presenti proprio i tre nuovi capimandamento Buscemi Salvatore, Ganci Raffaele e Gambino Giuseppe Giacomo. Strettamente legate al tema dell’attendibilità del Cancemi sono le domande poste dalla difesa in sede di controesame al fine di incrinarne l’affidabilità intrinseca, sia con riferimento alla tardività con la quale – solo nel maggio 1999 - ha riferito delle due riunioni, sia con riferimento alla mancata tempestiva ammissione di responsabilità in ordine a delitti commessi, solo dopo che altri collaboratori di giustizia lo avevano chiamato in causa. Sulla tardività delle dichiarazioni fornite sulla strage per cui è processo sono già state integralmente riportate le giustificazioni fornite dal collaboratore nel corso dell’udienza in data 7/5/1999, sulla cui plausibilità si rinvia alle considerazioni sopra svolte in ordine alla ragioni per le quali la Corte ritiene che quel ritardo non sia suscettibile di essere valorizzato come indice univocamente sintomatico di scarsa attendibilità. Quanto all’omicidio di tale Caccamo, delitto in ordine al quale, secondo la difesa, il Cancemi avrebbe ammesso tardivamente il proprio coinvolgimento, va rilevato che la sentenza di primo grado che ha condannato il collaboratore alla pena dell’ergastolo – come lo stesso ha ammesso – non era ancora divenuta definitiva al momento dell’esame del predetto nel corso del presente dibattimento, e pertanto la Corte ritiene di non poter inferire da quella statuizione di merito alcuna valutazione, non essendone nota la motivazione, così come non si conosce quella posta a fondamento della sentenza di appello che, secondo quanto dedotto dal p.m., avrebbe riconosciuto al Cancemi la sopeciale attenuante prevista dall’art.8 L.203/91, riducendo la pena inflitta in primo grado, non avendo peraltro la corte ammesso la produzione del dispositivo della sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo richiesta dal P.M...Nel corso del controesame la difesa ha rivolto al Cancemi specifiche domande sull’omicidio di tale Giuseppe Marchese per dimostrare come il collaboratore avesse inizialmente negato la propria responsabilità, ammettendo tardivamente il proprio coinvolgimento a seguito della chiamata in reità di altro collaboratore di giustizia, tale Scrima, fonte referente di confidenze ricevute dallo stesso Cancemi.[…] L’attendibilità del Cancemi è stata messa in dubbio anche in relazione al ritardo con il quale il predetto ha chiamato in correità Galliano Antonino, poi divenuto collaboratore, in ordine alla strage di Capaci...Sul punto, tuttavia, la corte ha acquisito il verbale dell’interrogatorio reso in data 28/6/1996 dal quale emerge che le relative dichiarazioni sono state rese pressochè spontaneamente senza alcuna specifica contestazione, essendo stato chiesto al Cancemi se conoscesse il Galliano e se costui avesse avuto un ruolo nella strage di Capaci (“ Ora che le SS.LL mi ricordano il nominativo di questo soggetto, mi sovviene che costui…..”). La circostanza che il Cancemi non avesse, prima dell’inizio della collaborazione del Ganci, fatto menzione del coinvolgimento del Galliano nella strage di Capaci, può ben spiegarsi, invero, come una mera lacuna mnemonica, come dallo stesso ammesso e come dimostra l’atteggiamento da lui tenuto, a fronte della richiesta di riferire in ordine al ruolo svolto da quel correo (“pedinare l’autovettura in dotazione al dr.Falcone”- cfr.verb.cit.), poi divenuto collaboratore. E peraltro, il fatto che anche altri collaboratori, che pur hanno confessato la propria partecipazione alla strage, non abbiano fatto menzione del Galliano depone inequivocabilmente per l’attendibilità delle dichiarazioni del Ganci e del Cancemi in ordine alla peculiarità del ruolo svolto dal primo, rendendone plausibile la non conoscenza da parte di altri coinvolti in fasi diverse dello stesso fatto criminoso. Ciò, inoltre, costituisce conferma di una regola vigente all’interno della struttura di “cosa nostra”, quella della ferrea “compartimentazione” dei ruoli di ciascuno dei partecipanti a un disegno criminoso, ancora più marcata, nel caso della strage di Capaci, attesa l’importanza e la rilevanza dell’attentato da perpetrare. Sul piano dell’attendibilità intrinseca va osservato che l’apporto probatorio fornito dal Cancemi nel corso della sua collaborazione si è rivelato assai significativo, atteso che il suo patrimonio conoscitivo è connotato da una particolare ricchezza di informazioni anche in considerazione del ruolo rivestito in seno alla famiglia ed al mandamento di Porta Nuova, di cui è stato il reggente dal 1985 dopo l’arresto di Calò Giuseppe, nonchè per la particolare vicinanza a Riina Salvatore. Il Cancemi ha fornito un quadro ricostruttivo completo degli organigrammi di “cosa nostra”, della composizione dei mandamenti e della commissione provinciale di Palermo. Ha in particolare confermato quanto già sopra evidenziato alla luce delle acquisizioni processuali ed in particolare gli stretti rapporti esistenti tra il Riina, il Ganci Raffaele, il Gambino Giuseppe Giacomo, Biondino Salvatore, reggente la famiglia di San Lorenzo, ed il Madonia Francesco, i cui figli Giuseppe e Salvatore erano, rispettivamente, compare di anello e “figlioccio” di affiliazione del Riina. Alla luce delle dichiarazioni rese dal Cancemi reputa il Collegio che non può dubitarsi della di lui attendibilità intrinseca non solo per le ragioni sottese al processo interiore di revisione critica di precedenti scelte di vita che lo ha indotto a collaborare (22/7/1993) con l'autorità giudiziaria, costituendosi spontaneamente già alcuni mesi prima del coinvolgimento processuale nella strage di Capaci, ma anche in considerazione del fatto che con la proprie dichiarazioni il Cancemi ha certamente aggravato la propria posizione processuale in ordine all'anzidetto episodio criminoso, fornendo agli inquirenti una notevole mole di informazioni che hanno arricchito in modo significativo il quadro probatorio delineatosi fino a quel momento alla luce delle precedenti dichiarazioni del Di Matteo, pur dovendosi riconoscere che il collaboratore ha assunto un atteggiamento riduttivo rispetto al ruolo svolto nella vicenda, fornendo tuttavia un quadro ricostruttivo dell'attentato dal quale emerge comunque una sua partecipazione penalmente rilevante. Sebbene la collaborazione del Cancemi sia stata qualificata, come lui stesso ha ammesso, da un lento processo di maturazione che lo ha portato ad ammettere con ritardo il proprio coinvolgimento nella strage di via D’Amelio, tuttavia il collaboratore ha fornito plausibili giustificazioni in ordine alle remore ed alle difficoltà di operare una scelta così difficile per le conseguenze che ne sarebbero derivate.

[…] Tanto premesso, le motivazioni che avevano indotto il Cancemi a collaborare con la giustizia vanno concretamente individuate in quelle stesse più volte ribadite fin dall'inizio dallo stesso, e cioè in una sopravvenuta non condivisione, maturata gradualmente, dei principi e delle strategie criminali di "Cosa Nostra". Né può essere sottaciuto che il Cancemi nel corso dei primi interrogatori resi all’autorità giudiziaria di Palermo ha confessato la propria responsabilità anche in relazione all'omicidio dell'europarlamentare Salvo Lima, delitto in ordine al quale l'ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti, quale mandante, era stata annullata dalla Corte di Cassazione. Nella valutazione  dell’attendibilità intrinseca  del  Cancemi  non  può non  tenersi  conto  del  fatto  che  le  remore  che  ne  hanno inizialmente connotato e condizionato la disponibilità collaborativa vanno poste in relazione con il ruolo di rilievo assunto negli ultimi tempi in seno ad uno dei mandamenti più importanti di “cosa nostra” di cui, a partire dall'85, era stato il responsabile, mantenendo per conto dell'organizzazione una fitta rete di contatti e connivenze - tra l'altro per “aggiustare” i processi e riciclare i proventi illeciti dell’associazione – e mantenendo assidui rapporti con i personaggi di maggiore spicco del sodalizio al punto da mettere a disposizione i luoghi dove il Riina organizzava gli appuntamenti più delicati e le riunioni della commissione. Le innegabili iniziali reticenze e le remore che ne hanno certamente contraddistinto il tormentato percorro collaborativo non hanno tuttavia mai assunto i connotati della falsità e della calunniosità delle dichiarazioni. Alla stregua delle superiori emergenze processuali, reputa la Corte che il contributo probatorio fornito nel presente dibattimento dal Cancemi possa essere accreditato di attendibilità, avuto riguardo anche alla plausibilità delle giustificazioni dallo stesso addotte in ordine al ritardo che ne ha contraddistinto le dichiarazioni rese sulle riunioni ed alle considerazioni sopra svolte circa i fondati motivi di un collegamento postumo operato dal collaboratore tra accadimenti caduti sotto la sua percezione in quel periodo storico. La collocazione delle due riunioni riferite dal Cancemi, rispettivamente, nel periodo maggio-giugno 1983 (“c’era caldo e le scuole non erano ancora chiuse”) e “verso la fine di giugno dell’83”, pur con l’inevitabile approssimazione temporale derivante dagli anni trascorsi da quell’evento, coincide significativamente con i periodi riferiti da uno dei principali protagonisti della fase preparatoria ed esecutiva della strage, il Brusca, il quale ha fornito preziose indicazioni temporali in ordine alla ripresa operativa del progetto criminoso - inizialmente sospeso nel settembre-ottobre 1982 - collocata “nel maggio (1983), comunque 15-20 giorni prima”, senza essere tuttavia in grado di fornire date precise (“ non glielo so dire con precisione comunque un pò di tempo prima”), allorchè gli venne affidato l’incarico dal Riina o dal padre di reperire un vetro blindato per effettuare sullo stesso una prova  di sfondamento, precisando che trascorsi alcuni giorni il progetto criminoso aveva subito delle modifiche nelle modalità esecutive (ff.23- 24, ud.2/3) e si era cominciato a parlare di auto-bomba. La significativa coincidenza delle indicazioni temporali fornite da soggetti che in relazione alla strage non hanno avuto alcun collegamento operativo costituisce un reciproco riscontro che corrobora l’attendibilità delle rispettive dichiarazioni. Ma ad avviso della Corte la necessità di una nuova informativa, in ossequio alla natura collegiale dell’atto deliberativo della commissione, sia in relazione alla ripresa esecutiva di un progetto temporaneamente sospeso, sia in relazione alla frattanto mutata composizione della commissione, sia, infine, in relazione alle nuove modalità esecutive, di spiccati caratteri terroristici, costituisce un imponente riscontro di ordine logico alla fondatezza della tesi che quel primo attentato commesso con una devastante carica esplosiva collocata in una pubblica via, non potesse sfuggire alla necessità o quantomeno al riconoscimento della grave opportunità di assicurarsi preventivamente un vasto e compatto schieramento dell’organismo di vertice, atteso l’impatto sull’opinione pubblica, fornendo in tal modo un altrettanto significativo riscontro logico, assolutamente convincente, alla storicità di quelle riunioni riferite dal Cancemi ed alla ragionevolezza di una loro riconducibilità alla strage per cui è processo, avuto riguardo alla significativa contiguità temporale con l’evoluzione della fase preparatoria riferita dal Brusca.

·         Le Ricorrenze. Liturgia ed Ipocrisia.

Strage di Capaci, Mattarella ai giovani: “Raccogliete il testimone di Falcone e Borsellino”. Redazione su Il Riformista il 23 Maggio 2020. “I mafiosi, nel progettare l’assassinio dei due magistrati, non avevano previsto un aspetto decisivo: quel che avrebbe provocato nella società. Nella loro mentalità criminale, non avevano previsto che l’insegnamento di Falcone e di Borsellino, il loro esempio, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell’affetto delle tante persone oneste“. Nel giorno del 28° anniversario della strage di Capaci, in cui perse la vita il giudice Giovanni Falcone, il presidente della Repubblica parla ai giovani coinvolti nel progetto la Nave della legalità, quest’anno solo virtuale a causa dell’emergenza coronavirus. “La mafia si è sempre nutrita di complicità e di paura, prosperando nell’ombra – ha spiegato il Capo dello Stato -. Le figure di Falcone e Borsellino, come di tanti altri servitori dello Stato caduti nella lotta al crimine organizzato, hanno fatto crescere nella società il senso del dovere e dell’impegno per contrastare la mafia e per far luce sulle sue tenebre, infondendo coraggio, suscitando rigetto e indignazione, provocando volontà di giustizia e di legalità”. Una volontà che ha animato la vita di tanti ragazzi venuti dopo di loro: “I giovani sono stati tra i primi a comprendere il senso del sacrificio di Falcone e di Borsellino, e ne sono divenuti i depositari, in qualche modo anche gli eredi. Dal 1992, anno dopo anno, nuove generazioni di giovani si avvicinano a queste figure esemplari e si appassionano alla loro opera e alla dedizione alla giustizia che hanno manifestato”. “Cari ragazzi – ha concluso il Presidente Mattarella – il significato della vostra partecipazione, in questa giornata, è il passaggio a voi del loro testimone. Siate fieri del loro esempio e ricordatelo sempre“. Di Matteo: "Tanti ostacoli e ipocriti ma non si ferma la verità". Anche Giovanni Falcone, ricorda il magistrato, "diventò facile bersaglio di ipocriti perbenisti. Molti di loro oggi fingono di onorare da morto quel giudice che, da vivo, insultavano e deridevano"

Non nominate Falcone invano. Ieri era l'anniversario della strage di Capaci, in cui 28 anni fa persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta. Alessandro Sallusti, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Ieri era l'anniversario della strage di Capaci, in cui 28 anni fa persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta. Mai come quest'anno le celebrazioni del giudice-eroe stridono con la realtà di una giustizia infettata e ipocrita. Il velo che si sta alzando sul complotto dei magistrati per incastrare ingiustamente Matteo Salvini sul caso sbarchi di clandestini («ingiustamente» lo dicono proprio loro, in conversazioni che dovevano restare riservate) la dice lunga sulla giustizia a fini politici e quindi anche sul trattamento ricevuto in questi anni da Silvio Berlusconi. Oggi la magistratura dovrebbe tenersi ben alla larga dalla figura di Falcone e di Borsellino, che della rettitudine morale e professionale avevano fatto la loro ragione di vita. Certi magistrati che oggi commemorano Falcone, sono simili a quei preti pedofili che dal pulpito invocano la Madonna pensando così di farla franca. E quei giornalisti che da anni li assecondano, dando loro credibilità, dovrebbero astenersi per pudore dallo scrivere anche solo per sbaglio il nome di Falcone, che da certi giochini sporchi se ne stava ben alla larga e anche per questo fu ucciso. Il nemico di Falcone, ancora prima della mafia, fu la politica e non pochi suoi colleghi che - grazie anche a una stampa asservita alla peggio magistratura - lo lasciarono solo, per invidia e perché scomodo. E anche oggi, come allora, in Italia sono in molti, troppi, a versare lacrime di coccodrillo a favore di telecamere. Ma più degli ipocriti e dei farabutti, ci fa specie l'omertà dei molti magistrati che le mani non se le sono mai sporcate. Com'è possibile non avere un moto di pubblica ribellione dopo avere appreso che importanti e famosi colleghi perseguitano Matteo Salvini per esclusive ragioni politiche? Com'è possibile il loro silenzio davanti, per gli stessi motivi, all'evidente persecuzione giudiziaria nei confronti di Silvio Berlusconi? In altri campi, tutto ciò configurerebbe il reato di concorso esterno in associazione a delinquere, con l'aggravante di attentato agli organi dello Stato. I magistrati onesti ci sembrano come quei commercianti in balia del pizzo mafioso: tacciono per paura, nel loro caso la paura di non fare carriera. E in tutto questo Mattarella, garante della Costituzione e capo del Csm dov'è? Nulla ha da dire agli italiani? Se questa cricca di magistrati e giornalisti deviati è riuscita a intimorire anche il presidente della Repubblica, non siamo messi bene. Mi auguro di no, ma servono fatti e parole, non silenzi.

Cosa non dimentico di Giovanni Falcone. Il ricordo di Vincenzo Scotti. Vincenzo Scotti su formiche.net il 23/05/2020. In occasione del 28esimo anniversario della strage di Capaci, Scotti ripercorre gli ultimi sedici mesi trascorsi insieme a Falcone che cambiarono il suo approccio e la sua partecipazione alla politica, alla società e alla stessa religione cattolica. Erano passate più di dodici ore dalla strage di Capaci e i corpi di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti di scorta entravano nel Palazzo di Giustizia. Ero con Claudio Martelli e Gerardo Chiaromonte. Eravamo arrivati in una Palermo avvolta da una cappa di afa e con un silenzio insolito, interrotto solo dalle sirene delle forze dell’ordine. Erano ormai ore che l’Italia si era fermata: incredula, smarrita, indignata. Dinanzi alla bara di Falcone continuavo a pensare alle ore che avevamo trascorso insieme, durante gli ultimi sedici mesi, per attuare una strategia di guerra contro la mafia. L’avevamo concepita con Claudio Martelli e i vertici delle forze dell’ordine. Qualche mese prima di incontrarlo a Roma, avevo partecipato con lui a una tavola rotonda sui processi alla mafia. Eravamo seduti vicino e più volte il discorso tornava alla mafia non come normale criminalità ma come forza capace di riconfigurare gli Stati. Non pensavo assolutamente che un giorno sarei diventato ministro dell’Interno: mi interessava però studiare la mafia come forza anti-sistema. In quegli anni la Suprema Corte di Cassazione si era espressa per l’inesistenza del fenomeno: al massimo si poteva pensare a una mafia antica e rurale, ritenuta buona, in grado di assicurare la conservazione di un equilibrio sociale della povertà, garantito da regole spietate e gestite dal potere di una cupola che esercitava un potere benevolo e giusto, anche se violento. La connivenza mafia-istituzioni trovava conferma documentata nella relazione del presidente della Commissione antimafia, il genovese Francesco Cattanei, che, parlando della mafia come fenomeno ben esteso rispetto ai suoi confini storici, presentò un complesso di elementi rappresentativi “dell’esistenza di una effettiva convivenza, oltre che connivenza, con la mafia non solo di ampie aree della società ma delle stesse Istituzioni pubbliche, comprensive della magistratura, dei partiti e degli enti locali. le ripetute assoluzioni confermano – indipendentemente da ogni altra valutazione dell’opera della magistratura – l’impressione di una permanente impunità per i grossi mafiosi, attraverso un meccanismo che sfuggiva al controllo della legge”. L’alba cominciava a illuminare le bare e io continuavo a sentire forte la presenza di Falcone in quei sedici mesi che cambiarono il mio approccio e la mia partecipazione alla politica, alla società e alla stessa religione cattolica. Mentre ci incontravamo per la prima volta al ministero, usciva nelle librerie il suo saggio scritto con Marcelle Padovani, che tracciava una strada da percorrere partendo dalla scelta della guerra contro la pax mafiosa. Lessi più volte il saggio: volevo capire cosa fare. Falcone aveva concluso il grande sforzo del maxi-processo remando contro il mondo della giurisdizione, dell’avvocatura. E della politica. Era consapevole che senza smettere di far ricorso a leggi speciali ed emergenziali non avremmo messo la guerra alla mafia su istituzioni adeguate e permanenti che non lasciassero nell’incertezza dell’emergenza quello che lui aveva fatto con il maxi-processo. Falcone aveva lanciato un messaggio e così riassumeva la zona grigia della convivenza tra istituzioni e mafia: “La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere connessi a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro nessuna garanzia di successo immediato, ha compreso che, a breve, aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. Ed ha preteso di fronteggiare un fenomeno di tale gravità con i pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno della società civile. I politici si sono preoccupati di votare leggi di emergenza e di creare Istituzioni speciali che, sulla carta, avrebbero dovuto imprimere slancio alla lotta antimafia, ma che, in pratica, si sono risolte in una delega delle responsabilità proprie del governo a una struttura dotata di mezzi inadeguati e privi di poteri di coordinare l’azione anticrimine, il famoso commissario contro la mafia, creato sull’onda dell’emozione suscitata dall’assassinio del generale Dalla Chiesa, ne è l’esempio evidente. Senza fare attenzione a quello che accadeva intorno a noi quella notte, compresi i fischi dei magistrati contro il ministero Martelli ed evidentemente anche contro di me, mi ricordai di una cena nello scantinato di una buona e modesta trattoria, Mario in via della Vite a Roma, quando tracciammo una strategia politico-legislativa che andava dalla nascita della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Investigativa Antimafia, una intelligence sulla criminalità, alla prima legge sui collaboratori di giustizia, alle legge sul riciclaggio (quando non ne esisteva alcuna), alla legislazione sulle infiltrazioni mafiose nelle istituzione (scioglimento di consigli comunali) e al Decreto legge dell’8 giugno dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio. Tutti questi provvedimenti furono adottati dal governo ma trovarono la più feroce ostilità che costrinse a dover cambiare alcune innovazioni significative che decidemmo, fin quando Falcone fu vivo, di tentare di introdurre. Lo scontro maggiore avvenne con il Decreto Legge dell’8 giugno 1992 quando io ero stato già allontanato dal ministero dell’Interno. A conclusione di quella cena la cosa più importante fu di proporre al Parlamento, ai partiti politici e alle forze sociali di dichiarare guerra alla mafia e di chiamare tutti ad una mobilitazione. Da una parte proponemmo alle istituzioni (a partire dal presidente Cossiga e dai presidenti delle Camere) di realizzare annualmente un incontro sulla legalità; al primo, anche l’ultimo, intervenne il papa Giovanni Paolo II e fu presente Falcone. In quell’alba e nel viaggio di ritorno a Roma fui preso da una grande angoscia ricordando gli attacchi e gli improperi ricevuti in Parlamento quando avevamo dichiarato – con il Capo della Polizia – lo stato di emergenza, accusandomi di protagonismo inutile e di superficialità perché avevo annunciato la fase stragista che avrebbe, per primo, colpito proprio Falcone. Dopo l’uccisione di Lima, alla commissione antimafia, eravamo lontani dalla strage di Capaci, avevo detto che eravamo di fronte ad una guerra lunga e difficile ma rispetto alla quale non erano “possibili scelte alternative, a meno che non ci si volesse accontentare di un clima di tranquillità e di normalità, quello cioè che la pax mafiosa rendeva possibile, con l’acquiescenza degli organi dello Stato… Se la democrazia italiana vuole salvarsi da un condizionamento crescente della criminalità, allora dobbiamo essere pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato anche da fatti estremamente preoccupanti”. E conclusi: “La pericolosità è diventata quindi maggiore nel momento che la criminalità organizzata, vista l’impossibilità di avvalersi dei metodi tradizionali, ricorre alle tecniche terroristiche come avviene sempre più di frequente”. L’aereo quella mattina atterrò a Roma Ciampino ma non eravamo riusciti a parlare tra noi, con Chiaromonte e Martelli; ed io avevo continuato a pensare alla seduta delle commissioni riunite di Camera e Senato, quando avevo dichiarato lo stato di allerta. Il Presidente della Commissione al Senato mi aveva invitato a chiedere scusa al Paese per aver dato un falso allarme (una patacca) nel pieno di una campagna elettorale. Arrivando al Viminale mi riunii con i miei più stretti collaboratori e continuammo a chiederci se la strada della guerra e dei provvedimenti (non ultimo il riportare in carcere tutti i condannati all’ergastolo rimessi in libertà per decorrenza dei termini dimostrando che lo Stato era più forte della mafia) fosse quella giusta o se, invece, una pax mafiosa avrebbe potuto portare a migliori risultati. La nostra posizione era ferma, soprattutto in vista della formazione del nuovo governo. Il giornalista D’Avanzo scrisse: “Il ministro ha confessato: sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà più in alto, tanto più in alto quanto più efficace diventerà l’azione dello Stato”. E d’Avanzo commenta: “La strana coppia, Scotti-Martelli, ha trovato una sintonia a ideare, promuovere e organizzare una politica antimafia che ha rotto con la vecchia tradizione governativa delle leggi dell’emergenza, degli organismi eccezionali, dell’inasprimento puro e semplice delle pene… La strana coppia si è avvalsa dell’esperienza dei consigli di Giovanni Falcone!”. Io direi oggi una stagione straordinaria, che tuttavia fu piena di ostacoli e di amarezze. Una cosa non posso dimenticare. Dopo l’istituzione della Procura nazionale Antimafia si doveva nominare il primo procuratore; mi permisi allora di scrivere una lettera al Consiglio Superiore della Magistratura per sottolineare l’importanza della scelta, specie dopo alcune mutilazioni del testo legislativo e, per questo, nella mia responsabilità di ministro dell’Interno suggerii il nome di Giovanni Falcone. Dopo pochi giorni la commissione votò contro Falcone e durante una cena con Falcone e i membri eletti dal Parlamento su indicazione del gruppo Democratico-Cristiano avemmo la certezza che solo uno di questi membri aveva deciso di votare per Falcone. Uscimmo da quell’albergo e vidi sul volto di Falcone una terribile amarezza perché al gruppo degli eletti dal Parlamento – contrari alla nomina di Falcone – su indicazione del Pds si aggiungeva quello della Dc. Falcone, successivamente, dovette anche difendersi di fronte al Consiglio Superiore della Magistratura dall’accusa di tenere nel cassetto dossier riguardanti collusioni di mafia! Dopo il maxi-processo l’unico momento di soddisfazione fu quando con Martelli riuscimmo a far approvare un Decreto Legge per far tornare in carcere i condannati all’ergastolo ed evitare a Falcone un colpo duro da parte della Mafia. Il 28 giugno del 1992 sentii alla televisione che non ero più ministro dell’Interno e nessuno sapeva se era vero e perché. Oggi, 23 maggio, mi sento di suggerire al procuratore Nazionale Antimafia di sviluppare un progetto di ricerca sulla legislazione di quei due anni e sulla sua applicazione, coinvolgendo le migliori intelligenze dei giuristi italiani e anche di studiosi di altre discipline per affrontare non solo le questioni allora lasciate aperte ma anche le nuove questioni esplose con l’era digitale e nel mondo globale. Il pericolo principale, oggi, non è forse più rappresentato dalle stragi ma dalla riconfigurazione degli Stati da parte della criminalità organizzata ora anche transnazionale.

23 maggio, il giorno del silenzio. Gian J. Morici e Redazione lavalledeitempli.net il 23 maggio 2020. Cosa c’è di più vero che non ci sia più sordo di chi non vuol sentire, di più cieco di chi non vuol vedere e di più muto di chi non vuol parlare? 23 maggio, il giorno della strage di Capaci. Il giorno in cui persero la vita il Giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Il giorno in cui il tritolo dilaniava la speranza della Sicilia di liberarsi dalla mafia. Ad annientare definitivamente quella speranza, sarebbe seguito l’attentato al Giudice Paolo Borsellino. Il 23 maggio purtroppo non è un giorno di silenzio, è un giorno di retorica, di passerelle, di mille ipocrisie, di migliaia di parole inutili, ma, soprattutto, è il giorno dell’omertà. Non è solo il silenzio che uccide come uccide la mafia. Anche le parole uccidono, quelle parole che da 28 anni ci tengono lontani dalla verità sulle stragi del ’92. Quel tritolo si portò via anche la nostra capacità di ragionare, di capire. Si portò via il nostro coraggio, la nostra dignità. Oggi, dovremo soltanto vergognarci. Dovremmo chiedere scusa a Falcone, a Borsellino, a chi morì con loro e a tutti quegli uomini delle Istituzioni caduti per difendere il nostro diritto a essere Uomini. Da quei giorni in poi, più o meno consapevolmente, siamo diventati complici di quanti non hanno voluto, o non hanno saputo, cercare la verità. Abbiamo seguito come pecore i vessilli di un’antimafia parolaia, un’antimafia carrierista, un’antimafia ora collusa, ora imbecille. Ci hanno propinato incredibili pentiti, li hanno posti su altari costruiti con il sangue e ingiuste condanne. E noi lì, ad applaudire, a osannare chi rispondeva a logiche che nulla avevano a che vedere con le parole Giustizia e Verità. Siamo andati dietro a falsi pentiti come Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Calogero Pulci, Vincenzo Calcara e altri. Abbiamo ascoltato, letto e scritto di un “papello” che era la chiave delle stragi. Nessuno ha chiesto scusa per aver dato credito a chi depistava le indagini. Nessuno ha chiesto scusa per aver portato in giro fenomeni da baraccone che ci tenevano lontani dalla verità. Nessuno ha chiesto scusa per le ingiuste condanne. Nessuno ha chiesto scusa a chi è morto, a Falcone e a Borsellino. Ci gloriamo nel commemorarli, glorificando noi stessi, autori del peggior delitto, quello di chi per facili carriere o per palcoscenici di visibilità, ha tradito anche la loro morte seppellendola sotto un cumulo di menzogne. Che Paolo Borsellino fosse convinto che Falcone fosse stato ucciso per l’inchiesta condotta dal Ros su mafia e appalti, è ormai sotto gli occhi (chiusi) di tutti noi. Che la stessa inchiesta fosse stata affossata dalla Procura di Palermo, ce lo dicono le carte. Eppure, ancora oggi, ci ostiniamo ad affermare che ad accelerare la strage di via D’Amelio fu la cosiddetta “trattativa Stato-mafia” rispetto la quale il Giudice Borsellino sarebbe stato contrario. La famosa trattativa condotta dagli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Una presunta trattativa della quale il magistrato Liliana Ferraro il 23 giugno avrebbe informato Borsellino, soltanto in occasione del loro casuale incontro  all’aeroporto di Fiumicino. Se fosse stata vera, se avesse dato un peso alla circostanza, la magistrato che fu amica di Falcone e che lo stesso volle quale vicecapo della segreteria della Direzione generale dell’Organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia, non si sarebbe premurata ad avvisare subito Paolo Borsellino? Se Borsellino fosse stato contrariato da questa presunta trattativa, due giorni dopo esserne venuto a conoscenza, avrebbe incontrato Mori e De Donno, in segreto, presso  la caserma Carini, per chiedere la loro disponibilità a riprendere l’indagine mafia-appalti sotto la sua direzione? Avrebbe chiesto, invano, all’allora procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, che venisse a lui affidata? Borsellino voleva gli assassini di Falcone ed era più che mai convinto che mafia-appalti fosse la pista da seguire. Diffidava dei suoi colleghi della Procura e nonostante – stando alle dichiarazioni della Ferraro – fosse stato informato della presunta trattativa, si fidava soltanto dei due ufficiali che con Falcone avevano condotto quelle indagini. Sono trascorsi 28 anni dalla strage di Capaci e quelle indagini, immediatamente archiviate dopo la morte di Borsellino, sono state sepolte con i due giudici. Siamo andati dietro i vari Scarantino e i “papelli”, dietro fantomatiche “entità”, stigmatizzate dallo stesso Giovanni Falcone. Ci hanno portati lontani da quel Matteo Messina Denaro che nel ’91 a Castelvetrano organizzava le stragi, di cui soltanto con il processo a suo carico a Caltanissetta adesso sappiamo il ruolo e lo spessore. Non ci siamo chiesti perché Borsellino diffidasse dei suoi colleghi. Non ci siamo chiesti se e quali magistrati avessero, direttamente o indirettamente, interessi in quel mondo imprenditoriale legato alla mafia di Vito Ciancimino. Neppure le associazioni antimafia, ad esclusione recentemente di qualche rappresentante di familiari di vittime di mafia, hanno avuto, né hanno, il coraggio di dire ripartiamo dalle intuizioni e gli insegnamenti di Falcone e Borsellino.

Oggi, dovrebbe essere soltanto il giorno della vergogna, della nostra vergogna. Un giorno di silenzio al quale dovrebbe far seguito l’urlo di quanti realmente vogliono venga squarciato il velo di omertà che ha  accompagnato questi 28 anni.

Chiediamo scusa a Falcone e Borsellino…

 Falcone e Borsellino, due eroi celebrati da morti e abbandonati da vivi. Michela Carlo su Affari Italiani Sabato, 23 maggio 2020. 1992 e 2020. Due anni, apparentemente così lontani, che hanno tanto in comune. In entrambi, ci sono state tragedie causate da un “nemico invisibile”. In entrambi, ci sono stati degli italiani “eroi”, i quali, pur in modo diverso, hanno fatto prevalere l’impegno civile e l’etica del dovere sulla paura di morire. In entrambi, ancora, c’è stato (e c’è) uno spirito collettivo di rabbia, frustrazione, ma allo stesso tempo di voglia di “rialzarsi”. Il virus della mafia, a dire il vero, è circolato con forza per decenni e, talvolta in forma più “sottile”, circola ancora. Tutti sanno (o dovrebbero sapere) che il 23 maggio 1992, alcuni sicari incaricati dai massimi capi di Cosa Nostra, fecero esplodere 1000 kg di tritolo lungo il tratto autostradale A29, in prossimità di Capaci, uccidendo il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie (Francesca Morvillo, anche lei magistrato) e i giovanissimi della sua scorta. A quello sconvolgente pomeriggio, seguì, 57 giorni dopo, l’attentato di via D’Amelio (il 19 luglio 1992), nel quale furono uccise altre 6 persone, tra le quali Paolo Borsellino. A loro e agli altri giudici del “pool antimafia”, si deve il più grande processo alla criminalità organizzata mai tenuto in Italia: 475 imputati in primo grado, 200 avvocati difensori, 19 ergastoli e pene per un totale di 2665 anni di reclusione. Cosa nostra fu finalmente resa vulnerabile proprio con la Giustizia, un’ipotesi impensabile prima di allora. Eppure, la storia di Falcone è il paradigma di uno Stato che prima “scaglia la pietra” e poi erige un’ipocrita statua alla vittima. Infatti, prima di morire, il Magistrato siciliano fu protagonista della lunga “stagione dei veleni”. Fu oggetto di una vergognosa serie di “voltafaccia” e critiche, specie istituzionali: fatto più significativo, Falcone fu “scartato” tra i candidati da votare per la nuova carica all’interno del CSM. Questo evento lasciò diffondere l’idea che le istituzioni non erano poi così pronte a gratificare il suo operato. Ancora, Falcone venne accusato falsamente di aver concesso che un “pentito” tornasse in Sicilia per commettere nuovi omicidi; venne addirittura accusato di essersi auto-organizzato un attentato, volutamente fatto fallire per poi trarne benefici politici. Per non parlare dell’accusa dell’allora Sindaco di Palermo “di aver tenuto carte importanti in un cassetto”. Innumerevoli altre calunnie e persino accuse di protagonismo mediatico. Il vergognoso paradosso, tutto italiano, è che dalla sua morte, immediatamente, Giovanni Falcone tornò a essere l’eroe, per chi lo aveva abbandonato in vita e avrebbe dovuto e potuto proteggerlo. Negli anni a seguire, l’anniversario della più grande strage di mafia in Europa è diventato anche la giornata nazionale della legalità. E’ importante, senza dubbio, commemorare tutti coloro che sono morti per l’idea di contrastare la mafia e aver agito di conseguenza. Per celebrare senza ipocrisia Giovanni Falcone, però, bisogna rispettare la memoria e la verità della sua storia. La memoria, come ha dichiarato nei giorni scorsi il magistrato Di Matteo, è ricordare che Falcone, prima di essere ammazzato dai mafiosi, fu delegittimato, calunniato, mortificato e lasciato solo dalla magistratura. Ma anche dal Consiglio superiore e dalle istituzioni in generale, sia per patologica invidia, sia per poter proseguire i giochi di potere. La verità, invece, è quella che è stata incessantemente perseguita dal pool antimafia di Falcone, Borsellino, Chinnici e altri, e che è effettivamente emersa nello sviluppo dei processi che hanno poi portato a centinaia di condanne per mafia. Parafrasando la famosa citazione di Falcone, è fondamentale far camminare le idee degli uomini sulle gambe. Tramutare il dire in fare. Ma oggi, riusciamo davvero a farlo? Riusciamo a farci guidare da questo principio nel nostro operato quotidiano? L’attuale Governo, per esempio, oltre a improvvisarsi aspirante (e vuoto) romanziere legislativo, ai livelli della “recherche du temps perdu”, sta riuscendo ad aiutare in concreto i milioni di italiani piegati dalla crisi economico-sociale? Pare di no. Anzi, direi, categoricamente, proprio no. Eppure, alcune scelte governative sembrano più facili di altre. Come quella di “autorizzare” la scarcerazione di centinaia di mafiosi. La giustificazione, al di là di quelle che possono essere state le pressioni causate dalle rivolte, pare sia stata, da una parte, il nesso causale tra carcere e contagio; dall’altra, la relazione approvata dalla commissione antimafia sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, in precedenza dichiarato incostituzionale. Per farla breve, per via del coronavirus, è stato giusto concedere il beneficio del permesso premio, anche ai condannati per mafia, purché abbiano mostrato un grado di “rieducazione”? E’ stato giusto preoccuparsi subito di aggiornare la legge sull’ordinamento penitenziario, agevolando, in piena pandemia, i detenuti mafiosi, che così si sono sentiti nuovamente forti di aver avuto la meglio sulla giustizia? Se Giovanni Falcone potesse vederci oggi, non avrebbe certo “bonafede” nei suoi concittadini del futuro, specie quelli più “autorevoli”.

Wlady Pantaleone il 22 maggio 2020 su Agi. È' il magistrato più blindato d'Italia. Sotto scorta da 27 anni, da dieci al massimo livello previsto. Nino Di Matteo, palermitano, oggi al Consiglio superiore della magistratura, pm di lungo corso che si occupa, da sempre, di indagini di mafia. Prima a Caltanissetta ha indagato e sostenuto l'accusa nei processi sulla strage di via D'Amelio (24 ergastoli), sull'omicidio del giudice Antonino Saetta (3 ergastoli); ha riaperto le indagini sulla strage Chinnici (ottenendo 16 ergastoli) e si è occupato di molte delle principali inchieste sia a Palermo - con il 'pool Stato-mafia' - sia alla Procura nazionale antimafia. Ventotto anni fa la strage di Capaci. Quel 23 maggio 1992 rappresentò nella vita di Nino Di Matteo "un vero e proprio spartiacque", dice all'AGI: "Avevo vinto da poco il concorso, stavo facendo il tirocinio alla procura di Palermo, in attesa di prendere servizio in quella di Caltanissetta. Fui colto da un sentimento di irrefrenabile angoscia e disorientamento. Giovanni Falcone per me, giovane studente che sognava di potere fare un giorno il magistrato, aveva rappresentato il modello di riferimento. Il simbolo della voglia di riscatto della mia terra e del mio popolo".  Aggiunge Di Matteo: "La sera del 23 maggio, mentre piangevo non avrei mai immaginato che, solo dopo pochi anni, mi sarei trovato a indagare e a sostenere l'accusa nei processi sulle stragi del 1992. E di continuare ad approfondire, fino a oggi, i contesti non solo mafiosi in cui maturarono quegli attentati". Oggi vive una vita blindata. "Da 27 anni - spiega ancora il magistrato, con determinazione, ma anche con evidente amarezza - sono scortato, da dieci con il massimo livello di protezione. Non posso e non voglio ricordare ad altri quante ansie, quanti sacrifici e quante rinunce questa situazione abbia comportato a me e alla mia famiglia. In questo Paese molti non capirebbero, altri fingerebbero di non capire". Anche Giovanni Falcone, ricorda Di Matteo, "diventò facile bersaglio di ipocriti perbenisti che lamentavano il fastidio che le misure di protezione di cui godeva il giudice arrecavano agli 'onesti cittadini'. Molti di loro oggi fingono di onorare da morto quel giudice che, da vivo, insultavano e deridevano". In un anno così particolare, per tante ragioni, come vive questo momento della memoria Nino Di Matteo? "Non mi piacciono - risponde - le sterili commemorazioni retoriche. C'è bisogno di un rispetto che si nutre soltanto di memoria e verità". La memoria di chi non dimentica, "come Giovanni Falcone, prima di essere ucciso a Capaci, venne ripetutamente ostacolato, isolato, delegittimato, anche da una parte importante delle istituzioni e della magistratura. La verità - conclude - è quella che, ancora oggi, dobbiamo coltivare e perseguire per dare un volto a chi, insieme ai mafiosi che sono stati individuati e condannati nei processi, ha probabilmente concepito, organizzato ed eseguito la strage".

Giovanni e Francesca, la sfida di un amore in trincea. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 da Roberto Saviano su La Repubblica.it Falcone e la moglie, magistrata mai subalterna, 28 anni fa saltarono in aria sull’autostrada di Capaci uccisi da Cosa nostra. Vicini, intimi fino alla fine. C'è una foto che ho conosciuto di recente, ritrae Giovanni Falcone e Francesca Morvillo al mare. I visi abbronzati, sembrano sereni; hanno gli occhi chiusi, le teste poggiate l’una all’altra: sembra un momento di pace. Osservo la foto e penso: come hanno fatto a sottrarsi, anche solo per un attimo, all’angoscia di una vita di pressioni, minacce, delegittimazione e scorta? Come hanno fatto a chiudere gli occhi e ad abbandonarsi al sole? Francesca Morvillo è l’unica magistrato donna a essere stata assassinata nella storia d’Italia. Difficile misurare il peso della sua influenza nelle scelte non solo di Falcone, ma di tutto il pool antimafia di Palermo che in quegli anni frequentava. Francesca era giudice del Tribunale di Agrigento e poi sostituto procuratore a Palermo presso il Tribunale per i minorenni. Sapeva cosa stava accadendo ecco perché – in questo caso e sempre – il racconto della donna “costola” dell’uomo, ancella nella solitudine, sostegno nella difficoltà non mi ha mai convinto. La loro relazione non si alimentava di subalternità; il carburante era un progetto professionale, anche metafisico-romantico, quello di poter trasformare il Paese con lo strumento del Diritto. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo erano uniti dalla malta di questo smisurato sogno. Puoi condividere la vita con un uomo ossessionato dalle letture di atti giudiziari se non li ami anche tu? Puoi essere, a tua volta, amata da un uomo quando passi gran parte del tempo a studiare, analizzare, sottolineare con il lapis e a pranzo e cena parli di codici e procedure e, persino quando scherzi, citi vicende processuali? L’adagio degli opposti che si attraggono è suggestiva, ma in realtà gli amori calamita finiscono per funzionale male, per tollerarsi, al più comprendersi. Qui invece si era dalla stessa parte: cosa meravigliosa e soprattutto rara. E io continuo a domandarmi: come hanno fatto a resistere? Mi è sempre interessato l’intimo delle persone che ho deciso di scegliere come guida; l’intimo, non il privato: esiste una grande differenza. L’intimo è lo spazio dove ci si muove al riparo dal pubblico, è li che maturano le scelte cruciali, che si ritrova il dolore più profondo, l’allegria incontrollata. Osservare l’intimo è seguire il percorso delle scelte, delle ragioni; l’intimo è il luogo dove tutto è maturato prima di accadere. L’intimo, quello spazio in cui come scrive Pannella «si vuol essere onesti ed essere davvero capiti». E l’intimo si oppone al privato che invece è lo spiare dalla serratura, scovare il dettaglio scabroso, ficcare il naso. Al privato sono interessati i dossieratori, i ricattatori, all’intimo chi vuole conoscere i sentimenti primi. La vita quotidiana di Francesca e Giovanni era fatta di assedi, di continui attacchi, di tentativi di boicottare la loro serenità. Interviste contro, colleghi che attaccavano per invidia fingendo di dare sostanza critica alle loro accuse: ma come facevano a tenere i nervi saldi? A non urlarsi contro solo per sfogo? A non dubitare l’uno dell’altro? Da sempre mi chiedo come sia possibile amare in condizioni disumane, eppure succede, ci si ama. Nel 1978 Falcone approda a Palermo, il suo primo matrimonio è a pezzi e chissà quanta responsabilità in questo epilogo hanno contato le tensioni che ha vissuto a Trapani. A Palermo viene chiamato da Rocco Chinnici, arrivato per prendere l’eredità del giudice Cesare Terranova ammazzato da Cosa nostra, passa all’Ufficio istruzione della sezione penale. Nello stesso anno incontra Francesca Morvillo durante una cena a Salemi. Da qualche parte ricordo di aver letto che Francesca Morvillo si accorge del corteggiamento perché Falcone non smette di volerla far ridere, si prende cura del suo umore, la vede malinconica vuole trasformare la mutria per giornate pesanti in sorriso. Nel 1980 riceve la scorta che non perderà mai più. Ma bastavano a Francesca e Giovanni i pochi attimi di libertà per sentire i loro corpi? A Roma capitava che riuscissero a fare brevi sortite senza scorta, così come all’estero – a New York, in Grecia – non avevano alcuna protezione. E in quei momenti come agivano?

Riuscivano a sentirsi in qualche modo leggeri, quasi in vacanza? O avevano disagio perché quello ormai non andava più via? Ma come, vi chiederete, proprio in Usa dove c’era Cosa nostra o in Grecia o a Roma di notte (a volte andavano al cinema non protetti, lo sapevano anche i mafiosi mandati nella capitale ad osservare) erano senza scorta? È così, perché le mafie quando uccidono lo fanno in maniera simbolica e a casa loro. Un omicidio a migliaia di chilometri di distanza perde valore. Non scuote il territorio, non lo terrorizza con il tritolo, non ci sono testimoni che possono riferire. Ma come si può, mi domando, condurre una vita normale quando si è osservati e giudicati da tutti? E non fate l’errore di credere che fossero osservati con devozione, con ammirazione, tutt’altro. Erano addirittura stati invitati ad allontanarsi dalla città perché le scorte disturbavano la quiete pubblica. Sull’amore tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone ho sempre e solo congetturato, se potessi descrivere come, nella mia fantasia, tocco le loro figure quando le immagino insieme, dovrei citare l’ovatta. Ho persino fastidio di chi li chiama Francesca e Giovanni, diritto che acquisisce solo chi li ha conosciuti in vita, e in vita ne ha condiviso il bene. Si sposano otto anni dopo il loro primo incontro. Ottengono i divorzi, ma per anni su di loro grava il pettegolezzo, la delegittimazione: «Tagliati la barba, così la finiscono con la storia del giudice comunista» e «Sposa Francesca, così la finiscono con la vicenda del giudice con le amanti».

E poi c’è la realtà di sangue. Nel 1982 ammazzano Calogero Zucchetto, nel 1983 ammazzano Chinnici con una 127 imbottita di esplosivo e nel 1985 ammazzano Beppe Montana e Ninni Cassarà. Ma come facevano Francesca e Giovanni, quando tornavano a casa, a reggere tutto questo? Due mesi prima che Falcone fosse ucciso – lo racconta Ilda Boccassini – in un’assemblea dell’Anm un magistrato prese la parola e disse: «Falcone è un nemico politico». Ecco, mi chiedo, si può davvero sopravvive a un massacro cosi? Immagino questo: diventi irascibile, teso, non riesci a collaborare con chi ti sta accanto. In casa non riesci a far nulla che non sia pensare a ciò che ti stanno facendo, a quale strategia adottare, capire se esiste una strategia o se quello che ti stanno facendo è troppo più grande di te e finirai per soccombere. “L’amor che vince tutto” non esiste. L’amore non è un principio, è il quotidiano, ma se non riesci a proteggerlo dalla barbarie rovina come qualsiasi altra cosa. Inutile mentirsi, a una vita assurda corrisponde una relazione assurda: solitudine, tensione, incomprensione, sospetto, forse persino disordine, malinconia, disagio. L’amore muore in queste condizioni, ne sopravvive solo il suo aspetto metafisico, la parte meno necessaria.

Come hanno fatto Francesca e Giovanni a non litigare di continuo? A gestire le notti distanti, il pericolo, il gossip silenzioso che li inseguiva? Quando hanno accusato Falcone di essersi procurato da sé l’attentato dell’Addaura, come hanno reagito? Si sono stretti in un abbraccio o al contrario non si sono sfiorati, si sono chiusi nel silenzio? Si sono sostenuti discutendo per notti insonni o non si sono detti niente come chi guarda insieme il fuoco ardere e non c’è bisogno di aggiungere nulla alle fiamme? Come dannazione si sopravvive quando tuoi colleghi e (sedicenti) amici sostengono che ti sei messo una bomba per fare carriera? Dopo l’Addaura Falcone voleva divorziare da Francesca per salvarla, per evitare che fosse un obiettivo della mafia, ma non solo capisce che ormai il fango è un oceano contro di lui, vuole salvarla dal livore delle persone “perbene”. Non si lasciano, alla fine muoiono insieme. Gli ultimi minuti sono la sintesi della tensione e dell’intimità. Falcone sta guidando l’auto blindata (da allora verrà vietato agli scortati di poter guidare l’auto, ma all’epoca era d’uso farlo), il suo autista Giuseppe Costanza è sul sedile posteriore. Francesca Morvillo soffre il mal d’auto, così sale davanti, al posto del passeggero.

Marito e moglie sono uno accanto all’altra, come una coppia normale che sta andando a casa. L’automobile corre lungo la strada che da Punta Raisi porta a Palermo, Costanza chiede a Falcone di poter avere le chiavi di casa. È più un promemoria che una richiesta, ma Falcone, sovrappensiero, sfila le chiavi dal cruscotto per dargliele, gesto pericolosissimo perché l’auto spegnendosi frena di colpo mentre è in piena velocità, Falcone fa in tempo a scusarsi, saranno le ultime parole, Brusca vedendo l’auto rallentare di colpo sospetta che abbiano saputo qualcosa e attiva prima del previsto l’ordigno. Quel gesto fatto per distrazione, e forse perché la mente era affollata da preoccupazioni, salvò la vita a Costanza che era sul sedile posteriore perché l’auto rallentò e l’esplosione non la prese in pieno. Si schiantarono contro un muro di cemento e catrame, il tritolo aveva reso l’autostrada verticale. «Dov’è Giovanni…» sono le ultime parole di Francesca, le raccoglierà un poliziotto durante il trasporto in ospedale. Ma le ultime parole del loro amore giunte a noi furono altre. Le ritrovò scritte su un cartoncino bianco, anni dopo, Giovanni Paparcuri, collaboratore di Falcone che sopravvisse all’attentato a Rocco Chinnici, in un libro che Francesca Morvillo aveva donato a Giovanni Falcone. Un pensiero pieno di delicata speranza che tradisce il timore che tutto possa finire in un istante, ma si affida alla certezza che da qualche parte, nella parte che pulsando dà origine a tutto, quello che hanno vissuto insieme resterà: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me cosi come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca».

Il paradosso degli eredi di Falcone: accusati di mafia da giovani Pm che di Cosa nostra non sanno nulla. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Personalmente ricordo molto bene quel giorno di 28 anni fa. Arrivò la notizia in redazione poco prima del Tg3 e restammo sgomenti. Falcone in fin di vita, Falcone morto, e anche sua moglie, morta, e gli uomini della scorta, e la potenza e la scientificità mostruosa dell’attentato. La Fiat Croma demolita dalla bomba. E poi un’altra cosa: il pensiero di quel che avevamo scritto e fatto nei mesi precedenti. Dico noi dell’Unità. Allora ero vicedirettore dell’Unità. Da qualche giorno il direttore era cambiato ed era venuto a dirigerci un giovane e brillante leader politico: Walter Veltroni. Cosa avevamo fatto e detto noi dell’Unità? Semplicemente avevamo con una certa cocciutaggine dato sponda ad una campagna contro Falcone. Con l’idea che Falcone avesse ceduto alle pressioni di quel pezzo di politica che era compromesso con la mafia e che Falcone volesse nascondere il “terzo livello”. In gergo si chiamava così: terzo livello. Si diceva che la mafia fosse fatta a tre strati: la truppa, poi i capi (cioè la cupola, che allora era guidata da Totò Riina il quale aveva spodestato il vecchio Greco) e infine il terzo livello, e cioè la direzione vera, composta da un certo numero di esponenti altissimi della politica italiana. La suggestione era che nel seggio più alto ci fosse Andreotti. Falcone smentì quell’idea, disse chiaramente che per fare la lotta alla mafia si doveva fare la lotta alla mafia. Cercando i soldi, gli indizi, le prove, i colpevoli. Usando la tecnologia, i pentiti, le proprie capacità di indagine sul terreno. E non inseguendo teorie bislacche scritte a tavolino. E neppure affidandosi alle speranze che dalla lotta alla mafia potessero venire dei danni per i propri avversari e quindi dei vantaggi per se. Il terzo livello – disse – non esiste. Poco prima di lasciare la magistratura, costretto dalla guerra che gli facevano i colleghi – e la politica, e i giornali – Falcone aveva incriminato per calunnia un pentito – si chiamava Pellegritti – che voleva tirare in ballo Andreotti. Lo incriminò perché le sue accuse apparivano del tutto infondate e prive di riscontri. Falcone usò in modo molto spregiudicato i pentiti, però sapeva usarli: non andava dietro a chiunque e nemmeno pretendeva di imbeccarli. Li ascoltava, controllava, riscontrava, cercava prove. Dopo di lui nessuno più ha fatto così. I pentiti sono diventati i padroni delle Procure. Dicevo di quel pensiero: avevamo sbagliato tutto. Avevamo pensato che Falcone fosse un moderato, uno che voleva il compromesso. Che abbaglio. Falcone era semplicemente il più geniale investigatore mai apparso nel nostro paese, conosceva il suo mestiere, talvolta lo esercitava persino in modo spavaldo e forse eccessivamente aggressivo, e facendo così – in pochi anni – aveva inferto alla mafia i colpi più pesanti che mai la mafia avesse ricevuto in tutta la sua storia secolare. Falcone usò persino strumenti discutibili, come il maxiprocesso, e probabilmente lo fece sapendo che quegli strumenti erano discutibili, ma faceva queste cose dentro una visione politica e del diritto, e con la forza di una professionalità che nessun altro si è mai sognato di possedere. Falcone lavorava con un gruppo ristretto e molto fidato di collaboratori. Quando lasciò la procura di Palermo per andare a Roma con Claudio Martelli al ministero della Giustizia, lasciò in Sicilia alcuni dei suoi uomini più sicuri e combattivi. Volete un nome? Il più forte, il più illustre? Era un colonnello. Si chiamava Mario Mori. Aveva fatto esperienza col generale Dalla Chiesa, prima sulla frontiera del terrorismo e poi su quello di Cosa Nostra. Era abile, determinato, intelligente. Conosceva perfettamente Falcone, i suoi metodi, la struttura delle sue indagini. Stava lavorando su un dossier che aveva impostato con Falcone. Si chiamava Mafia e Appalti. Aveva messo insieme tutte le informazioni sui rapporti di Cosa Nostra con le imprese del Nord. Falcone fece pressioni perché il dossier fosse preso in mano da Borsellino. Anche Borsellino fece pressioni per averlo. Era un dossier che poteva travolgere la borghesia italiana. La mattina del 19 luglio (del 1992) il Procuratore di Palermo Giammanco telefonò a Borsellino e gli disse che gli avrebbe affidato il dossier. All’ora di pranzo però Borsellino fu ucciso. E in realtà cinque giorni prima della sua morte due sostituti di Giammanco avevano già firmato la richiesta di archiviazione di quel dossier. La storia del dossier finisce lì, muore con Borsellino tutto il lavoro di Falcone sui rapporti tra mafia e borghesia del Nord. Mori, dopo quel colpo, si ritirò in buon ordine, perché Mori è un carabiniere. E da carabiniere continuò la sua guerra strenua con la mafia. Era una guerra pericolosissima, perché aveva di fronte i corleonesi, quelli che i mafiosi siciliani chiamavano “I viddani”, che avevano travolto la mafia di Palermo e ora stavano conducendo una politica da esercito, non da cosca: da falange militare feroce, sparavano più che potevano, attentati, dinamite, morte morte morte. L’hanno persa quella battaglia i “viddani”, facendo e lasciando molte vittime sul campo. Mori l’ha vinta. Ma la compagnia dell’antimafia, quella che aveva perseguitato Falcone, gli si rivoltò contro, come aveva fatto con Falcone. Mori e i suoi uomini, cioè quel pugno di audaci militari combattenti che sconfisse l’esercito di Riina e salvò l’Italia da un bagno di sangue, oggi sono sotto processo. È il più spaventoso e triste paradosso della storia della repubblica. La mafia se la ride. Il processo “trattativa” quello voluto da Ingroia e Di Matteo è la più clamorosa ingiustizia della storia della Sicilia. Si fonda sulle accuse di un mafioso e del figlio di un mafioso: Brusca e Ciancimino. Gli eroi sono processati dai burocrati. I nemici della mafia messi sotto accusa da un apparato statale di dilettanti. Povero Falcone. Povero Falcone.

P.S. Quel giorno, il 23 maggio, andai dal nuovo direttore e gli dissi che volevo scrivere un articolo per dire quanto e perché noi dell’Unità avevamo sbagliato a schierarci coi dilettanti dell’antimafia contro Falcone. Veltroni me lo fece scrivere e lo pubblicò, mi pare il giorno dopo. Io vado molto fiero di quell’articolo.

Caselli ricorda Falcone attaccando Carnevale, che però è stato assolto da tutto…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Ciascuno ricorda Giovanni Falcone come vuole, per carità.  Lo si può fare, per esempio, secondo la scelta del Fatto Quotidiano: che ieri, sull’argomento, ha messo in pagina un articolo poco grammaticato di un suo noto collaboratore, il dottor Gian Carlo Caselli.  Il quale ha celebrato la memoria del magistrato ucciso lasciando intendere, in buona sostanza, che nei processi antimafia la Corte di cassazione ha fatto bene il suo lavoro quando ha accolto la tesi dell’accusa e invece mica tanto quando l’ha respinta, perché ha fondato la decisione sul rilievo di “minuscoli vizi di forma” o esercitandosi nell’”acrobazia giuridica”.  Con il corollario che la giurisprudenza onora il ricordo di Falcone se condivide le prospettazioni del pubblico ministero mentre lo sfregia se ritiene che siano infondate. Va benissimo celebrare la perfezione della sentenza «che portò alla conferma della quasi totalità dell’impianto accusatorio e quindi delle pesanti condanne comminate nel “maxi”», come Gian Carlo Caselli chiama il famoso processo antimafia (per favore però il correttore di bozze non sia intimidito e la prossima volta spieghi all’articolista che si dice “irrogate”, non “comminate”): ma non va bene lasciare intendere che l’impostazione dell’accusa, altrimenti incensurabile, trova semmai ostacolo soltanto nelle acrobazie del giudice che ammazza le sentenze nobili col ricorso al bieco pretesto che manda assolto il criminale. Perché è questo, dottor Caselli, il succo del suo articolo, che non a caso si prende due colonne per opporre alla specchiatezza di Giovanni Falcone l’indifendibilità di Corrado Carnevale, appunto il giudice cosiddetto “ammazzasentenze”: accusato, ma assolto dall’accusa, di aver lavorato in favore della mafia rilevando i “minuscoli vizi di forma” di cui lei scrive, e cioè i difetti che affliggevano sentenze buone per forza perché avevano il contrassegno dell’antimafia. Ripeto: ciascuno ricorda Falcone come gli pare.  Ricordarlo con il recupero delle vociferazioni sulla presunta mafiosità di un cittadino assolto non è, a nostro giudizio, il modo migliore.

“Il dispositivo anti-bomba c’era ma a Falcone e Borsellino fu negato”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 31 Gennaio 2020. «Dopo quello che era successo, appena 56 giorni prima, sull’asfalto dell’autostrada all’altezza di Capaci, la strage di via D’Amelio doveva essere evitata». Tradotto: lo Stato avrebbe dovuto assumere misure di protezione all’avanguardia per salvare la vita del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il giudice Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore a Palermo nel 1993, specializzato nella cattura dei latitanti – insieme alle forze dell’ordine ha acchiappato Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Nino Mangano, Vito Vitale, Mico Farinella, Cosimo Lo Nigro, Carlo Greco e decine di altri fra capimandamento, killer stragisti e potenti uomini d’onore – è stato tra i primi magistrati in Italia a utilizzare dispositivi in grado d’inibire le radiofrequenze specialmente per i telefoni cellulari. «Ma che stranamente – aggiunge – pur esistendo da tempo, non furono installati nell’auto di Paolo Borsellino». Nei giorni scorsi Il Riformista ha intervistato l’esperto elettrotecnico Francesco Macrì, il quale ricordando un suo vecchio incontro con l’allora sostituto procuratore Alfonso Sabella, ha rivelato che «le stragi di Capaci e via D’Amelio potevano essere evitate, ma le istituzioni hanno fatto finta di niente». Una tesi supportata da precisi elementi tecnici, frutto di anni di studio, e messa nero su bianco nel libro edito da Alpes Quando il boss non telefona più, scritto dalla giornalista Valentina Roselli.

Dottore Sabella, lei ricorda quell’incontro?

«Ricordo grossomodo l’incontro che dovrebbe essere avvenuto nel 1997. In quelperiodo avevo contatti con esperti per trovare e testare soluzioni, in campo tecnologico, utili a contrastare Cosa Nostra. Ad esempio, proprio in quegli anni, ero a stretto contatto con l’esercito perché eravamo riusciti a sapere che Cosa Nostra aveva a disposizione dei missili. Ma non eravamo riusciti a rintracciarli, a capire quale tipo di missili potesse avere. Infatti gli elicotteri, per precauzione, facevano spostamenti laterali. Quindi dovevamo trovare soluzioni tecnologiche sofisticate. Questo per dirle che erano anni in cui mi occupavo di queste cose e incontravo tanti esperti».

Tra queste soluzioni sofisticate, ad esempio, c’era il Jammer. Un dispositivo che inibisce le radiofrequenze dei cellulari e delle bombe.

«Esattamente. Questo tipo di strumentazione esisteva già da tempo».

E come mai non venne usata per evitare le stragi del ‘92?

«Dato che fui tra i primi a sfruttarla, ricordo che rimasi sorpreso del fatto che sull’auto di Paolo Borsellino i dispositivi non fossero stati montati. Lo stesso si potrebbe dire per la strage di Capaci, ma a maggior ragione, dopo la bomba che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, per Borsellino e i suoi agenti doveva andare diversamente».

Cioè?

«Anche se questa strumentazione era in fase sperimentale, si sarebbero dovute impiegare questa misure di protezione al tempo all’avanguardia».

Telefoni e 41 bis. Lei fu tra i primi magistrati ad occuparsene. La procura generale di Palermo sta indagando, già da tempo, sulla presunta disponibilità da parte di Totò Riina di un telefono cellulare nel 1993, quando il boss era detenuto a Rebibbia. Che ne pensa?

«Non me ne stupirei. Io testai gli inibitori di frequenza al dipartimento amministrazione penitenziaria nel 1999 per far smettere di funzionare i cellulari in regime di 41 bis. Al carcere di Ragusa, ad esempio, avevo sequestrato nel 1998 un cellulare in mano al boss catanese Santo Mazzei che ordinava omicidi con delle semplici chiamate. Il problema è ancora molto attuale, i cellulari entrano nelle carceri”».

Come si risolve il problema?

«È chiaro che non possono essere nascosti nelle scarpe, quindi arrivano al detenuto in 41-bis con la complicità di qualcuno all’interno del carcere. Certo, questi inibitori sarebbero importanti ma non possono essere utilizzati ad ampio spettro perché poi interferirebbero con gli altri strumenti di sicurezza del carcere. Vanno utilizzati con parsimonia. Anche se oggi la tecnologia fa passi da gigante e ci permetterà di avere dispositivi migliori».

Prima il tritolo, poi processi, falsi pentiti e depistaggi. 19 luglio 1992, la strage di Via D’Amelio. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 luglio 2020. Il 19 luglio del 1992 una violentissima esplosione a Palermo, in Via D’Amelio, uccide Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Alle ore 16: 58 di domenica 19 luglio 1992 una violentissima esplosione a Palermo, in via D’Amelio all’altezza del civico 19/ 21 uccide Paolo Borsellino, procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo, e gli agenti della sua scorta. Quel giorno Borsellino è andato a trovare la madre. Nell’esplosione restano ferite numerose persone e si verifica una generale devastazione con gravi danni agli immobili e alle vetture parcheggiate. Le analisi chimiche compiute su numerosi reperti hanno poi rilevato la presenza di T4, tritolo e pentrite tra i componenti della carica esplosiva, verosimilmente collocato nel vano bagagli della Fiat 126 utilizzata come bomba. Nel settembre 1992 iniziano le prime indagini della procura di Caltanissetta con l’ausilio del gruppo investigativo Falcone/ Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera. Individuano e arrestano Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. Quest’ultimo diventa pentito, si autoaccusa e dice che gli esecutori della strage sono suo cognato Salvatore Profeta, Pietro Aglieri, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia. Da allora i sono celebrati diversi processi. Ma si è dovuto arrivare al Borsellino Quater, celebrato grazie alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, che ha smentito le ricostruzioni di Candura e Scarantino, per scoprire una amara verità: c’è stato un depistaggio. Le motivazioni del Borsellino Quater di primo grado, inoltre, aggiungono che «le numerose oscillazioni e ritrattazioni» di Vincenzo Scarantino avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienza maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone». Il riferimento è ai magistrati. La procura di Messina ha avviato indagini nei confronti dei magistrati Carmelo Petralia e Annamaria Palma, all’epoca titolari dell’indagine sulla strage mafiosa. Recentemente ha richiesto però l’archiviazione. Gli avvocati delle vittime del depistaggio si sono opposti e l’udienza per la discussione si terrà il 19 ottobre prossimo davanti al Gip di Messina.

Paolo Borsellino, la storia del magistrato ucciso dalla mafia (e degli agenti della sua scorta) spiegata ai bambini. Il Fatto Quotidiano il 19/7/2020. Chi ha avuto la fortuna di conoscere la sorella del giudice, Rita, scomparsa il 15 agosto di due anni fa, ha potuto comprendere chi era Paolo Borsellino grazie ai suoi racconti e alle sue parole. Ma per capire chi è stato bisogna andare a Palermo nei luoghi dove il magistrato è cresciuto  umanamente e professionalmente. Se siete nati dopo il 1992 probabilmente avete letto di Paolo Borsellino sui libri di storia, o forse ve ne ha parlato la maestra alla scuola elementare o qualche professore alle medie. Se siete siciliani, magari palermitani, può essere che anche i vostri genitori vi abbiano raccontato chi era quel magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta il 19 luglio del 1992. Chi ha avuto la fortuna di conoscere la sorella del giudice, Rita, scomparsa il 15 agosto di due anni fa, ha potuto comprendere chi era Paolo Borsellino grazie ai suoi racconti e alle sue parole. Ma per capire chi è stato bisogna andare a Palermo nei luoghi dove il magistrato è cresciuto umanamente e professionalmente. La prima tappa del nostro tour è al quartiere la Kalsa. È qui che scopriamo Paolo bambino. In via Vetriera, a pochi passi da uno dei più bei monumenti della città di Palermo, la Chiesa dello Spasimo, in fondo alla strada c’è ancora la casa della famiglia Borsellino. Al piano terra c’era la farmacia che suo padre aveva aperto nel quartiere, mentre al secondo piano abitava Paolo con il fratello Salvatore, le sorelle Adele e Rita, la più piccola, nata il 2 giugno del 1945 e chiamata dal fratello magistrato “la Repubblichina” in onore della festa della Repubblica. Paolo amava stare sui libri ma anche aiutare chi non ce la faceva: durante la scuola elementare, la casa dei Borsellino, il pomeriggio, si riempiva di ragazzini ai quali dava una mano a fare i compiti. Dopo aver frequentato le scuole dell’obbligo si iscrisse al liceo classico “Giovanni Meli” di Palermo. Durante quegli anni diventò direttore del giornale studentesco “Agorà”. A 22 anni si laureò in Legge. La seconda tappa la facciamo al Palazzo di Giustizia di Palermo. Entrare nell’ufficio di Paolo Borsellino è emozionante. Nella sua stanza ciò che colpisce è quella copia del “Bacio” di Gustav Klimt, appesa dietro la sua poltrona. Una delle sue agende di pelle marrone sulle quali teneva gli appunti è ancora lì sul tavolo, così come una delle borse dove teneva anche la pistola, perché Borsellino girava armato. C’è anche una copia della tesi di laurea di Borsellino e il suo tocco (il copricapo) quello indossato al funerale del suo collega, amico e fratello Giovanni Falcone. Vengono i brividi solo a guardarlo. È lì che i due magistrati hanno svolto le indagini che hanno portato al maxiprocesso, al processo più grande della storia della mafia che ha condannato 346 mafiosi. Ma non si può non parlare dell’ultimo giorno della sua vita perché anche quel 19 luglio 1992, Paolo Borsellino scelse di vivere nonostante sapesse che era arrivato il tritolo per lui. Quella mattina alle cinque riceve una chiamata: è la figlia Fiammetta dalla Thailandia. Alle sette riceve un’altra telefonata che sveglia anche l’altra figlia. Poi decide di andare al mare. Paolo pranza a casa di vecchi amici di famiglia e parlando si confida, senza farsi sentire da Agnese: “È arrivato il tritolo per me”. Alle 16:30 parte e va dalla mamma. Mette nella sua borsa di pelle le carte, il pacchetto di sigarette, il costume e l’agenda rossa. Eccolo in via D’Amelio, dove andava sempre a trovare la mamma e la sorella Rita. La Fiat Croma attraversa la strada tra le auto parcheggiate a spina di pesce. C’è anche una fila al centro. Arrivati in fondo, dal momento che la via è chiusa, le auto fanno un’inversione. Percorrono qualche metro, e arrivarono esattamente dove oggi c’è un albero d’ulivo che la mamma di Paolo ha voluto al posto del cratere. Quando il giudice suona al citofono sono le 16,58 e venti secondi. Non fa in tempo a dire: “Paolo sono”. È l’inferno. La Fiat 126 rossa parcheggiata da due giorni davanti alla ringhiera, imbottita di 90 chilogrammi di tritolo e pentrite, esplode. Paolo, Emanuela Loi, Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano, il capo scorta, muoiono. In pochi minuti arrivano ambulanze, vigili del fuoco, forze dell’ordine. Regna la confusione: la polvere rende tutto più grigio, più opaco, al punto che qualcuno, ancora non sappiamo chi, prende quell’agenda rossa dove Paolo era solito appuntare riflessioni sui suoi colloqui investigativi e la fa sparire. Ma chi sono quegli uomini e quella donna che muoiono accanto al giudice Paolo? Rita Borsellino ci ha insegnato a non chiamarli gli agenti di scorta ma a nominarli, a dare loro un volto. Agostino, 43 anni, papà di tre bambini, caposcorta, non dovrebbe esserci quel giorno: lui che solitamente protegge padre Bartolomeo Sorge, il 19 luglio è in ferie ma viene richiamato per raggiungere un numero di poliziotti sufficienti per la scorta del giudice. Claudio, 27 anni, dopo il militare decide di entrare in Polizia: prima svolge il suo servizio alla squadra volanti di Milano, poi su sua richiesta ottiene il trasferimento a Palermo e si fa assegnare al servizio scorte. Quella mattina va a pescare, fino a mezzogiorno, con il fratello Luciano. Alle tre del pomeriggio prende servizio: con il fratello si dà appuntamento per la sera dalla madre, per cenare insieme. Non riusciranno mai più a rivedersi. Alle cinque la mamma chiama Luciano: ha appena saputo della strage. Emanuela, 24 anni, di Sestu in provincia di Cagliari. Avrebbe voluto fare la maestra ma non trovava lavoro. Quando esce il concorso per entrare in Polizia partecipa insieme alla sorella. La prima lo passa, la seconda no. La mandano a Palermo, la assegnano alla protezione della moglie di Libero Grassi, un commerciante ammazzato dalla mafia perché si è rifiutato di pagare il “pizzo”. Cinque giorni prima della strage viene affidata al giudice, che appena la vede le dice scherzando: “Sono io che devo proteggere te dalle attenzioni dei tuoi colleghi”. Vincenzo, 22 anni, fidanzato con Vittoria. I suoi genitori e la sorella neanche sanno che fa parte della scorta di Borsellino. L’ha tenuto nascosto per non farli preoccupare. I giorni prima dell’attentato non dorme la notte. Sapeva che sarebbe potuto accadere ma non ha mai fatto un passo indietro. Walter, 31 anni, australiano d’origine e trapiantato in Veneto, dove inizia a lavorare nell’ufficio scorte. Dieci giorni dopo il 23 maggio del 1992 arriva a Palermo.

·         Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.

Borsellino, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: «Approfondite mafia-appalti!» Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 agosto 2020. Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti. Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino.

Tensione durante la riunione del 14 luglio. Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia». Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”».

Aveva studiato il dossier dei Ros. Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino.

Perché fu ucciso Paolo Borsellino, ora lo sappiamo ma non perché non si indagò. Piero Sansonetti de Il Riformista il 22 Agosto 2020. Molti tasselli adesso si incastrano e comincia a diventare abbastanza chiaro il motivo per il quale fu ucciso Paolo Borsellino. Fu ucciso perché voleva indagare sul dossier mafia-appalti, probabilmente l’atto di accusa più documentato e clamoroso di sempre sui rapporti tra economia mafiosa (e potere mafioso) ed economia legale. Forse è lo stesso motivo per il quale è stato ucciso Giovanni Falcone, ma questo non è sicuro. Occorrerebbero delle indagini. Fin qui la Procura di Palermo (diciamo in questi quasi trent’anni), non ha ritenuto di doverle svolgere. Si è limitata a cadere nella trappola tesagli da un falso pentito (Vincenzo Scarantino) che – come si dice – l’ha mandata pe’ campi per parecchi anni, con l’aiuto (o il mandato) di diversi uomini delle istituzioni; e poi a mettere in piedi quel processo un po’ farsa, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia, dove l’imputato principale, paradossalmente, è il generale Mori, cioè l’uomo che ha raccolto il dossier mafia-appalti, cioè l’amico di Falcone e Borsellino, cioè l’uomo che, dopo Borsellino e Falcone, ha dato di più nella lotta a Cosa Nostra. Per ora noi giornalisti non possiamo fare altro che raccogliere gli elementi di assoluta evidenza. Quelli che risultano dai documenti, dalle dichiarazioni, dalle testimonianze, comprese quelle che sono state ignorate dalla magistratura. Un giornalista che fa questo con molto impegno da diversi anni è Damiano Aliprandi, del Dubbio, che ieri ha pubblicato stralci della testimonianza pronunciata nel 1992 davanti al Csm da uno dei magistrati palermitani, Domenico Gozzo, che in quei giorni era sulla piazza. Gozzo parla di una riunione di tutti i Pm della Procura di Palermo, convocati dal procuratore Giammanco, il 14 luglio del 1992, una cinquantina di giorni dopo l’assassinio di Falcone. Era presente Paolo Borsellino in qualità di Procuratore aggiunto. Da sola questa testimonianza dimostra che Paolo Borsellino, dopo l’uccisione di Falcone, voleva che si lavorasse sul dossier mafia- appalti e mostrava di conoscere bene quel dossier, e rimproverava i suoi colleghi di averlo sottovalutato. Non poteva sapere che, proprio il giorno prima, i sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte avevano firmato la richiesta di archiviazione del dossier. Nessuno glielo disse. Alla riunione, secondo il ricordo di Gozzo, del dossier parlò Pignatone, che era uno dei sostituti procuratore che erano incaricati di seguirlo. Pignatone però non era tra quelli che il giorno prima aveva firmato la richiesta di archiviazione. Possibile che non sapesse niente? E poi, alla riunione pare ci fosse anche Lo Forte (Scarpinato aveva problemi a casa): perché quando Borsellino chiese del dossier e pretese anche che fosse fissata una riunione ad hoc per discuterne, Lo Forte non avvertì che era stata già chiesta l’archiviazione? Timidezza, paura dell’ira di Borsellino? O un modo per evitare una seccatura, o strategia? La riunione chiesta da Borsellino non si tenne mai. Perché nel frattempo Borsellino fu ucciso. Forse si potrebbe anche scrivere: Borsellino fu ucciso perché quella riunione non si tenesse mai. E chi lo uccise raggiunse lo scopo. Perché a nessun magistrato che ne aveva il potere e la competenza venne in mente di convocare la riunione, dopo la morte di Borsellino. Preferirono ascoltare Scarantino… Per capire bene che non mi sto inventando niente, ricopio le frasi più importanti della deposizione del magistrato Domenico Gozzo, riportate ieri da Aliprandi sul Dubbio (il verbale della deposizione al Csm è del 29 luglio del 1992, appena 10 giorni dopo l’uccisione di Borsellino). Alla fine della descrizione mi limiterò a ricordarvi alcune date, la cui successione fa impressione. Ecco le parole di Gozzo: «Alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discute di vari temi… La riunione del 14 luglio è stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me, era una riunione… in cui i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito… su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia. Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi – la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia- appalti e, alla domanda di quali carte si trattasse, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo, però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea. E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma… vedremo”… Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma, vedremo se è possibile… ma, è il caso di acquisirlo?”». Benissimo. Ora un occhio alle date, perché qualcosa dicono.

13 luglio. Scarpinato e Lo Forte firmano la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti.

14 luglio. Si tiene l’assemblea dei Pm nella quale Borsellino parla di mafia-appalti senza evidentemente sapere che è stata già avanzata la richiesta di archiviazione.

19 luglio. Borsellino viene ucciso insieme alla scorta.

22 luglio. La richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti viene depositata formalmente.

14 agosto. Mafia-appalti è archiviata e non se ne parlerà più. Nel dossier erano indicate tutte le aziende dell’Italia continentale che trattavano con la mafia.

P.S. 1 – La domanda è questa: il processo sull’ipotesi di trattativa tra stato e mafia è stato messo in piedi per dare una spiegazione all’uccisione di Borsellino diversa dalla ragione che ora appare in tutta la sua evidenza e sulla quale non si è voluto indagare?

P.S. 2 – Un ricordo: nei verbali di interrogatorio della moglie di Borsellino, dopo la sua uccisione, si legge questa frase: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo».

Dopo aver letto queste parole, c’è qualcuno che può restar tranquillo?

Mafia & appalti, una verità scomoda. Luciano Tirinnanzi su Panorama 12 Luglio 2013. Cosa c'è dietro e cosa c'è stato dopo l'inchiesta condotta dai Ros. Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS. Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico - stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere - si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico. In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: “la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti“. Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come “Mani Pulite” nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.

Falcone e l’importanza di depositare “Mafia e Appalti”. Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: “la mafia è entrata in borsa” disse due mesi prima di saltare in aria. Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: “Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanicò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché - su esplicita richiesta - rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino.

Borsellino e le confidenze a Ingroia. Borsellino, il 25 giugno del ‘92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie. Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano “preoccupati delle indagini sugli appalti”.

L’archiviazione di “Mafia e Appalti”. Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto. Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.

Vito Ciancimino e la trattativa. Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche” , Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politicoimprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari. Ma non il famigerato “papello” , bensì il libro “Le Mafie” redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente - ma senza esito - di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante. Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro “Le Mafie” che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti. Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Piero Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.

Conclusioni. I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafiapolitica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni. Davvero, nel 2013, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?

Le parole di Paolo Borsellino, 28 anni dopo: «Sto arrivando a trovare cose, altro che Tangentopoli». Enzo Boldi il 19/07/2020 giornalettismo.com. I verbali delle audizioni sono stati desecretati. Paolo Borsellino aveva raccontato alla sorella di Falcone di aver trovato cose più gravi di Tangentopoli. Ventotto anni dopo sono state desecretate le audizioni. Il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 sono due date incise nella storia delle tragedie italiane. La prima fu quella della strage di Capaci, l’attentato in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta (Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro); la seconda, 57 giorni dopo, fu quella della strage di via D’Amelio (a Palermo) in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque componenti della sua scorta:  Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli. Ora, 28 anni dopo, sono stati desecretati i verbali delle audizioni di quel periodo marchiato con il sangue nella storia dell’Italia. In questi anni si sono rincorse varie ipotesi sull’omicidio di Paolo Borsellino. Aveva trovato i mandanti e gli autori di quell’attentato che costò la vita al suo amico e collega Giovanni Falcone? O era riuscito a individuare quei collegamenti tra Stato e Cosa Nostra di cui si è continuato a parlare per diversi anni. Ora La Repubblica riporta uno stralcio di quei verbali di audizione, in cui Maria Falcone – sorella maggiore del magistrato ucciso il 23 maggio ’92 – racconta cosa gli aveva confessato Borsellino.

Paolo Borsellino, le audizioni dopo la strage di via D’Amelio. «Dopo la messa per Giovanni, Paolo mi aveva portato a vedere il campetto di calcio dove giocavano da bambini. Gli confidai che ero scoraggiata – raccontò Maria Falcone agli inquirenti pochi giorni dopo l’attentato che costò la vita a Paolo Borsellino e a cinque componenti della sua scorta – . Mi disse: "Sto lavorando tanto, state tranquilli. Sto arrivando a trovare delle cose, altro che Tangentopoli e Tangentopoli"».

28 anni dopo. Oggi, 28 anni dopo, Matteo Messina Denaro – il superlatitante boss di Cosa Nostra – è indicato come uno dei mandanti di delle stragi del 1992. I pm hanno chiesto l’ergastolo, ma di lui non v’è traccia da anni, proprio da quegli anni di tragedie. Una storia che non si limita ai 57 giorni intercorsi tra le due stragi, ma che sembra avere radici molto più profonde.

Alberto Di Pisa: «Borsellino ucciso per mafia-appalti». Damiano Aliprandi Il Dubbio il 18 luglio 2020. Alberto Di Pisa ha lavorato con Falcone e Borsellino. Dopo l’accusa di essere il “corvo” gli fu tolta e archiviata l’inchiesta su mafia-appalti palermitana. «Proprio il giorno dell’attentato di Via D’Amelio Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». A raccontarlo a Il Dubbio è il dottor Alberto Di Pisa, magistrato di lungo corso che aveva fatto parte del pool antimafia fin dagli albori. Ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso. Ha svolto importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, iniziò il processo Ciancimino, che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Avviò anche una inchiesta sui grandi appalti di Palermo gestiti dall’allora ben noto “comitato d’affari”. Gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “corvo”.  In particolar modo l’inchiesta su mafia e appalti palermitani, passata di mano per volere dell’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco, finì per essere archiviata. Nel 2016, dopo 45 anni di attività giudiziaria, ha riposto la sua toga per limiti di età. A 72 anni ha lasciato l’ufficio di procuratore di Marsala, un posto che prima ancora fu occupato da Borsellino. Recentemente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Morti opportune” dove analizza alcuni decessi sospetti come i suicidi, infarti, incidenti stradali, ma che riguardano persone che appartengono alle forze dell’ordine e ai servizi segreti. Morti che sarebbero state archiviate troppo frettolosamente.

Dottor Di Pisa, lei conosceva molto bene Paolo Borsellino?

«Sì, eravamo in ottimi rapporti. Sia al livello professionale visto che abbiamo lavorato assieme nel pool antimafia, sia al livello umano. Inoltre abbiamo anche una parentela in comune. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci. Eppure, per quanto riguarda Giovanni Falcone basterebbe leggere i verbali di quando fu sentito al Csm. Alla domanda quali fossero i rapporti con me, lui rispose che erano ottimi e professionali. Non solo, quando io fui nominato procuratore aggiunto a Palermo, Falcone venne a trovarmi per congratularsi e dirmi che avremo lavorato insieme. Ritornando a Borsellino, sa cosa mi disse quando uscì l’articolo di Repubblica dove si scrisse che io sarei stato l’autore della lettera del “corvo”?»

No, mi dica.

«Mi disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi che quell’anonimo l’ho scritto io. Quella vicenda, mi creda, la vorrei cancellare dalla mia mente. Tutto iniziò quando Totuccio Contorno venne arrestato a San Nicola l’Arena. Arrivò segretamente a Palermo quando era già collaboratore di giustizia negli Stati Uniti. Era sotto protezione, ma giunse in Sicilia nel periodo in cui si stava verificando un regolamento di conti all’interno della mafia. Io stesso, in una riunione dove erano presenti tutti i miei colleghi del pool, dissi apertamente che bisognava fare delle indagini per capire come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia. Ricordo che proprio in quel periodo Tommaso Buscetta disse che Contorno è stato pregato di tornare a Palermo, ma poi ha ritrattato questa sua affermazione».

Poi arrivò la lettera del “corvo” che in sostanza puntò gravissime accuse nei confronti anche di Falcone e Giovanni De Gennaro, l’allora dirigente superiore della Polizia. A quel punto è stato lei a farne le spese.

«Dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di essere il “corvo” di Palermo. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica mi prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una mia impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la mia impronta. Tra l’altro denunciai Sica per abuso di potere, perché quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo».

Ma secondo lei chi è stato l’autore del “corvo”?

«Basta leggere la sentenza di assoluzione. Dice chiaro e tondo che queste lettere nascono da una faida interna alla Criminalpol. E infatti in quel periodo c’era uno scontro tra la squadra di De Gennaro e quella di Bruno Contrada. Il “corvo” bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece».

Ma come mai c’è stata la volontà di incastrarla?

«In quel periodo avevo inchieste scottanti, tra le quali quella su mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera, con Leoluca Orlando sindaco. Ma in realtà appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi. In realtà non era cambiato nulla e Vito Ciancimino ancora contava. Inchieste che l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco me le tolse. Ancora non ero stato raggiunto da un avviso di garanzia per il Corvo, ma era bastato un articolo de La Repubblica contro di me – che giorni prima aveva invece avanzato sospetti per il ritorno di Contorno – per sospendermi. Quella sugli appalti fu affidato ad un collega della procura di Palermo che poi fece richiesta di archiviazione. In quel periodo, ad esempio, mi occupai anche della vicenda di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Scoprii che furono rilasciate dalla giunta comunale guidata da Salvatore Mantione centinaia di concessioni edilizie a Rosa Greco, sorella del boss Michele Greco. Fu una lottizzazione abusiva avvenuta in cambio di favori. Dopo anni uscì fuori che in questa operazione edilizia ci fu l’interessamento della Calcestruzzi di Ravenna del gruppo Gardini-Ferruzzi. In quel periodo chi toccava gli appalti veniva delegittimato oppure moriva».

Perché, chi è morto per gli appalti?

«Sicuramente Paolo Borsellino. Non c’entra nulla la trattativa, perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in Procura se avesse appurato una cosa del genere. In realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia. Lui stesso si era incontrato con i Ros per discutere delle indagini relative al dossier».

A lei ne ha mai parlato?

«No, ma ricordo che in una occasione – se non erro ai funerali di Falcone – gli chiesi se l’attentato fosse una strategia di “destabilizzazione”. Lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”. Le racconto un’altra circostanza. Quella domenica del 19 luglio Borsellino era passato da mio cognato che vive nella zona di Marina Longa, la località estiva dove Paolo ogni tanto, il fine settimana, andava. Lui sapeva che ci andavo pure io. Purtroppo non ho fatto in tempo a incrociarlo. Quando arrivai, mio cognato mi disse che Borsellino mi aveva cercato, anche con insistenza. Rimango con questa amarezza nel non averlo incrociato, chissà cosa mi avrebbe voluto dire con una certa urgenza».

A proposito di magistratura, il caso Palamara le ha sorpresa?

«Io che provengo dall’esperienza della Procura dei veleni assolutamente no. Ho scritto recentemente nella mailing list dell’Associazione nazionale magistrati che questo sistema uscito ora, in realtà esiste da 30 anni. Ad esempio, tutti gli incarichi direttivi venivano sempre dati agli esponenti di Magistratura Democratica. Non dimentichiamoci di Falcone. Con la sola eccezione di Gian Carlo Caselli, tutta MD votò contro di lui come successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo».

Ma lei pensa che ora ci sia un cambiamento?

«No. Non c’è la volontà politica di fare un cambiamento radicale del sistema. Ho letto il progetto di riforma e mi pare acqua fresca. D’altronde potrebbe esserci il rischio che Luca Palamara diventi l’unico colpevole, una sorta di capro espiatorio della magistratura e, infatti, la sua linea difensiva mi pare chiara. Ovvero che non è solo lui, ma un sistema generalizzato».

Di Pietro racconta “Tangentopoli”. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Carmen Sepede il 17 dicembre 2018 su isnews.it. Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di “Mani pulite” ha fatto nel “Caffè letterario” dell’Istituto “Pilla” di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta.  Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool “Mani pulite”, oggi a Campobasso, nel “Caffè letterario” dell’Istituto “Pilla” di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese.

“Tangentopoli” e i rapporti tra Stato e Mafia. “Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.

 Al suo anco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco. “Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò “Mani pulite” è riuscita solo per metà”.

Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. "Arrivava dall’ufcio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho riutato, perché se avessi accettato sarei stato un 'padreterno', ma corrotto”. Patentino Muletto da 120€ Corsi in tutta Italia. Trova il Corso più vicino a Te. Azienda Sicura APRI ANN. L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il “dipietrese doc” - che non so una parola di inglese”.

Se "Mani pulite" è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”. Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del 'Pilla' Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l'ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.

Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro - e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.

Di Pietro: "Salvo Lima incassò tangente Enimont attraverso Cirino Pomicino". Pubblicato il 03/10/2019 su adnkronos.com. "Anche Salvo Lima incassò una tangente Enimont da Raul Gardini, attraverso i Cct che gli girò Cirino Pomicino". A rivelarlo in aula, al processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia è l'ex pm Antonio Di Pietro, sentito come teste dalla difesa del generale Mario Mori. Di Pietro parlando dell'inchiesta Tangentopoli nel 1992 ha riferito dei "collegamenti tra affari e politica" e ha ribadito che "i soldi di Gardini finirono anche a Salvo Lima". All'epoca Di Pietro aveva avuto anche dei rapporti di collaborazione con i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. "Il primo che mi disse 'dobbiamo fare presto, dobbiamo chiudere il cerchio' fu Paolo Borsellino", racconta Di Pietro. "L'elemento predominante del collegamento Nord-Sud o affari e mafia, l'ho avuto quando ho avuto il riscontro della destinazione della tangente Enimont da 150 miliardi di lire - dice Di Pietro - e il mio impegno allora era di trovare chi erano i destinatari, perché avevamo trovato la gallina dalle uova d'oro, la cosa che avevamo davanti era la necessitò di trovare i destinatari". E spiega: "L'ultimo destinatario fu proprio Salvo Lima che però incassò attraverso Cct. Non potemmo sapere molto perché nel marzo 1992 Lima venne ucciso a Palermo e Gardini si uccise". "Ma si trattava di vedere chi quella parte di tangente di provvista di 150 miliardi di lire li aveva incassati e abbiamo trovato che 5,2 miliardi li aveva incassati Cirino Pomicino, e fu Cirino Pomicino che diede i cct a Salvo Lima".

La replica di Cirino Pomicino: "Di Pietro non sa l'italiano, non tangente ma finanziamento".

"Nel 1992, da febbraio a maggio e fino all'omicidio Di Falcone, l'inchiesta "Mani pulite" si allargò e assunse una rilevanza nazionale - dice ancora Antonio Di Pietro nel corso della deposizione rispondendo alle domande dell'avvocato Basilio Milio -. Io mi confrontai con Giovanni Falcone che mi disse che le rogatorie erano l'unico strumento per individuare le provviste e mi accennò che da lì si arrivava anche in Sicilia. Ecco perché bisognava controllare gli appalti anche in Sicilia". Di Pietro parlò anche con Paolo Borsellino "degli stessi argomenti". "Man mano che si sviluppava l'indagine era più opportuno andare a cercare dove si formava la provvista". Il suicidio di Raul Gardini, rivela ancora Di Pietro "è il dramma che mi porto dentro...". Nel luglio del 1993 "l'avvocato di Raul Gardini, che all'epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell'interrogatorio l'imprenditore Gardini tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l'arresto. E io dissi di aspettare", racconta Di Pietro. Ma la mattina dopo l'imprenditore si uccise con un colpo di pistola. "E' il dramma che mi porto dentro...", dice Di Pietro con un filo di voce. Per poi aggiungere: "Ma questo che c'azzecca con la trattativa?...". Poi la denuncia dell'ex pm: "L'inchiesta "Mani pulite" è stata fermata quando è arrivata allo stesso punto del rapporto tra mafia e appalti. Sono stato fermato da una delegittimazione gravissima portata avanti in modo abnorme". "Nei miei confronti sono stati svolti una serie di dossieraggi portati avanti da personaggi su ordine di alcuni politici che hanno portato alle mie dimissioni - dice Di Pietro rispondendo alle domande dell'avvocato Basilio Milio - Da lì a poco sarebbe arrivata non solo una grossa indagine nei miei confronti ma anche una richiesta di arresti e io mi dimisi per potermi difendere. Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm". "Sono convinto che Paolo Borsellino - ha continuato quindi Di Pietro - fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L'indagine mafia-appalti fu fermata. Come accadde con Mani pulite".

Di Pietro: “Volevo arrestare Andreotti, Mani pulite fu fermata da giudici”. Dante Bigi su Il Riformista il 19 Gennaio 2020.  In una recente intervista apparsa sull’Espresso di Susanna Turco ad Antonio Di Pietro, l’ex pm ha dichiarato che Mani Pulite è nata in realtà da Falcone dentro il maxi processo di Palermo, aggiungendo che Craxi fosse solo uno dei suoi obiettivi. Al contrario, nelle sue intenzioni, avrebbe arrestato Andreotti. E poi aggiunge: «Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici». Dichiarazioni forti che riscrivono la storia degli ultimi trent’anni, visto che come ricorda Di Pietro, «Mani pulite ha generato un’onda antipolitica e la nascita non solo del Movimento 5 stelle, ma anche dell’Italia dei valori». L’ex pm non si risparmia neanche sull’abuso d’ufficio, considerandolo ormai di moda, e su Davigo, dal quale prende le distanze, impugnando il Codice penale e ripercorrendo tutta la sua carriera. Da quando era poliziotto a indagato, da testimone a imputato, Di Pietro dice: «Ho visto così tante giustizie, che le certezze granitiche di Davigo non ce le ho più». Ma è sicuramente su Mani pulite che rivela elementi inediti, specie a proposito dell’esito dell’inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando «Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia» e poi, continua, «Falcone dà l’incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine che doveva andare a Falcone, prima di essere trasferito». Un’inchiesta che la politica non avrebbe potuto fermare, se i giudici avessero fatto il loro dovere. E d è proprio sull’interruzione di Mani pulite, quando arriva alla connessione appalti-mafia che Di Pietro si fa più reticente. Ha intenzione di parlarne, ma non ora, ha carte e documenti, ma ha pensato addirittura di farli bruciare, nonostante l’opposizione di sua moglie e sua figlia, e attende il momento in cui questa storia venga rivista. Per Di Pietro, quindi «Mani pulite nasce come figlia di Mafia pulita» e spiega che Raul Gardini, che si suicida il 23 luglio 1993, lo fa perché sa che quella mattina, recandosi proprio da Di Pietro, «avrebbe dovuto fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire». È proprio questo ad aprire un nuovo scenario nel caso. Se Gardini avesse parlato e se Salvo Lima non fosse morto, Di Pietro avrebbe quindi avuto «elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti». E invece, cosa succede? Succede che con una serie di esposti alla procura di Brescia, Di Pietro è costretto a dimettersi, altrimenti sarebbe stato arrestato, perché sul suo capo gravava il reale pericolo di inquinamento delle prove, finché era magistrato.

Mani Pulite, Di Pietro rivela: “Avrei arrestato Andreotti, se Gardini non si fosse ammazzato”. In una lunga intervista l’ex pm ed ex politico Antonio Di Pietro ripercorre le tappe principali dell’inchiesta Mani pulite: “Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia”. Annalisa Cangemi su fanpage.it il 19 gennaio 2020. In una lunga intervista su l'Espresso, Antonio Di Pietro, ex pm ed ex politico racconta alla giornalista Susanna Turco la stagione di Mani Pulite. Il ‘pretesto' è offerto dai vent'anni dalla morte di Bettino Craxi. "Nell'immaginario collettivo", spiega Di Pietro, tutta la parabola di Mani pulite ruota attorno all'incontro tra lui e Craxi, ma non per lui: "Nella realtà io non ho mai avuto un rapporto con Craxi. Io miravo all'ambiente malavitoso che girava intorno ad Andreotti". Perché "Craxi era l'emergente, quello che faceva parte della Milano da bere". "Lo sanno anche le pietre: Andreotti è stato prescritto, fino al 1980, non è che è stato assolto. E dall'altra parte ci stava il sindaco, Vito Ciancimino, e Salvo Lima. Quindi, voglio dire: quello era il potere vero". "Mani pulite non è stata fermata dalla politica: è stata fermata dai giudici. È una storia che va riscritta prima o poi", dice l'avvocato 69enne. "Mani Pulite si ferma oggettivamente quando si rompe l'unicità dell'inchiesta. La sua forza era infatti nel cosiddetto fascicolo virtuale, nell'idea cioè di creare una connessione probatoria tra tutti i fatti – spiega – per cui procedeva una sola autorità giudiziaria. Ma nel momento in cui nascono i conflitti di competenza territoriale il fascicolo si smembra: e allora non ha più tutti gli elementi, non si può più utilizzare, e soprattutto il pm che sta qua, non conosce l'insieme degli elementi del pm che sta là".  Di Pietro parla della nascita dell'inchiesta, che si interromperebbe quando arriva alla connessione appalti-mafia; e racconta delle carte e di documenti di cui è in possesso, e che vorrebbe divulgare: "Sembra di vedere la storia del mondo capovolto, ma ci sarà un momento per rivalutare questa storia. Ci sarà. Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce dall'esito dell'inchiesta del maxi-processo di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il gruppo Ferruzzi e la mafia. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui viene trasferito", Poi il rapporto rimane sotto chiave, in mano al magistrato ed ex Capo della procura di Palermo Pietro Giammanco. Dopo la morte di Falcone, Borsellino, il quale, come Di Pietro, era a conoscenza di quel fascicolo, inizia a indagare. E secondo Di Pietro, Paolo Borsellino fu ucciso proprio per questo: "Non per il maxiprocesso insieme a Falcone, ma perché insieme a Falcone doveva far nascere Mafia pulita". Mani pulite fu la conseguenza di Mafia pulita. "Il mio obiettivo non era scoprire quello che ho scoperto: era arrivare al collegamento al quale già erano arrivati anche loro a Palermo. Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire". Di questo Di Pietro ha parlato tante volte, con le procure di Palermo, Caltanissetta, Brescia, Milano e con il Copasir. Ma non ha sortito alcun effetto. Salvo Lima, in quanto rappresentante di Andreotti e della mafia aveva intascato insomma una parte della tangente Enimont: "Se quel fatto veniva detto, se Gardini parlava, se Salvo Lima non moriva, io avrei potuto avere elementi sufficienti per chiedere al Parlamento di arrestare Andreotti". La rivazione shock di Di Pietro racconta una verità rimasta sepolta per anni, perché qualcuno gli ha impedito di agire: "All'improvviso le solite manine della delegittimazione mandano una marea di esposti contro di me alla procura di Brescia, che mi costringono alle dimissioni. Ma quando a me rimproverano ‘ti sei dimesso', possibile che nessuno si chieda perché l'ho fatto?". Per 25 anni Di Pietro ha cercato di rispondere a questa domanda, ripetendo che la sua è stata una "scelta di campo": "Se non mi fossi dimesso sarei stato arrestato, perché le accuse fatte mei miei confronti lo prevedevano obbligatoriamente". Sarebbe potuto finire in manette, proprio mentre stava per arrivare alla cupola mafiosa, "grazie alle dichiarazioni che mi aveva fatto il pentito Li Pera su un certo Filippo Salamone, imprenditore agrigentino intermediario tra il sistema mafioso e il sistema imprese-appalti, il nord che veniva gestito soprattutto da Gardini e dalla Calcestruzzi spa di Panzavolta".

Tangentopoli, Falcone e Borsellino. 1992, l'anno che cambiò l'Italia. Il Racconto di Enrico De Aglio il 09 febbraio 2012. Tutto accade vent'anni fa, quando una serie di eventi cambiarono il volto del nostro Paese. Prima la sentenza del maxiprocesso contro la Mafia. Poi l'uccisione di Salvo Lima e la stagione delle grandi stragi di Cosa Nostra. Negli stessi giorni, a Milano, Mario Chiesa intascava tangenti, Di Pietro lo convinse a confessare e il “mariuolo fu arrestato. Poi ci fu il boom della Lega e, due anni dopo, Berlusconi scese in campo. Così finì un epoca e si affermò l'idea che fosse una rivoluzione.

Il 1992 - giusto vent'anni fa - fu l'anno che cambiò l'Italia. Davvero. Ma non fu una rivoluzione, gli italiani non fanno rivoluzioni. Tutti coloro che all'epoca avevano l'età della ragione ricordano quell'anno, se lo vedono balzare di fronte alla memoria. Le serate passate alla tv per sapere in diretta chi era stato arrestato a Milano: un mondo politico che sembrava immortale che crollava sotto i nostri occhi. E poi le bombe: tutti ci ricordiamo dove eravamo quando qualcuno ci disse che era stato ucciso Falcone. E Borsellino? Eravamo già in vacanza, mi sembra... Comunque, faceva molto caldo. Subito dopo vennero le immagini dell'esercito italiano in Sicilia: ufficiali con le mimetiche e i Ray-Ban a specchio, a mezzo busto fuori dalle torrette dei blindati, in mezzo a sacchi di sabbia, palazzi di tufo, bambini curiosi: andavamo a mettere mano su una colonia irrequieta. Alla fine dell'anno il governo operò un improvviso e non indifferente prelievo dalle tasche di tutti, per evitare all'Italia di fare la fine dell'Argentina (vent'anni fa la Grecia si chiamava così). Eppure quando cominciò, il 1992 sembrava tranquillo, ancorché "bisestile". Il solito rissoso governo pentapartito guidato dal solito Giulio Andreotti; un ex Pci sempre più diviso in due dopo la caduta del Muro, grande successo per la canzone di Battiato, Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame... La normalità di un Paese ricco, insomma. E invece, la cronaca prese il sopravvento. A dare inizio alla valanga fu la pubblicazione, il 30 gennaio, della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. Era la più grande mazzata che la mafia avesse mai avuto nella sua storia: 360 condanne, 19 ergastoli da scontare in carceri di massima sicurezza, sequestro delle ricchezze accumulate con il delitto. Poteva essere la fine della nostra vergogna nazionale, ed invece la storia ricominciò proprio da lì. Guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano - due contadini semianalfabeti del paese di Corleone, latitanti da decenni - Cosa Nostra passò all'attacco.

Il primo a cadere (a Palermo, il 12 marzo) fu l'eurodeputato Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia, il suo granaio elettorale. Freddato sul lungomare di Mondello da due killer in motocicletta: inaudito. E successe un fatto strano: nonostante fosse un uomo potente, solo il suo capo, Andreotti, scese a Palermo per i funerali: tutto il restante mondo politico disertò, annusando l'aria che tirava. Giovanni Falcone, il magistrato che aveva sconfitto Cosa Nostra nel maxiprocesso, capì immediatamente quello che stava succedendo: Cosa Nostra aveva avuto assicurazioni politiche su una sentenza favorevole; non l'aveva ottenuta e si stava vendicando. Non solo, andava alla ricerca di un altro referente politico. Si preparavano tempi di guerra. Negli stessi giorni, qualcosa di grosso stava maturando nella capitale morale, Milano. Una signora divorziata, tale Laura Sala, si era rivolta al giudice perché l'ex marito, l'ingegner Mario Chiesa, personaggio in ascesa della nomenclatura socialista meneghina, presidente del benemerito Pio Albergo Trivulzio (vanto dell'assistenza sociale), le passava poco di alimenti. E dire che era ricchissimo. Guarda, guarda, pensarono i carabinieri. Che furono molto zelanti e arrestarono Mario Chiesa, il 17 febbraio, mentre intascava una tangente di sette milioni e altrettanti li stava eliminando nel water. La pratica era seguita da un pubblico ministero sconosciuto, un ex poliziotto molisano, tale Antonio Di Pietro, 42 anni, sanguigno e dal linguaggio colorito, di simpatie democristiane, e che indossava improponibili cravatte di pelle. Di Pietro convinse Mario Chiesa a confessare. E così si scoperchia la più grossa storia di corruzione della Repubblica italiana, passata alla storia come "Tangentopoli " (una specie di Paperopoli di Walt Disney); o "Mani pulite". Ogni giorno qualche pezzo grosso finisce nel carcere di San Vittore; ogni giorno qualcuno denuncia qualcun altro; gli industriali raccontano che non possono lavorare se non danno il 5-10 per cento ai partiti. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affianca altri due magistrati a Di Pietro; Gherardo Colombo (che dieci anni prima aveva scoperto l'esistenza della P2) e Piercamillo Davigo, un forte conoscitore del codice. Il neonato Tg4, diretto dal giornalista ex Rai Emilio Fede, ha l'idea di piazzare un telegiornale in diretta dal Palazzo di giustizia, per dar conto di arresti e confessioni. E le notizie non mancano: crollano dirigenti politici cittadini, regionali, nazionali di quasi tutti i partiti; affondano la Dc e il Psi, vengono ridotte a zero antiche e storiche formazioni come il Pli e il Pri, e più recenti come il Psdi; rimane un po' contuso, ma sostanzialmente salvo il Pds, erede del Pci; estraneo solo il Msi, perché piccolo ed escluso dalla torta degli appalti. Gli italiani fanno un corso accelerato di procedura penale: imparano che cos'è un avviso di garanzia, le differenze tra pm e gip, quella strana cosa che si chiama concussione. La satira di ispirazione comunista raggiunge il suo apice quando può pugnalare i compagni alleati. Settimanale Cuore, titolo a tutta pagina: "È scattata l'ora legale, panico tra i socialisti".

Il 7 aprile si va alle urne: la Dc perde due milioni di voti, il Psi se la cavicchia, il Pds di Achille Occhetto è ridotto al sedici per cento dei consensi. Il bottino è della Lega lombarda di Umberto Bossi, che conquista tre milioni di voti (nel giro di cinque anni questo partitino ha moltiplicato per trenta il suo elettorato in Lombardia e Veneto). L'ideologo della Lega è un vecchio professore universitario, Gianfranco Miglio, che ama vestirsi come un borghese sudtirolese nei giorni di festa, tutto loden e cappellini. La sua proposta è netta: l'Italia va divisa in tre regioni, Padania, Etruria e Mediterranea, e aggiunge che quest'ultima andrebbe governata direttamente dalla mafia, dato che esprime la migliore classe dirigente.

Il 25 aprile, con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si dimette, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Negli ultimi anni del suo mandato si era reso famoso per le sue esternazioni; proclami populistici, attacchi, spesso oscuri, a magistrati, minacce di rivelazioni di segreti di Stato si accompagnavano alla difesa di massoni e carabinieri, dei quali ultimi il presidente invocava una maggiore presenza nella vita pubblica. Di lui si diceva che era pazzo; il bello era che lui confermava.

E così arriviamo alla primavera del 1992. Le elezioni per il nuovo presidente (in genere più lunghe di un conclave vaticano) sono fissate per il 13 maggio. Il favorito dai bookmaker è la vecchia volpe Giulio Andreotti, anche se segnata dal delitto siciliano. Il 23 maggio è un giorno come gli altri. I milioni di appassionati di ciclismo aspettano l'inizio del Giro d'Italia scommettendo su Chiappucci contro il favorito Indurain; gli appassionati di politica seguono le elezioni presidenziali che si trascinano da dieci giorni (Forlani, l'ex pallido segretario della Dc era sembrato farcela, ma Andreotti è pronto al balzo finale). Quasi nessuno presta attenzione a un dispaccio dell'agenzia Agir datata 22 maggio (Agir è una delle decine di foglietti del sottobosco politico romano), diretta da Vittorio Sbardella, potente ex andreottiano. Questi prevede uno stato di improvvisa emergenza per un "bel botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario". Alle 17.55 questo avviene.

L'autostrada Palermo Punta Raisi, in località Capaci, si solleva come un muro di fuoco al passaggio del convoglio che trasporta il giudice Giovanni Falcone. Nel più grande attentato mai visto in Europa dalla fine della guerra - 800 chili di esplosivo in un canale di scolo, un telecomando azionato a 400 metri di distanza - muoiono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo. Si salva l'autista Giuseppe Costanza e la sua vicenda chiama in causa l'esistenza del Fato. Falcone aveva chiesto di guidare "per rilassarsi" Costanza si era seduto sul sedile posteriore, nel posto che sarebbe stato del giudice (se fosse rimasto alla guida, la Storia sarebbe cambiata). Nella notte, il centro di Palermo si riempie di lenzuola bianche appese ai balconi, "No alla mafia". Il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, novarese, tradizionalista, democristiano "senza correnti", presidente della Camera, viene eletto nono presidente della Repubblica con 672 voti. La sua prima presenza pubblica sarà a Palermo ai funerali delle vittime di Capaci, in una tremenda tensione emotiva.

Quando tutto sembrava essere finito, quando il paese era in vacanza, ecco il 19 luglio, di nuovo a Palermo. Un'autobomba in una caldissima domenica pomeriggio distrugge la vita del giudice Paolo Borsellino (il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia) e della sua scorta. È a questo punto - quando veramente sembra che l'Italia non esista più - che arriva l'esercito in Sicilia e un ponte aereo trasporta centinaia di mafiosi incarcerati nell'isola di Pianosa, una specie di Guantanamo ante litteram. Ma, davvero, il 1992 non era ancora finito.

Il livello di corruzione che l'Italia politica aveva espresso (tale che nemmeno la magistratura di Milano sembrava comprenderlo appieno); il livello di violenza terroristica che la mafia aveva scatenato; le pulsioni secessioniste di un Nord economicamente annichilito e senza rappresentanza politica; tutto questo ebbe il suo esito nella più grave crisi finanziaria italiana dal dopoguerra, prima dell'attuale. I Bot non venivano sottoscritti, la Banca d'Italia riusciva, ma solo con l'esborso di 40.000 miliardi, ad impedire il crollo della nostra moneta. Toccò al governo di Giuliano Amato (il socialista che era succeduto a Giulio Andreotti) imporre, in una notte, un prelievo forzoso da tutti i conti correnti; toccò ai sindacati firmare un accordo in cui rinunciavano per due anni ad aumenti salariali e alla indicizzazione della scala mobile. La lira, svalutata del 7 cento, ridiede così un po' di competitività alle esportazioni e ci salvò dal baratro. Ad ottobre, il grande pentito di mafia Tommaso Buscetta - ormai una specie di oracolo - tornò dagli Stati Uniti per annunciare anche agli italiani quello che aveva già detto dieci anni prima all'Fbi; e cioè che Giulio Andreotti era il capo politico di Cosa Nostra.

Il 3 dicembre il magistrato Domenico Signorino, uno dei giudici che aveva retto l'accusa contro Cosa Nostra al maxiprocesso di Palermo, si suicidò, dopo essere stato accusato di essere al soldo della mafia. Il 15 dicembre il segretario del Psi, Bettino Craxi ricevette l'avviso di garanzia che determinò la sua fine politica e personale (pochi mesi dopo, partendo per la Tunisia, dichiarò: "Non starò qui a prendermi le bombe"). La Democrazia cristiana, da sempre il partito di riferimento degli italiani, nello stesso periodo cessò, anche formalmente, di esistere. Alla vigilia di Natale, Bruno Contrada, il capo dei nostri servizi segreti con competenza sulla Sicilia, fu arrestato con l'accusa di avere protetto, per anni, la mafia. E, finalmente, l'anno finì.

Il 1993 sarebbe stato ancora più drammatico e violento. Si aprì con l'arresto spettacolare di Salvatore Riina (il latitante imprendibile viveva da sempre e tranquillamente a casa sua a Palermo, con moglie e quattro figli; e la sua cattura - oggi si sa - fu una colossale farsa); continuò con l'incriminazione di Andreotti per mafia; i suicidi eccellenti (il potentissimo presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il più ricco industriale italiano, Raul Gardini); fu costellato dalle tremende bombe mafiose di Firenze, Roma e Milano e terminò con la più inattesa delle novità: la discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi, uno dei pochissimi industriali milanesi che era passato indenne dalle inchieste di Mani pulite, e che godeva di solidi appoggi finanziari nella Sicilia di Cosa Nostra. Il suo (imprevisto) dominio sull'Italia è durato diciassette anni. Un altro beneficiato dagli eventi fu il magistrato Antonio Di Pietro, che divenne prima un "eroe italiano", poi un uomo politico di una certa importanza che dura tuttora. La cronaca è il racconto degli avvenimenti così come si susseguono nel tempo. La storia è il senso di quegli avvenimenti. Ma purtroppo, il "senso di quel 1992" ancora non lo conosciamo.

La magistratura di Milano salvò il Pci-Pds? Bettino Craxi (il cattivo numero uno dell'epoca) fu affossato perché si era opposto agli americani ai tempi di Sigonella? Cosa Nostra determinò l'eliminazione di Andreotti dalla competizione per il Quirinale? Paolo Borsellino fu ucciso perché si era opposto ad una trattativa tra lo Stato e la mafia? Marcello Dell'Utri, il fondatore del nuovo partito di Forza Italia, agiva come emissario di Cosa Nostra? La Lega e Cosa Nostra perseguivano l'obiettivo comune della divisione dell'Italia? O gli avvenimenti si susseguirono senza alcuna regia? Ognuno metta in una busta la sua spiegazione. La verità - ma solo almeno tra cinquant'anni - sarà premiata dalle autorità competenti. Nel frattempo, in occasione del ventennale, ricordiamo commossi il 1992, gli eroi uccisi, l'indignazione popolare, la società civile, l'anelito risorgimentale. E pazienza se la corruzione e la mafia sono più forti di venti anni fa.

Intervista all'ex pm: "I grillini sono incompetenti". Di Pietro: “Mani pulite fu una primavera. Rifarei tutto tale e quale”. Angela Nocioni su Il Riformista il 6 Novembre 2019. Antonio Di Pietro sta raccogliendo le olive a casa sua in Molise. Dice di sentirsi ormai parte dell’associazione combattenti e reduci. D’essersi pentito d’aver fatto politica. Mani Pulite, invece, la rifarebbe tale e quale. «Quell’inchiesta andava fatta in quel modo. La rifarei non una, ma mille volte così come l’ho fatta», dice l’ex pm del pool dello scandalo Tangentopoli. «Allora mi ritrovai tra le mani un malato grave con un tumore gravissimo, la corruzione ambientale, che aveva infettato lo Stato, corrotto la politica e rovinato la libera concorrenza. L’intervento chirurgico era urgente, altrimenti sarebbe morta la democrazia. Poi però è successo che l’Italia si è ritrovata nel vuoto. Era necessario che le redini del governo fossero prese in mano da qualcuno in grado di farlo. Invece il sistema italiano questo qualcuno non è stato in grado di produrlo. Ci siamo affidati al personaggio di turno. Dopo Mani pulite, i partiti hanno cominciato ad addensarsi attorno a una persona. Ora una, ora un’altra. Vista come quella che potesse risolvere tutti i guai del mondo. Così è nato Berlusconi, così è nato Bossi. E anche Di Pietro. Il cittadino dopo Mani pulite ha cominciato a votare più la faccia che la sostanza. Tutto di pancia. Non va bene».

E questo bel guaio l’avrà mica fatto lei?

«No. L’intervento chirurgico spettava alla magistratura. Il progetto politico invece no. Non spettava alla magistratura. E invece… La classe politica venuta fuori ora è incapace di risolvere i problemi. Non rifarei politica, se tornassi indietro».

Quelli che per fare politica hanno usato il suo nome, la sua popolarità, lanciati anche da lei, hanno seguito la sua eredità o l’hanno tradita? Parlo di Ingroia, per esempio.

«Il primo a salire sul carro del partito personale che è spuntato fuori tra gli effetti di Mani pulite è stato Berlusconi. E pure io. Ma mica siamo stati i soli. Poi è arrivato Grillo. In un momento di grande confusione Grillo è riuscito a portare la rabbia, la voglia di rivalsa e la delusione dei cittadini nelle urne. Meglio nelle urne che a sfasciare le vetrine. È stato bravo. L’errore di Di Pietro e anche di Grillo quale è stato? Lo dico perché i grillini li considero miei figli putativi, sono figli legittimi di Grillo, ma pure figli putativi miei. Io ho fatto un errore: mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con un grande consenso popolare, una classe politica da costruire e ho pensato di poterla costruire con chi aveva già fatto politica in precedenza. E mi sono portato appresso nel mio partito parte del tumore della Prima repubblica, purtroppo. Grillo ha fatto un errore diverso. Ha escluso chi aveva fatto politica in precedenza. Come chiedeva Casaleggio padre, che l’aveva capito guardando l’errore che avevo fatto io. E così Grillo ha portato al governo del paese degli incompetenti che a mala pena saprebbero fare un drink al bar».

Visto il clima politico del momento, crede ci sia il rischio di un nuovo ’92, ’93 in Italia? Di un terremoto politico con protagonisti dei magistrati?

«Non c’è stato nessun rischio allora, c’è stata una primavera. Il rischio per la democrazia c’era prima, c’è stato fino al ’92 perché il malato di tumore stava per morire. L’intervento chirurgico era obbligato dalla legge. Non l’ho fatto per motivi ideologici, io non ho mai chiesto a nessuno di che partito era. Chiedevo: quanti soldi hai preso?»

Prima c’erano Andreotti, Craxi, Forlani. Personaggi discutibili che lasciavano supporre d’aver fatto bene le elementari. Ora c’è Di Maio.

«Ha fatto bene a citarmeli. Andreotti, prescritto per mafia. Forlani condannato perché responsabile di finanziamenti illeciti. Craxi per corruzione. Questi c’erano. Padreterni?»

No. Ma se Craxi discuteva qualcosa a nome dell’Italia, il cittadino medio poteva avere mille riserve e supporre che chi lo rappresentava avesse chiaro che Pinochet non è stato il dittatore del Venezuela.

«Sono preoccupato che un Di Maio qualsiasi rappresenti il mio paese con una conoscenza che è quella che è. Sono amareggiato nel vedere Di Maio che parla delle cose del mondo. Però questo non mi dà la possibilità di giustificare un Craxi che sapeva tutto su come gestire la crisi di Sigonella, tanto di cappello, ma sapeva anche di conti, aveva anche il know how per molto altro. Altro non lecito».

Quindi passati anni dalla morte di Craxi, col senno del poi, lei non ha cambiato idea?

«Io non ce l’avevo né con lui né con altri. Io ho trovato un signore con la marmellata in mano. Di quello mi sono occupato».

Quando lei dice d’aver fatto l’errore di importare nel suo partito un modo di fare della Prima repubblica si riferisce a Razzi e Scilipoti o anche ad altri?

«Non mi riferisco tanto alle persone, ma a una cultura. Razzi poi è il meno peggio di tutti. In questa legislatura ce ne sono centinaia che hanno cambiato casacca. Stanno zitti o fanno finta di averlo fatto per una ragion di Stato che non esiste. Solo interessi personali. Razzi nella sua ingenuità ha detto perché l’ha fatto. E Razzi, di tutti quelli che hanno cambiato casacca, è l‘unico a essere stato eletto con le preferenze».

Lei litigò con il pool di Milano? Com’erano i rapporti tra lei e Borrelli?

«Con il dottor Borrelli ho sempre avuto un rapporto formale, gli ho sempre dato del lei. Un rapporto corretto. Veniva citato da me quotidianamente. L’unica lamentela sua nei miei confronti, un complimento che mi fece in realtà, è che producevo talmente tanti atti da non dargli il tempo di leggere tutto. È una persona per la quale avevo stima perché nei momenti delicati di Mani Pulite ci ha sempre messo la faccia. Lui all’inizio, quando feci arrestare Mario Chiesa, disse: è stato arrestato in flagranza di reato, va in direttissima, tra 15 giorni si chiude tutto. Dopodiché ha avuto modo di prendere atto della realtà dell’inchiesta, ha visto come si allargava. Ebbe modo di capire come il fascicolo cresceva e si comportò in modo corretto. Io lo rispetto. Con gli altri del pool ancora oggi capita che ci troviamo a qualche convegno insieme. A parte Piercamillo Davigo che è al Csm, facciamo parte dell’associazione combattenti e reduci oramai. Il pool di Palermo era diverso. Falcone e Borsellino hanno avuto un pezzo di vita privata insieme. Io con i miei colleghi no, avevamo solo rapporti professionali».

Nessuna lite?

«No».

Cosa pensa del generale Mori?

«Per rispetto di chi deve scrivere la sentenza di quel processo, parlerò dopo. Sono stato testimone, non posso inficiare la mia testimonianza».

Qual è la verità sulle undici case che sembrava fossero sue? Erano sue?

«Sto ancora facendo atti di esecuzione per persone che devono risarcirmi di danni che mi hanno fatto per diffamazione. Alcuni con undici sentenze passate in giudicato. Mai ho portato a giudizio un giornalista che ha messo il microfono sotto il naso di qualcuno che mi ha diffamato, solo le persone che hanno mentito diffamandomi».

Gianroberto Casaleggio come l’ha conosciuto?

«Casaleggio l’ho conosciuto per motivi professionali, nel modo più semplice del mondo. Quando ho iniziato a fare politica e lui si occupava già di rete e di comunicazione, m’è arrivata una email che diceva: noi offriamo questo servizio. L’ho incontrato, ne abbiamo discusso. Lui ha gestito per una certa parte la mia comunicazione e io ho pagato il corrispettivo. Poi io ho preferito continuare a gestirla da solo. Lui ha continuato a occuparsi della comunicazione di Beppe Grillo, cosa che già faceva. Siamo rimasti amici, nel senso di rispetto reciproco, ci confrontavamo, l’ho anche difeso in alcune sue cause per diffamazione. Ma non eravamo intimi, non andavamo a mangiare un piatto di spaghetti».

Con Davide Casaleggio ha rapporti?

«Non lo conosco bene. Non ho avuto con lui il rapporto che ho avuto con il padre».

Si ricorda di quell’agosto romano di quando lei studiava a Roma, era senza casa e le affidarono un cane? 

«Ah sì. Non è un segreto. Sa, quando vedo i migranti che vengono in Italia io ho rispetto per il loro dolore, io sono stato parecchie volte in una situazione delicata, io mi ricordo di quando sono stato immigrato in Germania e lavoravo tantissime ore, giorno e notte, e dormivo in baracca. Noi ci facevamo un mazzo così. La classe operaia emigrata si è sempre fatta un mazzo così».

Sì, ma il cane?

«Andavo a scuola ancora. Lavoravo in una casa editrice a Roma che faceva degli albi. In questa casa editrice c’era una coppia di anziani con un cagnolino bellissimo. Se lo coccolavano tanto. Ad agosto la casa editrice non lavorava. I due signori m’hanno lasciato il cane. Questo cagnolino tutti i giorni a mezzogiorno mangiava una tagliata di vitello. Una al giorno. Io latte e pane. Insomma, per farla breve, gli ho insegnato a bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ del mio pane. E ogni tanto mangiavo un pezzettino della sua tagliata. Era più la carne di vitello che il cane buttava che quella che mangiava. Gli ho insegnato a vivere un po’ da cane. Siamo stati benissimo insieme eh! Mi voleva bene. S’era affezionato il cagnolino».

Quando Di Pietro riceveva i giornalisti in ciabatte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Luglio 2020. E poi venne Di Pietro e cambiò tutto. Nacquero i pool dei giornalisti, omologhi a quelli dei magistrati. Le fonti delle notizie uniche e unificate si sposarono con la stampa unica e unificata. E per ventotto anni sarà così. È ancora così. Nella sala stampa del Palazzo di giustizia di Milano il pubblico ministero Antonio Di Pietro non ancora Tonino, e neanche La Madonna. Prima del 1992 era considerato uno “inattendibile”. Chi ce l’ha quell’inchiesta? ci si chiedeva. Se la risposta era “Di Pietro”, un’alzatina di spalle liquidava subito la faccenda, tanto sappiamo che finirà in niente. L’avvocato Giuliano Pisapia, che pure in quegli anni non fu ostile alla procura di Milano, raccontò un giorno con sgomento le modalità e l’esito di un’inchiesta condotta dal pm nel 1991, proprio alla vigilia dei giorni che poi lo renderanno il più famoso d’Italia. Vale la pena riportare per esteso il racconto di Pisapia, anche per ricordare con precisione il tipo di professionalità e di rispetto delle regole che portarono alla distruzione di una classe politica che aveva governato per cinquant’anni e aveva garantito la democrazia al Paese. «Di Pietro fece scattare un grosso blitz – dice l’avvocato Pisapia – . Senza osservare le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal nuovo codice, furono prelevate alle sei di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la raccolta di dichiarazioni utili. Di Pietro contestò l’associazione per delinquere e la truffa». Inutile dire che l’inchiesta finirà in nulla, con l’archiviazione dell’associazione per delinquere e la derubricazione della truffa. Pure il blitz era stato annunciato come il famoso “scandalo delle patenti false”. I tempi non erano ancora del tutto maturi. Ma colpiscono i metodi usati: annuncio roboante, reato associativo, persone svegliate e prelevate alle sei del mattino, stile di interrogatori da caserma vecchio stampo, violazione di ogni regola del nuovo codice di procedura. Uno stile che si ripeterà, pur con gli osanna generalizzati della stampa, negli anni successivi e nelle più fortunate inchieste che andranno sotto il nome di Mani Pulite. Più o meno nello steso periodo aveva cominciato a farsi notare una giovane pm grintosa e disinvolta, che fu subito battezzata dagli avvocati “la pm in blue-jeans” per il suo abbigliamento poco formale. Era Ilda Boccassini, cui era stato affidato il coté milanese di un’inchiesta di narcotraffico condotta a Palermo da Giovanni Falcone con l’aiuto del capitano Di Caprio. Fu quell’inchiesta il primo tentativo di forzatura politica, con ampio uso di intercettazioni, anche ambientali. Così, da quella che si dimostrerà in seguito solo una vanteria («ho già dato 200 milioni di lire all’assessore», dirà il narcotrafficante), la procura milanese si gettò a corpo morto sulla giunta Pillitteri, che in quegli anni governava Milano. I cronisti giudiziari erano ancora in parte quelli del vecchio conio. Io ero stata nel frattempo eletta al consiglio comunale con la lista dei Radicali antiproibizionisti. Ero all’opposizione, pure qualcosa non mi tornava di quell’inchiesta che coinvolgeva il sindaco Pillitteri e un assessore del suo stesso partito. I socialisti erano sempre stati proibizionisti sulla droga, possibile che fossero in combutta proprio con un gruppo di narcotrafficanti? Ancora si poteva discutere e litigare, in sala stampa al Palazzo di Giustizia in quei giorni, ma fu il quotidiano La Repubblica quello che si buttò a pesce più di tutti, titolando “Le mani della mafia su Palazzo Marino”. Si costituì addirittura una inutile e nullafacente commissione “antimafia” in Comune. Il clima stava davvero cambiando. Se qualcuno ha la curiosità di sapere come andò a finire quella vicenda, cerchi in internet la voce “Duomo connection” e la sentenza della corte di Cassazione del 1995, che condannò, come era prevedibile, solo i narcotrafficanti. Gli altri, politici e “colletti bianchi” che nel frattempo erano stati coinvolti, sono passati da modesti abusi d’ufficio alla sparizione totale dal processo. Ma il 1992 era alle porte. Si racconta che il giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti un certa sera del 1991 abbia detto alla moglie: forse oggi ho messo la firma sotto la mia richiesta di trasferimento. Aveva autorizzato le intercettazioni dei telefoni di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e potente esponente socialista milanese. Il Gip Ghitti non sarà mai trasferito e diventerà il giudice unico che firmerà in seguito tutta intera la valanga delle perquisizioni e degli arresti che si susseguiranno senza soluzione di continuità per oltre due anni. Se nessuno aveva potuto dimostrare che Milano era diventata la città della mafia, fu facile mostrare al mondo che quella che era stata la “capitale morale” d’Italia era diventata la città delle mazzette. Era nata Tangentopoli. Il rapporto tra la stampa e i pubblici ministeri diventò un matrimonio indissolubile, a Milano come a Roma e in tutta Italia. Al pool dei pm faceva eco quello dei cronisti giudiziari. Il metodo che Di Pietro aveva inaugurato con l’infruttuosa inchiesta sulle patenti false portò i suoi risultati, fin dall’arresto dei primi nove imprenditori. Ogni parola, ogni confessione divenne moltiplicatore di altre, fino alla valanga che indusse alcuni avvocati a trasformarsi in “accompagnatori” dei propri assistiti che imploravano un interrogatorio che evitasse le manette. Di Pietro sedeva nel suo ufficio come su un trono. Riceveva i cronisti in ciabatte quasi a dimostrare che non andava mai a dormire. Il flusso delle notizie e dei verbali era costante. Le fotocopiatrici eruttavano carte a getto continuato. Se l’imputato era un pesce piccolo, ci pensavano gli uomini in divisa a saziare la fame della stampa, mentre i grossi erano riservati alle toghe. I direttori dei grandi quotidiani di proprietà imprenditoriale furono schieratissimi a salvarsi la pelle, fino a concordare la sera i titoli del giorno dopo, in spregio della concorrenza e anche alla libertà di stampa. Quando ci fu la palese Grande Ingiustizia, l’accordo del procuratore Borrelli con la Fiat e l’invito di Romiti dalle colonne del Corriere della sera a tutti gli imprenditori perché collaborassero, andò Di Pietro a interrogare in questura il mancato imputato come persona informata dei fatti. E pensare che Romiti, dei 15 episodi che avrebbero potuto essergli contestati, ne raccontò solo un paio. Ma i magistrati si accontentarono. E anche i giornalisti. In sala stampa le mosche bianche come Frank Cimini, che si ribellarono al pensiero unico della Grande Ingiustizia venivano guardate male. Ormai si battevano le mani e si brindava, si faceva la ola e si scodinzolava, obbedienti soldatini prigionieri di un meccanismo e di un palazzo pronto a divorare tutti, da Craxi fino a Berlusconi, senza pietà. Ma soprattutto senza che nessun (o quasi) giornalista mettesse in dubbio i contenuti e i metodi usati dai pubblici ministeri per raggiungere i loro scopi. Che furono troppo spesso politici. Lo scorso gennaio Goffredo Buccini, che fu cronista giudiziario al Corriere in quegli anni, ha ricordato in modo critico un episodio di allora. «Il 15 dicembre del 1992 – ha scritto – grida di giubilo si levarono dalla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano: Bettino Craxi aveva ricevuto il primo avviso di garanzia nell’inchiesta Mani Pulite». E ha poi continuato ricordando come tutta l’inchiesta fosse stata una sorta di inseguimento al vero bersaglio, Craxi. Denunciando infine quel che era successo, e cioè che «cronisti e magistrati erano stati troppo vicini, in una prossimità anche emotiva che è perfettamente umana, ma può finire per confondere pericolosamente gli spartiti». Ecco, questa è la lezione di quegli anni. Quel che sta succedendo oggi mostra che non è ancora finita, che il pensiero unico dell’informazione complice del partito dei pm è ancora lì. E non sappiamo neanche più se si tratti di Magistratopoli o di Giornalistopoli. O di tutte e due.

·         Guida a un monstrum giuridico: il 41-bis.

Circolare del Dap sul 41 bis: rispettare sentenze Consulta, ma la revocano dopo 2 giorni.  Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 Ottobre 2020. Il 29 settembre il Dap chiede di rispettare le sentenze di Consulta e Cassazione, dopo due giorni arriva lo stop del capo Petralia e del vice Tartaglia. Il direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Turrini Vita, tramite circolare, ordina alle direzioni delle carceri di rispettare le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione sul 41 bis. Ma dopo qualche giorno il vice capo dipartimento Roberto Tartaglia e il capo Bernardo Petralia revocano la circolare. Le carceri possono quindi continuare ad opporsi alle ordinanze emesse dai magistrati di sorveglianza che recepiscono la sentenza della Consulta. Cosa è accaduto?

La circolare emanata il 29 settembre. Il Dubbio ha appreso che il 29 settembre scorso, il direttore generale del Dap ha emanato una circolare avente come oggetto i “reclami giurisdizionali (articolo 35 bis OP)”. In questa nota l’ufficio generale ha comunicato l’orientamento assunto dai magistrati di sorveglianza a seguito dei rilevanti interventi della Corte costituzionale e della suprema corte di Cassazione. Ovviamente, come il buon senso e anche lo stato di diritto richiede, ha chiesto di rispettare subito le ordinanze della magistratura di sorveglianza visto che sono dovute dalle sentenze della Consulta e Corte suprema. Di rispettarle, ma soprattutto di non predisporre più reclami avversi.A quali ordinanze si riferisce? Sono quattro. E giustamente l’ufficio generale del Dap le elenca.

Eliminare i divieti imposti in materia di cottura cibi. C’è l’ordinanza di accoglimento di reclami aventi ad oggetto richieste di detenuti volte ad eliminare i divieti imposti dall’amministrazione in materia di cottura cibi. Una questione decisa dalla Corte costituzionale con sentenza del 266 settembre del 2018.

Eliminare il divieto di scambio di oggetto tra detenuti appartenente allo stesso gruppo di socialità. Poi c’è l’ordinanza di accoglimento reclami aventi ad oggetto richieste di detenuti volte ad eliminare il divieto di scambio di oggetto tra detenuti appartenente allo stesso gruppo di socialità. Anche su questa questione la Corte costituzionale si è espressa con sentenza del 5 maggio scorso con la quale, appunto, è stato dichiarato illegittimo il divieto assoluto di scambio di oggetti tra detenuti in 41 bis appartenenti allo stesso gruppo di socialità.

Eliminare le limitazioni alla permanenza all’aria aperta a una sola ora. L’altra è l’ordinanza di accoglimento di reclami aventi ad oggetto richieste di detenuti volte ad eliminare le limitazioni alla permanenza all’aria aperta ad una sola ora. In questo caso trattasi della sentenza della Cassazione che ha detto sì alle due ore d’aria per i detenuti al 41 bis, perché ridurre a un’ora d’aria questo intervallo, considerando al suo interno anche l’ora prevista per la socialità del detenuto significa non comprendere le diverse finalità dei due istituti. Le due ore d’aria, sempre secondo la Cassazione, possono essere ridotte solo in presenza di validi motivi, in assenza dei quali, la riduzione della suddetta durata di aria aperta rivestirebbe un valore meramente afflittivo, in violazione dell’art 27 della Costituzione.

Annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistite in meri scambi di saluto. L’ultima ordinanza elencata è quella di accoglimento di reclami aventi ad oggetto la richiesta di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistite in meri scambi di saluto tra detenuti sottoposto al 41 bis e appartenenti a diversi gruppi di socialità. Anche in questo caso la Cassazione ha ritenuto che il mero saluto (si riferiva al “buongiorno” e alla “buonanotte”) tra detenuti non può essere ritenuta una forma di comunicazione, intesa nel veicolare messaggi.

La circolare è stata revocata il 1° ottobre. La circolare a firma di Turrini era chiara: tutta improntata a chiedere di rispettare le ordinanze ispirate dalle sentenze della Consulta e Cassazione. Ma tempo qualche giorno, esattamente il primo ottobre, come ha appreso il Dubbio, la nota dell’ufficio generale è stata revocata dal vice capo Dap Tartaglia e dal capo Petralia. Al 41 bis la sentenza della Corte costituzionale non può essere applicata?

L'intervista al Presidente dell'associazione "A Buon Diritto". “Violenze, abusi e torture: il 41 bis è illegale”, parla Luigi Manconi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Luigi Manconi, che insegna sociologia dei fenomeni politici allo Iulm di Milano, esplora gli abissi del diritto, e i suoi confini. Dapprima portavoce dei Verdi, quindi sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, dal 2013 al 2018 a Palazzo Madama con il Pd, è stato il primo Garante dei diritti delle persone private della libertà, nominato per il Comune di Roma dall’allora sindaco, Walter Veltroni. La legge che integra il reato di tortura porta il suo nome. Iscritto a Nessuno Tocchi Caino, ha fondato l’associazione A Buon Diritto, sul punto di compiere vent’anni. Per il tuo bene ti mozzerò la testa, saggio sul giustizialismo morale scritto a quattro mani con Federica Graziani, uscito per Einaudi, è il suo ultimo libro. «Negli ultimi decenni mi sono dedicato al tentativo di disvelare le tematiche legate alla detenzione, alla marginalità sociale, all’emigrazione con una dimensione di intelligenza razionale, rifiutando la retorica fatta di emotività e compassione che spesso soffoca questi argomenti».

Il suo osservatorio sui diritti, purtroppo, non conosce riposo.

«Noi abbiamo contato in 22 mesi notizie serie, approfondite e documentate di ben nove vicende che riguardano violenze e abusi contro i detenuti, una parte delle quali configurabili come torture. O comunque quelli che la Corte Europea dei Diritti Umani ha definito “trattamenti inumani e degradanti”. Nove vicende venute alla luce, su cui ci sono indagini della magistratura. Da San Gimignano a Torino a Santa Maria Capua Vetere».

Esiste una pena afflittiva supplementare per chi sta in carcere?

«Certo che c’è, ed è illegale. Contesto la definizione prevalente del 41bis come Carcere duro. Perché il 41bis nella legge non deve essere quello. Non esiste una “detenzione aggravata da un surplus di afflizione”. Non è un carcere al quale va aggiunto un trattamento che introduce la sofferenza come pena addizionale, o determini divieti tali da ridurre gli spazi di vita, socializzazione ed espressione della persona reclusa. Il 41bis non deve essere questo».

Ma lo diventa.

«Eccome. E anche qualcosa di più. Ma per l’ordinamento il 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Il 41bis deve impedire le relazioni con l’esterno per rescindere i legami criminali. Invece è diventato quel carcere duro perché si è trasformato in un sistema di privazioni e limitazioni, imposizioni e divieti».

Anche al di là del 41bis, stare in celle piccole, con scarsi servizi igenici, finisce per integrare una condotta sottilmente afflittiva, di continua umiliazione e degradazione umana…

«Oggi il carcere priva di senso il carattere rieducativo della pena. La legge sulla tortura porta il mio nome, ma non la riconosco: il testo finale è ben diverso da quello che avevo scritto. Dal momento che tengo molto a fondare le parole sulla realtà, parlo di tortura solo quando si configura un comportamento di tortura. Esempio: in queste ore stiamo apprendendo cosa è successo il 6 aprile di quest’anno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lì si può e si deve parlare di tortura».

La legge sanzionerebbe anche gli atti di violenza psicologica.

«Sì, limitando in maniera molto rigida la possibilità di ravvisarla nei comportamenti concreti, sottoponendo l’obbligo di documentarla a condizioni difficilmente riscontrabili. Ma si parla di violenza psicologica, e non c’è dubbio che all’interno del 41bis le violenze psicologiche siano frequenti e ripetute, e possono essere considerate – in casi documentabili – come torture».

Temi scottanti, ma per pochi. Siamo nel paese del giustizialismo morale. Non è un paradosso, avere tanti giustizialisti in un Paese dove scarseggiano senso civico ed etica pubblica?

«Ne è appunto la derivazione. La carenza di spirito pubblico e di senso civico produce un surrogato. Determina cioè un sottoprodotto pericoloso che è il giustizialismo morale. Se ci fosse in Italia più senso civico e spirito pubblico il giustizialismo morale non avrebbe tanto spazio di affermarsi».

Il suo libro non nasconde lo scetticismo verso chi accarezza il populismo giudiziario. Un errore anche del Pd.

«Sicuramente, e noi lo scriviamo esplicitamente: il populismo penale passa attraverso la classe politica del sistema dei partiti condizionandoli tutti. Nutrendoli tutti. In alcuni casi li nutre in misura larghissimamente maggioritaria, in altri casi meno. Ritengo che la Lega sia potentemente condizionata dal populismo penale, e che altrettanto lo siano i Cinque stelle ma, con la sola eccezione dei radicali, non vedo nessuno che ne sia esente».

Nel vostro libro parlate a lungo di Bonafede, con cui Pd, Iv e Leu hanno fatto tutti i compromessi possibili. Qual è il suo giudizio sul Ministro?

«Non sembra interessato ad alcuna visione generale e sembra rifuggire da qualunque, come dire?, filosofia del diritto. Perché affermo questo? Perché mai ho sentito argomentare progetti di legge o decisioni di governo con motivazioni che rispondessero alle critiche di fondo e di principio che riceveva. Le risposte sono state sempre e solo di natura contingente, politicistiche e – uso questo termine in senso giuridico – sostanzialiste».

Cosa intende?

«Quel famoso “guardiamo alla sostanza” che spesso è un inganno. E quel metodo delle maniere spicce che spesso è una truffa e prende il nome di sostanzialismo. La noncuranza per le forme, quasi che le forme non coincidessero esattamente con le regole e con la loro logica. Le critiche fatte alla cosiddetta riforma della prescrizione non hanno mai incontrato una sola risposta all’altezza di quelle che erano contestazioni di natura teorica, ad esempio il fatto che la prescrizione è parte costitutiva del diritto contemporaneo. E non un escamotage truffaldino inventato dagli avvocati. Fa parte di una concezione matura e liberale della giustizia».

Stesso dicasi per le intercettazioni a grappolo. Altro abominio.

«Certo, è così. Anche in quel caso mi colpisce quanto quel discorso sia piegato alla sola efficacia dello strumento. Ora, lo strumento è indubbiamente efficace. Ma è come se mancasse la consapevolezza, anche nel ministro, che comunque stiamo entrando in una sfera di altissima delicatezza, stiamo toccando una materia insidiosissima. Colpisce che non si sia coscienti che misure pur indispensabili, sollevino comunque questioni enormi, anche etiche, che il legislatore deve considerare. La questione della riservatezza non può essere ignorata, come se fosse un bene di lusso rivendicato da privilegiati. Colpisce che la dignità individuale viene ferita, vilipesa attraverso le intercettazioni senza che ci si pongano degli interrogativi di fondo».

L'intervista alla coautrice del nuovo libro. “Le nostre galere negazione del fine educativo”, parla Federica Graziani. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Settembre 2020.

Chi sono i giustizialisti e perché diventano giustizieri?

«Coloro che coltivano un’idea della giustizia che, pur di difendere l’incolumità di beni e affetti, utilizzi ogni arma possibile. Chi crede insomma che si possa rispondere alle proprie aspettative e alle proprie paure purché si individuino e castighino i colpevoli a qualsiasi prezzo. Se necessario, anche eliminandoli».

Come si vive nelle carceri Italiane? Il fine rieducativo lo vede (mai) applicato?

«Nelle nostre galere la negazione del fine rieducativo della pena è l’istituto più rispettato e quando qualche recluso riesce a essere nuovamente incluso nella società dei liberi lo si deve quasi sempre più a una eccezionale combinazione di risorse personali e fortuna che alla tutela del suo diritto costituzionale da parte dello stato».

Quale esperienza ne trae dalle sue visite alle carceri?

«Che ogni essere umano è tanto capace di compiere orrori quanto è capace di cambiare. Nessun uomo si riduce mai solo ai propri crimini e nessun uomo può meritare una condanna tanto abissale da essere ridotto a nient’altro che il suo reato. Occhio per occhio acceca entrambi i bulbi oculari».

Perché, come affermate nel libro, è così “faticoso essere garantisti” in Italia?

«Perché impera un orientamento politico, culturale e giudiziario che sobilla il rancore sociale torcendolo non verso una valutazione razionale delle minacce, al contrario precipitandolo verso un centro, sempre drammatico e semplificato, di esplosione in singoli episodi violenti che richiedono misure spicce e sommarie. Il populismo penale, mostro dalle tante facce e dagli esiti fatali».

Il dramma di Francesco, sepolto vivo da 8 anni in una spirale senza uscita. Maria Brucale su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Francesco ha 65 anni e da otto è detenuto in 41 bis. Pochi colloqui con i familiari ormai in ginocchio per le spese legali e i viaggi per raggiungerlo. Ha sempre contestato il decreto con cui veniva ogni volta rinnovato il “carcere duro”, espressione orrida quanto eufemistica. Il 41 bis è il più stridente punto di rottura dei principi costituzionali e convenzionali che governano e delineano il senso della pena. Si contrappone con forza ad ogni aspetto del vivere umano: affettività, territorialità, segretezza della corrispondenza, diritto allo studio ed alla libera informazione, diritto al lavoro, alla socialità. Perfino il diritto alla parola. È sospeso, a norma di legge, il trattamento intramurario ordinario e quello residuo, di rieducativo, ha ben poco. Le ore di Francesco scorrono nel silenzio e nella lentezza del niente di quella carcerazione che non ha attività alternative alla cella. E ogni volta che impugna il nuovo decreto si illude che sarà quella buona, che finalmente i giudici vedranno che non ha contatti con nessuno, che non ha denaro, che pensa soltanto ai suoi cari. Ormai da otto anni vive nel buio di una condizione soltanto punitiva che non aspira al recupero, spegne e basta. I giudici lo capiranno. Così, ancora una volta Francesco è davanti al tribunale di sorveglianza e spera. In udienza, però, si sente contestare dalla procura antimafia che alcuni collaboratori avrebbero parlato di un suo interessamento su fatti estorsivi e, inoltre, che da captazioni ambientali sarebbe emerso che, in una data determinata, durante un colloquio in carcere con la moglie, le avrebbe affidato messaggi di mafia. Le richieste della difesa di acquisire le dichiarazioni dei collaboratori e le trascrizioni delle conversazioni vengono tutte respinte. Non saranno utilizzate, rassicura il collegio. Francesco le troverà, però, nel suo provvedimento di rigetto, un altro, a formare la sua storia di detenuto, una storia scritta da altri e incisa sulla sua pelle alla quale non sa come cambiare il finale perché non gli sono offerti strumenti per farlo. Eppure, un colloquio con la moglie Francesco in quel giorno non lo aveva proprio avuto ma sembra non importare a nessuno. A giudicare Francesco, a decidere delle sue sorti, non c’è il suo giudice naturale, il tribunale di sorveglianza del luogo della sua detenzione, tenuto a conoscerlo. Dal 2009 decide il tribunale di sorveglianza di Roma, per tutti i ristretti in 41 bis, in qualunque carcere si trovino, per una norma il cui scopo dichiarato era quello di determinare l’uniformità giurisprudenziale in materia di reclami. Da allora le persone sottoposte al regime differenziato vedono ineluttabilmente rinnovare la loro condizione e patiscono diuturnamente un isolamento di opportunità e di relazioni senza via di uscita. Nel vagliare le impugnazioni, il tribunale si limita ad avallare la presunzione di pericolosità formulata nel decreto ministeriale che applica o proroga la misura in ragione della gravità del reato in esecuzione, anche quando risalente a oltre un ventennio prima, delle dichiarazioni di collaboratori, anche quando in programma di protezione da un quarto di secolo, dei rapporti avuti con mafiosi di spicco, anche se defunti da un decennio. Pochi giorni prima dell’udienza, vengono depositate agli atti del fascicolo le “note DAP”, un carteggio che racchiude i pareri di alcuni organi interpellati sulla necessità che il reclamante rimanga in regime derogatorio. Spesso vengono allegati dei CD contenenti sentenze e ordinanze custodiali (migliaia di pagine) relative ad altre persone nei luoghi in cui l’interessato aveva commesso il reato, in virtù di una suggestione di cointeressenza radicata solo sul dato territoriale. Il contenuto di tali supporti, però, rimane oscuro per la difesa cui non è destinata una postazione computer per visionarli e valutarne pertinenza e utilità a meno che non decida di affrontare le spese onerosissime di copia (circa 350 euro a CD). Le note sono intrise di affermazioni vaghissime e suggestive: «collaboratori di giustizia di recente hanno affermato che dai regimi ordinari i detenuti continuano a veicolare all’esterno i loro messaggi»; «non risulta che Tizio abbia collaborato con la giustizia»; «non si esclude che ove allocato in un circuito comune possa riprendere i contatti con la criminalità». Si tratta di illazioni la cui vacuità dovrebbe essere apprezzata dal tribunale di sorveglianza per costatare il venir meno dei presupposti legittimanti del decreto ministeriale. Ma ciò non accade. Francesco è ancora in 41 bis.

Riina è sepolto, la barbarie del 41bis è viva e vegeta. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 20 Agosto 2020. “Io da sedici mesi, diciassette mesi isolato da tutti e da tutto. Ogni tanto mi si attacca una televisione e poi mi si stacca sette mesi, otto mesi perché mi debbo pentire. Io non ho niente da pentire, è inutile che mi trattano così”. Era Totò Riina, in uno sfogo a conclusione di un’analisi solo parzialmente condivisibile quando osservava che i responsabili della giustizia di cui si lamentava “sono i comunista” (in realtà “i comunista” cui lui si riferiva volevano mettere in galera quelli che lo avevano arrestato). Ma analisi a parte – che non era affatto male anche se addebitava “ai comunista” meno responsabilità rispetto a quelle che essi effettivamente portavano – importante era quella sua lamentazione: un anno e mezzo di isolamento, poi un po’ di Tv ma solo se si pente, e altrimenti gliela tolgono. Di questi tormenti pare che non si possa parlare perché a soffrirne è chi ne ha inflitti a sua volta, e ben più gravi, alle vittime dei suoi delitti: dunque non deve muovere a pietà, figurarsi a indignazione, se il mafioso è torturato. Pensa a quanti ne ha ammazzati, e come. E nemmeno si pente. E si noti che l’inibitoria a farne anche solo materia di discussione non viene soltanto dalle vittime, cui più ampiamente bisogna concedere, ma dalla reazione comune e diffusa e ancora dai sacerdoti della demagogia antimafia, quelli che rivendicano la piena bontà dei rigori carcerari perché prima del 41-bis “i criminali stavano come al grand hotel”. Nemmeno l’obiezione secondo cui quel regime di barbarie si imporrebbe per l’esigenza di impedire al criminale di organizzare dalla prigione altri delitti, nemmeno questa ricorrente e facile risposta si aggrappa a una giustificazione accettabile: perché anche la mordacchia gli impedirebbe di parlare e anche la corda gli impedirebbe di spiegarsi con i gesti, ma l’efficacia non renderebbe ammissibili questi rimedi. È “un super-criminale”, fu detto di Riina, e fu detto per giustificare il trattamento che subiva e per pretendere che morisse in carcere (il senatore Matteo Renzi, royal baby del garantismo egoriferito, rivendicò con orgoglio di aver fatto morire in prigione sia Provenzano sia Totò Riina, perché “era doveroso per rispetto delle vittime e delle sentenze”). Ed evidentemente per parlare della barbarie carceraria è necessario che essa si incattivisca sugli innocenti. L’occasione, in teoria (anche in pratica), non mancherebbe visto che le gabbie ne sono piene, ma è come militare contro la pena di morte perché c’è caso che porti all’assassinio di chi non ha fatto nulla. Il guaio è che non si fa nemmeno questo: e il carcere duro, incensurabile perché serve contro i cattivi, diventa incensurato anche quando punisce i buoni. Totò Riina non c’è più, e non si chiede a nessuno di dispiacersene. C’è ancora la giustizia che competeva con la sua ferocia, e questo dovrebbe dispiacere a tutti.

Guida a un monstrum giuridico. Il 41-bis è baluardo giustizialista fuori dallo Stato di diritto: inumano degradante e illegale, va abolito. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 14 Agosto 2020.

1. Nei giorni scorsi Sergio D’Elia e Luigi Manconi, su questo giornale, hanno parlato criticamente del regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Entrambi se ne intendono: D’Elia è coautore del primo pionieristico libro sull’effettività del cosiddetto carcere duro (Tortura democratica. Inchiesta su «la comunità del 41-bis reale», Marsilio, 2002); Manconi, da presidente di Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani, ha firmato nella scorsa legislatura una relazione che documenta lo iato tra apparenza e sostanza normativa del 41-bis. Il diritto alla conoscenza sulle situazioni in cui è in gioco la libertà personale, e dunque l’habeas corpus di cui già si preoccupava nel 1215 la Magna Charta libertatum, è interesse di tutti: «carcerieri, carcerati e cittadini o stranieri in provvisoria libertà», per dirla con Adriano Sofri. Eppure, ciò sembra non valere per il regime speciale del 41-bis. Finanche la legge delega n. 103 del 2017, promossa dall’allora guardasigilli Orlando, disegnava un complessivo e ambizioso progetto di riforma dell’intero ordinamento penitenziario, «fermo restando quanto previsto dall’art. 41-bis». Hic sunt leones, come si tracciava sulle mappe a indicare territori incogniti. Perché questa assenza di contraddittorio?

2. La risposta è nelle molteplici dimensioni in cui è stato collocato il 41-bis, rendendolo inattingibile a una discussione razionale che, per essere tale, presuppone due condizioni parimenti essenziali: la disponibilità all’ascolto delle ragioni altrui e la possibilità di un mutamento delle proprie. Quello sul 41-bis è invece un dialogo tra sordi, innanzitutto in ragione della sua dimensione simbolica. Non è più una norma giuridica, ma uno spartiacque tra chi è contro la criminalità organizzata e chi – per collusione o ignoranza del fenomeno o ingenuità compassionevole – non lo sarebbe abbastanza. Come ha scritto Nicolò Amato (I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro, Armando editore, 2012), in tutto ciò «vi è una sorta di implicita intimidazione: “Stai bene attento a come scegli”, il riflesso notturno di un sabba di streghe e demoni. Chi non è amico, è nemico. Chi non è con me, è contro di me». Anche Amato sa di cosa parla: da capo del Dap nel decennio 1983-1993, ha visto la genesi del 41-bis e l’inasprimento dei regimi speciali tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Quando però una norma si eleva a simbolo, a lume votivo, svela la propria natura costituzionalmente borderline. Mi è già accaduto di dirlo, ma ripetere giova. Il simbolico e il diritto abitano mondi diversi: emotivo e irrazionale il primo, perché agìto da pulsioni profonde; ragionevole il secondo, perché frutto di scelte misurate e predeterminate. Non è un caso se, diversamente dagli stati autoritari, lo Stato di diritto è molto cauto nel plasmare norme emblematiche, escludendole categoricamente in materia di reati e sanzioni. Un diritto penale liberale, infatti, persegue reati, non fenomeni criminali. Accerta responsabilità individuali, non collettive. Punisce persone, non gruppi. Sanziona secondo proporzione, non in misura esemplare. Diversamente, muterebbe in un diritto penale del nemico finalizzato al suo annientamento, secondo una logica bellica extra ordinem, perché il diritto serve a domare la violenza, non a scatenarla.

3. Il 41-bis abita inoltre una rivelatrice dimensione semantica. In gergo lo si chiama con il nome di «carcere duro». È una locuzione ingannevole. Lascia intendere che il nostro ordinamento preveda una pena ulteriore e di specie diversa, più afflittiva delle altre, riservata a colpevoli dalla mostruosa biografia personale, dunque da neutralizzare e punire attraverso un regime detentivo caratterizzato da un surplus di severità. Non è questo, invece, ciò che dichiaratamente prescrive l’art. 41-bis. La sua rubrica («situazioni di emergenza»), i suoi presupposti («gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica»), la sua adozione («con decreto motivato del ministro della Giustizia, anche su richiesta del ministro dell’Interno»), ne disegnano uno statuto incompatibile con quello di una sanzione penale. Le pene, infatti, sono predeterminate per legge, non nascono provvisorie, vanno inflitte da un potere giurisdizionale autonomo e indipendente da quello esecutivo. Inoltre, applicandosi in base al reato, il 41-bis riguarda (anche) semplici imputati, mentre una pena punisce un colpevole condannato al termine di un giusto processo. Di più. Ciò che tale norma consente è esclusivamente «la facoltà di sospendere, in tutto o in parte», e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di «impedire i collegamenti» tra il dentro e il fuori. Lo scopo dichiarato, dunque, non è punire in modo esemplare, ma evitare che anche dal carcere i capi cosca possano impartire direttive al proprio sodalizio criminale. Ogni altra diversa finalità rende illegittima la misura applicata con provvedimento ministeriale, perché «puramente afflittiva» (così la sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale).

4. Gravato da tutta questa eccedenza simbolica e semantica, il 41-bis ha finito inevitabilmente per affrancarsi dalla sua primigenia dimensione emergenziale. Il cosiddetto carcere duro nasce, infatti, a cavallo di due emergenze: quella terroristica al tramonto, e quella in atto dello stragismo mafioso. Emergenziale è il vettore normativo che lo introduce, il decreto legge n. 306 del 1992. E poiché – come insegna la Corte costituzionale – «l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea» (sent. n. 15/1982), il 41-bis nasce con la data di scadenza: 8 agosto 1995, prorogata con altri decreti legge al 31 dicembre 1999, poi al 31 dicembre 2002, infine stabilizzato con legge n. 279 del 2002 (e successivamente inasprito con il cosiddetto pacchetto sicurezza Maroni del 2009). Da allora, l’ordinamento incapsula un doppio binario, giustificato dall’ossimoro di un’emergenza quotidiana sempre più inclusiva. Lo scambio scatta in presenza dell’imputazione o della condanna per reati dal particolare allarme sociale (catalogati nel sempre più lungo e cangiante art. 4-bis), indirizzando il ristretto verso regimi investigativi, probatori, processuali, detentivi, sanzionatori, governati secondo regole speciali. Nel tempo, dunque, l’ordinamento si è assuefatto a un corpo prima estraneo, poi penetrato sottopelle, infine metabolizzato. Eppure tutto ciò pare non costituire un problema. Anzi, la stabilizzazione del 41-bis è stata salutata con favore, perché la definitività crea certezza del diritto, preferibile a un’anomala precarietà normativa. La sua natura di norma dichiarativa e non impositiva assolverebbe il 41-bis da ogni censura di legittimità, da rivolgere semmai ai singoli provvedimenti ministeriali applicativi, dei quali andrebbero misurate la congruità allo scopo, la proporzionalità, l’osservanza al divieto di trattamenti inumani. Curiosa argomentazione. Equivale a dire che – per assurdo – non sarebbe un problema (costituzionale) la previsione, a regime, della pena capitale o della tortura di Stato, ma solo la loro concreta inflazione caso per caso.

5. Si spiega così la dimensione apparentemente microconflittuale del 41-bis. Derubricatane l’esistenza a falso problema, la giurisprudenza costituzionale si concentra oramai su suoi singoli e specifici ambiti di applicazione: il numero di colloqui con il proprio difensore (sent. n. 143/2013), il divieto di ricevere libri e riviste (sent. n. 122/2017) o di cuocere cibi in cella (sent. n. 186/2018) o di scambiarsi tra detenuti zucchero, caffè, saponetta e detersivo (sent. n. 97/2020). A breve, la Corte dovrà scrutinare le modalità dei colloqui tra i figli minorenni e il padre in regime detentivo speciale. È una microconflittualità alimentata da una pervasiva normazione sublegislativa, che – con la circolare Dap del 2 ottobre 2017 – si spinge a stabilire, ad esempio, le dimensioni dell’unica pentola (25 cm) e dell’unico pentolino (22 cm) in lega di acciaio leggero, il numero (non più di 30) e la misura (20×30 cm) delle fotografie consentite in cella, la quantità di matite colorate (non superiore a 12) nella disponibilità del ristretto in 41-bis. Inviterei a non sottovalutare tale contenzioso. E non solo perché – come osservano inequivocabilmente i giudici costituzionali – in gioco sono «quei piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso» (sent. n. 97/2020). Guardata in campo lungo, quella microconflittualità rivela uno stillicidio di misure che, nel loro insieme, dettano il ritmo e il respiro di una detenzione quotidiana perennemente a rischio di tradursi in un trattamento contrario alla dignità umana, che con la persona fa tutt’uno. Questo raccontano le testimonianze di chi, in 41-bis, ha trascorso o ancora trascorre lustri e talvolta decenni della propria vita. Questa è la preoccupazione che attraversa i report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, all’esito delle loro attività ispettive. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, più volte ha commisurato le applicazioni del 41-bis al divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu), e non sempre l’Italia ne è uscita assolta, perché quel divieto è generale e assoluto, inderogabile anche in caso di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» (art. 15 Cedu).

6. Forse è l’ora di guardare alla luna (l’art. 41-bis) e non alla punta del dito che la indica (la singola misura applicativa del 41-bis). Forse va ripensata una giurisprudenza costituzionale dall’evidente vocazione ortopedica. Due soli esempi, a futura memoria. La Corte europea dei diritti valorizza il fattore-tempo come misura del grado di afflittività dei regimi detentivi speciali. Ebbene – ai sensi dell’art. 41-bis – il carcere duro «ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni», potenzialmente sine die, anche perché «il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente» per revocare o alleggerire le limitazioni imposte. Davvero ciò non viola l’art. 117, 1° comma, della Costituzione, che esige il rispetto dei nostri obblighi internazionali pattizi? La Corte costituzionale ora riconosce natura materialmente penale a tutte quelle misure penitenziarie idonee a trasformare la natura della pena e ad incidere concretamente sulla libertà personale (sent. n. 32/2020). Alla stregua di ciò, il 41-bis va assunto per quel che concretamente è: una «pena accessoria speciale, a carattere discrezionale, da eseguirsi durante l’esecuzione della pena principale» (Angela Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffré, 2016). Attratta così nell’orbita del diritto penale sostanziale, ne dovrà rispettare tutte le garanzie costituzionali: riserva assoluta di legge, riserva di giurisdizione, irretroattività delle sue modifiche in peius, proporzionalità, funzione rieducativa della detenzione. Davvero il carcere duro sta dentro questo rigoroso perimetro?

7. A tali interrogativi la risposta più comune è un’alzata di spalle, facilmente traducibile: a mali estremi, estremi rimedi. E se circa 800 detenuti per reati efferati sono sottoposti al carcere duro, poco male: se lo sono meritati. Ricordo una vignetta di Altan, a rappresentare il dialogo tra un mafioso e il piccolo dodicenne Di Matteo (rapito perché figlio di un pentito, poi strangolato e infine sciolto nell’acido). Dice il primo: «Il carcere duro è inumano». Risponde il secondo: «Vuoi fare cambio?». È una tesi largamente diffusa e di facilissimo consenso. Non può però essere la tesi di uno Stato di diritto, dove la pena dovuta è la pena giusta, e la pena giusta è solo quella conforme a Costituzione.

·         Le loro prigioni: Concorso Esterno in Associazione Mafiosa.

Detenuti ai domiciliari, Repubblica spara una mitragliata nella schiena di Bonafede. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Settembre 2020. Si sente beffata, la Repubblica di Manettopoli, perché non tutti i detenuti anziani e malati mandati ai domiciliari a causa del virus sono stati ancora sbattuti di nuovo in galera. Centoundici tornati dentro, ma 112 rimasti a casa. A curarsi, ohibò! “Il carcere provvisorio dei boss”, lamenta un seccatissimo Attilio Bolzoni, il quale pare non sopportare l’esistenza dei giudici di sorveglianza e la loro “interpretazione o forzata applicazione delle leggi”. E caspita, sembra suggerire, fatevele leggere e interpretare da uno come Davigo le leggi, se no rischiate di sembrare tutti dei Corrado Carnevale, degli “ammazzasentenze”. Insaziabili, con una grande fame e sete di persecuzione, di manette, forse di pena di morte. Il fantasma che si aggira per l’Italia, che penetra nei tribunali, nelle redazioni dei giornali e in qualche segreteria di partito non è un progetto o una richiesta di giustizia, ma al contrario, voglia di vendetta, di rancore, di fargliela pagare. Tocca alla Repubblica di Maurizio Molinari, oggi, il quotidiano che ha cambiato direttore ma non redazione, che è sempre rimasta quella delle dieci domande a Berlusconi. Quella dei moralisti solo sulla vita degli altri. Se la prendono, da vigliacchi, con un soggetto debole, il detenuto. Loro lo chiamano mafioso, noi prigioniero. Perché chi è privato della libertà, sia che stia in un carcere, sia che venga rinchiuso in un ospedale, una comunità o anche la propria casa, è pur sempre una persona soffocata dalla mancanza di aria. Un prigioniero. A volte anche mafioso, ma sempre prigioniero. Si rassegni Marco Travaglio. Lui ci prova ogni giorno nel suo piccolo, a convincerci che ogni persona incarna in sé il peccato, come a dire il reato. Ma è sempre piccolo e solo. Ma quando si muove la Repubblica di Manettopoli, sfonda alla grande. E trova subito la possibilità di contagiare tutto il mondo dell’informazione. Lo stiamo già vedendo. E già immaginiamo la prima puntata della prossima trasmissione di Giletti, con tutte le Dda-dadaumpa schierate a gridare “in vinculis, in vinculis!”. Fossimo nei panni (ma, più che difficile, sarebbe impossibile come somigliare a una delle gemelle Kessler) del ministro Bonafede, qualche brividino lo avvertiremmo. Perché il titolo principale in prima pagina del quotidiano di ieri (“Metà dei boss ancora a casa”), sparato a freddo mentre gli altri parlano dei problemi della scuola, delle elezioni e anche della positività al virus di Silvio Berlusconi, non è solo una pallottola, è una mitragliata di kalashnikov dritta nella sua schiena. E infatti il ministro subito la piega e promette nuovi controlli, mentre le opposizioni chiedono le dimissioni. È paradossale che ci tocchi difenderlo, questo guardasigilli che pare un alieno, quanto meno perché, quando è scoppiata la pandemia, si è posto il problema delle carceri e del loro perenne pericoloso sovraffollamento. Ancora più di 61.000 detenuti in luogo dei 50.000 previsti dalla capienza degli istituti di pena. E impossibilità di applicare le regole del distanziamento in celle in cui i corpi non possono che stare uno addosso all’altro. E almeno due iniziative, una del governo, l’altra interna al ministero di giustizia, che hanno riguardato la vita nelle prigioni, parevano andare nella direzione giusta. La prima era quella dell’articolo 123 del decreto Cura Italia, con la previsione della possibilità che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi (o la coda finale di una più lunga) si potesse scontare al domicilio. Nobile intenzione, poi in parte arenata dalla mancanza di braccialetti elettronici, cui hanno supplito alcuni magistrati intelligenti che hanno applicato la norma anche senza braccialetti. Il secondo intervento, in linea con l’esigenza di evitare il più possibile una probabile diffusione del virus in luoghi chiusi e stretti come le carceri, è la famosa circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che tanto rumore ha seminato nel mondo della Repubblica di Manettopoli. Che cosa recitava di scandaloso la direttiva? Chiedeva ai direttori delle carceri di segnalare all’autorità giudiziaria i casi di ultrasettantenni o portatori di gravi patologie, allo scopo di applicare il differimento della pena, indipendentemente dal reato e dal numero di anni da scontare. I giudici e i tribunali di sorveglianza hanno applicato. Con scrupolo, accogliendo o rigettando le richieste che arrivavano dai difensori dei detenuti. Qualcuno è andato (provvisoriamente) a casa, altri no. Ma è scoppiato comunque l’inferno, schiuma alla bocca e penne intinte nelle biografi e dei peggiori tagliagole della storia. Solita identificazione della persona con il suo reato, per cui il carcerato vecchio e malato, se è anche mafioso, perde il diritto a essere vecchio e malato. Si sparano numeri sempre più alti, con titoli sempre più scandalistici, istigando l’opinione pubblica a crocifiggere i giudici di sorveglianza quasi fossero dei complici dei mafiosi. Tre di loro si videro persino costretti a chiedere al Csm l’apertura di una pratica a tutela, di cui non si è più saputo niente, in tempi di Palamara. La Repubblica di Manettopoli a un certo punto aveva persino sparato (sempre parole come pallottole): «I 376 boss scarcerati. Ecco la lista riservata che allarma le procure». E giù elenchi e liste, con nomi cognomi indirizzi. E mancavano solo le impronte digitali. Salvo poi scoprire che, di questi “boss”, solo tre erano detenuti con il regime più impermeabile, cioè quello previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e riservato alle persone, proprio come i capimafia, ritenute più pericolose. Ma poi chi erano questi 376? Siamo sicuri che le misure alternative fossero state applicate tutte in seguito alla circolare del Dap e non per altri motivi? Va anche detto che, di tutte queste centinaia di “boss” che hanno ottenuto nei mesi scorsi il differimento di pena e la possibilità di scontarne una parte al domicilio, non risulta che nessuno si sia dato alla latitanza, che sia scappato. Per controllare meglio il territorio, diranno sicuramente coloro che non credono nei principi della Costituzione, nel diritto alla salute e al recupero del detenuto. Resta il fatto che, pur dopo la controriforma che, un mese dopo la circolare del 21 marzo, impose alla magistratura di sorveglianza vincoli maggiori (tra cui la consultazione del procuratore nazionale antimafia) sulle proprie decisioni, tutti quelli che poi torneranno in carcere furono trovati a casa e nel proprio letto. E neanche la defenestrazione dell’ex capo del Dap Basentini e l’arrivo al vertice del dipartimento di due procuratori antimafia della Dda e il dimezzamento dei provvedimenti di differimento pena, ancora soddisfa l’ingordigia della Repubblica di Manettopoli. Ma si, arrestateci tutti. Anzi, rompete l’ipocrisia e abbiate il coraggio di chiedere che si introduca di nuovo la pena di morte. Tanto la tortura c’è già, come dimostrano i casi dei due avvocati calabresi Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo.

Boss scarcerati, erano meno della metà. Il giornalismo giudiziario di Repubblica che dovrebbe indignarci. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Settembre 2020. Stringi stringi, la vera notizia che La Repubblica (Salvo Palazzolo) ci ha dato giovedì scorso in prima pagina a proposito di “boss e mezzi boss” (oscuro copyright by Attilio Bolzoni) scarcerati durante il lockdown per rischio Covid, è che essi non furono 498, come pure dichiarato dal Ministro Bonafede in Parlamento, ma 223, cioè meno della metà. Lo dobbiamo a una analisi finalmente seria dei fascicoli in questione svolta da parte del nuovo capo del Dap, Bernardo Petralia (se aspettavi il nostrano “giornalismo giudiziario di inchiesta”, stavi fresco!). Fosse stata fatta prima, saremmo stati tutti moralmente autorizzati ad indignarci un buon cinquanta per cento in meno, e magari a risparmiarci almeno una parte delle tremila puntate di “Non è l’Arena, è una Gazzarra”. Il fatto è – lo diciamo da sempre – che in questo paese di giustizia penale si ama parlare a prescindere dai fatti. Si parla di processi senza conoscerli, di sentenze senza averle lette (e in ogni caso, occorre anche capirle), di scarcerazioni a prescindere dal perché e dal per come. Se Bolzoni avesse letto Palazzolo (ma non lo ha fatto, continua a parlare di 498 scarcerati), avrebbe dovuto misurare la coerenza del proprio ragionamento con quella notizia. Da decenni, applicando leggi illuminate e purtroppo sempre più derogate ed avversate, i Tribunali di Sorveglianza applicano (per motivi di salute o di reinserimento sociale, come preteso dalla Costituzione) misure alternative al carcere ai temutissimi “boss e mezzi boss”: categoria che, naturalmente, non significa un bel nulla. Ancora nessuno ci ha spiegato quali sarebbero gli esatti contorni della nozione di “boss”, figuriamoci il “mezzo boss”. Parliamo di detenuti in alta sorveglianza, visto che la bufala dei “41 bis” scarcerati giusto Giletti la poteva raccontare (se poi un detenuto al 41 bis ha un cancro alla prostata, ancora non è previsto che ne debba morire in carcere). Quindi detenuti condannati per reati di gravità medio alta, in grande prevalenza traffico di stupefacenti, spesso ma non sempre gestito da cosche mafiose o camorristiche o ‘ndranghetistiche; ma in larga parte manovalanza di medio livello, al più meri partecipi delle associazioni. I rischi sanitari connessi alla epidemia Covid sono stati giustamente considerati dai Tribunali di Sorveglianza, anche su sollecitazione del Dap in relazione ai pericoli del sovraffollamento carcerario, meritevoli di valutazione esattamente al pari di ogni altra condizione potenzialmente lesiva del diritto alla salute del detenuto, soprattutto per soggetti sanitariamente deboli (ultrasettantenni, a volte ultraottantenni con gravi comorbilità), che non certo da ora la legge impone di valutare. E quindi? Dove risederebbe lo scandalo? Quale sarebbe la notizia? Di cosa dovremmo indignarci? Io ho ben chiaro di cosa indignarmi, e cioè proprio di questo modo davvero insopportabile di fare informazione giudiziaria. Mi domando: Bolzoni ha compulsato non dico tutti i 223 fascicoli relativi alle altrettante scarcerazioni in ordine alle quali semina indignazione, ma almeno una parte di essi? Parla con cognizione di causa? Ho l’impressione di no. E soprattutto, si guarda bene dall’informare i suoi lettori che queste “scarcerazioni” sono frutto di un vaglio procedimentale accurato che prevede non solo lo scrutinio da parte dei Tribunali di Sorveglianza di documentazione medica, relazioni comportamentali dal carcere, informative antimafia e di polizia giudiziaria, ma soprattutto – e basterebbe questo – il parere dell’organo dell’Accusa, cioè della Procura generale. Per esperienza dico che, con la più alta probabilità, quei provvedimenti sono stati nella maggior parte dei casi accompagnati dal parere favorevole dei Procuratori generali. Potrei essere smentito naturalmente, ma è mai possibile che un giornalismo che voglia occuparsi seriamente del problema ritenga di poter prescindere da questo genere di accertamenti? E ove le cose stessero come dico, non avrebbe da trarne alcuna conseguente riflessione? La tragedia è che si fa informazione per simboli, per suggestioni, per categorie astratte grossolane (“boss e mezzi boss”). Non sono 223 provvedimenti giurisdizionali accuratamente adottati da decine e decine di giudici diversi vagliando i singoli casi: sono “le scarcerazioni dei boss mafiosi”, che sarebbero state determinate – questa è la bufala ancora più inqualificabile – da una circolare del Dap. Di qui la trama fantasiosa del b-movie che va in onda da qualche mese, e che presto deraglierà – sono pronto a scommettere – verso una seconda edizione de “La trattativa”. Non conta nulla il lavoro di quei Magistrati, ma il processo di piazza inscenato da giudici autoproclamatisi tali, che ritengono del tutto superfluo ed anzi controproducente informarsi dei fatti, studiare le carte, acquisire consapevolezza di regole e procedure. Scrive Bolzoni, come a scrollarsi di dosso queste elementari obiezioni: “la legge è legge, ma la mafia è la mafia”. Leggetela bene questa frase, è la più esplicita delegittimazione della Legge, del primato dello Stato e della Legge sull’arbitrio e sul taglione. “La legge è legge, ma la mafia è la mafia”, io – francamente, dott. Bolzoni- lo lascerei dire ai mafiosi. Boss o mezzi boss che siano.

I tre casi simbolo. Concorso esterno, il reato fantasioso che non esiste: i casi Longo, Stilo e Pittelli. Tiziana Maiolo de Il Riformista il  28 Agosto 2020. Che cosa avrà mai in comune la vicenda dell’oggi di una direttrice di carcere con quella di due avvocati calabresi, e con quelle di ieri che riguardavano un ex alto dirigente della polizia, un altrettanto famoso giudice di cassazione, oltre a un ministro democristiano e a un dirigente di Publitalia poi entrato in politica, tutti siciliani? La laurea in giurisprudenza? Il fatto che – lo possiamo dire persino sulla base di atti processuali – nessuno di loro abbia mai partecipato ad alcuna associazione criminale di tipo mafioso? No, sono accomunati dal fatto di aver commesso il reato che non c’è. Il concorso esterno in associazione mafiosa. Inesistente nel codice penale. Di loro sappiamo per certo che hanno svolto o svolgono (o svolgerebbero, se non fossero in carcere) ruoli e professioni di una certa delicatezza. Come la dottoressa Maria Carmela Longo, illuminata e stimatissima direttrice della sezione femminile di Rebibbia, a lungo con lo stesso ruolo nell’istituto di pena di Reggio Calabria, portata a esempio in convegni e trasmissioni tv per la sua visione di un carcere moderno in cui sia applicabile il principio costituzionale del reinserimento del detenuto. Una dirigente la cui cultura giuridica e riformistica non poteva che apparire sospetta al nuovo corso del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, all’interno del quale è nata non a caso l’inchiesta che l’ha portata agli arresti domiciliari. Un orientamento di stretta sulle carceri, proprio nel momento in cui il mondo medico e scientifico sta mettendo in guardia per il rischio di nuovi contagi da Covid-19, e che pare persino un messaggio nei confronti del ministro Alfonso Bonafede e del suo decreto “Cura Italia” che aveva sollecitato a svuotare le prigioni e a ricorrere alle misure alternative. L’arresto della dottoressa Longo, accusata di eccessiva benevolenza e confidenza con i detenuti calabresi, in particolare con quelli indagati o condannati per i reati più gravi, manda come prima indicazione il fatto che con il nuovo corso del Dap sono più importanti i lucchetti e le porte sprangate che non la Costituzione, la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. Del resto il trattamento riservato all’avvocato Giancarlo Pittelli, sbattuto in un angolo della Sardegna e privato del diritto a essere interrogato dal “suo” pm, quello che ha sollecitato e ottenuto il suo arresto, è perfettamente in linea con la nuova filosofia Dap del dottor Petralia. E non parliamo dell’altro avvocato calabrese, pure messo in ceppi nell’inchiesta Rinascita-Scott, fiore all’occhiello del procuratore Gratteri, cioè Francesco Stilo, che ancora non riesce a vedere il proprio difensore. Prima lo hanno messo in isolamento nel carcere di Opera dopo che il suo compagno di cella era risultato positivo al test sierologico, poi, benché il suo tampone sia negativo, hanno fatto sapere ai suoi difensori che risiedono in Calabria che, se pure si metteranno in viaggio, sapranno solo sulla soglia del carcere se potranno vedere o meno il proprio assistito. Ma perché abbiamo accomunato due avvocati e una direttrice di carcere calabresi con i siciliani Bruno Contrada, Corrado Carnevale, Marcello dell’Utri e Calogero Mannino? Perché identico è lo strumento usato nei loro confronti che è servito per colpire, per arrestare, per processare, per annientare. Non è un reato, è un po’ come l’isola che non c’è, quella che non può esistere se non nella nostra fantasia o nelle nostre speranze. Analogamente, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, dal 1994 prodotto di fantasia e di giurisprudenza, non fa sognare, come nella canzone di Bennato, un’oasi senza guerre e senza violenza, ma al contrario, un mondo dove si possa qualificare come mafioso chi mafioso non è, ma lo è un pochettino, perché i suoi comportamenti comunque aiutano le organizzazioni criminali. Oddio, nel codice esisterebbe già il reato di favoreggiamento, ma è troppo poco. Vuoi mettere con un bel reato associativo, che ti consente di intercettare, arrestare e sputtanare il poliziotto che rischia di fare ombra alla tua carriera, o il giudice garantista che fa le pulci a svarioni e superficialità dei propri colleghi, o il co-fondatore di un partito che ha scompaginato il mondo politico, o un bel democristianone del potere che fu? Sono soddisfazioni. Del resto, mentre nel mondo giuridico, dopo la prima clamorosa sentenza Demitry, che nel 1994 per la prima volta distinse l’associato alla criminalità dal concorrente esterno, scoppiavano critiche e contestazioni, e una successiva sentenza Villecco sostenne il contrario, fu la Cassazione a sezioni riunite a dare con la propria giurisprudenza il sigillo di autenticità al reato che non c’è. Quasi per un capriccio della storia, la prima di queste sentenze riguardava il caso Carnevale e la seconda quello di Mannino. E agli effetti del risultato dottrinale, poco rileva il fatto che poi ambedue siano stati poi assolti dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa. A poco è valso, finora, se non per il condannato, il fatto che la Corte Europea dei diritti dell’uomo abbia aperto la strada all’annullamento della sentenza nei confronti di Bruno Contrada, in quanto condannato per reati degli anni precedenti alla famosa sentenza del 1994. La Cassazione a sezioni riunite non ha ritenuto applicabile a Marcello Dell’Utri né a nessun altro dei “fratelli minori” di Contrada quel provvedimento il quale “non costituisce sentenza pilota e neppure può ritenersi espressivo di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea”. Tombale. Una bella mitraglietta nelle mani di pubblici ministeri e giudici. Soprattutto perché, senza bisogno di sporcarsi le mani con la ricerca di fatti specifici che si configurino come reati concreti, si può arrestare con facilità senza dover dimostrare che la persona indagata abbia dato all’organizzazione criminale un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario. Basta invece il fatto che “oggettivamente”, come nei processi staliniani, l’abbia sostenuta dall’esterno. Il reato non c’è. Ma le manette, che scattano ogni giorno nei confronti di persone che, proprio come Mannino e Carnevale, poi verranno assolte, oppure, come nel caso di Contrada e Dell’Utri, condannate senza fondamento, quelle ci sono e sono molto concrete. E oggi riguardano gli avvocati Pittelli e Stilo e la direttrice Longo.

Reggio Calabria, arrestata l’ex direttrice del carcere: «Favoriva i detenuti legati alla ‘ndrangheta». Il Dubbio il 26 agosto 2020. L’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i pm, la donna avrebbe messo in atto «una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dap». Agli arresti domiciliari l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i pm, la donna avrebbe messo in atto «una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria», concorrendo «al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ’ndranghetistico». Stando all’inchiesta guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri e dai sostituti procuratori della Dda Stefano Musolino e Sabrina Fornaro, Maria Carmela Longo avrebbe avallato in particolare «le richieste dei detenuti ristretti presso la casa circondariale Panzera». I detenuti favoriti sarebbero quelli ristretti in regime di «alta sicurezza», dunque indagati o imputati per associazione mafiosa o comunque per reati aggravati dalle modalità mafiose. Uno di loro sarebbe stato Paolo Romeo, avvocato ed ex parlamentate, alla sbarra nel processo “Gotha”. Di benefici particolari avrebbero potuto contare anche boss del calibro di Cosimo Alvaro, Maurizio Cortese, Michele Crudo, Domenico Bellocco, appartenenti alle ’ndrine di Reggio e provincia. Secondo l’accusa, alcuni detenuti “graditi” avrebbero avuto la possibilità di incontrare i familiari al di fuori dell’istituto penitenziario e al di fuori dei limiti previsti nella disciplina dei colloqui. La dottoressa Longo, è scritto nel capo d’imputazione, «individuava i detenuti da autorizzare all’espletamento del lavoro intramurario, nonchè quelli da indicare al magistrato di sorveglianza per l’espletamento del lavoro esterno». Maria Carmela Longo, inoltre, avrebbe consentito, «la collocazione di detenuti ristretti in circuito di Alta sicurezza legati da rapporti di parentela o appartenenti allo stesso sodalizio criminoso nelle medesime celle».

 Favori ai clan calabresi, arrestata la direttrice del carcere di Rebibbia. Maria Carmela Longo guidava la sezione femminile. Ma per la procura antimafia, quando si trovava nel capoluogo reggino, avrebbe elargito concessioni ai boss detenuti nel penitenziario di San Pietro. Alessia Candito il 26 agosto 2020 su La Repubblica. La conoscevano come funzionaria integerrima, scrupolosa, puntigliosa nell’osservare regole e procedure. Ma ieri mattina, della direttrice della sezione femminile di Rebibbia Maria Carmela Longo, chi con lei nell’ultimo anno ha lavorato ha scoperto un’altra storia e un’altra faccia. Per i magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria che la accusano di concorso esterno e per questo per lei hanno chiesto e ottenuto i domiciliari, è stata la Longo ad aver garantito favori, elargito concessioni, permesso incontri e regolari eccezioni alle regole a boss di clan storici, detenuti nel carcere di San Pietro. Il più grande della città calabrese dello Stretto, uno dei più importanti di tutta la Calabria, dove dietro le sbarre finiscono spesso i pezzi da novanta dei clan imputati nei processi che si celebrano in città. Quelli che è bene che passino direttamente dalla cella all’aula bunker che alla casa circondariale è collegata. Maria Grazia Longo lo ha diretto per 15 anni. Un’eternità, si vantava lei negli anni scorsi, quando su sua richiesta stava per prendere servizio a Rebibbia. Nessuno dei suoi predecessori – sottolineava-  aveva retto tanto alla guida del medesimo incarico. Ma per i pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro è proprio in quegli anni che gregari, luogotenenti e generali delle più importanti cosche cittadine hanno goduto di un regime privilegiato. Il capo di imputazione è sintetico. Quasi asettico. La procura di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri avrebbe scoperchiato «una sistematica violazione delle norme dell'ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria» e la Longo avrebbe contribuito «al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo 'ndranghetistico». Ma l’inchiesta parla di detenuti che avrebbero dovuto essere trasferiti rimasti in cella, di relazioni funzionali a scarcerazioni o regimi meno restrittivi garantite da certificati medici opinabili, di inspiegabili permessi e incontri garanti agli uomini dei clan. C’è tutto questo nell’ordinanza firmata dal gip di Reggio Calabria, Domenico Armaleo, ma nel fascicolo d’indagine potrebbe esserci molto di più. Secondo indiscrezioni, sotto inchiesta sarebbero finiti anche diversi agenti penitenziari che negli anni hanno lavorato alle dipendenze della Longo e avrebbero collaborato o taciuto sul regime di favore concesso a piccoli e grandi boss. Legali no, al momento non ne risultano coinvolti, ma fonti investigative suggeriscono che qualche indizio c’è. Tutto da sviluppare, da verificare. Se la Longo si aspettasse di essere scoperta non è dato sapere. Ma chi la conosce e con lei ha lavorato gomito a gomito, racconta di un agosto passato in ufficio, di settimane di nervosismo e tensione e di una sempre più manifesta voglia di tornare a Reggio Calabria. Eppure era stata lei a decidere di concorrere per quel posto da direttrice della sezione femminile del carcere di Rebibbia, che con l’esperienza e le qualifiche accumulate ha ottenuto senza difficoltà. «Ho bisogno di nuovi stimoli» spiegava a chi glielo chiedesse, quasi stupito per quella scelta che i più consideravano un passo indietro in carriera. Una decisione curiosa che adesso inizia a sembrare una fuga. Dalle indagini. O da un pantano di favori, piccoli e grandi illeciti, volute miopie magari diventate troppo rischiose. E che i magistrati hanno scoperto.  

Alessia Candito per “la Repubblica - Edizione Roma” il 27 agosto 2020. La conoscevano come funzionaria integerrima, scrupolosa, puntigliosa nell' osservare regole e procedure. Ma ieri mattina, della direttrice della sezione femminile di Rebibbia Maria Carmela Longo, chi con lei nell' ultimo anno ha lavorato ha scoperto un' altra storia e un' altra faccia. Per i magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria che la accusano di concorso esterno e per questo per lei hanno chiesto e ottenuto i domiciliari, è stata Longo ad aver garantito favori, elargito concessioni, permesso incontri e regolari eccezioni alle regole a boss di clan storici della ' ndrangheta, detenuti nel carcere di San Pietro. Il più grande della città calabrese dello Stretto, uno dei più importanti di tutta la Calabria, dove dietro le sbarre finiscono spesso i pezzi da novanta dei clan imputati nei processi che si celebrano in città. Maria Grazia Longo quel carcere lo ha diretto per 15 anni. Un' eternità, si vantava lei negli anni scorsi, quando su sua richiesta stava per prendere servizio a Rebibbia. Ma per i pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro è proprio in quegli anni che gregari, luogotenenti e generali delle più importanti cosche cittadine hanno goduto di un regime privilegiato. L'inchiesta parla di detenuti che avrebbero dovuto essere trasferiti rimasti in cella, di relazioni funzionali a scarcerazioni o regimi meno restrittivi garantite da certificati medici opinabili, di inspiegabili permessi e incontri garanti agli uomini dei clan. C' è tutto questo nell' ordinanza firmata dal gip di Reggio Calabria, Domenico Armaleo. Se la Longo si aspettasse di essere scoperta non è dato sapere. Ma chi la conosce e con lei ha lavorato gomito a gomito, racconta di un agosto passato in ufficio a Roma, di settimane di nervosismo e tensione e di una sempre più manifesta voglia di tornare a Reggio Calabria. Eppure era stata lei a decidere di concorrere per quel posto da direttrice della sezione femminile del carcere di Rebibbia, che con l' esperienza e le qualifiche accumulate ha ottenuto senza difficoltà. «Ho bisogno di nuovi stimoli» spiegava a chi glielo chiedesse, quasi stupito per quella scelta che i più consideravano un passo indietro in carriera. Una decisione curiosa che adesso inizia a sembrare una fuga.

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 27 agosto 2020. C'era un patto non scritto tra detenuti e direzione all'interno del carcere di San Pietro, a Reggio Calabria. I boss gestivano la struttura a modo loro, autorizzati dalla direttrice Maria Carmela Longo, arrestata martedì e posta ai domiciliari, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La struttura ne guadagnava in termini di tranquillità interna, che veniva appunto imposta a tutti i detenuti dai boss, come regalo da fare alla direttrice. Il comportamento pacifico dei detenuti le serviva per redigere report sulla qualità della vita all'interno del carcere. Erano soprattutto i boss di Reggio Calabria che tenevano le fila, gestivano le destinazioni dei detenuti, le attività, il lavoro esterno e anche il vitto. L'ordinanza di arresto per Carmela Longo, che attualmente dirigeva la sezione femminile del carcere di Rebibbia, è stata firmata dal gip Domenico Armoleo, su richiesta dei pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro. I fatti contestati si riferiscono al periodo 2015-2019. Quello della direttrice viene definito dal gip un «atteggiamento ben lontano dal ruolo istituzionale ricoperto». La funzionaria ha, di fatto, consegnato il carcere ai detenuti «organici ai clan mafiosi egemoni sul territorio di Reggio Calabria». Con Carmela Longo sono indagati alcuni agenti penitenziari e il medico del carcere Antonio Pollio. Quest' ultimo si sarebbe prestato, su richiesta della direttrice, a redigere un certificato medico falso per favorire la detenuta Caterina Napolitano impedendole così di presenziare a un processo in cui era chiamata a testimoniare. «Era una pacchia trascorrere la detenzione nel carcere di Reggio Calabria» ha raccontato il collaboratore di giustizia Mario Gennaro, vicino ai boss di Archi, terra dei De Stefano. È proprio il clan che va per la maggiore in città con i comuni alleati Libri, Condello e Tegano, che gestiva l'ordinario trascorrere della detenzione. Erano loro che decidevano la collocazione nelle celle tenendo per sé i «cubicoli», celle più spaziose e con un bagno più grande. Erano sempre loro che decidevano le destinazioni in altri istituti carcerari di detenuti calabresi. Nel carcere di San Pietro anche i detenuti di massima sicurezza potevano tranquillamente passeggiare nei corridoi, diventati una sorta di «agorà», dove ogni recluso era libero di frequentare chi voleva. Anche telefonare all'esterno non era un problema. Insomma, secondo i magistrati, c'era un solido rapporto di amicizia tra i boss reggini e la direttrice. Stessa cosa con alcuni agenti penitenziari, stretti collaboratori della Longo. I sovrintendenti Fabio e Massimo Musarella, per esempio, avevano il compito di aggiustare i certificati medici per favorire i detenuti e si occupavano di correggere le domande di trasferimento da una cella all'altra. Sempre sotto dettatura dei boss. Non è la prima volta che il carcere di Reggio finisce sotto i riflettori. All'inizio degli anni '80, furono arrestati il direttore Raffaele Barcella e dieci agenti di polizia penitenziaria. Un'ispezione del ministero accertò l'allegra gestione all'interno della struttura. Nelle celle, all'epoca, vennero trovate casse di champagne, aragoste e capretti. Mentre Paolo De Stefano, boss di Archi, andava in giro con la pistola alla cintola.

 “È troppo umana con i detenuti”, arrestata per mafia la direttrice del carcere di Reggio Calabria. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Comparirà oggi davanti ai magistrati per l’interrogatorio di garanzia l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, arrestata con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la Dda reggina – diretta da Giovanni Bombardieri – l’ex direttrice della casa circondariale avrebbe messo in atto “una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dap”, concorrendo – si legge nell’ordinanza firmata dal Gip Domenico Armaleo,- “al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico’’ e avallando “le richieste dei detenuti ristretti presso la casa circondariale Panzera”. Nella stessa inchiesta, indagati per aver favorito alcuni detenuti ristretti nel circuito di Alta Sicurezza, sono coinvolti anche i sovrintendenti della Polizia penitenziaria Massimo e Fabio Musarella. Sotto indagine, infine, anche un medico dell’Asp, Antonio Pollio, e una detenuta, ai quali si contesta un certificato medico firmato dal dottore al solo scopo di permettere alla stessa detenuta, testimone in un processo, di evitare l’udienza. La “linea dura” suggerita tra le righe sin dalle prime circolari del Dap si traduce nel clima che ispira provvedimenti esemplari. “Colpirne uno per educarne cento”. E qui si colpisce duro, la Longo è una caposcuola del carcere rieducativo e ha una carriera importante: da un anno è alla guida della sezione femminile della casa circondariale di Rebibbia dopo aver diretto per quindici anni – senza mai una nota di demerito – le carceri reggine di Panzèra ed aver guidato la casa circondariale-modello di Arghillà, tirata su in due anni con squadre di detenuti che sotto la sua gestione si sono perfino occupati di finalizzare una parte dei lavori. Sono numerosissime le interviste che l’hanno vista protagonista, come fautrice di una interpretazione più umana della convivenza carceraria. Anche Diego Bianchi, con la popolarissima Propaganda Live, La7, ne aveva fatto un punto di riferimento per raccontare con le sue parole il pianeta carcere. Un esempio? «Il mio primo impegno – gli diceva Maria Carmela Longo – è stato quello di ristrutturare l’istituto penitenziario di Reggio dotando tutte le camere di pernottamento di servizi igienici e doccia in cella. Una vera conquista visto che quasi tutti gli istituti penitenziari in Italia hanno le docce in comune». Il semplice tentativo di rendere appena più dignitosa la vita dei detenuti le è valso negli anni più di qualche frecciata. «Il carcere di Reggio Calabria è diventato un hotel a cinque stelle», hanno iniziato a dire i detrattori. E fa riflettere l’intervento muscolare del sindacato della Polizia Penitenziaria, Uilpa PP, che ieri si è affrettata a schierarsi con un irrituale comunicato stampa a sostegno della Procura: «Ci sentiamo di rivolgere il nostro plauso al Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di polizia penitenziaria che sta dando un fondamentale contributo alle indagini, così come ci sembra di scorgere nei nuovi vertici del Dap e, in particolare, nel suo Capo Petralia, una nuova e più proficua determinazione». Petralia per dirla tutta aveva tanta determinazione anche per andare a guidare la Procura di Torino, prima che le intercettazioni del suo nome fatto da Palamara gli suggerissero di ritirarsi. Ma quella è un’altra storia. E per tornare a Reggio Calabria bisogna sentire l’avvocato Giampaolo Catanzariti, Osservatorio carceri dell’Unione Camere Penali. Con lui analizziamo le accuse. «Noi come avvocati la abbiamo vissuta come figura dalle alte capacità manageriali, mai ci è sembrata minimamente accondiscendente. Anzi, a noi è parsa sapersi distinguere per capacità di gestione, per competenza tecnica, per il carattere forte, per la capacità di imporsi, regolamento sempre in mano». Ma ci sono le accuse: avrebbe ritardato ad arte qualche provvedimento di trasferimento; avrebbe favorito qualche famiglia, avvicinando gli appartenenti delle ‘ndrine in cella; avrebbe mandato a fare l’ora d’aria in cortile detenuti che forse era meglio tenere separati. «A me sembra allucinante che si vada a spaccare il capello sui temi della collocazione nelle celle, di chi si possa o non si possa incrociare in corridoio o sfiorare in cortile. È incredibile non tenere conto della particolare composizione del carcere di Reggio, che ha una densità di detenuti ‘ad alta sicurezza’ record in Italia», dettaglia Catanzariti. La tacciano di cedevolezza, di aver avuto la manica larga nelle concessioni. «Io credo che da parte della Procura, qualcuno avesse da anni la sensazione che la criminalità tutto sommato si trovasse meno male che altrove, non per complicità ma perché non c’era quel dente avvelenato di cui qualcuno pensa si debba essere dotati». E ci racconta un episodio. «Anni fa ebbi il via libera dal pm per un colloquio straordinario in carcere con un assistito. Il comandante della polizia penitenziaria me lo nega. Ne nasce un diverbio, arriva la direttrice Longo. Mi ascolta, valuta e dà ragione al comandante. Colloquio negato. Altroché manica larga, è stata sempre attenta ai regolamenti e di nessuna condiscendenza». L’ordinanza di arresto usa toni diversi. «Longo – dicono gli atti – e’ scesa a patti con detenuti del calibro di Michele Crudo, ritenuto affiliato alla cosca Tegano, e con molti altri aderenti alla ‘ndrangheta del mandamento reggino. Ha lasciato loro il potere di assumere le decisioni nei settori chiave della vita penitenziaria agevolandoli in molteplici occasioni con permessi e mancate traduzioni pur di non avere problemi e senza curarsi di violare con costanza e sistematicità le normative dell’ordinamento penitenziario». Sulla direttrice Longo ha fatto affidamento nel tempo Rita Bernardini, che con le sue visite di sindacato ispettivo è stata a Reggio Calabria e a Rebibbia molte volte. «Dubito molto delle accuse che le sono rivolte. Il problema in Calabria è che è esclusa qualsiasi rieducazione e percorso riabilitativo per coloro che sono in alta sicurezza. Se un direttore si muove nella direzione prevista da ciò che è costituzionalmente normato rischia l’accusa di connivenza», dichiara la dirigente radicale al Riformista. Poi ironizza: «Per coloro che sono accusati e/o condannati per 416-bis l’unica strada è il “pentimento”; altrimenti, la morte civile disumana e degradante diviene la condizione di lunghi anni di custodia cautelare e poi condanna». Maria Carmela Longo si è formata come dirigente penitenziaria alla scuola di Paolino Quattrone, suo predecessore a Reggio Calabria: un uomo che aveva lavorato per anni proprio sul fronte del carcere dal volto umano. Mutatis mutandis, fu anch’egli indagato, nel 2010, finito il mandato. Non venne mai condannato, però. Tradito dalla giustizia nella quale aveva sempre creduto, Quattrone si lasciò vincere e si sparò un colpo di pistola.

«Il modus operandi della direttrice era conosciuto e approvato dal Dap». Pubblicato da Damiano Aliprandi SU Il Dubbio il 28 agosto 2020. Parla Giacomo Iaria, difensore dell’ex dirigente del carcere di Reggio Calabria. «Quando la dottoressa Longo non rispettava le circolare lo motivava. Come mai non c’è stato alcun procedimento disciplinare?». «Nel caso porterò a testimoniare i passati dirigenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – a partire dall’ex consigliere Ardita, Piscitello e l’ex capo del Dap Basentini – che hanno avuto a che fare con lei e hanno sempre approvato il suo approccio nella gestione dell’istituto». Così spiega a Il Dubbio il penalista Giacomo Iaria, del foro di Reggio Calabria, avvocato che assiste l’ex direttrice del carcere reggino di lungo corso Maria Carmela Longo con la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’avvocato Iaria ha appena assistito Longo durante l’interrogatorio di garanzia, durato ben cinque ore. L’accusa, ricordiamo, è grave. Ha scritto infatti il gip Domenico Armaleo: «L’indagata Longo non ha lesinato durante il periodo della sua reggenza di intrattenere rapporti quanto mai inopportuni con i parenti di alcuni detenuti, per non dire che ella con il suo inqualificabile comportamento ha sistematicamente violato le norme dell’ordinamento penitenziario così agevolando, ed alleggerendo, il periodo di detenzione dei maggiori esponenti della ‘ndrangheta cittadina e non solo». Ma davvero ha agevolato le consorterie ‘ndranghetiste concedendo “inqualificabili” favori? L’avvocato Iaria è chiaro su questo punto. «Verissimo che non ha rispettato alla lettera la normativa o l’ultima circolare che arriva, ma ritenere che questo si sia verificato con l’intento di favorire qualcuno ci passa il mondo». L’avvocato spiega che Longo ha per tantissimi anni diretto il penitenziario reggino (dal 2016 si è aggiunto un secondo, quello di Arghillà) senza mai aver ricevuto lamentele da parte dei provveditorati e dal Dap. Non solo. Durante le innumerevoli visite ispettive, la direttrice ha sempre apertamente detto come gestiva i detenuti, favorendo – quando era possibile – il benessere di tutti i reclusi. «La dottoressa Longo ha gestito un carcere sovraffollato – spiega l’avvocato Ilaria -, prevalentemente costituito da soggetti di caratura mafiosa e che si trova immerso in un contesto ambientale dove determinate relazioni sono state inquinate e prontamente denunciate da lei stessa». L’avvocato sottolinea che la gestione di una realtà carceraria del genere non può essere fatta sotto un punto di vista formale. «Le circolari che dettano determinate regole non possono ad esempio essere univoche per tutte le carceri, per questo – continua l’avvocato Iaria – una persona come la dottoressa Longo, che ha diretto quel penitenziario per 16 anni, ovviamente non ha potuto rispettarle alla lettera». L’avvocato, però, dice qualcosa di più. «Peraltro – aggiunge il penalista -, determinate cose non sono state fatte senza che i superiori non ne siano informati, quindi se dovessimo credere alle accuse, dovremmo estendere il concorso esterno anche nei confronti di tutti i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria fino ai massimi livelli». L’avvocato sottolinea che i vertici non solo hanno appreso le modalità della Longo, ma addirittura hanno approvato questo suo modus operandi. Il legale spiega che ha ricevuto così tanti apprezzamenti per la sua gestione, tanto che a fine anno del 2018, alla ex direttrice è stato inizialmente anche offerto un posto come vicecapo del Dap. Per l’avvocato non c’è nessuna condotta di favoritismo, «semmai si può parlare di una gestione di un carcere con delle problematiche difficili e dove non si può gestirlo solo dal punto di vista formale». Dalle accuse sembrerebbe che l’ex direttrice facesse di tutto per far stare i detenuti legati dallo stesso sangue insieme. «L’accusa è che l’avrebbe fatto per farli comunicare, ma – spiega l’avvocato – lo sanno tutti che nelle carceri anche di alta sicurezza non serve stare nella sezione cella per comunicare. Esiste l’ora d’aria, i luoghi di socialità o di culto come durante la messa». L’ex direttrice, in sostanza, ha dato questa possibilità semplicemente per facilitare i colloqui durante le visite dei familiari. Tutto qui. «Viene stigmatizzata anche la disponibilità che la direttrice ha dato nell’avere colloqui con i familiari dei detenuti – denuncia il legale -, davvero vogliamo anche in questo caso parlare di connivenza con la mafia? Ma quale sarebbe il reato qui? Per i magistrati evidentemente è uno scandalo che i familiari possano andare a parlare con la direttrice del carcere». Resta il fatto che le accuse rimangono pensanti, eppure si trattano di violazioni di regole scritte che teoricamente sarebbero infrazioni punite con una sanzione disciplinare. Nulla più. «Si dà il caso – ribadisce l’avvocato Iaria – che quando Longo non rispettava le circolari, scriveva al Dap motivando perché non le osservava. Come mai non c’è stato nessun procedimento disciplinare?». Per questo l’avvocato, nel caso, porterà in aula come testimoni tutti i dirigenti del Dap che conoscevano molto bene il modus operandi della Longo.

Liberoquotidiano.it il 28 maggio 2020. “Lei confermerebbe parola per parola quello che ha detto a telefono con Massimo Giletti?”. A questa domanda di Andrea Purgatori è arrivata la risposta convinta di Nino Di Matteo: “Ci mancherebbe, confermo assolutamente tutto. Non posso accettare che si faccia credere che io abbia detto qualcosa che non corrisponde al vero”. Il magistrato appare molto calmo e soprattutto convinto del fatto suo: “Se sarò sentito in qualche sede istituzionale - ha aggiunto ad Atlantide, la trasmissione in onda mercoledì sera su La7 - ripeterò i fatti e li circostanzierò. Qui le posso soltanto dire che quello che ho detto è chiaro e lo confermo parola per parola. Ovviamente nella telefonata a Non è l’Arena non ho potuto circostanziare ulteriormente, ma lo farò se verrò sentito in sede istituzionale”. Insomma, più chiaro di così non si può: un’altra grana per il ministro Alfonso Bonafede, che continua a tirare avanti nonostante il profondo imbarazzo per tutte le vicende spiacevoli che lo hanno investito.

Il caso Morabito riemerge dall’inchiesta sull’ex direttrice del carcere. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 agosto 2020. Ufficialmente Maurilio Morabito si sarebbe suicidato, ma secondo il Gip che ha disposto gli arresti domiciliari per la dottoressa Longo, «la direttrice non avrebbe raccolto la denuncia esposta dal padre del detenuto in un colloquio avuto con lei». «Il grido di allarme di Vincenzo Morabito e l’indifferenza della dottoressa Longo». Così il Gip, accogliendo la richiesta dei domiciliari per l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, ha scritto in uno dei tanti capi d’accusa nei suoi confronti. Tutti da verificare, perché almeno sentendo il suo avvocato difensore, emerge che il suo modus operandi ( il non eseguire pedissequamente le disposizioni delle circolari visto la complessità del carcere) era alla luce del sole, tanto da ricevere l’avvallo del Dap. Dall’ordinanza emerge però un’altra vicenda, nel passato affrontata dalle pagine di questo giornale, che riguarda la morte del 46enne Maurilio Pio Morabito. Una storia tragica che i pm reggini, per trovare consistenza nelle loro accuse, fanno riemergere colpevolizzando di indifferenza la ex direttrice Longo. Ma nella loro argomentazione, alla fine danno nuovi spunti per riaprire il caso chiuso come suicidio. Ufficialmente Maurilio Morabito si sarebbe suicidato il 29 Aprile del 2016 nel carcere calabrese di Paola. Un tragico evento che fu messo in luce grazie all’attivismo del calabrese Emilio Quintieri, da sempre in prima linea per i diritti dei detenuti. Morabito si trovava ristretto in una cella “liscia” nel carcere di Paola quando è stato ritrovato privo di vita. Metterlo nudo in isolamento, con a disposizione solo una coperta e un secchio per gli escrementi, non era proprio il massimo per garantire l’incolumità del detenuto. Infatti non è servito a nulla, se non ad aggravare il problema. Morabito doveva scontare una pena definitiva di quattro mesi di reclusione per un’evasione dai domiciliari denunciata dieci anni prima, quando era stato arrestato per detenzione di stupefacenti e a causa di un malessere si era allontanato da casa per andare dal medico senza avvisare l’autorità giudiziaria. A parte lo psichiatra del carcere, nessuno tra parenti, amici e detenuti ha mai confermato che Maurilio soffrisse di una forte depressione e che voleva togliersi la vita. Anzi. Temeva di essere ucciso e non ne faceva mistero. Ed è questo il punto cruciale che ritroviamo poi scritto nell’ordinanza degli arresti domiciliari nei confronti della direttrice Maria Carmela Longo, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il motivo? Non avrebbe raccolto la denuncia esposta dal padre di Maurilio, Vincenzo Morabito, durante un colloquio avvenuto con lei. Per comprendere meglio la vicenda, ripercorriamo la cronologia degli eventi. Maurilio viene arrestato il primo marzo del 2016 e tradotto nel carcere calabrese di Arghillà. Durante il primo periodo di permanenza viene allocato alla camera detentiva numero 18 del primo piano del reparto Apollo, in stanza multipla con altri cinque detenuti. In quel momento Morabito fa una denuncia ben precisa, che poi il padre rievoca durante il colloquio con la direttrice Longo. I compagni di cella gli avrebbero chiesto un favore, ma lui avrebbe rifiutato. Ed è lì che iniziò il calvario, perché i suoi compagni di cella avrebbero tentato di ucciderlo. Tutto questo lo raccontò al padre, facendo anche i nomi dei detenuti. Dopo quel presunto tragico evento, il 29 marzo, sempre nel carcere di Arghillà, viene posto – su ordine della Longo (durante il colloquio con il padre è lei stessa a ricordarlo) – in una cella singola per proteggere la sua incolumità fino al primo aprile, per poi trasferirlo nel carcere di Paola dove in seguito si sarebbe tolto la vita. Durante il colloquio, il padre di Maurilio afferma alla Longo che il progetto di uccidere il figlio iniziò durante la sua detenzione ad Arghillà. Nel prosieguo dello sfogo, l’uomo espone alla Longo tutte le anomalie della vicenda: il rifiuto, mai registrato prima, del figlio di recarsi al colloquio con i familiari; le condizioni in cui gli fu consegnato, dopo cinque giorni del decesso, il corpo (sporco) del figlio; le caratteristiche della cella che, sempre secondo il padre, avrebbero reso impossibile l’impiccagione e il tardivo esperimento dell’esame autoptico. In conclusione, il padre di Morabito, dopo aver esposto i fatti, sciorina alla Longo i nomi dei detenuti che a suo dire, avrebbero sentenziato la morte del figlio. D’altronde, la stessa direttrice, in un dialogo intercettato con un agente penitenziario, dice espressamente che secondo lei non si tratta di un suicidio «perché a Paola… ci sono molti reggini… che abbiamo mandato». Quindi, come si legge nell’ordinanza per gli arresti domiciliari, alcuni detenuti reggini che sono ristretti nel carcere di Paola si sarebbero occupati dell’uccisione di Morabito per i fatti verificatosi presso il carcere di Arghillà. Secondo il Gip, la Longo – una volta appreso i nomi da parte del padre di Morabito – avrebbe dovuto notiziare i nuovi elementi immediatamente all’autorità giudiziaria con una relazione di servizio riservata. Secondo l’accusa, pur essendo vero il fatto che l’autorità giudiziaria stava già compiendo delle indagini, quanto il padre ha riferito alla direttrice sono elementi nuovi. Ora, se la direttrice abbia commesso un reato non riferendo all’AG questi nuovi elementi, sarà un giudice a stabilirlo. Anche perché, per via di ipotesi, la Longo potrebbe aver dato per scontato che il padre lo abbia già riferito alle autorità competenti. Oppure, più semplicemente, ha preso atto di quello che sostanzialmente era: uno sfogo.

Di Matteo torna in tv e conferma: Bonafede si piegò alla mafia. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2020. Di Matteo è tornato in Tv, che è il luogo dove abitualmente svolge le sue più importanti attività, e ha confermato le accuse al ministro della Giustizia Bonafede. Accuse molto gravi. Dice che Bonafede non lo nominò a capo del Dap (il dipartimento che governa le carceri), due anni fa, perché contro di lui fecero pressione i capi della mafia in prigione. E dice che Bonafede cedette a queste pressioni. A occhio si dovrebbe trattare di “concorso esterno in associazione mafiosa”, da parte del ministro, che è un reato così vago che è difficile sfuggirgli. E che in genere viene pagato con molti anni di prigione. Di Matteo dice anche, implicitamente, che lui per due anni, pur a conoscenza di questo reato del ministro, lo coprì evitando di denunciarlo. E dunque che anche lui, in questa vicenda (a meno che non abbia commesso il reato di calunnia) è penalmente responsabile. È un bel pasticcio. In aiuto di Di Matteo e Bonafede, entrambi vittime della guerra civile in corso tra giustizialisti, vengono le autorità e i giornalisti che ignorano lo scandalo, sebbene si tratti di uno degli scandali più clamorosi della storia della Repubblica. Non era mai successo che un ministro fosse accusato da un membro del Csm ed ex Pm addirittura di essere agli ordini della mafia. Nella stessa trasmissione Tv nella quale ha accusato il ministro, Di Matteo ha sostenuto anche di avere chiesto l’assoluzione degli imputati innocenti accusati dal falso pentito Scarantino. Gli avvocati lo hanno smentito. Chiese la condanna. Per quasi tutti. Solo per uno chiese l’assoluzione. E chiese la condanna fidandosi del pentito depistatore. Non solo chiese la condanna ma ricorse in appello contro l’assoluzione. I casi sono due: o Di Matteo non ricorda come andarono i processi di cui è stato protagonista, e non conosce alcuni pezzi fondamentali della storia della lotta alla mafia, oppure mente. Capite bene che in tutti e due i casi la cosa è molto preoccupante.

Purgatori porta in paradiso Di Matteo, La7 osanna i Pm. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 29 Maggio 2020. È evidente che La7 ha fatto una scelta assai precisa, non solo editoriale, ma anche di politica giudiziaria: i due giornalisti di inchiesta della rete, Massimo Giletti e Andrea Purgatori, sono entrambi mobilitati in una sorta di settimanale esercizio del culto della personalità nei confronti di Nino Di Matteo. Questa esaltazione si sviluppa lungo due filoni fondamentali: quello riguardante la denuncia della mancata nomina di Di Matteo a presidente del Dap, addebitata a quel poveraccio del ministro della Giustizia Bonafede. Ne è uscito un grottesco scontro fra giustizialisti, arbitrato dal garantista Matteo Renzi perché al Senato i voti di Italia Viva sono stati determinanti per evitare che passasse la mozione di sfiducia presentata dal centro-destra. A sua volta, Purgatori da ben due settimane sta facendo trasmissioni sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio entrambe imperniate, per ciò che riguarda i vivi, sulla figura di Di Matteo. Queste trasmissioni hanno uno scopo ben preciso: esercitare il massimo di pressione mediatica in vista del processo d’Appello sulla trattativa Stato-mafia del quale lo stesso Di Matteo, insieme agli altri pm Ingroia e Scarpinato, è uno dei protagonisti. Però una parte dell’interpretazione presentata come indiscutibile è stata smontata da Paolo Cirino Pomicino che ha dimostrato, per tabulas, che il governo presieduto da Andreotti – sostenuto da Psi, Pri, Pli e dal Psdi – svolse un ruolo determinante perché fosse approvato il decreto-legge, presentato il 14 settembre 1989 dal ministro socialista della Giustizia Vassalli, che raddoppiò i termini di custodia cautelare rimettendo in carcere i boss usciti per decorrenza. Fu così che si poté svolgere il maxiprocesso. Orbene, chi si oppose in modo frontale in Parlamento a quel decreto? Pomicino ha anche ricordato che fino al suo assassinio Falcone fu contrastato in tutti i modi da Magistratura democratica, dal Pci, dalla Rete di Leoluca Orlando. Sulle ragioni di quell’attacco frontale noi abbiamo già formulato un’ipotesi di lavoro: allora al Pci-Pds interessava più che la lotta ai corleonesi, che si erano impadroniti della mafia manu militari, liquidare da un lato Andreotti nel corso di una lotta assai lenta e graduata alla mafia, dall’altro lato Craxi attraverso Mani Pulite e Tangentopoli. Invece Falcone e Borsellino erano impegnati in una lotta totale alla mafia corleonese che non prevedeva e non dava spazio a strumentalizzazioni politico-partitiche di alcun tipo. Per questo Falcone incriminò per calunnia nei confronti di Andreotti il pentito Pellegriti. Nel corso della trasmissione Atlantide, di mercoledì scorso, Di Matteo ha riproposto la teoria sulla trattativa Stato-mafia sostenendo che Riina accelerò i tempi dell’attentato a Borsellino proprio perché i carabinieri del Ros, guidati da Mori, avevano preso contatto con Vito Ciancimino per sapere quali fossero le condizioni dei boss per fermare l’offensiva stragista. Secondo Di Matteo da questa richiesta avanzata da Mori, Riina trasse la conseguenza che andava accelerato l’attentato a Borsellino perché era la dimostrazione che lo Stato era molto debole: andava dato un altro colpo per piegarlo definitivamente. Prima di andare avanti, fermiamoci un attimo per mettere a fuoco bene di chi parliamo: il generale Mori è stato l’artefice dell’arresto di Totò Riina (e se fosse vera la teoria della trattativa sarebbe proprio il caso di dire: vatti a fidare) ed evidentemente esistono forze e soggetti non solo appartenenti alla mafia che ancora non glielo perdonano e vogliono fargliela pagare trascinandolo da un processo all’altro per tutta la vita. Ciò detto, ci vogliamo soffermare sulla coerenza logica della ricostruzione secondo la quale Totò Riina a un certo punto fece riunioni per accelerare l’attentato a Borsellino. Secondo Di Matteo proprio la pretesa avance fatta dai carabinieri del Ros sarebbe la ragione di questa accelerazione. Ora qui, a nostro avviso, siamo sul terreno proprio della contraddittorietà logica più assoluta: neanche a una mente abbastanza rozza come quella di Riina poteva sfuggire che qualora, dopo l’attentato a Falcone, fosse seguita a 55 giorni di distanza un’altra strage avente per vittima Borsellino e la sua scorta, ciò avrebbe provocato non un ulteriore passo in avanti della pretesa trattativa, ma una durissima risposta dello Stato. C’è un autentico salto logico fra la denuncia del preteso tentativo di Mori di agganciare i corleonesi per aprire la trattativa e la decisione di Riina di far saltare subito “per aria” Borsellino al centro di Palermo trascurando le conseguenze che un simile gesto avrebbe certamente provocato. Cosa che infatti si verificò puntualmente. Non a caso il carcere duro (il famoso 41 bis) fu esteso ai mafiosi dal governo Andreotti subito dopo via D’Amelio, anche perché a quel punto vennero meno le resistenze che il Pci aveva fino ad allora manifestato. La trasmissione ha invece totalmente sorvolato su un’altra ragione che secondo alcuni avrebbe determinato l’accelerazione dell’attentato a Borsellino e cioè il fatto che proprio poco tempo prima il procuratore Giammanco gli aveva assegnato il procedimento riguardante i rapporti mafia-appalti, tematica incandescente perché essa avrebbe riguardato la corresponsabilità di molte grandi imprese dell’edilizia e anche di qualche personalità politica. Invece avvenne una cosa molto strana: dopo che Borsellino fu ucciso (anche Falcone aveva considerato il tema fondamentale) non solo scomparve la sua agenda rossa su cui si è molto soffermata la trasmissione, ma la tanto celebrata procura di Palermo dichiarò il fine indagine proprio sul decisivo filone mafia-appalti. Quindi, su questo nodo Riina ottenne l’obiettivo che si era prefissato. Ultima questione. Una trasmissione che si è soffermata tanto su vari personaggi non ha neanche citato a proposito della gravissima operazione di depistaggio (nella quale, come hanno detto ieri gli avvocati di parte civile, Di Matteo ebbe un ruolo importante), operata sul successivo processo per l’uccisione di Borsellino sul ruolo svolto dal super poliziotto La Barbera, adesso defunto, che a quanto sembra minacciò in modo molto pesante Scarantino per spingerlo a svolgere il ruolo di pentito. Ora, La Barbera non era uno qualsiasi, era un autentico super poliziotto probabilmente anche legato ai Servizi. Non a caso l’allora capo della Polizia De Gennaro lo inviò al G8 di Genova come suo uomo di fiducia. Ma anche allora, come si vide alla Diaz, i risultati non furono brillanti, anzi furono molto inquietanti.

Il “papello” dei detenuti di Salerno e la “trattativa”: ecco la vera storia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 maggio 2020. Il garante campano Ciambriello: “Per placare la rivolta si poteva fare irruzione o mediare con una delegazione. si è scelto, come il buon senso richiede, la seconda strada”. Mancava il “papello” dei detenuti comuni (non mafiosi) del carcere di Salerno per scrivere il nuovo romanzo della “nuova trattativa” Stato-mafia. All’indomani della famosa telefonata del magistrato Nino Di Matteo in diretta durante il programma Non è L’Arena, su Il Dubbio abbiamo ironizzato riportando tutti gli avvenimenti e gli pseudo scandali che si sono susseguiti dallo scoppio delle rivolte carcerarie in poi per evocare una nuova trattativa. Molti l’hanno presa sul serio. Ora spunta fuori una lettera del 7 marzo nella quale i detenuti del carcere di Salerno, che inscenarono la prima rivolta, scrivono una serie di richieste. No, non chiedono l’abolizione del 41 bis visto che erano 200 detenuti provenienti da sezioni comuni, ma – spaventati dall’emergenza Covid 19 – hanno chiesto tamponi, l’aumento del personale penitenziario di notte, un’assistenza sanitaria decente, pene alternative per chi è gravemente malato. Tutte richieste che ricordano più le linee guida dettate dell’Organizzazione mondiale della sanità che da Totò Riina. Alcuni giornali fanno un singolare salto logico dicendo che, dopo due settimane da quel “papello”, è spuntata la famosa circolare del Dap che sollecita le direzioni carcerarie a segnalare ai magistrati i detenuti che presentano tutte quelle malattie letali se si viene a contatto con il Covid 19. Poi il resto della storia al conosciamo. Ritorniamo però alla verità dei fatti, partendo da un fatto che vale fin dalla notte dei tempi: qualsiasi “rivolta” implica un disagio che serve per andare in conflitto con le autorità dove quest’ultime di solito iniziano ad ascoltare e trovare delle soluzioni. Ecco, questa è la “trattativa”, anche se è diventata una definizione “tabù”. Il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello è stato uno dei primi ad essere accorsi al carcere di Salerno per potere calmare gli animi. Una funzione importante la sua, fondamentale come quella di tanti altri garanti che hanno riportato alla calma numerosi detenuti coordinandosi con varie autorità, dai provveditorati ai giudici di sorveglianza. Una mediazione che però avrebbe dovuto fare soprattutto l’allora capo del Dap Basentini. Come non ricordare quando, nel 2017, l’ex capo Santi Consolo si recò direttamente al carcere di Pisa dove i detenuti erano in rivolta. C’era sovraffollamento e si suicidò un detenuto tunisino. La sua mediazione fu efficace e riportò tutti alla calma. Il garante Ciambriello spiega a Il Dubbio che quando ha raggiunto il carcere di Salerno erano già presenti il provveditore regionale Antonio Fullone e la direttrice che cercavano di calmare gli animi attraverso un dialogo e assecondare, almeno a parole, le loro richieste trascritte nella famosa lettera. «Potevano scegliere due opzioni – spiega il garante regionale -, o fare irruzione usando la forza, oppure parlare con una delegazione dei detenuti». Hanno scelto, come il buon senso richiede, la seconda. Come detto, le richieste erano tutte dovute dalla preoccupazione del contagio, richiedendo i tamponi a tutti coloro che entrano in carcere come il personale della polizia penitenziaria. Ma non solo. «Hanno richiesto – spiega ancora Samuele Ciambriello – anche di non essere trasferiti come punizione per la rivolta, ma in realtà la sera dopo ne sono stati trasferiti almeno 40». Ciambriello, come tanti altri garanti, ha mediato anche in altre carceri, fatto presente delle problematiche ai magistrati di sorveglianza, concordato misure con il provveditorato e le direzioni. C’era la rivolta di Salerno, poi quella di Poggioreale, una sorta di crescendo. Così come in altre zone d’Italia. Una piccola curiosità. Prima ancora della circolare famosa del Dap, lo stesso garante Ciambriello, d’intesa con la presidente del tribunale di sorveglianza, ha mandato una comunicazione a tutti i direttori delle carceri italiane sollecitandoli di segnalare all’ufficio della presidente i nominativi sia di chi hanno superato i 70 anni, sia di chi hanno un fine pena inferiore ai 6 mesi. Sottolineando che si trattasse di nominativi di detenuti con reati non ostativi.

Regia mafiosa dietro le rivolte in carcere? Un vero autogol, se fosse vero…Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 luglio 2020. Il procuratore nazione antimafia Federico Cafiero De Raho ha fatto sapere che stanno indagando sulle rivolte in carcere avvenute tra il 7 e il’11 marzo scorso. Il procuratore nazione antimafia Federico Cafiero De Raho ha fatto sapere che stanno indagando sulle rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e il’11 marzo scorso. Quindi vuol dire che gli inquirenti hanno il sospetto che ci sia stata una regia mafiosa, una strategia fatta a tavolino coordinando i 49 istituti penitenziari del territorio nazionale protagonisti delle violente rivolte. A che pro questa presunta strategia da parte della criminalità organizzata? Un’arma di ricatto per ottenere i domiciliari, benefici vari e poi, secondo la versione che è stata fatta trapelare da alcuni magistrati e ipotesi giornalistiche, ottenuti con le famigerate “scarcerazioni”, o meglio la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute nei confronti di circa 500 detenuti reclusi per reati mafiosi. Misure, ricordiamo, concesse in tutta autonomia dai magistrati di sorveglianza.

I detenuti comuni non si immolano per la mafia. Attendendo che l’indagine da parte della Direzione nazionale antimafia faccia il suo corso, è il caso di riportare i dati oggettivi. Il primo: non è plausibile pensare che i detenuti comuni, tra i quali gli extracomunitari, si siano immolati per la causa mafiosa arrivando, in alcuni casi, fino alla morte. Tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte sono stati esclusi dal decreto “cura Italia”, la parte relativa alla possibilità di scontare la pena a casa se gli rimanevano meno di 18 mesi di carcere. Non solo. Oltre all’esclusione, rischiano di finire tutti sotto indagine e infatti, notizia di qualche giorno fa, la procura di Milano ha reso pubblico che 12 detenuti comuni del carcere di San Vittore sono indagati per l’episodio della rivolta. Si tratta di cinque italiani e sette stranieri dell’Algeria, del Marocco, della Tunisia e del Gambia. Presto ci saranno, molto probabilmente, altri detenuti che saranno coinvolte dalle procure per quanto riguarda le rivolte delle altre carceri.Altro dato da prendere in considerazione è che nella maggioranza delle carceri ci sono state proteste pacifiche, semplici battiture o sciopero della fame. In altre invece non è accaduta nulla, soprattutto quelle carceri – rare – dove l’attività trattamentale funziona e c’è un dialogo tra la direzione e i detenuti stessi.

Il caso del carcere di Bologna. Negli stessi istituti dove sono scoppiate le rivolte, solo alcune sezioni vi hanno partecipato. Prendiamo il caso emblematico del carcere di Bologna. È composto da una sezione giudiziaria con una palazzina di tre piani, mentre il penale è una sezione indipendente dalla giudiziaria che ha degli spazi propri, dove c’è perfino la fabbrica metalmeccanica. Mentre la sezione giudiziaria è un mondo a parte – dove le misure trattamentali sono quasi del tutto inesistenti -, quella penale ha diverse attività e il sistema rieducativo risulta efficace. Non è un caso che i detenuti che vivono in quest’ultima sezione, non hanno partecipato alle violente proteste. Così come non è stato un caso che, alla sezione giudiziaria stessa, gli unici che non si sono uniti con gli altri detenuti sono coloro che formano una squadra di rugby. La causa delle rivolte, come ha spiegato il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, sono nate da diversi fattori che si sono concatenati. Prima di tutto un grande errore comunicativo che ha fatto percepire il decreto, in fase di approvazione, come una norma che avrebbe chiuso tutto per molti mesi. Questo, a chi vive in una realtà già chiusa e dove l’emergenza coronavirus si amplifica di più rispetto a chi vive nel mondo libero, ha provocato una duplice ansia. Non a caso Modena, il carcere centro della rivolta e dove ci sono scappati i morti, ha visto i primi casi accertati di Covid. Alla notizia di un primo contagio, la protesta si è accesa fino a degenerare. Come avrebbe potuto, la mafia, anticipare a tavolino una protesta del genere? L’altro dato certo è che, tranne rare eccezioni, i detenuti accusati o condannati definitivamente per mafia, non hanno partecipato alle proteste. In alcuni casi sì, ma si tratta degli istituti campani dove i camorristi – che hanno una struttura e modus operandi diverso dalla mafia– hanno via via partecipato. Ma questo, per chi conosce le vicende carcerarie, non sorprende. Basterebbe, ad esempio, leggere il libro “Uscire dalla Mafia: Storia di uno “sgarrista” scritto a quattro mani da Ruggero Toni e Marco Aperti. È il racconto, vero, in prima persona di un ex camorrista che ha vissuto il carcere, una storia sofferta che alla fine si conclude con un riscatto. Racconta che quando negli anni 90 finì recluso nel supercarcere di Sulmona, a un certo punto scoppiò una rivolta guidata dai camorristi perché si lamentarono della mancata concessione dei permessi per trascorrere qualche giorno in famiglia.

La mafia non partecipa alle rivolte in carcere. Ma la mafia siciliana è diversa. Mai, nella storia, ha partecipato alle rivolte, anzi le hanno da sempre ostacolate. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici tipo gli anarchici.L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse a una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti e l’irrigidimento da parte degli operatori penitenziari. Ed è esattamente quello che è successo dopo le rivolte. Trasferimenti, presunti pestaggi da parte degli agenti penitenziari e norme più dure. Siamo sicuri che ci sia stata una regia mafiosa dietro queste rivolte?

Rivolte nelle carceri, finora non emerge alcuna regia mafiosa. Il Dubbio il 23 luglio 2020. Dell’inchiesta della Procura nazionale antimafia, coperta dal segreto istruttorio, non c’è nulla che non sia stato già detto. Il capo Federico Cafiero De Raho, d’altronde, già ha anticipato che si sarebbero occupati delle rivolte carcerarie per capire se ci sia stata o meno una regia mafiosa. L’inchiesta è in corso, quindi si attende la conclusione. Di sicuro, almeno da quello che è stato riportato, i reclusi appartenenti a Cosa nostra non hanno partecipato o tantomeno fomentato le rivolte carcerarie. Dell’inchiesta della Procura nazionale antimafia, coperta dal segreto istruttorio, non c’è nulla che non sia stato già detto. Il capo Federico Cafiero De Raho, d’altronde, già ha anticipato che si sarebbero occupati delle rivolte carcerarie per capire se ci sia stata o meno una regia mafiosa. L’inchiesta è in corso, quindi si attende la conclusione. Di sicuro, almeno da quello che è stato riportato, i reclusi appartenenti a Cosa nostra non hanno partecipato o tantomeno fomentato le rivolte carcerarie. Come già riportato da Il Dubbio ( 7 luglio 2020 a pagina 12) le carceri più grandi, come quella napoletana di Poggioreale, ha visto coinvolti numerosi detenuti, anche se in realtà l’unico padiglione- denominato Avellino – esente dalle rivolte è stato quello dove sono reclusi i camorristi. Sicuramente al carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno partecipato anche quelli dell’alta sicurezza. Che i camorristi, in generale, abbiano partecipato alle rivolte non dovrebbe però sorprendere. Fin dagli anni 80, hanno fomentato le rivolte per ottenere benefici e avere il controllo del carcere. Ad esempio a Poggioreale, negli anni 80, periodo che vide la nascita della Nuova camorra organizzata, fondata da Raffaele Cutolo, si verificavano scontri tra faide, avevano le armi, compresi i detenuti che non erano affiliati ma che si dovevano proteggere. All’epoca in quel carcere entrava di tutto, armi, droga, denaro. Fu lì che per riprendere il controllo del penitenziario degli agenti specializzati – antesignani dei Gom – fecero irruzione e usarono metodi violenti, anche nei confronti di detenuti comuni, commettendo delle vere e proprie torture. Utilizzarono la famosa “cella zero”, quella denunciata dall’allora detenuto Pietro Ioia e ora garante dei detenuti di Napoli.

Le rivolte carcerarie del 7 marzo. Ma ritorniamo alle rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e il’ 11 marzo scorso, oggetto dell’inchiesta da parte della Procura nazionale antimafia. Non emerge, per ora, una strategia comune della criminalità organizzata fatta a tavolino coordinando i 49 istituti penitenziari del territorio nazionale protagonisti delle violente rivolte. Non si chiarisce come sia stato possibile che i detenuti comuni, tra i quali gli extracomunitari, si siano immolati per la causa mafiosa arrivando, in alcuni casi ( ben 14), fino alla morte. Tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte sono stati esclusi dal decreto “cura Italia”, la parte relativa alla possibilità di scontare la pena a casa se rimanevano meno di 18 mesi di carcere. Non solo. Oltre all’esclusione, rischiano di finire sotto indagine tutti i rivoltosi e quindi si ritroveranno con altri anni da scontare in carcere. Per avere il quadro completo, bisogna sottolineare che hanno partecipato 10 mila detenuti su una popolazione carceraria che era oltre i 50 mila reclusi. Infatti, nella maggioranza delle carceri ci sono state proteste pacifiche, semplici battiture o sciopero della fame. In altre, invece, non è accaduto nulla, soprattutto quelle carceri – rare – dove l’attività trattamentale funziona e c’è un dialogo tra la direzione e i detenuti stessi. Infatti, come riporta un’analista sentito da Repubblica, non è un caso che «le rivolte più violente siano avvenute – come ripetono le associazioni che si occupano dei detenuti – negli istituti più sovraffollati, dove sono rinchiusi anche mafiosi pugliesi e camorristi». Quindi, non si fa altro che dire ciò che su Il Dubbio è stato detto già dai primi giorni successivi alle rivolte. Mentre gli altri appartenenti alla criminalità organizzata storicamente hanno sempre partecipato alle rivolte, per la mafia siciliana è diverso. E ciò smentisce chi ha evocato la trattativa Stato- mafia, quasi per dire che le rivolte carcerarie sono servite per ottenere la scarcerazione dei boss mafiosi del periodo delle stragi, senza aver alcun rispetto dei giudici che hanno concesso la detenzione domiciliare in tutta autonomia e dove, tra l’altro, nessun boss stragista è stato scarcerato. Mai, nella storia, i mafiosi hanno partecipato alle rivolte, anzi le hanno da sempre ostacolate. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici tipo gli anarchici. L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse a una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti e l’introduzione di nuovi decreti legge che rendono più difficile la concessione dei benefici per loro. Quello, che in fondo, è accaduto.

La mafia dietro le rivolte nelle carceri, ma la maxi inchiesta ignora i 15 detenuti morti. Frank Cimini su Il Riformista il 23 Luglio 2020. La dietrologia è uno sport nazionale, una passione. La direzione nazionale antimafia con a capo Federico Cafiero De Raho e “alcune procure distrettuali”, scrive Repubblica a cui l’indiscrezione è filtrata, sta svolgendo una maxi inchiesta ipotizzando la regia delle mafie dietro le rivolte in carcere della prima decade del marzo scorso. Quella stessa magistratura che si è rivelata incapace di spiegare le ragioni della morte di 15 detenuti durante le proteste cerca di cavarsela ipotizzando un grande complotto del quale l’articolo di Repubblica non fornisce elementi apprezzabili al di là di virgolettati attribuiti a fonti che restano anonime. Il blocco fino al 31 maggio dei colloqui con i congiunti e la possibilità di interrompere permessi premio e il regime di semilibertà sarebbero stati secondo queste fonti solo il pretesto che in molti nelle carceri stavano aspettando per scatenare il caos. «Non è un caso che le rivolte più violente siano avvenute negli istituti più sovraffollati dove sono richiusi anche mafiosi pugliesi e camorristi», scrive il quotidiano che ha scoperto l’acqua calda dal momento che era già emerso da tempo come alcuni camorristi avessero partecipato alle rivolte. Ma partecipare a una rivolta non significa certo averla organizzata e nell’ambito di una tentacolare “spectre” l’invenzione della quale serve a nascondere le responsabilità della politica, dell’amministrazione penitenziaria e della stessa magistratura. Secondo la tesi della direzione antimafia i detenuti tossicodipendenti, quelli più fragili, sarebbero stati usati come carne da macello da chi voleva mettere lo stato nell’angolo. Per cui le fonti anonime ripetono la cantilena di quella ufficiale. I 15 detenuti sarebbero morti in seguito all’assalto alle farmacie interne e alle conseguenze delle assunzioni di quanto asportato. Indagini accurate su quei decessi non ce ne sono state e chi avrebbe dovuto farle punta sul disinteresse generale per la sorte di poveri cristi. In compenso sono spedite le inchieste sui presunti responsabili delle rivolte. A Milano saranno processati in 34 per devastazione. E non saranno gli unici a pagare. Perché paga chi è dentro ma anche chi sta fuori a dare solidarietà alle lotte dei detenuti. È il caso delle indagini su gruppi anarchici a Bologna e a Roma. Nel capoluogo emiliano il Riesame ha azzerato l’accusa di associazione sovversiva e scarcerato tutti. Esito opposto a Roma ma in entrambi i casi le procure indicano i presidi e i sit-in sotto le prigioni come “prove” a carico. Era stata ipotizzata anche una regia anarchica. Adesso si punta sulla mafia quando storicamente la realtà è l’opposto. La mafia per svolgere i suoi traffici ha bisogno dentro le prigioni di pace e silenzio. Ma la dietrologia non conosce confini. In un paese in cui partiti e giornali da oltre 40 anni vi ricorrono per spiegare il delitto più importante del dopoguerra.

Il 41 bis è un abominio e parlarne non significa appoggiare le mafie. Michele Passione su Il Dubbio il 29 luglio 2020. Chi tocca i fili muore e parlare del rispetto dei Diritti di tutti e dell’abominio del 41 bis è come bestemmiare in chiesa. Qualche giorno fa il dott. Catello Maresca ha preso carta e penna e ha detto la sua sul 41 bis; gli capita spesso e di solito dispensa buoni consigli, che la Commissione Antimafia raccoglie al volo (vedi alla voce “divieto scioglimento dei cumuli”). Ospite fisso di una trasmissione in prima serata nella quale si regolano conti personali, ha lamentato che il regime differenziato sia diventato “il male assoluto, addirittura più della stessa mafia che tende a contrastare”. Così, utilizzando la retorica del “ricordo a me stesso”, ricostruita la genesi e gli sviluppi della disposizione che a tutt’oggi regola “situazioni di emergenza” (che non finisce mai), il nostro parla a chi deve ascoltare (tra poco si vota) e sostiene che chiunque avanzi critiche a questa grundnorm della mortificazione del Diritto e della Dignità lo faccia per ostilità ideologica, giacché i “principi supremi” invocati sarebbero figli di un’epoca passata, nella quale si pensava stoltamente che la mafia non esistesse. Ora, siccome mi sono un po’ stancato di passare per uno stolto idealista (sono ostinato, non ostile) o peggio ancora di dover leggere che vi sono “soloni del carcere morbido che tessono la loro tela”, comincio col dire che la mafia è una merda, così ci capiamo. Però, siccome qui nessuno tiene bordone a Cosa Nostra (e non occorre ricordare a un signore che di mestiere fa il pm che le allusioni sono inaccettabili, tanto più in un campo come questo), occorre anche chiarire una volta per tutte che in Alsazia non sono proprio tutti ignoranti o corrivi e le cose di Casa nostra le conoscono pure loro; basterebbe leggere un po’ di sentenze della Cedu ogni tanto. La verità è un’altra, da sempre: chi tocca i fili muore e parlare del rispetto dei Diritti di tutti e dell’abominio del 41 bis è come bestemmiare in chiesa. Così si spiegano gli attacchi alle Corti (Costituzionale, Edu, ai vari Magistrati di Sorveglianza che fanno il loro lavoro), nel tentativo di condizionarne le argomentazioni e le decisioni da assumere. Invece, secondo il pm, una miscellanea che somiglia al complotto demo-pluto-giudaico-massonico terrebbe insieme “Garanti, l’intellighenzia sinistrorsa (molto sensibile al tema delle garanzie) ed una sempre più numerosa stampa compassionevole”. Dall’altra parte, il deserto. Forse è il caldo, forse l’effetto prolungato del lockdown o forse davvero si è perso il senso della realtà, ma sostenere che “invettive mafiosoidi non trovino ostacoli” (di nuovo, le allusioni), laddove (salvo i radicali) non si trova un politico uno che denunci l’uso improprio della galera differenziata, è qualcosa di veramente incredibile e non merita commenti ulteriori. Basta accendere la tv. Però il dott. Maresca non ci sta e passando dal triplice imperativo del “resistere” di tangentopoli al “denunciare” di oggi, “scoperto il giochetto” (terza allusione) propone di “sparigliare”. Vestiti i panni del riformatore il pm campano ha la soluzione: rivedere l’ordinamento penitenziario. Ecco le proposte (“i cardini ideologici”): “lavoro obbligatorio per tutti”, (qualcuno lo avvisi, che non si può fare! Il lavoro è un diritto, non un’imposizione, secondo le leggi di questo Paese), “anche per i mafiosi”, riservando “il regime di rigore differenziato ai detenuti più riottosi”. Basta un aggettivo e si torna lì, che del resto “la fedina penale dei mafiosi è fatta di continue ricadute nel crimine, segno che almeno per loro il programma di recupero non serve a nulla”. Battiamo le mani. Nuovi costituenti si facciano avanti.

Da quattro anni (era il 29 luglio) Alessandro Margara ci ha lasciato e ci manca moltissimo; per una breve stagione provò a portare al Dap una certa idea della pena, il suo era “il carcere dopo Cristo”. Durò troppo poco e fu un ministro comunista a metterlo all’uscio. Ci è mancato poco che al Dipartimento arrivasse il dott. Maresca, come Gesù nel tempio. Buona fortuna.

Salvatore Cappello, un morto che cammina fatto a pezzetti dallo Stato. Gioacchino Criaco su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Fucilatemi, e buttatemi dove vi pare. “Voglia la S.V. Illustrissima, concedermi la grazia di farmi fucilare, giù nel cortile della prigione”. Anche senza rudimenti di psicologia, conoscenze del mondo carcerario o della mafia, lo si intuisce che la lettera di Salvatore Cappello al Presidente Mattarella non abbia nulla di strumentale, di falso, è autentico orrore, disprezzo pure, per il sistema delle pene italiano. Nemmeno una resa, solo la lucida consapevolezza che la morte sia meno dolorosa della vita. E l’accusa, fuori da ogni ipocrisia, allo Stato. Non sono emendabile, redimibile? Ammazzatemi. Fatelo voi, io non ve lo tolgo questo impiccio. Dovete avere il coraggio di fucilarmi e di non restituire il corpo alla mia famiglia, per condannare, loro non me, ulteriormente. Se alla parola mafia non si provvedesse, retoricamente, di aggiungere: giudici fatti saltare in aria, bambini squagliati nell’acido, servitori dello Stato e vittime innocenti falciati. Se non si associassero i crimini della mafia ai mafiosi, nulla offuscherebbe l’inumanità del trattamento riservato ai condannati per crimini mafiosi. Niente farebbe da alibi alla terribilità della pena che si infligge alle coppole storte. Salvatore Cappello, boss catanese, in carcere da più di vent’anni, quasi tutti trascorsi al 41bis, esce dall’ipocrisia, chiede come unico beneficio quello di essere ucciso tutto in una volta e non a pezzi come è accaduto in questi anni. Che morto è morto da un pezzo. È un cadavere che si muove, e dopo aver prodotto dolore alle sue vittime, prima della galera, continua a produrre dolore anche dal carcere ai suoi familiari, che sono anche loro vittime sue, con la colpa di essergli parenti, che devono soffrire anche se non hanno altre colpe. E chissà se davvero le sue vittime di prima se la godano della sua sofferenza? Se ridono delle sue pene, di questa sua lettera, o ritengano che sia insopportabile questo dolore, esagerato, inutile? Chissà se davvero le vittime innocenti, conoscendo il trattamento di Cappello, di quelli come lui, approverebbero la cosa? O magari appoggerebbero la sua richiesta di grazia a morte? O si sentirebbero portatrici di vendetta, non di Giustizia? È che di carcere, del carcere del 4bis, del 41bis, non se ne parla sul serio, non ne parlano quelli che veramente ne conoscano i dettagli. Si fa un discorso da bar, o da talk show, che è la stessa cosa. Se ne parla per sentito dire, per leggende. E Salvatore Cappello, con tutto il suo carico di responsabilità e sangue, rompe un muro, lo fa dalla sua parte sbagliata e rovescia le macerie dalla parte dei buoni: «Volete sapere cosa sia il 41bis, il fine pena mai? Eccovelo». È l’orrore che non finirà mai, la tragedia che cammina e infetta chiunque stia intorno al colpevole. È il buio 22ore al giorno, la solitudine senza confini temporali, la voglia di un uovo fritto mancata che non diventa voglia ma ulcera che perfora lo stomaco col bruciore di tutte le vite spezzate, tutto in una volta. La fine senza la fine, in una caduta che dura così a lungo dal preferire l’atterraggio nella lava. Anche i buoni, anche le vittime, se conoscessero davvero il 41bis, tiferebbero per Salvatore Cappello, scriverebbero: «Voglia la S.V. Illustrissima concedere la Grazia di far fucilare Salvatore nel cortile della prigione, e non restituire il corpo ai parenti». Forse anche le vittime innocenti, se sapessero cosa sia sul serio il 41bis, si opporrebbero all’uso che si fa dei loro torti.

“Io, al 41bis da 23 anni dico: lo Stato abbia il coraggio di fucilarmi”. Il Dubbio il 7 luglio 2020. L’appello dell’ex boss catanese Salvatore Cappello, condannato all’ergastolo e che da 23 anni sconta il regime di carcere duro del 41 bis: “Illustrissimo Presidente” chiedo di essere Fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. “Illustrissimo Presidente” chiedo di essere Fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. È l’appello contenuto nella lunga lettera inviata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dall’ex boss catanese Salvatore Cappello, condannato all’ergastolo e che da 23 anni sconta il regime di carcere duro del 41 bis. A divulgare la missiva in cui Cappello chiede la "grazia" della morte, è stata l’associazione Yairaiha Onlus che da anni si batte contro l’ergastolo ostativo. “Alla S.V. Illustrissima – scrive Cappello rivolgendosi al Capo dello Stato – affinché intervenga a far eseguire la condanna inflittami dalla Corte d’Assise di Catania e Milano cioè la condanna a morte nascosta dietro la parola ERGASTOLO, con FINE PENA 9999, cioè FINE PENA MAI! Chiedo che la condanna venga eseguita perché dopo 24 anni, di cui 23 passati al 41 bis, SONO MORTO già tante di quelle volte che non lo sopporto più; ogni volta che lo rinnovano muoio; quando guardo gli occhi dei miei figli, dei miei cari, di mia moglie penso che la condanna a morte è anche per loro. E non voglio – prosegue la lettera – che muoiano tutte le volte lo rinnovano con scuse banali e senza fondamento, per questo chiedo di morire”. “Non intendo impiccarmi o suicidarmi – scrive nella missiva indirizzata a Mattarella – perché l’ho visto fare tante di quelle volte che non voglio pensarci. Siete voi che dovete eseguire la sentenza perciò chiedo che venga eseguita tramite fucilazione nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta perché non basta che tu stia scontando l’ergastolo, non basta che lo sconti pure con la tortura del 41 bis, c’è anche la cattiveria”, sostiene aggiungendo una serie di esempi. “Che so… sei un 41 bis? Non puoi farti nemmeno un uovo fritto. È questa la lotta alla mafia? Tu hai preso 30 anni (senza uccidere nessuno) per estorsione ed associazione? Con l’art. 4 bis li sconti tutti senza benefici; ma se tu hai ucciso un bambino, lo hai violentato, sconti 20 anni e niente 41 bis, niente restrizioni. Questo è lo Stato italiano! Che so, rubi un tonno per fame? Sconti dai 3 ai 5 anni; poi – prosegue Cappello – c’è chi ruba milioni di euro, quelli vanno a Rebibbia in attesa dei domiciliari! E sono peggio dei mafiosi perché loro hanno giurato fedeltà allo Stato”. Io sig. Presidente, non sono un santo, sono, o meglio, ero, un delinquente. Ma – prosegue nella lettera – sono 10 anni che ho dato un taglio a tutto per amore dei miei figli e dei miei cari. Ma ciò non è servito a niente perché le procure non vogliono che tu dia un taglio al passato, o ti penti o sei sempre un mafioso da sfruttare tutte le volte che fanno un blitz sfruttando il nome tutte le volte che fanno un blitz sfruttano il tuo nome per dare più risalto per dare più peso al blitz e tu ci vai di mezzo solo perché . scrive l’ergastolano – un megalomane fa il tuo nome; non vogliono nemmeno che i tuoi figli lavorano perché vogliono che seguono le ‘orme del padre’, se trovano lavoro vanno dal datore di lavoro e gli dicono che stanno facendo lavorare il figlio di un mafioso. Se non lavorano dicono che non lavorano. Ma, ringraziando Dio, i miei figli lavorano tutti, lavori umili, ma lavorano, e fanno sacrifici per venirmi a trovare”. “Se chiedo la fucilazione – spiega – lo faccio anche per loro, per non dargli più problemi. Sa cosa vuol dire ricevere un telex che dice che tua figlia è ricoverata in fin di vita, vedi se puoi telefonare? No al 41 bis non posso chiamare; ho un solo colloquio al mese o una telefonata. Se avevo ucciso un bambino – insiste Cappello – non ero ‘mafioso’, non avevo 41 bis, allora si, assassino di bambini se ricevevo un telex tipo ‘mamma ha la febbre’, allora potevo telefonare, chiedere colloqui e tutto. Questa è la legge italiana! Signor Presidente, sono 23 anni che non ho una carezza dei miei genitori, che non abbraccio i miei figli, che non tocco la mano di mia moglie, perciò – conclude l’ex BOSS – mi chiedo ‘è questa la vita che devo fare fino alla morte’? E allora facciamola finita subito, FUCILATEMI! P.S. NON RESTITUITE IL CORPO ALLA MIA FAMIGLIA, SAREBBERO PER LORO ALTRI PROBLEMI. GRAZIE”

Il 4 bis e l’evoluzione del “doppio binario”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 settembre 2020. Il libro, della casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre, si intitola “Regime ostativo ai benefici penitenziari” ed è scritto dalla giovane avvocata Veronica Manca. L’ergastolo ostativo nega in radice il concetto di risocializzazione che dovrebbe giustificare, almeno come possibilità, la pena anche nella sua massima estensione. Il 2019 è stato però l’anno nel quale si è messo in discussione, grazie anche alle pronunce della Cedu e della Corte costituzionale, la questione di un “doppio binario” che caratterizza il nostro sistema giudiziario non solo nella fase processuale ma anche in quella dell’esecuzione della pena. Attenzione, il doppio binario rimane, ma il 4 bis che ne costituisce il perno ha smesso di sbarrare l’accesso ai benefici ( per ora solo il permesso premio) anche per i condannati che non vogliono collaborare con la giustizia. Una norma, il 4 bis, che nasce come una eccezione ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano – a seconda le emozioni del momento – delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. In questi ultimi due anni, come detto, ci sono state novità importanti. Ma, come sosteneva lo storico Tucidide, bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro. È appena uscito un libro che non solo analizza il passato, ma fa capire molto bene il presente dando gli strumenti necessari per monitorare un’esecuzione della pena legale, il più possibile conforme ai principi costituzionali e compatibile con la dignità umana della persona condannata. Il libro, della casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre, si intitola “Regime ostativo ai benefici penitenziari” ed è scritto dalla giovane avvocata Veronica Manca. Lei è membro dell’osservatorio carcere della Camera Penale di Trento, componente dell’osservatorio Europa delle camere penali e, non è un caso, fa parte del direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Il libro ripercorre l’evoluzione del “doppio binario” e le prassi applicative. Potrebbe far pensare che sia un libro rivolto soltanto agli avvocati, magistrati, giuristi in generale. In realtà è scritto in maniera chiara e scorrevole, a tratti avvincente soprattutto nel capitolo relativo alla genesi del 4 bis: parte dalla legge Gozzini, passa per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio e non manca di ricordare la prima introduzione voluta da Falcone che – alla faccia di chi strumentalmente utilizza il suo nome – inizialmente non precludeva in maniera assoluta i benefici a chi non collaborava. Interessante il riferimento ai tempi dell’Ucciardone di Palermo quando i mafiosi mangiavano “aragoste e champagne” e commissionavano gli omicidi. Un capitolo, quello della genesi del 4 bis, utilissimo sia per contestualizzare e sia per paragonare lo spirito emergenziale di allora ( scoppiavano le bombe) con quello di oggi. Non a caso l’autrice arriva a parlare anche della cosiddetta Spazzacorrotti, una legge emergenziale ( si allarga il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione) quando l’emergenza non c’è. Il libro dell’avvocata Manca pone l’obiettivo di fornire, quindi, tutti gli strumenti necessari per un approccio sistematico all’applicazione dell’articolo 4 bis e di tutte quelle ricadute pratiche. Un 4 bis, come viene ben spiegato nel libro, che adatta la struttura dell’ordinamento penitenziario al principio del trattamento esecutivo differenziato dei reclusi sulla base del titolo di reato per il quale sono stati condannati. Nel libro, infatti, vengono affrontati tutti i reati che fanno parte del 4 bis e non manca l’approfondimento dei reati sessuali. Quelli che creano maggiore indignazione, forse più della mafia stessa. Non a caso, secondo il “codice d’onore” dietro le sbarre, ad esempio i “pedofili” non hanno diritto di esistenza. Un tema – come si legge nell’introduzione del capitolo – «complesso e articolato, sia dal punto di vista scientifico, per la difficile ricerca di una categoria unitaria di tipi d’autore, detti “sex offender”; sia giuridico, a causa del susseguirsi di leggi, spesso stratificate, e anche contraddittorie». Sono crimini sessuali che rientrano alla “terza fascia” del 4 bis. Leggendo il libro, uno apprende che l’ordinamento penitenziario prevede per chi si è macchiato di questi gravi e indicibili crimini sessuali, un loro recupero attraverso programmi terapeutici e utili anche per dare elementi di valutazione al magistrato di sorveglianza per la concessione o meno dei benefici penitenziari. Tutto ciò che l’avvocata Manca ha descritto e narrato come se fosse un romanzo dell’esecuzione penale, ha fatto emergere quanto sia complesso e stratificato il 4 bis, creando così un ordinamento penitenziario che assomiglia a un sistema multilivello. La riforma dell’ordinamento penitenziario doveva essere epocale, ma oltre ad essere stata approvata a metà, rischia di subire una involuzione nonostante l’orientamento della giurisprudenza trans- nazionale. Il rischio di un “sovranismo giudiziario” è di nuovo alle porte. Per questo vale la pena di leggere il libro di Veronica Manca, dove mette di nuovo al centro la dignità della persona che deve comunque rappresentare – come dice l’autrice stessa – «il nucleo essenziale della legalità della pena».

Signori, il 4 bis rende il 41 bis una detenzione ancora più dura. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 Maggio 2020.  Momento imbarazzante durante la trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti. Francesco Basentini, ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è ormai diventato un vero e proprio capro espiatorio. È stato accusato, durante il programma Non è l’Arena di La7, di aver ammorbidito il 41 bis a Pasquale Zagaria dopo averci parlato. Come? Concedendogli il 14 bis dell’ordinamento penitenziario. Una affermazione davvero imbarazzante perché gli ospiti, tra i quali due ex magistrati (Luigi de Magistris e Antonio Ingroia) e uno ancora in servizio (Alfonso Sabella) non sapevano di cosa si stesse parlando. Solo dopo la pubblicità, forse consultando Google, hanno ammesso di aver preso un abbaglio. Ma senza specificare di che cosa si trattasse. Allora lo ricordiamo noi visto che su Il Dubbio abbiamo proprio affrontato questa misura che rende il 41 bis ancor più duro e spesso stigmatizzato dal Garante nazionale delle persone private della libertà tramite i suoi rapporti tematici. Il 41 bis oramai è entrato nell’immaginario collettivo come qualcosa di dovuto, ineludibile e non misura eccezionale. Con il passare degli anni è diventato sempre più duro rispetto a quello originale nato durante una vera e propria emergenza mafiosa: era il periodo stragista dove i mafiosi corleonesi ammazzarono con il tritolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ultimamente, grazie ad alcune sentenza della Consulta, alcune misure inutilmente afflittive sono cadute, ma tante altre ancora rimangono. Tra queste c’è una forma di 41 bis “speciale” che prevede una ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Un super 41 bis per alcuni condannati al 41 bis. Parliamo della cosiddetta “area riservata” che non ha nessun fondamento normativo, eppure è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro, ma non solo. Questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali come il Comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt), ma anche dal dossier della Commissione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate riservano un isolamento totale. Come si ottiene questa misura? Con l’applicazione congiunta del regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario previsto dall’articolo 41 bis e della sorveglianza speciale del fatidico articolo 14 bis menzionato durante la trasmissione di Massimo Giletti. Un combinato disposto che dà luogo a stati di isolamento prolungato, protratto anche per molti anni, che incidono gravemente sull’integrità psichica e fisica della persona detenuta. Solo per fare un esempio la delegazione del Garante nazionale nella Casa circondariale di Tolmezzo aveva incontrato un detenuto che era collocato nell’area riservata ed era in isolamento continuo da sei anni, senza poter accedere ad alcuna anche minima forma di socialità. Durante la visita effettuata dalla delegazione del Garante, la persona si presentava in condizioni igieniche appena sufficienti e riferiva di soffrire di cecità dall’occhio sinistro per “foro maculare” e ridotta visibilità al destro per “cellophane maculare”. La condizione di isolamento continuo protratta per sei anni, verosimilmente responsabile anche del decadimento fisico, psichico e igienico del detenuto che trascorre le proprie giornate soltanto ascoltando la radio ( non potendo nemmeno guardare la televisione a causa del difetto visivo), secondo Mauro Palma pone concretamente la questione della compatibilità con i parametri dell’umanità della pena e del divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani.

Maurizio Tortorella per “la Verità” il 27 maggio 2020. Se la giustizia italiana fosse giusta, una Procura avrebbe già aperto un' inchiesta. E i magistrati starebbero scavando nello scandalo delle scarcerazioni dei detenuti mafiosi, avvenute sotto il guardasigilli Alfonso Bonafede. Il materiale per un' inchiesta, del resto, c' è tutto: strane rivolte carcerarie, misteriose circolari ministeriali, sospetti lanciati come sassi in tv...Sospettati non ce ne sono, ma il materiale alla base dell' indagine-che-non-c' è ha per lo meno la stessa forza di quello che una decina d' anni fa ha acceso il controverso processo palermitano sulla presunta «trattativa» tra Stato e mafia, oggi in Corte d' appello. In primo grado mafiosi, politici e uomini delle forze dell' ordine sono stati condannati per avere ordito un piano oscuro, indefinito in più passaggi: alleggerire il carcere duro per i boss di Cosa nostra, detenuti in base all' articolo 41 bis della legge sull' ordinamento penitenziario. Voluta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli dopo la strage di Capaci del maggio 1992, costata la vita a Giovanni Falcone, quella norma impone ai capi mafiosi un duro regime di sorveglianza e l' impossibilità di comunicare con l' esterno. Secondo l'accusa, sostenuta dai pm antimafia palermitani raccolti attorno a Nino Di Matteo, tra il 1992 e il 1993 la presunta «trattativa» avrebbe visto da una parte i mafiosi, che minacciavano nuove bombe se il 41 bis non fosse stato attenuato, e dall' altra gli uomini dello Stato che facevano di tutto per evitarle. Imbastito su elementi a volte fumosi o inconsistenti, il processo Trattativa ha monopolizzato per anni il dibattito giudiziario e condizionato la vita politica. Al confronto con gli elementi alla base quel processo, paradossalmente, la sequenza dei fatti di questo terribile 2020 è più concreta e coerente. Però nessuno, almeno che si sappia, sta indagando. Il problema, a pensar male, è forse che la vicenda non coinvolge attori di centrodestra. Tutto comincia il 31 gennaio, quando il governo di Giuseppe Conte delibera lo stato d' emergenza per coronavirus. Quel giorno, secondo il ministero della Giustizia retto dal grillino Bonafede, le prigioni hanno un preoccupante sovraccarico di detenuti: sono 60.971, contro una capienza «regolamentare» di 50.692 e una disponibilità effettiva di 47.000 posti. Le celle scoppiano, il rischio di contagio è grave. Che cosa fa il ministro? Nulla. Che cosa fa il capo del Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, il magistrato che Bonafede ha scelto per quell' incarico nel giugno 2018, poco dopo il suo insediamento? Niente. Per tutto febbraio, ministro e capo del Dap non agiscono. Il 18 di quel mese, Basentini spedisce alle 189 carceri italiane le «Linee programmatiche per il 2020»: su 12 pagine, due sono dedicate al tema «La sanità negli istituti penitenziari», ma le parole «epidemia», «coronavirus» o «Covid-19» non compaiono nemmeno di striscio. Possibile non si capisca che le prigioni scoppiano e che il virus inevitabilmente le coinvolgerà? A fine febbraio i detenuti aumentano ancora: 61.230. Intanto l' onda della pandemia è montata, è uno tsunami. La paura del contagio si fa terrore, il malumore ribolle. Ai primi di marzo qualche protesta scoppia fuori dai cancelli. La risposta del ministero è così irrazionale da lasciare interdetti: vengono sospesi permessi-premio e visite dei familiari. Il risultato è inevitabile. Tra il 7 e il 9 marzo, in 26 prigioni, scoppia la più violenta rivolta degli ultimi 40 anni. Lascia 14 morti tra i detenuti (ufficialmente per overdose da metadone, rubato nelle infermerie), 50 agenti feriti, una settantina di evasi, danni per 35 milioni. C' è chi scrive che è tutto «organizzato», che c' è «una regia», ma anche quel tema stranamente evapora. Di certo i rivoltosi incontrano magistrati, ufficiali delle forze dell' ordine, e consegnano loro rivendicazioni e richieste. La protesta finisce. Passano dieci giorni, e il 21 marzo ecco altre anomalie. Il Dap invia un' irrituale circolare ai direttori delle prigioni: chiede di comunicare «con solerzia all' autorità giudiziaria» i nomi dei detenuti in condizioni di salute ed età tali da esporli al rischio di contagio. Il risultato dell' indagine servirà «per le eventuali determinazioni di competenza» dei Tribunali di sorveglianza, cioè per le possibili scarcerazioni. Mistero nel mistero, a firmare la circolare non è Basentini, né un direttore subordinato, ma l' addetta stampa Assunta Borzacchiello. Nessuno ne ha mai capito il perché. Il vero mistero, comunque, è la circolare, che subito viene letta come la chiave per aprire le celle. Non per nulla, il documento specifica che, «oltre alla relazione sanitaria» di ogni detenuto a rischio, devono essere allegate altre informazioni, tra cui «la disponibilità di un domicilio». E difatti i ritorni a casa cominciano: in sordina, a decine. Piano piano, escono di cella 376 detenuti pericolosi. Lo scandalo esplode solo a metà aprile, quando i giudici di sorveglianza spediscono ai domiciliari una serie di «pezzi da 90», fino a quel momento reclusi al 41 bis. Personaggi come Francesco Bonura, boss di Cosa nostra condannato a 23 anni; o come Pasquale Zagaria, fratello di Michele e mente finanziaria del clan camorristico dei Casalesi, condannato a 20 anni. Lo segnalano alcuni giornali, tra cui La Verità, e la polemica si fa rovente. Si scopre che il Dap non ha fornito ai giudici soluzioni alternative per i boss, che non ha saputo cercare posti nelle «strutture sanitarie protette». Il Dipartimento ha perso tempo, ha perfino spedito e-mail agli indirizzi sbagliati. Un' inconcludenza mai vista prima, nella struttura. Basentini vacilla. A fine aprile il guardasigilli decide di sacrificarlo, e il capo del Dap si dimette. Ma ai primi di maggio la polemica ha un ritorno di fiamma perché in tv Nino Di Matteo accusa Bonafede di avergli offerto e precipitosamente negato la guida del Dap che nel giugno 2018 ha poi affidato a Basentini. La rivelazione è quasi grottesca: due anni dopo la sua mancata nomina, Di Matteo - che, ricordiamolo, è uno dei pm del processo «Trattativa» - ipotizza che il ministro abbia fatto retromarcia sul suo nome per le proteste di «importantissimi boss mafiosi detenuti», preoccupati che il suo arrivo al Dap potesse produrre una stretta del 41 bis. A quel punto, mentre l' opposizione chiede le sue dimissioni, l' imbarazzatissimo Bonafede vara due decreti in pochi giorni: il primo subordina le scarcerazioni dei boss al Sì delle Procure antimafia; il secondo impone ai Tribunali di sorveglianza di verificare di continuo la salute dei boss trasferiti a casa. Intanto, nel silenzio di tutta la stampa italiana, La Verità riporta la sconcertante denuncia del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. L' ex boss di Cosa nostra, che si è pentito con Falcone nel 1992 e da 28 anni viene ritenuto affidabile, dice che le scarcerazioni dei boss «fanno parte della Trattativa tra Stato e mafia, che non è mai finita», e aggiunge che «è inutile che adesso il ministro annunci in pompa magna che li fa tornare in carcere: ormai sono fuori, i buoi sono scappati dal recinto». Anche il suo j' accuse cade nel vuoto. L'ultimo capitolo della storia riguarda la visita che Basentini ha fatto a Michele Zagaria, boss dei Casalesi recluso al 41 bis nel carcere dell' Aquila. Secondo quanto rivela oggi un cronista napoletano esperto di camorra, Paolo Chiariello, nel novembre 2018 il capo del Dap sarebbe entrato nella cella di Zagaria con il direttore della prigione e con una terza persona. Incontrare i detenuti è tra le facoltà del capo del Dipartimento. Intercettato poco dopo, però, il boss confida a un compagno di cella di aver parlato con «uomini delle istituzioni», che gli hanno fatto capire che il suo 41 bis non si può allentare solo per l'opposizione della Procura di Napoli. Se l'avesse saputo Di Matteo, una decina d' anni fa, chissà quali indagini ci avrebbe imbastito.

Cassazione: aver augurato “buon appetito” al 41bis non è uno scambio di informazioni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 Giugno 2020. No alla sanzione inflitta dal Dap, secondo cui il divieto era finalizzato a impedire comunicazioni. «Un atto privo di intento comunicativo». Dopo aver dichiarato che è illegittimo sanzionare il detenuto al 41 bis che ha dato “la buonanotte” a un gruppo diverso da quello di socialità, ora la Cassazione – con diverse ordinanze – ha dichiarato illegittimo anche la sanzione data a due detenuti al carcere duro per aver detto “buon appetito” ad altri detenuti ristretti fuori dal loro gruppo di socialità. Uno di loro è Giuseppe Madonia. Accade che il magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva annullato la sanzione disciplinare del richiamo inflittagli per avere salutato ( augurando appunto “buon appetito”) altri detenuti ristretti nel suo varco. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha fatto reclamo, ma il tribunale di Sassari l’ha rigettato. Il Dap ha rilevato che il reclamo si fondava sul disposto dell’art 41 bis che prevede l’impossibilità di comunicare tra detenuti di diversi gruppi di socialità e che vieta quindi ogni forma di dialogo e comunicazione tra detti detenuti, sottolineando che la comunicazione può anche essere non verbale; tuttavia il Tribunale di Sorveglianza ha osservato che quel divieto di comunicazione serviva ad evitare uno scambio di notizie e doveva essere costituito da uno scambio di contenuti: pertanto il mero saluto era, invece, una forma espressiva neutra, dalla quale non poteva evincersi quale tipo di informazione potesse essere scambiata. Ma il Dap, il ministero della Giustizia, le direzioni delle carceri di Sassari e Viterbo hanno fatto ricorso in Cassazione sostenendo che il divieto in oggetto era finalizzato a impedire comunicazioni e che il Tribunale di Sorveglianza si era arrogato il potere di valutare se la singola comunicazione era pericolosa o meno. Ma non solo. Ha fatto ricorso anche il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Sassari, deducendo erronea applicazione di legge: ha sostenuto che il Tribunale di Sorveglianza aveva fornito un’interpretazione della norma che superava un limite imposto espressamente, e sostanzialmente aveva configurato come diritto la facoltà di procedere allo scambio comunicativo, poiché il termine “comunicazione” doveva intendersi quale comprensivo di ogni forma di contatto, il quale può rivelarsi anche nel saluto, nel gesto, nelle movenze e in ogni scambio alternativo all’ordinario che può definire un ruolo e un messaggio occulto. Per la Cassazione, però, i ricorsi sono inammissibili. Ha ricordato lo scopo del 41 bis, ovvero quello di impedire i collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. Quindi è vietato che comunichino persone dello stesso gruppo criminale, per questo motivo esistono i gruppi di socialità dove i componenti sono fatti da persone che non appartengono alla stessa organizzazione. Ma cosa intende per “comunicazione”? La Cassazione spiega che intende il processo e le modalità di trasmissione di una informazione da un individuo a un altro attraverso lo scambio di un messaggio connotato da un determinato significato. Nello specifico, perciò, secondo la Cassazione il Tribunale di Sorveglianza ha correttamente rilevato che la mera dichiarazione di saluto doveva considerarsi di natura neutra, nel senso che non vi era modo di cogliere una particolare informazione trasmessa in quel modo: in definitiva, un atto privo di un vero e proprio intento comunicativo. Quindi, aver sanzionato chi ha augurato “buon appetito”, ha determinato una inutile afflizione, non prevista e quindi non consentita. 

Lettera di un detenuto al direttore: “In Italia la pena di morte è mascherata: ti lasciano morire in carcere”. Redazione su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Riportiamo in seguito il testo integrale di una lettera scritta da un detenuto nel carcere di Secondigliano di Napoli al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Salve Dott. Piero Sansonetti. Sono ***** *******, vi invio questa mia, per far conoscere i soprusi e gli abusi che sto subendo. Mi trovo in carcere per 416bis. Ma sono innocente: ho lavorato in un autolavaggio in Sicilia, altro che mafia, lavoravo più di 14 ore al giorno per 20 euro! Mi trovo qui a Secondigliano e da più di un anno, non posso parlare con i familiari, perché me lo hanno impedito. Ho fatto più richieste per poter parlare con i miei familiari e avere il numero di telefono contenuto nel mio telefonino sequestrato dalla polizia siciliana, ho chiesto al Magistrato di competenza ma non ho avuto nessuna risposta. Qui chiedo di poter parlare con il mio ambasciatore e non vogliono, non mi fanno parlare, non so cosa fare, mi tengono ristretto, non so l’italiano, non mi fanno parlare con i miei familiari e con il mio ambasciatore. Qui in carcere, per noi detenuti, non esistono diritti!!! Siamo sovraffollati, ammassati come sardine, in celle strette, anguste e non abbiamo neanche un metro quadro per detenuto per muoverci. La sanità non funziona, qui se hai una malattia che si può curare ti fanno morire, ho visto e vedo detenuti che muoiono e altri che stanno morendo e non se ne fregano. Vi faccio presente che la maggior parte dei detenuti sono presunti innocenti, qui ci arrestano per niente, innocenti, e questi magistrati corrotti ci condannano da innocenti e rovinano la vita nostra e dei nostri familiari. Qui in Italia c’è la pena di morte mascherata, che ti fanno morire in carcere, non vogliono che un detenuto si inserisca realmente in una nuova vita in libertà, in modo che la persona lavora onestamente. Qui non esistono benefici e applicano a tutti la Mafia, ma la vera mafia sono loro, che ci schiacciano, ci tolgono la libertà, rovinano le nostre famiglie e ci fanno morire in carcere e nessuno fa niente. Ti chiedo di aiutarmi per avere i miei Diritti, e di far conoscere la mia precaria e amara situazione attuale in modo che qualcuno possa intervenire. Io solo così posso farmi sentire. Qui in carcere non mi danno la possibilità di fare niente. Non posso parlare con il mio ambasciatore e soprattutto con la mia famiglia. Se puoi far sapere la mia situazione e mandare in qualche associazione che mi può aiutare. Non voglio fare atti estremi, ma qui in carcere ti portano loro ad arrivare a determinati atti, come violenza o suicidio, che più di tutti i casi di suicidio non è vero, sono le guardie che ammazzano i detenuti e poi gli mettono una corda al collo, o il lenzuolo e dicono e fanno dichiarare che si è impiccato. Ci sono altri omicidi che hanno fatto le Guardie e che li lasciano prendere metadone e grossi quantitativi di psicofarmaci e dichiarano che se li è presi il detenuto, non è per niente vero!!! Concludo e mi auguro che mi aiuterete. Nell’attesa, il Detenuto **** ***********, C.C. Secondigliano (Napoli).

Il 41 bis è una fossa comune di sepolti vivi. Sergio D'Elia su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem terrà un altro Consiglio Direttivo sabato, 25 luglio. La riunione dal titolo “41-bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi” prende spunto dall’uscita di un numero monografico sul “carcere duro” della rivista giuridica Giurisprudenza Penale. Insieme all’aspetto tecnico-giuridico (di cui il fascicolo prevalentemente tratta), verrà trattato quello umano del vissuto delle vittime di questo regime speciale che vige in Italia da quasi trent’anni e che nessuno pare voglia mettere in discussione.  Prenderanno la parola ex detenuti al 41-bis, familiari, avvocati difensori, magistrati di sorveglianza, giuristi, giornalisti. Si parlerà della vicenda di Raffaele Cutolo, un uomo di quasi 80 anni vissuti in un tempo “equamente” diviso fra tre generazioni: la prima in libertà, la seconda nel carcere “normale”, la terza al “carcere duro”. Non sono pochi i detenuti al 41-bis che, come Raffaele Cutolo, sono sottoposti al regime speciale di isolamento, ininterrottamente, da quando è stato istituito nel 1992 e che rischiano di morire nelle mani di uno Stato che ha abolito la pena di morte, ma non la morte per pena e la pena fino alla morte. Il monumento simbolo della lotta alla mafia si erge su una fossa di sepolti vivi, uomini privati di sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, di facoltà sociali minime come la parola. Da regime speciale introdotto per tagliare le comunicazioni mafiose tra l’interno e l’esterno del carcere, il 41-bis si è nel tempo involuto fino ad attorcigliarsi su se stesso, si è incattivito fino ad accanirsi anche contro se stesso, con norme, disposizioni, circolari assurde che, al confronto, quelle in vigore a Guantanamo o nei campi di rieducazione cinesi appaiono regole libertarie. La mania securitaria ha spinto, ad esempio, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a percorrere tutti i gradi di ricorso fino alla Suprema Corte di Cassazione per ripristinare la sanzione disciplinare, che il Magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva cancellato, nei confronti di due detenuti che da una cella all’altra, prima di cena, si erano scambiati un “buon appetito”. Se il “diritto penale del nemico” ha stravolto le regole basilari del giusto processo nelle aule di tribunale dove si trattano reati di mafia, il “codice penitenziario del nemico” applicato ai detenuti per mafia (anche a quelli in attesa di giudizio, quindi innocenti fino a prova contraria) ha travolto le regole minime del buon senso. Dire a quello della cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare, costituisce grave minaccia all’ordine democratico e alla sicurezza pubblica, ordine e sicurezza non solo interni al carcere, anche esterni e, forse, anche internazionali. La Corte di Cassazione ha seppellito il ricorso del DAP con una risata. Ma c’è poco da ridere. Il 41-bis è un regime di tortura, un dominio dell’uomo sull’uomo pieno e incontrollato, sempre più chiuso e ottuso. È la quintessenza del carcere, dell’isolamento, della privazione della libertà. Un giorno – che noi di Nessuno tocchi Caino, noi che siamo anche Spes contra Spem, faremo in modo non sia molto lontano – ci volgeremo indietro e guarderemo al carcere, nella sua versione “dura” e nella sua versione “morbida”, come si guarda a una rovina della storia, un resto archeologico dell’umanità. Ci volgeremo indietro e diremo a noi stessi: cosa abbiamo fatto? Siamo arrivati a giudicare, punire e chiudere le persone in una cella! A tenerle fuori dal tempo e fuori dal mondo. A volte senza pane e acqua, a volte con pane e acqua, a volte interdette anche all’uso stesso della parola, all’usanza civile del dire “buon appetito”, alla buona maniera del dirsi “buongiorno” o “buonanotte”.

 “Quella gara a recitare la parte del più antimafioso è desolante”. Il Dubbio l'8 maggio 2020. Secondo Giandomenico Caiazza il decreto annunciato dal Guardasigilli “risponde ad esigenze di tipo propagandistico”. Un’idea “inaccettabile, perché interviene in modo inammissibile sull’autonomia del giudice e risponde a esigenze di pura propaganda politica e non di giustizia”. Così  il presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, intervistato dall’Agi, commenta l’annuncio del Guardasigilli Alfonso Bonafede relativo al nuovo decreto legge per far rivalutare dai giudici le scarcerazioni di esponenti della criminalità organizzata, oggi ai domiciliari per l’emergenza coronavirus. “Premesso che è impossibile dare un giudizio su un provvedimento che non c’è – afferma il leader dei penalisti – certo e’ una pretesa teorica inaccettabile immaginare di porre al giudice l’obbligo di rivalutazioni. E’ una forma di intervento indebito sull’autonomia della valutazione del magistrato”. Caiazza osserva, quindi, che “esistono già  strumenti processuali attraverso i quali intervenire, come il ricorso da parte del procuratore generale: l’ufficio della pubblica accusa – sottolinea il leader degli avvocati penalisti – viene già regolarmente interpellato, e per la gran parte di questi provvedimenti di scarcerazione c’è stato il parere favorevole della procura generale. Dove non c’è, il provvedimento può essere impugnato, si può fare ricorso in Cassazione”. Il decreto annunciato, dunque, “risponde ad esigenze di tipo propagandistico: il ministro ora sente la necessità  di dover fare la parte del più antimafioso degli antimafiosi, in gara con Di Matteo. E’ uno spettacolo desolante”.

Da Gratteri a Di Matteo, ritratto dei magistrati da combattimento. Giovanni Fiandaca su Il Riformista l'8 Maggio 2020. La recente sceneggiata con protagonisti il ministro Bonafede e il magistrato Di Matteo, nell’ambito della trasmissione Non è l’Arena su La7, conferma connessioni per non pochi versi inquietanti. Connessioni cui ci siamo da tempo assuefatti, sino al punto di percepirle ormai come pressoché normali. Ma così in realtà non dovrebbe essere. Com’è intuibile, alludo al persistere di liaisons dangereuses tra settori del mondo politico, giornalisti di grido e magistrati di punta (specie del pubblico ministero) cementate da una comune vocazione giustizialista: ne costituisce, negli ultimi anni, esemplificazione emblematica la cordata che ricomprende, sotto la cornice culturale (si fa per dire) del fanatismo punitivista grillino, personaggi quali appunto Bonafede, Di Matteo, Travaglio e altri compagni di giro. Ma come emerge dal contrasto esploso domenica sera, il rapporto di contiguità o collateralismo politico tra il guardasigilli e il magistrato-simbolo dell’antimafia non ha avuto alla base soltanto motivazioni per così dire culturali o ideologiche. Come spesso avviene nell’ambito di una comune militanza, alle ragioni nobili si aggiungono presto o tardi ambizioni di potere e di carriera, che peraltro possono pur sempre ammantarsi di giustificazioni ideali. Quale che fosse la più vera motivazione (ideale o di carriera e potere, o tutte e tre le cose), è risultato chiaro dalla telefonata fatta a Non è l’Arena che Di Matteo ci teneva davvero, nel 2018, a essere nominato capo del DAP dall’amico ministro della giustizia. E l’avere lo stesso Di Matteo maliziosamente adombrato il sospetto che Bonafede abbia potuto infine rinunciare a nominarlo a causa dell’avversione verso quella preannunciata nomina manifestata da alcuni boss al 41 bis intercettati in carcere, può anche essere interpretato come una vendetta postuma originata da una ambizione frustrata. La questione oggi più rilevante dell’intera vicenda non è però, a mio avviso, se Bonafede abbia ceduto per pavidità di fronte alle reazioni allarmate provenienti dalle celle dei mafiosi incarcerati: la scelta rinunciataria del ministro potrebbe essere stata frutto di una valutazione prudenziale o di opportunità, che sarebbe in ogni caso cosa diversa da un vile cedimento alle pressioni mafiose. E c’è un profilo tutt’altro che secondario, che finora è stato del tutto trascurato: l’esperienza acquisita da pubblico ministero nelle indagini antimafia conferisce automaticamente la competenza a gestire un universo particolarmente problematico e complesso come quello delle prigioni? E poi, è razionale e giustificato elevare un antimafia concepita in maniera dura e pura, con il suo conseguente rigore iper-repressivo, a principio-guida della gestione dell’intera popolazione detenuta, costituita al suo interno da variegate tipologie di autori di reati che poco hanno in comune con i delinquenti mafiosi? Su interrogativi come questi bisognerebbe riflettere, senza lasciarci invischiare e irretire soltanto dalle superficiali e strumentali polemiche subito scoppiate in coda alla trasmissione di Giletti. Venendo ora al punto che considero più importante, esplicito che questo a mio avviso riguarda l’atteggiamento mentale di Di Matteo, beninteso non come persona in carne ed ossa, ma come prototipo anche simbolico di un modello di magistrato che è impersonato anche da altri pubblici ministeri da combattimento: un modello che non esito a definire estremistico in senso oltranzista; e ciò sino al punto di sollevare seri problemi di compatibilità con la stessa funzione di magistrato. Non solo in termini di correttezza istituzionale e deontologica, come è stato già rilevato ad esempio dall’ex procuratore di Torino Armando Spataro, il quale in un’intervista ha dichiarato che non è accettabile che un pubblico ministero azzardi pubblicamente sospetti in mancanza di prove, e che l’essere in aggiunta membro del Csm comporterebbe maggior rispetto nei confronti di un ministro della giustizia (cfr. La Stampa del 5 maggio 2020). La mia critica è più di fondo e a più ampio spettro, e ha a che fare proprio con la visione estremizzante dell’azione giudiziaria antimafia tipica di un magistrato à la Di Matteo. Per riassumere qui i tratti caratteristici dell’estremismo, mi avvarrò di un saggio del filosofo analitico Robert Nozick (contenuto nel volume Puzzle socratici, Raffaello Cortina, 1999), che più volte mi è stato di aiuto nel diagnosticare le persone affette da questa peculiare tendenza. Precisamente, Nozick giunge ad indicare otto caratteristiche sintomatiche, ma con l’avvertenza che può bastare la presenza di un certo numero di tali caratteristiche. Accennando a quelle anche a mio giudizio più importanti, comincerei a menzionare la tendenza a rivendicare il proprio punto di vista come una verità oggettiva e inoppugnabile. In coerenza con questa premessa, l’estremista percepisce chi non condivide la sua posizione come un nemico da combattere, un avversario spregevole che sposa interessi ignobili ed è animato da intenzioni malevole; da ciò altresì un complesso cospiratorio, che induce a sospettare trame oscure e macchinazioni orchestrate dagli appartenenti ai fronti da combattere. Ancora, l’indisponibilità dell’estremista ad accettare soluzioni di compromesso, essendo egli un assolutista che adotta la logica del tutto o niente, ragion per cui “chi non è con me, è contro di me”. Ulteriore, e connesso, tratto caratteristico è la propensione a collocarsi in ogni caso al punto estremo dell’ideologia o dello schieramento (politico, professionale, ecc.) di appartenenza: per cui un estremista tenderà quasi sempre ad apparire ancora più estremista dei compagni o dei rivali interni alla medesima militanza. A questo punto, è arrischiato identificare in un magistrato del modello di Di Matteo buona parte dei tratti caratteristici della personalità estremista? Verosimilmente no, se si tengono ben presenti sia il dogmatismo accusatorio e il fanatismo repressivo che connotano l’operato giudiziario di questo tipo di pubblico ministero, sia la radicalità della contrapposizione critica delegittimatrice che ne caratterizza le esternazioni pubbliche contro quanti (politici, opinionisti, studiosi e perfino colleghi magistrati) non condividono lo stesso estremismo antimafioso. Ora, vediamo perché un atteggiamento mentale e professionale estremista appare poco compatibile – quantomeno in linea teorica o di principio – con la funzione odierna di magistrato. Anche se il discorso meriterebbe ben altro approfondimento, mi limito ad alcune notazioni di massima. Prendo le mosse dalla premessa, abbastanza scontata, secondo la quale il diritto in generale, e più nello specifico la giustizia penale implicano complessi bilanciamenti tra valori, diritti ed esigenze di tutela spesso in conflitto: per cui continue operazioni di ragionevole bilanciamento si rendono necessarie tanto sul piano della politica legislativa, quanto su quello dell’interpretazione e applicazione delle norme. Che il bilanciamento sia diventato l’“anima” del diritto contemporaneo, sempre più pervasivamente costituzionalizzato in una prospettiva anche sovranazionale, è una verità banale, ormai acquisita anche dagli studenti di giurisprudenza. Solo che questa verità quasi banale non solo di fatto viene disconosciuta dai settori politici più intrisi di populismo punitivista: essa stenta a farsi strada – il che è ancora più grave – nella magistratura d’accusa, soprattutto in quella più impegnata nel contrasto alla criminalità organizzata. Ciò non è il mero riflesso di una fisiologica diversità di approccio corrispondente al differente ruolo di giudice o di accusatore. Piuttosto, si manifesta una divergenza di vedute che riguarda addirittura il modo di concepire gli stessi principi basilari dell’ordinamento penale. Al di là delle recenti e aggressive critiche lanciate dal versante dell’antimafia giudiziaria ai magistrati di sorveglianza che hanno scarcerato anziani boss per motivi di salute, un’altra emblematica riprova di questa divergenza culturale di fondo la possiamo desumere dal grande sfavore con cui la maggior parte dei magistrati delle procure hanno accolto la sentenza costituzionale n. 253/2019 in tema di ergastolo ostativo: a ennesima conferma del fatto che l’impegno giudiziario antimafia, specie nelle sue forme più unilaterali di manifestazione, lascia trasparire una forma mentis restia a farsi carico dei delicati bilanciamenti tra valori tutti meritevoli di tutela che il costituzionalismo multilivello oggi impone pure (se non soprattutto) nell’ambito della giustizia penale, anche quando i soggetti da giudicare siano mafiosi di grossa taglia. In luogo di un costituzionalismo penale che sollecita ragionevoli compromessi assiologici, persiste in particolare sul versante dell’antimafia una ideologia belligerante da “diritto penale del nemico”, come si desume ad esempio da questa affermazione del presidente grillino della Commissione antimafia, non a caso pienamente consonante con il punto di vista di Di Matteo, Gratteri e altri magistrati di procura: «i mafiosi non sono delinquenti qualsiasi, ma soldati di un esercito che combatte la democrazia. Per questo sono in prigione. E i prigionieri di guerra non si liberano tanto facilmente, perché potrebbero tornare a combattere». Orbene, sta proprio in questo approccio similguerresco l’intrinseca e sostanziale incostituzionalità dell’estremismo antimafioso. Riguardato nelle sue perniciose ricadute sull’intero mondo giudiziario (anche per la espansiva tendenza che reca con sé a esportare la mentalità belligerante e l’ottica del diritto penale del nemico in altri settori criminosi, come la corruzione politico-amministrativa, i reati sessuali, ecc.), e più in generale sul funzionamento della nostra democrazia, questo estremismo dovrebbe essere una buona volta seriamente discusso nelle diverse sedi – istituzionali e non – in cui si svolgono il dibattito pubblico e il confronto culturale. Ma penso ad una discussione seria come cosa ben diversa dalle polemiche politico-giornalistiche correnti, animate da contrapposte tifoserie di pensiero corto, rozzo e soggetto a volubili pulsioni emotive. Sarebbe auspicabile, in questa prospettiva di più autentico e approfondito dibattito critico, che facessero sentire la loro voce – assai più di quanto finora non abbiano fatto – il Csm e la Scuola di formazione della magistratura. Rientro invero nel novero di quanti, da tempo, lamentano la mancanza (o, comunque, l’insufficienza) di una formazione culturale e professionale dei magistrati davvero all’altezza delle sfide del nostro tempo; e che sia, altresì idonea a rimuovere quei deficit di ordine formativo che possono concorrere a perpetuare in Italia forme vistose e dannose non solo di improprio protagonismo, ma anche di estremismo giudiziale. Una cosa è infatti il pluralismo ragionevole quale valore da preservare anche tra i magistrati, altra cosa è un pluralismo così accentuato da consentire di fatto contrapposizioni tra culture giudiziali così agli antipodi, da risultare inconciliabili. Ma, purtroppo, pavento che per questo tipo di confronto approfondito manchino ancora le complessive condizioni di contesto. Nell’immediato, considero comunque sbagliato il tentativo, da parte di Italia Viva e dell’opposizione di centro-destra, di strumentalizzare politicamente lo scontro tra il ministro e il pm chiedendo le dimissioni del primo, anche come pretesto per fare cadere il governo. Bonafede andrebbe sostituito come guardasigilli per ragioni di demerito politico-culturale che precedono, e nulla hanno a che fare con la maliziosa e istituzionalmente scorretta accusa di Di Matteo. Ma vi è di più. Sarebbe assai preoccupante e deprimente se a provocare la caduta del ministro, o addirittura dell’intero governo, dovessero essere – dopo le dimissioni del capo del Dap Basentini causate dalla precedente puntata della stessa trasmissione televisiva – ancora una volta le polemiche provocate da un uso spregiudicato e aggressivo della comunicazione mediatica. Se ciò dovesse malauguratamente avvenire, avremmo la prova della irreversibilità del decadimento culturale e politico- istituzionale del nostro Paese. (Articolo pubblicato su “Diritto di Difesa” la rivista dell’Unione camere penali italiane)

Intervista a Franco Coppi: “Bonafede disastroso, Davigo fa rabbrividire”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Maggio 2020. Per l’enciclopedia Treccani è l’avvocato più famoso d’Italia. Decano dei penalisti italiani, Franco Coppi – che per tutti è “il Professore” – in vita sua ne ha viste tante, assistendo anche Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, solo per citare due nomi. Raggiunto dal Riformista, attacca con ironia: «Ne ho viste tante, ma non avrei mai immaginato di finire io stesso ai domiciliari». Iperattivo, abituato a calcare le scene in tribunale, mal digerisce di dover stare chiuso in casa, nell’attesa che passi l’emergenza coronavirus. Classe 1938, lavora attivamente su alcuni dei casi recenti più spinosi, dall’omicidio del carabiniere Cerciello alle due ragazze investite in corso Francia a Roma.

Siamo tutti ai domiciliari, professore.

«Mi dicono che ne avremo per un anno o forse più. Per questo studiano misure di lungo corso».

A gestire questa fase, un premier avvocato. Che opinione ha di Conte?

«Se la sta cavando abbastanza bene, per uno che non aveva alcuna esperienza precedente in politica. Sta imparando il mestiere giorno per giorno. Ha avuto la fortuna e la sfortuna insieme di vivere questo momento particolarissimo, che comunque sarebbe stata una prima volta per chiunque. Detto questo, non ho mai avuto una predilezione per i politici dalla preparazione giuridica: i giuristi sono formali, l’uomo politico deve avere una elasticità diversa».

E dunque?

«Giudizio sospeso, in attesa di poter valutare i risultati».

Veniamo alla riforma del processo penale.

«Ecco, su questo un giudizio chiaro vorrei darlo: un disastro. Non si possono improvvisare le grandi riforme, altrimenti si ottengono risultati fallimentari. Chiunque assista a un’udienza si accorge che vengono ripetute le testimonianze e i documenti che tutti già conoscono, a eccezione del giudice, dai verbali investigativi del pm a quelli del dibattimento. Un meccanismo caotico, per di più aggravato dalla pretesa di ridurre la durata processuale complessiva, cosa che la riforma della prescrizione impedisce di fatto».

Tutta colpa del ministro Bonafede?

«È un periodo in cui occorrerebbe un ministro della Giustizia con il coraggio di fare un bilancio attuale sul pianeta giustizia. Nuovo processo penale, prescrizione, gestione delle carceri: siamo alla débâcle. Il ministro che vorrei vedere oggi deve saper prendere di petto la situazione. Invece abbiamo trenta udienze per ciascun processo, e per questo ministro non c’è nessun problema».

Glielo ha mai detto?

«Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo e di parlargli».

La riforma della prescrizione porta il suo nome.

«Questa di Bonafede è la peggiore riforma possibile. Renderà i processi eterni, senza fine. Aumenterà la discrezionalità dei processi tra quelli da trattare prima e quelli da trattare dopo. Bisogna rendersi conto che in un Paese dove arrivano a dibattimento tutti i processi, non si possono applicare regole aleatorie. Ma ho la sensazione che certi decisori di cultura giuridica ne abbiano poca».

Tra le ultime decisioni, la rimozione del capo del Dap che aveva mandato a casa due boss mafiosi.

«Per me lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità, senza farsi trascinare dalle grida isteriche della piazza.  Espressioni tipo “buttate le chiavi”, “marcire in carcere”, non devono appartenere a uno Stato di diritto, a una democrazia vera. A una persona anziana e malata deve essere accordata la detenzione domiciliare. I diritti fondamentali vanno garantiti. Non si deve ridurre la persona allo stato di cosa, altrimenti abbiamo dimenticato tutte le lezioni di Beccaria».

Quali soluzioni indicherebbe per l’emergenza carceraria?

«Partire dalla base. Mandare a casa chi ha un residuo di pena inferiore a un anno. Ed è il momento di pensare a una vera amnistia. Sarebbe opportuno accordare una amnistia di particolare ampiezza, perché ci sono processi penali che hanno fatto patire già sin troppe sofferenze. E c’è un eccesso di custodia cautelare, troppa gente in attesa di giudizio, con tempi inammissibilmente prolungati».

E per il pianeta carcere?

«Costruire carceri moderne, nuove, con la capacità di affrontare la popolazione carceraria. Oggi si vive in condizione disumana nelle carceri. E la popolazione carceraria corre il rischio di subire un supplemento di pena: se vanno evitati gli assembramenti, oggi tutte le celle delle prigioni sono fuorilegge. Qualcuno si assuma la responsabilità: cinque persone stipate in una cella piccola, non è dignitoso».

Magari anche usando i braccialetti elettronici.

«È davvero imbarazzante, uno dei simboli di una giustizia imbrigliata. Ci sono, ci sarebbero. Ma non si usano, e si fatica ad averne. Parlo di casi che conosco: ho ottenuto l’ammissione di una persona ai domiciliari, ma è rimasta in carcere perché il braccialetto elettronico non si trova. Siamo davanti a una lesione quotidiana del diritto».

Lei ha capito che fine abbiano fatto?

«Che fine abbiano fatto è un mistero. Deve esserci qualcosa dietro. Io so per certo che dal provvedimento alla disponibilità del braccialetto, passa troppo tempo».

Si scontrerebbe con i magistrati duri e puri alla Davigo.

«Quando sento un magistrato dire che un imputato assolto è un delinquente che l’ha fatta franca, rabbrividisco: vuol dire che ha giudicato per anni con pregiudizio».

Perché secondo lei certe figure finiscono per piacere così tanto alla pancia del Paese?

«Perché canalizzano la rabbia su capri espiatori facili da attaccare, non rendendo un gran servizio alla giustizia. Nella mia carriera mi sono sempre dedicato a far capire quali e quanti sono i rovesci della medaglia. Perché un giovane siciliano diventa mafioso, quali responsabilità ha la collettività. Se un giovane di 15 anni smette di andare a scuola e entra nelle file della malavita, bisogna andare alla radice, capire come avvengono certi processi. Invece siamo alla ricerca spasmodica del nemico, forti dell’idea che la colpa è sempre di qualcun altro».

Succede, se la classe dirigente è debole.

«La politica ha grandi responsabilità. Investire nella cultura e nell’educazione, curare i giovani, accogliere la sofferenza: questo bisognerebbe fare, prima di pensare alla repressione e alla punizione. Più musei si fanno visitare, meno reati si compiono».

Se finalmente vi incontraste, cosa suggerirebbe al ministro Bonafede?

«Metta mano a una revisione dei disastri cui assistiamo. Ci vuole un programma di riforma immediata, dei ritocchi presto attuabili. Metta insieme una commissione di saggi con pochi giuristi di fama per gli aggiustamenti immediati del processo penale».

Giuseppe Alberto Falci per huffingtonpost.it il 29 Aprile 2020. “Nessuna isteria, nessuna emotività ma princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”. Nei giorni del coronavirus succede anche questo: Pasquale Zagaria, super boss della Camorra esce dal carcere per motivi di salute, a casa pure il capomafia di Palermo, Francesco Bonura. Su questo tema ascoltiamo il parere di Franco Coppi, professore emerito di diritto penale, nonché illustre avvocato di imputati come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. “Per me - insiste - lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità e senza lasciarsi condizionare dalla isteria del momento. Ripeto, ci sono dei princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”.

Franco Coppi: “Uno Stato è forte e autorevole quando rispetta i diritti. Anche quelli di un mafioso…” Valentina Stella su Il Dubbio l'1 maggio 2020. Secondo l’avvocato e giurista, «il processo da remoto non garantisce l’oralità, l’immediatezza del contatto tra le parti e la cross examination. Tutte caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere». In un periodo così delicato per l’amministrazione della giustizia, in cui i principi fondamentali dell’ordinamento vengono messi in discussione, l’analisi del professore e avvocato Franco Coppi è una utile bussola che ci aiuta ad orientarci nella giusta direzione.

In questi giorni hanno suscitato molte polemiche le scarcerazioni di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Secondo alcuni magistrati lo Stato si è indebolito. Qual è il suo punto di vista?

«Se non sbaglio tutti questi personaggi vengono “scarcerati” per motivi di salute. Non è che ad un certo momento vengono mandati a spasso perché le carceri sono piene o lo Stato cede al ricatto di qualcuno. Sono persone le cui condizioni sono incompatibili con il regime carcerario. Il nostro ordinamento è pieno di disposizioni che stabiliscono che se una persona si trova in uno stato di salute tale da renderla incompatibile con la reclusione in carcere viene sospesa l’esecuzione delle pena o si concedono i domiciliari. La regola è questa, anche se si tratta di un boss mafioso, e la forza dello Stato sta proprio nel rispettare le regole, piacciano o non piacciano».

Sul fronte politico quasi tutti sono contro queste concessioni di misure alternative a carcere. Matteo Renzi ha detto: “Io sono un garantista convinto. Ma essere garantisti non significa scarcerare i superboss”.

«Se il boss si trova in una situazione di salute tale per cui non risulta più curabile in carcere, trattenerlo lì dentro significa trasformare la pena in un trattamento disumano che l’articolo 27 della Costituzione vuole sia bandito dal nostro sistema».

Si può essere garantisti con il “ma” davanti?

«O si è garantista o non lo si è: non esiste il garantista a metà soprattutto rispetto a delle situazioni che sono puntualmente previste dall’ordinamento e che devono portare a certe determinate soluzioni».

Queste affermazioni vanno ad alimentare quel populismo penale per cui i mafiosi sono dei sanguinari (non sapendo ad esempio che Pasquale Zagaria non si è mai macchiato di reati di sangue) che non hanno più diritti e per cui dobbiamo buttare la chiave. Come rispondere?

«Espressioni come “buttare la chiave” o “deve marcire in carcere” non dovrebbero far parte del vocabolario di uno Stato forte che amministra la giustizia con equilibrio. Il vecchio Beccaria avvertiva e ammoniva che mai una persona può essere trasformata in cosa. I diritti fondamentali sono riconosciuti dall’ordinamento penitenziario a tutti i detenuti, anche ai responsabili di reati di mafia. In questo a mio avviso c’è la dimostrazione della forza dello Stato».

In questi giorni si discute molto anche del processo da remoto. Il decreto legge presentato due giorni fa ha scongiurato il peggio. Secondo lei, come originariamente concepito, avrebbe offerto un buon servizio ai cittadini e alla macchina della giustizia?

«Ritengo di no. In passato è stato compiuto uno sforzo per dare al Paese un processo tutto fondato sull’oralità, sull’immediatezza del contatto tra le parti e sulla cross examination, mentre il processo da remoto, così come concepito inizialmente, contraddiceva tutte queste caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere. Aggiungo che mi sarebbe parso di difficile praticabilità un processo di quel genere quando ci si trova di fronte ad un procedimento con una pluralità di imputati, con decine di testimoni. Non dobbiamo dimenticare che in ogni grosso tribunale – pensiamo a Roma o Milano – si celebrano decine di processi al giorno. Si figuri l’organizzazione che sarebbe necessaria per mettere in atto qualcosa del genere».

Per come era immaginato, il processo da remoto non avrebbe permesso la pubblicità dell’udienza e la presenza della stampa. Su questo punto cosa pensa?

«La pubblicità dell’udienza è un fatto che viene spesso sottovalutato. Ma rappresenta il controllo della collettività su come si amministra la giustizia, è partecipazione ad essa, quindi è un dato che non può essere sottovalutato».

In questo momento che ministro della Giustizia vorrebbe?

«Mi piacerebbe avere un ministro della Giustizia capace di valutare i risultati conseguiti con il cosiddetto nuovo codice di procedura penale e che sappia prendere atto anche dei suoi fallimenti disastrosi, per poi avere il coraggio di riesaminare la situazione, eventualmente rivalutando qualche cosa del passato. Non è detto che tutto quello che è passato sia cattiva merce».

A cosa si riferisce?

«Questa idea della prova che si deve formare nel contraddittorio delle parti, per cui tutto quello che è stato raccolto in fase istruttoria non deve essere messo a disposizione del giudice prima del dibattimento perché si teme che l’organo giudicante possa formarsi un pre-giudizio, ha fatto sì che processi che con il vecchio codice si potevano concludere in due/tre udienze, oggi vengono trattati in venti/trenta udienze, con distacchi temporali incredibili tra l’una e l’altra. Ciò arreca uno svantaggio enorme, ad esempio, al principio dell’oralità e della formazione del giudizio aderente agli atti processuali. Ecco, questo sarebbe proprio il momento in cui ci si dovrebbe mettere attorno a un tavolo per esaminare freddamente e lucidamente qual è lo stato dell’arte».

Domiciliari ai boss: lo Stato di Diritto vittima degli attacchi mediatici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2020. Dovrebbe arrivare giovedì in Consiglio dei ministri la stretta del ministro della Giustizia che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. I mass media hanno fatto la loro parte e alla fine dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri giovedì la stretta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla concessione degli arresti domiciliari, che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il culmine del bombardamento mediatico è stato raggiunto con la trasmissione “Non è l’arena”, condotta da Massimo Giletti. Un programma tv dove sono stati invitati al dibattito tutte persone che sulla questione hanno un’opinione simile (non erano presenti né giuristi, né magistrati di sorveglianza e nemmeno il Garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto, però, la sfortuna di diventare capro espiatorio del presunto scandalo.

Tutto è partito da un articolo de L’Espresso relativo ai domiciliari per motivi di salute concessi a un recluso al 41 bis. Parliamo di Francesco Bonura, passato dal regime speciale alla detenzione domestica nei giorni scorsi proprio per le sue gravi condizioni. Un provvedimento della magistratura di sorveglianza limpido e motivato. Ma si è fatto leva sull’emotività e anche sull’ignoranza del tema per creare polemiche. A questo si è aggiunta anche il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria. Eppure anche questo provvedimento non dovrebbe rappresentare nulla di scandaloso visto che, alla luce dei principi costituzionali, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha concluso ritenendo sussistenti i presupposti di operatività dell’articolo 147 c. 1 n. 2 c.p. – tali da giustificare il differimento della pena per grave infermità fisica – essendosi in presenza di una patologia grave e qualificata che richiede al detenuto un iter diagnostico e terapeutico che viene definito “indifferibile”. Come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, il differimento della pena è dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati. Alla luce di ciò, «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza – equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano». Ma oramai la valanga ingiustificata di indignazioni ha sortito i suoi effetti. Il ministro Bonafede, per assecondare gli animi, ha promesso che farà di tutto per rendere più difficile la concessione dei domiciliari a chi attualmente si trova al 41 bis. Non importa sapere, come detto, che i provvedimenti che hanno creato indignazione sono stati concessi per gravi motivi di salute. Per chi si è macchiato di reati mafiosi, il diritto alla salute diventerà un optional. Le norme, che potrebbero essere contenute in un prossimo decreto legge, dovrebbero limitare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Ovvero che tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia saranno sottoposte, per il via libera, sia alla Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sia alle singole Procure distrettuali Antimafia e Antiterrorismo. Tradotto, chi è al 41 bis o in alta sorveglianza difficilmente potrà ottenere un via libera da chi lo ha tratto in arresto. C’è da ricordare però che l’articolo111 della Costituzione stabilisce che il legislatore deve garantire la celebrazione del “giusto processo” affidando la decisione ad un giudice assolutamente neutrale. La terzietà del giudice penale è una terzietà diversa da quella dei giudici di sorveglianza: rendere vincolanti i pronunciamenti del Procuratore distrettuale o nazionale Antimafia significherebbe snaturare la terzietà del giudice di sorveglianza. Il problema, di fondo, è che è inimmaginabile, per un governo, muoversi a seconda delle indignazioni del momento. Non si possono fare interventi normativi in base a degli articoli di giornale o le trasmissioni televisive che hanno anche il potere di fuorviare e veicolare l’opinione pubblica. Altrimenti l’esercizio del potere esecutivo rischierebbe di diventare il terreno d’intervento privilegiato dei gruppi di pressione di ogni parte. La democrazia rischia di collassare e quindi di sostituirsi con la “dittatura della maggioranza”. Ed è così che lo Stato di Diritto muore e avanza sempre di più quello di Polizia.

Giletti: il “piccolo Travaglio” che processa chi mette ai domiciliari i mafiosi malati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2020. Il conduttore di “Non è l’Arena” parla a nome delle vittime di mafia e processa chi vuole salvare i cittadini detenuti dal Coronavirus. «I poveretti che sono in carcere non li fanno uscire, i boss che comandano vengono accompagnati a casa!», ha tuonato Massimo Giletti, il conduttore di Non è L’Arena. Lo ha detto durante la trasmissione di ieri sera trattando il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria, invitando però al dibattito tutti coloro che la pensano allo stesso modo (infatti non era presente nessun giurista, nessun magistrato di sorveglianza, nemmeno il garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto però la sfortuna di essere preso come capro espiatorio del presunto scandalo. Giletti, in modo decisamente populistico, ha contrapposto i detenuti “comuni” che restano in carcere – quasi che il loro destino gli stesse davvero a cuore – ai boss che escono per chissà quale arcano motivo. Ma si tratta dello stesso Giletti che solo poco tempo fa attaccava chiunque chiedesse una riforma che puntasse alle misure alternative, tuonando come un “Travaglio minore” – ne ha ancora di strada da fare per raggiungere la “caratura” del fondatore del Fatto – contro lo “svuotacarcere”. Ovviamente, giocando sulla facile dialettica populista, Giletti ha fatto leva sull’emotività. «Io italiano – ha sbottato in diretta -, che ho perso amici nella lotta contro la criminalità organizzata, ho negli occhi un carabiniere che è morto caduto da una scogliera per mettere una microspia, io come cittadino italiano mi vergogno, è un fatto inammissibile e intollerabile». Come per dire che aver concesso il differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica per un arco temporale di 5 mesi (poi Zagaria dovrà ritornare al 41 bis), significhi piegarsi alla logica mafiosa e dare uno schiaffo alle vittime della mafia. Da sempre funziona così.  La Corte Europa ha decostruito alcuni meccanismi (in seguito dichiarati incostituzionali) dell’ergastolo ostativo? Subito si innalzano i cori indignati parlando a nome dei familiari delle vittime della mafia. La stessa Fiammetta, figlia del giudice Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo a via D’Amelio, l’anno scorso ha partecipato al “Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato dalla “Conferenza nazionale volontariato giustizia” e nel suo intervento ha parlato delle inchieste sulla morte del padre, definendole il «depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo paese». Ma ha anche parlato della sentenza sull’ergastolo ostativo e si è detta d’accordo e ha stigmatizzato i titoloni di alcuni giornali del tipo “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. Inoltre, alla domanda se è giusto parlare a nome dei famigliari delle vittime della mafia, Fiammetta ha risposto che è assolutamente sbagliato perché «ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti». Una bella lezione, quella di Fiammetta, che però è rimasta inascoltata proprio da coloro che usano i nomi di Falcone e Borsellino per criticare il provvedimento come quello emesso nei confronti del boss Pasquale Zagaria. Un provvedimento, come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati.  Alla luce di ciò,  «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza – equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano».

Giuseppe Alberto Falci per huffingtonpost.it il 29 Aprile 2020. “Nessuna isteria, nessuna emotività ma princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”. Nei giorni del coronavirus succede anche questo: Pasquale Zagaria, super boss della Camorra esce dal carcere per motivi di salute, a casa pure il capomafia di Palermo, Francesco Bonura. Su questo tema ascoltiamo il parere di Franco Coppi, professore emerito di diritto penale, nonché illustre avvocato di imputati come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. “Per me - insiste - lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità e senza lasciarsi condizionare dalla isteria del momento. Ripeto, ci sono dei princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”.

Libero Quotidiano il 5 maggio 2020. Oggi, puntuale come le tasse, scontata, prevedibile e per questo ancor più risibile, in prima pagina sul Fatto Quotidiano ecco piovere la difesa d'ufficio di Marco Travaglio, impegnato a schivare i colpi per conto di Alfonso Bonafede e impegnato a dettare la linea ai grillini dopo quanto accaduto a Non è l'arena domenica sera, dove il pm Nino Di Matteo aveva rievocato il momento in cui fu vicinissimo al Dap, salvo poi vederlo "sfuggire" poiché, ha spiegato, il suo nome era "inviso" ad alcuni boss mafiosi. Tutto ciò ovviamente accadeva quando Alfonso Bonafede era ministro della Giustizia. E nel goffo editoriale di Travaglio, con ancor più veleno e insulti del solito, c'è un passaggio che lascia veramente interdetti. Già, perché Marco Manetta scrive: "L'altra sera l'ex pm (Di Matteo, nda) ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministero sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Massimo Giletti l'ha dato per scontato". Insomma, Travaglio accusa di Giletti di aver dato "per scontato" il nesso causale tra quanto detto da Di Matteo e il ruolo di Bonafede. Ma è serio? Roba, davvero, da ridere: come se, in una vicenda del genere, il Guardasigilli non c'entrasse nulla. Una singola frase, nel contesto di un articolo di rara violenza e che fa acqua da tutte le parti, che la dice lunghissima su Travaglio e sulla sua missione: difendere sempre e comunque i grillini, anche a costo di tuffarsi per intero nel ridicolo.

Non è l'Arena, insulti e attacchi a Giletti. Dopo lo scontro con Dino Giarrusso sulle scarcerazioni e lo sciame di insulti che ne è scaturito, Massimo Giletti ha ricevuto la solidarietà di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, mentre l'europarlamentare parla di "agguato televisivo". Francesca Galici, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. Massimo Giletti è nel mirino. Il giornalista di La7, conduttore della trasmissione domenicale Non è l'Arena, nella puntata andata in onda ieri è tornato a parlare della scarcerazione di alcuni pericolosi boss mafiosi per effetto dei provvedimenti in materia di contenimento del contagio da coronavirus. Una dura presa di posizione da parte del giornalista, che ieri in diretta si è scontrato con Dino Giarrusso, europarlamentare del Movimento 5 Stelle. Uno scambio di opinioni acceso che ha scatenato violenti attacchi contro il giornalista, "colpevole" di aver fatto inchiesta nel suo programma. Da ormai diversi giorni il ministro Alfonso Bonafede è nell'occhio del ciclone per aver avallato decisioni incomprensibili sulle scarcerazioni, che hanno portato alla remissione del mandato da parte di Francesco Basentini, ex-direttore del Dap. Inevitabile la presa di posizione di Dino Giarrusso a Non è l'Arena in favore del suo collega di partito Bonafede e altrettanto inevitabile lo scontro con Massimo Giletti, che da giorni porta avanti questa inchiesta. Sono volate parole molto forti, soprattutto da parte di Massimo Giletti che ha accusato il governo di aver trattato i boss mafiosi come "ladri di polli." Il clima in studio si è surriscaldato velocemente ma non quanto quello sui social, dove il termometro dell'indignazione popolare contro il conduttore di La7 è salito vertiginosamente. Per ore, e tutt'ora, Massimo Giletti è stato fatto oggetto di insulti e provocazioni. Servo, pagato, vergognoso, viscido sono solo alcuni degli epiteti rivolti al conduttore di Non è l'Arena nel corso della serata di ieri. Non è la prima volta che i due arrivano allo scontro. Non è la prima volta che il lavoro di Massimo Giletti viene messo in discussione da una certa opinione popolare, quando si tratta di inchieste di questa levatura. Durante la puntata di ieri, il conduttore ha snocciolato nomi e cognomi di personaggi legati alla criminalità organizzata che da qualche giorno si trovano in regime di detenzione domiciliare. Un fatto gravissimo, denunciato dalle opposizioni e pubblicamente ribadito da Massimo Giletti, che ha ricevuto la solidarietà di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. "Attacchi e insulti a Massimo Giletti dolo la trasmissione Non è l'Arena di ieri sera. Il tutto per aver semplicemente svolto con professionalità il suo lavoro da conduttore e giornalista. Forza Massimo, gli insulti e gli attacchi gratuiti non ti fermeranno", ha scritto Giorgia Meloni in un tweet particolarmente apprezzato dalla rete. Pochi minuti fa è intervenuto anche Matteo Salvini, che ha ribadito la sua stima nei confronti del professionista di La7: "Tutto il mio sostegno a Massimo Giletti, uomo e giornalista libero." Resta da sciogliere il nodo delle scarcerazioni, in attesa che vengano forniti chiarimenti precisi sulle decisioni assunte in merito. Intanto, sui suoi social, Giarrusso si gioca la carta del vittimismo, accusando Giletti di avergli teso un "agguato televisivo."

Scarcerare è legittimo, il consenso non serve. Alessandra Dal Moro su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato al Plenum del Csm dalla consigliera Alessandra Dal Moro a nome di tutti i togati della corrente Area (corrente di sinistra dei magistrati). Voglio esprimere, anche a nome degli altri consiglieri che si riconoscono in AreaDG, la mia preoccupazione per le reazioni e i commenti suscitati dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali e per questo sottoposti al regime dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, che, per i toni violenti od impropri, rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione nei confronti della magistratura di sorveglianza. Una magistratura che – con le note difficoltà dovute alla carenze di organico e di personale che la drammatica contingenza non può che aggravare – è oggi impegnata a fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri notoriamente e drammaticamente sovraffollati, valutando con attenzione le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute e ai trattamenti sanitari indifferibili. Si tratta di decisioni difficili che implicano il necessario bilanciamento di interessi di rilevanza costituzionale, che deve avvenire nel rispetto delle norme del codice penale, dell’Ordinamento Penitenziario e, innanzitutto, dell’art. 27 della Costituzione, che, sancendo il principio di umanità della pena ed imponendo che la stessa sia tesa al recupero e alla rieducazione del condannato, ricorda che i detenuti anche i più pericolosi, sono persone, rispetto alle quali in nessuna fase la giurisdizione può abdicare al proprio ruolo di tutela dei diritti, e di quelli fondamentali innanzitutto. Naturalmente ogni singola decisione deve valutare in concreto, volta per volta, ogni vicenda, e decidere attuando un difficile bilanciamento dei valori in gioco, sentiti tutti gli interlocutori coinvolti. Ed ogni decisione è suscettibile di essere verificate dal Tribunale di sorveglianza e poi nei successivi gradi di giudizio. Perciò, come bene ha sottolineato il Presidente dell’ANM, ogni magistrato sa che le proprie decisioni possono essere discusse, riformate, non condivise e criticate, anche aspramente. Ma sa anche che in nessun modo il consenso sociale o politico può condizionare l’esercizio della giurisdizione, e che al consenso – così come al dissenso – non può che essere indifferente nell’esercizio delle sue funzioni, perché in ciò si realizza, primariamente, la prerogativa costituzionale della sua indipendenza. Ogni critica è legittima, quindi. Ma legittimi non sono gli attacchi e le offese o addirittura la richiesta di espulsione dall’ordine giudiziario che pure abbiamo sentito avanzare in questi giorni. Questi costituiscono violente delegittimazioni che ledono l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione ed al contempo la serenità che sempre deve assistere – ed in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario – l’esercizio del compito difficilissimo di giudicare. Aggiungo, che, come abbiamo spesso ricordato in quest’aula anche in omaggio ad un grande Vicepresidente quale fu Vittorio Bachelet in un contesto per altre ragioni di grande emergenza democratica, lo Stato dimostra la propria forza proprio nel non abdicare mai al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda. Di fronte all’esecuzione della sanzione penale, che non è una vendetta ma uno strumento per realizzare la sicurezza sociale e tendere alla rieducazione della persona condannata, lo Stato mostra la sua forza proprio nel trattare chi delinque, chiunque egli sia, come un essere umano, rispettandone la dignità ed i diritti inviolabili come valore assoluto anche se si tratti del peggiore degli assassini. Ed in questo sta la sua grandezza. Non la sua debolezza.

Diktat dei signori della forca: vietato dare diritti ai mafiosi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Ho capito solo adesso (sono tardo) il motivo per cui alcuni magistrati perdono completamente le staffe quando è in discussione un qualsiasi provvedimento che riguardi “i mafiosi” e che non sia di puro e semplice accanimento afflittivo. Può essere una sentenza che assolve o un’ordinanza che scarcera, può essere una proposta di legge che osa immaginare l’attenuazione dei rigori detentivi, cioè il regime incostituzionale del cosiddetto “carcere duro”, insomma qualsiasi cosa che non sia pura e semplice giustizia piombata: puntualmente, quei magistrati insorgono denunciando che in quel modo lo Stato viene meno ai propri doveri, cede al ricatto della criminalità organizzata, rinuncia a combatterla e via di questo passo. In realtà la ragione vera e profonda del loro disappunto rabbioso è un’altra: ed è che la loro funzione è travolta quando un “mafioso” è destinatario di trattamenti alternativi alle manette e alle sbarre. C’è solo un caso in cui il criminale può godere di attenuanti e sperare di non essere esposto alla gogna sempiterna, e cioè quando decide di affiliarsi al sistema di pentimento e collaborazione: allora va bene, perché così si celebra comunque l’immagine del giustiziere che sottomette il crimine al proprio duro comando e anzi ne riceve riconoscimento. Altrimenti, niente. Perché quella giustizia, per esistere, ha bisogno che il mafioso delinqua o marcisca in carcere. Se ne esce, pur quando ne ha diritto, o se smette di essere torturato, l’immagine e appunto la funzione di quella giustizia è compromessa. Ma non è lo Stato di diritto a risentirne: sono loro, quei magistrati, e l’anti-Stato che essi rappresentano.

Persone con un nome, ecco perché non dovete chiamarli “mafiosi”. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Aprile 2020. È perfettamente legittimo protestare irritazione se il responsabile di gravi delitti è scarcerato per ragioni di salute. Si può legittimamente ritenere che debba marcire in galera, come legittimamente ritiene il capo del primo partito italiano in felice accordo con l’ex alleato di governo nonché, in bella unità nazionale, con il ganzo di Pontassieve. Quello è malato, ha scontato quasi tutta la pena, rischia di morire “di galera”, non “in galera”, perché la prosecuzione della detenzione carceraria mette in pericolo la sua vita: e tu vuoi che ci rimanga, perché siccome ha commesso delitti importanti deve rimanerci – letteralmente – fino alla fine. E va bene: urli vergogna vergogna, e magari ci infili che mentre i vecchietti perbene muoiono di Coronavirus quelli lì, i mafiosi, se ne vanno a casa e noi gli paghiamo pure il biglietto (questo schifo l’abbiamo visto l’altra sera su TeleSalvini, ovvero la trasmissione di quel Giletti, Non è l’Arena, l’enclave leghista di Telecinquestelle ovvero la7). Tutto bene, per modo di dire. Ma la protesta cessa di essere solo discutibile e diventa illegittima quando pretende di imporsi sulla legge che quella scarcerazione consente, e se in modo sedizioso denuncia alla riprovazione pubblica i magistrati che l’hanno disposta. Perché allora non si tratta più dell’incensurabile, per quanto ripugnante, manifestazione dell’idea barbara secondo cui chissenefotte se un cittadino crepa di carcere: si tratta piuttosto della pretesa che lo Stato diserti la propria legalità e che i magistrati siano lo strumento di quella sovversione. Non basta. Perché tu puoi ancora menare tutto lo scandalo che ti pare se la giustizia carceraria non funziona proprio come vuoi, se cioè si limita alla tortura dell’isolamento, alla vergogna del sovraffollamento, alla regolarità del suicidio, e non prevede la sacrosanta pena supplementare della morte per assenza di cure. Ma in un Paese appena decente, che non è quello in cui siamo e non è quello che tu desideri, nessuno avrebbe diritto di rivolgersi a quegli esseri umani chiamandoli “mafiosi”. Dice: ma sono mafiosi! Come dovremmo chiamarli? Non così: perché il delitto che hanno commesso conferisce alla società il potere di punirli, non il diritto di degradarli a una cosa senza identità esposta allo sputo della folla. È un piccolo dettaglio di decoro civile che forse sfugge ai più, o almeno a quelli che fanno chiasso se un ottantenne in metastasi fruisce del diritto di curarsi: ma non è giusto revocargli persino il diritto al nome, istigando il pubblico a farsi coro – “Mafioso! Mafioso!” – di quella specie di lapidazione verbale. Perché è una persona quella che lo Stato rinchiude in un carcere, ed è una persona quella che ne esce quando ne ha diritto.

Professore Coppi, dunque ci sono delle regole generali che garantiscono la salute di tutti i detenuti. Ma qui il punto è: è giusto o non è giusto che anche capi della mafia o della camorra usufruiscano di queste garanzie?

«Certo che è giusto, non c’è una limitazione sotto questo punto di vista alla eventuale gravità dei reati commessi o meno. E’ un principio di carattere generale. D’altra parte, non deve dimenticare l’articolo 27 della Costituzione che stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità. Ora lasciare in carcere una persona che è affetta da malattia, che nel carcere non può essere curata, e potrebbe portare alla morte, trasformerebbe quella pena in un trattamento disumano. Quindi si deve tener conto di questi princìpi fondamentali. E lo stesso ordinamento penitenziario vuole che vengano rispettati i diritti fondamentali dell’imputato detenuto, e fra i diritti fondamentali c’è il diritto alla salute. Anche se può dispiacere che un boss di quel calibro possa riavere “la libertà” sta di fatto che la legge è questa e va rispettata nei confronti di tutti».

Però il 41-bis prevede che si possa anche fare in un regime ospedaliero. Non a caso c’è una frase presente nell’ordinanza dei giudici di sorveglianza di Sassari, che hanno consentito l’uscita dalla prigione sarda di Zagaria, che ha sollevato polemiche: “Il tribunale ha chiesto al Dap se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale, […], ma non è pervenuto alcuna risposta, neppure interlocutoria”. Dunque, la colpa è del capo del Dap, Francesco Basentini?

«Il problema è di verificare se correvano le condizioni per adottare il provvedimento. Se ricorrevano le condizioni, doveva essere adottato il provvedimento e non vedo perché possano essere affermate responsabilità di questo o di quello».

Nel frattempo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si dice pronto a intervenire per correre ai ripari, e Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia, rincara la dose: “Stiamo tutti piangendo la morte a Napoli di un agente di polizia morto sul dovere. [...] Ma è devastante assistere alla scarcerazione di boss mafiosi contemporaneamente oggi con la morte di  agenti di polizia”. Si tratta di una reazione emotiva di un certo tipo di giustizialismo che continua a portare voti e soffia forte nel Paese?

«Bene, queste sono quelle cose che si possono dire sotto la spinta dell’emozione del momento. Bisogna ragionare a mente fredda. Se anche un boss mafioso sta morendo in carcere perché lì non ci sono le condizioni per poterlo curare, a quel punto va trasferito in un posto dove essere curato. Comunque la detenzione può essere trasformata in detenzione ai domiciliari per il periodo necessario a che lui recuperi un grado accettabile di salute».

Anche alcuni magistrati, tra cui Nino Di Matteo e Cafiero De Raho, sbottano: “Lo Stato è debole e cede ai ricatti dei mafiosi”. Qualcuno arriva a paventare una pax tacita tra lo Stato e la mafia.

«Lo Stato dimostra la sua forza proprio anche nell’amministrare la giustizia con equanimità. Lo Stato non è lì per vendicarsi o per castigare ciecamente. Il suo distacco e la sua distanza dal delinquente sta proprio nel trattare quest’ultimo come essere umano. E in questo sta proprio la grandezza dello Stato. E’ la stessa ragione per la quale non si applica la pena di morte all’assassino: il rispetto per la vita è tale che lo Stato lo tutela perfino nei confronti di chi ha tolto la vita ad altri. Questo è il princìpio».

Così facendo però si reinserisce nel suo ambiente originario un super boss. Non crede che siano necessarie delle misure di sorveglianza e cautela per la tutela della popolazione?

«Certo poi il giudice può disporre delle eventuali misure, penso allo stesso braccialetto elettronico che permette di controllare gli spostamenti».

Quando si parla di 41 bis i detenuti sono tutti uguali, o si fanno delle distinzioni fra chi ha commesso crimini sanguinari e chi ha comportamenti meno efferati? Zagaria è uguale a Cutolo?

«Il problema è che uno, Zagaria, è affetto da una malattia e da uno stato di salute incompatibile con il regime carcerario rispetto a Cutolo o altri che non si trovano in questa situazione. Ecco per loro i rimedi per porre i termini a una carcerazione che sia particolarmente lunga, rispetto alla quale non ha più una senso una prosecuzione, ci sono. Ad esempio, si potrebbe pensare al rimedio della grazia. Non è scritto da nessuna parte che a un certo momento una persona non possa ottenere una riduzione della pena. O un provvedimento favorevole. Qui, nel caso di Zagaria, stiamo parlando sì di un superboss ma che si trova in uno stato di salute non compatibile con il regime carcerario».

Insomma dopo quarantacinque anni di carcere anche uno come Raffaele Cutolo, ribattezzato “Don Rafè”, capo della “Nuova Camorra Organizzata”, ha  chiuso la partita con lo Stato?

«Senta, io con riferimento a casi specifici non mi pronuncio. La pena deve tendere alla rieducazione. Sono dell’idea che nella misura in cui fosse riconosciuto il raggiungimento di questa finalità, la pena non avrebbe più ragione di essere eseguita. Mi rendo conto che sono valutazioni molto difficili, molto delicate, è scritto nella Costituzione che la pena deve tendere a quel risultato. Se lo ha raggiunto, è legittimo chiedersi se ha un senso la prosecuzione della pena».

Per concludere questa intervista la riporto all’inizio dell’emergenza Covid, a quando ci sono state le rivolte carcerarie. Ecco, quale ruolo possono avere avuto? Qualcuno paventò una regia.

«Spero che non abbiano avuto nessuna influenza».

Perché tanta fretta e tanta ferocia? Repubblica chiede lo scalpo di Zagaria, i magistrati l’accontentano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il  23 Settembre 2020. Lo scalpo di Pasquale Zagaria è pronto. Magari per essere esibito nella prossima trasmissione di Massimo Giletti. Lo ha chiesto a gran voce, chiamandolo con nome e cognome, il quotidiano La Repubblica lo scorso 3 settembre, con titoli gridati e aspri rimbrotti ai giudici di sorveglianza, chiamati con sprezzo “ammazzasentenze”. Legnate anche al ministro Bonafede che non era stato capace di far applicare il proprio decreto manettaro (e forse incostituzionale) di maggio che smentiva quello di marzo. Così intanto un giudice l’hanno trovato. Lontano da quello di Berlino, cioè di Sassari, Riccardo De Vito, quello che aveva scarcerato e che non si era fatto intimidire. Così Pasquale Zagaria torna in prigione, dopo cinque mesi trascorsi, in seguito al differimento della pena concesso dal tribunale di sorveglianza di Sassari, tra casa e ospedale in Lombardia, vicino ai suoi familiari. Non è scappato, non ha commesso reati. Ha solo cercato di curarsi. Non c’è niente di nuovo nella sua situazione sanitaria né problemi di sicurezza che giustifichino il nuovo provvedimento che gli nega la proroga degli arresti domiciliari. Zagaria non è certo guarito dal grave tumore alla vescica che gli impone cure ospedaliere costanti e indifferibili, né è considerato un detenuto pericoloso o ancora contiguo alla camorra (di cui suo fratello Michele è uno dei capi) almeno dal 2011, come aveva scritto e certificato la Corte d’Appello di Napoli nel 2015. Del resto lui non ha mai commesso reati di sangue e, poco dopo il suo arresto nel 2006, ha reso piena collaborazione alla magistratura. E in seguito è stato un detenuto perfetto. Però lo lasciano al 41bis e lo trattano da “boss”. Certo, se avesse fatto il “pentito” non ci sarebbe stato nessun problema. Sarebbe da tempo libero e riverito. Ma c’è comunque anche un altro motivo, per cui i giudici hanno continuamente prorogato il differimento della pena, nonostante il costante e pervicace parere contrario della procura distrettuale antimafia di Napoli. È il ricorso alla Corte Costituzionale presentato, proprio a partire dal suo caso, dal tribunale di sorveglianza di Sassari. Il quale ha posto la questione di illegittimità costituzionale rispetto al decreto con il quale il ministro Bonafede aveva nei fatti condizionato la libertà decisionale dei giudici al parere sia della Procura nazionale antimafia che dei singoli Pm che avevano svolto le indagini di ogni processo. Quel decreto è incostituzionale, hanno sostenuto i magistrati del tribunale di sorveglianza, perché limita l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, riducendo il loro potere di valutazione in merito alla decisione di revocare i domiciliari e perché realizzerebbe un’illegittima ingerenza del potere esecutivo-legislativo in quello giurisdizionale. Ed è singolare che il giudice di sorveglianza di Brescia che ha mandato in grande fretta Zagaria al carcere di Opera, nel settore dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, non abbia tenuto in nessun conto il ricorso dei suoi colleghi. Ha messo invece subito le mani avanti, il dottor Alessandro Zaniboni, definendo “tranquillizzante” la condizione sanitaria di Zagaria e chiarendo che il diritto alla salute è “preservabile anche in detenzione carceraria”. Una svolta che pare poco comprensibile, soprattutto se si considera che sul fascicolo carcerario di Zagaria non c’è scritto “fine pena mai”, ma “fine pena 2025” , cioè tra una manciata di anni. Qual è dunque il motivo di tanta fretta, di tanta ferocia nei confronti di una persona gravemente malata e assolutamente non pericolosa? Certo, il giudice di sorveglianza avrà tenuto conto del parere dei pubblici ministeri di Napoli, visto che glielo impone un decreto ministeriale. Anche se in odore di incostituzionalità. E infatti non più tardi di quindici giorni fa i Pm napoletani avevano già dato il loro parere negativo alla proroga dei domiciliari e i capi del Dap Dino Petralia e Roberto Tartaglia si erano affrettati a indicare Opera come la struttura penitenziaria più adatta. Erano i giorni in cui il quotidiano La Repubblica aveva lanciato il suo allarme. Metà dei boss è ancora a casa, aveva strillato, tirando le orecchie al ministro Bonafede, perché il suo decreto non era stato ancora del tutto applicato. E aveva citato proprio il caso di Pasquale Zagaria, imputando ai giudici di Sassari e al loro ricorso alla Corte Costituzionale, la responsabilità di questo ritardo nel far scattare le manette. Quegli articoli dei primi giorni di settembre si erano anche trasformati in boomerang per il quotidiano. Perché proprio La Repubblica, ai primi di maggio, aveva denunciato lo scandalo di “376 boss scarcerati”. «Ecco la lista riservata che allarma le procure», era stato il titolo di apertura del quotidiano. Salvo doversi poi smentire proprio il 3 settembre, quando, nel lanciare il nuovo allarme sulla “pigrizia” dei giudici e tribunali di sorveglianza nell’arrestare, aveva dovuto ammettere che solo 223 detenuti erano stati posti ai domiciliari a causa del rischio Covid, cioè sulla base del decreto “Cura Italia”. Gli altri erano stati provvedimenti di ordinaria amministrazione. E di questi 223 solo 112 erano rimasti ancora ai domiciliari. Quanti boss, tra questi? Meno di una decina. Figuraccia. Comunque l’allarme di Repubblica a qualcosa è servito. A presentare lo scalpo, nel giro di due settimane, di Pasquale Zagaria. Alla faccia del tumore, della non pericolosità del condannato, della prossima scadenza del fine pena, del ricorso alla Corte Costituzionale. Alla faccia dei basilari principi di umanità, prima ancora che di diritto.

Bonafede esulta e si vanta: Zagaria torna in galera e ci potrà morire, proprio come Cutolo. Piero Sansonetti de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Pasquale Zagaria tornerà in carcere. Evviva. Forse potrà anche morire in cella, come Cutolo. Almeno, così dice il ministro Bonafede che si è vantato un po’ di questo suo successo. È andato alla Camera e ha dovuto fare in modo di rintuzzare le accuse bislacche che gli arrivano da tutte le parti. Dicono che è uno scarceratore. Quasi un garantista. E lo vogliono cacciare per questo, perché un garantista al ministero della Giustizia è una cosa che non si può sentire. Lui un po’ è stupito un po’ è impaurito. Dice: giuro, io sono più giustizialista di tutti. E di sicuro non commette spergiuro: è così. Per scrollarsi di dosso i sospetti ha tirato fuori questa cosa di Zagaria. Il boss, il capo camorra, l’assassino. Ma davvero Zagaria è un boss, un capocamorra? No, non lo è, però suo fratello sì. Davvero è un assassino? No, non è stato mai neppure sospettato di omicidio. È un camorrista irredimibile? No, ci sono sentenze di tribunali che dicono che è fuori dal giro. È vero invece che ha un cancro e che ha scontato quasi tutta la pena. Il magistrato di sorveglianza lo ha tirato fuori per questo. Ma giornali e politici non vogliono saperne niente: si chiama Zagaria? Vada a crepare in cella. E Bonafede si è fatto portavoce di questa esigenza di giustizia. Lui e il senatore Morra. Ieri sembrava che festeggiassero la vittoria della coppa dei campioni. Bonafede ha fornito anche i dati sul sovraffollamento delle carceri. In due mesi ci sono quasi 10 mila carcerati in meno. Come mai? Perché non il ministro ma il Procuratore generale della Cassazione ha dato ai Pm l’ordine di arrestare gli indiziati solo con forti motivazioni, come il pericolo per la collettività, o il rischio di inquinamento delle prove. Insomma, ha detto loro di rispettare la legge. Prima l’uso era di violare la legge e di arrestare per una ragione semplice: far confessare il sospetto. Funzionava, funzionava. E il diritto? Beh, ora non chiedete troppe cose. 

In carcere troppi disperati, ma la mafia esige rigore. Sebastiano Ardita de Il Riformista il 15 Maggio 2020. In un articolo di oggi (ieri per chi legge, ndr.) sul Riformista Franco Corleone ricorda la mia posizione sul carcere, che ho sempre ritenuto l’”extrema ratio”, con i suoi “non luoghi” che impediscono spesso il recupero della personalità. Ricorda il mio rammarico per una carcerazione che ha spesso obbedito a scelte emozionali facendo finire dietro le sbarre tossicodipendenti ed extracomunitari insieme a una grande parte che viene definita della “sottoprotezione sociale”. Sono le mie idee di sempre, quelle che ribadisco in ogni convegno e in ogni pubblicazione ricordando come questo sistema abbia spesso favorito mafiosi, capi e favoreggiatori di Cosa Nostra col colletto bianco che l’hanno fatta franca. Quindi è un argomento di stragrande attualità. Quando ero direttore dell’ufficio detenuti mi sono battuto per la civiltà della pena e come ricorderà Franco Corleone, ho diramato le circolari – tuttora vigenti – che hanno istituito e regolato per la prima volta l’area educativa. Nel 2007 avviai una indagine statistica da cui emergeva che in quell’anno erano entrate in carcere circa 97.000 persone e ne erano uscite 90.000. Una gran parte erano disperati. Ho stimolato la legislazione per limitare il fenomeno delle cosiddette porte girevoli – gli arresti per pochi giorni per gli autori di piccoli reati, che diventano occasione di reclutamento criminale – mi sono battuto perché il carcere riguardasse la criminalità organizzata e i personaggi pericolosi. Ed anche per questi ultimi ho preteso che si applicassero tutte le regole dell’ordinamento penitenziario senza abusi e senza sconti: non ricordo un mafioso o un personaggio di spicco uscito dal carcere solo perché l’amministrazione penitenziaria non fosse riuscita ad assicurare assistenza sanitaria, ovvero non avesse compiuto ogni sforzo per assicurarla. Perché so bene che nel sistema di democrazia ogni mancanza o abuso nei confronti di un detenuto provoca un contraccolpo che va dalla sua scarcerazione fino alla messa in stato di accusa, per inciviltà, dell’intero sistema penitenziario. Perché sicurezza e civiltà della pena si tengono insieme in un perfetto equilibrio. Ed è la rottura di questo equilibrio che ha prodotto quello che è accaduto in questi giorni. Franco Corleone sa bene che chi beneficia del caos e dell’assenza delle regole sono i vertici delle associazioni mafiose, come si può capire bene leggendo la sua pregevole indagine sulla mafia di Catania negli anni 80, quando era componente della commissione antimafia. La cultura della prevenzione della mafia, caro Franco, è amore per la libertà, solidarietà, condanna di ogni prevaricazione, difesa dei deboli che sono le vere vittime della mafia, dentro e fuori dal carcere. Se escono i capi mafia perde lo Stato, perde la solidarietà, perdono gli ultimi, non perde solo l’antimafia. Questo riguarda anche gli spazi. Aprire gli spazi interni al carcere dentro le regole è una battaglia di civiltà. Aprire nel caos consegnando le carceri ai detenuti e alle loro gerarchie criminali, significa amplificare il dominio dei forti sui deboli, dei capi della criminalità sui detenuti alla prima esperienza, della dannazione sulla speranza di tornare alla vita normale. Significa condannare alla frustrazione il personale penitenziario che crede nella rieducazione e nella questione penitenziaria. Ed è quello che ha portato al cedimento del sistema carcerario con le conseguenze che tutti possono notare. Le rivolte in cui sono stati esposti i più emarginati, hanno portato con un effetto domino alla liberazione di 400 mafiosi. Adesso chi è salito sui tetti ne pagherà le conseguenze; i mafiosi hanno incassato la deficienza del sistema: le rivolte sono cessate. Il sistema ha ceduto ma la responsabilità non può essere addossata tutta alla ultima gestione. Sarebbe il caso che una commissione d’inchiesta si impegnasse per capire quanto siano complesse, radicate e antiche le responsabilità di quanto è accaduto. Il carcere si governa con la civiltà e col rispetto, avendo cura dei deboli che vogliono essere recuperati, ma senza fare sconti ai mafiosi, perché ciò significa solo mandare in fumo la vera ragione per cui esiste: proteggere la società dalla devastante azione della criminalità organizzata.

La risposta di Sebastiano Ardita è in controtendenza rispetto al tempo tetro di insulti e di mancanza di confronto. Ho grande interesse per il dialogo e mi aspetto che Ardita acconsenta sulla proposta di rivedere la legge sulle droghe che è la causa dell’affollamento delle carceri. Mi aspetto anche un pensiero per 13 detenuti morti. La giustizia senza pietà non è umana. Franco Corleone

Scarpinato supera Gratteri: la fantasiosa ricetta del pg di Palermo per ridurre il sovraffollamento. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Che le carceri italiane siano sovraffollate, quindi invivibili e oggi anche molto pericolose per il rischio di contagio da Coronavirus, nessuno ha più il coraggio (o la faccia tosta) di negarlo. Poi ognuno ha la sua ricetta per affrontare e magari risolvere il problema. La palma per l’originalità – dopo la bacchetta magica del procuratore Gratteri che in dieci giorni ne costruirebbe tre o quattro di nuove – va oggi a un altro (e alto) magistrato, il dottor Roberto Scarpinato. Procuratore generale presso la corte d’appello di Palermo, sessantotto anni (quindi non ha bisogno di emendamenti di sostegno, lui in pensione va tra due anni), ama illustrare di suo pugno il pensiero, piuttosto che scendere al livello di un Gratteri qualsiasi e invocare l’intervista. Tanto l’ospitata sull’organo di famiglia, pardon, di Casta, è sempre garantita. E lui si fa scrittore. E ci stupisce. La ricetta è semplice. E come mai non ci avevamo pensato? Prima della soluzione l’alto magistrato fa la premessa, che centra il vero problema. Dalle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ci informa, risulta che «in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato». Conclusione: «Forse questo è uno dei motivi dell’eterna irresolubilità della questione carcere». Chiarissimo. Se ci fossero in carcere più politici e imprenditori e meno proletari, le prigioni sarebbero almeno pensioncine romagnole con distanziamento sociale. Ora, noi sappiamo come ragiona il dottor Scarpinato. Lo conosciamo da moltissimi anni, ma in particolare il suo pensiero, fin dai magnifici tempi in cui era sostituto insieme a Ingroia e Tartaglia alla procura di Caselli a Palermo, si era manifestato con l’intuizione investigativa dell’inchiesta “Sistemi criminali”. Pur non usando ancora l’espressione “colletti bianchi” (una raffinatezza da procuratore generale), il giovane pm aveva già individuato delle cricche di padroni sfruttatori che tramavano contro lo Stato e la classe operaia: «una sorta di tavolo dove siedono persone diverse… il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, esponenti delle istituzioni, e non di rado il portavoce della mafia». Purtroppo gli uomini di questa super-cupola non andarono mai in carcere, perché l’inchiesta finì in una bolla di sapone. Come la successiva, il primo tentativo di processo “trattativa” tra mafia e Stato. Solo al terzo colpo, e siamo ormai al 2008, le parole del fantasioso Massimo Ciancimino consentirono ai suoi colleghi di imbastire il più grande processo-farsa della storia. Scarpinato, che nel frattempo aveva fatto carriera, con il consueto sprezzo del pericolo, non si è però tirato indietro, e nella sua veste di procuratore generale, è riuscito con rocambolesche giravolte e portare il pluriassolto Calogero Mannino fino alle soglie della cassazione. Il suo stile non è cambiato. Rimane un sognatore. Da pubblico ministero non amava la veste di repressore di reati che si fossero già verificati. Ha invece sempre preferito andarne alla ricerca, sapendo che in certi ambienti, magari quelli dei “colletti bianchi”, scavando scavando, e attraverso una lettura degli eventi di tipo storico-sociologica, qualcosa avrebbe trovato. Partendo da verità prestabilite e attraverso investigazioni molto estese si finisce spesso con l’andare a cercare la punizione più per condotte ritenute amorali che non illecite. È il modo di procedere dei pubblici ministeri cosiddetti “antimafia”, per i quali tutto è mafia e le carceri dovrebbero essere grandi assembramenti di 41-bis. È anche un po’ la stessa sub-cultura del ministro Bonafede, che ha messo a dirigere il Dap due magistrati la cui prevalente esperienza è orientata alla repressione delle cosche. Forse il dottor Scarpinato non si rende conto del fatto che molti detenuti che oggi sono ai domiciliari, e che lui vorrebbe far tornare in galera, fanno proprio parte di quella base della piramide sociale la cui sorte gli sta così tanto a cuore. Dovrebbe però spiegarsi meglio. Se, come ha scritto, la prigione è «specchio fedele delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere» la sua soluzione è quella di svuotarle del proletariato in catene (magari fatto di picciotti) e riempirle di amici di Berlusconi?

La teoria di Gratteri: «Era più pericoloso fare la spesa che stare in carcere». Il Dubbio il 13 maggio 2020. Il procuratore capo di Catanzaro attacca dopo il dl Boss: “I fatti mi danno ragione”. Ma secondo il garante dei detenuti l’emergenza non è finita. «Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere». All’indomani dell’approvazione del decreto legge Bonafede, che punta a far tornare in carcere i boss collocati ai domiciliari a causa dell’emergenza coronavirus, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri liquida così la questione. In un’intervista al Fatto Quotidiano, Gratteri sostiene che «Nei mesi scorsi sono stati mandati a casa molti detenuti per ragioni di salute: nell’ipotesi che, se contagiati, sarebbero potuti morire. L’ipotesi si basa sulla possibilità di essere contagiati. Ebbene, due mesi fa avevo detto che era più facile essere contagiato in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri di San Vittore o di Opera. Sono stato criticato e attaccato. Oggi i fatti mi danno ragione». Poi offre qualche numero a sostegno della sua tesi: «I contagiati in carcere sono 159 su 62mila detenuti. Intanto ottomila persone sono uscite di cella, diminuendo si sovraffollamento carcerario. Ma intanto sono state scarcerate 400 persone che erano detenute al 41bis o in alta sicurezza. In nome di un pericolo di contagio che non si è manifestato. I detenuti avevano il 99,5 per cento di possibilità di non infettarsi: a dirlo è il Garante nazionale delle private libertà. Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere». Infine, aggiunge che «L’effetto delle scarcerazioni di questi mesi è stato devastante. Ha minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che avevamo faticosamente conquistato negli ultimi anni». Secondo il garante dei detenuti, tuttavia, la realtà è decisamente diversa. Ad oggi ci sono 131 detenuti risultati positivi al coronavirus che sono attualmente in carcere. Un numero che non tiene conto di quelli che sono stati “scarcerati”, proprio per aver contratto il virus e dei 4 detenuti morti. Finora parliamo di numeri contenuti e che non creano allarme sociale nella comunità esterna. Ma in futuro ci si potrebbe ritrovare nel vortice di polemiche strumentali e controproducenti come quelle odierne. Le carceri proprio per il fatto che sono luoghi chiusi e con affollamenti sono predisposti per focolai improvvisi. Ed è quello che sta accadendo.

Sacco torna in carcere. Intanto, proprio in seguito al nuovo dl sulla giustizia, è tornato in cella il boss palermitano Antonino Sacco, che era stato scarcerato e messo ai domiciliari dal Tribunale di sorveglianza per l’emergenza Coronavirus. Il magistrato di sorveglianza ieri sera ha revocato il provvedimento di differimento della pena per il boss che era nella sua abitazione da un mese. Sacco, che è in una struttura sanitaria carceraria, avrebbe fatto parte del triumvirato che ha retto di recente il mandamento di Brancaccio.

Maurizio Tortorella per “la Verità” il 14 maggio 2020. Il boss palermitano Antonino Sacco torna in carcere dalla detenzione domiciliare, e forse è il primo di una lunga serie di rientri in cella. Merito del decreto «Riacchiappa mafiosi» varato il 9 maggio dal ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede? Per nulla. Il merito va alla nuova gestione del Dap, il Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria, che è riuscito a trovargli un posto in una «struttura sanitaria protetta». Questo è accaduto perché, dopo le dimissioni cui è stato costretto a fine aprile Francesco Basentini, l' uomo che Bonafede nel giugno 2018 aveva preferito al magistrato antimafia Nino Di Matteo, ora il Dipartimento ha un nuovo capo, Dino Petralia, e un vice, Roberto Tartaglia. Che evidentemente hanno fatto bene il loro lavoro, che, durante una pandemia, consiste anche nel trovare soluzioni alternative per i detenuti in condizioni sanitarie incompatibili con il rischio contagio. Insomma, se già in aprile il Dap avesse adottato comportamenti congrui e tempestivi, non sarebbero mai andati ai domiciliari né Sacco, né soprattutto boss di Cosa nostra come Francesco Bonura, di 'ndrangheta come Vincenzo Iannazzo, o di camorra come Pasquale Zagaria. Per quest' ultimo ieri sera si è liberato un posto nell' ospedale di Viterbo ed è stata fissata una nuova udienza il 22 maggio. Ma il suo nome faceva parte della lista dei «pezzi da 90» le cui scarcerazioni avevano travolto in uno tsunami il ministero della Giustizia, che Bonafede ha poi elegantemente dirottato su Basentini. Il problema, in realtà, nasce proprio dall' inadeguatezza del Dap e del ministero. Nel caso proprio di Zagaria, malato di cancro e recluso nel carcere di Sassari, il 30 aprile era stata La Verità a rivelare l' incredibile sequenza di ritardi ed errori di valutazione del Dipartimento, e perfino l' assurdo particolare di un recapito di posta elettronica sbagliato, cui l' ufficio di Basentini ha spedito le email che voleva indirizzare al tribunale di sorveglianza di Sassari. Soltanto per quei ritardi e quegli errori, alla fine, i giudici hanno dovuto concedere a Zagaria di uscire da una cella di alta sicurezza per trasferirsi a casa della moglie, aprendo così il rischio di una disastrosa evasione, lo stesso che purtroppo riguarda molti degli oltre 376 scarcerati. È incontrovertibile, però, che la responsabilità politica cada tutta su Bonafede. È anche per questo, del resto, se il centrodestra ha chiesto le sue dimissioni con una mozione di sfiducia che il Senato dovrebbe discutere il 20 maggio. Ora il M5s e i media filogovernativi celebrano il rientro in cella del mafioso Sacco come se fosse il clamoroso risultato dell' impeccabile azione del ministro. In realtà proprio il caso Sacco dimostra che ad aprire le celle agli oltre 376 detenuti «pericolosi» non sono state né leggi sbagliate, né la manica larga dei tribunali di sorveglianza. È stata solo la disattenzione del ministero della e del suo Dipartimento. Perché il «nuovo» Dap ha dimostrato di poter fare tutto quel che gli veniva chiesto: Sacco, 65 anni, condannato per mafia ed estorsione, era uscito dal carcere di San Gimignano per una cardiopatia dopo un infarto, cui si sommava il rischio di un' infezione da Covid-19. Da circa un mese, il mafioso era in una casa d' accoglienza parrocchiale. È bastato che il nuovo vicecapo del Dap, Tartaglia, facesse monitorare le strutture penitenziarie con annesso reparto ospedaliero: è stato individuato il carcere di Livorno, dove c' è la possibilità di «avvalersi all' occorrenza delle strutture sanitarie del territorio». Così il tribunale di sorveglianza ha potuto rinchiudere Sacco in quel carcere, dove potrà essere curato, e non solo perché «si assiste a una fase di relativa rimessione della diffusione dell' epidemia». Allo stesso modo, il Dap ha trovato posto in «strutture sanitarie protette» per un' altra ventina di condannati pericolosi, ai quali ora potranno essere revocati i domiciliari. Di strutture di quel tipo ce ne sono, in Italia: per esempio a Milano, Parma, Roma, Viterbo, Catania e Agrigento. E sono sicure. Non per nulla, quando direttore del Dap era Roberto Piscitello, alcune di queste strutture hanno ospitato boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, il capo dei capi. Nel frattempo, in attesa del dibattito sulla sfiducia, rimbalzano polemiche sulle parole che Bonafede ha pronunciato alla Camera martedì. Il ministro ha fatto di tutto per neutralizzare i veleni sparsi dal magistrato Di Matteo, che dal 3 maggio lo accusa di non averlo nominato a capo del Dap, nel giugno 2018 (e di avergli preferito Basentini), ipotizzando possa essere accaduto per paura delle reazioni dei mafiosi detenuti: «Non c' è stato alcun tipo di condizionamento», ha protestato Bonafede. Che poi, a sorpresa, ha difeso a spada tratta proprio Basentini: «Era stato procuratore aggiunto a Potenza», ha ricordato, «si era distinto nel lavoro e nel colloquio aveva dimostrato di essere all' altezza del suo curriculum». Parole strane, sulla bocca di un ministro che soltanto due settimane fa ha deciso di sacrificare proprio l' ex capo del Dap come unico responsabile del disastro scarcerazioni.

Lo rimandano in un carcere simile al precedente, ma l’emergenza non è finita. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 maggio 2020. Antonino Sacco, condannato per mafia, è rientrato in carcere a seguito dell’indicazione del Dap come prevede il recentissimo decreto Bonafede. Tutti in attesa della rivalutazione, da parte del giudice di Sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito il prossimo 22 maggio, dello stato di detenzione domiciliare concesso a Pasquale Zagaria per gravi motivi di salute. Ma la notizia di questi giorni è che Antonino Sacco, condannato per mafia oltre a vari reati come l’estorsione, è rientrato in carcere perché il magistrato di Sorveglianza ha – entro 15 giorni – emesso il provvedimento a seguito dell’indicazione data dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) come prevede il recentissimo decreto Bonafede. Prima era al carcere di San Gimignano dove c’è comunque una normalissima assistenza sanitaria, come in ogni istituto penitenziario dovrebbe avere, ora – dietro indicazione del Dap – è stato tradotto nel carcere di Livorno dove sarebbe garantita l’identica assistenza sanitaria. Parliamo di un uomo che sta scontando la sua pena dal 2011. Ufficialmente uscirà dal carcere nel 2027, ma con la liberazione anticipata potrebbe essere libero molto prima. Sacco soffre di una patologia cardiaca, una di quelle malattie considerate fatali se dovesse contrarre il Covid 19. Proprio per questo motivo, la magistratura di Sorveglianza aveva assunto il provvedimento urgente di differimento pena nella forma di detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1 ter dell’Ordinamento penitenziario. Da ricordare che è una forma provvisoria, soggetta quindi a revisione, tant’è vero che è stato fissato un termine di durata dell’applicazione. Prima di quella data – a prescindere dal nuovo decreto – è comunque possibile che il provvedimento sia revocato anticipatamente. Proprio sotto suggerimento dell’avvocata Giuliana Falaguerra, legale di Sacco, il magistrato aveva disposto la detenzione domiciliare non nel suo luogo di origine, ma in una località del nord. Con il nuovo decreto qualcosa pero è cambiato. Ha introdotto varie disposizioni tra le quali spicca la rivalutazione a strettissimo giro dei provvedimenti concessivi di misure domiciliari emessi «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19», da effettuarsi entro quindici giorni. Nei confronti di Sacco, il Dap in brevissimo tempo ha trovato un posto dove, a parer suo, potrebbe essere assistito. Lo ha scritto nero su bianco in una nota mandata al magistrato di Sorveglianza. «Ai sensi dell’articolo 2 comma 1 si comunica che – scrive il Dap – a Sacco Antonino potrebbe essere associata la casa circondariale di Livorno, sede dotata di ampia offerta specialistica e all’occorrenza delle strutture sanitarie pubbliche del città di Livorno». Questo è tutto, non è annotata nessuna valutazione da parte dell’azienda sanitaria e si usa un condizionale. «Potrebbe essere associato», è infatti un suggerimento. La magistratura di Sorveglianza l’ha accolto, tendendo anche conto che «attualmente si assiste ad una fase di relativa rimessione della diffusione dell’epidemia, con riduzione del numero dei nuovi contagi e delle infezioni». Ovviamente il riferimento è all’esterno, dove indubbiamente c’è un forte calo dei contagi. Cosa ben diversa nei penitenziari dove i focolai si possono “accendere” da un momento all’altro, come recentemente ha spiegato il garante nazionale Mauro Palma durante un convegno. Ma il punto è un altro. A ribadirlo è l’avvocata Falaguerra, legale di Antonino Sacco: «Le due carceri, sia quello di San Gimignano dove era precedentemente recluso il mio assistito che quello di Livorno dove attualmente è stato trasferito, – spiega l’avvocata – garantiscono più o meno la stessa identica assistenza sanitaria». Ma allora perché Sacco è stato mandato in detenzione domiciliare nonostante che al carcere di San Gimignano era presente un’area sanitaria che riesce a garantire il servizio? «Infatti la questione non era, ed è, se ci sono o meno i medici, ma se c’è il rischio infezione», risponde l’avvocata. «Non c’entra quindi nulla l’aver trovato un altro luogo, tra l’altro simile, – prosegue Falaguerra –, salvo che riescano ad assicurare il distanziamento per evitare l’infezione e la sua propagazione». Il punto, nel caso di Sacco, non è tanto il discorso sanitario visto che non presenta gravissime patologie, come ad esempio nel caso di Bonura o di Zagaria, ma è l’emergenza Covid 19 che in luoghi chiusi e dove non esiste il distanziamento sociale è tutt’altro che rientrata. La sua è una patologia che si può benissimo monitorare, ma è inevitabilmente mortale se dovesse contrarre il virus. Non è un caso che – a differenza del mondo libero – nei penitenziari si inizia a superare, con prudenza, la fase 1, prevedendo che i colloqui dei detenuti con i familiari fino al 30 giugno si svolgano ancora tramite Skype, garantendo almeno un colloquio in presenza a tutti i detenuti e con almeno un congiunto o altra persona una volta al mese.

Arriva la cura Gratteri: «Più in salute in carcere che al supermercato…». Davide Varì su Il Dubbio il 14 maggio 2020. Gratteri ci spiega che non c’è posto più sicuro dei nostri istituti di pena. Peccato che lo dica lo stesso giorno in cui il garante dei detenuti afferma l’esatto contrario. «Ma quale emergenza, quale rischio pandemia tra i detenuti. Nelle carceri italiane si sta più al sicuro che allo Spallanzani. Di certo più che al supermercato». Insomma, stavolta il procuratore Nicola Gratteri inforca stetoscopio e provetta e, da novello virologo, – un po’ come la gran parte degli italiani in questi ultimi scorci di lockdown – ci spiega che non c’è posto più sicuro dei nostri istituti di pena. Certo, il fatto che lo dica lo stesso giorno in cui il garante nazionale dei detenuti afferma l’esatto contrario, ovvero che la tempesta virale in carcere è ancora in atto, è un fatto assolutamente secondario. Il dottor Gratteri non ha dubbi e – stavolta da statistico medico – spiega nel dettaglio che «i detenuti avevano il 99,5% di possibilità di non infettarsi». Soprattutto quelli al 41bis, le cui celle potrebbero essere paragonate a quella di una clinica di Lugano. Ma quello che più lo preoccupa sono le centinaia di scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza che «hanno minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che ( noi magistrati, ndr) avevamo faticosamente conquistato», spiega sempre Gratteri ignorando del tutto gli ultimi sondaggi di gradimento i quali, fonte Demos, piazzano la magistratura agli ultimi posti tra le istituzioni più autorevoli: solo il 36% degli italiani ha fiducia nelle toghe contro il 55% dei bistrattatissimi insegnanti, per dire. Ma la cosa che più colpisce è l’assoluta noncuranza nei confronti dei cittadini detenuti che rischiano la pelle a causa del Covid. Tra quelle 350 persone scarcerate, infatti, non solo la metà è in attesa di giudizio, ma i boss sono soltanto tre. Senza contare che l’autorevolezza e la forza di uno Stato, come ha spiegato l’avvocato Franco Coppi da queste pagine, si misura dalla capacità di rispettare i diritti anche dei mafiosi. Perché uno Stato che lascia morire i detenuti in cella, non solo viola l’articolo 27 della nostra Costituzione, ma trasforma la pena dell’ergastolo in pena di morte. E la pena di morte, almeno finora, qui in Italia, è vietata.

Boss reclusi in grand hotel? L’anomalia vista solo da Giancarlo Caselli. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Un celebre esperto di carcere, Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica presso importanti tribunali e ora apprezzato notista di giudiziaria, ha scritto l’altro giorno su Huffington Post che «il 41 bis segna la fine di un’inaccettabile anomalia: criminali sanguinari che – fino al 1992 – se ne stavano in galera come in un grand hotel». Ora, possiamo anche accantonare il rilievo che il cosiddetto carcere duro rappresenta per noi – amici dei delinquenti che non siamo altro – una gratuita e inaccettabile forma di vendicativo sopruso: queste sono appunto argomentazioni sostanzialmente collusive, agitate da gente che fa il gioco di quei criminali e si disinteressa dei diritti delle vittime (è noto che le vittime hanno il diritto di veder torturati i detenuti). E occupiamoci piuttosto dell’assunto secondo cui, prima del 41 bis, quelli, in carcere, si godevano il lusso di un grand hotel. Dove, di grazia? In quali dorate residenze carcerarie si consumava il sontuoso ménage dei mafiosi? E in che cosa consisteva, esattamente? Nelle sfrenatezze dell’ora d’aria? Nell’oltraggiosa frequenza dei colloqui? Nell’imperdonabile concessione di un libro da leggere? Perché le magnificenze garantite dal sistema carcerario italiano sono queste, e non risulta che gli esponenti della criminalità organizzata si siano fatti costruire una reggia per continuare lì dentro a coltivare il proprio sollazzo. Né si ha notizia che lo Stato abbia organizzato per i mafiosi sezioni speciali con donnine e aragoste. Poi tu puoi anche reclamare che persista la pratica perlopiù illegale del carcere duro, e denunciare che richiederne la riforma significa darla vinta alla criminalità e spingere l’ordinamento verso la rinuncia a combatterla. Ma propugnare la lotta continua dello Stato su quella linea, lavorando sulla panza del Paese che si indigna davanti alla scena del mafioso nella camera di lusso, ecco, questo no: questo, per piacere, ci sia risparmiato.

Esclusivo: la lista “nera” dei 41 bis dove il centro clinico esplode e centinaia di persone ad alto rischio “curate” in sezioni comuni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 maggio 2020. In esclusiva il documento della Asl: il carcere di Parma è ad “alta complessità sanitaria”. I posti disponibili al centro clinico sono 29, ma già occupati anche da alcuni ricoverati dal Dap senza il parere medico. I 203 detenuti ad “alto rischio medico” – diversi sono al 41 bis – rimangono nelle sezioni “normali” rendendo ancora più difficile l’assistenza sanitaria. La lista che ha fatto scattare dei malumori in alcuni ambienti dell’antimafia è anche quella dell’Azienda sanitaria locale di Parma dove compaiono diversi detenuti di grosso calibro al 41 bis. Ma non si è detto del contenuto, che “racconta” una storia ben diversa e drammatica dove emergerebbe una gestione – secondo la Asl – inadempiente da parte del Dap. Una lunga serie, quasi infinita, di detenuti reclusi nel carcere di Parma che presentano gravissime patologie per le quali, la maggioranza di loro, vengono “curati” nelle sezioni “normali” e non nel centro clinico (Sai) perché i posti sono occupati da altrettanti malati. Alcuni di loro sono over settantenni e reclusi al 41 bis o in Alta Sorveglianza. Tutti pazienti gravemente malati e a rischio. Ci sono nomi importanti come quelli del 74enne Giuseppe “Piddu” Madonia, colui che aveva ricoperto la carica di reggente provinciale di Cosa nostra, oppure il boss 78enne Salvatore Giovanni Lo Piccolo o il 75enne Antonino Cinà, l’ex medico legato a Cosa nostra ai tempi di Totò Riina e sotto processo nella presunta trattativa Stato-mafia. Tanti sono i nomi di “grosso peso”, ma sono tutti pazienti a rischio per l’età e per la presenza di importanti patologie. Ma ciò che finora non è stato detto è che la Asl ha avanzato una vera e propria denuncia sulla gestione – quella precedente – da parte dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che ha reso ancora più difficile l’assistenza sanitaria a tutti quei detenuti che non riescono a curarsi. Il centro clinico di Parma ha solo 29 posti, tutti occupati e parliamo del punto di riferimento delle carceri di mezza Italia. Detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. Un vero e proprio lazzaretto. A tutto questo però si aggiunge un elemento che aggraverebbe la situazione già drammatica di suo. «Tuttavia preme segnalare – si legge nel documento – che sono state disposte allocazioni inappropriate direttamente dall’amministrazione penitenziaria, senza alcuna certificazione o parere medico». Ma non solo. Oltre a sottolineare l’inadeguatezza della sezione paraplegici (9 posti) dove ci sono pazienti cronici, la Asl locale di Parma denuncia che si era «verificata un’allocazione disposta direttamente dal Dap senza il parere del medico». Ma la denuncia più forte deve ancora arrivare e che – inevitabilmente – ha come conseguenza l’unica alternativa possibile: ovvero il differimento pena per garantire la salute dei detenuti più a rischio.

Di cosa parliamo? La Asl parte dal presupposto che il centro clinico – secondo l’accordo Stato – regioni del 2015 – ospita in ambienti penitenziari detenuti che, per situazioni di rischio sanitario, possono richiedere un maggiore e più specifico intervento clinico non effettuabili nelle sezioni comuni, restando comunque candidabili per una misura alternativa o per il differimento o la sospensione della pena per motivi di salute. Quindi cosa significa? L’inserimento in tali strutture risponde a valutazioni strettamente sanitarie e il venir meno delle motivazioni cliniche che giustificano la presenza nel Sai (il centro clinico), certificate dal medico, dovrebbero essere sufficienti di per sé a portare la direzione degli Istituti penitenziari alla tempestiva ritraduzione del paziente all’istituto di provenienza. Invece accadrebbe il contrario. A denunciarlo è sempre la Asl. «Spiace constatare – si legge nel documento – che ciò purtroppo avviene solo sporadicamente, senza contare tutte le innumerevoli richieste di trasferimento presso il carcere di provenienza inoltrate da questo Ufficio Sanitario e che, ad oggi (24 marzo, ndr), sono rimaste senza seguito». Tutto questo cosa comporta? Secondo la Asl «questa mancanza di turn over crea disfunzioni organizzative e funzionali tra cui l’allocazione inappropriata nelle sezioni comuni di pazienti che, per condizioni cliniche, sarebbero invece candidabili ad un posto letto al Sai o alla sezione per paraplegici». Ciò che si denuncia non fa altro che aggravare la situazione sanitaria dell’intero carcere di Parma che è pieno di vecchi e malati. Tanti di loro al 41 bis o in Alta sorveglianza. La Asl è chiara su questo punto. «Tali disfunzioni portano a considerare il carcere di Parma nel suo insieme come un contesto ad “Alta complessità sanitaria”, con elevatissima intensità assistenziali anche nelle sezioni cosiddette “normali”». Tutto ciò, con l’emergenza Covid 19 attuale, ha necessariamente portato a porre maggiore attenzione a diversi pazienti a causa della vulnerabilità degli stessi legata per età e condizioni patologiche associate. La Asl non poteva fare altrimenti visto che la salute dei detenuti è sotto la sua responsabilità. Ed ecco che – anche per la oramai nota circolare del Dap – la Asl ha inviato una lunga lista di persone detenute a «maggior rischio di infezione Covid 19 come exitus – si legge nel documento – presumibilmente peggiore rispetto alla restante popolazione detentiva». Se non ci fosse stata quella circolare del Dap del 21 marzo, molto probabilmente tutto questo non sarebbe emerso ufficialmente. Come detto, in quella lista, compaiono anche nomi di grosso calibro. Nomi storici di Cosa nostra, ma anche della ‘ndrangheta come l’ergastolano ostativo Domenico Papalia che è detenuto ininterrottamente dall’8 agosto del 1977 e recluso da anni al carcere di Parma dal 1992 in alta sorveglianza, non manca ovviamente il nome di Raffaele Cutolo, con una grave patologia polmonare e al quale recentemente gli è stata rigettata l’istanza per il differimento pena. Una lista lunghissima, la prima più urgente di 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo ndr.). La seconda lista solo per gravi patologie è composta da 152 nominativi, mente sono 5 quelli che sono solo a rischio per l’età ma in assenza di importanti patologie. Se vogliamo solo considerare le prime due liste dove ci sono detenuti in età avanzata e/o con gravi malattie, vuol dire che ci sono 203 persone a rischio e bisognose di cure. Tolte le 29 persone che sono assistite nel centro clinico (posti letto disponibili), vuol dire che ci si sono 174 persone (su 600 attualmente ristretti) che sono “curate” nelle sezioni normali e quindi non adibite per l’assistenza sanitaria di cui necessitano.

L’ombra di Travaglio terrorizza la magistratura, governo Conte più spietato di quello Mussolini. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Mi ricordo che quarant’anni fa, quando imperversava il terrorismo e la mafia uccideva tutti i giorni, la tentazione dello stato di emergenza fu forte. Il ministro dell’Interno era Cossiga, e sui muri scrivevano il suo nome con le “esse” disegnate con il tratto gotico con il quale era disegnato il distintivo delle Esse Esse naziste. In realtà Cossiga si dimostrò poi un liberale. E le istituzioni fondamentali della democrazia si salvarono, anche se da quelle emergenze iniziarono a nascere tanti dei difetti che oggi scontiamo: gli anni di piombo sono gli anni nei quali la politica ha preso a delegare le sue competenze alla magistratura e a concedergli poteri sempre più vasti e inquisitori. Oggi la politica e i giornali stanno provando a ricostruire quel clima. Ci fanno credere che viviamo in una drammatica emergenza criminalità e che occorrono misure straordinarie di difesa della sicurezza. Perciò intercettazioni a tappeto, trojan, fine della prescrizione, fine della legislazione premiale per i detenuti, fine dei permessi, allarme scarcerazione e da oggi anche sospensione dei poteri alla magistratura di sorveglianza. La ragione di questa decisione, ovviamente incostituzionale, che è degna di un qualunque Paese totalitario? L’allarme generale. Non si sa bene allarme per che cosa, ma allarme. La criminalità comune è sempre più debole, i dati dicono che il numero dei delitti è in picchiata. Il terrorismo non esiste più e addirittura il nostro Paese è stato l’unico Paese europeo risparmiato dal terrorismo internazionale dei primi due decenni del duemila. La mafia? Forse chi governa oggi è troppo giovane per sapere davvero cosa è stata la mafia. Hanno sentito dire, si sono riempiti il cervello con le grida della retorica. Hanno imparato a memoria le trombonate di Di Matteo, di don Ciotti, di Travaglio, di Bonafede. Nessuno di loro – neanche delle persone che ho citato – probabilmente ricorda di quando la mafia faceva la guerra allo Stato davvero, uccideva, falciava politici di destra, di sinistra e di centro, magistrati, giornalisti. Metteva le bombe. Realizzava le stragi. In quegli anni, combattere la mafia seriamente, mettersi di traverso, provare a fermarla, era pericoloso sul serio. Molti ci hanno lasciato la pelle, anche molto i magistrati, Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, Scopelliti, Livatino. Gente seria, coraggiosa davvero. Allora c’era l’emergenza mafia. Oggi qualcuno può dire in coscienza che il problema del Paese è l’attacco assassino dei mafiosi? No, il piombo non si vede, però l’idea è quella di concentrare la politica, e unirla, del far fronte contro l’attacco mafioso e terrorista. E se provi a far notare che questo attacco non c’è e che le emergenze del Paese sono altre (lavoro, reddito, sviluppo, impresa, ritorno della giustizia, abbattimento della burocrazia, accoglienza dignitosa dei migranti…) viene additato come disfattista e amico dei mafiosi. E in questa risposta all’attacco che non c’è si fanno a pezzi principi essenziali dello Stato di diritto. La decisione dell’incontrastato ministro Bonafede di mettere fuorigioco i magistrati di sorveglianza (che sono gli unici che si sono impegnati in questi mesi per trovare rimedi al Covid) è gravissima sotto tutti i punti di vista. Ha due conseguenze drammatiche. La prima è quella di rendere la politica carceraria del governo rosso-giallo ( o rosso-bruno), la più spietata di sempre. Varrà la pena di ricordare un’altra volta che l’articolo del codice penale contestato oggi perché troppo umanitario fu scritto dai fascisti. Questo Governo, sul piano della politica carceraria ci tiene a mostrarsi più spietato del governo di Mussolini. La seconda conseguenza è quella della ferita mortale allo Stato di diritto. In pratica si decide che una parte della magistratura giudicante viene sottoposta ai Pubblici ministeri. È una costruzione istituzionale che non si era mai vista, anche perché eccessivamente scombiccherata, in nessun Paese, ne democratico né totalitario. In questo modo si abbatte il principio dell’indipendenza della magistratura, e cioè un principio sempre considerato come sacro dalla stessa magistratura. Figuratevi, personalmente io non lo ritengo affatto un principio sacro: in moltissimi Paesi democratici la magistratura non è indipendente. In America, in Francia. Lì però è l’ufficio del Pubblico ministero che è subordinato al potere esecutivo. Mai e poi mai il giudice. L’autonomia e l’indipendenza del giudice è connaturata a qualunque idea ragionevole di giudizio. Qui invece si inventa la teoria che il giudice è subalterno all’accusa. Per fortuna cominciano ad udirsi, seppur timide, alcune voci di dissenso. Nel Csm hanno preso posizione “leggermente” democratica sia Area (sinistra) che magistratura indipendente (a difesa dei giudici di sorveglianza accusati da Di Matteo di cedimento alla mafia. Però non se la sono presa con Di Matteo. Hanno messo nel mirino Gasparri. Difficile sperare che questi magistrati vengano allo scoperto per la difesa del diritto, se basta il nome di Di Matteo e l’ombra di Travaglio per terrorizzarli.

Fatto Quotidiano ed Espresso vogliono in Italia la pena di morte. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Crucifige crucifige! Vogliono la pena di morte. E vogliono la croce per chi applica la legge. Lo squadrone dei soldatacci è capitanato dall’Espresso e dal Fatto quotidiano, seguono compatti magistrati e uomini politici, tutti a pollice verso. È accaduto che un povero vecchio di 78 anni gravemente malato di cancro, già operato d’urgenza e sottoposto a cicli di chemioterapia e con una pesante recidiva in corso, sia stato mandato a scontare gli ultimi nove mesi di pena a casa sua, dopo aver passato metà della sua vita in carcere. Si chiama Francesco Bonura, era recluso a Opera in regime di 41 bis. È mafioso? Sì. Era giusto, se aveva commesso gravi reati, processarlo e condannarlo? Sì, anche se sappiamo che la pena è già «sofferenza, flagello e corona di spine», come ha detto di recente il professor Tullio Padovani. Ma si può aggiungere al carcere anche il pericolo di contagio da Covid-19 come pena supplementare? Sarebbe una condanna a morte per una persona che vede già la fine vicina. È già capitato in passato al boss Bernardo Provenzano, lasciato in condizione detentiva anche quando era ridotto in stato vegetale. I reprobi da crocifiggere sono i magistrati del tribunale di sorveglianza di Milano. I quali, nel caso del detenuto Francesco Bonura, non hanno neanche applicato la normativa del decreto governativo Cura Italia e neppure la circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) del 21 marzo che invitava le direzioni carcerarie a segnalare i detenuti anziani e con gravi patologie per l’eventuale scarcerazione, visto il pericolo concreto di contagio negli spazi ristretti delle prigioni ancora sovraffollate. Niente di tutto questo, come ricordano gli avvocati difensori del detenuto, Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra, ma la semplice e pura applicazione di una legge esistente, quella che consente il differimento della pena in caso di grave malattia. Il fatto poi che il condannato comunque entro nove mesi avrebbe terminato di scontare la sua pena e sarebbe stato addirittura libero, ha sicuramente influito sulla decisione. Cui si sono accompagnati, negli stessi giorni, altri provvedimenti analoghi assunti da altri tribunali e che riguardavano detenuti calabresi e siciliani. La canea era quindi già pronta, con la schiuma alla bocca, fin da ieri mattina, quando sono apparse le prime notizie. Comodo eh, avere il virus alle calcagna, si dice. Il passaparola non solo mette in guardia da una sorta di “tana liberi tutti”, ma è pronto ad aggredire alla giugulare chiunque si sia permesso di applicare la legge. Il primo a rispondere allo squillo di tromba del Fatto quotidiano non può che essere Nino Di Matteo, che andrebbe denunciato dalla stessa Presidenza del consiglio per la sua dichiarazione. «Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte». Chi è stato ricattato, dunque, dottor Di Matteo? I magistrati suoi ex colleghi di Milano o il Governo? Naturalmente nessuno gli pone questa domanda, anzi gli si consente anche di farsi un po’ di pubblicità per la sua attività passata di Pm “antimafia” (orribile e sbagliatissimo termine) di Palermo. Aggiunge infatti il neo componente del Csm che lo Stato (quale tra i poteri esattamente?) «sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». Così le tragedie delle stragi sono equiparabili al castello di carta di un processo basato solo su un’ipotesi puramente ideologica? Un paragone che puzza molto di sottovalutazione dei fatti di sangue rispetto alle fantasie complottistiche. Poi si va a ruota libera. Qualcuno ricorda che ci sono nelle carceri al regime di 41 bis tutti i capimafia ormai anziani (e si suppone malandati, dopo tanti anni di detenzione), altri li contano, sono 74 e ne fanno i nomi. E si dice che potrebbero approfittare del timore del virus per farsi scarcerare. Il che è molto difficile, visto che anche il decreto del governo lo impedisce per i condannati per gravi reati. Ma lo consente la legge ordinaria, per malati gravi che, se contagiati dal coronavirus, potrebbero morire. Come è capitato a tanti anziani nelle case di riposo. Forse che i detenuti devono morire? Dobbiamo applicare con un’alzata di spalle la pena di morte? Ma la valanga pare irrefrenabile. Antonio Ingroia, che non è più magistrato ma riserva a se stesso il diritto di parola in quanto ex, parla di «trattamento di favore ai capimafia», Alfonso Sabella teme un «effetto domino». E partiti di centrodestra e di sinistra e Cinque stelle presentano interrogazioni urgenti e la convocazione della commissione antimafia. Per controllare la magistratura, a quanto pare. Diversamente, perché due esponenti del Pd come Walter Verini (responsabile giustizia) e Franco Mirabelli (capogruppo in antimafia) vogliono verificare la «effettiva incompatibilità» tra le condizioni di salute dei detenuti e il carcere? Non si fidano dei giudici, evidentemente.

Poi c’è chi, ma il fatto non desta stupore, come il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, si schiera con Nicola Gratteri nel garantire che, se c’è un posto dove si sta bene e ben isolati dal pericolo del virus, questo è il carcere in regime 41 bis, cioè il luogo dei sepolti vivi, dei senza speranza. Dove il distanziamento sociale è garantito non da celle spaziose, ma da una serie di limitazioni soprattutto sulle relazioni affettive. Impossibile trovare qualche voce fuori dal coro, nel mondo politico, se si eccetta una dichiarazione di ”Nessuno tocchi Caino”, cui tocca il compito di ricordare i principi costituzionali di diritto alla vita e alla salute come prevalenti su qualunque motivo di sicurezza. Principi, ricordano, sanciti anche da Patti e Convenzioni internazionali, oltre che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che indica la gerarchia e l’ordine dei valori umani, mettendo vita e salute in testa alla lista. Se qualcuno ha pensato che tutta questa turbolenza abbia preoccupato il ministro della giustizia, questo qualcuno sarebbe un illuso. Come si è mosso Alfonso Bonafede? Ha scritto su facebook, minacciando chiunque abbia attribuito al governo e al decreto Cura Italia le scarcerazioni. Per una volta ha ragione a difendere l’autonomia della magistratura, anche se lo fa per scansare il problema dalla propria persona. E non per sostenere decisioni dettate da rigorosa applicazione della legge e senso di umanità. Se ancora si può dire, in questo clima di voglia di forca appesa al ramo più alto.

Tutti con Travaglio: Renzi, Zingaretti e Berlusconi sono diventati forcaioli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Si è scatenata la tempesta perfetta. Ha una forza bestiale: destra, sinistra, giornali, Tv e un pezzo – probabilmente ancora minoritario ma fortissimo – della magistratura. È un susseguirsi di grida feroci. Ciascuno cerca di essere più feroce dell’altro. Qual è l’obiettivo? Direi che gli obiettivi sono due. Il primo, politico, sono i voti. Voti da rastrellare in cambio di giustizialismo a buon mercato (potremmo perfino definirli “voti di scambio”). Il secondo obiettivo è quello che indicavano sul Riformista di sabato scorso: intimidire la parte più seria e scrupolosa della magistratura, quella più legata ai principi del diritto, e fargli capire che non è più aria di discorsi e di Costituzione: la magistratura è giustizialismo o non è. La Costituzione è anticaglia. L’offensiva è condotta con grande intelligenza da quella che abbiamo chiamato la magistratura “rosso-bruna”, perché unisce i reazionari di Di Matteo e Davigo con un pezzo di “Magistratura democratica” (credo, spero, non tutta), cioè la corrente di sinistra. Tanto rosso-bruna da essere, alla fine, riconducibile alla leadership del giornale rosso-bruno per eccellenza, e cioè il Fatto di Travaglio. È da lì che è partita la campagna. Da lì la si dirige. La cosa impressionante è che a questa offensiva si son piegati tutti. In magistratura i pochi elementi rimasti a combattere sul fronte del diritto sono isolatissimi e indicati come bersagli da colpire. Pensate alla giudice di Milano che ha deciso la scarcerazione di un signore che una ventina d’anni fa si macchiò di alcuni reati di estorsione, e che oggi, quasi ottantenne, combatte per la vita contro un cancro: avete ascoltato voci in sua difesa? Cioè in difesa di una magistrata molto seria ed esperta, con trent’anni di servizio? Sì, ci sono tre magistrati che ieri hanno presentato una richiesta di apertura di una cosiddetta “pratica a tutela” a suo favore. Però, curiosamente, i tre hanno presentato la richiesta in polemica con Maurizio Gasparri, deputato, senza neppure accennare alla figura del loro collega Nino Di Matteo. È vero che l’uscita di Gasparri, che addirittura ha chiesto la rimozione del giudice, è gravissima e ingiustificata. Ma Nino Di Matteo aveva fatto molto di peggio. Aveva parlato di “cedimento al ricatto mafioso”. Cioè, in pratica, aveva accusato la sua collega di favoreggiamento, o forse di concorso esterno in associazione mafiosa. Hanno protestato gli avvocati, le Camere penali. Stop: le Camere penali e basta. In politica non si è sentita una voce. Nella magistratura silenzio, silenzio, silenzio. Come è possibile: è solo paura? Paura di che, di chi? Di Travaglio, della sua capacità di trascinarsi dietro gli altri giornali e praticamente tutto l’apparato televisivo italiano? Possibile che Travaglio sia così potente? Sembra proprio di sì. Lo scenario che abbiamo davanti è duplice, e terrificante. Da un lato la possibilità concreta che invece di avviarci verso la separazione delle carriere – cioè l’avvicinamento del sistema italiano ai sistemi di tutto il mondo democratico – si compia un passo nella direzione inversa: quella di costringere la magistratura giudicante a sottomettersi alle Procure. Cioè all’accusa. Non sarà un passaggio leggero, né semplicemente formale. Ridurrà ai minimi termini il potere della magistratura giudicante e renderà quasi onnipotente il potere delle accuse. La sorte di un detenuto, in pratica, durante il periodo nel quale sconta la pena, non dipenderà più da un giudice terzo ma dal suo accusatore, che qualche volta, magari, è esattamente il suo persecutore. Sarà lui ad avere in mano il destino del detenuto per tutto il periodo della condanna. Se è ergastolo, per tutta la vita. Il detenuto sarà un oggetto alla sua mercé. E la magistratura sarà sempre di più un potere e sempre di meno un ordine. La sua arma non sarà più il diritto ma la forza politica. Dilagante. Il secondo scenario che si apre è quello della vittoria definitiva del giustizialismo. La resa senza condizioni dell’Italia liberale. In queste ore abbiamo assistito a cedimenti spaventosi da parte delle forze che si ispirano a idee liberali. A partire da Italia Viva, per non parlare del Pd. E persino settori di Forza Italia. A me una cosa pare chiarissima. Garantismo non vuol dire difesa dei politici dai magistrati. Vuol dire difesa dei diritti, di tutti. Dei politici e dei miserabili, dei migranti e dei mafiosi, degli innocenti e dei colpevoli. Non ci sono santi: è così. Chi oggi si scaglia contro la magistrata che ha scarcerato Bonura e contro quello che ha scarcerato Zagaria deve però farci un favore. In futuro non dica più: io sono garantista. Non lo dica più: non è vero.

Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio, “Papà è morto senza potersi difendere”. Valentina Marsella su Il Riformista il 2 Maggio 2020. «Mio padre è morto da solo, senza potersi difendere e senza il nostro abbraccio». A parlare, in una accorata lettera, è Domenico Ribecco, figlio di Antonio, morto a 58 anni di Covid-19 mentre era detenuto nel carcere di Voghera. Come una macabra premonizione, un nome impresso nella sorte, l’operazione “infectio” della Dda di Catanzaro del dicembre scorso lo aveva fatto finire in manette insieme ad altre 22 persone, accusate a vario titolo di essere i volti del mosaico delle infiltrazioni criminali della ‘ndrangheta in Umbria. Di “infectio” viene arrestato, di “infectio” muore a tre mesi di distanza. Antonio Ribecco è originario di Cutro ma vive da oltre 25 anni a Perugia, dove fa l’imbianchino. Il 12 dicembre, racconta il figlio 28enne, «finisce in isolamento nel carcere di Capanne per 9 giorni, poi viene trasferito a Voghera. Lo abbiamo rivisto il 3 gennaio. Ci ha detto che aveva chiesto di essere trasferito di nuovo in Umbria, per essere più vicino a noi e a mia sorella non vedente. Ma così non è stato». L’ultima volta che Domenico ha visto suo padre vivo è stato il 15 febbraio. Due settimane dopo, Antonio ha la febbre ma nessuno immagina che si tratti di Coronavirus. «Anche se il virus continua ad aggredirlo – racconta Domenico – ci dice di stare meglio per tranquillizzarci anche se nessuno lo ha ancora visitato. Tanto che una guardia penitenziaria fa una lettera di richiamo al medico. Tutti fatti raccontati da mio padre, prima al telefono e poi in una lettera che dice di averci spedito che però non ci è mai arrivata». La situazione precipita: Ribecco viene ricoverato il 21 marzo in terapia intensiva al San Paolo di Milano e poi al San Carlo. Il 9 aprile la notizia della sua morte. Dall’aggressione del Covid-19 al decesso c’è un tempo sospeso di venti giorni, fatto di silenzi e angoscia. «Solo dopo ripetute telefonate riusciamo a sapere cosa sta accadendo – prosegue il figlio del 58enne – anche se non abbiamo mai capito se mio padre abbia ricevuto le cure adeguate. Vogliamo sapere solo la verità sulla sua morte». Intanto, i legali del detenuto calabrese, Gaetano Figoli del foro di Roma e Giuseppe Alfì del foro di Perugia, hanno sporto una denuncia alla Procura di Pavia perché accerti le condotte tenute dal personale del carcere lombardo e verifichi se vi siano stati comportamenti colposi e omissivi. Quello che è certo è che la furia distruttrice del Covid in carcere fa ancora più paura e che la scelta di fare i tamponi è stata fatta solo in alcuni penitenziari. «Per fronteggiare l’emergenza Coronavirus non c’è stata una procedura comune negli istituti di pena, o comunque un piano sanitario per effettuare i tamponi – fa notare l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane – ma solo iniziative singole». Finora i morti accertati di Covid-19 in carcere sono stati due, entrambi sottoposti a misura cautelare ed entrambi accusati di reati ostativi: Ribecco e un 76enne siciliano che era detenuto alla “Dozza” di Bologna. Due storie che «portano a fare delle riflessioni – aggiunge Catanzariti -; la prima: il Coronavirus non fa distinzione tra soggetti in espiazione pena e quelli in misura cautelare. La sua furia distruttrice non fa nemmeno differenze tra reati ostativi e reati comuni. Un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio. Ma la riflessione più importante è che la privazione della libertà, giusta o sbagliata che sia, impone un dovere di tutela specifica in chi l’ha disposta. Se lo Stato non protegge il diritto alla salute di chi è in sua custodia, il passo verso la tortura ed i trattamenti inumani è davvero breve». E il carcere è una «Istituzione totale», fa notare il professor Francisco Mele, psicanalista e criminologo, «perché l’individuo dorme, lavora, mangia, vive in un unico spazio. Tutti noi nasciamo, viviamo e moriamo nelle Istituzioni, che ci forniscono una identità. Il Coronavirus ha messo in discussione tutto il sistema che riguarda la disciplina attraverso la quale una persona entra e vive nelle Istituzioni. In quella Istituzione totale e anonima che è il carcere, il limbo dell’attesa di giudizio si è trasformato in morte». Una morte, conclude Mele, «di fronte alla quale tutti siamo soli, ancor di più quando non c’è una mano o un volto di conforto. Anche in carcere».

Su Cutolo Salvini ha annunciato una sentenza che non c’è…Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Aprile 2020. «Sono le 19 e finora non ho ricevuto alcuna notifica. Non conosco il giudice e il personale della cancelleria dell’ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia ma ritengo che siano persone perbene e credo che una decisione così delicata non la comunicherebbero prima a Salvini». Con queste parole l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore di Raffaele Cutolo, smentisce l’ex ministro Matteo Salvini che, secondo un’agenzia di stampa, in un post su Facebook aveva scritto «Poche ore fa per fortuna hanno negato la libera uscita a Raffaele Cutolo». Bisognerà quindi ancora attendere per la decisione sulla sospensione dell’esecuzione della pena richiesta dallo storico capo della Nuova Camorra Organizzata dopo oltre 40 anni di ininterrotta detenzione. E il clima che accompagna questa attesa non è privo di commenti e interventi che spaccano l’opinione pubblica su cosa debba prevalere: se il diritto alla salute del detenuto o il peso del nome che porta.

«Cutolo ormai è una bandiera da sbandierare sulla torre della lotta alla criminalità organizzata senza pensare che è un uomo di quasi ottant’anni con seri problemi di salute» afferma l’avvocato Aufiero che ieri, con una memoria di 9 pagine, ha rinnovato al magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia la richiesta di concedere a Cutolo gli arresti domiciliari nella sua casa, a Ottaviano. «Perché – scrive l’avvocato – le patologie di cui è affetto Cutolo sono di assoluta gravità, certamente suscettibili di inevitabile e ulteriore peggioramento a causa della pandemia e quindi difficilmente fronteggiabili in regime detentivo». E lo dimostrerebbe, per l’avvocato, anche il documento con cui l’8 marzo scorso l’ospedale di Parma dimise Cutolo dopo settimane di ricovero, dichiarando che «il paziente è stato dimesso per eventi legati al coronavirus». «Quindi se dovesse ripresentarsi la necessità di un nuovo ricovero in ospedale così come avvenne lo scorso 19 febbraio, il rischio di morte per il condannato sarebbe altissimo», sostiene la difesa dell’ex capo della Nco che in tema di pericolosità, anticipando un tema che si prevede tra quelli in esame per il nuovo decreto atteso per domani e in cui si potrebbe ritenere necessario per le scarcerazioni anche il parere della Direzione nazionale antimafia, aggiunge che «Cutolo Raffaele è sottoposto a regime di 41bis dal 1992, sei dei quali trascorsi da solo all’interno del carcere dell’Asinara per lui appositamente riaperto. Commise il suo ultimo reato nel 1981, quindi 39 anni fa. Non ha familiari o prossimi congiunti che abbiano commesso negli ultimi 40 anni reati o semplici infrazioni di legge. Non ha più contatti con l’esterno da circa 40 anni» aggiunge l’avvocato citando fra l’altro l’ultimo decreto in ordine di tempo con cui a Cutolo è stato rinnovato il 41bis. «Sono trascorsi 7 mesi dal deposito del reclamo e ancora si è in attesa di fissazione della relativa udienza. Quel decreto ancòra il giudizio di pericolosità attuale e qualificata a un colloquio in carcere avuto da Cutolo con un volontario della Comunità di Sant’Egidio, colloquio regolarmente autorizzato dalle competenti autorità penitenziarie». Fin qui tutte quelle che l’avvocato Aufiero definisce «inevitabili e ineludibili considerazioni a seguito di recenti e sempre più pressanti polemiche da parte dell’opinione pubblica, organi di stampa, rappresentanti della politica locale e nazionale nonché di taluni magistrati che pure ricoprono ruoli istituzionali di assoluto rilievo». Basteranno a rendere il diritto alla salute del detenuto prevalente su tutto quello che il nome di Cutolo ancora evoca? C’è grande attesa per le sorti di colui che con gli occhiali dalla sottile montatura in oro e il sorriso sempre a labbra strette è stato protagonista non solo della storia criminale campana ma anche di una buona parte di quella più controversa del Paese. Lui, l’ingegnere, il Vangelo, il camorrista che ispirò il romanzo di Giuseppe Marrazzo e il film d’esordio del regista Giuseppe Tornatore, don Raffaè come nella canzone di Fabrizio De Andrè, il professore per quella capacità comunicativa che fece la forza del suo potere criminale negli anni Ottanta e che oggi pesa sulla possibilità di lasciare il carcere.

Renzi e Gasparri garantisti a targhe alterne: su Zagaria e Bonura diventano giustizialisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Che cosa unisce Matteo Renzi e Maurizio Gasparri, oltre al fatto che sono ambedue senatori della repubblica? Il garantismo per esempio, verrebbe da dire, visto che militano in due partiti che non amano alzare le forche: non Italia viva, men che meno Forza Italia. Invece accade proprio il contrario. Così si buttano tutti e due, con sprezzo del pericolo, nella discussione feroce su alcuni “differimenti di pena” ordinati da tribunali di sorveglianza. Si buttano, e chiedono radiazioni e licenziamenti di chi ha scarcerato. A casa devono andare i magistrati e i responsabili del ministero, magari anche lo stesso Guardasigilli, strillano. Chiariamo subito che i provvedimenti che più hanno destato scandalo, quello del giudice milanese nei confronti di Francesco Bonura e quello del tribunale di Sassari in favore di Pasquale Zagaria, sono ineccepibili. Forse tardivi, a guardare la personalità dei due reclusi e il loro quadro clinico. Il primo era arrivato al termine della pena, che scontava nel regime previsto dall’articolo 41 bis, che vuol dire carcere impermeabile all’esterno, benché non fosse stato condannato per fatti di sangue. Ha 78 anni, una gravissima forma di tumore già operato e con recidiva in corso, oltre a tutte le altre patologie tipiche dell’età. Tra nove mesi sarà comunque libero, piaccia o non piaccia ai senatori Renzi e Gasparri. In ogni caso l’ordinanza del giudice di Milano ne ha disposto i domiciliari solo fino a giugno. È ovvio che non gli convenga darsi alla fuga, ma che desideri semplicemente curarsi in un luogo più sicuro di un carcere dove il personale si muove tra tutti i reparti, compresi quelli isolati. Il caso di Pasquale Zagaria, cui il tribunale di sorveglianza di Sassari ha concesso cinque mesi di detenzione domiciliare in un paesino del bresciano dove risiede la moglie con i figli, è apparentemente frutto di qualche discrasia tra magistratura e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, cioè un’emanazione del Ministero di giustizia. I cui ritardi ne hanno impedito il trasferimento in un centro clinico di detenzione. Ma in realtà è molto ben motivato. Anche in questo caso si tratta di una persona che non si è macchiata di reati di sangue, che si è spontaneamente costituita nel 2007 e che ha ammesso le proprie responsabilità. In questo momento è gravemente malato e non può continuare le sue cure chemioterapiche (ha un carcinoma papillifero di alto grado) nell’ospedale di Sassari, perché questo è stato trasformato in centro per i malati di Covid-19. Il magistrato che ha steso l’ordinanza scrive esplicitamente che neppure nella cella singola il recluso è indenne dal rischio di contagio da coronavirus, perché non si può garantire un isolamento totale dal personale di polizia penitenziaria e dagli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere. Ineccepibili tutti e due i provvedimenti. C’è quindi da domandarsi se i vari Catello Maresca, pm napoletano che l’altra sera in una trasmissione tv ha aggredito il capo del Dap Francesco Basentini come se questi avesse avuto l’intenzione di far ricostruire il clan dei casalesi, e poi don Ciotti, ma anche politici attenti come Gennaro Migliore, e Mirabelli e Verini e Giusi Bartolozzi abbiano letto e si siano informati. Ripetiamolo: si tratta di “differimenti pena” di pochi mesi in favore di persone che a questo punto della loro vita desiderano solo potersi curare e non vedersi comminare una pena accessoria, cioè la pena di morte da coronavirus. Che cosa hanno scritto nei loro tweet Renzi e Gasparri? Il leader di Italia viva se la prende con il ministro Bonafede. “La scarcerazione dei superboss di camorra e ‘ndrangheta – scrive -è INACCETTABILE. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna”. Chiunque sia il “responsabile” a dover essere cacciato, un magistrato (che non può certo esser licenziato da un ministro) o il capo del Dap, quel che è chiaro è che Matteo Renzi ha deciso di spogliarsi della veste di garantista ( del resto un po’ appicicaticcia) per indossare quella più consona a Gasparri, da sempre il volto forcaiolo di Forza Italia. Il quale ha fatto di peggio, rendendo pubblico il nome del magistrato milanese che ha disposto i domiciliari per Bonura e ne ha chiesto la radiazione dalla magistratura, insieme ai colleghi del tribunale di sorveglianza di Sassari. Venendo immediatamente preso di mira da alcuni consiglieri del Csm, che lo citano come “un noto politico” e chiedono l’apertura di una pratica a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati colpiti. Ma al di là dei singoli casi, c’è un altro problema che dovrebbe allarmare chi ha a cuore la divisione dei poteri e i diversi ruoli all’interno dell’amministrazione della giustizia. L’ha ben individuato la giunta dell’Unione delle camere penali e riguarda l’ipotesi prospettata dal ministro Bonafede di mettere le decisioni dei tribunali di sorveglianza sotto la tutela delle Direzioni Distrettuali antimafia quando si trattano pratiche che riguardano determinati reclusi. Sarebbe gravissimo, dicono i penalisti, che un organo di giurisdizione dovesse essere controllato da un organo di investigazione, cioè il giudice sottoposto al Pm. Forse anche il Csm farebbe bene a essere allarmato, aggiungiamo noi, non solo quando viene toccata la corporazione. La commissione bicamerale antimafia, infine, che nella riunione di domani avrebbe un compito molto importante, perché esaminerà il tema dell’ergastolo ostativo dopo la sentenza della Corte costituzionale, ma che probabilmente finirà con il perdere il suo tempo a scandalizzarsi perché quattro malati andranno a casa per qualche mese. Ritenendo di essere a “Non è l’arena” invece che nel Parlamento della Repubblica.

Le polemiche. La trovata di Bonafede, giudici sottoposti all’accusa. Giovanni Fiandaca su il Riformista il 28 Aprile 2020. Il fenomeno della legislazione «motorizzata» (per dirla con Carl Schmitt), se si manifesta con particolare evidenza in questo periodo di emergenza sanitaria, è tutt’altro che nuovo nel nostro paese. Esso è in vigore da non poco tempo e già un quindicennio fa, per stigmatizzare la tumultuosa e confusa produzione continua di norme in quasi tutti i settori della vita associata, non si è esitato a utilizzare metafore di tipo medico-psichiatrico: si è così di volta in volta parlato di «psicopatologia» delle riforme quotidiane, di legislazione «compulsiva», di «nomorrea» o «sanzionorrea» et similia. A ben vedere, questa pulsione nevrotica ad aggiungere nuove norme (o a modificare norme preesistenti) nasce, spesso, da un vuoto sostanziale di elaborazione e strategia politica: prima ancora di comprendere le cause reali dei problemi sul tappeto, e di riflettere sui più efficaci strumenti di intervento, si ricorre in fretta all’espediente di creare nuove disposizioni normative (sempre più spesso di natura penale) come comodo e temporaneo tappabuchi, o come mero “ansiolitico” per rasserenare una opinione pubblica allarmata. La novità di questi ultimi tempi consiste in un ulteriore aggravamento del fenomeno, che potrebbe indurre ormai a parlare di normazione “ad horas” o “all’impronta”. Una esemplificazione emblematica la individuerei nella celerissima proposta normativa che trae spunto dalla polemica recentemente esplosa in seguito alla scarcerazione per motivi di salute (e per prevenire il rischio di contagio da Covid-19) di alcuni boss mafiosi anziani e gravemente malati. Com’è noto, da alcuni fronti politici e da alcuni settori della magistratura inquirente si è obiettato che è pericoloso rimandare in detenzione domiciliare nelle zone d’origine mafiosi di grosso spessore provenienti dal regime carcerario del 41 bis, dal momento che ciò rischia di riconsegnare un pezzo di paese alla criminalità organizzata. Inoltre, secondo il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, equivarrebbe a un segnale di debolezza consentire che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi e terroristi, perché «sarebbe come ammettere di non sapere gestire le carceri. E questo non è vero. Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza necessaria». Con tutto il rispetto per la professionalità e la competenza di Cafiero De Raho, personalmente non sarei altrettanto sicuro che l’attuale e mal funzionante sistema penitenziario nostrano riesca a garantire ai detenuti quella piena protezione dal contagio che egli sembra troppo ottimisticamente dare per scontata (la mia concreta esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti mi induce, purtroppo, a nutrire in proposito un certo pessimismo). Ma neppure mi sentirei di esprimere certezze, in termini di prognosi empirica, sul fatto che il ritorno di boss vecchi e malati nelle dimore originarie comporti, pressoché automaticamente, il ripristino del loro antico potere: darlo aprioristicamente per sicuro rischia di perpetuare una concezione mitica del mafioso quale essere onnipotente, e perciò esentato da tutti i limiti umani e dalle forme di fragilità cui sono soggette le persone comuni. Più realisticamente, penso – e credo di non essere il solo a pensarlo – che la valutazione preventiva del pericolo concreto di riassunzione di ruoli di comando andrebbe effettuata caso per caso, in rapporto alle diverse caratteristiche dei personaggi e dei contesti. Fatte queste premesse, passiamo a considerare il tipo di atteggiamento che il ministro Bonafede ha assunto per reagire alle polemiche di cui sopra. Per prima cosa, egli ha chiesto agli ispettori ministeriali di compiere accertamenti sulle scarcerazioni di boss già disposte dai magistrati di sorveglianza competenti, pur ribadendo – non senza ambigua ipocrisia istituzionale – che tali scarcerazioni «vengono adottate in piena indipendenza e autonomia dalla magistratura» (messaggio politico sottointeso: «io non c’entro niente, spetta ai magistrati decidere; ma poiché hanno deciso in una maniera che anche a me pare inopportuna, come ministro mi riservo di sanzionarli!»). Nel contempo, ecco riemergere in Bonafede la tentazione compulsiva del miracoloso rimedio normativo: egli ha cioè subito annunciato di concordare col presidente della Commissione Antimafia sulla necessità di introdurre al più presto una nuova norma, che «mira a coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia in tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia» (ed ha aggiunto di avere già emanato una circolare che va in questa direzione). Orbene, sorge spontanea una domanda: che vuol dire «coinvolgere» i magistrati delle direzioni antimafia nelle decisioni sulle misure extracarcerarie da concedere ai mafiosi? Si ipotizza di attribuire loro un potere di interlocuzione (sotto forma di parere o qualcosa di simile a un preventivo concerto con i magistrati di sorveglianza), o un vero e proprio potere interdittivo (che darebbe, peraltro, luogo a possibili obiezioni di legittimità costituzionale)? In effetti, è da escludere che i magistrati d’accusa siano i più adatti a farsi carico di un bilanciamento equilibrato fra tutti i valori, i diritti e le esigenze di tutela che richiedono di essere contemperati nella materia penitenziaria: essi, per specializzazione (per non dire “deformazione”) professionale, sono infatti portati a privilegiare in maniera unilaterale – direi quasi “totalizzante” – la sicurezza collettiva e l’efficacia del contrasto alla criminalità organizzata (per cui passano in seconda linea, ai loro occhi, la tutela dei diritti dei condannati, come appunto lo stesso diritto fondamentale alla salute e persino il diritto alla rieducazione). Mentre un orientamento tecnico e culturale incline a tenere conto di tutta la complessità delle diverse esigenze in campo è appunto tipico, tradizionalmente, dei magistrati di sorveglianza. Se le cose stanno così, prima di emanare nuove norme urgenti, il potere politico-governativo dovrebbe avere bene chiaro che esiste una connessione stretta tra le possibili forme di coinvolgimento della magistratura antimafia nelle decisioni giudiziarie sui boss che chiedono di uscire dal carcere e i possibili modelli di bilanciamento tra la rispettiva tutela della sicurezza collettiva e della salute individuale: nel senso che enfatizzare il ruolo valutativo delle direzioni antimafia equivarrebbe – inevitabilmente – a porre in primo piano la tutela della sicurezza; mentre attribuire loro un ruolo meno determinante lascerebbe maggiore spazio – come ritengo sia più giusto – a soluzioni giudiziarie di ragionevole compromesso tra i concorrenti valori in gioco. È, in ogni caso, da scongiurare una nuova disciplina dai connotati così generici o dal contenuto talmente pasticciato, da produrre ancora una volta l’effetto di trasferire sulla magistratura lo scioglimento di un nodo problematico che la politica non riesce – da sola – a risolvere.

L’attacco dei magistrati di sorveglianza: “Un pezzo di magistratura ci delegittima”. Il Dubbio il 29 Aprile 2020. La dura nota del Coordinamento: «contro di noi attacchi ingiustificati, anche da parte dei colleghi». Una «campagna di sistematica delegittimazione, che in alcuni casi si è spinta fino al dileggio», perfino ad opera di magistrati e, quindi, di colleghi. È un attacco durissimo quello del coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, che con una nota – a firma del coordinatore Antonietta Fiorillo e del segretario Marcello Bortolato – replica alle polemiche dei giorni scorsi, nate a seguito delle scarcerazioni di alcuni boss sottoposti al 41 bis per motivi di salute. Decisioni prese dai magistrati di sorveglianza, valutando atti e documenti, e che hanno spinto la politica – ma anche le toghe antimafia – a criticare aspramente il ministro della Giustizia, chiedendo la testa dei responsabili. E Alfonso Bonafede, accogliendo le richieste, ha subito proceduto a commissariare, di fatto, il Dap, annunciando un coinvolgimento delle Procure antimafia nelle future decisioni di competenza dei tribunali di Sorveglianza. L’ultima polemica, in ordine di tempo, è quella che ha riguardato la scarcerazione di Pasquale Zagaria, detto “Bin Laden”, considerato la mente economica dei casalesi. I magistrati di sorveglianza parlano di «un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni». I magistrati fanno riferimento all’articolo 27 della Costituzione, che impone una detenzione mai contraria al senso di umanità. Disposizione che vale per qualsiasi detenuto, «anche il più pericoloso», valutando caso per caso, in collaborazione – «come avvenuto in questi casi» – con tutte le autorità coinvolte, «che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati». Nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, si legge nella nota del coordinamento, «non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio». Decisioni prese sulla base di norme contenute nel codice penale che «prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Ogni decisione «è destinata ad essere discussa nel pieno contraddittorio delle parti pubbliche e private ed è ricorribile nei successivi gradi di giudizio». Da qui l’inutilità delle polemiche. «Il coordinamento ribadisce che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione – conclude la nota – e che continueranno ad avere come proprio riferimento null’altro che non sia la Costituzione e le leggi cui unicamente si sentono sottoposti».

Bonafede difende i giudici di sorveglianza ma li mette sotto tutela. Davide Varì su Il Dubbio il 29 Aprile 2020. Dopo i domiciliari concessi all’ex boss Zagaria, il ministro grillino prepara un decreto legge che limita i poteri del tribunale di sorveglianza. Con una mano rivendica l’indipendenza della magistratura di sorveglianza e con l’altra la mette sotto tutela. Insomma, il caso Zagaria – l’ex boss a cui sono stati concessi i domiciliari per gravissimi motivi di salute – sembra aver mandato in tilt il ministro della Giustizia Bonafede e con lui un pezzo di governo. Di fronte agli attacchi dell’antimafia militante, tv comprese, e quelli di Meloni, Salvini e financo Renzi – tutti indignati per la scelta di mandare a casa il boss malato – il Guardasigilli ha dovuto per forza di cose difendere i giudici salvo poi annunciare un decreto legge che toglie loro ogni potere. Colpito al cuore del giustizialismo – il core business politico del grillismo – il ministro ha infatti deciso che prima di scarcerare i detenuti al 41bis,  il tribunale di sorveglianza dovrà sentire anche il parere del procuratore nazionale antimafia.  Una decisione che ha fatto saltare dalla sedia mezza magistratura italiana – la metà più garantista, naturalmente – la quale ha parlato senza mezzi termini di grave atto di delegittimazione. A quel punto Bonafede, nel suo question time alla Camera, ha cercato di mettere una pezza: “Non c’è alcun governo che possa imporre o anche soltanto influenzare le decisioni dei giudici”, ha tuonato il ministro della giustizia dallo scranno che fu di Moro, Vassalli, Conso e Flick. E ancora: “La Costituzione – ha continuato -non lascia spazio ad ipotesi in cui la circolare di un direttore generale di un dipartimento di un ministero possa dettare la decisione di un magistrato. Le scarcerazioni richiamate sono decisioni giurisdizionali di natura discrezionale impugnabili secondo la relativa disciplina”. Punto. Insomma, il ministro Bonafede ha preso due piccioni con una fava: da un lato ha scaricato sui giudici del tribunale di sorveglianza tutte le responsabilità del caso Zagaria e dall’altro ha preparato una legge che toglie loro ogni potere futuro.

Anche per la visita a un familiare in punto di morte servirà il parere della procura Antimafia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 Aprile 2020. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, in un comunicato, denuncia di sentirsi «colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione». Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha presentato al Consiglio dei ministri un decreto ad hoc per scongiurare i domiciliari ai detenuti al 41 bis. Tutti erano in attesa di sapere in quale modo, visto che le decisioni spettano alla magistratura di sorveglianza in completa autonomia e dopo un’attenta valutazione. Ed è proprio questo il punto: come può intervenire il potere esecutivo senza incidere sull’indipendenza della magistratura di sorveglianza? Il ministro Bonafede è stato chiaro durante il question time alla Camera. «I principi e le norme della nostra Costituzione sono univocamente orientati ad affermare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ciò vuol dire che non c’è nessun governo che possa imporre e anche soltanto influenzare sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza», ha detto il guardasigilli. Ha anche sottolineato che le scarcerazioni al centro della cronaca «sono decisioni giurisdizionali, di natura discrezionale e impugnabili secondo la relativa disciplina». Poi è passato all’intervento normativo. «Approveremo un decreto legge che stabilisce, per questo tipo di scarcerazione, che debbano essere obbligatoriamente acquisiti il parere della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo e delle Direzioni distrettuali Antimafia». Il guardasigilli ha precisato che «non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo, ma si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto». Il decreto, infatti, non aggiunge nulla di vincolante, presenterrebbe degli aspetti di incostituzionalità. Però qualcosa cambia e di molto. L’autorità competente, prima di pronunciarsi, ha l’obbligo di chiedere il parere del procuratore della Repubblica del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, anche quello del procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Inoltre il procuratore generale presso la Corte d’Appello deve essere informato dei permessi concessi e del relativo esito con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati. La parte che potrebbe però creare qualche problemino è il passaggio nel quale si prevede: «Il magistrato di sorveglianza ed il tribunale di sorveglianza decidono non prima, rispettivamente, di due giorni e di quaranta giorni dalla richiesta dei suddetti pareri, anche in assenza di essi». Nei casi di urgenza, come quelli in cui il detenuto è gravemente malato, se un parere non arriva, aspettare quaranta giorni può voler dire non fare in tempo. Forse è questo il punto in cui il magistrato di sorveglianza può non sentirsi di libero di prendere una decisione urgente. Ma c’è di più. Oltre per i domiciliari, anche per il permesso di necessità c’è bisogno del parere della procura Antimafia e in questo caso di massima urgenza il magistrato deve comunque aspettare un giorno dalla richiesta del parere. Cosa significa? Se la moglie del recluso al 41 bis sta morendo, quest’ultimo fa richiesta urgente per il permesso di necessità. Il magistrato ha l’obbligo di chiedere il parere dell’Antimafia e attendere la risposta entro le 24 ore. A quel punto poi può concederla. Ma un giorno potrebbe essere fatali. La moglie del recluso al 41 bis potrebbe morire nel frattempo e quindi non si potrebbero più vedere per l’ultima volta. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza è intervenuto, con un duro comunicato per difendere il loro lavoro, sottolineando che «si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni». Ma non solo. Significativa la presa di posizione dei magistrati di sorveglianza a favore del Dap e in particolare per la famosa circolare, criticata da più parti, che darebbe l’impressione di una sorta di “tana libera tutti” per chi è al 41 bis. «Nel contesto della grave emergenza sanitaria da Covid19 – si legge nel comunicato dei magistrati di sorveglianza a firma della dottoressa Antonietta Fiorillo – non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio». «Solidarietà ai magistrati di sorveglianza» è stata espressa anche dai consiglieri di Unicost: in particolare, il togato Mancinetti, intervenendo in plenum ha sottolineato che «ogni provvedimento giurisdizionale può essere criticato, ma non si può cadere negli attacchi personali». Gli esponenti di Magistratura indipendente hanno chiesto al Csm l’apertura di una pratica a tutela per la magistratura di sorveglianza. Nel plenum è intervenuta anche la togata di Area, Alessandra Dal Moro, esprimendo, a nome del suo gruppo, «preoccupazione per le reazioni suscitate dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali sottoposti al 41 bis». Secondo Dal Moro, «i toni violenti rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione verso la magistratura di sorveglianza, impegnata nel fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri sovraffollati, valutando le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute». Il paradosso è che sono stati proprio i mass media a far credere ai detenuti al 41 bis di poter uscire grazie a alla circolare del Dap, difesa dal coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza. Un indizio, forse senza volerlo, lo ha dato il Fatto Quotidiano con un articolo di ieri. Racconta di un boss recluso a Rebibbia che invita un parente a chiamare l’avvocato perché dalla tv ha saputo che ci sono novità sui domiciliari anche per i 41 bis.

Il partito dei Pm sta infangando la magistratura, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Qualcosa si muove dentro la magistratura. Timidamente, timidamente. Il discorso pronunciato l’altro giorno al Plenum del Csm da Alessandra Dal Moro a nome di Area (la corrente di sinistra della magistratura) è finalmente una boccata d’aria, dopo giorni e giorni di silenzio asfissiante e di scatti di ira reazionari che ci stavano fornendo un’immagine terrificante del potere giudiziario. Ho scritto potere consapevolmente. Negli ultimi giorni la magistratura – guidata dai davighiani, da Di Matteo, Gratteri e poi Caselli, Travaglio e tutti gli altri ufficiali di complemento – non si è presentata all’opinione pubblica come un Ordine, qual è, ma come un potere: un potere arrogante e tiranno. Con l’esclusione, naturalmente, di alcuni suoi settori, come i magistrati di sorveglianza, che sono stati presi a bersaglio dai loro colleghi, vilipesi, insultati e alla fine massacrati e messi fuori gioco da un decreto che il partito dei Pm ha imposto al suo ministro – sempre piuttosto obbediente – il quale mercoledì notte lo ha varato, sebbene sia un decreto irrazionale e del tutto estraneo ai principi della Costituzione (ma anche dello Statuto Albertino del 1848) e a qualunque perimetro democratico. Il punto debole del discorso di Alessandra Del Moro è l’assenza di un vero e proprio atto d’accusa verso la stessa magistratura. La dottoressa Dal Moro, in modo assai efficace, ha demolito le sparate reazionarie dei politici e dei giornalisti che in questi giorni hanno fatto a gara nel chiedere che i principi della giustizia e i codici fossero messi da parte per dare spazio ai tribunali del popolo e delle Tv e ai linciaggi mediatici, o anche reali. La dottoressa Dal Moro ha spiegato molto bene quali siano i principi del diritto da rispettare e il recinto costituzionale dentro il quale magistratura deve muoversi. Però non ha denunciato esplicitamente due cose. La prima è la presa di posizione di magistrati, ex magistrati e anche membri autorevoli del Csm (mi riferisco ovviamente a Di Matteo), i quali si sono uniti alla campagna del linciaggio, anzi l’hanno guidata. Di Matteo, in particolare, ha accusato la sua collega del Tribunale di sorveglianza di Milano di collusione con la mafia. Ha detto che la sua collega milanese ha ceduto al ricatto della mafia. Possibile che il Csm non prenda posizione contro questa inaudita e orrenda calunnia lanciata da un suo membro? Eppure, con la partecipazione attiva proprio dei consiglieri di Area, il Csm aveva messo sotto accusa il consigliere professor Lanzi per molto meno. Solo per avere criticato genericamente la magistratura milanese per le inchieste sul Trivulzio. Come si spiega questa pratica dei due pesi? Come è possibile che l’incredibile uscita del consigliere Di Matteo resti così, senza che nessuno la censuri, la condanni, che almeno ne prenda le distanze? La seconda mancata denuncia riguarda il nuovo decreto Bonafede. Quello che prevede la delegittimazione della magistratura di sorveglianza e la concessione dell’onnipotenza alle Procure e ai Pubblici ministeri. È chiaro che è un decreto che viola non solo la Costituzione, ma ogni criterio di legalità. È una guappata, uno spavaldo colpo di maglio al diritto. Mi chiedo come mai il Csm, sempre così attento a giudicare e spesso condannare tutte le iniziative dei passati governi sui temi della giustizia, lasci passare senza obiezioni questa follia che mette in discussione in modo plateale e senza precedenti ogni principio di indipendenza del giudice. Chi scrive non è un tifoso dell’indipendenza della magistratura. Io penso che non ci sia niente di male nello schema francese o americano che non prevede l’indipendenza del Pubblico ministero ma lo subordina all’esecutivo. Però in quello schema è l’accusa che non è indipendente, non certo il giudice. Nessuno mai ha pensato di poter mettere in discussione l’indipendenza del giudice e addirittura di sottometterlo all’accusa. È una cosa evidentemente dissennata, dovuta probabilmente a pulsioni illegali e autoritarie, e a scarsa conoscenza della giurisprudenza e del diritto e della logica formale. Succede, quando uno vale uno. Le due cose – mancata denuncia della magistratura e mancata protesta contro il governo – sono in realtà molto legate tra loro. Per una ragione semplice: questo governo è in grandissima parte subalterno non alla magistratura in quanto tale, ma al cosiddetto partito dei Pm. E questo è un problema molto serio. Perché in questo modo si ferisce l’autorevolezza della magistratura, e la sua autonomia, e si delegittima il governo. Non è autonoma una magistratura che permette a un suo settore (il più visibile, il più attivo, il più televisivo) di adoperare la propria funzione per interferire o per egemonizzare, o per sottomettere, o per ricattare il potere politico. In queste condizioni non ha più senso parlare di indipendenza della magistratura. Tanto più quando le pressioni politiche della magistratura, paradossalmente – come nel caso dell’intervento contro i tribunali di sorveglianza – avvengono per delegittimare e per far perdere indipendenza a un settore della magistratura stessa. Su questi temi ci sono settori della magistratura disposti ad alzare la voce? A fermare la deriva autoritaria e reazionaria che oggi sembra inarrestabile? A uscire dal coro, a riprendere in mano le battaglie per il diritto, opponendosi al dilagare del corporativismo che da 30 anni ha preso il sopravvento nella categoria?

Antonietta Fiorillo: “Giudici di sorveglianza sotto tiro di politici, stampa e colleghi”. Giovanni Altoprati su Il Riformista il  30 Aprile 2020. «In questo Paese, purtroppo, sui temi del carcere, della magistratura di sorveglianza, della devianza in genere, si fa sempre molta spettacolarizzazione e poca informazione», afferma Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza (Conams). I magistrati di sorveglianza, dopo giorni di polemiche violentissime, hanno diramato ieri un comunicato per respingere «la campagna di delegittimazione», in alcuni casi spintasi fino al “dileggio”, suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati sottoposti al regime del 41 bis. Un attacco “ingiustificato” che rischia di ledere «l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione» e la “serenità” che quotidianamente deve assisterli nelle “difficili decisioni” in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito il mondo penitenziario. «Le norme applicate, quindi la sospensione della pena per chi si trovi in stato di grave infermità fisica, si rinvengono nel codice penale ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana», sottolineano i magistrati di sorveglianza, ricordando a tutti che continueranno a svolgere il proprio dovere senza pressioni o condizionamenti esterni.

Presidente, vi sentite sotto tiro?

«Io alle polemiche sono abituata da tempo. Non è la prima e non sarà l’ultima volta. Dopo tanti anni che svolgo questa funzione (prima di Bologna, la dottoressa Fiorillo è stata presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, ndr) sono ormai “corazzata”».

Non ho dubbi, però questa volta mi sembra che “l’assedio” venga da più fronti: commentatori, editorialisti, politici, Tv, anche qualche suo collega pm…

«Guardi, mi sono laureata con una tesi sui limiti dell’articolo 21 della Costituzione nelle sentenze della Corte costituzionale. Sono da sempre per la massima libertà di espressione da parte tutti. Nei limiti, ovviamente, della continenza».

Va bene, ma non crede comunque che si stia esagerando?

«Il discorso è molto complesso. Nessuno ha mai avuto l’interesse di dire al cittadino quali sono i compiti e le funzioni della magistratura di sorveglianza».

Forse perché è una magistratura molto specializzata (sono circa centocinquanta i magistrati di sorveglianza) e quindi poco conosciuta al grande pubblico?

«Non solo. Il dibattito sulla nostra funzione è sempre stato polarizzato: o la si ama o la si odia. E questo non va bene. In entrambi i casi, naturalmente».

Si può affermare che sul vostro ruolo esiste condizionamento ideologico?

«Può darsi. Ma ciò non toglie il fatto che le nostre decisioni vengono sempre prese in “scienza e coscienza”, senza pregiudizio alcuno».

Nel comunicato avete ricordato che il vostro riferimento è la Costituzione.

«Esatto. Ad iniziare dalla tutela del diritto alla salute della collettività. Abbiamo questa visione che tanti non hanno».

Alcuni commentatori, a proposito dei rischi di contagio da Covid-19, dicono che il carcere è oggi il luogo più sicuro che ci sia.

«Non è vero. È un errore. Nel carcere non esiste un dentro o un fuori ma c’è un dentro che è collegato al fuori. Mi spiego: anche se i detenuti non escono, gli agenti della polizia penitenziaria, i medici, gli operatori, entrano ed escono. Il carcere non è impermeabile dall’esterno. E noi dobbiamo considerare proprio questo aspetto».

Non vuole, allora, replicare a qualche suo collega che ha attaccato la magistratura di sorveglianza in questi giorni? C’è chi ha addirittura parlato di un cedimento alla mafia.

«Ripeto, noi magistrati di sorveglianza cerchiamo di garantire una risposta di giustizia. E comunque i provvedimenti, che sono pubblici, si impugnano, non si “aggrediscono”. Inviterei tutti a leggerli prima di criticarli».

Forse, e torniamo alla domanda iniziale, c’è stato un deficit di comunicazione?

«Gli organi d’informazione su questo punto hanno una grande responsabilità. Un’informazione corretta deve far capire cosa effettivamente sta succedendo. Se l’informazione rinuncia a questo importantissimo ruolo è finita.

Antonietta Fiorillo: «Noi giudici di sorveglianza seguiamo la Costituzione: se un detenuto rischia la vita deve uscire». Valentina Stella su Il Dubbio il 30 aprile 2020. Intervista ad Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza. La misura deve essere colma se la dottoressa Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza, insieme al collega Marcello Bortolato ha firmato un duro comunicato per respingere «con forza la campagna di sistematica delegittimazione» portata avanti anche da «autorevoli esponenti della Magistratura e delle Istituzioni» e suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati al 41 bis. «I magistrati di sorveglianza – si legge nella nota del Conams – si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni».

Dottoressa Fiorillo, scrivete che alcuni si sono spinti fino al dileggio nei vostri confronti.

«Quello che chiediamo, come fatto anche in altre occasioni, è che si affronti il problema partendo dai dati reali: le norme applicate nei casi in oggetto si rinvengono nel codice penale che, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, all’art. 147 prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Questo può piacere o non piacere ma è la scelta di politica giudiziaria che ha fatto il Legislatore molti anni fa. I magistrati che si occupano dell’esecuzione della pena sono chiamati ad applicare questa legge in scienza e coscienza e a motivare le loro decisioni. Poi esistono dei rimedi tecnici da applicare alle decisioni prese, come le impugnazioni, che spettano agli organi competenti, come la Procura».

Un riferimento importante nel comunicato è all’articolo 27 della Costituzione.

«Noi ci muoviamo nel solco della Carta Costituzionale che ha guidato il legislatore nell’emanare una legge sull’ordinamento penitenziario. Le nostre interpretazioni delle norme si muovono nell’ambito dei paletti posti dalla Costituzione e dalle sentenze della Consulta. La Magistratura di sorveglianza è stata sempre consapevole della rilevanza degli interessi in gioco e del loro, quando possibile, bilanciamento ed ha sempre operato, nel pieno rispetto delle norme, in particolare dell’art. 27 della Costituzione che impone venga assicurata a qualunque detenuto, anche il più pericoloso, una detenzione mai contraria al senso di umanità, valutando caso per caso previa interlocuzione, come avvenuto in questi casi, con tutte le Autorità coinvolte, che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati. Noi non applichiamo le nostre idee. Una legge una volta emanata deve essere applicata, secondo le corrette regole di interpretazioni. Le norme prevedono la tutela del diritto alla salute come diritto primario anche per le persone detenute condannate per reati di grave allarme sociale, valutando altresì l’attualità della pericolosità del soggetto attraverso il compendio di informazioni che la magistratura di sorveglianza richiede».

Dopo giorni di polemica avete deciso di scrivere la nota soprattutto per parlare a chi non conosce i meccanismi.

«Il nostro obiettivo è che chi non ha le conoscenze specifiche capisca il giusto inquadramento del problema. In una fase così delicata del Paese in generale, alle persone vanno forniti i dati che ognuno poi può valutare liberamente. La nostra attenzione verso la situazione sanitaria degli istituti di pena in questo periodo di emergenza sanitaria va inquadrata in una attenzione generale verso tutto il mondo penitenziario: detenuti, agenti di polizia penitenziaria e tutti gli operatori che entrano e escono dal carcere. Ci interessiamo anche della salute della collettività: se si diffondesse l’epidemia all’interno delle mura carcerarie ciò potrebbe portare alla diffusione del virus fuori, un problema per tutta la collettività».

Concludete il comunicato scrivendo che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione e continuerete a lavorare come sempre fatto.

«Il problema non è solo della magistratura di sorveglianza. Il giudice è una persona che deve sentirsi libero di poter garantire un giudizio terzo ed imparziale al cittadino, e applicare in scienza e coscienza ciò che è scritto nelle norme».

Scarcerazioni Bonura e Zagaria, il partito dei Pm diffama i magistrati di sorveglianza. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Lungi dal placarsi, l’inverecondo linciaggio di magistrati di Sorveglianza che fanno solamente il loro dovere, il loro difficilissimo ed ingrato mestiere, aggiunge ogni giorno sassi scagliati senza il benché minimo sentimento di misura, di rispetto della verità, e di senso del pudore. Stando alla solita filiera mediatico-giudiziaria dei guardiani della ortodossia politica, etica e legalitaria che imperversa senza freni nel nostro Paese, dobbiamo allora necessariamente presumere che magistrati di Sorveglianza da sempre ansiosi di sguinzagliare liberi ed impuniti per il Paese mafiosi, ndranghetisti, terroristi e criminali di ogni genere e natura, abbiano colto la ghiotta occasione della pandemia per realizzare finalmente la turpe missione alla quale hanno votato la propria toga. Occorrerebbe almeno che ci venisse data una spiegazione. Chi sarebbero, costoro? Giudici imbelli? Ricattati? Corrotti? Intimoriti? Sodali di quei criminali? Mi rendo conto che riuscire a ottenere una risposta, o almeno avviare una riflessione, mentre fischiano i sassi di questa indignazione berciante, protetta da un conformismo protervo e stomachevole, è impresa impossibile. E tuttavia, mentre puntuali giungono le notizie di ispezioni e tonitruanti riforme normative di stampo poliziesco, nemmeno è possibile rassegnarsi, tacendo di fronte a questo spettacolo indecoroso, indifferente ai fatti. Che sono due. Il primo riguarda un signore che ha espiato pressoché per intero la pena inflitta di poco più di 14 anni di reclusione, per gravi fatti di estorsione e altri reati connessi di stampo mafioso. Detratta l’ultima quota di sicura liberazione anticipata (ha già fruito legittimamente delle precedenti), sarebbe uscito dal carcere tra otto mesi. Senonché, ha un cancro al colon in uno stadio che -apprendiamo- il Tribunale di Sorveglianza ha accertato essere talmente avanzato da determinare una condizione di incompatibilità con il permanere (per quei residui otto mesi) in carcere. Gli indignados che straparlano di inaudito cedimento al ricatto mafioso hanno dunque notizia che tale condizione sia falsa, o pretestuosa, o ingigantita ad arte? Non ho letto nulla del genere; non una tra quella pioggia di vituperanti e fiammeggianti parole di sdegno si è soffermata su questa senz’altro allarmante ipotesi. Nemmeno ci viene spiegato cosa cambierebbe, per la sicurezza sociale messa così irresponsabilmente in pericolo, l’anticipazione di qualche mese di quella libertà che il detenuto avrebbe comunque e definitivamente riguadagnato tra una manciata di settimane. Perché vi comunico una notizia su come funzionano le cose: perfino un mafioso, quando ha scontato la pena inflittagli, ritorna libero tra di noi. Oddio, i guardiani della pubblica moralità potrebbero cogliere l’occasione per proporre il carcere a vita per qualunque reato di mafia, e questo – mi diano retta – è il governo giusto per provarci con successo. Nel frattempo tuttavia le cose funzionano come vi ho detto. Il secondo è un condannato per fatti di camorra che ha un cancro alla vescica, giunto a uno stadio che richiede cure specialistiche indisponibili nel carcere dove attualmente è ristretto. Il Tribunale chiede formalmente al Dap di indicargli altra struttura detentiva attrezzata all’uopo, dove trasferire il malato. Il Dap non risponde, e dopo oltre venti giorni di silenzio il Giudice di Sorveglianza, al quale non possiamo chiedere né di cancellare d’imperio il diritto alla salute del detenuto, né di assumersi responsabilità gravissime e personali, lo scarcera perché possa curarsi.In quale modo, per quale ragione minimamente seria e credibile si deve immaginare che un Paese civile possa crocefiggere quei giudici? Occorre allora rassegnarsi a un dato di fatto: esistono magistrati di serie A e magistrati di serie B. Magistrati che quando arrestano 400 persone vengono portati in trionfo, senza attendere di sapere (e sarebbe decisamente il caso) se e quanti di quegli arrestati saranno poi giudicati effettivamente colpevoli; e magistrati che amministrano la giustizia convinti di dover rispettare anche quella regola secondo la quale il diritto alla salute di un detenuto per mafia vale quanto il diritto alla salute di chiunque di noi. Se osi dire una parola sui primi, sarai crocefisso; se lanci la prima pietra sui secondi, seguirà linciaggio di massa, e l’immancabile decreto-legge: per aumentare il potere dei primi, guarda caso.

Chi è Roberto Tartaglia, il "commissario" Dap che a 10 anni indagava su Riina…Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Il capo del Dap, Francesco Basentini, ormai è delegittimato. Messo alla porta prima da Renzi, poi da Giletti, poi dai davighiani, poi da Bonafede. Renzi aveva chiesto che fosse rimosso per via dei 13 morti in carcere durante la rivolta. È caduto invece per ragioni opposte: hanno scaricato su di lui la colpa di avere consentito la scarcerazione di due detenuti in fin di vita. Si sa che i moribondi si tengono in cella, che diamine! ‘Sto Basentini deve aver confuso l’Italia con un Paese civile. Sciò.  Non lo hanno ancora sostituito ma lo hanno commissariato. La biografia del commissario, cioè di questo ex Pm Tartaglia, è riassumibile in poche parole: allievo di Di Matteo. Di Matteo sarebbe quel membro del Csm che ha accusato la sua collega milanese che aveva scarcerato un detenuto ottantenne, più o meno, di “intelligenza con la mafia”. Cioè di avere ceduto al ricatto. Diciamo, a occhio, favoreggiamento. Di Matteo è l’ex Pm che credette al pentito Scarantino, che si era inventato tutto (o era stato imbeccato) e in quel modo mandò a puttane le indagini sull’uccisione di Borsellino. Di Matteo è quello che ha dato l’anima per mandare a processo il generale Mori, cioè uno dei pochi che dopo la morte di Falcone ha proseguito la sua opera di lotta alla mafia, giungendo, dopo 30 anni di latitanza, all’arresto del capo della mafia, cioè di Riina. A Tartaglia non possono essere addebitate le responsabilità del suo maestro, ovvio. Ma se volete indovinare la sua dottrina serve conoscere il suo maestro. È quella squadra lì. E infatti un altro grande eroe dell’antimafia professionale, Nicola Morra, 5 Stelle doc, ha esultato per la sua nomina, peraltro avvenuta per decisione del ministro cinquestellissimo, Bonafede. Per la verità, nella biografia ufficiale di Roberto Tartaglia, diffusa anche dall’Ansa, c’è scritto che ha indagato sui corleonesi di Totò Riina e ha svolto indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. Vabbè: Riina è stato catturato (dal generale Mori, cioè quello che Tartaglia ha contribuito a mettere sotto processo) nel gennaio 1993: Tartaglia aveva 10 anni. Quinta elementare. E Messina Denaro, se non siamo male informati, è ancora libero. Ecco: le carceri ora sono in mano a questo qua. Al “piccolo Di Matteo”. Chi di noi mai avrebbe pensato che dopo nemmeno due anni avremmo rimpianto lacrimando i tempi di Orlando come tempi di ipergarantismo? Quante critiche ingiuste a quel povero ministro! (Magari, se oggi dicesse qualche parola liberale anche lui non sarebbe male…). Oggi la situazione è questa. I rosso-bruni marciano trionfanti nei palazzi della politica e in quelli della Giustizia. Sembrano inarrestabili. Avanzano senza paura di nessuno, e la gran parte di quelli che in passato si era un po’ opposta, ora gli va dietro. Tartaglia negli ultimi tempi ha fatto il consulente di Morra all’antimafia. Volete che vi parli due minuti di Morra? Beh, basta dare un’occhiata all’auto-intervista (1) che ha fatto pubblicare ieri dalla Stampa. In questa auto-intervista ci sono due perle. La prima, di tipo squadrista, sono le minacce ai pochi giornalisti, agli avvocati, e ai pochissimi politici che si sono battuti per l’indulto o per qualche misura di riduzione del numero dei carcerati (forse nella lista dei nemici Morra ha segnato anche il Papa e il Presidente della Repubblica). Minacce generiche ma pesanti. Sembra di capire che Morra voglia usare l’antimafia per indagare su di loro (su di noi). Indagare per che cosa? Beh, un concorso esterno non si nega a nessuno. La seconda perla è clamorosa. Morra dice che i mafiosi non devono essere scarcerati mai perché sono prigionieri di guerra. Oddio, prigionieri di guerra? Ma lo sa Morra che se sono prigionieri di guerra vanno trattati da prigionieri di guerra? Che vuol dire? Innanzitutto che è proibito chiedergli informazioni, e dunque tutte le dichiarazioni dei pentiti dal 1981 a oggi sono illegali e prive di valore e tutti i processi di mafia vanno annullati. Quelli passati, quelli presenti, quelli futuri. Il pentitismo è finito. Bisogna tornare a fare indagini e raccogliere prove. Un vero disastro. Poi che i detenuti per mafia non possono essere isolati, e quindi salta il 41 bis. Devono essere trattati alla stregua di ufficiali dell’esercito regolare. E sul loro trattamento deve vagliare la Croce Rossa Internazionale. È anche possibile la richiesta che siano consegnati a uno stato neutrale. Questo povero Morra, diciamo la verità, di politica e di storia ne sa poco (insegnava filosofia, credo…), è finito lì in Parlamento un po’ per caso nell’andata degli uno-vale-uno. Ne può combinare di guai. Il problema è che uno degli aspetti più delicati nella vita di una nazione democratica, e cioè l’aspetto carcerario – e anche quello della giustizia – sono affidati a lui, a Bonafede, a Tartaglia e a gente così. Capite? 

Roberto Tartaglia è l’erede di Francesco Di Maggio, il magistrato del "pentitificio". Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Aprile 2020.

2020. Un governo debole, un guardasigilli debolissimo, un capo del Dipartimento penitenziario inesistente. Che si fa? Si mette un uomo forte al fianco di uno debole. Ecco spuntare dal cilindro del ministro di giustizia Alfonso Buonafede il nome del pubblico ministero Roberto Tartaglia, uomo forte perché proviene dalla cantéra del prode Di Matteo e perché ha partecipato al banchetto del farsesco processo “trattativa” Stato-mafia. Tartaglia viene nominato al Dap come vice di Francesco Basentini, cui il ministro non vuol rinunciare, ma che viene messo a balia perché si faccia una cultura “antimafia”, in cui evidentemente è deboluccio. Il che significa non scarcerare più nessuno che sia sfiorato dai reati di mafia, neanche i vecchi moribondi. Chissà se tra 25 anni, al prossimo processo “trattativa” istruito dai nipotini di Di Matteo, Bonafede, Basentini e magari anche Tartaglia saranno immeritatamente ricordati come quelli che hanno scarcerato i boss per fare un favore alla mafia. Impossibile? Ma è quel che è capitato venticinque anni fa al più duro e intransigente vicepresidente del Dap, il più entusiasta applicatore del 41bis, Francesco Di Maggio.

1993. Il 29 aprile aveva votato il governo Ciampi, debole perché tecnico e destinato a segnare la fine della prima repubblica dopo nove mesi. Guardasigilli era un altro tecnico, Giovanni Conso, giurista raffinato ma inadatto a gestire la giustizia nei momenti tragici che seguirono la stagione delle stragi di mafia e il circo di tangentopoli. Alla presidenza del Dap un altro tranquillo magistrato, Alberto Capriotti. La confusione era totale, quando arrivò nella veste, solo apparente, di vice, Francesco Di Maggio, preceduto da un grande successo milanese, la resa del Talebano, quell’ Angelo Epaminonda che diventerà il primo pentito di mafia a Milano. Il pm milanese sapeva giocare con le carceri speciali e il 41bis come su una scacchiera. Dopo il suo arrivo al Dap, ben presto ci fu un uso spropositato dei “colloqui investigativi”, incontri riservati di funzionari di polizia con singoli detenuti, senza nessun controllo di magistratura. Quelli di Di Maggio si svolgevano in totale riservatezza, in locali con vetri affumicati e porte sprangate. Dopo l’incontro il detenuto cambiava velocemente luogo e regime di detenzione, scappava quasi senza i suoi vestiti e presto conquistava la libertà.

Francesco Di Maggio costruì un vero “pentitificio”. Pure, nella storiografia di chi apparentemente ha vinto, cioè quella di Travaglio-Ingroia-Di Matteo, e anche di Tartaglia che all’epoca aveva undici anni, il duro diventa il molle, quello che – e non se ne capisce il perché – il gentiluomo Conso avrebbe collocato al Dap per scarcerare i mafiosi. Bisognerebbe conoscerla bene la storia. E magari esserci stati. Successe che, verso la fine di quell’anno, un governo agli sgoccioli, fece quel che da tempo chiedeva non la mafia, come pensano gli imberbi storiografi, ma decine di giudici di sorveglianza e cappellani carcerari, oltre che un’opinione pubblica sconvolta dai racconti sulle torture perpetrate nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Non furono rinnovati 373 casi di 41bis. Non c’era nessun boss trai detenuti che fruirono del provvedimento, ma in gran parte reclusi che non appartenevano neanche ad associazioni mafiose ma che erano stati rastrellati e gettati nelle carceri speciali nel furore disordinato e un po’ impazzito del dopo-stragi. Una sorta di compensazione a qualche ingiustizia, insomma. Ma che è diventata la base del processo “Trattativa”. Di Maggio non c’entrava niente in quell’iniziativa del ministro Conso. E solo la morte nel 1996 a soli 48 anni lo salverà da una gogna che lo aspettava nella passerella del processo. La sua permanenza al Dap del resto durerà poco, perché dopo lo scioglimento delle Camere e l’arrivo del governo Berlusconi, alla giustizia si troverà il ministro Alfredo Biondi e l’incompatibilità tra i due sarà subito palese. Lo scontro arriverà nell’estate, al meeting di Comunione e Liberazione. Dove Di Maggio, nell’annunciare le proprie dimissioni, lascerà una sorta di testamento al cui centro pose proprio l’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario come fondamentale. In quaranta minuti di discorso attaccherà con forza “garantisti vecchi e nuovi” e ricorderà a proprio merito «il rapporto tra detenuti sottoposti a regime differenziato ex articolo 41 bis e numero di collaborazioni processuali in delitti di mafia importanti». Il pentitificio, insomma. E citerà a titolo di esempio proprio il pentimento di due indagati per l’assassinio di Paolo Borsellino. Uno dei due è il falso collaboratore Enzo Scarantino.

2020. Il Csm ha convalidato la vicepresidenza al Dap del pubblico ministero Tartaglia che, proprio nei giorni in cui si ha notizia che in breve tempo nelle carceri sono quadruplicati i casi di detenuti positivi al Covid-19, avrà il compito di fare il duro, di sorvegliare che qualche magistrato non disponga la liberazione di vecchi e malati. Ma sarà difficile che, essendo cresciuto nella bambagia del “processo trattativa”, possa mai raggiungere la statura di un vero repressore quale è stato Francesco Di Maggio.

Dap, Roberto Tartaglia "commissaria" lo sfiduciato Basentini. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2020. È la mossa della disperazione: “commissariare” Francesco Basentini in vista del suo avvicendamento e salvare la propria poltrona a via Arenula. Dopo giorni di polemiche ferocissime, Alfonso Bonafede ha dunque scelto la linea dura per tranquillizzare l’elettorato giustizialista e Marco Travaglio che temono un cedimento nella gestione delle carceri. Il “commissario” è il pm del pool del processo Trattativa Stato-mafia Roberto Tartaglia. 38enne, napoletano, dieci anni di servizio in magistratura e zero esperienza in tema di sorveglianza. Ieri da via Arenula è partita la richiesta al Csm per il suo collocamento fuori ruolo con l’incarico, al momento, di “vice capo” del Dap. Con la nomina di Tartaglia, Bonafede spera di allentare la tensione su Largo Daga. Basentini, infatti, era stato graziato il mese scorso quando nelle carceri erano scoppiate sanguinose rivolte che avevano provocato 13 morti fra i detenuti, centinaia di feriti, maxi evasioni. Il Dap, e il Ministero della giustizia, erano stati accusati di non avere avuto un piano, scoppiata l’emergenza sanitaria, per contrastare la diffusione del Coronavirus con misure idonee per ridurre il sovraffollamento carcerario, coinvolgendo anche la magistratura di sorveglianza. Bonafede aveva scaricato la responsabilità di quanto accaduto sui singoli direttori, su alcune circolari, sulla burocrazia. La stessa burocrazia che, ad esempio, avrebbe impedito al Guardasigilli e a Basentini di conoscere le determinazioni dei Tribunali di sorveglianza a proposito dei recenti differimenti pena per motivi sanitari di alcuni detenuti al 41bis. Quella di Basentini, già procuratore aggiunto di Potenza, fu una delle prime nomine del Guardasigilli grillino appena insediatosi. Senza alcun trascorso specifico in materia penitenziaria, il magistrato lucano aveva allora uno sponsor potentissimo: Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm e ras di Unicost, la corrente di centro delle toghe di cui Basentini era il plenipotenziario in Basilicata. Legato al pm Luigi Spina, togato del Csm vicinissimo a Palamara e poi travolto nello scandalo sulle nomine dell’anno scorso, Basentini è stato “scaricato” dalla sua corrente. I vertici di Unicost, all’indomani degli attacchi al Dap, si sono limitati a diramare un generico comunicato stampa in cui invitavano la politica a risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. Dopo lo tsunami della scorsa estate, con due consiglieri dimissionari su cinque (Spina e il giudice Pierluigi Morlini), Unicost ha iniziato a perdere pezzi, subendo i diktat della nuova maggioranza al Csm, il binomio Area-Davigo, per non rimanere con la bocca asciutta nella partita delle nomine. L’obiettivo è contenere i “danni” nei prossimi due anni, fino a quando si tornerà a votare per il rinnovo del Csm. Sotto assedio da mesi, Unicost sta vedendo cadere, per vari motivi, molti dei propri esponenti di punta. Fra le toghe di centro costrette a lasciare recentemente l’incarico, il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Il terrore per i togati di Unicost è che la mannaia possa abbattersi anche su coloro che, nominati nella scorsa consiliatura del Csm, devono essere a breve valutati a Palazzo dei Marescialli per la riconferma nell’incarico. Ma la debolezza di Unicost, che sotto la gestione Palamara riusciva a imporre i vertici dei più importanti uffici giudiziari, rischia di penalizzare Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, molto esposta in questi giorni per impedire la diffusione del coronavirus nelle carceri lombarde. Fino a qualche mese fa il suo nome era in pole position per sostituire Marina Tavassi, presidente della Corte d’Appello di Milano, in procinto di andare in pensione per raggiunti limiti di età. Difficile, però, che nel clima di caccia alle streghe che si sta creando intorno alle carceri, Di Rosa possa essere votata dal Csm. Di Matteo, il magistrato preferito dai grillini e da Travaglio, ha sparato a zero, nel silenzio delle toghe di sinistra di Area, contro i provvedimenti di scarcerazione dei detenuti al 41bis disposti dalla Sorveglianza di Milano, paragonandoli a un cedimento “alla mafia”. L’ultima parola in questa complessa partita spetterà, ancora una volta, al tandem Davigo-Cascini a cui il nome di Tartaglia come prossimo capo del Dap potrebbe comunque andare bene.

Scarcerazioni, Travaglio e Bonafede impongono la linea al PD che china la testa. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Maggio 2020. Il Pd si allinea perfettamente ai 5 Stelle sulle carceri. Ieri ha diffuso una nota congiunta dei suoi tre massimi esponenti, nel campo della giustizia, nella quale china la testa in modo plateale alla prepotenza degli alleati. Sia per quel che riguarda il decreto che delegittima i giudici di sorveglianza, ponendoli sotto la supervisione della Procura antimafia e dei Pm, sia per la nomina del nuovo vice del Dap, scelto da Bonafede e Morra (cioè dai due leader dei Cinque stelle in tema di giustizia), e allievo prediletto dell’ex Pm Di Matteo. Si chiama Roberto Tartaglia ed è un giovane magistrato che non ha nessuna esperienza di carceri e che nella sua carriera può vantare solo la partecipazione al processo sulla trattativa Stato-mafia, quello basato sulla teoria complottista (di Ingroia e Di Matteo) che già è stata smontata in almeno altri tre processi. Gli autori della nota congiunta del Pd – Verini, Mirabelli e Bazzoli – non reagiscono in nessun modo neanche alle dichiarazioni gravissime di Di Matteo (che ha accusato il tribunale di sorveglianza di Milano di essere sotto il ricatto della mafia) e accettano con tranquillità il nuovo corso, con tutto il potere ai Pm in nome della lotta alla mafia. È un passaggio molto impegnativo per il Pd, che negli ultimi anni aveva avuto qualche tentazione “garantista”. In questo frangente fa la scelta opposta: sacrifica ogni principio del diritto sul tavolo del compromesso coi 5 Stelle. I quali hanno partita vinta e dimostrano di avere carta bianca sul terreno della giustizia, così come l’hanno avuta qualche mese fa quando si era aperto il fronte della prescrizione. Sull’altro versante, diciamo sul versante della difesa della Costituzione, le forze schierate sono pochine. Ieri sono tornate in campo le Camere penali con una nota durissima di condanna per il decreto che blinda le porte delle carceri e delegittima la magistratura di sorveglianza. Per il resto è un gran silenzio. L’impressione è che Travaglio e Bonafede abbiano vinto la partita.

Dap, Basentini non accetta commissariamento di Tartaglia e sbatte la porta. Redazione su Il Riformista l'1 Maggio 2020. Francesco Basentini ha presentato ieri le dimissioni da Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). La notizia, non ancora confermata dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede, è iniziata a circolare ieri, in tarda serata, quando, su Facebook, il senatore della Lega Stefano Candiani ha postato un video in cui ha annunciato le dimissioni del capo dell’amministrazione penitenziaria. “Siamo riusciti a ottenere oggi le dimissioni del direttore del Dap. È il primo che paga il conto che ora deve passare a Bonafede“, dice il ricordando la vicenda delle scarcerazioni dei boss. In mattinata arrivano anche le reazioni di Italia Viva: “Si rincorrono voci, non confermate, sulle dimissioni del Capo dell’amministrazione delle carceri, Basentini. Italia Viva le ha chieste pubblicamente da tempo. Sarebbero un gesto necessario anche se tardivo. Bonafede proponga come nuovo capo una figura saggia e autorevole”, scrive Maria Elena Boschi. Di segno uguale anche il commento di Gennaro Mgliore: “Sono sempre più insistenti le voci delle possibili dimissioni del Capo Dap Basentini. Come Italia Viva le chiediamo da tempo. Si risponda alle urgenti necessità di sicurezza e affidabilità di una amministrazione che merita, oggi più di ieri, una guida autorevole e qualificata“. Più tardi arriva una nota del capo della Lega Matteo Salvini, che chiede un passo indietro del Guardasigilli: “Le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera. Il ministro Bonafede è il primo responsabile: dimissioni! Secondo notizie circolate negli ultimi giorni la scelta del successore di Basentini potrebbe ricadere su Nino Di Matteo, una decisione anticipata dalla nomina di Roberto Tartaglia come vice di Basentini.

Massimo Giletti ha vinto: Basentini si dimette dal Dap. Il drammatico scontro telefonico a Non è l'Arena. Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. "Ma ci prendiamo in giro?". Massimo Giletti, nell'ultima puntata di Non è l'Arena, arrivò al punto di aggredire verbalmente Francesco Basentini, capo del Dipartimento di Amministra penitenziaria, a tal punto era indignato per la serie di ritardi burocratici e reticenze nel Dap che hanno portato alla scarcerazione del camorrista Pasquale Zagaria, boss dei Casalesi. Uno scandalo che ha portato a sviluppi clamorosi: anche a seguito del caso sollevato da Giletti, Basentini si è dimesso. A confermarlo è il Corriere della Sera, ricordando come a scatenare le polemiche sul caso sia stato proprio il ritardo con cui il Dap ha risposto alla richiesta del Tribunale di Sorveglianza di Sassari su come comportarsi di fronte all'aggravamento delle condizioni di salute del boss con conseguente richiesta di scarcerazione. Le alternative al ritorno a casa c'erano, ha ricordato Giletti in puntata, prima di lasciarsi andare a un devastante sospetto proprio col Corriere: "Non penso a trattative, ma mi colpisce il silenzio dei mafiosi in cella". "Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate ma fanno male al dipartimento", avrebbe detto Basentini in un incontro avvenuto ieri col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, secondo fonti di via Arenula riportate dal Corsera. Basentini di fatto era già stato commissariato dal ministro, che ora potrebbe affidare la sua poltrona a Nino Di Matteo, anche perché il vice di Basentini  Roberto Tartaglia è molto vicino al magistrato siciliano. 

Giustizia, Basentini si è dimesso dai vertici del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il fuoco di fila sull'ormai ex capo del Dap era iniziato a marzo con le rivolte nelle carceri che hanno portato alla morte di 14 persone e una clamorosa evasione di massa a Foggia. Leo Amato su il Quotidiano del Sud l'1 maggio 2020. Si è dimesso ieri sera dai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’ex pm potentino Francesco Basentini. Il passo indietro è maturato ieri sera dopo che anche il Pd si è accodato alle pressanti richieste di rimozione partite dall’opposizione e cavalcate, all’interno della maggioranza, dall’ex premier Matteo Renzi e i suoi fedelissimi, mai dimentichi della sua firma sull’inchiesta Tempa Rossa, che nel 2016 segnò l’inizio del declino per il politico fiorentino. Il fuoco di fila sull’ormai ex capo del Dap era iniziato a marzo con le rivolte nelle carceri che hanno portato alla morte di 14 persone e una clamorosa evasione di massa a Foggia. Quindi si è intensificato a seguito degli arresti domiciliari concessi dai Tribunali di sorveglianza di mezza Italia, per il rischio sanitario, a diversi detenuti in condizioni precarie, tra i quali diversi nomi “eccellenti” del crimine organizzato come il casalese Pasquale Zagaria, fratello del più noto Michele. Scarcerazioni accompagnate da un duro scambio di accuse tra il Dap, a cui è stato contestato di aver emanato una circolare in cui si invitavano i direttori delle carceri a segnalare i detenuti in condizioni sanitarie a rischio, e i magistrati di sorveglianza. Basentini era stato scelto due anni fa dal ministro M5s della giustizia Alfonso Bonafede per guidare l’amministrazione penitenziaria. Martedì, dopo che le polemiche per le scarcerazioni erano tornate ad accendersi in televisione dalle frequenze di La7 con una violenta invettiva di Massimo Giletti, era arrivata la nomina di un vice alla guida del Dap, Roberto Tartaglia, per 10 anni in servizio nell’antimafia di Palermo. A gennaio Basentini si era conquistato la fama di “punitore” anche tra alcuni sindacalisti della polizia penitenziaria dopo aver licenziato 5 agenti scoperti a suonare al matrimonio di un noto cantante neo-melodico napoletano e della vedova di un boss di camorra. “Le dimissioni di Basentini sono tardive ma giuste”. E’ stato il commento a caldo alla notizia dell’ex ministro renziano Maria Elena Boschi, che ha rivendicato come Italia viva le avesse invocate “pubblicamente in tutte le sedi”. “Le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera”. Così il leader della Lega Matteo Salvini, che ha rilanciato la richiesta di dimissioni anche di Bonafede. “Con le sue dimissioni da responsabile del Dap il dottor Basentini ha compiuto un gesto giusto e non inatteso, di cui gli va dato atto”. Ha scritto in una nota il deputato e responsabile giustizia del Pd Walter Verini. “Nel momento drammatico delle rivolte e delle morti in carcere e delle pericolosissime punte di sovraffollamento non ci eravamo accodati alle voci di chi chiedeva dimissioni immediate. In quel momento bisognava solo lavorare per spegnere gli incendi. Oggi i detenuti sono circa 53.000. Anche se ancora troppi, non sono i 61.000 di un mese fa. Poi c’è stata la brutta vicenda delle scarcerazioni di alcuni boss mafiosi e anche in questa vicenda il Dipartimento ha mostrato alcune lacune. Per questo anche come Pd abbiamo da qualche giorno posto il problema di una riflessione seria sul funzionamento del vertice del Dap. Le dimissioni del dottor Basentini possono aiutare il lavoro di rafforzamento per una gestione dell’Ordinamento Penitenziario fondata sui principi fissati dalla Costituzione: pena certa, trattamenti umani, percorsi di recupero e reinserimento per non tornare a delinquere. Dopo la significativa nomina a vice del dottor Tartaglia, ci aspettiamo adesso per il ruolo di Responsabile una figura autorevole, capace e all’altezza della delicata situazione”.

Dimissioni Basentini, Nessuno Tocchi Caino: “Ha pagato l’essere un antimafioso poco furioso". Redazione su Il Riformista l'1 Maggio 2020. L’associazione Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem, sulla notizia delle dimissioni da capo del DAP di Francesco Basentini, con gli esponenti Rita Bernadini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti ha dichiarato quanto segue: “Con Francesco Basentini non abbiamo mancato di polemizzare, aiutandolo, durante il tempo della sua presidenza del DAP, né di segnalare i casi più gravi legati alle condizioni di detenzione nelle carceri sovraffollate del nostro Paese. Detto questo, le sue dimissioni non sono altro che il risultato dell’inasprimento di una linea, sempre più sguaiata e compulsiva, che in questi ultimi mesi si vorrebbe imporre su tutto e a tutti. Troppo anche per Francesco Basentini, da sempre ‘antimafioso’, ma non abbastanza furioso quanto lo sono quelli in voga oggi, per i quali la lotta alla mafia deve essere una guerra senza quartiere, da condurre all’insegna della terribilità e anche in deroga a principi costituzionali fondamentali e diritti umani universali, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona. Le Erinni dell’Antimafia, della Certezza della Pena, del Fine Pena Mai, non abitano solo in via Arenula, popolano anche il mondo della politica e dell’informazione. In quest’ultimo, fanno eccezione Il Riformista diretto da Piero Sansonetti totalmente dedito a una straordinaria campagna politica e culturale garantista; fanno eccezione anche Carlo Fusi, Errico Novi e Damiano Aliprandi per la loro meritoria opera di informazione dalle pagine de Il Dubbio. Consola poi leggere e ascoltare gli interventi, a tutela della Costituzione e a garanzia dei diritti di giustizia e libertà, di alte magistrate come Marta Cartabia, Presidente della Corte Costituzionale, Giovanna di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano e, ancora, di Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di Sorveglianza, così come di Alessandra dal Moro, componente del CSM, tutte donne capaci, nel dialogo anche con le Erinni, di contenerle, porre loro un limite e volgerle al bene, preservando così il senso autentico del Diritto che è volto a evitare che l’individuo, detenuto o libero che sia, sia ridotto a mero oggetto di consumo, da usare e di cui abusare”.

E’ Dino Petralia il nuovo capo del Dap. Il Dubbio il 2 maggio 2020. Magistrato antimafia amico di Giovanni Falcone, è stato scelto oggi dal ministro Alfonso Bonafede in sostituzione del dimissionario Basentini. A sorpresa il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha scelto Dino Petralia come nuovo capo del Dap. La nomina arriva dopo le dimissioni del precedente vertice, Francesco Basentini, travolto dalle critiche dopo la messa ai domiciliari di alcuni boss. Dino Petralia, magistrato antimafia che era con Giovanni Falcone nel Movimento giustizia, è stato pm a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Dal 2006 al 2010 è stato membro del Csm, con la corrente che oggi è nel gruppo Area insieme a Magistratura democratica. L’anno scorso era stato accreditato come possibile successore alla Procura di Torino di Armando Spataro, ma Petralia ha rinunciato alla candidatura quando il suo nome è finito nelle carte del caso Palamara che ha sconvolto il Csm. In quell’occasione ha dichiarato: “Per me è insieme un momento di grande amarezza ma anche un recupero di serenità. Al danno si è aggiunta la beffa, ma non sono disponibile a sporcare la mia dignità”.

È Dino Petralia, da sempre toga antimafia, il nuovo capo delle carceri scelto da Bonafede. Dino Petralia con la moglie Alessandra Camassa anche lei magistrato. Amico di Falcone, con lui nel Movimento giustizia, Petralia ha lavorato a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Al Csm ha contestato le leggi di Berlusconi. L'anno scorso ha ritirato la sua candidatura a procuratore di Torino perché Palamara, Lotti e Ferri avevano fatto il suo nome. Liana Milella il 02 maggio 2020 su La Repubblica. En plein antimafia al vertice delle carceri. Come segnale netto contro chi addebita al governo la responsabilità di aver messo ai domiciliari dei boss. A sorpresa il Guardasigilli Alfonso Bonafede sceglie come nuovo capo Dino Petralia, una vita spesa nella lotta alle cosche e, nello stesso tempo, nell'approfondimento giuridico per garantire una giustizia giusta. La vita di Petralia va tutta in una direzione, dalla parte dello Stato contro chi ne viola le leggi. Contro la mafia, senza indulgenze di sorta, ma nel pieno rispetto della Carta e delle leggi che ne originano. Bonafede, che ormai da giorni rifletteva sul nuovo incarico, ha chiuso la partita il primo maggio. Il Guardasigilli ha incontrato e insediato al Dap il vicedirettore Tartaglia. Su Petralia dice solo poche parole dopo la conference call con il premier Giuseppe Conte: "In attesa della risposta del Csm (che deve autorizzare il suo fuori ruolo, ndr.) posso solo dire che si tratta di un magistrato che ha speso la sua vita per la giustizia e la lotta alla mafia". A Petralia arrivano anche le lodi da ex collega di Piero Grasso che parla di "ottima scelta" e di un magistrato "serio e competente" che, con il vice Tartaglia, "saprà affrontare con rigore e nel rispetto dei diritti il delicato tema delle carceri". En plein perché accanto a Petralia ci sarà come vice l'ex pm antimafia Roberto Tartaglia, già scelto da Bonafede tre giorni fa. Un team che sostituisce il dimissionario Francesco Basentini e che taglia le polemiche politiche sulle recenti scarcerazioni dei boss (Zagaria, Bonura, Iannazzo e altri) decise dai magistrati di sorveglianza, ma addebitate politicamente allo stesso Bonafede. Il quale ha comunque avviato, per il via libera a Zagaria, un'indagine ministeriale. Stamattina Tartaglia prende ufficialmente possesso dell'incarico di vice direttore, e subito dopo la stretta di mano con il Guardasigilli andrà al Dap. Tra i due, Petralia e Tartaglia, il rapporto è ottimo, perché entrambi hanno lavorato a Palermo, Tartaglia pm e Petralia procuratore aggiunto. Di più: Tartaglia lavorava nel pool sulla corruzione, di cui Petralia era il diretto coordinatore. È la prima volta che la scelta di un vertice cade su due figure già in stretto rapporto tra di loro, che quindi possono garantire una guida concordata.  Ma vediamo chi è Petralia e qual è stata la sua carriera. Sempre elegantissimo e curato nei dettaglia, Bernardo Petralia, Dino per gli amici e di fatto per tutti, classe 1953, è un siciliano ma di madre ligure. Inizia il suo lavoro di magistrato a Trapani dove lavora in procura con Giacomo Ciaccio Montalto, il magistrato ucciso dalla mafia. Come racconta il sito nonsiamofannulloni, it, che pubblica la sua biografia e anche la foto che vi proponiamo, assieme alla moglie Alessandra Camassa, anche lei magistrato e oggi presidente del tribunale di Marsala, Petralia proprio a Trapani "scopre la più grande raffineria di droga di cui si servivano le famiglie mafiose". Nel 1985 si trasferisce a Sciacca dove, come giudice istruttore, istruisce il primo processo contro le cosche in cui utilizza i pentiti storici di Cosa nostra, da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno a Pietro Calderone. Nel 1990 eccolo al tribunale di Marsala come giudice, prima civile e poi penale, dove presiede il collegio dei primi processi di mafia celebrati con il nuovo codice. A soli 43 anni, nel 1996, diventa procuratore di Sciacca, dove resta per dieci anni fino alla sua nomina nel 2006 a consigliere del Csm. Di quel periodo si ricordano le misure patrimoniali, in particolare una da 400 miliardi di vecchie lire, tra le più cospicue che siano mai state fatte. Al Csm la corrente di Petralia è il Movimento per la giustizia, il gruppo che aveva tra i fondatori Giovanni Falcone e che nell'attuale Consiglio figura nel gruppo di Area assieme a Magistratura democratica. Dal 2006 al 2010, al Csm negli anni caldi delle leggi ad personam di Berlusconi e Angelino Alfano. Petralia non si tira indietro dai richiami alla Costituzione e alla necessità di rispettarla. Quando il suo quadriennio finisce non cerca un posto di vertice negli uffici giudiziari che pure gli spetterebbe visto che è stato procuratore, ma torna a fare il semplice pubblico ministero a Marsala, per poi passare a Palermo nel 2013 come procuratore aggiunto. Tre anni fa eccolo conquistare il ruolo di procuratore generale a Reggio Calabria. Poi, a giugno dell'anno scorso, quando era il più accreditato possibile successore al posto di procuratore a Torino dopo Armando Spataro, ecco la sua immediata rinuncia e il ritiro della candidatura quando il suo nome finisce nelle carte di Perugia del caso Palamara e le intercettazioni svelano che proprio Palamara, Cosimo Maria Ferri, parlamentare Pd oggi renziano ed ex leader di Magistratura indipendente, e il renziano e oggi Pd Luca Lotti, ovviamente a sua insaputa, erano a suo favore.  In quell'occasione ad Alessandra Ziniti di Repubblica Petralia dice: "Per me è insieme un momento di grande amarezza ma anche un recupero di serenità. Al danno si è aggiunta la beffa, ma non sono disponibile a sporcare la mia dignità".  Basentini ha salutato i suoi collaboratori giovedì sera dicendo che "tornava a Potenza", la città dov'è stato pm  e dove ha seguito anche l'inchiesta Tempa rossa. Questo ha fatto trapelare ieri mattina la notizia, annunciata dal segretario del Sappe Donato Capece. Una decisione assunta dopo un colloquio con Bonafede, che si è concluso con le sue dimissioni. Subito dopo le rivolte di febbraio in ben 27 penitenziari italiani, concluse con il tragico bilancio di ben 14 morti e 35 milioni di euro di danni, nonché il carcere di Modena completamente distrutto e inagibile, Bonafede aveva cominciato a pensare a una sostituzione di Basentini, non realizzata subito, nonostante le pressioni dell'opposizione di centrodestra e le richieste espresse dei renziani, perché riteneva di non mettere mano al vertice in un periodo di crisi. Poi il Covid e le scarcerazioni dei boss dopo una circolare sugli over 70 del vertice del Dap, hanno fatto precipitare la situazione. In particolare a far rumore è stato, a Sassari, il caso della concessione dei domiciliari al boss della camorra Pasquale Zagaria. Petralia arriverà a Roma la prossima settimana. Tartaglia è già al Dap da oggi. E oggi comincia una sfida sulle prigioni italiane dopo le rivolte di febbraio, le scarcerazioni di numerosi mafiosi, le polemiche su Basentini. Conoscendo i due magistrati si può già immaginare quale sarà la loro linea: nessuna concessione ai mafiosi e ai detenuti al 41 bis, ma un carcere comunque giusto, senza soprusi, né violenza.

Il governo dà le carceri al magistrato anti Cav che incriminò i 5 Stelle. Al posto di Basentini (licenziato) arriva il procuratore generale di Reggio Calabria. Luca Fazzo, Domenica 03/05/2020 su Il Giornale.  Sessantamila detenuti sull'orlo della crisi di nervi, i sindacati degli agenti in polemica permanente, il coronavirus contenuto a fatica nei reparti di isolamento, penitenziari dove i malavitosi si fanno recapitare i telefonini col drone all'ora d'aria. Insomma: per andare a dirigere le carceri italiane in un momento come questo serviva un magistrato dotato di attributi particolari. D'altronde un nuovo capo era necessario, perché la posizione di quello in carica, Francesco Basentini, si era fatta insostenibile, tra rivolte e scarcerazioni di cui non era certo il principale responsabile: ma qualche testa doveva saltare. Così Basentini viene costretto a dimettersi, e arriva Dino Petralia, palermitano, 67 anni. Ieri mattina, quando dal ministero della Giustizia esce l'annuncio che sarà lui il nuovo capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è difficile trovare all'interno della magistratura qualcuno che non condivida la scelta compiuta dal ministro Alfonso Bonafede. Qualche malumore, piuttosto, ci sarà stato nel partito del ministro: i grillini non amano Petralia, perché proprio lui quando era procuratore aggiunto a Palermo incriminò lo stato maggiore dei 5 Stelle per lo scandalo delle firme false, dando il via al processo che si è concluso a gennaio con una raffica di condanne. Oggi Petralia fa il procuratore generale a Reggio Calabria, gli mancano tre anni alla pensione, insomma poteva godersi la fine della carriera in un posto confortevole. Invece quando gli arriva la chiamata dal ministero non ha esitato un secondo ad accettare. Questione di carattere, stiamo parlando di uno che quando cessò la carica al Consiglio superiore della magistratura, invece che accomodarsi come i suoi colleghi in un ufficio di prestigio chiese e ottenne di venire spedito a fare il sostituto a Marsala, una Procura sciagurata da cui le toghe fuggivano in massa, alla fine era rimasto un solo pm. Petralia fece le valigie e da Roma scese nel disastro di Marsala a dare la caccia a Matteo Messina Denaro. Al Csm era arrivato nel 2006, da Sciacca dove era procuratore: nome sconosciuto al grande pubblico, ma sorretto nelle urne dalla corrente che allora andava per la maggiore, il Movimento per la giustizia, fondato da Armando Spataro. Oggi il Movimento è alleato di Magistratura democratica, ma allora faceva - e con un certo successo - una dura concorrenza alla corrente delle toghe rosse. Piombato al Csm Petralia si distinse per la durezza con cui difendeva i colleghi e la categoria negli scontri con il potere politico, soprattutto a partire dal 2008, quando a Palazzo Chigi tornò Silvio Berlusconi. Nelle polemiche con il governo, Petralia era in prima fila. Come quando insorse a difesa dell'amico Spataro, accusato dal centrodestra di avere creato il clima d'odio che spinse un poveretto a lanciare un souvenir di pietra in faccia al Cavaliere. E a costo di sposare cause sfortunate: c'era la sua firma in testa all'appello in difesa dei pm dell'Aquila che avevano incriminato Guido Bertolaso come complice del terremoto. L'inchiesta finì con un buco dell'acqua, ma intanto aveva decapitato la Protezione civile. Depurata dalla vis con cui tutela la casta delle toghe, la figura di Petralia è quella di un duro e di un indipendente. Rispetto a Basentini, ha un surplus: conosce il mondo delle istituzioni, sa come muoversi, sa come fare la voce grossa. Ce ne sarà bisogno se le carceri torneranno ad esplodere.

Di Matteo contro Bonafede: “Mi ha offerto Dap ma dopo reazioni boss ha cambiato idea”. Redazione de Il Riformista il 4 Maggio 2020. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. È l’accusa arrivata dal magistrato Nino Di Matteo, intervenuto telefonicamente a "Non è l’arena" su La7 domenica sera. Di Matteo si inserisce così nella polemica sulle dimissioni di Francesco Basentini, l’ormai ex numero uno del Dap che si è dimesso dopo il caso delle scarcerazioni dei boss mafiosi (sostituito da Dino Petralia). Ma il magistrato e consigliere del Csm ha fatto riferimento anche ad un particolare allarmante: Di Matteo ha parlato infatti di alcune intercettazioni di colloqui tra boss reclusi in carcere che avevano manifestato timori per il suo arrivo al vertice del Dap. Una ricostruzione dei fatti smentita dallo stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede, intervenuto a sua volta telefonicamente durante la trasmissione: “L’idea per cui io avrei ritrattato una proposta a Nino di Matteo non sta né in cielo né in terra”, ha detto il ministro della Giustizia. “Io ho chiamato di Matteo – ha sottolineato Bonafede – parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Nella stessa telefonata di Matteo mi chiarisce che ci sono state intercettazioni nelle carceri”. Bonafede quindi chiarisce che quando Di Matteo è andato al ministero, “tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli affari penali che era il ruolo di Giovanni Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrata che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi e lì mi ha detto che non poteva accettare quel ruolo e che voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”. Il Guardasigilli ha anche negato i timori di reazioni dei boss sulla nomina di Di Matteo a capo del Dap: “Quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata”.

Il pm Di Matteo "travolge" il ministro Bonafede: «Mi propose di guidare il Dap, ma i boss non volevano». Saverio Puccio il 4 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Un magistrato antimafia, in prima linea e tra i più esperti, alla guida del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il nome proposto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, fu quello di Nino Di Matteo, attuale consigliere del Csm, ma quando il magistrato decise di accettare, lo stesso ministro ritirò la proposta. A ricostruire questa versione non è una terza persona, ma direttamente il magistrato Di Matteo, durante la trasmissione “Non è l’arena”, condotta su La7 da Massimo Giletti. Le parole di Di Matteo hanno squarciano il silenzio e aperto una questione molto più ampia, legata alle scarcerazioni facili degli ultimi mesi. «Bonafede – racconta al telefono Di Matteo – mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta», ma «quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini». Una ricostruzione non di poco conto, se si considera che lo stesso Basentini si è poi dimesso proprio a causa delle polemiche sulle scarcerazioni di diversi detenuti, alcuni anche al 41bis, avvenute in questi giorni. Ma ad aggravare la situazione è una seconda parte della ricostruzione fornita dal magistrato che ha ricordato alcune intercettazioni dei boss che avrebbero espresso “fastidio” e contrarietà per il possibile incarico a Di Matteo: «Se nominano Di Matteo è la fine», avrebbero detto i boss intercettati. Giletti ha incalzato il magistrato legando la mancata nomina e le intercettazioni («lei ci fa capire che il timore che a sua nomina potesse portare reazioni è stata messa da parte per un personaggio meno invasivo e forte, rispetto a lei») e il magistrato ha risposto: «Io sto riportando un fatto». In poche tempo le reazioni alle affermazioni del magistrato si sono moltiplicate. In tanti hanno chiesto le dimissioni di Bonafede, chiedendo anche al ministro di riferire in Parlamento. Lo stesso Bonafede ha, però, smentito la ricostruzione attraverso un comunicato: «L’idea che io abbia ritrattato la proposta a Di Matteo non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor Di Matteo». «Sono esterrefatto nell’apprendere che viene data un’informazione che può essere grave per i cittadini – ha spiegato il ministro – perché fa trapelare un fatto sbagliato cioè che io sarei andato indietro rispetto alla mia proposta perché avevo saputo di intercettazioni». Il ministro ha puntualizzato la ricostruzione dei fatti: «Ho chiamato di Matteo parlandogli della possibilità di fargli ricoprite uno dei due ruoli, direttore affari penali o capo del Dap . Gli ho detto “venga a trovarmi e vediamo insieme”. Lui – ha aggiunto Bonafede – mi disse delle intercettazioni di detenuti che in carcere dicevano “se viene questo butta le chiavi”. Sapevo chi stavo per scegliere, e sapevo di quella intercettazione, perché ne dispone anche il ministro. Quando di Matteo è venuto gli dissi che tra i due ruoli era più importante quello di direttore affari penali, ruolo che era stato di Falcone, molto più di frontiera in lotta a mafia, non gli ho proposto un ruolo minore. Questa è la verità. A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d’accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già fatto».

Il pm Di Matteo: "Mi offrirono il Dap, ma Bonafede non mi ha voluto". Le dichiarazioni del magistrato, intervenuto durante la trasmissione Non è l'arena: "I capi mafia dicevano: 'Se nominano Di Matteo è la fine'". La replica del ministro: "Sono esterrefatto". Francesca Bernasconi, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. "Non ho mai fatto trattative politiche con nessuno". Così, il magistrato Nino Di Matteo interviene a Non è l'arena, programma di La7, condotto da Massimo Giletti, per raccontare un episodio del 2018, relativo alla nomina di Francesco Basentini come capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Il magistrato dice di essere intervenuto in trasmissione perché qualcuno "parlava di trattave tra me e Bonafede". E racconta la sua versione dei fatti: "Venni raggiunto da una telefonata del ministro Alfonso Bonafede che mi chiese se ero interessato ad accettare il ruolo capo del Dap o in alternativa prendere il posto di direttore generale degli affari penali". Di Matteo sostiene di aver chiesto al ministro 48 ore di tempo, per pensare alle offerte che gli erano state fatte. Nel frattempo, spiega il magistrato, erano venute alla luce alcune informazioni sulle reazioni di importantissimi capi mafia all'indiscrezione della possibile nomina del magistrato a capo del Dap: "Quei capi mafia dicevano: Se nominano Di Matteo è la fine". "Dopo meno di 48 ore andai trovare il ministro- racconta Di Matteo, specificando di aver deciso di accettare la nomina a capo del Dap- ma mi disse che ci aveva ripensato e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli affari penali del ministero. Il giorno dopo gli dissi che non avrei accettato. Nel giro di 48 ore mi sono ritrovato a essere designato come capo del Dap e quando accettai mi trovai di fronte a questo cambio". Incalzato da Massimo Giletti, il magistrato precisa; "Al ministro dissi 'Mi consenta di parlare con i miei famigliari prima di decidere' e quando andai per dire che avrei accettato Dap, il ministro ci aveva ripensato o qualcuno l'aveva indotto a ripensarci questo non lo posso sapere". Poco dopo, nel corso della trasmissione è intervenuto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per replicare alle dichiarazioni di Di Matteo. "Sono esterrefatto nell'apprendere che viene data un'informazione che può essere grave per i cittadini, nella misura in cui si lascia trapelare un fatto sbagliato- dice il ministro- cioè che la mia scelta di proporre a Di Matteo il ruolo importante all'interno del ministero sia stata una scelta rispetto alla quale sarei andato indietro perché avevo saputo di intercettazioni". E precisa:"Gli ho parlato della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui, gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia ed era stato il ruolo ricoperto da Giovani Falcone". Per questo, sostiene Bonafede, si era mosso per offrire il Dap a Basentini: "A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d'accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già fatto". E riguardo alle intercettazioni relative alle reazioni del capi mafia, Bonafede afferma che "quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata". Sulla vicenda sono intervenuti anche i parlamentari leghisti Giulia Bongiorno, Nicola Molteni, Jacopo Morrone e Andrea Ostellari. "Rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa e il capo del Dap sostituito: come se non bastasse tutto questo, ora arrivano le parole di un magistrato come Nino Di Matteo in diretta tv- hanno commentato i parlamentari della Lega-È vero che non è stato messo alla guida del Dap perché sgradito ai mafiosi?". "In ogni caso- aggiungono- anche senza le parole di Di Matteo, Bonafede dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori". Toni duri anche da parte della deputata di Fratelli d'Italia, Carola Varchi: "O Bonafede si dimette o faremo le barricate", ha tuonato. E riferendosi al botta e risposta del ministro con il pm Di Matteo, aggiunge: "Le accuse del dottor Di Matteo sono state molto gravi ed io avrei voluto la certezza che, nelle istituzioni, nessuno si lasci intimidire da quello che ascolta nelle intercettazioni captate in carcere. Purtroppo l'intervento del ministro Bonafede ha lasciato tutti noi nello sconforto e nel dubbio che effettivamente la mancata nomina del dottor Di Matteo sia conseguenza del contenuto di quelle intercettazioni".

Di Matteo accusa Bonafede: “Mi offrì il Dap poi ci ripensò”. Il Guardasigilli: “Non è vero”. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Scontro tra il magistrato della presunta Trattativa e il ministro della Giustizia che nega e parla di “percezione sbagliata”. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. La confessione del magistrato Nino Di Matteo, arriva direttamente negli studi di a Non è l’arena, su La7, che ormai sembra divenuto una sorta di Plenum ufficioso del Csm così come Porta a Porta di Vespa è la terza Camera dello Stato. Fatto sta che la dichiarazione del magistrato Nino Di Matteo arriva al pochi giorni dalla bufera che ha travolto il Dap a causa della scarcerazione – del tutto legittima in termini di legge e di Costituzione – del mafioso Zagaria al quale sono stati concessi i domiciliari a causa delle sue gravi condizioni di salute. In ogni caso il ministro ha negato la ricostruzione del magistrato della trattativa: “L’idea per cui io avrei ritrattato una proposta a Nino Di Matteo non sta ne’ in cielo nè in terra”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, intervenuto a “Non è l’arena” su La7. “Io ho chiamato Di Matteo – aggiunge – parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Nella stessa telefonata Di Matteo mi chiarisce che ci sono state intercettazioni nelle carceri”.  “E’ una percezione di Di Matteo. Quando è venuto al ministero  tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli affari penali che era il ruolo di Giovanni Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrata che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi e lì mi ha detto che non poteva accettare quel ruolo e che voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”.

Ora Bonafede finisce nel romanzo sulla Trattativa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2020. Da tifosi a vittime: anche i 5Stelle finiscono nel tritacarne mediatico dove riaffiora la trama della presunta trattativa Stato-mafia. Se uno dovesse inventarsi un teorema giudiziario su una trattativa Stato-mafia odierna, ci sono tutti gli ingredienti giusti per creare suggestioni. Il 7 marzo scoppiano le rivolte nelle carceri italiane, alcune davvero devastanti con tanto di evasione spettacolare e lasciando una scia di 13 detenuti morti, la maggior parte stranieri e con problemi di tossicodipendenza. Dietro le rivolte – come ha detto recentemente il sociologo Nando Dalla Chiesa e adombrato anche dal presidente della commissione antimafia Nicola Morra – ci sarebbe stata una regia mafiosa per fare pressione sul governo per ottenere le scarcerazioni dei boss mafiosi al 41 bis. Detto, fatto. Spunta la circolare del Dap che raccomanda alle direzioni del carcere di segnalare ai giudici tutti i detenuti che presentano patologie letali in caso di Covid 19. Esce un articolo de L’Espresso nel quale si denuncia che la circolare avrebbe fatto un favore ai boss al 41 bis, i quali ne avrebbero approfittato per chiedere la detenzione domiciliare. Si crea mistero, inquietudine e aleggia nell’aria il famoso “terzo livello”. Il giorno dopo l’allarme viene scarcerato il boss Francesco Bonura per gravi malattie e messo in detenzione domiciliare. Spunta fuori la lista di centinaia di boss che avrebbero o potrebbero beneficiare della scarcerazione. Poco importa che di un centinaio di nomi, solo tre del 41 bis sono coloro che hanno usufruito della detenzione domiciliare. Ma il dado è tratto. La presunta nuova trattativa avrebbe quindi dato i suoi frutti. Lo stesso Nino Di Matteo – membro togato del Csm e tra coloro che imbastirono il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia – all’indomani delle scarcerazioni si era espresso così: «Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato- mafia». Gli ingredienti ci sono tutti. Ma durante l’ultima trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti se n’è aggiunto un altro che ha mandato in tilt i seguaci delle “agende rosse”, tutta una certa antimafia che crede alle “entità” e alle regie occulte del fantomatico (Giovanni Falcone non a caso stigmatizzava questa fandonia) “terzo livello” e soprattutto il Movimento 5Stelle, che attualmente è al governo e che del teorema trattativa ne ha fatto un caposaldo della sua narrazione politica. Di Matteo è intervenuto durante la trasmissione affermando che nel 2018 il guardasigilli Alfonso Bonafede gli aveva offerto di dirigere il Dap, offerta che sarebbe poi venuta meno, dopo la reazione di alcuni boss detenuti al 41 bis, che in alcune intercettazioni si sarebbero detti preoccupati per la sua nomina al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Ovviamente Di Matteo ha raccontato solo i fatti che sarebbero accaduti, non aggiungendo altro né dando alcuna interpretazione. Ma chi ha ascoltato ha avuto inevitabilmente la percezione che Bonafede stesso avrebbe avuto paura delle pressioni mafiose. Una sorta di minaccia psicologica a un corpo politico dello Stato (reato contestato agli ex Ros per la presunta trattativa). Il ministro della Giustizia ha replicato smentendo quella ricostruzione. Ricorda qualcosa? Ma certo. La stessa narrazione suggestiva e priva di fondamento sulla presunta trattativa Stato-mafia. Anche in quel caso è stato omesso un elemento non trascurabile: viviamo in uno Stato di Diritto e soprattutto c’è la magistratura di sorveglianza che opera secondo legge e in maniera del tutto indipendente. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza hanno fatto il loro dovere. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Analoga vicenda è accaduta nel 1993 e c’entra sempre il 41 bis. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa, per la quale sono stati condannati in primo grado gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ’92 e il ’ 94, non c’è ombra di dubbio. L’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa. Il 41 bis sarebbe stato il fulcro di tali iniziative. In realtà c’è stata una sentenza della Corte costituzionale scaturita grazie al ricorso – udite udite – dei magistrati di sorveglianza. Tale sentenza ha invitato il governo a valutare caso per caso il rinnovo o meno del 41 bis (all’epoca il rinnovo avveniva automaticamente e indistintamente per tutti). Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, il quale non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente” del ’93.I giudici che hanno assolto l’ex ministro Calogero Mannino, che nel processo trattativa ha scelto il rito abbreviato, hanno sottolineato come dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».

Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere «a tratti – scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità». Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, «che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano». Ed ecco qua. Si parla di tutela della dignità dei detenuti, Costituzione, Stato di Diritto. In soldoni nessuna manovra oscura, come oggi non c’è stata alcuna regia occulta dietro la concessione della detenzione domiciliare (di cui tre del 41 bis, non centinaia come hanno fatto un po’ credere) odierne. Chissà se il ministro Bonafede, che adesso è anche capodelegazione del M5S nel governo, si sia ora accorto di quanto è facile cadere nell’equivoco. Il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle (o addirittura uno strumento di potere) che condiziona il governo nel fare qualsiasi scelta politica. Soprattutto nel campo giudiziario e penitenziario.

Fuoco amico su Bonafede: “Io condizionato dai boss? Accuse infamanti”. Simona Musco Il Dubbio il 4 maggio 2020. Il Guardasigilli sotto accusa dopo la mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap. E Italia viva chiede le dimissioni. «L’idea trapelata nel vergognoso dibattito di oggi, secondo cui mi sarei lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso è un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda. D’altronde, se mi fossi lasciato influenzare dalle reazioni dei mafiosi non avrei certo chiamato io il dottor Di Matteo per valutare con lui la possibilità di collaborare in una posizione di rilievo». Rigetta ogni illazione Alfonso Bonafede, la cui poltrona, a seguito delle clamorose rivelazioni del pm Nino Di Matteo sulla nomina sfumata al Dap, traballa. E a chiedere la sua testa sono quasi tutti, con una timida levata di scudi da parte del M5s e del Pd, che però chiede chiarezza. In un post su Facebook il ministro prova a fare il punto: sapeva di quelle intercettazioni prima di chiamare Di Matteo, fu lui stesso a dirlo al pm, ciò nonostante pensò comunque a lui. E pensò di dargli un altro incarico, «in qualche modo equivalente a quello che era stato di Giovanni Falcone», proprio per mandare un segnale «chiaro e inequivocabile alla criminalità organizzata». Rivendicando la Spazzacorrotti e la lotta per l’inasprimento del 41 bis, con la stretta sulle scarcerazioni, Bonafede ribadisce la sua assoluta tranquillità su una vicenda che a distanza di 24 ore Di Matteo conferma tale e quale. «I fatti che ho riferito ieri li confermo e non voglio modificare o aggiungere alcunchè nè tantomeno commentarli», ha riferito il pm ad Affaritaliani.it. E intanto il grido che arriva dalla politica è quasi all’unisono: «Bonafede si dimetta», affermano le opposizioni. Ma non solo: anche Italia Viva, attraverso il deputato Cosimo Maria Ferri, ex componente del Csm, ha chiesto al Guardasigilli spiegazioni sul «perché ha prima offerto l’incarico di Capo del Dap a Di Matteo e poi revocato la proposta», chiedendo le sue dimissioni. «Dove è finita la sua trasparenza, perché non lo ha mai raccontato, ora venga in Parlamento a dire cosa è successo?». Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, secondo cui si tratta di «un regolamento di conti» tra «giustizialisti», ha chiesto «trasparenza», invocando un intervento del Csm al fine di chiarire la posizione di Di Matteo, «perché è evidente che se dice queste cose deve avere degli argomenti». Dall’altra parte, «deve chiarire il ministro Bonafede, perché ha avuto un atteggiamento discutibile». Una condizione essenziale prima di discutere una possibile mozione di sfiducia. Per Azione, movimento politico guidato dall’ex ministro Carlo Calenda, lo scontro tra Di Matteo e Bonafede «è stato semplicemente grottesco. Dire che un Ministro ha preso una decisione importante come la nomina del capo del Dap facendosi condizionare dalle reazioni dei boss soltanto due anni dopo i fatti è abbastanza assurdo – ha commentato Andrea Mazziotti, membro del comitato promotore -. Bonafede dovrebbe chiarire davanti al Parlamento». Più secche e decise le opposizioni, come Fdi, che attraverso la sua leader, Giorgia Meloni. «Fossi Alfonso Bonafede, domani mattina rassegnerei le mie dimissioni di ministro della Giustizia», ha commentato con un post su facebook pubblicato nella tarda sera di domenica, dopo le rivelazioni di Di Matteo a “Non è l’Arena” di Giletti. Per la Lega, si tratta, invece, dell’ennesimo «errore» di Bonafede, del quale chiede, come gli alleati di FdI, le dimissioni. «Rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa e il capo del Dap sostituito: come se non bastasse tutto questo, ora arrivano le parole di un magistrato come Nino Di Matteo in diretta tv. È vero che non è stato messo alla guida del Dap perché sgradito ai mafiosi? In ogni caso, anche senza le parole di Di Matteo, Bonafede dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori», affermano i parlamentari Giulia Bongiorno, Nicola Molteni, Jacopo Morrone e Andrea Ostellari. Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia, parla di «senso dello Stato calpestato», puntando il dito sia contro Di Matteo – «dopo quasi due anni dai fatti sente l’impellente necessità di raccontare al Paese un episodio che lo ha scioccato. Ma perché aspettare così tanto tempo, manco fosse equiparabile a un pentito della criminalità organizzata?» – sia contro Bonafede – «anche in questo caso dimostra di essere totalmente inadeguato al suo ruolo». E mentre la collega forzista Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, chiede chiarezza, Enrico Costa, ex ministro di Forza Italia, replica le parole di Renzi, parlando di «cortocircuito forcaiolo», chiedendo una discussione in parlamento. Timida la reazione del M5s. «È davvero inqualificabile la sfacciataggine con la quale minoritarie porzioni della politica e del giornalismo politicamente orientato a destra strumentalizzino vicende inattuali ed ampiamente spiegate dal ministro Bonafede per un attacco ingiusto ed inveritiero al Governo, senza considerare le misure predisposte in questi giorni in materia di articolo 41 bis e le prestigiose e qualificate nomine appena fatte al Dap cui sono stati preposti magistrati di grande coraggio ed esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata – ha commentato il senatore Giorgio Trizzino -. Nel volgare palcoscenico che è diventata la trasmissione di Giletti, viene costantemente messa in discussione l’azione del Governo. Questo modo di gestire l’informazione non corrisponde al sentimento della stragrande maggioranza degli italiani che ormai riesce a distinguere con chiarezza il giornalismo qualificato da quello improvvisato ed arrogante. Quando lo capirà Giletti?». Ma una parte dei grillini è in subbuglio: «Tutto questo è irreale – dice alla AdnKronos Piera Aiello,  testimone di giustizia e componente della Commissione parlamentare Antimafia -. Devo essere sincera, non so più cosa pensare. Aspetto una risposta concreta, certa, su come sono andate le cose. Si deve fare luce: se Bonafede ha sbagliato, è giusto che ammetta le sue colpe». Chiede chiarimenti Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, secondo cui «il sospetto non può mai essere anticamera della verità», mentre il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini e il senatore e capogruppo in commissione antimafia Franco Mirabelli, parlano di «confusione», definendo «irresponsabile l’atteggiamento di chi usa un tema come la lotta alle mafie per giustificare l’ennesima richiesta di dimissioni di un ministro, approfittando di queste dichiarazioni estemporanee. Siamo certi che il ministro al più presto verrà a riferire in commissione e in parlamento sull’impegno del governo contro le mafie». E il vicesegretario dem Andrea Orlando, predecessore di Bonafede, ha aggiunto: «So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma se un ministro dovesse dimettersi per i sospetti di un magistrato, si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l’anticamera della verità, sinchè non verificato resta un sospetto». A chiedere le dimissioni è anche il Partito Radicale, ma non per la vicenda Di Matteo. Ora che «il ministro Bonafede è sotto il fuoco incrociato per lesa maestà del dottor Di Matteo, anche se le cose fossero andate come le ha raccontate il dottor Di Matteo si potrebbe configurare un gesto di scortesia, ad essere feroci di maleducazione. Nulla di più né di meno. Ci auguriamo che questa sia l’occasione per il ministro Bonafede di rivedere le sue politiche sulla giustizia e sul carcere con l’occhio antimafista, e si faccia guidare dalla Costituzione».

Scontro Di Matteo-Bonafede, il boomerang giustizialista. Alessandro Rico, 4 maggio 2020, su Nicola Porro.it. Siamo ormai allo squadrismo sanitario. Il virus ha infettato il loro ego. Perciò voglia Dio, nella fase 2, liberarci dai ducetti della pandemia. Abbiamo bisogno di leader che ci trattino da cittadini maturi e responsabili, non da ragazzini minchioni da sottoporre a minacce e umiliazioni. Prendete la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Già si era esibita sotto Pasquetta: se andate a fare le grigliate «vi becchiamo», «vi pizzichiamo», avvertiva i romani. Un linguaggio da poliziotto penitenziario, più che da primo cittadino di una capitale. Evidentemente, entrare nella «cabina di regia» con Giuseppe Conte deve averle montato la testa. E così, la Raggi, alla vigilia di questa falsa ripartenza, ha rincarato la dose, reclamando i pieni poteri per i sindaci e presentando in questi termini la riapertura dei parchi: «Sono una concessione che ci viene fatta dal presidente del Consiglio, ma dobbiamo meritarcela». Chiara la filiera? Se possiamo mettere il naso nella natura è per bontà del caudillo. La caudilla però ci mette sull’attenti, come all’asilo: se non fai il bravo, ti tolgo il giocattolo. D’altro canto, la scuola d’illibertà del Movimento 5 stelle non ha nulla da invidiare alla scienza della reclusione del Pd. Il circolo Litorale dem di Ostia, ad esempio, per la stagione balneare aveva lanciato una brillante idea: il braccialetto elettronico contro gli assembramenti. Bello: andare in spiaggia come i condannati ai domiciliari. Per fortuna, i gestori degli stabilimenti hanno riconsegnato l’idea al mittente. Il circoletto piddino potrà rivendersela a una delle varianti del totalitarismo asiatico: dal regime di Xi alla tecnocrazia populista di Singapore. A proposito di tecnici. Al coro delle minacce agli italiani s’è aggiunto il superesperto del ministero, Walter Ricciardi. Quello che era dell’Oms ma non è dell’Oms. Quello che attaccava il Veneto per i tamponi a tappeto, però aveva torto marcio, perché i tamponi a tappeto hanno consentito alla Regione di Luca Zaia di spegnere i focolai infettivi. Ebbene, il consigliere di Roberto Speranza, con un passato da attore, già rimprovera «le tante persone viste in giro»: «Voglio ricordare che come si è aperto, si può anche richiudere». Siamo ormai allo squadrismo sanitario: noi vi abbiamo ridato un pezzetto di libertà, noi ve lo possiamo togliere. Perché «abbiamo ancora bisogno di un cambiamento culturale forte, permanente». Scusi Ricciardi, ma lei chi è per imporcelo a suon di intimidazioni? Chi l’ha eletta? Chi la controlla? In virtù di quale autorità dovremmo sposare le sue convinzioni? Solo lavate di capo. Nessuno è sfiorato dal sospetto che gli italiani non siano anarchici e smidollati, che sappiano regolarsi da soli, che i loro diritti fondamentali non dipendono dai comitati tecnico-scientifici o dalle manie di protagonismo di politicanti di secondo piano, poiché sono scolpiti della Costituzione e nel diritto naturale. Abbiamo preso in giro Boris Johnson e la Svezia, Donald Trump e Jair Bolsonaro. Ma noi siamo sotto il tiro dei «lanciafiamme» di Vincenzo De Luca, identico alla sua caricatura, personaggio più che persona. Il sospetto è che qualcuno, qui, stia mischiando le carte per poter mettere le mani avanti: se le cose vanno storte, dannato sia chi va a correre, chi va al parco, chi fa al bagno al mare o la passeggiata sotto i portici con i bambini. Lo si legge nelle parole di Conte al Corsera: «La ripartenza del Paese è nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se vogliamo che sia risolutiva e definitiva». Loro sono stati bravissimi: se poi finisce male, la colpa è nostra.

Giletti aveva ragione: "Sulla scrivania di Bonafede...". Boss mafiosi fuori dal carcere, altro documento bomba per il ministro. Antimafia e Dap, carteggi di fuoco: cosa non torna sulla scarcerazione dei boss mafiosi al 41 bis. Renato Farina Libero Quotidiano il 07 maggio 2020. Chi ha ragione nella contesa a mazzate tra il ministro della Giustizia e il magistrato eletto nel Csm? Chi dei due deve perciò andarsene? La risposta più comoda e ovvia sarebbe: tutt' e due, ne hanno combinate troppe, prima, durante e dopo. Hanno dato vita a baruffe chiozzotte da comari meridionali, con graffi sul naso e ciocche di capelli nel water, e proprio nel tempio dell equilibrio dove i piatti della bilancia dovrebbero essere immuni dagli sputazzi di chi dovrebbe reggerla. A che serve dar ragione all' uno o all' altro. Tanto è sicuro: resisteranno indomiti ai loro posti, si accomoderanno, del resto è già intervenuto come paciere e sarà sicuramente bravissimo anche come crocerossina Marco Travaglio, che porterà brodino di piccione e ne sorveglierà la convalescenza. Ci tocca prima un po' di cronaca dell' attualità spicciola. Ribadendo il concetto sopra esposto, che cioè rispetto all' enormità del disastro giudiziario trattasi di una pinzillacchera. La contesa fra un tremebondo Alfonso Bonafede (ministro della Giustizia) e un prepotente Nino Di Matteo (pm ora al Csm) verte su due opposte versioni di un unico fatto. Nel 2018, l' allora pubblico ministero Di Matteo, famoso ideologo della trattativa Stato-Cosa nostra, avrebbe ricevuto dal neo-ministro Bonafede l' offerta di dirigere il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, il luogo da cui un magistrato dirige le carceri, con uno stipendio sontuoso, circa il triplo di quello di un deputato). Di Matteo era pronto per dire di sì, è andato a trovarlo per comunicarlo di persona, e quello gli ha contro offerto un incarico da portaborse ministeriale, direttore degli affari generali. Sarebbe sì il posto esatto occupato da Giovanni Falcone, come sostenuto da Bonafede, peccato che nel frattempo la legge avesse ridotto alla metà della metà il rango di quel posto. Un no scontato - Logico che Di Matteo dicesse no, e ha giurato di vendicarsi, con il solito animo sereno delle toghe. Passano neanche due anni, e Bonafede sloggia il capo del Dap, Francesco Basentini, ritenuto poco adatto, avendo dato l' ok alla liberazione di trecento e passa boss per ragioni di salute legate al Covid. Non interveniamo nel merito. Ma un fatto simile è la negazione del dogma più-galera-per-tutti che sta alla base della politica giudiziaria dei grillini. Questo sentimento del M5S ha sospinto a furor di popolo manettaro negli uffici di via Arenula l' unico avvocato lieto del gabbio per i suoi clienti, e sollevato al rango di divinità in toga Nino Di Matteo, famoso per considerare i politici per lo più venduti alla mafia. Di Matteo ha rivelato di essere stato scartato per «l' interferenza di boss mafiosi», che avrebbero minacciato vendette nel caso fosse stato nominato lui, come risulterebbe da intercettazioni dove il boss Graviano dice: «Se nominano Di Matteo è la fine», pubblicate dalla Pravda quotidiana, cioè il Fatto. Bonafede si è difeso, ovvio. Ha prima dichiarato «infami» le accuse. Ieri in Parlamento ha negato «interferenze». Non può dire di aver ceduto ai boss, e neppure appare francamente verosimile. Ma ha il dovere di essere sincero, confessando come in quei giorni ha funzionato il mercato politico. Chi ha scartato la vacca Di Matteo? Per un posto così delicato, uno schierato così radicalmente è possibilissimo abbia suscitato contestazioni. Per la Lega accettarlo senza scalciare, sarebbe stato come mettere un dito nell' occhio a Berlusconi, viste le accuse rivolte dal pm a Dell' Utri, e sullo sfondo allo stesso Cavaliere. Il Quirinale davanti a un candidato che ha portato in tribunale fior di carabinieri considerati eroi, avrà fatto presente che presentare un candidato unico e volerlo a tutti i costi per un posto delicatissimo, sarebbe stato un brutto precedente, poco dialogico. Oltretutto nel corso di questo processo, Di Matteo aveva insieme con Ingroia trattato il predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, come un complice reticente. È andata così? Che male c' è? Il nome di Dio non è mica Nino, almeno per ora. Normali compromessi - Cose normali, quante promesse abbiamo tutti ricevuto, poi andate in discarica e nel silenzio. Il fatto è che Bonafede non può dire la verità, perché com' è noto negli statuti di costoro chi tratta è un Giuda, e se dicesse di questo o quel niet e di aver ceduto, sarebbe impiccato fuori dalla Casaleggio e associati. Eppure si fa, la politica è compromesso, non esiste nessuno che abbia un potere da autocrate, e per fortuna. Ora Di Matteo, dopo che il suo contendente vittorioso ha spedito fuori di galera dei mafiosi, gongola e morde, Bonafede sta cercando di rimediare, non per giustizia, ma per salvarsi la faccia. E li vuole tutti dentro, fossero moribondi, o anche morti, purché di tre giorni soltanto, perché poi li resusciterebbe senz' altro per consegnarli al rigore il divino Di Matteo. Ben altro che per la bugia diplomatica detta a Di Matteo, e per la reticenza con il naso lungo detta oggi alla Camera, andrebbe rimandato nel suo studiolo da paglietta di provincia. Questo ministro da anni sta perpetrando una tortura da maniaco contro lo Stato di diritto. Ha abrogato la prescrizione, ha infilato il trojan nelle vite di sessanta milioni di italiani, dando da gestire miliardi di dati a tecnici perché poi siano filtrate dai pm. Rifiuta l' indulto, e poi non si accorge di circolari che scremano per la libertà il peggio (a torto o nel giusto non sappiamo: di sicuro lui non se n' è accorto). Non riusciremo a cacciarlo. Uno così incapace lascia però aperta la speranza che mandi con la sua insipienza a gambe all' aria oltre che lo Stato di diritto anche quello di rovescio.

376 mafiosi e trafficanti fuori dal carcere per l’emergenza virus. La chiamano giustizia…Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2020. Il ministro Bonafede questa mattina si è recato presso il carcere di Rebibbia a Roma, fermandosi nell’ariosissimo ingresso, evitando di andare a vedere le celle. Nessuno rivela dice che era anche prevista una conferenza stampa all’interno del carcere ma c’è stata la protesta dei detenuti… che hanno indotto a sospendere l’incontro con i giornalisti e le telecamere, proseguendo il tutto fuori sulla Tiburtina. Sulla scrivania del ministro di giustizia Alfonso Bonafede (M5S) c’è un documento con elenco di 376 nomi che ha generato non poichè tensioni anche all’interno della stessa maggioranza. Un elenco in cui spiccano i nominativi di boss di “peso” come Francesco Bonura, Vincenzo Di Piazza, Vincenzo Iannazzo, Antonino Sudato e Pasquale Zagaria, che sono stati posti agli arresti domiciliari per decisione dei magistrati di sorveglianza per l’emergenza CoronaVirus.  E non solo. Compaiono in quell’elenco anche quelli degli altri 372, diventati di fatto ex detenuti nonostante siano legati alle criminalità organizzate mafiose ed ancora oggi operativi sul piano criminale, considerato che nessuno di loro si è mai dissociato. Le procure antimafia sono molto preoccupate del ritorno dei mafiosi nei territori ove operavano . “Gli arresti domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità” commentano i pm della Dda di Palermo, ricordando che comunicano spesso con le loro truppe mafiose persino dal carcere, figurarsi cosa potranno fare dalle loro abitazioni. E tutto ciò adesso comporta un superlavoro per le forze dell’ordine che dovranno monitorare e controllare tutti i mafiosi ai domiciliari, per assicurarsi che rispettino l’obbligo di non incontrare o comunicare telefonicamente con nessuno. L’elenco con i 376 nomi è stato trasmesso tre giorni fa dal DAP, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia, che sovrintende alle carceri, alla Commissione Parlamentare Antimafia, che l’aveva espressamente richiesta, e che spiega le conseguenti ragioni della fretta del guardasigilli Bonafede nel nominare i nuovi vertici delle carceri italiane. E spiega anche come mai ieri, e per giunta di sabato il ministro ha fatto insediare immediatamente al Dap il nuovo vice capo Roberto Tartaglia ed ha comunicato alla maggioranza di governo il nome di Dino Petralia (entrambi noti magistrati antimafia) attuale procuratore generale a Reggio Calabria, come nuovo direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria posto del dimissionario Basentini. Sulla limitata competenza ed operativa di Basentini ha influito non poco che non sia riuscito al Dap ad organizzare e predisporre soluzioni alternative agli arresti domiciliari, disponendo il loro trasferimento non a casa ma nei centri medici penitenziari, come quelli di Roma, Viterbo, Milano. Nona caso tale ipotesi era stato espressamente richiesta dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari per il camorrista Pasquale Zagaria, ma la risposta sollecitata più volte, è arrivata dal Dap solo il giorno successivo del provvedimento “leggero” dei giudici che lo avevano già mandato a Brescia a casa dalla moglie. Bonafede ha di fatto indotto alle dimissioni Francesco Basentini l’ex Direttore generale del DAP al quale viene addossata la colpa di aver malgestito le rivolte di febbraio ed ancora peggio le scarcerazioni del CorionaVirus, soprattutto per le scarcerazioni dei mafiosi. Il nuovo capo Petralia arriva dalla procura generale di Reggio Calabria mentre il suo vice Tartaglia arriva dalla Commissione Parlamentare Antimafia e dopo una lunga stagione a Palermo come pm, dove ha lavorato insieme con il procuratore aggiunto Petralia. Dino Petralia a parte un incarico come membro del Csm , aderendo alla stessa “corrente” di Giovanni Falcone, ha prestato servizio come magistrato in procure ad alto rischio come quelle di Marsala , Sciacca e Trapani. E’ stato in corso per la guida della Procura di Torino l’anno scorso dopo il pensionamento di Armando Spataro, ma quando seppe che la “cricca” di Palamara e compagni di merende lo sponsorizzavano, chiaramente senza dirglielo, ritirò immediatamente la propria candidatura, dimostrando spessore ed etica non comuni. Il ministro Bonafede ha anche assegnato a Tartaglia il primo incarico, cioè quello esaminare uno ad uno i fascicoli degli scarcerati , per una preliminare analisi che, qualora fosse necessario, proseguirà con gli ulteriori accertamenti. Non a caso ieri pomeriggio, la nuova reggenza del Dap ha emanato una circolare con cui viene disposto ai direttori delle carceri italiane l’obbligo di comunicare immediatamente al Dipartimento tutte le istanze presentate dai detenuti al 41 bis o comunque inseriti nei circuiti carcerari di massima sicurezza. Ma chi compare nella lista dei 376 scarcerati ? Un elenco dei boss di vario livello peso che sono stati scarcerati dai giudici negli ultimi due mesi per il rischio Covid o per altre patologie, e che oggi sono detenuti ai domiciliari, nelle loro abitazioni e quindi nei loro territori di dominanza malavitosa. Sono capi e gregari delle associazioni mafiose, esattori del pizzo e persino narcotrafficanti. Nei giorni scorsi la polemica era già scoppiata per la concessione dei domiciliari a quattro mafiosi detenuti 41 bis: il camorrista Pasquale Zagaria, fratello di Michele Zagaria al vertice del potente e spietato “clan dei Casalesi”, i mafiosi siciliani Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza, e lo ‘ndranghetista calabrese Vincenzo Iannazzo. Il monitoraggio del DAP ha portato alla luce un numero che non ha precedenti che comprende anche l’ergastolano Antonino Sudato detenuto nel reparto più rigido della cosiddetta “Alta sorveglianza 1″. Nessuna detenzione domiciliare concessa invece per l’ “Alta sorveglianza 2” dove sono ristretti i terroristi. Tutti gli altri scarcerati erano nell’ “Alta sorveglianza 3“, il settore che ospita 9.000 detenuti, le truppe al servizio di mafie ed organizzazioni specializzate nel traffico della droga. Duecento circa dei 376 scarcerati erano comunque ancora in attesa di giudizio, e sui quali il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza. Il ministro Bonafede questa mattina si è recato presso il carcere di Rebibbia a Roma, insieme al ministro degli Affari regionali Francesco Boccia ed il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, fermandosi nell’ariosissimo ingresso, evitando di andare a vedere le celle. Nessuno rivela dice che era anche prevista una conferenza stampa  nella sala teatro della Casa circondariale romana, ma c’è stata la protesta dei detenuti… che hanno indotto a sospendere l’incontro con i giornalisti e le telecamere, proseguendo il tutto fuori sulla Tiburtina. Bonafede parlando con stampa ha definito “un grande successo” le decisioni prese in materia delle carceri durante l’emergenza coronavirus. “Adesso uno sforzo in più: abbiamo deciso, con una sinergia importantissima tra il ministero della Giustizia, la Protezione Civile, il ministro Boccia e quello della Salute Speranza”. Il ministro ha presentato a Rebibbia i 62 operatori socio-sanitari che entreranno in servizio a partire da domani presso gli istituti penitenziari per adulti e le strutture minorili del Lazio. Fanno parte della task force dei mille operatori selezionati con il bando emanato dalla Protezione civile di concerto con i ministeri della Giustizia, della Salute e degli Affari regionali e che opererà nelle carceri italiane fino al 31 luglio 2020 in ausilio al personale sanitario. Il vero dramma per la giustizia italiana è che lo chiamano anche “Guardasigilli”…..

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Ogni giorno, per le forze dell' ordine, è un lavoro complicato controllarli tutti nelle loro abitazioni. Più volte, anche di notte. Sono 376 fra mafiosi e trafficanti di droga. A Palermo, 61. A Napoli, 67. A Roma, 44. A Catanzaro, 41. A Milano, 38. A Torino, 16. Tutti mandati ai domiciliari per motivi di salute e rischio Covid, nell' ultimo mese e mezzo. Una lista riservata che il Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria ha inviato solo mercoledì scorso alla commissione parlamentare antimafia, che l' aveva sollecitata più volte al capo del Dap Francesco Basentini, che alla fine si è dimesso, travolto dalle polemiche per le scarcerazioni. Una lista che preoccupa anche i magistrati delle procure distrettuali antimafia, dalla Sicilia alla Lombardia, che continuano ad opporsi al ritorno dei boss nelle loro abitazioni, sollecitando piuttosto il trasferimento in centri medici penitenziari, che peraltro sono strutture di eccellenza della nostra sanità. «Il diritto alla salute è sacrosanto - hanno ribadito nei giorni scorsi i pm di Palermo in un' udienza in cui si discuteva dell' ennesima richiesta di scarcerazione - ma i domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità». Perché resta forte il rischio che i mafiosi continuino a comunicare con il clan. Soprattutto quando così tanti, all' improvviso, si ritrovano nei propri territori. Ecco perché i controlli delle forze dell' ordine continuano senza sosta, come disposto dal ministro dell' Interno Luciana Lamorgese.

L' elenco Le cinque pagine della lista riservata del Dap svelano che adesso si trova ai domiciliari uno dei boss più pericolosi di Palermo: Antonino Sacco, l' erede dei fratelli Graviano, gli uomini delle stragi del 1992-1993, per i magistrati faceva parte del triumvirato che ha retto di recente il potente mandamento di Brancaccio. Ai domiciliari è tornato anche Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli che fino a gennaio dettava legge sui Nebrodi: dopo aver finito di scontare un' altra condanna aveva messo in piedi una rete di insospettabili professionisti per una maxi truffa all' Unione Europea, così ha razziato finanziamenti per milioni di euro.

Ai domiciliari, per motivi di salute, è tornato anche Francesco Ventrici, uno dei principali broker del traffico internazionale di cocaina, che trattava direttamente con i narcos colombiani. Come un altro manager a servizio della 'Ndrangheta, Fabio Costantino, della famiglia Mancuso di Limbadi. L' elenco del Dap è ordinato per carcere e per giorno in cui è stato emesso il provvedimento del giudice. Dall' inizio di marzo a qualche giorno fa. Alcuni detenuti stanno scontando una condanna definitiva, dunque la decisione è stata dei tribunali di sorveglianza.

Altri sono ancora in attesa di giudizio, su questi il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza, tutte le valutazioni spettano a gip, tribunali e corti di d' appello. Ma sono i numeri a fare impressione. Anche se dal 41 bis sono usciti solo in tre: il camorrista Pasquale Zagaria, il palermitano Francesco Bonura e lo 'ndranghetista Vincenzo Iannazzo.

Tutti gli altri erano però inseriti nei reparti della cosiddetta "Alta sicurezza 3", il circuito che ospita l' esercito di mafie e gang della droga, 9.000 detenuti in totale. Fra loro, i "colonnelli" che secondo le procure e le forze dell' ordine hanno in mano gli affari e i segreti dei clan.

La circolare La lista arrivata alla commissione parlamentare antimafia svela anche un altro numero destinato ad alimentare le polemiche di questi giorni: per 63 detenuti dell' Alta sicurezza sono stati i direttori degli istituti penitenziari a sollecitare la magistratura ad adottare provvedimenti, così come disponeva la circolare del Dap del 21 marzo, quella che voleva preservare i detenuti con alcune patologie dal rischio Covid. E in assenza di un piano di trasferimenti predisposto dal Dap nei centri medici penitenziari i giudici non hanno potuto far altro che disporre i domiciliari per tutti. E, ora, resta quell' elenco dei 376.

Dietro ogni nome, le storie di uomini e donne con problemi di salute e il loro diritto a essere curati. Ma anche le storie di uomini e donne che hanno segnato le pagine più drammatiche delle nostre città. Storie che spesso si intrecciano con quelle di chi ha trovato il coraggio di ribellarsi alle mafie.

Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, anche lui adesso ai domiciliari, fu denunciato da un ambulante del rione Forcella, stanco di pagare il pizzo. Anche Emilio Pisano, il cognato del boss di Arena ora tornato in Calabria, venne denunciato da un cittadino coraggioso: un imprenditore che non voleva pagare la tassa mafiosa del 5 per cento sull' appalto che si era aggiudicato. A Reggio Emilia, un commerciante aveva invece denunciato gli esattori del clan Grande Aracri, fra loro c' era Marcello Muto, un altro nome segnalato dal Dap.

Nella lista adesso al vaglio dell' Antimafia ci sono soprattutto i nomi di chi continua a conservare tanti segreti. Giosuè Fioretto era uno dei cassieri dei Casalesi. Rosalia Di Trapani non era solo la moglie del boss della Cupola Salvatore Lo Piccolo, era la sua consigliera. Nicola Capriati era un manager della droga inviato in missione dalla Sacra Corona Unita a Verona. Vito D' Angelo è uno degli anziani della nuova Cosa nostra dell' imprendibile Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Eccola, la preoccupazione più grande di magistrati e investigatori. Ognuno di questi uomini tornati a casa conserva un pezzo di segreto. Più o meno grande. Su patrimoni mai trovati, su relazioni mai scoperte. I segreti che potrebbero diventare il terreno della riorganizzazione delle mafie.

Alessia Candito, Dario Del Porto, Salvo Palazzolo per ''la Repubblica'' il 9 maggio 2020. La lista dei 376 mandati ai domiciliari per motivi di salute connessi al rischio Covid non è solo un pezzo di storia delle mafie. È, soprattutto, la cronaca attualissima di boss manager, uomini e donne, che con i loro affari si sono infiltrati nel tessuto economico del nostro Paese, da Sud a Nord. Si tratta, in parte, di detenuti arrestati nei mesi scorsi, e dunque ancora in attesa di giudizio. I loro nomi richiamano recenti operazioni di procure e forze dell' ordine. Altri sono stati invece già condannati, negli ultimi anni. Repubblica è tornata a riesaminare la lista degli scarcerati finiti agli arresti domiciliari perché quei nomi indicano storie di clan-aziende spesso in piena attività. E, magari, affari non del tutto bloccati. Mentre altri complici potrebbero essere ancora sul territorio, lo stesso dove i detenuti ai domiciliari sono stati trasferiti. C' è di più: molti dei proventi realizzati da questi boss potrebbero non essere stati sequestrati. È la ragione per cui i mafiosi usciti dal carcere rappresentano un potenziale pericolo. La lista dei 376 posti ai domiciliari è ora all' attenzione delle procure distrettuali antimafia, che tengono sotto controllo le dinamiche delle cosche. Sono soprattutto i boss manager tornati nelle loro abitazioni a preoccupare chi indaga. I boss manager che conservano la chiave di relazioni, affari e patrimoni, il vero capitale delle mafie.

Gino Bontempo. Il ras dei fondi Ue nella zona di Messina. Gino Bontempo, il ras della mafia dei pascoli in provincia di Messina, aveva messo in campo una schiera di insospettabili professionisti per razziare i contributi europei destinati ai Nebrodi. E, tutti insieme, avevano trovato un sistema quasi perfetto per evitare i controlli. Bastava non indicare l' Iban delle loro società, così le pratiche venivano temporaneamente accantonate. Per prassi, in questi casi, le liquidazioni avvenivano soltanto in un secondo momento. E, a quel punto, i controlli non venivano più fatti. È un grande baco quello scoperto di recente dalla procura di Messina con le indagini di Finanza e carabinieri. Fra il 2010 e il 2017, l' Ue ha versato 5 milioni a 151 aziende agricole della provincia in mano ai boss dei Nebrodi.

Santa Mallardo. La vedova di camorra al centro degli affari. La sua posizione processuale è apparentemente secondaria, una lieve condanna per intestazione di beni con l' aggravante mafiosa. Ma è la tragica storia familiare di Santa Mallardo a renderla quasi suo malgrado un personaggio di rilievo: vedova di camorra, perché il marito fu ucciso 30 anni fa in una delle faide più cruente della periferia settentrionale di Napoli, sorella di Feliciano Mallardo, esponente della cosca egemone a Giugliano e madre di Giuseppe e Carlo Antonio D' Alterio, accusati di aver tessuto trame imprenditoriali di spessore, con interessi tanto nel mondo dell' edilizia quanto in quello della distribuzione del caffé. Affari nei quali è rimasta imbrigliata anche Santa fino al ritorno a casa nei giorni del Covid.

Pio Candeloro. Il re di Desio dall'aria anonima. A Desio lo chiamavano Tonino o Tony, non di certo Pio come nella Melito Porto Salvo da cui decenni fa era partito. E prima dell' inchiesta Infinito Crimine, nessuno lì mai avrebbe pensato che dietro quell' aspetto anonimo si celasse il capo di uno dei più attivi locali dell' hinterland milanese, pronto a convincere gli imprenditori a pagare o cedere appalti e subappalti a forza di teste d' agnello lasciate in auto e bombe carta «che mezza casa gli vola». Però Pio Candeloro con i politici ci sa fare, trova anche la strada per discutere a tu per tu con l' amministrazione comunale e la macchina burocratica che governa lavori e appalti e non solo nella sua Desio. Rimedia una condanna pesante, le accuse contro di lui reggono a tutti i gradi di giudizio e i magistrati ne sono convinti. È lui il capo di Desio.

Carmela Gionta. La donna del clan denunciato da Siani. Palazzo Fienga, la roccaforte del clan che Giancarlo Siani denunciava nei suoi articoli, il Fortapasc del film di Marco Risi, oggi fa parte finalmente patrimonio dello Stato. Ma il nome Gionta, a Torre Annunziata, continua a pesare. E Carmela Gionta, sorella del boss Valentino, sul territorio si faceva sentire, come racconta l' inchiesta del procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli, che l' aveva arrestata per usura dopo la denuncia di un imprenditore riguardante prestiti da 10mila e 15mila euro al tasso del 10 per cento. Ma anche in una famiglia storica come quella dei Gionta, le donne litigavano, sembra proprio per la gestione della cassa: Carmela infatti entrò in contrasto con figlia, moglie e suocera del nipote, all' epoca reggente dell' organizzazione e fu accoltellata al viso.

Antonio Romeo. Il Gordo della rotta San Luca-Medellin. Antonio Romeo è nato e cresciuto a San Luca, poche migliaia di anime fra cui i nomi si tramandano per tradizione e strategia. Ma rispetto alle decine di omonimi parenti lontani e vicini, "el Gordo" era speciale. Dalla Locride ha fatto strada, è diventato uno degli emissari abilitato a trattare con i narcos dei cartelli di Medellin, gestire prezzi e spedizioni, assicurare garanzie. Uno affidabile, riconosciuto. Forse per questo, lui è uno di quelli che il parroco di San Luca, don Pino Strangio, e il suo braccio destro, chiedono di "salvare" dalla galera in cambio di precise informazioni su Giovanni Strangio, il killer della strage di Duisburg all' epoca latitante. Offerte rispedite al mittente, "el Gordo" si è dovuto rassegnare alla cella. Fino a qualche settimana fa.

Domenico Pepè. L'uomo del pizzo del clan Piromalli. Domenico Pepè, fidato del clan ndranghetista dei Piromalli, si poneva con modi gentili nei confronti degli imprenditori del porto di Gioia Tauro a cui imponeva le estorsioni per l' ingresso dei container.

«Potete sempre fare delle false fatturazioni per pagare». L' uomo dell' Ndrangheta dispensava consigli, come se la tassa mafiosa - «un dollaro a container» - fosse una cosa normalissima. Pepè, arrestato nel 2017 dopo un periodo di latitanza, provava a guardare avanti e a dare consigli anche al vertice della storica cosca dei Piromalli. Aveva così aperto la strada per una maxi truffa su alcuni fondi statali. Perché il traffico di droga porta tanti soldi, ma anche la macchina dei contributi pubblici può far realizzare grandi profitti alle cosche.

Francesco Ventrici. L'erede del narco che ama investire. Non è nato 'ndranghetista, ma quella vita, di soldi e di lussi grazie alle grandi importazioni di coca, a Francesco Ventrici piaceva. La scopre grazie a Vincenzo Barbieri, ufficialmente imprenditore del mobile di San Calogero, in realtà grande narco al servizio dei Mancuso. I due sono tanto diversi quanto inseparabili. Elegante e distinto Barbieri, un ragazzone obeso Ventrici, che gli diventa amico, socio, alla fine persino parente, per averne sposato una cugina. Ma soprattutto erede, dopo l' agguato in cui Barbieri è stato ucciso. E sulla scia del suo mentore, il giovane narco importa fiumi di bianca da Ecuador e Colombia e poi investe. Soprattutto nel bolognese, ma senza dimenticare la Calabria.

Diego Guzzino. Da autista a capo col tesoro nascosto. Diego Guzzino era negli anni Ottanta solo l' autista del capomandamento di Caccamo, Francesco Intile, autorevole componente della Cupola. «A un certo punto cominciò a fare affari con la droga a Palermo - ha raccontato il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè faceva palate di soldi, ma non mandava niente alla famiglia». Per questo, Giuffrè, il successore di Intile, aveva chiesto l' autorizzazione a Bernardo Provenzano per uccidere Guzzino. E il padrino di Corleone aveva autorizzato. Ma poi Giuffrè venne arrestato, nel 2002. E Guzzino ha continuato la sua scalata nel clan, con affari fra Palermo e la provincia. Ma il tesoro accumulato in tanti anni di attività non è stato ancora sequestrato.

Giosuè Fioretto. Il custode dei segreti dei Casalesi. Giosuè Fioretto conosce tanti segreti del clan dei Casalesi: era uno dei cassieri addetti al finanziamento delle operazioni più riservate. E, naturalmente, curava anche l' approvvigionamento della cassa, attraverso forme nuove di estorsione. È forse quel tesoretto accumulato in tanti anni di attività criminale ad averlo convinto a non aprire mai bocca davanti ai magistrati della direzione distrettuale antimafia di Napoli. Fioretto non ha voluto seguire neanche la scelta di due esponenti di spicco del clan, Francesco Schiavone e Bernardo Cirillo, che quattro anni fa avevano annunciato di volersi dissociare dal clan. Tornato ai domiciliari continua a custodire il segreto del patrimonio di famiglia.

Francesco Grignetti per “la Stampa” l'8 maggio 2020. l'8 maggio 2020. Una lunga litania di nomi da brivido, quella dei 376 detenuti pericolosi scarcerati, preparata dall' amministrazione penitenziaria e inviata alla commissione parlamentare Antimafia. Ma ce n' è un' altra in preparazione, con quelli scarcerati tra il 25 aprile e oggi: potrebbero essere altri due o trecento boss inviati a casa (e tra questi c' è Franco Cataldo, il custode del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi sciolto nell' acido). E poi c' è un' altra lista ancora, di quelli che hanno presentato istanza e aspettano risposta dalla magistratura di Sorveglianza: ne hanno contati 456, ma potrebbero essere molti di più. Il più conosciuto di tutti è il fratello di Totò Riina, Gaetano, 87 anni, in carcere a Torino: respinta la sua domanda in prima istanza, ora spera nel ricorso al Tribunale di Sorveglianza. Tra quelli già a casa, i più noti sono il camorrista Pasquale Zagaria, il mafioso Francesco Bonura e lo 'ndranghetista Vincenzo Iannazzo. Gli unici tre che erano al 41 bis. Per promemoria: Zagaria era la mente dei casalesi, Bonura il luogotonente di Bernardo Provenzano, Iannazzo il capo della cosca di Lamezia Terme, protagonista di una faida che ha causato decine di morti, l' implacabile boss che ha preteso tangenti all' infinito sulla modernizzazione dell' autostrada. Ora sono a casa perché si temeva per la loro salute. Poliziotti e carabinieri, che hanno rischiato la vita per arrestare ciascuno di loro, sono senza parole. L' elenco è lungo. Antonino Sacco, considerato erede dei fratelli Graviano, mandamento di Brancaccio. Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli nei Neobrodi. Francesco Ventrici, broker della cocaina. Fabio Costantino, della 'ndrina Mancuso di Limbadi. Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, terrore del rione Forcella. Giosuè Fioretto, un cassiere dei Casalesi. Rosalia Di Trapani, moglie del boss Salvatore Lo Piccolo e sua ascoltata consigliera. Sbalordisce che 63 di questi scarcerati nemmeno avesse fatto domanda: ci hanno pensato i direttori dei penitenziari, sulla base della circolare del Dap, a sollecitarne la scarcerazione. Erano tutti nel circuito Alta Sicurezza 3, dove finiscono quelli che hanno terminato il periodo di 41bis. Si vede che non vedevano l' ora di mandarli a casa. La circolare del Dap risale al 21 marzo. Da quel momento è stata una corsa a presentare domanda di scarcerazione. Uno dei principali boss del clan Traiano a Napoli, Salvatore Perrella, è tornato a casa accolto dai fuochi artificiali. È uscito anche Placido Toscano, in carcere dal 2014 per associazione mafiosa ed estorsione, di Biancavilla (Catania). E Francesco Manno, di Marina di Gioiosa ionica (Reggio Calabria), ergastolano condannato per omicidio, danneggiamento e illegale detenzione di armi. Tutti personaggi pericolosi. Saverio Capoluongo, boss dei Casalesi che aveva coordinato l' infiltrazione in Veneto. Lorenzo Cono, condannato per aver gestito piazze di spaccio a Torre Annunziata e comuni limitrofi e altresì fuori provincia, oltre a smerciare droga anche negli istituti penitenziari di Lanciano e Salerno: ben 700 le contestazioni di spaccio di stupefacente. Il 10 aprile è tornato a casa persino Rocco Santo Filippone, del clan Piromalli, imputato in Corte d' Assise nel processo «'Ndrangheta stragista» con il palermitano, ex capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano.

Da leggo.it il 7 maggio 2020. Cataldo Franco ha ottenuto il trasferimento agli arresti domiciliari per il rischio di contrarre il Covid-19. L'uomo, stava scontando una condanna all'ergastolo. Per circa due mesi fu il carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, che venne rapito il 23 novembre 1993 - quando non aveva ancora compiuto 13 anni - per intimidire il padre del bambino che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Fu tenuto sotto sequestro per 779 giorni, ucciso e sciolto nell'acido per indurre il padre a ritrattare per volontà di Giovanni Brusca. Cataldo Franco, anziano (ha 85 anni) e malato, è tornato nella sua casa di Geraci Siculo, a Palermo, trasferito ai domiciliari per il pericolo di poter contrarre il coronavirus. È uscito dal carcere di Opera lo scorso 28 aprile. C'è anche il suo nome nell'elenco dei 370 detenuti finiti agli arresti domiciliari per "motivi di salute". Tenne segregato il piccolo Giuseppe Di Matteo dalla fine dell’estate all’inizio di ottobre del 1994. Il bambino fu successivamente trasferito per la richiesta di Cataldo Franco di liberare il capannone dove era rinchiuso perché l'inizio della stagione della raccolta delle olive. Fu poi arrestato e condannato all’ergastolo.

'Ndrangheta, ecco tutti i nomi dei boss scarcerati per l'emergenza Covid19. Nell'elenco letto da L'Espresso i pezzi da novanta della mafia calabrese. Narcotrafficanti ai domiciliari e autorizzati per due ore giorni a uscire per «accudire gli animali». Altri finiti in storie di trattative parallele con pezzi dello Stato. Il fratello del capo dei capi dell'organizzazione. Il boss della Lombardia. E quelli implicati nei sequesti di persona degli anni 80-90. Giovanni Tizian il 7 maggio 2020 su L'Espresso. Oltre 40 i detenuti di 'ndrangheta scarcerati. Boss, colonnelli, soldati semplici, complici del sistema. Nomi pesanti, con condanne definitive o in attesa di giudizio. Giovani leve o anziani padrini che hanno attraversato la storia criminale della mafia calabrese. Scorrendo l'elenco riservato del Dipartimento dell'amministrazione pentitenziaria, una cosa è certa: le disposizioni dell'emergenza Covid19 hanno garantito alle cosche di 'ndrangheta di rimpolpare i ranghi con pezzi da novanta della gerarchia mafiosa. Tralasciando le polemiche e i giudizi di valore sulle scarcerazioni, c'è da fare una premessa: tutti, nessuno escluso, hanno diritto alle migliori cure. L'antimafia si pratica con i codici e seguendo la Costituzione. E non brandendo clava. È interessante, però, partire dai nomi. Molti dei quali condannati in via definitiva. Altri invece in attesa di giudizio. Cominciamo allora da questo piccolo esercito fino a poco tempo fa recluso e da qualche settimana a casa dopo che i tribunali di sorveglianza gli hanno concesso i domiciliari sulla base del rischio contagio da coronavirus. Scorrendo l'elenco troviamo la geografia criminale della 'ndrangheta. Dalla Calabria fino alle Alpi, passando per la Capitale. Dalle anguste celle dei reparti Alta Sorveglianza, un gradino sotto al più temuto 41 bis, alla gabbia domestica, nei regni, cioè, dove un boss esprime tutto il proprio potere senza doversi neanche spostare dalla poltrona. I provvedimenti di scarcerazione sono diversi, alcuni prevedono delle cautele disponendo, per esempio, l'uso del braccialetto elettronico, altri, invece, lasciano la massima libertà anche a figure centrali nello scacchiere del sistema criminale. C'è da scommetterci: quanti padrini affiancheranno alla fede per la madonna e san Michele Arangelo la devozione per quel virus chiamato Covid che gli ha concesso di lasciare gli spazi inumani della galera? Solo il tempo darà il responso.

Il narco e gli animali. Il caso di Sebastiano Giorgi, classe '67, è l'emblema di questo caos giurisprudenziale che ha provocato polemiche a non finire: sulla base di cosa vengono scarcerati i boss? Va dato a tutti il braccialetto elettronico? Che tipo di vigilanza va prevista? Insomma, grande confusione e poche linee guida certe. Giorgi è affiliato all'omonima cosca, conosciuta anche con il nomignolo “Suppera”. La sua carriera è scritta nelle sentenze che lo hanno condananto in via definitiva a 21 anni per traffico di droga e di armi, «in ossequio alle disposizioni in materia di contenimento del contagio da Covid19» gli è stato concesso il 23 marzo scorso di trasferirsi nella sua San Luca, il paese dell'Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, ricosciuto dagli affiliati di tutto il mondo come la “mamma” della 'ndrangheta. Dalla massima sicurezza del carcere di Sassari al luogo in cui tutto è cominciato. Il narco-boss della 'ndrangheta è però più fortunato di altri. Chi ha disposto la scarcerazione non ha previsto particolari obblighi, anzi: a L'Espresso risulta, infatti, che oltre a non dover indossare il braccialetto elettronico, potrà( con un permesso giornaliero) assentarsi due ore. Un permesso valido non per prendersi cura di un familiare ammalato o in difficoltà, ma per prendersi cura degli animali alle pendici della montagna. Si spera dotato di mascherina. Sarà l'occasione giusta per scambiare due chiacchiere con l'attuale boss del paese. Perché no?

Dai sequestri agli affari. San Luca si ripopola grazie all'emergenza Covid19. Anche grazie all'arrivo di un padrino della vecchia guardia 'ndranghetista tuttavia ancora molto influente: Francesco Mammoliti classe 1949. Colonnello della famiglia che porta il suo cognome conosciuta anche con l'alias “Fischiante”. Un'autorità a San Luca, i Mammoliti “Fischiante”. Don Ciccio Mammoliti è stato coinvolto in numerose vicende giudiziarie, era un boss della famigerata Anonima sequestri. Il suo nome, infatti, lo ritroviamo nelle inchieste sul sequestro di persone dell'ingegnere Carlo De Feo. Tra le doti di don Ciccio quella di farsi passare per morto: vent'anni fa un'inchiesta iniziata sulle dichiarazione del nipote venne archiviata per «morte del reo». Ma lui stava benissimo, tanto che dopo aver scontato la pena e rimesso ai domiciliari non è sceso dal trono. Poi un'altra inchiesta, il carcere. E ora di nuovo i domiciliari.

Il Gordo e quella trattativa dopo Duisburg. A San Luca è tornato anche Antonio Romeo, detto il “Gordo”. Narco della' ndrangheta di primissimo piano. Contatti internazionali, con emissari dei cartelli colombiani di Medellin, e una condanna definitiva a 17 anni per traffico di droga. Il nome del “Gordo” spunta in una vicenda mai chiarita di una presunta trattativa per l'arresto dell'allora latitante Giovanni Strangio, super ricercato, poi catturato in Olanda, per la strage di Ferragosto 2007 a Duisburg, in Germania. Una trattativa che sarebbe stata condotta da un carabiniere, un avvocato e il parroco don Pino Strangio di San Luca. Il Gordo all'epoca latitante doveva essere una pedina di scambio in uno scacchiere di favori e cortesia per poi arrivare il ricercato del momento, il killer di Duisburg. Vicenda che non ha avuto alcun risvolto penale, ma gli atti sono stati depositati nel più importante processo ai clan di Reggio Calabria in corso in questo momento nella città dello Stretto. Dove nel frattempo è tornato Demetrio Serraino, nato nel '47, fratello di don Ciccio Serraino, tra i padrini più influenti della vecchia 'ndrangheta.

Il fratello del capo dei capi. E del gotha della mafia calabrese fanno parte anche i Morabito, guidati da Giuseppe Morabito, detto “u Tiradrittu”, rietnuto uno dei capi supremi della 'ndrangheta. Suo fratello Rocco, detto “u Pilusu”( il peloso), è tornato a casa ad Africo. Il gruppo del Tiradrittu ha ramificazioni all'estero e in Lombardia, dove vanta business illegali ma soprattutto legali: sono stati i primi a infiltrare l'ortomercato di Milano. I “Tiradritti” sono imparentati con il latitante e narcotrafficante Rocco Morabito, evaso dal carcere uruguaiano dopo l'arresto che aveva fermato una fuga che durava da anni. Con Rocco “u Pilusu” è uscito dalla massima sicurezza anche il suo braccio destro: Domenico Antonio Moio. La coppia seppure a distanza si è riformata. Chi ha lasciato il carcere per i domiciliari è anche Pasquale Lombardo: di Brancaleone, in attesa di giudizio, è stato arrestato in un'inchiesta sulle nuove leve della mafia calabrese. É ritenuto un vero capo dagli inquirenti. E negli atti di quell'inchiesta un episodio, tra gli altri, indica quanto conta la sua presenza fisica sul territorio. Con il fratello e i sodali organizzano una vera e propria caccia all'uomo per scovare un rapinatore e fargliela pagare per aver violato il territorio.

Gli uomini dei Piromalli. Pure la piana di Gioia Tauro si ripopola di boss al tempo del covid. È tornato a casa Domenico Longo: 53 anni, condannato per associazione mafiosa, è considerato il reggente della 'ndrina Longo di Polistena. E sempre di queste zone è anche Vincenzo Bagalà, che però è in attesa di giudizio: secondo i pm è soggetto di massima fiducia dei Piromalli, del gotha della 'ndrangheta dunque. Della stessa “famiglia” è anche Domenico Pepè, adesso ai domiciliari grazie alla pandemia.

I boss del Nord. Risalendo la penisola, arrivamo in Lombardia, nella regione che più di tutte ha pagato un prezzo altissimo per la pandemia. Anche qui ci sono state scarcerazioni nell'ambiente alto della 'ndrangheta. Tra questi c'è Pio Candeloro: 56 anni, detenuto a Siena, capo della cosca di Desio e personaggio centrale nelle dinamiche della 'ndrangheta lombarda, quella svelata dalla maxi inchiesta “Crimine – Infinito” del 2010. Altro nome eccellente è Domenico Natale Perre, uno dei sequestratori delll'imprenditrice Alessandra Sgarella. Boss originario di Platì, il paese da cui sono partite le cosche Perre-Barbaro-Papalia per conquistare il mondo: da Buccinasco, in Lombardia, fino in Australia. Non sono i soli. Ci sono altri “lombardi” delle 'ndrine scarcerati: Saverio Catanzariti e Alfonso Rispoli. E c'è pure Leonardo Priolo della cosca di Mariano Comense. Profondo Nord. Come l'Emilia. Dove uno dei capi del gruppo legato alla potente cosca Arena di Isola Capo Rizzuto è uscito dal carcere e si trova ai domiciliari: Paolo Pelaggi. Dall'inchiesta sugli affari di Pelaggi, l'architetto di una truffa carosello milionaria, è nata l'inchiesta Aemilia, tra le più imporanti indagini contro la 'ndrangheta settentrionale. Il gruppo di Pelaggi è stato condananto oltreché per il business delle truffe anche per aver messo una bomba davanti all'agenzia delle entrate di Sassuolo, che si era permessa di interferire sugli affari oscuri del clan. L'elenco dei nomi che compongono l'esercito delle 'ndrine fuoriuscito dai penitenziari è ancora lungo. Sono storie di soldati e gregari, di giovani che gestiscono piazze di spaccio enormi come quella di San Basilio a Roma. Tutti uniti dal silenzio, nessuno che tradisce i capi. Fedeli ai mammasantissima che li hanno arruolati.

Massimo Giletti, la terrificante vignetta sul Fatto Quotidiano di Travaglio: schizzi di cacca e insulti. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Marco Travaglio ordina, i suoi soldatini eseguono. Il bersaglio del momento è Massimo Giletti. La ragione? Presto detto: ha "disturbato" i grillini con la bomba su Alfonso Bonafede, sganciata da Nino Di Matteo a Non è l'arena. E dato che il caso crea non pochi problemi anche a Giuseppe Conte, ecco che contro Giletti partono le bastonate di Travaglio. Come? Presto detto, con una vignetta disgustosa pubblicata in prima pagina sul Fatto Quotidiano e firmata da Mannelli. Nell'immagine si vede un Giletti deforme intento a spargere schizzi di escrementi. A spiegare il disegno, il commento: "Non è Giletti, è Shpalman! Che shpalma la merda in faccia. Aiuto arriva Shpalman che tutti ci shpalmerà". Il riferimento di tal porcheria è a una canzone di Elio e le storie tese. La "merda spalmata in faccia", ovviamente, sarebbe il caso con cui ha messo all'angolo Bonafede. Per Travaglio è vietato criticare i grillini. E chi si permette di farlo viene ricoperto di merda...

Da tvzoom.it il 21 maggio 2020. Scrive ''TVZoom'', nella sua rassegna stampa degli articoli sulla televisione: ''dopo che "Non è l’Arena" ha mandato in tilt il mondo grillino con l’intervista scoop al procuratore Giovanni Di Matteo contro il ministro Alfonso Bonafede, il "Fatto Quotidiano" tira fuori uno spot pro-Forestale del 2005 per sporcare l’immagine del conduttore''. L'articolo del ''Fatto'' è firmato da Enrico Fierro e Lucio Musolino, e racconta una campagna pubblicitaria anti-incendi con il volto di Giletti, finanziata dalla regione Calabria e commissionata a una società di comunicazione guidata da Salvatore Gaetano, oggi editore di ''Video Calabria'' e candidato alle ultime regionali con la Lega: «(…) Incassai 132 mila euro compresi di Iva. Ricordo i manifesti 6×3 con la faccia di Giletti, le foto, lo spot tv e la conferenza stampa con l’Assessore. Giletti lavorò con noi per un paio di giorni, forse tre, e io gli feci una fattura tra i 6 e i 9 mila euro. Conosco tanta gente, e credetemi, nessuno viene a lavorare in Calabria gratis». Giletti si chiede come mai debba rendere conto di un lavoro (fatturato) di 15 anni fa: «Devo dire che non capisco questa telefonata. Evidentemente, qualcuno pensava che potesse essere utile usare la mia immagine per fare una promozione antincendio».

Ma Giletti non era grillino? Ora è nel mirino dei Cinque Stelle. Marco Castoro il 7 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Era il 2017 quando Massimo Giletti – suo malgrado – fu costretto ad alzare i tacchi dalla sua amata Rai e a cambiare azienda. L’Arena – il programma che conduceva – stava andando fortissimo nel primo pomeriggio della domenica. Con una media di 4 milioni di spettatori e oltre il 20% di share. Eppure si chiusero i battenti. Perché – purtroppo per Giletti – quell’Arena di Rai1 era diventata sempre più la sua Arena, nella quale il conduttore si esibiva come un gladiatore, combatteva le sue battaglie che spesso (troppo spesso) non coincidevano con la linea governativa della Rai. L’allora dg Mario Orfeo decise di togliere l’Arena dal palinsesto della nuova stagione e a Giletti offrì di condurre delle prime serate il sabato. Ma il conduttore si sentì ferito nell’orgoglio e non senza rimpianti decise di lasciare la sua vecchia azienda sposando la proposta di La7 che Urbano Cairo stava forgiando. Chiese subito la domenica sera per sfidare faccia a faccia il suo antagonista, Fabio Fazio. Dalle parti del Cavallo di Viale Mazzini si disse nei corridoi delle sacre stanze: «Giletti è diventato grillino. Fa opposizione e porta avanti le sue campagne populiste contro i vitalizi e i privilegi della casta». Ebbene tre anni dopo Giletti – ormai in forza a La7 con Non è l’Arena – è finito nel mirino indovinate con quale accusa? È diventato l’antagonista dei cinque stelle. I suoi attacchi al ministro Bonafede e al governo sulla questione delle scarcerazioni dei boss della mafia e sulla nomina al Dap saltata con le relative accuse del magistrato candidato Nino Di Matteo, hanno surriscaldato gli animi. Sul Fatto Quotidiano ha fatto scalpore la vignetta di forte impatto apparsa in prima pagina nella quale si descrive un Giletti che getta e sparge escrementi. Con la seguente scritta a contorno: «Non è Giletti,  è Shpalman! Che shpalma la merda in faccia. Aiuto arriva Shpalman che tutti ci shpalmerà». L’anchorman sta portando avanti da alcune settimane la sua nuova crociata, questa volta contro le scarcerazioni facili. Domenica scorsa ha fatto nomi e cognomi. Scatenando un putiferio. Con interventi in diretta al telefono prima dell’accusatore Di Matteo e poi del ministro che si è difeso. A tratti ha ricordato i programmi del miglior Michele Santoro, quando i centralini delle redazioni andavano in tilt per le reazioni. Giletti non è nuovo a sfidare i poteri forti. A suo tempo perfino nel calcio ha scatenato una bagarre non indifferente, finendo sulle prime pagine dei giornali. Certo, non nella stessa maniera di come c’è finito sul Fatto Quotidiano.

Le figurine ingombranti dei M5s. Il magistrato antimafia, prima riferimento della legalità, ora è diventato difficile da gestire. Gianluigi Paragone il 6 maggio 2020 su Il Tempo. La vicenda Di Matteo/Bonafede ha diverse chiavi di lettura. La più immediata è quella parlamentare: qui parti storicamente ostili al magistrato si sono affrettate a prenderne le difese con il solo intento di indebolire il governo mettendo alle corde il Guardasigilli. Ci sta, per carità; ma non è per nulla il copione che intendo seguire, non fosse altro perché certe difese sono ridicole. La precisazione mi era doverosa perché anch’io criticherò Bonafede e il Movimento (quindi allineandomi in apparenza al gioco dell’opposizione) ma in quanto ex parlamentare del Movimento, espulso per eccesso di ortodossia con il programma grillino. (Avrei voluto scrivere per eccesso di coerenza ma chi si loda s’imbroda...).  Per decifrare il duello rusticano tra il magistrato antimafia e il ministro andato in onda a Non è l’arena vanno affrontate almeno tre chiavi di lettura: quella interna al movimento, quella esterna e quella di comunicazione. Tratterò inizialmente e brevemente la seconda perché è già stata sviscerata: l’offerta avanzata dal ministro al magistrato tra l’opzione Dap e l’opzione Affari penali; la scelta del secondo di puntare al Dap; il ripensamento del Guardasigilli poche ore dopo l’offerta avanzata al magistrato. A rendere più fitto il mistero del dietrofront di Bonafede su Di Matteo sono le voci che arrivano dalla criminalità, voci di ribellione in caso di nomina di Di Matteo. E qui si arriva alla messa a fuoco interna al Movimento, per commentare la quale mi dilungherò. La caratura... 

Contro Massimo Giletti il vitavizio dei grillini. Francesco Storace il 06 Maggio 2020 su 7colli.it. Anche contro Massimo Giletti, grillini con il vitavizio. Nel senso di vizio a vita. Il vizio di gettare a mare chi non gli serve più. Usano. Fanno come certi potenti, ma tanto la ruota gira per tutti. E anche loro subiranno la stessa sorte. Intanto ci chiediamo se ci sia un giudice a Berlino, o almeno alla procura di Roma. Perché anche le minacce contro Giletti – per ora a mezzo social – sono un reato da perseguire. La vicenda Bonafede raffigura – di nuovo – i pentastellati in modalità odio. Appena ne sputtani le gesta insorgono e minacciano.

Prima Di Matteo, poi Giletti, il vitavizio dei grillini. Ma sono loro stessi a distruggere i loro miti. Lo fanno spesso. In queste ore prima con il magistrato Di Matteo, che ha insinuato dubbi enormi sulla condotta del ministro della giustizia, che resta avvinghiato alla poltrona. Di Matteo sta al Csm, i due sono destinati ad incontrarsi e non sarà un bel vedere per entrambi dopo le accuse mosse e respinte sulle collusioni con i mafiosi nelle carceri. O meglio – e anche peggio per un ministro di quel livello – aver subito pressioni per evitare la nomina di Di Matteo a capo delle carceri italiane. Era una loro bandiera, lo hanno trasformato in banderuola. Idem per Massimo Giletti, osannato fino a quando si occupava di vitalizi. Ogni giorno spuntavano sulla rete i video con le sue trasmissioni contro la casta. Adesso che la casta sono loro, fanno la voce grossa, armano la tastiera, strillano al complotto. Stavolta è vitavizio, perché fanno sempre così. Abbiamo letto valanghe di insulti sui social. Accuse di aver ordito una trappola a Bonafede. “Un agguato” ha detto quel sapientone di Giarrusso, il deputato europeo. Parolacce. Offese. E minacce, appunto.

Fa il giornalista. Anche se l’Ordine non dice una parola. Eppure, Giletti si è limitato a fare il giornalista. Volevano che facesse il tappetino di fronte a sua eccellenza il signor ministro. Semmai avrebbero dovuto chiedersi, i pentastellati, perché una trasmissione del genere dobbiamo vederla su La7 e non alla Rai. Ci sarà un motivo se la chiamano “Non è l’arena…”, dopo avergli impedito di apparire sui canali del servizio pubblico radiotelevisivo. Domenica prossima Giletti tornerà alla carica sul tema dei mafiosi usciti di galera e non si lascia intimorire: “Dico subito a chi mi minaccia che domenica tornerò a parlare di questa storia” . A Myrta Merlino che gli ha chiesto: “Sapevi o no che avrebbe telefonato in diretta?”, Giletti ha risposto come doveva: “Ma come facevo? Neanche il mago Otelma può prevedere che un uomo dello spessore, dell’importanza di Di Matteo possa chiamare in diretta. Piuttosto, avete sentito il tono sofferto? Io a Bonafede riconosco grandi meriti nella lotta alla corruzione, ma la domanda è: chiami un uomo importante come Di Matteo, non un quaquaraqua qualunque e poi improvvisamente gli dici che ti sei sbagliato?! E’ questa la vera domanda. Cosa è successo?”. 

P.s. Giletti si prepari, che gli hater grillini torneranno a tentare di trafiggerlo. Ma l’Ordine dei giornalisti, sempre così sensibile quando tocca a lorcompagni, stavolta non parla. Curioso no? Libertà di informazione a corrente alternata, pare di capire.

Di Matteo dà del mafioso a Bonafede, Travaglio prova a fare da paciere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. E’ finita con un duello rusticano la battaglia del Dap. Si sono sfidati al ferro corto i due campioni del giustizialismo. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, campione di gaffe e fiero della qualifica di ministro più forcaiolo della storia della Repubblica. E Nino Di Matteo, pm molto politicizzato, con una storia di intuizioni giudiziarie assai poco felici e una storia di “dichiaratore” e personaggio mediatico assai più brillante. Di Matteo (che prima o poi, ne sono sicuro, finirà per dare del mafioso a se stesso) l’altra sera ha preso di petto il suo ministro e ha accusato anche lui di essere agli ordini dei boss, o almeno di averne subìto il ricatto, come aveva fatto giorni fa col tribunale di sorveglianza di Milano. L’imputazione esatta, credo, sia – al solito – concorso esterno in associazione mafiosa. Di Matteo lo ha fatto dalla televisione di Giletti, che sul piano della politica istituzionale della Giustizia oggi è la sede più accreditata. Bonafede ha provato a reagire, telefonando disperato e giurando sul suo manettismo, ma non è stato creduto. Ora c’è il fronte giusti-giusti–giustizialista che chiede le sue dimissioni. Forse Travaglio lo difenderà. Speriamo. Cos’è la battaglia del Dap? Il Dap è il dipartimento che si occupa di governare il sistema delle carceri. Recentemente è stato messo sotto accusa perché ritenuto responsabile di aver liberato un paio di persone molto anziane, molto malate, e che avevano quasi del tutto scontato la loro pena. Scarcerati sulla base di un articolo del codice penale scritto da Alfredo Rocco, giurista amato da Mussolini, nel 1930. Il Dap non è in realtà per niente responsabile delle scarcerazioni, ma il fronte del “buttate la chiave” (che ormai forse sta sfuggendo di mano anche al partito dei Pm) non ammette repliche. Fuori fuori fuori. La cosa che più preoccupa, forse , è proprio questa. Il partito dei Pm sta sfuggendo di mano anche al partito dei Pm. Le sue frange reazionarie più estremiste stanno stravincendo. Forse persino Travaglio ora ha paura…

Buona fede di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 Maggio 2020: Tutto potevamo immaginare, nella vita, fuorché di vedere il centrodestra (e dunque anche l’Innominabile e la sua Italia Morta) schierato come falange macedone in difesa di Nino Di Matteo, il magistrato più vilipeso e osteggiato (soprattutto dal centrodestra, ma non solo) degli ultimi vent'anni. Del resto, questa vicenda che lo contrappone al ministro Alfonso Bonafede è tutta un paradosso. Il Guardasigilli viene accusato di cedimenti alla mafia e alle scarcerazioni dagli stessi che gli davano del “giustizialista”, “manettaro” e per giunta colluso col “grillino” Di Matteo. Tant’è che l’altra sera, a “Non è l’Arena: è Salvini”, s’inchinavano deferenti a Di Matteo il capitano “Ultimo” (il neoassessore dell’immacolata giunta Santelli in Calabria, che Di Matteo fece a pezzi in varie requisitorie per la mancata perquisizione al covo di Riina) e l’ex ministro Claudio Martelli, che lo definì “uno stupido, forse anche in malafede” che “naviga nel caos” e “non escludo che si inventi delle balorde” nel processo 'Trattativa' che “finirà in un nonnulla” (infatti, tutti condannati). Una lezione di legalità resa ancor più credibile da maestri del calibro di Flavio Briatore (imputato per evasione fiscale) e dello stesso Martelli (pregiudicato per la maxitangente Enimont). Gli imputati, ovviamente assenti, erano due pericolosi incensurati: Bonafede e il suo capo uscente del DAP Francesco Basentini, che la vulgata salviniana e dunque gilettiana vuole colpevoli delle decine di scarcerazioni di detenuti (opera di altrettanti giudici di sorveglianza iper “garantisti”), quando tutti sanno che il DAP è corresponsabile solo in quella del fratello del boss Zagaria, scarcerato da un giudice di Sassari con la scusa del Covid e spedito a casa sua a Brescia (epicentro Covid). Nel bel mezzo di quel fritto-misto di urla belluine miste a notizie vere, verosimili e farlocche, fatto apposta per non far capire nulla, ha chiamato Di Matteo per raccontare la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018. I lettori del Fatto sapevano già tutto. Il 27 giugno 2018 Antonella Mascali la raccontò insieme alle esternazioni di alcuni boss al 41-bis contro l’ipotesi di Di Matteo al Dap. Poi Marco Lillo criticò Bonafede per la “figuraccia” fatta con Di Matteo. L’altra sera l’ex pm ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministro sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Giletti l’ha dato per scontato. Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. E non ne conosciamo i particolari. Ma già due anni fa ci facemmo l’idea di un colossale equivoco fra due persone in buona fede. Ecco la cronologia. Quando nasce il governo Salvimaio, voci di stampa parlano di Di Matteo al DAP o in un altro ruolo apicale del ministero della Giustizia. E fanno impazzire i boss (che evidentemente preferivano le precedenti gestioni). Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l’arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l’equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il DAP. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l’impressione del ministro): ruolo che il Guardasigilli s’impegna a liberare riorganizzando il ministero e ritiene più consono alla storia di Di Matteo, oltreché alla sua esigenza di averlo accanto per le leggi anti-mafia/corruzione che ha in mente (all'epoca il problema scarcerazioni non era all'ordine del giorno). Il PM invece ritiene l’incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il DAP a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il DAP e di non essere disponibile per l’altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il DAP l’ha già affidato al suo collega. Invano. Il 27 giugno il Fatto pubblica le frasi dei boss: a quel punto, come osserva Lillo sul Fatto, Bonafede potrebbe accantonare Basentini e richiamare Di Matteo per dare un segnale ai mafiosi; ma, per non mancare alla parola data, non lo fa. In ogni caso l’ipotesi che la contrarietà dei mafiosi l’abbia influenzato è smentita dalla successione dei fatti, oltreché dalla logica: chi vuol compiacere i boss non offre a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Martelli agli Affari penali, non al DAP. Ma Di Matteo si convince, memore dei mille ostacoli incontrati nella sua carriera, che “qualcuno” sia intervenuto sul ministro per bloccarlo. Intanto Bonafede continua a sperare di portarlo con sé. Ma ormai il rapporto personale è compromesso, anche se poi Di Matteo non manca di sostenere le riforme di Bonafede (voto di scambio, spazza-corrotti, blocca-prescrizione ecc.) e la recente nomina a vicecapo del DAP del suo “allievo” Roberto Tartaglia, giovane PM del processo 'Trattativa'. Un’altra mossa che a tutto può far pensare, fuorché a un gentile omaggio a Cosa Nostra.

Malafede di Marco Travaglio  sul Fatto Quotidiano del 6 Maggio 2020. Le persone perbene, che a certi livelli si contano sulle dita di un monco, sono naturalmente portate al battibecco: l’antimafia, anche la migliore, è piena di casi del genere (Sciascia-Borsellino, Orlando-Falcone…). Invece i manigoldi, che a certi livelli si contano sulle dita della Dea Kalì, sono molto più flessibili grazie ai loro stomaci moquettati. Quindi oggi in Parlamento assisteremo alla scena più comica della storia dopo la mozione “Ruby nipote di Mubarak”: Bonafede trascinato a render conto di presunti cedimenti alla mafia indovinate da chi? Da Forza Italia, partito ideato da un mafioso e fondato da un finanziatore di Cosa Nostra, che sventola senza pudore la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Dell’Utri per la trattativa Stato-mafia durante i governi Amato, Ciampi e B. e che, se dipendesse da FI, sarebbe stato spazzato via dalla magistratura prima che ci pensasse la mafia. La fiera del tartufo, e della malafede. Dopo i trii comici Troisi-Arena-De Caro, Aldo-Giovanni-Giacomo e Lopez-Marchesini-Solenghi, ora abbiamo FI-Lega-Iv. Salvini – appena eletto dalla Bbc cazzaro dell’anno insieme a Trump e Bolsonaro, con gran scorno dell’Innominabile – parla di “sospetti preoccupanti avanzati da un pm antimafia. Pensate se fosse accaduto a un ministro della Lega o a Berlusconi: sarebbe stata la rivoluzione della sinistra”. Veramente Di Matteo non ha mai detto che Bonafede abbia ceduto a pressioni mafiose. Quanto a cosa sarebbe accaduto alla Lega o a B., non c’è bisogno di immaginare: durante i loro governi si tennero trattative fra Stato e mafia sul 41-bis, sul decreto Biondi, sulla dissociazione ecc, un ministro mai cacciato disse che “bisogna convivere con la mafia”, si approvarono leggi svuotacarceri à go go e si propose di abrogare il 41-bis, il 416-bis, l’ergastolo e i pentiti, come da papello di Riina. Quanto alla “nuova” Lega, che da Nord a Sud ha imbarcato il peggio del forzismo, chi fu ad arruolare e sponsorizzare Paolo Arata (socio occulto del fiancheggiatore di Messina Denaro e compare del pregiudicato Siri)? Naturalmente Salvini. Ultimo del trio in ordine di voti è l’Innominabile che riesce a definire, restando serio, la polemica Di Matteo-Bonafede “il più grande scandalo della giustizia degli ultimi anni”. Modesto, il ragazzo: e dove lo mette lo scandalo del Csm, coi suoi amichetti Ferri e Lotti impegnati in notturni conversari a pilotare le nomine dei procuratori? Cosimino Ferri, anziché darle lui, ha chiesto le dimissioni di Bonafede. Una zampata da capocomico che stermina in un sol colpo il trio FI-Cazzaro-Innominabile e fa di lui il nuovo Principe della Risata.

Buttadentro&fuori di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 8 Maggio: Analizzando i danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, ci è tornato alla mente il tormentone di Eduardo De Filippo in A che servono questi quattrini?: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. In effetti il battibecco fra ex pm e ministro potrebbe sortire almeno due effetti positivi. Il primo è l’improvviso coup de foudre per Di Matteo del centrodestra più Innominabile più house organ e giornaloni al seguito, che li costringe a parlare ogni giorno della sua inchiesta più importante, quella sulla trattativa Stato-mafia, approdata – com’è noto – due anni fa alle condanne in primo grado di tutti gli imputati per violenza o minaccia ai governi Amato, Ciampi e Berlusconi. Non se n’era mai parlato così tanto, nei due anni d’inchiesta e nei quattro e più di dibattimento (regolarmente ignorato o svillaneggiato), né all’indomani della sentenza. Dunque siamo certi che ora chi dà ragione a Di Matteo sul sospetto, tutto da dimostrare, di pressioni sul ministro Bonafede per la mancata nomina a capo-Dap, non mancherà di far conoscere ai suoi (e)lettori le pressioni mafio-istituzionali ampiamente dimostrate in quel processo. Già immaginiamo le puntate speciali di “Non è L’Arena: è Salvini” con letture intensive della requisitoria Di Matteo e della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, nonché le edizioni straordinarie di Repubblica, Corriere, Stampa, Giornale, Verità e Libero con tutte le carte del processo del secolo (chi fosse interessato può copiare i paginoni del Fatto di due anni fa). Il secondo effetto benefico è che ora chi difendeva quei governi e quei ministri per aver trattato con la mafia “a fin di bene”, alleggerito il 41-bis e varato altre norme pro-mafia in ossequio al papello di Riina per “ragion di Stato”, farà senz’altro autocritica. Per un motivo di coerenza, cioè per rendere credibili le accuse sulle recenti scarcerazioni di mafiosi al ministro Bonafede, che peraltro non ha mai scarcerato nessuno e sulla mafia ha fatto (e ancora sta facendo) sempre e solo leggi anti, mai pro. Purtroppo la coerenza stenta ancora a farsi strada, dunque assistiamo a un gustoso paradosso: chi giustificava o minimizzava o ignorava la documentata trattativa Stato-mafia del 1992-’94 ora cavalca la falsa trattativa Bonafede-mafia del 2020. E attribuisce al ministro le ultime scarcerazioni, che invece sono farina integrale del sacco di circa 200 giudici. A parte il centrodestra, pieno di mafiosi e filomafiosi, che presenta mozioni di sfiducia contro Bonafede in nome dell’antimafia (quella di Dell’Utri, B.&C.), segnaliamo il neodirettore di Repubblica Maurizio “Sambuca” Molinari. Ieri, con l’empito tipico del neofita, ipotizzava “una trattativa” (termine da lui mai usato prima, Usa e Israele a parte) “fra i boss e lo Stato” in corso oggi e domandava, restando serio, “se fosse vero che i boss hanno ottenuto di poter uscire per salvaguardare la loro salute, fino che punto il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio sono stati informati e hanno autorizzato? Interrogativi molto seri che hanno a che vedere con la sicurezza dello Stato”. Se chiedesse a qualche suo cronista, Sambuca apprenderebbe con gran sorpresa che le scarcerazioni le decidono i tribunali di sorveglianza, a meno che il governo non le abbia disposte per legge o per decreto. Ma Bonafede, nel dl Cura Italia, ha escluso i condannati per mafia dalla lista di quelli scarcerabili a fine pena in base alla legge Svuota-carceri Alfano del 2010. Purtroppo un gruppetto di giudici se n’è infischiato e ha messo fuori tutta quella bella gente in base al comico assunto che i detenuti in carcere, inclusi quelli sigillati al 41-bis, rischiano il Covid più di chi sta fuori, mentre la logica e i numeri dicono che è esattamente l’opposto. Ma evidentemente il giureconsulto che consiglia Sambuca è quell’altro genio di Stefano Folli (il quale chiede le dimissioni di Bonafede “per responsabilità oggettiva” nelle “scarcerazioni di massa”, come se Tocqueville non fosse mai nato). Risultato: Repubblica ieri titolava in prima pagina “Boss, Bonafede ci ripensa” (non si sa rispetto a cosa, visto che non aveva mai detto di scarcerare mafiosi, anzi aveva decretato l’opposto). Il che deve aver aumentato fra i lettori l’imbarazzante sensazione di aver comprato per sbaglio il Giornale (“Bonafede si rimangia le scarcerazioni facili”), o La Verità (“La trattativa coi boss l’ha fatta Bonafede?”), o il Messaggero (“Frenata Bonafede”). Massima solidarietà al caporedattore Stefano Cappellini, che da mesi si dannava l’anima per spacciare Bonafede per un sadico carceriere per aver fatto le leggi che Repubblica aveva chiesto per vent’anni prima della tragicomica metamorfosi. Quando il Guardasigilli varò la blocca-prescrizione, Cappellini tuonò: “Calpestati i fondamenti di uno Stato di diritto degno di chiamarsi tale”, “giustizialismo”, “barbarie giuridica”, “tribunali dell’Inquisizione”. Ora vai a spiegare ai lettori che quel fottuto manettaro ha messo fuori, con la sola forza del pensiero, quasi 400 boss e forse sta pure trattando con la mafia. Qualcuno potrebbe domandare a Repubblica: ragazzi, l’abbiamo capito che ’sto Bonafede vi sta sul culo, ma siate gentili, diteci una volta per tutte se è un buttadentro o un buttafuori. Così, per sapere.

La nuova Repubblica di Molinari all’inseguimento di Travaglio e del Fatto Quotidiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Repubblica, ieri mattina, è uscita con un titolo a caratteri di scatola che campeggiava in prima pagina: Boss scarcerati, la lista segreta. Nel sottotitolo si spiegava che c’è un elenco di 376 detenuti messi in libertà dalla magistratura all’insaputa di tutti e che ora in Italia è scattato l’allarme rosso per la mafia. In un articolo sul nostro giornale, Stefano Anastasia spiega che i boss che lasciano il 41 bis non sono esattamente 376. Sono tre. E i tre nomi non sono neppure segretissimi. Zagaria, Bonura e un certo Vincenzo Iannazzo, condannato a 14 anni perché considerato esponente della ‘ndrangheta. Di Zagaria e Bonura si è già parlato molto nei giorni scorsi. Su tutte le prime pagine e in tutti i talk show. E la notizia della scarcerazione di Iannazzo è nota da un po’ più di un mese. Diciamo pure che lo scoop, in quanto scoop, non c’è. C’è però, evidentissima, la volontà di creare allarme e di favorire la sensazione, nell’opinione pubblica, che la mafia stia tornando a essere una grande emergenza nazionale e che occorrano provvedimenti rigorosi e una stretta a base di manette e più anni di carcere. È una offensiva in grande stile, condotta in particolare dai partiti più inclini al populismo, e cioè quelli della destra di Salvini e Meloni e, naturalmente, i 5 Stelle. Probabilmente però questa offensiva non avrebbe dato i risultati eccezionali che sta dando, in termini di indignazione pubblica, se non avesse ricevuto il sostegno appassionato del sistema informativo. Giornali e Tv, soprattutto. Guidati e governati e frustati come cavalli dal Fatto di Travaglio, ma ormai in grado di muoversi anche indipendentemente. Un po’ stupisce che questa uscita ultra-giustizialista sia il primo atto significativo della nuova direzione di Maurizio Molinari. Non lo conosco bene, personalmente, ma lo ho sempre letto e apprezzato. Molinari è un giornalista molto serio, colto, intelligente. È stato un eccellente corrispondente da New York e poi un ottimo direttore della Stampa. Non riesco a capire come abbia potuto permettere la scivolata di oggi del suo giornale. Una scivolata in pieno stile Fatto Quotidiano. Peraltro il titolo contiene una notizia assolutamente falsa. Nel gergo giornalistico, e nella vulgata dell’opinione pubblica, “boss” vuol dire capomafia. Come immagino voi sappiate, i capi della mafia, in Italia, da diversi anni vengono imprigionati in regime di 41 bis, cioè son messi al carcere duro. Non solo i più spietati, anche quelli che magari sono stati condannati solo per reati minori, ma con l’aggravante mafiosa (come è il caso dei tre scarcerati). Che poi questa sia una pratica compatibile con la Costituzione e con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo è un’altra discussione (comunque non è compatibile..) Ora, dire che c’è una lista di 376 boss quando in realtà la lista è di solo 3 presunti boss, è chiaro che equivale a fornire al lettore una notizia falsa. Ed è falsa anche la notizia che questa lista sia segreta, perché i nomi dei tre boss in questione erano noti a tutta l’opinione pubblica. Diciamo pure che su cinque parole di quel titolo, l’unica vera vera è la parola lista. Troppo poco, no? Come può succedere che uno dei due colossi dell’editoria italiana, pilastro dell’intellettualità borghese illuminata, scelga di inseguire il Fatto Quotidiano – cioè un giornale ostentatamente qualunquista – sia nella linea politica sia nello stile giornalistico? Secondo me questa è una domanda seria. Perché riguarda non solo il mondo dell’informazione ma l’intero svolgersi dello spirito pubblico in questo Paese. Le classi dirigenti danno ormai per scontata una egemonia fondamentalista e giustizialista. E si sottomettono. Qualunque idea liberale è scacciata dal panorama intellettuale e informativo. È considerata indecorosa, inapplicabile, inavvicinabile, scandalosa. Il ceto giornalistico è quasi interamente costruito nel cantiere post-Tangentopoli. Il giornalismo giudiziario ha preso il sopravvento su tutte le altre categorie del giornalismo, e per giornalismo giudiziario si intende quel tipo di informazione che parte dall’idea che una verità esista e questa verità sia a palazzo di Giustizia, o nelle stazioni dei carabinieri o anche, spesso, nei corridoi dei servizi segreti. Una parte non piccola del giornalismo giudiziario nasce lì: o nelle anticamere dei Pm o direttamente nelle stanze degli 007. E anche i commentatori sono ormai subalterni ai cronisti giudiziari. Tutto questo sta provocando un gigantesco spostamento di opinione pubblica. I partiti c’entrano qualcosa, c’entra la crisi, c’entrano anche le difficoltà delle democrazie in tutto l’Occidente. Ma il sistema dell’informazione, scritta e Tv, qui da noi ha un peso sconvolgente nella grande operazione populista. Un titolo come quello di oggi di Repubblica, che comunque influenza un settore significativo della borghesia perbene e un po’ di sinistra, vale più di cento citofonate di Salvini. C’è un modo per salvarsi? Per reagire? Forse, se si muove qualcosa in politica. Ma occorrerebbero leader coraggiosi, che sappiano guardare al futuro. O, addirittura, statisti. Ne avete visto qualcuno in giro?

Francesco Grignetti per “la Stampa” l'8 maggio 2020. Il «cantiere» per il nuovo decreto sulle scarcerazioni, evocato dal ministro Alfonso Bonafede in Parlamento due giorni fa, non ha ancora terminato i lavori. Mentre il centrodestra accelera i tempi per tentare la spallata, con mozione di sfiducia al Senato, firmata da Lega Fd' I e Forza Italia, e incentrata più su una complessiva «inadeguatezza» della gestione che sul caso Di Matteo, Bonafede ha passato la giornata al telefono con Giuseppe Conte, i capi M5S, interlocutori di maggioranza e anche magistrati. L' obiettivo è arrivare al più presto a un consiglio dei ministri, preferibilmente entro la settimana. Dev' essere un decreto in grado di superare il vaglio di costituzionalità: l' Esecutivo non può certo intimare alla magistratura che cosa fare. Ecco perché il decreto dovrà avere due capitoli distinti: uno per i detenuti mafiosi con condanna definitiva, le cui posizioni sono state vagliate dal Tribunale di Sorveglianza; l' altro per quelli in custodia cautelare, che hanno ottenuto gli arresti domiciliari da tribunali ordinari. Per i primi, s' immagina un obbligatorio riesame ogni mese. E così, quando il Tribunale di Sorveglianza dovesse riguardare il caso di un Pasquale Zagaria, il nuovo corso del Dap potrebbe ora garantire che c' è un posto-letto in carcere anche per la sua patologia. Per i secondi, si pensa di dare la possibilità alle procure distrettuali di fare ricorso davanti al tribunale ordinario, facendo leva sulla fine del lockdown e l' inizio della Fase 2. Se non c' è più un rischio assoluto per la popolazione, a maggior ragione cala il pericolo di contagio per un detenuto, ristretto in un carcere ad alta sorveglianza. Bonafede è in difficoltà. Quando ha scoperto che ci sono altre 456 domande di scarcerazione che pendono, e potrebbero essere anche di più, il suo primo pensiero è andato al decreto del 28 aprile, quello che ha imposto un «parere» preventivo alle distrettuali Antimafia. «Almeno non ci saranno scarcerazioni al buio», ha commentato. Si è scoperto infatti che centinaia di boss sono stati mandati a casa sulla base di un sillogismo astratto: dato che nelle carceri c' è sovraffollamento e non si può garantire il distanziamento, allora il detenuto va scarcerato. A prescindere da quale rischio rappresenti. Il ministro ha letto con rabbia che il precedente capo del Dipartimento, Francesco Basentini, aveva trattato con atteggiamento burocratico il caso Zagaria, e ha ordinato al nuovo vicedirettore Roberto Tartaglia di riesaminare tutti i casi simili. Si andrà a ritroso per fare le bucce alla gestione uscente.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 7 maggio 2020. In altri tempi la vicenda dei capi della malavita scarcerati in massa avrebbe provocato le dimissioni del ministro della Giustizia per responsabilità politica oggettiva. E forse avrebbe dato la spinta decisiva alla caduta del governo. Nella Repubblica dei Cinque Stelle il guardasigilli per ora resta al suo posto e si sforza di rimandare in carcere i boss come uno che si affanna a rimettere nel tubetto il dentifricio spremuto. Ma è impossibile non vedere che nelle ultime ore l' esecutivo Conte ha sofferto un altro colpo alla sua credibilità, stavolta sul terreno assai delicato dell' ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Pur volendo accantonare per un attimo le polemiche sulle mascherine mancanti o sui sussidi economici fantasma, resta un senso d' incertezza il cui fondo è tutto politico. L' intesa tra Pd e M5S è fragile e lo diventa ogni giorno di più. È chiaro che in questa fragilità l' astuto Renzi coglie l' occasione per riprendere le sue scorrerie corsare, fino alla tentazione di firmare con la Lega salviniana la mozione di sfiducia individuale contro Bonafede: il che sarebbe un gesto di rottura plateale con il resto della coalizione dagli esiti destabilizzanti. Ma se il capo di Italia Viva ha ritrovato smalto, lo si deve solo in parte alla sua spregiudicatezza. Il resto dipende dalla debolezza politica dell' asse Pd-5S, tanto solido in apparenza quanto contraddittorio nella sostanza. I democratici di Zingaretti sono per ingessare lo status quo senza limiti di tempo, ma ogni giorno temono qualche trappola e vorrebbero Conte sotto controllo. I Cinque Stelle ormai si fidano poco del loro premier troppo ambizioso, ma non hanno carte di ricambio da giocare. Come del resto non le ha nessuno, compreso Renzi. Quest' ultimo tuttavia, non pilotando una nave mercantile bensì un veloce barchino, può permettersi cambi di rotta veloci. Così mette in mora Bonafede in una chiave "legge e ordine" e al tempo stesso lancia la sua fidata Bellanova in una battaglia "di sinistra", qual è l' ipotesi di regolarizzare alcune centinaia di migliaia di immigrati irregolari che si caricano dei lavori più umili, soprattutto al Sud ma non solo. Così si apre una frattura di nuovo con i Cinque Stelle, timorosi di lasciar spazio ai leghisti su questo terreno. È una guerriglia quotidiana che potrebbe essere contenuta in un unico modo, quello suggerito con antica saggezza da Emanuele Macaluso: ricostruendo un vero patto politico tra Pd, grillini e LeU, magari esteso ai renziani sulla base di accordi chiari. Un patto - bisogna aggiungere - che dovrà comprendere gli scenari economici che si delineano, non meno del quadro internazionale: la questione Cina non è una bazzecola di scarso rilievo, ma un tema cruciale del prossimo futuro, chiunque siederà nei prossimi anni alla Casa Bianca. Gli alleati europei lo hanno compreso, in Italia ci sono ancora troppe ambiguità. In assenza di un' iniziativa del genere, per la quale forse siamo già fuori tempo massimo, ci si deve solo affidare al senso istituzionale del presidente della Repubblica e al suo monito sulle elezioni anticipate a breve. I partiti farebbero bene ad ascoltarlo, tuttavia l' esperienza insegna che quando il tessuto politico si lacera non basta il rispetto delle istituzioni per evitare di inciampare. Anche se non ci sono alternative a portata di mano.

Stefano Folli per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. Non deve stupire se alla fine Renzi e il manipolo di Italia Viva non voteranno la sfiducia al ministro Bonafede. È un documento del centrodestra e il senatore di Scandicci non è tipo da andare dietro a Salvini oltre un certo limite. Qualche incontro, molte parole, nessun impegno concreto, un rimbalzo mediatico sui "due Matteo" uniti nel logorare il governo Conte...tutto questo fa parte del gioco di palazzo che riprende quota man mano che il Covid s' indebolisce e si apre la voragine dell' economia. Ma votare insieme all' opposizione, nel momento in cui almeno su questo punto (forse solo su questo) Berlusconi, Giorgia Meloni e il capo leghista si ritrovano compatti, non fa parte del repertorio renziano. D' altra parte, nessuno può credere che il caso Bonafede sia risolto e che l' esecutivo ne esca rinfrancato. Al contrario, la vicenda dei malavitosi mandati ai domiciliari si arricchisce di nuovi particolari, nessuno incoraggiante, e la matassa si aggroviglia. Chi ha gestito fin qui la vicenda, sia sul piano tecnico sia nei suoi risvolti politici, si è assunto una responsabilità agli occhi di un' opinione pubblica disorientata. Responsabilità che nel caso di Bonafede è oggettiva, tipica di chi come ministro deve rispondere politicamente dell' operato del suo dicastero. Il Guardasigilli sta tentando di riparare al danno prodotto. Ma come farlo, attraverso quali strumenti amministrativi, è assai più complicato del previsto, segno di una generale sottovalutazione iniziale. Il decreto, che avrebbe dovuto risolvere il problema con un colpo a effetto, ieri sera era ancora un foglio bianco. E si capisce: sono in ballo delicati aspetti che toccano lo Stato di diritto, anche quando i protagonisti sono fuorilegge, nonché precise prerogative della magistratura. Quindi la questione è al tempo stesso drammatica e piuttosto semplice nella sua dinamica. O Bonafede risolve il caso nelle prossime ore, armandosi di un decreto inattaccabile che riporti in cella almeno i più pericolosi tra i capi mafiosi, ovvero la sua permanenza alla testa del dicastero di via Arenula diventerebbe poco plausibile. Non solo: una difesa a oltranza da parte dei Cinque Stelle di questo loro esponente che non è - va ricordato - un personaggio di secondo piano, produrrebbe un' onda destinata a rovesciarsi su Palazzo Chigi, cioè il livello politico superiore. Conte può ancora dimostrare che il pasticcio è nato e si è gonfiato presso il ministero della Giustizia, a sua insaputa, ma ciò presuppone che Bonafede sia lasciato al suo destino (sempre, va ribadito, che la vicenda non si risolva in brevissimo tempo e senza ulteriori passi falsi). Viceversa, è probabile che a rispondere sarà il premier. In ogni caso, la difesa del ministro in una causa pressoché indifendibile non è senza un prezzo. Se la ferita non si richiude in pochi giorni, i Cinque Stelle potrebbero dover decidere tra la lealtà verso Bonafede e la sopravvivenza del governo di cui fanno parte con loro piena soddisfazione. Bisogna sottolineare: sopravvivenza. Perché in ogni caso la navigazione del Conte 2 è e rimane faticosa. C' è da credere che lui stesso ne sia consapevole dietro l' ottimismo di maniera. Forse, come dice Zingaretti, se si apre la crisi si andrà a votare e molti nodi si scioglieranno. O forse qualcuno, magari anche nel Pd, ha in serbo una soluzione che tirerà fuori al momento opportuno.

Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. Alfonso Bonafede sa, lo ha capito, che indietro non si torna. Non si possono rimandare i mafiosi in carcere per decreto, checché ne dica la propaganda del Movimento 5 stelle. Non si può neanche decidere, per decreto, cosa devono fare e quando i giudici di sorveglianza, di appello, di corte d' Assise. Il ministro della Giustizia al question time ha tentato ancora una volta di difendersi: «Invito tutti a fare un' operazione di verità: le scarcerazioni sono avvenute in virtù di leggi non di questo governo, ma che erano lì da anni e che nessuno aveva mai modificato ». E ancora: «Nel decreto "Cura Italia" nessuna legge porta alla scarcerazione dei mafiosi, che sono invece esclusi dai benefici». Tutto vero, ma quello che viene imputato al Guardasigilli dall' opposizione e dall' interno della sua stessa maggioranza è di non essere stato in grado di capire quello che stava succedendo. Di gestire il fenomeno. Di prevedere le conseguenze della circolare con cui il Dipartimento di polizia penitenziaria invitava i direttori delle carceri - a causa dell' emergenza Covid - a verificare lo stato di salute e di particolare fragilità di tutti i detenuti. Senza indicare in alcun modo delle soluzioni alternative ai domiciliari per i più pericolosi. C'è un' aria avvelenata e impaurita, nella maggioranza di governo. Il Movimento 5 stelle fa quadrato attorno a Bonafede, parte la batteria di sostegno e il consueto post sul blog con cui viene definito un ministro «scomodo per i poteri forti». Ma all' interno dello stesso esecutivo c' è chi denuncia: «Per tutta l' emergenza ha lavorato quasi sempre da casa, da Firenze, non si dirige così un posto delicato come via Arenula ». Di più: il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra fa sapere di aver chiesto a lungo al Dap l'elenco dettagliato di tutte le persone scarcerate a causa dell' emergenza sanitaria, senza avere risposte in tempi congrui. Di qui, un duello sulla convocazione di Bonafede in Antimafia, che tarda a essere fissata. Il tweet del senatore M5S ieri è sembrato quasi un atto di accusa nei confronti del governo per la gestione dell' intera vicenda: «Cosa nostra, come tutte le mafie - scrive Morra, che di Bonafede non è mai stato amico - non verrà sradicata e dissolta fino a quando ci sarà un solo mafioso che trova in un esponente del potere democratico la disponibilità alla conservazione dell' esistente, al compromesso sugli ideali, al ripudio dei valori costituzionali». Un attacco a salve, senza un destinatario preciso, ma che mina ancora di più la maggioranza nel momento in cui proprio a Palazzo Madama, la prossima settimana, si dovrà votare la mozione di sfiducia contro il Guardasigilli presentata da un centrodestra a sorpresa compatto. E con la minaccia di Italia Viva ancora in sospeso: quel testo è fatto apposta perché Matteo Renzi e i suoi possano votarlo in nome delle battaglie garantiste fatte. Così, dopo il question time, Bonafede si è chiuso al ministero a lavorare. Da lì, si è collegato in videoconferenza con il reggente M5S Vito Crimi e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: ha spiegato quanto sia delicata e difficile la stesura del decreto. Con una consapevolezza: va fatto subito. Prima che la situazione degeneri ulteriormente, prima che escano altri boss. Segnando un danno d' immagine enorme per il governo guidato da Giuseppe Conte. E infatti, subito dopo, il ministro della Giustizia ha sentito il presidente del Consiglio. Che ha capito di dover seguire la vicenda da vicino anche perché gli è giunta eco della preoccupazione del Quirinale per l' impatto delle scarcerazioni sull' opinione pubblica. Il capo dello Stato sorveglia l' intera operazione e dai suoi uffici filtra la richiesta di un testo che valuti bene il problema della retroattività: lo scoglio su cui si sono infrante le intenzioni iniziali di Bonafede, che non può fare un provvedimento in contrasto con l' autonomia della magistratura e ha dovuto ridimensionare il testo che aveva immaginato. Il Pd, in tutto questo, non intende infierire. La pedina Bonafede non può saltare senza che vada tutto in aria. Ma un dirigente dem ricorda come il guaio, prima ancora del Dap, sia stato il non voler affrontare davvero e per tempo il problema del sovraffollamento delle carceri. Lasciando che poi, davanti all' emergenza sanitaria e ai disordini, a prevalere fossero panico e confusione.

Marco Travaglio, altro che "equivoco". Clamoroso al Fatto, Marco Lillo lo smentisce: "Perché Bonafede ha scelto Basentini, nel giro di Conte". Libero Quotidiano l'08 maggio 2020. Altro che "equivoco", Marco Travaglio aveva provato a gettare acqua sul fuoco della polemica tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo per la mancata assegnazione al pm antimafia della poltrona da capo del Dap, ma ci pensa Marco Lillo, spalla del direttore e firma di punta del Fatto quotidiano a cambiare clamorosamente le carte in tavola. E a smentire categoricamente Travaglio. Come sottolinea perfidamente Dagospia, Lillo lascia intendere chiaramente cosa abbia portato il ministro della Giustizia Bonafede, nel 2018, a privilegiare Basentini (oggi dimessosi) a Di Matteo: "Meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo. Per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell' università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere". Insomma prima gli amici di Conte e Bonafede, come Basentini, che quelli di Travaglio come Di Matteo. 

DAGONEWS l'8 maggio 2020. Ma non era solo un equivoco? Così aveva scritto in prima pagina Marco Travaglio, commentando il pasticciaccio tra Bonafede e Di Matteo. Ma a leggere Marco Lillo, confinato in un trafiletto di commento, la strategia dei grillini di governo di mettere da parte il pm antimafia viene da lontano. Secondo il vicedirettore del Fatto Quotidiano, a Di Matteo fu offerto in segreto addirittura il ministero dell'Interno prima delle elezioni del 2018 (mentre in pubblico si parlava di Paola Giannetakis per non metterlo in difficoltà). Invece al Viminale ci andò Salvini, e così Bonafede gli offri un posto che non c'era (la direzione Affari penali era occupata da Donatella Donati) e un posto che svanisce quando Di Matteo lo accetta: il Dap.

Scrive Lillo: Già allora, nel 2018, notavamo che Basentini è meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo: per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell' università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere. Accipicchia. Quindi ci sarebbe la filiera Conte-Bonafede dietro alla promozione di Basentini e al siluramento di Di Matteo. La cosa viene confermata dall'articolo di oggi sul Giornale che racconta come sia già pronto una nuova poltrona per Basentini:

Laura Cesaretti per ''il Giornale'' l'8 maggio 2020. I casi sono due: o il dottor Basentini, già direttore del Dipartimento per l' amministrazione penitenziaria scelto dal Guardasigilli Bonafede, si è dimesso perché ha svolto male il proprio ruolo, e quindi è utile che non si occupi più di carcere. Oppure lo ha svolto bene, e allora non si doveva dimettere. Quel che non si comprende è perché il magistrato potentino (con al suo attivo la gloriosa inchiesta Tempa rossa, che mise nel mirino il governo Renzi per oscuri complotti petroliferi, fece saltare la ministra Guidi e poi finì ovviamente col collasso delle imputazioni e l'archiviazione per gli indagati) debba essere recuperato e continuare - per il ministero di Bonafede - ad occuparsi di detenuti. La voce circola da giorni, la notizia è stata data da diverse testate online e blog che ruotano attorno al carcere e alla polizia penitenziaria: al pm Francesco Basentini, che aveva tristemente annunciato il 30 aprile scorso: «Mi tocca tornare a Potenza», donde era giunto, sarebbe invece stato assegnato un posto «romano» nella task force creata da Bonafede per affrontare l' emergenza Covid nelle patrie galere. La voce non è stata finora smentita da Via Arenula. Del resto esiste ormai in Italia, soprattutto in area grillina, una tale pletora di task force che sarebbe possibile dare una poltrona a qualsiasi trombato o amico di ministri, tanto della composizione e dell' operato di questi organismi emergenziali non si sa nulla o quasi, neppure negli stessi ministeri presso cui vengono quotidianamente costituiti. In attesa di scoprire se si tratti di una malignità, o se sia invece vero che Bonafede, spinto dal suo cuore d' oro, abbia offerto un ripescaggio governativo al Basentini in disgrazia, vale la pena di ricordare il bilancio con il quale il magistrato lucano ha lasciato l' importante incarico (mettendo però sul tavolo, dicono i rumor, la richiesta di essere spostato in una procura più prestigiosa, Torino o Firenze): rivolte in tutte le carceri, 13 detenuti morti, 40 agenti feriti, danni alle strutture per 60 milioni. Per tacere, ovviamente, della esilarante guerriglia tra manettari sulla sua nomina, a colpi di accuse di connivenza con la mafia, tra gli ex amici del cuore Bonafede e Di Matteo. Intanto ieri il Consiglio superiore della magistratura ha ufficializzato la sostituzione di Basentini con il nuovo direttore del Dap Dino Petralia, scelto dal ministro per rimpiazzarlo. Via libera - con una sola astensione, quella del laico della Lega Stefano Cavanna - dal plenum del Csm al collocamento fuori ruolo del magistrato, fino ad oggi procuratore generale di Reggio Calabria.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” l'8 maggio 2020. Il caso Bonafede, ministro della Giustizia finito nel tritacarne delle guerre tra magistrati, è l' emblema dell' epopea grillina, un mix di incapacità, demagogia, moralismo, giustizialismo, sete di potere e di soldi. L' altro giorno Antonio Padellaro, giornalista di lungo corso e presidente de Il Fatto Quotidiano, scriveva a proposito della situazione politica: «Vorrei aver visto la faccia di Sallusti quando Berlusconi, senza avvisarlo, ha detto che il governo Conte non deve cadere». Ecco, detto che Berlusconi può dire ciò che crede, io avrei pagato per vedere la faccia di Padellaro quando Travaglio ha scritto, senza avvisarlo, che se un magistrato suo amico (Di Matteo) accusa un politico suo amicissimo (Bonafede) di presunte collusioni con la mafia, che sarà mai, «si tratta solo di un equivoco». In poche righe, e all'insaputa di Padellaro, Travaglio ha smentito anni di duro lavoro suo e dei suoi giornalisti sguinzagliati a inseguire tutti i teoremi giustizialisti e pistaroli possibili e immaginabili. Ma com' è la storia? Se un killer pentito di mafia, tale Spatuzza (che partecipò al sequestro del bambino sciolto nell' acido), dice di aver sentito dire che Berlusconi è stato amico di un mafioso, significa che Berlusconi è mafioso: se invece un famoso magistrato antimafia dice che un ministro ha trattato con la mafia, è solo un innocuo gioco tra bambini. Il problema non è se Bonafede, detto anche mister boria, è o no colluso con la mafia (non lo è) o se Di Matteo sia o no un grande magistrato erede di Falcone (certamente non lo è). Il problema è quanto stupidi e pericolosi siano questi professionisti dell' antimafia, politici o giornalisti o magistrati che siano, rimasti vittime dei loro stessi giochini e delle loro ossessioni. Vederli in mutande arrampicarsi sui vetri per spiegare balbettando che lo scambio di accuse tra Bonafede e Di Matteo avvenuto in diretta tv da Giletti è stato «un equivoco» è lo spettacolo dell' anno, che ci ripaga di tante sofferenze. Anzi, come canta il grande Jovanotti è «il più grande spettacolo dopo il Big Bang». Di Matteo ha passato (inutilmente) la vita a voler far fuori Berlusconi e in due minuti ha bruciato la carriera del suo amico e sodale Bonafede; Bonafede voleva affidare il Paese ai magistrati manettari ed è riuscito ad azzoppare per sempre il magistrato numero uno dell' antimafia, ieri scaricato anche dal moralista Davigo. Dei veri geni, si sono «arrestati» tra di loro, Bonafede e Di Matteo (le rispettive carriere finiscono qui, al di là del fatto se rimarranno ancora per qualche tempo al loro posto) e insieme hanno smascherato l' ipocrisia del loro megafono Travaglio. Neppure Paolo Villaggio ha avuto tanta fantasia nel descrivere le bislacche disavventure di Fantozzi.

Claudio Tito per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. «Un decreto per rivalutare la scarcerazione dei boss». L' altro ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha tentato di chiudere con questo annuncio la polemica che stava infuriando sul trasferimento agli arresti domiciliari, causa pandemia, di diversi condannati per mafia. Ma come si è arrivati a questa decisione? Cosa è accaduto da marzo fino a ieri? Tutto è stato eseguito nella trasparenza? I rapporti tra il Dap (il Dipartimento dell' Amministrazione penitenziaria) e il Guardasigilli sono stati corretti? Ci sono state delle mancanze o delle approssimazioni? Le violente rivolte registrate nelle carceri hanno svolto un ruolo diretto o indiretto? La sequenza temporale degli eventi è l' unica certezza da cui partire. Si tratta di una catena di episodi che conferma tutti gli interrogativi. Inizia nella prima settimana di marzo. Quando l' emergenza Coronavirus si trasforma in allarme sociale e istituzionale. In quel momento, in diverse case circondariali del Paese scattano delle vere e proprie rivolte. Da Salerno a Napoli, da Roma a Milano. Il primo incidente risale al 7 marzo. La tensione resta altissima per quattro giorni. I morti sono 12. Molti dei quali tossicodipendenti, i detenuti più deboli all' interno della società carceraria e i più "sacrificabili" nelle logiche malavitose. Il sospetto di molti è allora che i tumulti siano orchestrati dai gruppi più facilmente attivabili: quelli della criminalità organizzata. I più agitati, gli affiliati a camorra e mafia. In silenzio, quelli della 'ndrangheta. Nelle prigioni calabresi non si muove un dito, ma nei canoni delinquenziali viene considerato un segnale ulteriore. Negli stessi giorni, il 9 marzo, il governo annuncia il lockdown. L' 11 le rivolte vengono sedate. Sei giorni dopo l' esecutivo approva il primo decreto per affrontare la crisi: il Cura Italia. È il 17 marzo e in quel testo compare la prima norma sui detenuti. Per evitare il sovraffollamento durante il picco dei contagi, si prevede la scarcerazione di chi ha una pena residua non superiore ai 18 mesi e comunque non condannati per delitti gravi. Da quel momento quasi sei mila reclusi vengono liberati. Ma non, appunto, quelli macchiatisi dei reati più pesanti. Non quindi i mafiosi. Passano altri tre giorni e il Dap, guidato allora da Francesco Basentini, emette una circolare sulla base dell' unità medica interna, in cui si segnalano i rischi sanitari per chi è affetto da alcune patologie. L' elenco riguarda i malati oncologici o quelli affetti da Hiv, ma anche chi presenta «malattie dell' apparato cardiocircolatorio» o «malattie croniche dell' apparato respiratorio». Da quel momento si susseguono le decisioni dei magistrati di sorveglianza. Il "confine" dei condannati si allarga. Fino a contemplare, appunto, la scarcerazione di boss di chiara fama. Ogni provvedimento è motivato dalla pandemia e dal pericolo determinato dalla difficoltà di mantenere il distanziamento sociale. Due dati, però, fanno riflettere: al 31 marzo, dopo dieci giorni dalla circolare del Dap, i carcerati contagiati dal Covid ammontano a 19 su una popolazione carceraria di quasi 61 mila persone. Gli agenti penitenziari colpiti dal virus sono 116 su un corpo di 37 mila unità. Resta il fatto che dal 21 marzo le maglie della scarcerazione si dilatano. Al punto che il 22 aprile il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, scrive al direttore del Dap per chiedere spiegazioni e per conoscere «se vi siano state determinazioni di sorta che abbiano inciso su uno o più detenuti sottoposti alle misure di cui all' articolo 41 bis dell' ordinamento penitenziario». Ancora Morra, due giorni dopo, manda una nuova lettera per sollecitare «i dati di cui dispone il Dipartimento ». Basentini risponde. Ma evidentemente per l' Antimafia non è esaustivo. Non tutto è chiarito e se ne lamenta platealmente facendo notare di non aver ricevuto l' elenco dei mafiosi liberati. Il 29 aprile allora spedisce un' altra missiva reclamando «i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all' art. 41-bis dell' ordinamento penitenziario». A quel punto Basentini manda a Morra la lista, poi pubblicata il 6 maggio da Repubblica . E «per conoscenza » la trasmette anche al capo di gabinetto del ministro Bonafede e al suo capo della segreteria. Il Guardasigilli, attraverso il suo staff, era quindi a conoscenza delle disposizioni assunte almeno dal 29 aprile. Il primo maggio - due giorni dopo -Basentini rassegna le dimissioni e viene nominato il due maggio il nuovo responsabile del Dap, Dino Petralia. Il ministro della Giustizia, però, fino al 6 maggio non adotta alcun provvedimento. E annuncia il decreto solo dopo che Repubblica pubblica l' elenco dei mafiosi scarcerati.

Il giudice “senta” tutti tranne l’avvocato: la beffa del Dl carceri. Nelle nuove norme arriva un altro duro colpo al diritto alla difesa. Errico Novi su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Non è un granché come decreto. E se ne sono visti di peggiori, tra i provvedimenti poco attenti ai diritti. Ma nelle nuove norme sulle scarcerazioni varate sabato notte dal Consiglio dei ministri, emanate domenica dal presidente Mattarella e in vigore da ieri, c’è una voragine giuridica pazzesca: non è previsto alcun ruolo per la difesa del detenuto. Non fa differenza che si tratti di un condannato in via definitiva, al 41 bis o in “Alta sicurezza”, o anche solo di un imputato a cui la misura cautelare sia stata sostituita con la detenzione domiciliare. Non cambia se si tratta di reati di mafia, droga o terrorismo. Il giudice avrà l’obbligo di acquisire il parere della Procura distrettuale o della Dna, ma mai quello dell’interessato e dei suoi avvocati. Potrà decidere di riportare in carcere o in una “struttura protetta” il condannato o imputato in gravi condizioni di salute, ma potrebbe farlo senza dare ai suoi legali alcuna possibilità di ribattere ai pm. È un limite gigantesco, che sarà difficile veder corretto in fase di conversione. Certo, si tratta di un provvedimento mirato ai soli casi in cui il differimento o la sostituzione della pena con i domiciliari siano avvenuti per «motivi connessi all’emergenza Covid 19», ma lo sfregio al diritto di difesa resta. A denunciarlo è stata già domenica una delibera dell’Unione Camere penali, che ha parlato di decreto «volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo e al controllo delle Procure distrettuali antimafia». La misura tradise, secondo i penalisti italiani, innanzitutto «la cultura poliziesca» che la anima. «Oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici», prosegue la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza, il provvedimento «prevede il parere degli uffici dell’accusa, ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna», accusa l’Ucpi, «degna della incultura del diritto e della infedeltà alla Costituzione che avvelena il Paese». Il paradosso è che le nuove norme non hanno disarmato la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra contro Bonafede, il quale oggi interverrà alla Camera. Il ministro non ha potuto far altro che stressare i già esausti Tribunali di sorveglianza e gli stessi uffici di Procura, con un obbligo di rivalutazione mensile e con l’ordine di compiere la prima verifica entro quindici giorni dall’ordinanza. Il magistrato sarà tenuto ad acquisire il parere dell’ufficio inquirente distrettuale o, nel caso dei detenuti al 41 bis, della Procura nazionale antimafia. Dovrà verificare con il Dap se si sono liberati posti nei pochi ospedali attrezzati che si trovino all’interno degli istituti di pena o nelle altrettanto poco capienti “strutture protette”. Dovrà poi sentire il governatore per capire se nella regione in cui si trova il carcere ove riportare il detenuto l’emergenza Covid si sia ridotta. Nel caso delle persone sottoposte a misura cautelare, sarà invece la Procura a dover compiere valutazioni mensili e a presentare al giudice, eventualmente, richiesta di revoca dei domiciliari. Un meccanismo pesante ma inutile. Perché l’emergenza non è finita e non lo sarà per mesi, ma anche perché una parte notevole delle scarcerazioni, e anche quelle, appena quattro, dei detenuti al 41 bis, sono legate a condizioni di salute comunque gravissime, e all’obbligo, imposto dall’articolo 147 del codice penale e dalla Costituzione, di bilanciare le esigenze di sicurezza con il principio di umanità della pena. Le conseguenze materiali del decreto saranno modeste e Bonafede resterà esposto alle accuse della curva forcaiola. A maggior ragione è assurdo non aver previsto di vincolare il giudice ad acquisire anche la valutazione degli avvocati. La sola attenzione al diritto di difesa sta nell’articolo 4 del decreto, che ha tradotto in norma di legge la delibera con cui il Cnf aveva chiesto e ottenuto dal Dap lo svolgimento in videochiamata, anziché dal vivo, dei colloqui tra detenuti e difensore. Resta comunque salvo il diritto a un colloqui al mese con i familiari anche in tempi di covid. Ma l’impressione è che il governo abbia avuto l’ennesimo cedimento ai torquemada del giustizialismo.

TravagliEni e l’angoscia per la lite tra i figliocci Bonafede e Di Matteo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2020. «È un colossale equivoco tra persone in buonafede». Ha scritto proprio così. Chi? Travaglio. Le accuse di Di Matteo a Bonafede, la furia di Bonafede contro Di Matteo, la rottura tra i 5 Stelle e Di Matteo, gli stracci che volano al Csm… tutto questo, semplicemente, un equivoco. Sembra che Bonafede e Di Matteo non si capirono bene sull’ora del loro colloquio e così successe un pasticcio su quella questione del capo del Dap, anche perché nel frattempo i Gom avevano passato delle intercettazioni a Marco Lillo e Di Matteo si era allarmato. Ma insomma niente di grave. Ora magari con una telefonata si sistema tutto. Non sto mica scherzando. Sto facendo un riassunto dell’editoriale di ieri di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Da quando il nostro amico si è impossessato dell’Eni (chi è confidenza con lui, scherzosamente, lo chiama TravagliEni, ma lui si arrabbia) è proprio cambiato da così a così. Una volta sospettava di tutti, immaginava scontri, manovre sotterranee, complotti, segreti, ripicche, i più improbabili misteri nel mondo politico. Oggi tutto gli sembra semplice e placido. E se qualche giornalista (pochi pochi, per la verità) si impiccia e fa notare che si è aperto uno degli scontri istituzionali più clamorosi, almeno dai tempi di Cossiga, tra Csm e governo, e maggioranza, lui va su tutte le furie e immagina complotti massonici. Una volta mi ricordo che Travaglio accusava il Corriere della Sera di “paludismo”. Lo chiamava il “Pompiere della Sera”. Adesso altro che De Bortoli e Fontana: Travaglio più che un pompiere sembra un idrante…Detto questo, l’affare Di Matteo ormai è esploso ed è molto difficile nasconderlo, anche se gran parte della stampa è disposta a collaborare col Fatto e a mettere la sordina allo scandalo. Il problema è che nessuno sa più dove metterla questa sordina. Perché Di Matteo è un icona dei 5 Stelle e del partito dei Pm (che sostanzialmente sono lo stesso partito) ma ora una parte consistente dell’establishment dei 5 Stelle è furiosa con lui. Travaglio in persona è il capofila della corrente che comprende sia Di Matteo che Bonafede, entrambi considerati suoi colonnelli di prima fila. E capite che non è facile rimettere insieme i cocci. La teoria del nostro TravagliEni, quella del colossale equivoco, non è che sembra particolarmente astuta. La destra ne approfitta – in democrazia funziona così… – e picchia sul ministro. Usando disinvoltamente le accuse di Di Matteo. Al Csm forse non c’è più maggioranza, e magari la sinistra di Area si sta rendendo conto che andare appresso a Di Matteo non è cosa saggia. Difficile impedire che questo casino non abbia una ricaduta sulla politica nazionale. Anche se…Anche se coi 5 Stelle non si sa mai. Rispetto alla vecchia Dc, al Pd e allo stesso Berlusconi, questi sono molto, molto più dorotei…

P.S. 1 Spesso i 5 Stelle dicono che la politica è un po’ uno schifo perché alla fine è solo una questione di poltrone. Ma questo scontro tra Di Matteo e Bonafade ho capito male o ha come posta in gioco la poltrona del Dap?

P.S.2 – Certo, gli stipendi dei deputati sono troppo alti. Forchettoni. Conoscete lo stipendio del capo del Dap?

Carlo Tarallo per “la Verità” il 6 maggio 2020. Il travaglio (molto doloroso) dei grillini dura una notte, solo una notte: quella, in realtà assai agitata, trascorsa ad attendere cosa avrebbe scritto Travaglio (Marco) sul Fatto Quotidiano a proposito dello scontro tra il magistrato e membro del Csm Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Quando ieri mattina appare l' editoriale, il M5s tira un sospiro di sollievo: «L' abbiamo sfangata». Travaglio, infatti, non sguaina lo spadone a difesa di Di Matteo, ma minimizza, parla di «colossale equivoco», assolve Bonafede, perché il fatto (quotidiano) non sussiste, e così i membri laici pentastellati del Csm possono sganciare le loro bombe sull' ex idolo antimafia: «Vogliamo sottolineare con forza», scrivono Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, «la nostra convinzione che i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell' esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l' autorevolezza del Consiglio. Chi ha l' onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale», aggiungono i tre laici targati M5s, «deve sapersi auto-limitare». Di Matteo, si contenga! La nota di Benedetti, Donati e Gigliotti ricorda la famosa telefonata di Silvio Berlusconi a Michele Santoro, del 16 marzo 2001: caso chiuso, quindi, in superficie. In profondità, però, le acque grilline sono assai agitate: «Ormai», confida alla Verità un esponente pentastellato di governo, «il M5s è l' establishment e il populismo giudiziario e giornalistico che ci ha dato i natali come Movimento ora ci si ritorce contro. Era prevedibile, forse inevitabile, ma non ci sarà alcuna ripercussione. Il governo non si tocca, basta spostare una casella per far crollare tutto e darla vinta a Alessandro Di Battista, che non vede l' ora di tornare alle elezioni. Piuttosto, la vicenda Bonafade mette in difficoltà Luigi Di Maio, che è il nume tutelare del ministro della Giustizia». «Non a caso», prosegue il big del M5s, «Danilo Toninelli è stato sacrificato, ma Bonafede con tutte le gaffe e gli errori sta sempre là ed è pure capodelegazione del M5s al governo, piazzato da Di Maio, che ha ricoperto quel ruolo prima di lui». Se è per questo, Bonafede è anche colui il quale ha presentato Giuseppe Conte a Di Maio «Bonafede», aggiunge la nostra fonte, «non si muove. La faccenda è molto semplice: il governo deve restare in piedi a tutti i costi, non c' è discussione o polemica che tenga». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d' Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto che Bonafede vada in Aula per comunicazioni, quindi ci sarebbe un voto sulle parole del ministro. Spaccature in vista? «Macché», ridacchia il big pentastellato, «ormai chi doveva andar via lo ha fatto, i parlamentari sono letteralmente terrorizzati dall' idea che la legislatura non duri cinque anni. Se si torna a votare, in Parlamento torna un terzo di noi. Se va bene». Difficile in ogni caso che Bonafede accetti di presentarsi in Aula per comunicazioni, più probabile la scelta di una semplice informativa, che non preveda un voto. Pd e M5s si schierano compatti a difesa del Guardasigilli, e pure Italia viva, che su Bonafede e la riforma della prescrizione aveva minacciato di far cadere il governo, ingrana la retromarcia: «Da mesi», sottolinea il capogruppo dei renziani al Senato, Davide Faraone, «chiediamo le dimissioni del ministro della Giustizia, ma oggi no. Oggi che il destino ridicolo si è abbattuto su chi si è servito dei processi in piazza per poi rimanervi vittima, no. E lo facciamo perché c' è in gioco la democrazia. Quello che è andato in onda», aggiunge Faraone, «è un botta e risposta tra due correnti del medesimo giustizialismo». Con Forza Italia pronta ad approfittare della primi crisi seria del governo per entrare a far parte di una maggioranza di ricostruzione nazionale, Italia viva si guarda bene dal premere sull' acceleratore, e così anche il caso Di Matteo-Bonafede è destinato a essere archiviato il più presto possibile.

Da liberoquotidiano.it il 5 maggio 2020. Marco Travaglio, nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, racconta la polemica tra il pm antmafia Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo le dichiarazione del magistrato nella trasmissione Non è l'Arena su La7 condotta da Massimo Giletti. Il magistrato, in diretta tv, ha raccontato la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018.  "Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. Travaglio nella querelle si schiera al fianco del ministro grillino e spiega che la lite tra i due sarebbe nata da "un equivoco tra due persone in buona fede", scrive il giornalista. "Tutto nasce quando voci di stampa parlano di Di Matteo al Dap, nel primo governo Conte. Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l'arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il Dap. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l'impressione del ministro). Il pm invece ritiene l' incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il Dap a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il Dap e di non essere disponibile per l'altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il Dap l'ha già affidato al suo collega", conclude Travaglio chiarendo così come la grande polemica politica del momento con  richieste di dimissioni sia per Bonafede che per Di Matteo, sia nata tutto da un equivoco tra i due. Convinto lui...

Mattia feltri per ''la Stampa'' il 5 maggio 2020. La scorsa legislatura, non so più quale ragazzaccio dei cinque stelle s' alzò in Parlamento a consegnare al Pd il titolo di partito della mafia. Nella sollevazione sdegnata dei destinatari, rimane indimenticabile la cera esterrefatta di Rosy Bindi, una vita trascorsa, col volenteroso sostegno dei colleghi, a dichiarare mafioso questo e quello, Andreotti, tutta la vecchia Dc, Berlusconi, i suoi alleati in odore di concorso esterno in governo mafioso. Adesso l' esterrefatto di turno è proprio un ragazzaccio dei cinque stelle, Alfonso Bonafede, promosso a ministro della Giustizia perché nello stringato curriculum vantava la qualifica di onesto, e d' improvviso additato al popolo da Nino Di Matteo, pm feticcio della via immacolata al potere, e per quella via arrivato al Csm. Senza vincolarsi a concetti inafferrabili tipo la nemesi, considerata la sceneggiatura e i protagonisti, succede che il pm feticcio va alla trasmissione di Massimo Giletti e butta lì che forse, chissà, stai a vedere, la sua mancata nomina alla direzione delle carceri dipese dalla disapprovazione dei boss, cui Bonafede fu forse sensibile. Al di là del curioso approccio del dottore Di Matteo alle notizie di reato, indagate due anni dopo in favore di telecamera, e dell' eterna e sottovalutatissima tiritera del più puro che ti epura, a incantare è la velocità con cui i nemici del governo, interni ed esterni, hanno trasformato in verità l' illazione, cioè l' identico meccanismo per cui Bonafede è diventato ministro della Giustizia. Il peggiore nella storia delle democrazie occidentali, ma se vince Di Matteo, ricordarselo, senz' altro migliore del prossimo.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 5 maggio 2020. Domenica sera, su La7, è andato in onda a sorpresa il primo derby di Sospettopoli. In campo, da una parte il campione in carica dell' antimafia Nino Di Matteo, dall' altra Alfonso Bonafede, il ministro spazzacorrotti. Arbitro Massimo Giletti, il barbarodurso del populismo prêt-à-porter. Sulle curve opposte, incollati ai teleschermi, gli ultras dei manettari e quelli dei forcaioli, che hanno aspettato fino all' ultimo secondo - prima della pubblicità - per capire chi dei due lottatori avesse la meglio, quello che i cattivi li brucia e li squarta o quello che li grattugia e li divora. La partita l' ha vinta Di Matteo, con il suo dettagliato racconto di quello che avvenne quando nacque il primo governo Conte. Allora il neo-ministro Bonafede prima gli chiese di scegliersi una poltrona - quella del Dap che controlla la polveriera dei penitenziari o quella degli Affari penali che fu di Giovanni Falcone - e poi, quando il pm palermitano andò a dirgli che accettava la prima, ritirò la proposta e gli offrì solo la seconda (che fu rifiutata). E il colpo da maestro di Di Matteo è stato l' accostamento sapiente di due fatti evidenti per dar corpo a quel sospetto che - come disse padre Pintacuda - è l' anticamera della verità. Mentre io riflettevo sull' incarico da scegliere, ha detto infatti il magistrato, al ministro arrivò un rapporto che rivelava che nelle celle dei mafiosi al 41 bis si temeva il suo arrivo al Dap, «se mettono Di Matteo è la fine, quello butta la chiave». E aggiungendo che «questo è molto importante che si sappia», il pm antimafia non ha apertamente accusato il ministro di essersi fatto condizionare dall' ira dei boss. No, ha solo sganciato un dubbio termonucleare, su quella poltrona scottante che il giorno prima gli era stata offerta e il giorno dopo sarebbe sparita mentre stava per sedervisi. Diciamo la verità: era quasi commovente ascoltare Bonafede mentre sosteneva che «dobbiamo distinguere i fatti dalla percezione», mentre sosteneva che bisogna credere «alla verità», e non agli esplosivi sospetti che con accorta misura il suo accusatore aveva messo sul tavolo. E non solo perché Di Matteo è il cavaliere senza macchia e senza paura che i cinquestelle hanno portato in trionfo fino al raduno casaleggese di Ivrea, il pm che un tempo sognavano come ministro della Giustizia, ma perché il povero Bonafede non avrebbe mai immaginato essere raggiunto anche lui, un giorno, dal fumo velenoso di quel sospetto che nel codice di entrambi è più vero della verità.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 5 maggio 2020. «Al minimo dubbio, nessun dubbio»: da domenica sera (dopo le rivelazioni del magistrato Nino Di Matteo a Non è l' Arena sulla trattativa con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per la scelta del capo del Dap) nelle chat dei parlamentari grillini rimbalza la citazione di Gianroberto Casaleggio. È il fucile nelle mani di chi nel Movimento spinge per il passo indietro del Guardasigilli. La tensione è alle stelle. Il caso Bonafede diventa l' occasione per regolare i conti tra le anime del Movimento. È una faida tra chi contesta la deriva e chi rimane fedele ai valori dell' origini. Scorrendo le agenzie non c' è traccia, fino alle 18 e 30 di ieri, delle dichiarazioni (in difesa del Guardasigilli) da parte di ministri e parlamentari dei Cinque stelle. Solo dopo la replica (balbettante) del ministro, c' è chi esce allo scoperto. Un vuoto di venti ore che certifica la spaccatura. Il Movimento si interroga (e litiga) sulla strada da imboccare: scaricare Bonafede o aprire il fuoco contro il magistrato simbolo dell' ala giustizialista dei Cinque stelle. I gruppi whatsapp dei grillini sono una polveriera. La discussione si infiamma subito. Quasi in tempo reale, con l' intervento in diretta di Bonafede al programma condotto da Massimo Giletti, si accende lo scontro. Nel privato delle chat c' è chi avanza la richiesta di dimissioni. «Bonafede è indifendibile», «onestà onestà solo slogan»: è questo il tono dei messaggi che si scambiano deputati e senatori del M5s. Il silenzio stampa (anche del capo reggente del Movimento Vito Crimi) è lo specchio dell' imbarazzo. La tentazione di mollare il ministro, chiedendo un passo indietro, c' è. Ma i vertici (da Luigi Di Maio e Riccardo Fraccaro) frenano: «Bonafede è anche il capodelegazione dei Cinque stelle al governo. Se salta il ministro della Giustizia è a rischio la tenuta del governo Conte». Prevale, dunque, la linea del silenzio. Nessuna fuga. Niente attacchi dall' interno. Non manca chi sollecita un intervento di Alessandro Di Battista. Entra nella polemica l' ex senatore grillino Gianluigi Paragone per chiedere le dimissioni del ministro. Lo scontro Bonafede-Di Matteo manda in tilt lo staff comunicazione dei Cinque stelle. Nessuno è in grado di attivare (fino alle 18 e 30) la macchina della propaganda per alzare uno scudo in difesa di Bonafede. Per tutta la giornata i parlamentari incassano l' offensiva delle opposizioni. C' è chi chiede al ministro di assumere una posizione chiara. Di ricostruire con un post (che poi arriva) tutta la vicenda. Non manca chi invece suggerisce di aspettare l' editoriale del direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio per capire la strategia da seguire. È un susseguirsi di accuse, veleni e timori. Alla fine si opta per il salvataggio (della poltrona) di Bonafede. Il viceministro dell' Economia Laura Castelli tira un sospiro di sollievo e si lancia nella difesa: «Sulla linearità d' azione e correttezza, morale e professionale del nostro ministro nessun deve alimentare congetture». Anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D' Incà sceglie la difesa pubblica del ministro. I duri e puri battono in ritirata. Ma lo scontro resta aperto. Dagli ai Social. Ma non è altro che censura della Rete non omologata.

Massimo Giletti contro Martina a L'aria che tira: "Mafia e coronavirus, come posso affidarmi a certi incompetenti?" Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Mettendo a confronto due piani distinti, Massimo Giletti mette all'angolo Maurizio Martina, esponente di spicco del Pd, partito di maggioranza. Siamo a L'aria che tira, il programma di Myrta Merlino su La7, dove il conduttore critica l'esecutivo sia per la gestione dell'emergenza coronavirus sia per le scarcerazioni dei boss che tanto stanno facendo discutere (e che, in controluce con le dichiarazioni di Nino Di Matteo a Non è l'Arena, hanno messo in profonda difficoltà Alfonso Bonafede). "Come posso affidarmi a certe persone incompetenti nella task force creata per il coronavirus che hanno gestito la liberazione di Zagaria?", chiede Giletti a Martina. Dunque, aggiunge: "Se la meritocrazia tanto sventolata porta persone che neanche gestiscono uno dei criminali più importanti nel nostro Paese, io alzo le mani". Da par suo, Martina, più che rispondere respinge la domanda al mittente: "Non capisco che cosa significhi mischiare il bisogno drammatico che c'è di proteggere il personale sanitario con un giudizio rispetto a un componente di una task force". Come detto, le risposte stanno a zero. 

Sei anni fa la clamorosa lite tra Di Battista e Speranza, così lontana, così attuale. Redazione su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Il video che abbiamo deciso di riproporvi, documenta una accesa lite, con tanto di urla e insulti, avvenuta nel gennaio del 2014, nella sala stampa della Camera dei deputati, tra l’allora capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, oggi Ministro della Salute e Alessandro Di Battista, in quel momento deputato per il M5s, oggi senza un preciso ruolo politico, ma sempre molto attivo nel movimento. Il senso dello scontro si racchiude in due posizioni molto precise: Di Battista urla con disprezzo contro Speranza, invitandolo a tagliarsi lo stipendio, mentre lo accusa con il suo partito, di affamare gli italiani, di rubare loro il pane e Speranza al quale veniva impedito di rilasciare un’intervista, rimprovera a Di Battista di essere un fascista, di non rispettare democraticamente la diversità di idee e posizioni. Nel gennaio del 2014 Di Battista e Speranza erano avversari politici, l’uno esponente del Pd, e l’altro di un movimento che accusava il Pd di aver distrutto il paese. Cosa resta oggi di questa storia politica, con Pd e M5s alleati nella stessa maggioranza di Governo? Tutto. Resta il populismo di misure del tutto inefficaci per affrontare i bisogni reali del paese e resta una propaganda che pone, per esempio in primo piano, come risposta ad ogni crisi economica, la scelta di auto ridursi lo stipendio da parte dei deputati e dei senatori del M5s, naturalmente con le dovute e numerose eccezioni che hanno causato l’espulsione di chi non ha rendicontato e restituito. Resta la tendenza del Movimento ad annunci facili, ma spesso vuoti di contenuto, dalla sconfitta della povertà al decreto liquidità per far fronte all’emergenza covid-19: 400 miliardi di euro che nessun imprenditore ha visto e nessuno vedrà, se non al prezzo di un debito da contrarre mentre non c’è alcuna certezza o stabilità di lavoro e sviluppo. E resta una sinistra che continua a smarrire l’anima e il coraggio di una politica di riforme e di sostegno alle componenti più fragili del paese. Il video è una visione, una sintesi dell’atteggiamento politico di un Movimento che detestava alla sua nascita la politica, che aspirava al Parlamento al solo scopo di “aprirlo come una scatoletta di tonno”, che malediceva l’Europa e che oggi nella dialettica di Governo, non ha ancora ricomposto molti dei suoi eccessi, senza però averne più il coraggio e che rischia di liquefarsi al prossimo appuntamento elettorale. Ora però mentre PD e M5s, sono insieme al governo, ci piacerebbe non sentir più parlare degli stipendi dei parlamentari, nè delle virtuose riduzioni di un terzo, di un quarto o della metà, adottate dai grillini, vorremmo ricominciare a parlare degli stipendi degli italiani. Stipendi che non ci sono. E’ tornata la povertà, ma non ditelo al Movimento!

Nunzia De Girolamo contro Bonafede a L'aria che tira: "Di Matteo era in diretta, ma quale informazione distorta?" Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Ad aggiungere ulteriori dettagli, pesantissimi, che inguaiano Alfonso Bonafede e il M5s, tutto, sul caso-Nino Di Matteo ci pensa Nunzia De Girolamo. Ospite a L'aria che tira di Myrta Merlino in onda su La7, la De Girolamo torna a domenica sera, alla puntata di Non è l'arena di Massimo Giletti, a cui era presente, e mette in evidenza una semplice circostanza, che già di per sé basterebbe a far chiarezza sulla vicenda e a spazzare via le critiche di chi parla di informazione distorta: "Di Matteo ha ascoltato - premette la De Girolamo -, era in diretta anche quando ha chiamato Bonafede. Non c'è stata alcuna interpretazione delle sue parole", sottolinea. E ancora: "E pensare che il M5s urlava onestà-onestà proprio difendendo Di Matteo. Ma questo è il M5s: Bonafede viene da un percorso completamente diverso da tutta l'altra politica", conclude. 

Matteo Renzi, il regolamento di conti tra i giustizialisti Bonafede e Di Matteo: "Lo scandalo più grave sulla giustizia". Libero Quotidiano il 04 maggio 2020. “È un regolamento di conti tra giustizialisti”. Così Matteo Renzi ha commentato a L’aria che tira lo scontro in atto tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo. Sono sempre più insistenti le richiede di dimissioni nei confronti del ministro della Giustizia, messo in difficoltà dallo scandalo dei boss mafiosi scarcerati e mandati ai domiciliari (domenica sera Massimo Giletti ha letto in diretta l’elenco dei nomi dei criminali rilasciati) e anche dalle parole dal magistrato Di Matteo. Il quale, sempre durante Non è l’Arena, ha rivelato che Bonafede gli aveva chiesto la disponibilità per il ruolo di capo del Dap ma che dopo 48 ore, quando aveva deciso di accettare, il ministro gli aveva detto di averci ripensato. Secondo Di Matteo la polizia penitenziaria aveva informato la Procura Nazionale Antimafia e la direzione del Dap della reazione di importantissimi capimafia che dicevano 'se nominano Di Matteo è la fine'. Secondo Renzi si tratta di una vicenda “molto pesante”, però al di là del regolamento di conti tra giustizialisti sono anche membri delle istituzioni, quindi quello in atto è un “grave scontro istituzionale”. “Vorrei sapere la verità - ha dichiarato l’ex premier - se c’è qualcosa sotto si faccia chiarezza. Siamo in presenza di una clamorosa vicenda giudiziaria, mi aspetto parole chiare in Parlamento e al Csm, è il più grave scandalo sulla giustizia degli ultimi anni”.  

Bonafede, Daniela Santanché: "Tg1, sconcertante silenzio dopo lo scoop di Massimo Giletti". Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Le critiche nei confronti di Massimo Giletti, reo di aver dato spazio a Nino Di Matteo, hanno mandato su tutte le furie Daniela Santanchè. Il caso è quello andato in onda domenica a Non è l'Arena, il programma su La7 condotto proprio da Giletti. Qui il pm antimafia ha dichiarato di essere stato scartato dalla presidenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, perché la sua nomina avrebbe scatenato l'ira dei boss mafiosi. Un'accusa gravissima nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e che il giornalista ha ammesso di voler approfondire. A non menzionare neppure la vicenda invece viale Mazzini. "È sconcertante - denuncia su Twitter la senatrice di Fratelli d'Italia - come nell’edizione odierna del Tg1 non si sia fatto cenno a quanto successo ieri sera nel programma di Giletti, una tv pubblica dovrebbe dare maggiore spazio a notizie così importanti. Porterò il caso in Vigilanza Rai", ha assicurato.

Di Matteo da Giletti degno delle sceneggiate del pool di Mani Pulite. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Perfino se fossero vere le sconclusionate ma gravissime insinuazioni del dott. Di Matteo nei confronti del Ministro di Giustizia Bonafede, la gravità del desolante scontro mediatico tra campioni del giustizialismo populista in diretta tv sta altrove. E cioè nell’essere noi ormai assuefatti alla idea che una sconcertante performance televisiva come quella messa in scena dal dott. Di Matteo rientri nell’ordine delle cose che possono legittimamente accadere nel nostro Paese, e che infatti regolarmente accadono. Dalla sceneggiata televisiva del pool di Mani Pulite in tv, maniche di camicia, barbe incolte e volti affranti, per silurare un decreto legge adottato da un Governo legittimo e democraticamente eletto, fino al Procuratore di Catanzaro Gratteri che ad ogni pie’ sospinto ribadisce che fu il Presidente della Repubblica Napolitano a non volerlo ministro della Giustizia, lasciandoci ad annegare nel dolore e a macerarci nel dubbio di innominabili connivenze ‘ndranghetistiche al vertice supremo dello Stato, lo spartito è sempre quello. Ditemi voi in quale altro Paese democratico del mondo sarebbe mai consentito a un magistrato di sparare simili bordate contro un ministro in carica. Egli può aprire una indagine su quel Ministro, o sollecitarla ai suoi colleghi competenti per territorio, se vi sono fatti e circostanze che lo legittimino: ecco tutto quello che un magistrato può fare, e scusate se è poco. Fuori da questi invalicabili limiti, ogni altra iniziativa o esternazione è, semplicemente, fuori dal recinto della legittimità costituzionale. Noi invece apriamo un dibattito sul merito della vicenda: chi ha ragione, chi ha torto. Addirittura Massimo Giletti, autore non saprei quanto involontario dello scoop, insiste perché ci si indigni del fatto che “un uomo come Di Matteo” sia stato, come dire, prima sedotto e poi abbandonato dal suo ministro più adorato e stimato. Le amarezze o le malinconie del dott. Nino Di Matteo dovrebbero insomma essere poste al centro di una sorta di lutto nazionale, magari da risolversi con le dimissioni dell’oltraggioso ministro. A volte mi capita di chiedermi – e questa è una di quelle – se sogno o son desto. Lasciatemelo dire dal profondo del cuore, senza voler mancare di rispetto a nessuno: ma chissenefrega! Se la vedano tra di loro. Di Matteo mandi un whatsapp a Bonafede, seppure un po’ tardivo, e gli dia del maleducato: di cos’altro dovremmo discutere? E dunque, mentre – non credendo più da tempo a Babbo Natale – occorre interrogarsi su cosa possa avere in realtà ispirato questa improvvida sceneggiata, e se magari essa abbia a che fare con alcune recenti delusioni legislative (vedi il giocattolino del processo da remoto, tolto via dal Parlamento sovrano ai suoi frenetici sostenitori, tra i quali Di Matteo, a un passo dalla agognata riduzione a icona del diritto di difesa nel processo penale), sarebbe sciocco e ingeneroso nascondere alcuni motivi di enorme, impagabile soddisfazione. Il mondo politico, culturale ed editoriale nato, cresciuto e pasciuto parassitando l’antimafia (ah, indimenticabile Sciascia!) per farne un micidiale strumento di formazione del consenso e di conquista crescente di cruciali leve del potere, è in cortocircuito. Lo schema fino a ora meravigliosamente vincente del mondo in bianco e nero, buoni e cattivi, o con Di Matteo e Gratteri o con mafiosi e ‘ndranghetisti, che ha portato il più improbabile dei movimenti politici a governare il Paese ed un gruppo di giornalisti scrittori ed editori ad accumulare fortune e potere, implode come un sufflè venuto male. Eccovi ripagati della stessa moneta, e da chi? Dall’idolo immalinconito e deluso. Spettacolo strepitoso vale – anche solo per poche ore – qualunque prezzo del biglietto. Quel Giarrusso, per dire, collegato in trasmissione mentre Di Matteo bombardava placidamente il suo ministro antimafia anticorruzione eccetera, che roteava gli occhi e balbettava frasi insensate non sapendo che pesci prendere e non avendo, d’improvviso, più nessuno a cui dare comodamente del mafioso; e Travaglio, con il suo editoriale interminabile con il quale ci spiega che è tutto un equivoco, si sono capiti male, l’audio non era dei migliori e Giletti è amico di Salvini; beh non so voi, ma io, almeno per qualche ora, ho avuto netta e commovente la sensazione di assistere, per la prima volta nella mia vita, alla prova scientifica della esistenza di Dio.

Giletti mette in scena una rissa tra boia con fake news sui boss. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Oramai tutto quello che accade al Dap non sfugge a Giletti, che sta sviluppando su di esso un’autentica campagna in più puntate. Domenica la campagna ha avuto un’ulteriore escalation. La settimana prima nel mirino era finito Basentini e solo pochi giorni dopo ci ha lasciato lo scalpo. Il risultato paradossale della seconda puntata è che, con un paio di eccezioni, si è trattato di uno scontro senza esclusione di colpi fra giustizialisti in servizio permanente effettivo. Per non farsi mancar nulla infatti Giletti ha messo in campo anche il sindaco di Napoli de Magistris, che ovviamente si è trovato benissimo in questa parte e che sembrava addirittura un Pm ancora in funzione e anche un membro del Csm. È stato presentato un elenco di circa 40 carcerati ad altissimo livello di pericolosità mafiosa spostati agli arresti domiciliari per ragioni di salute; poi è risultato che al 41bis di essi ce n’erano solo 3 e quindi l’impalcatura politica costruita secondo la quale si era davanti ad una “resa dello Stato” dopo i recenti moti nelle carceri è risultata del tutto ridimensionata. Infatti, a nostro avviso, lo Stato non si arrende a nessuno se 3 criminali finiscono agli arresti domiciliari. Siccome però Giletti deve avere uno scalpo, questa parte della trasmissione si è conclusa con l’invito, urlato come un ordine, che dopo Basentini venga “eliminata” anche la dirigente del Dap che si era occupata del caso Zagaria, ma il punto culminante della trasmissione è consistito in uno scontro durissimo fra ultra giustizialisti (Giletti, il ministro Bonafede, il Pm Di Matteo, il Pm Catello Maresca, l’on. Dino Giarrusso, molto a disagio nei panni per lui inconsueti di avvocato difensore del ministro, il comandante Ultimo), che ha avuto per oggetto la seguente questione: il delitto di lesa maestà nei confronti del Pm Di Matteo presentato come una sorta di icona protagonista di una vicenda politico-giuridica, quella della pretesa trattativa Stato-mafia su cui invece è in corso una durissima discussione perché contestata alla radice da molti giuristi, storici, magistrati e avvocati. Il ministro Bonafede è finito sotto accusa quasi che fosse un pericoloso garantista con tendenze criminogene e amicizie pericolose per una colpa imperdonabile. Stando a Di Matteo che, nella sorpresa generale, a un certo punto ha fatto una telefonata a Giletti, il malcapitato Bonafede nella sua qualità di ministro della Giustizia aveva offerto al Pm Di Matteo di scegliere fra due incarichi, quello di capo del Dap e quello di direttore generale degli Affari Penali del ministero della Giustizia, per capirci il posto di cui fu titolare Giovanni Falcone. Di conseguenza Bonafede si era mosso sul terreno del più organico legame a una tendenza ben precisa della magistratura, quella che fa riferimento a Davigo. Quando si sparse la voce sulla possibilità che Di Matteo andasse al Dap alcuni mafiosi di alto lignaggio si fecero intercettare esprimendo la loro totale contrarietà a quella nomina. Nel frattempo, Di Matteo si prese 48 ore per riflettere, al termine delle quali comunicò a Bonafede che preferiva l’incarico al Dap. Nel successivo incontro (è sempre Di Matteo che ha raccontato i termini di questo colloquio a due assai riservato) mentre Di Matteo comunicò di aver scelto la carica di capo del Dap a quel punto il ministro Bonafede (trattato nel corso della trasmissione un po’ da tutti, da Giletti a de Magistris allo stesso Pm Catello Maresca come se fosse un ragazzo di bottega) gli rispondeva che avrebbe preferito averlo con sé al ministero nella carica altissima di direttore degli Affari Penali che era stata addirittura di Falcone e che ha poteri e un ruolo molto rilevanti. A quel punto, siccome Giletti ha stabilito che la carica del Dap è mille volte superiore per importanza a quella di direttore degli Affari Penali egli ha investito Bonafede del delitto di lesa maestà spalleggiato da de Magistris, dal comandante Ultimo, dal Pm Maresca, mentre a quel punto l’avvocato difensore batteva in ritirata: come si era permesso Bonafede di non accettare in ginocchio la scelta fatta dall’icona e invece gli aveva controproposto la carica di direttore degli Affari Penali a quel punto considerata dagli interlocutori un incarico del tutto subalterno e trascurabile? Allora Bonafede è stato trattato non come un ministro dotato della sua autonomia di giudizio e di decisione, ma come una sorta di passacarte, di esecutore in automatico della scelta fatta dall’icona che nella gerarchia dei giustizialisti ha una collocazione molto superiore anche a quella del ministro. È così avvenuto che il ministro della Giustizia più ottusamente giustizialista della storia della Repubblica è stato letteralmente sballottato fra diversi accusatori uno più scatenato dell’altro. Vedendo l’andamento di quel pezzo di trasmissione è risultata del tutto confermata una famosa battuta di Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».

Liana Milella per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Nino Di Matteo è al Csm. Chiuso nella sua stanza. Per un' intera giornata, lunedì dopo la sua telefonata a "Non è l' arena", è stato irraggiungibile. Poi ieri eccolo di nuovo disponibile. Con la voce vagamente angosciata di sempre. Non vuole dire nulla. Lo premette. Insisto.

Perché questo silenzio?

«Ho tenuto il telefono spento, ho lavorato. Quello che avevo da dire sono riuscito a dirlo nella telefonata, non voglio commentare i fatti».

Ma i fatti sono quelli?

«Sì, i fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato».

Ripercorriamoli, allora, quei fatti.

«Era lunedì, il 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla procura nazionale antimafia. Squillò il telefono una prima volta, con un chiamante sconosciuto. Non risposi. Suonò di nuovo. Era Bonafede. Con lui non avevo mai scambiato una parola. C' era stato solo un incontro alla Camera nel corso di un convegno sulla giustizia e poi un altro alla convention di M5S a Ivrea. La telefonata durò 10 o 15 minuti».

Cosa le disse Bonafede?

«Mi pose l' alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere subito perché mercoledì ci sarebbe stato l' ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali».

Che in quel momento però era occupato dalla collega Donati e che non conta più come ai tempi di Falcone perché nella scala gerarchica c' è un capo dipartimento?

«Esatto. Gli dissi che sarei stato a Roma il giorno dopo e mi sarei recato da lui al ministero».

Come finì la conversazione?

«Bonafede chiuse il telefono dicendo "scelga lei'"».

Insomma, lei poteva fare il capo di una polizia con un indiscutibile potere del tutto autonomo oppure stare sotto un capo?

«Proprio così».

Che accadde a Roma quel martedì?

«Entravo per la prima volta al ministero della Giustizia dai tempi del concorso. I colleghi che mi accolsero mi dissero "lei viene qui su invito del ministro, altri vengono di loro iniziativa...". Mi sedetti davanti a Bonafede e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato».

Chiese al ministro perché aveva cambiato idea?

«No, non lo feci, ma rimasi sorpreso. Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all' improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione».

Il giorno dopo lei tornò in via Arenula.

«Sì, lo chiamai e tornai da lui per cinque minuti, il tempo di dirgli che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili. Come il nostro ultimo scambio di battute. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali "non c' è dissenso o mancato gradimento che tenga". Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare».

Con il Guardasigilli fu affrontata la questione delle esternazioni dei boss contro di lei?

«Bisogna fare un passo indietro. Dopo le elezioni alcuni giornali scrissero che c' era un' ipotesi Di Matteo al Dap. Dell' esistenza del rapporto lo appresi il giorno prima o lo stesso giorno della visita. Mi chiamarono da Roma dei colleghi per dirmi che c' era una cosa molto brutta che mi riguardava. In più penitenziari, per esempio all' Aquila, boss di rango avevano gridato "dobbiamo metterci a rapporto col magistrato di sorveglianza per protestare contro questa eventualità". Subito dopo 52 o 57 detenuti al 41 bis, ciascuno per i fatti suoi, avevano chiesto di conferire. A quel punto era stata fatta un' informativa diretta a più uffici di procura e al Dap».

Sì, questi sono i fatti, ma lei parlò del rapporto con Bonafede?

«Il ministro si mostrò informato della questione».

Perché rimase deluso da quella che considerò una marcia indietro del ministro?

«Pensai allora, e ho sempre pensato, di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l' esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente".

Visto che ne ha parlato già in tv mi spiega di nuovo cosa la turbò nel comportamento di Bonafede?

«Prima una proposta, poi un' altra. Da allora mi sono sempre chiesto cos' era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta un' indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo».

Scusi, Di Matteo, ma sono passati due anni da allora, perché non ne ha parlato subito?

«Per alto senso istituzionale non potevo dire perché non avete nominato me anche se c' era chi, accanto a me, faceva le ipotesi più fantasiose, ma io non ho mai voluto dire niente. Se avessi parlato sarebbe apparso fuori luogo, come un' indebita interferenza».

E perché allora lo ha fatto adesso?

«Dopo le dimissioni di Basentini, proprio come due anni fa, alcuni giornali hanno di nuovo scritto che mi avrebbero fatto capo del Dap. Quando Roberto Tartaglia è diventato vice direttore eccoli scrivere "arriva il piccolo Di Matteo". Poi domenica sera, quando ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa - e sia chiaro che lo rifarei negli stessi termini - ho sentito l' irrefrenabile bisogno di raccontare i fatti, al di là delle strumentalizzazioni».

Lei ora passa per anti Bonafede, ma in questi due anni più volte ha parlato bene delle sue leggi.

«È un fatto che quanto è accaduto non mi ha condizionato, tant' è che sono intervenuto sulle iniziative del ministro. Ho detto sempre quello che pensavo, com' è accaduto sulla prescrizione. Io non sono uno che fa calcoli. Che rimugino su quanto dico e a chi lo dico. Ma dopo quei colloqui ci sono rimasto male e ho detto quello che pensavo quando ho sentito dire delle inesattezze. Non intendo giudicare il lavoro di Basentini, né contestare la scelta di Petralia, ma se si parla del perché non è stato scelto Di Matteo per fare il capo del Dap io ho il diritto di dire come sono andati i fatti. Se mi chiameranno in una sede istituzionale andrò a spiegare quei fatti per come li ho vissuti. Ma almeno adesso mi sono tolto un peso».

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Solo il poeta potrebbe cantare «l' ira funesta» del dottor Nino Di Matteo, il pm più scortato d' Italia, protagonista del processo sulla trattativa Stato-mafia, spirito inquieto che entrò in conflitto con molti colleghi di Palermo, con il capo della Superprocura antimafia, e ora al Csm è destinato a entrare in guerra pure qui. Dopo il suo sfogo televisivo di domenica notte, il dottor Di Matteo è diventato protagonista di una nuova guerra. Fratricida, si potrebbe dire, perché ora è in conflitto con chi, il Movimento Cinque Stelle, lo ha idolatrato fino al giorno prima. Ma siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, è chiaro che sapeva quel che faceva. «I fatti sono quelli. E non sono pentito di averli raccontati. Ricordo tutto nei particolari. Per me è stato un episodio indimenticabile e non c' è nessun equivoco». Così si è sfogato con diversi interlocutori, ieri, in una giornata trascorsa tutta al telefono. Siccome a parlare di «equivoco» sono stati i grillini, è evidente con chi ce l' ha. Con chi vuole farlo passare per un pasticcione e un visionario. Nossignore. «Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore, tra un lunedì sera e un martedì mattina. E quel che non posso accettare, è che si metta in discussione la mia lealtà». Con Bonafede, però, è amareggiato. «Da cittadino sarei preoccupato per un ministro che in un momento così delicato e con un magistrato così esposto si lasciasse convincere e tornasse indietro. Se chiamarmi e poi cambiare idea è stata una sua valutazione autonoma, non lo so». Lui si dichiara «un soldato della Repubblica». Quando i capi politici del M5S lo contattarono e gli offrirono il ruolo di ministro dell' Interno, e per ben due volte in pochi giorni, e poi cambiarono idea e scomparvero, «mica ho chiesto il perché. Non è mio costume chiedere niente ai politici». Così come quando lo contattò il ministro. «Una chiamata sul mio cellulare, anonima. Sono Alfonso Bonafede. Non ero mica stato io a chiamarlo». Come è finita, ormai è storia. Bonafede gli offrì due incarichi: direzione delle carceri e direzione degli affari penali al ministero. Il primo, incarico molto operativo e di prima grandezza. Il secondo, più oscuro e subordinato a un altro magistrato. «Era un lunedì sera. Mi disse solo che avrebbe preferito avermi al Dap e di decidere presto perché dopo due giorni ci sarebbe stato un plenum del Csm, ancora nella vecchia formazione (era la consiliatura 2014-18 con la vicepresidenza Legnini, ndr), e se avessi scelto il Dap, avrebbero potuto deliberare in giornata di mettermi fuori ruolo». Ebbene, il mattino dopo Nino Di Matteo varcava il portone del ministero («Dove non ero mai più entrato dai tempi del concorso del 1991», ha ricordato a un amico). Ma l' aria era già cambiata. Il ministro aveva scelto un altro per il ruolo del capo delle carceri. «Perché sia avvenuto non lo so e non l' ho chiesto: se ci siano state pressioni politiche, se da parte di qualcuno dei miei colleghi o se da ambienti istituzionali». Nel frattempo c' era stata la sollevazione dei mafiosi al solo ventilare il suo nome. «Cinquantasette boss al 41 bis del carcere dell' Aquila chiesero rapporto al magistrato di sorveglianza, per annunciare che se fosse passato Di Matteo al Dap, sarebbe esplosa la protesta. Mi chiamò un collega della Superprocura per chiedermi se dovevano rafforzare ancora la scorta. Oddio, no. A me già mi toglie il respiro come è ora». Insomma, il dottor Di Matteo s' è tolto un rospo dalla gola. E tutti lì a chiedere: perché ora? «Perché ci sono state centinaia di scarcerazioni di persone vicine a Cosa Nostra con la storia del contagio. Preoccupa solo me? Giletti mi ha chiesto di spiegare come funzionano le cose e io ho spiegato. Oltretutto, se sentivo di avere un debito di riservatezza con Basentini ora non ce l' ho più. E siccome il ministro ha scelto altre persone, non si può dire neanche che mi sto candidando». E però la bestia nera dei mafiosi è nella scomoda posizione di trovarsi in solitudine. «Una dinamica che ho visto molte volte con i collaboratori di giustizia. Finché parlano dettagliatamente di fatti criminali, tutto bene. Viceversa, tutto cambia quando alzano il tiro e chiamano in causa il potere. È successa la stessa cosa con me. Immediatamente si è pensato che io volessi avere chissà quale interesse politico». Il magistrato ha fiutato l' aria domenica sera subito dopo la diretta di "Non è l' Arena". «E' andata bene, Nino, erano tutti dalla tua parte», gli ha spiegato la moglie. Ma lui, già in quel momento, non ha avuto dubbi: «Vedrai che tra due giorni la frittata si rivolta». E così è stato. I grillini lo caricano a testa bassa. I tre colleghi laici del Csm espressi dal M5S sostengono che ha leso l' istituzione. Lui ha sotto gli occhi la loro dichiarazione e trattiene a stento la rabbia. «L'onorabilità di questa istituzione è lesa dalle mille opacità». Comunque, siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, ora si aspetta il peggio. Non solidarietà dai suoi colleghi. Già l' intervista a questo giornale di Armando Spataro, suona da campane a morte. «Proprio lui che quando io portavo avanti l' indagine sulla trattativa Stato-mafia sosteneva che quel processo non andava fatto». Ha confidato ai suoi amici che non si meraviglierebbe persino che sia avviata una iniziativa disciplinare. «Ma li aspetto a pié fermo. Mi difenderò con il coltello tra i denti». E c' è da credergli.

Non si placa l’ira di Di Matteo: “Bonafede cambiò idea a causa dello stop di qualcuno”. Il Dubbio il 6 maggio 2020. Il presidente dei penalisti, Caiazza: “C’è chi ha parassitato l’antimafia per farne una leva politica…” Non accenna a concludersi la lite furibonda tra il magistrato del processo Trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, e il Guardasigilli Alfonso Bonafede. E lo sconcerto dentro il gruppo grillino – che ha avuto bisogno di 24 ore prima di difendere il suo ministro – continua a crescere. In una intervista a Repubblica, Di Matteo non ritratta e anzi rincara la dose, nonostante Bonafede abbia negato la sua versione dei fatti sulla nomina a capo del Dap. «Prima una proposta, poi un’altra» dal ministro Bonafede. «Da allora mi sono sempre chiesto cosa era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta una indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo», ha detto il consigliere del Csm, confermando la sua versione: «Era lunedì 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla Procura nazionale antimafia. Squillò il telefono, era Bonafede. Mi pose l’alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Chiuse il telefono dicendo ’scelga leì». All’indomani, Di Matteo si reca al Ministero per incontrare Bonafede. «Gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui, però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini». Quanto al repentino cambio di idea, Di Matteo afferma: «Non chiesi al ministro Bonafede perché aveva cambiato idea» sulla mia nomina al Dap «ma rimasi sorpreso».

“Non c’è nessun dissenso agli Affari penali”. Ma rilancia la sua ipotesi:«Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all’improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati (che in quel momento era a capo degli Affari penali ndr) perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione». A quel punto, «Tornai da lui e gli dissi che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili». E, a conclusione del racconto, Di Matteo aggiunge: «Come il nostro ultimo scambio di battute, io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali “non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga”. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare».

“Io trattato in modo non consono”. «Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l’esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente».

La reazione delle Camere Penali. Il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, ha commentato dalle pagine del Foglio la vicenda Bonafede-Di Matteo, stigmatizzando il comportamento del magistrato. «Non siamo certo sospettabili di indulgenze nei confronti del ministro Bonafede, il tema dunque è un altro: a che titolo il dottor Di Matteo bombarda il ministro in carica insinuando con chiarezza che la revoca della proposta della sua nomina a capo del Dap sarebbe avvenuta per timore o compiacenza dopo le banali recriminazioni di alcuni detenuti al 41 bis?» È la domanda che si pone Caiazza. «E’ una cosa fuori dal mondo e risponde all’idea, ipertrofica, dell’invadenza della magistratura mediatica sulle dinamiche democratiche. Anche su quelle che non ci piacciono».

Caiazza: Bonafede non deve render conto a Di Matteo. Poi continua: «Oltretutto, non abbiamo capito di cosa stiamo parlando: e se anche Bonafede avesse cambiato idea nottetempo? Oppure se, in virtù delle dinamiche della politica (proposte terze, suggerimenti del presidente della Repubblica o dell’Anm) avesse preferito altri equilibri? Non deve renderne conto a Di Matteo. Non si capisce insomma la ragione di questo attacco a distanza di due anni. Forse Di Matteo sperava di andare a dirigere il Dap adesso». Di certo, aggiunge il presidente Ucpi, «un pm, a maggior ragione se componente del Csm, non può permettersi per nessuna ragione al mondo di chiamare un ministro a discutere delle sue valutazioni politiche. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti». Siamo «all’implosione di un mondo che ha costruito la propria fortuna politica e non solo, anche editoriale e giornalistica, sul parassitismo dell’antimafia». «Alcuni soggetti hanno parassitato l’antimafia per farne una leva politica e di distruzione dell’avversario politico – spiega Caiazza -, è un aspetto che dovrebbe far riflettere seriamente». 

Luca Fazzo per ilgiornale.it il 5 maggio 2020. Un mestieraccio ingrato, più da carceriere che da magistrato, alle prese con strutture fatiscenti e soldi che non bastano mai. A descriverlo così, si faticherebbe a capire come mai il ruolo di capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sia tanto accorsato da diventare in queste ore l'oggetto di uno scontro senza precedenti tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e una delle toghe più famose d'Italia, il palermitano Nino Di Matteo. Certo, sull'altro piatto della bilancia c'è uno stipendio invidiabile: essendo anche il comandante della polizia penitenziaria, il capo del Dap porta a casa una delle buste paghe più pesanti dell'intero apparato statale: 320mila euro all'anno, con ricaduta su Tfr e pensione. Sarebbe però prosaico ridurre a faccenda di quattrini l'aspirazione di Di Matteo a approdare sulla poltrona lasciata libera da Santi Consolo. Il Dap è un posto di potere, ha soprattutto le orecchie lunghe. Nulla, di quanto accade nelle 231 carceri italiane, sfugge al capo del Dipartimento, che riceve per primo le informazioni dei direttori e dei Gom, i temuti nuclei speciali della polizia penitenziaria. E sapere, si sa, significa potere. Se così si capisce perché Di Matteo aspirasse alla carica, più difficile è capire cosa sia andato storto quando il focoso pm siciliano era a un passo dal successo. Di Matteo era il candidato ideale sia come curriculum, occupandosi di mafia da vent'anni, sia come relazioni politiche: vicino a Marco Travaglio e al Fatto Quotidiano, è da sempre - insieme a Piercamillo Davigo, oggi suo compagno di corrente al Csm - una delle toghe più amate dal Movimento 5 Stelle. Quando Bonafede diventa ministro nel governo Conte 1, a giugno 2018, Di Matteo appare il candidato ideale per diventare il suo uomo sul fronte delle carceri. Eppure qualcosa, all'improvviso, si rompe. E la spiegazione più verosimile, tra le tante circolate all'epoca, è che in realtà, alla fine, a decidere non sia stato il ministro Bonafede ma direttamente il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Che di mestiere fa l'avvocato, su livelli più alti di Bonafede. E che nel mondo della giustizia ha rapporti, amici e consiglieri. Nelle ore cruciali in cui prende il via il suo primo governo, Conte ha al suo fianco, ad aiutarlo con pareri e indicazioni, un magistrato: Fabrizio Di Marzio, consigliere di Cassazione e docente universitario, ben introdotto nel mondo della politica romana anche perché siede nella commissione che fa le pulci ai conti dei partiti. Di Marzio, tra l'altro, dirige la rivista dell'Osservatorio sulle Agromafie, di cui Conte è uno dei referee. È in quel contesto che i rapporti tra i due si consolidano. E quando Conte decolla verso i vertici dello Stato, è Di Marzio a sussurrare al suo orecchio. Passa da quel canale anche il niet all'approdo di Di Matteo al ministero? Di Marzio, questo è sicuro, ha un amico che i pregi e i difetti del pm palermitano può averglieli descritti bene: Gian Carlo Caselli, che è stato il suo capo alla Procura di Palermo. E che ne conosce a fondo tanto l'acume investigativo che - come dire - gli spigoli caratteriali.

Dagospia il 6 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Direttore, con riferimento all’articolo di Luca Fazzo “Quella toga amica di Conte  dietro al niet a Di Matteo al  Dap”, da Voi pubblicato il 5.5.20, preciso che con l’amico Fabrizio  Di Marzio non ho mai avuto occasione alcuna di parlare di Nino Di Matteo nelle circostanze e per i motivi di cui all’articolo. Ringrazio per la cortese attenzione  e auguro buon lavoro. Gian Carlo Caselli

Dagospia il 6 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago,la lettera di Giancarlo Caselli al mio giornale sulla spettacolare querelle Bonafede-Di Matteo è interessante anche per la cautela con cui è scritta. Caselli ammette due cose, una esplicitamente: di essere amico di Fabrizio Di Marzio, ex giudice di Cassazione, l'uomo che nei mesi della formazione del primo governo era il consigliere dietro le quinte di Giuseppe Conte e che continua a svolgere questa funzione non si capisce in quale veste. Oltretutto dal curriculum di Di Marzio si scopre che non lavora più in Cassazione. Poichè è troppo giovane per essere andato in pensione, perché ha lasciato la magistratura? In che veste sussurra all'orecchio di Conte? E perché Caselli è suo amico (anche se curiosamente, nella prima versione della lettera che ci ha mandato, lo chiama Maurizio anzichè Fabrizio)? La seconda ammissione che Caselli fa è implicita: e cioè di avere parlato con Di Marzio del povero Nino Di Matteo. Infatti nella sua lettera Caselli nega di avere affrontato con l'amico il tema Di Matteo "nelle circostanze e per i motivi di cui all'articolo", ovvero la nomina di Di Matteo al Dap. Io ho scritto una cosa diversa: che Caselli all'amico Di Marzio aveva verosimilmente confidato, anche in altra epoca, le sue opinioni su Di Matteo, pregi e difetti. Questo Caselli non lo nega. E rimane così la curiosità di capire quali fossero queste opinioni. Grazie per l'attenzione. Luca Fazzo

Alfonso Bonafede, il "no" a Di Matteo non è "farina del suo sacco". Chi ha dato l'ordine da "molto in alto". Libero Quotidiano il 6 maggio 2020. Quel “no alla nomina di Di Matteo al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dal) non è opera sua. Alfonso Bonafede “di menate ne ha fatte tante, ma il no non è farina del suo sacco. È venuto da molto, molto in alto”. Dal Quirinale forse? E’ quanto rivela un esponente grillino del governo ad Augusto Minzolini che riporta il retroscena su Il Giornale. E così il capo della delegazione Cinque Stelle al governo rischia di pagare a caro prezzo quel sogno interrotto. “Il caso”, aggiunge un big della maggioranza, “potrebbe essere il sassolino nell'ingranaggio che provoca l'incidente irreparabile per Conte e il suo governo”. Certo l’idea di Bonafede aveva un suo perché dal punto di vista del Movimento. Peccato che il magistrato, ricorda Minzolini, “era stato anche il grande accusatore nel processo sulla trattativa Stato-mafia, quella dei primi anni '90, che si imperniò proprio sul fatto che nell'estate del '93 il responsabile del Dap dell’epoca decise di togliere centinaia di mafiosi dal regime di carcere duro”. Una vicenda che ha tormentato i piani più alti delle istituzioni. “Furono distrutte un unicum nella storia di un Paese come il nostro le intercettazioni di quattro conversazioni telefoniche tra l'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano e l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino”, aggiunge Minzo. Insomma, mai Colle poteva essere vista di “buon occhio l'idea di nominare Di Matteo al Dap”.

I membri 5Stelle del Csm avvisano Di Matteo: “Ora continenza…” Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 5 maggio 2020. Lo scontro tra il pm della presunta Trattativa Stato-mafia e i consiglieri pentastellati di palazzo dei Marescialli. «Continenza e cautela». Arriva dai consiglieri del Csm in quota M5s il primo “stop” alle esternazioni di Nino Di Matteo. Con una nota, i laici pentastellati Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti ricordano che «i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio». Oggetto della reprimenda, pur senza mai citarlo, l’ex pm antimafia Nino Di Matteo e la sua dura presa di posizione nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7.Di Matteo, intervistato domenica scorsa a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, aveva “accusato” Bonafede di aver sostanzialmente ceduto ai boss non nominandolo al vertice del Dap. Una vicenda “tenuta riservata” (parole del magistrato siciliano) fino ad ora e gettata sulla pubblica piazza a distanza di due anni.Le affermazioni di Di Matteo avevano scatenato una violenta polemica politica con la richiesta, da parte delle opposizioni e dei renziani di Italia viva, di dimissioni di Bonafede che, oltre ad essere il ministro della Giustizia è anche il capo delegazione del Movimento. Esprimiamo, proseguono i tre consiglieri, «forte preoccupazione per il clima venutosi a creare, specie in un momento in cui la giustizia necessiterebbe di unità e collaborazione tra tutti gli operatori, nell’interesse del Paese e dei cittadini. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa – aggiungono, quindi, i laici del M5s – rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. E’ quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm». Una presa di posizione forte che cerca di “salvare” il Guardasigilli, allentando il fuoco di fila di queste ore su via ArenulaDomani Bonafede, infatti, risponderà sul punto al question-time alla Camera. Il dibattito si preannuncia incandescente in quanto molti parlamentari hanno già fatto sapere che chiederanno di conoscere i reali motivi per cui il ministro, a giugno del 2018, dopo aver offerto a Di Matteo l’incarico di n. 1 del Dap, decise di cambiare idea, preferendogli Francesco Basentini. La giustificazione fornita da Bonafede sarebbe che aveva proposto a Di Matteo un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia, cioè di direttore degli Affari penali. Una spiegazione che non ha convinto dato che quell’ufficio non esiste più da anni, a seguito della riorganizzazione del Ministero, avendo cambiato nome in Direzione Affari interni. Un ufficio non apicale come il Dap e che, soprattutto, non si occupa di contrasto alla mafia. Cosa succederà al Csm adesso è difficile prevederlo.Il fatto che l’attacco a Di Matteo venga dai laici del M5s suscita più di un interrogativo. Di Matteo, oltre ad aver partecipato ad eventi organizzati dal Movimento, è da sempre l’idolo dei grillini che avrebbero voluto lui, e non Bonafede, come ministro della Giustizia. Di Matteo è stato eletto ad ottobre dello scorso anno a Palazzo dei Marescialli nelle liste di Autonomia&indipendenza, la corrente che ha in Piercamillo Davigo il punto di riferimento ed è oggi “alleata” con le toghe progressiste di Area. A&i ed Area contano cinque consiglieri a testa. A questi dieci togati si sommano i tre laici in quota M5s ed il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (Area). Sulla carta, dunque, 14 voti che garantiscono una solida maggioranza. La presa di distanza dei laici pentastellati da Di Matteo rischia di mettere in discussione gli equilibri al Csm, dove anche un voto è determinante.

Di Matteo rischia il procedimento disciplinare al Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'8 maggio 2020. Per il codice etico dell’Anm, il magistrato deve avere una corretta “interlocuzione” con la stampa, evitando una sovraesposizione mediatica, il “protagonismo”, ovvero la “costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati”. Le recenti affermazioni di Nino Di Matteo sulla mancata nomina a capo del Dap da parte di Alfonso Bonafede potrebbero costare all’ex pm antimafia l’apertura di un procedimento disciplinare. Il decreto legislativo 109 del 2006, “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati”, nel richiamare il magistrato al rispetto dei doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetto della dignità della persona” nell’esercizio delle funzioni e al di fuori di esse, vieta “comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Il codice etico dell’Anm, poi, sottolinea che il magistrato debba avere una corretta “interlocuzione” con la stampa, evitando una sovraesposizione mediatica, il “protagonismo”, ovvero la “costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati” con i media in relazione all’attività del proprio ufficio. Pur mantenendo fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato deve ispirarsi “a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa”. I precedenti specifici non mancano. Come non ricordare, ad esempio, la vicenda dell’ex gip di Milano Clementina Forleo che era intervenuta alla trasmissione Annozero di Michele Santoro segnalando “sottili pressioni” da parte di “poteri forti” durante l’inchiesta Bnl-Unipol e lamentando l’isolamento dei colleghi? Nei confronti della magistrata venne immediatamente aperto un procedimento disciplinare, poi conclusosi con una archiviazione, ed avviata una pratica di trasferimento da Milano per incompatibilità ambientale. Il potere disciplinare spetta al procuratore generale della Corte di Cassazione e al ministro della Giustizia. Mentre quest’ultimo ha “facoltà” di promuovere l’azione disciplinare, il pg della Cassazione ha “l’obbligo” di esercitarla. Difficile, comunque, visti i richiami da più parti a Bonafede e Di Matteo di “chiarire” l’accaduto che il Guardasigilli possa procedere. Potrebbero, invece, essere gli stessi consiglieri del Csm a “sollecitare” il pg della Cassazione. I laici in quota 5s hanno preso le distanze dal pm antimafia. Un comportamento che è stato stigmatizzato dal togato di Autonomia&indipendenza, la corrente con cui è stato eletto al Csm Di Matteo, Sebastiano Ardita.I consiglieri del Csm, per la cronaca, godono della stesse guarentigie dei parlamentari, non essendo “punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione”. Il vice presidente del Csm David Ermini ha scelto la strada del silenzio. L’ex responsabile giustizia del Pd non ha intenzione di essere trascinato nelle polemiche che contraddistinguono questa burroscosa consiliatura. Ma quando ci sono di mezzo i magistrati il low profile non è mai facile.

L'intervento. Il Csm detta linee guida per i magistrati ma i suoi membri non sono tenuti a rispettarle…Giorgio Varano su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Le esternazioni (definiamole così) del dott. Di Matteo, consigliere in carica del Csm, portano alla ribalta un tema sempre passato sotto silenzio, un “incredibile ma vero” che dura ormai da troppi anni: le linee guida del Csm sulla comunicazione dei magistrati non valgono per i magistrati che siedono a Palazzo dei Marescialli. In Italia, dunque, tutti i magistrati devono attenersi alle regole deliberate dai consiglieri del Csm sulla comunicazione, tranne loro. Il perché? “Incredibile ma vero 2”: «L’aspetto precettivo e sanzionatorio, infatti, mal si concilia con lo svolgimento di un simile elevato compito istituzionale essendo lecito ritenere che la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione sia connaturata al livello etico dei componenti eletti». Così ha stabilito il Csm stesso, in una delibera del 2010. Ora, le esternazioni di un consigliere del Csm, per una questione di due anni prima dal tenore personale o equivocabilmente ben peggiore, espresse in diretta tv contro il ministro della Giustizia in carica (grazie anche alla retorica dell’antimafia da tv) rendono lecito ritenere che non ci si possa più affidare a una presunzione assoluta di consapevolezza dei doveri insiti nella funzione. Perché il Csm, che ha affermato di voler superare in maniera strutturale la devastante crisi a cui l’istituzione è stata sottoposta, non rende obbligatorie le linee guida anche per i propri consiglieri? Certo, poi nascerebbe un imbarazzo. Quello di valutare il comportamento di un proprio appartenente, magari vicino di sedia nel plenum. Ma questo imbarazzo potrebbe essere superato esaminando la condotta del singolo componente in relazione ai doveri dei consiglieri. Doveri? “Incredibile ma vero 3”, non ce ne sono. Leggendo infatti il regolamento interno del Csm (2018), scorrendo le centotrentuno pagine non troverete mai la parola “dovere”. Non ne è previsto alcuno specifico relativo al ruolo di consigliere, tutto viene rimandato quindi ai codici etici delle singole categorie di appartenenza, come se il consigliere, togato o laico che sia, non avesse dei doveri specifici impostigli dal ruolo. La volontà del Csm di uscire dalla crisi, di “autoriformarsi”, è rimasta dunque una mera dichiarazione di intenti sotto molti aspetti. Il magistrato “quisque de populo” ha l’obbligo di tenere presente che «la fiducia nella giustizia è in qualche modo collegata alla rappresentazione che della stessa viene data attraverso i mezzi di informazione», pertanto la comunicazione diventa «strumento principale per la costruzione di un rapporto fiduciario tra i cittadini e il sistema giudiziario», e deve evitare la «costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione», «l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi» (risoluzione 2010). Per i consiglieri del Csm tutto questo non vale. Perché non estendere semplicemente il dovere di osservanza delle linee guida sulla comunicazione dei magistrati anche ai componenti del Csm? Perché non prevedere nel regolamento interno anche dei doveri di comportamento dei consiglieri? A proposito, nel 2019 il Procuratore nazionale antimafia, Cafiero De Raho (serissimo magistrato che infatti lavora nelle procure, non nelle tv), rimosse con provvedimento immediatamente esecutivo il Dott. Di Matteo dal pool che indaga sulle stragi. A seguito di una intervista di quest’ultimo – a sua discolpa, all’epoca non era consigliere del Csm, quindi non aveva “la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione” – De Raho ritenne “incrinato il rapporto di fiducia all’interno del gruppo”. A oggi il Csm, in quanto organo, nemmeno attraverso il proprio ufficio stampa, ha preso le distanze dal comportamento del Dott. Di Matteo. Dunque, possiamo stare sereni: non appare incrinata la fiducia all’interno del gruppo. P.s. Nel frattempo un primo risultato miracoloso queste esternazioni l’hanno ottenuto. Il ministro Bonafede parlando alla Camera ha affermato che, alla luce del nuovo quadro sanitario nazionale, sta valutando l’emissione di un decreto per fare ritornare in carcere i detenuti scarcerati perché maggiormente esposti al rischio di contrazione del virus, a causa delle loro precarie condizioni di salute. Li renderà dunque immuni per sempre, per decreto-miracolo, spazzando il pericolo del contagio nelle carceri. Nei tribunali non c’è ancora riuscito a spazzarlo via, ma i miracoli si fanno uno alla volta, lo sanno tutti. I miscredenti magistrati di sorveglianza che non crederanno al decreto-miracolo saranno mandati al rogo senza nessuna “pratica a tutela” da parte del Csm, come avvenuto finora?

Regolamento di conti nel Csm, ma sullo sfondo ci sono i movimenti per l’Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Aprile 2020. Una intervista di un consigliere laico diventa l’occasione per regolare i conti all’interno del Csm, ridisegnando equilibri e alleanze in vista della prossima tornata elettorale per il rinnovo dell’Anm, originariamente in calendario il mese scorso e rinviata al prossimo giugno a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. L’occasione per il “redde rationem” togato è stata offerta dalle dichiarazioni di Alessio Lanzi, membro laico in quota Forza Italia, rilasciate alla Stampa questa settimana. Il laico forzista aveva criticato il clima che si era creato in Lombardia, parlando di spettacolarizzazione da parte dei pm milanesi nella gestione delle indagini sulle morti sospette per coronavirus nelle case di riposo lombarde. L’indignazione del professore milanese, oltre che sul fuoco di sbarramento dei media sull’amministrazione di centrodestra della Regione Lombardia, si era concentrata sulle modalità di conduzione delle investigazioni. In particolare, una girandola di perquisizioni show effettuate senza soluzione di continuità dal tandem guardia di finanza/nas carabinieri, su delega dei pm, nelle Rsa lombarde e negli uffici della Regione Lombardia. Perquisizioni e sequestri di montagne di documenti rigorosamente eseguiti alla presenza di giornalisti e a favore degli operatori televisivi, verosimilmente non avvisati dai manager indagati delle Rsa. «Se si voglio acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità», le parole “incriminate” di Lanzi. Giuseppe Cascini, togato di Area, il gruppo di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica, aveva chiesto conto delle affermazioni al consigliere milanese. «Il compito del Csm – secondo Cascini – è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente». La pratica a tutela è un istituto a cui il Csm ricorre quando sente minacciata l’autonomia e l’indipendenza di qualche Procura. Durante gli anni frizzanti del berlusconismo e dello scontro politica-magistratura erano frequentissimi i casi in cui vi si ricorreva a Palazzo dei Marescialli. «Non c’è stata alcuna delegittimazione della Procura di Milano», regno incontrastato delle toghe di sinistra, hanno replicato i togati di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, rimasta travolta l’anno scorso dall’indagine sul pm romano Luca Palamara. «Le dichiarazioni di Lanzi risultano espressione di libero esercizio del diritto di critica: volevamo un dibattito ma c’è stato impedito», si legge in un comunicato diffuso ieri dai tre consiglieri di Mi al Csm. La voglia di riscatto delle toghe di Mi è tanta. Dopo aver vinto le elezioni al Csm nel 2018, il gruppo di cui faceva parte Paolo Borsellino è finito all’opposizione.  L’obiettivo per la prossima tornata elettorale è chiaro: catalizzare il voto dei magistrati stufi della contrapposizione politica. Sarà un miraggio?

L’Anm bacchetta Di Matteo: «Un magistrato deve esprimersi con misura e nelle sedi opportune». Il Dubbio il 6 magio 2020. L’Associazione nazionale magistrati prende posizione sulla querelle Bonafede-Di Matteo: «È sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, soprattutto per un membro del Csm». La bacchettata all’ex pm di Palermo e attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo arriva dall’Associazione nazionale magistrati. Il sindacato delle toghe diffonde una nota durissima a corredo dell’infuocato dibattito di questi giorni che vede contrapposti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e lo stesso Di Matteo. E pur senza citare il magistrato della “trattativa Stato-mafia”, l’Anm lancia un monito severissimo. «Per i magistrati della Repubblica, ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero, è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici e le sedi ove svolgerli nonché tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le Istituzioni», recita il comunicato, facendo implicito riferimento alla telefonata in diretta alla trasmissione “Non è l’Arena” di Giletti in cui Di Matteo svelerebbe il retroscena della sua mancata nomina al Dap. Il ministro Bonafede, secondo la ricostruzione dell’ex pm, avrebbe ceduto alle pressioni, assecondando il qualche modo le «reazione di importantissimi capimafia» alla notizia di un suo possibile insediamento al Dap. Ed è proprio per censurare queste fughe in avanti che l’Anm prende ufficialmente posizione. Perché l’accortezza e la correttezza istituzionale sono imperativi per «tutti i magistrati, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale», conclude il sindacato togato. Se non è un messaggio ad personam, poco ci manca.

L'Anm si schiera col Guardasigilli e striglia il pm Antimafia. Ma in passato l'ha sempre difeso. Luca Fazzo, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale.  Il linguaggio è un po' curiale, come se l'obiettivo fosse di farsi capire solo dagli addetti ai lavori: cosa già singolare per l'Associazione nazionale magistrati. Ma ancora più singolare è che dietro il paludamento si celi l' attacco non solo a un magistrato ma anche a una facoltà, entrambi finora strenuamente difesi dal sindacato delle toghe. Il magistrato è Nino Di Matteo, pm antimafia e oggi membro del Csm: la facoltà è quella per qualunque giudice di dire la sua come e quando gli pare, in convegni e interviste, in aula e sul web, a tutela della libertà di parola garantita dalla Costituzione più bella del mondo a tutti i suoi cives, magistrati compresi. E invece stavolta l'Anm mazzola Di Matteo per avere parlato troppo. Per capire che i colleghi ce l'hanno davvero con lui bisogna (titolo a parte) arrivare alla penultima riga, quando per meglio indicare i destinatari dell'appello scrivono che «ciò è richiesto a tutti i magistrati, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale». Tradotto: è richiesto a Di Matteo, in quanto membro del Consiglio superiore. Bene. E quali sarebbero i precetti cui tutti, e soprattutto Di Matteo, dovrebbero attenersi? «Esprimersi con equilibrio e misura», valutare «con rigore l'opportunità di interventi pubblici», tenere conto «delle ricadute che le loro dichiarazioni possono avere». Viene da dire: volesse il Cielo, o - come dicono a Napoli - fuss a 'Maronna. Dopo decenni in cui ha assistito silente (quando andava bene) o plaudendo a esternazioni di ogni tipo, da quelli che «rivolteremo l'Italia come un calzino» a chi diceva che «i torturatori sono al vertice della polizia», l'Anm scopre la virtù teologale del riserbo. Meglio tardi che mai, per le rivoluzioni copernicane a volte servono secoli, stavolta ne è bastato mezzo. Certo, fa un po' effetto che a venire tirato per le orecchie sia lo stesso magistrato, Di Matteo, che in passato poté dirne di tutti i colori senza che il suo diritto di manifestazione del pensiero venisse messo in discussione: compreso quando accusò il Csm, di cui da lì a poco avrebbe fatto parte, di essere governato da metodi mafiosi. Cos'è cambiato da allora? Che Di Matteo ha osato attaccare il ministro Bonafede, verso cui l'Anm mostra incomprensibile sudditanza. I sindacati che stavano col padrone, negli anni Cinquanta venivano chiamati «sindacati gialli». Come bisogna chiamare l'Anm?

Di Matteo ennesimo caso. La lottizzazione della magistratura: 200 Pm che si spartiscono poltrone d’oro. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che la separazione dei poteri in Italia è una chimera, apra subito il sito istituzionale del Ministero della giustizia e legga i nomi dei capi dipartimento e dei responsabili degli uffici di diretta collaborazione del Guardasigilli. Scoprirà che sono tutti (tutti) magistrati collocati, previa autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura, “fuori ruolo”. L’argomento non è nuovo. Il recente scontro fra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede a proposito dell’incarico, capo del Dap o direttore degli Affari penali, che sarebbe stato offerto all’ex pm antimafia dal ministro appena insediatosi a via Arenula ha, però, fatto tornare di attualità questa tematica che si trascina stancamente da anni fra mille polemiche. Tralasciando infatti il caso in questione – Di Matteo è da sempre una icona per i grillini – in che modo i ministri della Giustizia scelgono i loro più stretti collaboratori? La regola non “scritta” prevede che il numero uno di via Arenula effettui una “consultazione” con i referenti delle varie correnti dell’Anm. I capi delle correnti indicano allora al ministro i rispettivi candidati. Normalmente la scelta ricade su magistrati che hanno fatto vita associativa in mood attivo. Toghe, insomma, che hanno dato prova di stretta adesione al gruppo, scalando tutti i gradini della corrente fino al raggiungimento di posizioni di rilievo. Si cerca di trovare una mediazione fra i desiderata del ministro e quelli dei ras delle correnti. Lo scopo è garantire la rappresentanza delle varie anime dell’associazionismo giudiziario in proporzione al consenso elettorale della singola corrente. Una sorta di manuale Cencelli togato. Nella scorsa legislatura, Guardasigilli Andrea Orlando (Pd) e maggioranza relativa al Csm dalla parte del cartello progressista di Area con ben sette consiglieri su sedici, il ministro della Giustizia era “monopolizzato” dalle toghe di sinistra. Erano di area progressista il capo di gabinetto e i suoi due vice, il capo dell’ufficio legislativo, il capo dell’ispettorato e il suo vice. Unicost, il gruppo di centro che aveva cinque consiglieri al Csm, esprimeva il capo dipartimento organizzazione giudiziaria e dei servizi e il suo vice, più diversi direttori generali: giustizia civile, servizi, personale e della formazione. Magistratura indipendente, la corrente di destra con solo tre consiglieri a Palazzo dei Marescialli, aveva il capo del Dap e il suo direttore generale, oltre al vice capo ufficio legislativo. Bonafede, cambiata la gerarchia del potere in magistratura con l’ascesa dei davighiani a discapito delle toghe progressiste, aveva puntato su magistrati vicini al gruppo dell’ex pm di Mani pulite, effettuando anche colloqui con i potenziali candidati. Vedasi, appunto, Di Matteo. La commistione tra politica e magistratura ha tante controindicazioni. Viene meno il principio di indipendenza in quanto il magistrato, accettando il fuori ruolo, deve condividere l’indirizzo politico del ministro. E si creano carriere parallele dal momento che pur non scrivendo una sentenza la toga avanza nelle valutazioni di professionalità. E poi ci sono gli stipendi che si attestano per questi incarichi mediamente sui 240mila euro lordi. Tranne il caso del capo Dap: la maxi retribuzione viene “trascinata” anche quando si termina l’incarico e vale ai fini pensionistici. Rita Bernadini con i Radicali aveva provato negli anni a stoppare, senza riuscirci, questa “tradizione”. Al momento il numero dei magistrati fuori ruolo è fissato in 200. La durata dell’incarico non può superare i dieci anni. Tornando invece a Di Matteo, nella serata di ieri è arrivata la reprimenda da parte dell’Anm. «Ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero – si legge in una nota – è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le istituzioni».

Così la magistratura si spartisce le poltrone, come funziona il mercato delle nomine. Andrea Mirenda su Il Riformista il 10 Maggio 2020. La diffusione “centellinata” delle intercettazioni della Procura della Repubblica di Perugia, in seno all’indagine per corruzione che ha investito Luca Palamara, sostituto procuratore della Repubblica a Roma nonché ex membro del Csm ed ex presidente dell’Anm, delinea un quadro tetro sulle modalità di nomina dei dirigenti giudiziari e sulle relative interferenze. Nulla di nuovo, per carità, salvo due aspetti certamente non secondari: il carattere dilagante e pervasivo del mercimonio, da una parte e, dall’altra, la “pistola fumante” di una prassi illegale eretta a controsistema occulto. Perché – al di là di quelli che saranno gli esiti dell’inchiesta – l’osservatore disincantato non potrà negare ai magistrati perugini il merito di aver fatto definitivamente luce su quel “mondo parallelo”. Il lettore paziente (e dotato di stomaco) ha potuto (verrebbe fatto di dire “finalmente”) toccare con mano il pilotaggio delle nomine per le Procure di Roma, Perugia, Torino, Reggio Calabria, Palermo, Brescia, Firenze; ha appreso di un collaudato intreccio di relazioni personali e politiche tra vicepresidenti ed ex vicepresidente del Csm, membri del Csm, magistrati aspiranti a questo o a quel posto, leader palesi e occulti delle correnti, influenti parlamentari, imprenditori; ha letto di incontri segreti con il procuratore generale della Cassazione, di “caffè esplorativi” tra alcuni consiglieri del Presidente della Repubblica e potenti magistrati che tuttavia nessun ruolo avevano nel Csm; ha letto, infine, di giornalisti e giornaloni chiamati a “riequilibrare” le informazioni “pro” o “contro” quel giudice, per influenzarne, in bene o in male, la nomina. Ed ancora, quel lettore avrà letto con sgomento di pressioni, promesse, scambi, velati ammonimenti, intrighi, minacce, dossier artefatti per colpire un aspirante e favorirne un altro. E avrà, poi, definitivamente compreso, grazie alle preziose intercettazioni propalate, la totale inconsistenza del consueto “mantra” correntizio secondo cui la selezione dei dirigenti avverrebbe per attitudine e merito (cosa a cui non crede più neppure mia zia Cesarina, notoria “boccalona”). Esemplare, a questo proposito, il passo del colloquio tra Palamara e l’ex membro del Csm Massimo Forciniti, a margine degli intrallazzi notturni per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone a procuratore della Repubblica di Roma (che, per i meno avvezzi alle cose giudiziarie, rappresenta il massimo ufficio requirente italiano). Eccolo: “… anche perché Roma e Perugia, a seconda di chi va, l’altro deve essere cioè uno di UNICOST e uno di MI…Se è Viola, su Perugia mettiamo chi diciamo noi. Se è Primicerio, su Perugia mettiamo quello di MI”. Il prosieguo del colloquio tra i due è illuminante: Forciniti, alla domanda di Palamara sull’affidabilità di Primicerio, nel mentre afferma di non credere proprio che il designato sarà in grado di far “…fare bella figura di immagine”, tuttavia, ed è quel che più conta, “… è uno che va là e gli si può dire quello che interessa, secondo me si può fare… cioè proprio affidabile come uno che è molto legato, cioè uno dei nostri…un uomo di mondo e se puntiamo su di lui queste cose le capisce”. Insomma, e in breve, il quadro che ne deriva è semplicemente devastante: un Csm svuotato di reale significato poiché ridotto a mesto notaio di accordi segreti presi fuori sede e aventi l’unico fine di assicurarsi dirigenti “addomesticati”. Tutto ha un costo e a sostenerlo, qui, è l’indipendenza del singolo magistrato, esposto ad un subdolo condizionamento ambientale che lo spinge, per convenienza e ambizione personale, a genuflettersi a logiche di sodalità, ben sapendo che la sua carriera è totalmente rimessa nelle mani di quel “mondo parallelo”. Ed è appena il caso di osservare come tutto ciò rechi grave appannamento alla sua imparzialità.  E veniamo ai rimedi. Da decenni assistiamo alle vuote promesse elettorali delle correnti, nessuna esclusa, di porre fine al mercimonio. Nulla è cambiato, tuttavia: non sono bastati un corposo Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria né favolistiche Carte dei valori dell’una o l’altra conventicola ad arginare il degrado; non sono servite le solenni promesse dei vari presidenti e vicepresidenti del Csm di porre fine allo strapotere di alcune associazioni di diritto privato che si sono impadronite del Csm. Nulla è servito e si è perduto tempo prezioso, con grave lesione della fiducia dei cittadini nell’istituzione giudiziaria. Escluso, quindi, che la magistratura abbia la forza di autoriformarsi, è tempo che il Parlamento affronti con coraggio e determinazione il problema, estirpandolo alla sua radice. L’indagine perugina altro non ha fatto che confermare ciò che era a tutti noto, specie tra noi magistrati, vale a dire l’esistenza di un “nominificio” saldamente nelle mani delle correnti e dei settori della politica ad esse collegati. La via maestra è, allora, quella di sottrarre al Csm questo meraviglioso giocattolo. E la risposta non può essere che una sola: la rotazione (biennale/triennale) negli incarichi direttivi tra tutti i magistrati dell’Ufficio con adeguata anzianità e che non siano incorsi in sanzioni disciplinari. Una risposta, quella della rotazione, che poggia saldamente su due pilastri costituzionali: l’indipendenza e la pari dignità di funzioni di ogni singolo magistrato, entrambe minacciate non solo dal “mondo parallelo” descritto ma anche da carriere direttive “a vita” destinate surrettiziamente a creare impropri rapporti di subordinazione e gerarchizzazione tra i magistrati. Sarà poi necessario rivedere profondamente il metodo elettorale del Csm per azzerare l’attuale occupazione correntizia. Certamente valida è la proposta formulata due anni fa da oltre 100 magistrati italiani in favore di un meccanismo elettorale misto, con una prima fase destinata al sorteggio dei candidati in misura multipla rispetto ai componenti e una seconda destinata alla votazione. Il sistema libererebbe il Csm, con la selezione stocastica dei candidati, dall’assoluta occupazione correntizia e al contempo garantirebbe, con la votazione tra i sorteggiati, il rispetto del dettato costituzionale che vuole i componenti del Csm “eletti da tutti i magistrati ordinari”. Ma, soprattutto, ciò garantirà quella giurisdizione senza speranza e senza paura che è la più preziosa garanzia di effettività dei diritti delle persone. Nulla di tutto ciò si realizzerà senza il contributo convinto di ciascun protagonista dell’esperienza giudiziaria, dottrina compresa. E sarà anche necessario l’appoggio dei settori più avveduti e responsabili della classe politica, della società civile e del mondo dell’informazione. Perché solo con la convergenza di tutti gli uomini di buona volontà sensibili ai destini della giustizia italiana si potrà arrestare il declino… prima che si trasformi in degrado. Tanti magistrati, molto più di quelli che si possano immaginare, sono perfettamente consapevoli di questa necessità e auspicano che una saggia Politica, libera da giochini di potere, abbia il coraggio di alzare lo sguardo al futuro e di fare ciò che deve.

Nino Di Matteo, Augusto Minzolini: "Ecco perché ha sputtanato Alfonso Bonafede". Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Un tempo, anzi forse soltanto fino a domenica, era vicinissimo al M5s. Si parla di Nino Di Matteo, il pm preferito (o ex preferito) da Marco Travaglio e grillini, insomma un "re" del giustizialismo. Poi, però, quella telefonata a Massimo Giletti e Non è l'arena, le accuse neppure troppo velate ad Alfonso Bonafede, che lo avrebbe prima scelto per il Dap salvo cambiare idea dopo un piao di giorni per alcune inquietanti pressioni. Insomma, una telefonata che sancisce, anche a livello pubblico, una clamorosa rottura. E che soprattutto mette a rischio il futuro di Bonafede alla Giustizia e, anche, quello dell'intero governo (che accadrà sulla sempre più probabile mozione di sfiducia?). E sulle ragioni di quella telefonata, ragiona e indaga Augusto Minzolini in un retroscena pubblicato su Il Giornale, che ricostruisce le "fila del giustizialismo nostrano", i comportamenti delle persone in ballo, a partire da Di Matteo, uno che "non guarda in faccia nessuno", eroe grillino, grande accusatore nel processo sulla trattativa Stato-mafia, "quella dei primi anni '90, che si imperniò proprio sul fatto che nell'estate del '93 il responsabile del Dap dell'epoca decise di togliere centinaia di mafiosi dal regime di carcere duro". Insomma, uno che vive per la giustizia e che lo ha fatto a modo suo, con accuse roboanti e clamorosi eccessi giustizialisti. Minzolini, dunque, arriva a delle conclusioni. "Se si sceglie questa chiave di lettura si capisce perché Di Matteo abbia sputtanato - l'espressione è azzeccata - un ministro amico come Bonafede: per lui il processo sulla trattativa, il Dap e tutto il resto, sono ferite ancora aperte", sottolinea Minzolini. E ancora: "Si arguisce perché il primo a scendere in difesa del Guardasigilli sia stato il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, e non un grillino. Si intuisce perché l' intemerata contro Di Matteo l' abbia recitata l' ultimo capo delle toghe rosse, il magistrato Armando Spataro, mentre l' icona grillina tra i giudici, Piercamillo Davigo, sia rimasto in silenzio", conclude.

Il linciaggio. Di Matteo accusa Bonafede di concorso esterno in associazione mafiosa. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Ti sei fatto ricattare dalla mafia! E tu parli per sensazioni e travisi la realtà!  Ha il sapore della faida il corpo a corpo che domenica sera poco prima di mezzanotte ha visto protagonisti non due ragazzotti sul ring di una palestra di periferia, ma un consigliere del Csm e un ministro della repubblica. Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Se non proprio mafioso, quanto meno imputabile di concorso esterno. È questa l’immagine che Nino Di Matteo dà del ministro di giustizia Alfonso Bonafede. Lo fa nel corso di una puntata-gogna di una trasmissione che non sarà l’Arena, come pretende il titolo, invece pare del tutto simile al luogo dove venivano perseguitati i cristiani. Con l’esibizione dei corpi, anche. La vittima predestinata questa volta è proprio il guardasigilli, non invitato, mentre il conduttore, con il contorno consenziente di personaggi come Luigi de Magistris e Catello Maresca, una volta ottenute, con la trasmissione precedente, la dimissioni del capo del Dap Basentini, azzanna alla gola una povera funzionaria, rea di aver inviato una mail in ritardo. Anche lei deve essere licenziata. Si canta e si suona tra persone che la pensano allo stesso modo. Ma il boccone è poco consistente, quindi si torna a fare le pulci a tutta quanta l’organizzazione delle carceri italiane, al vertice delle quali finalmente sono arrivati due magistrati cosiddetti, con il solito strafalcione incostituzionale, “antimafia”. Si può stare tranquilli per il futuro, si dice, ma intanto la frittata è fatta, i mafiosi passeggiano giulivi nei parchi delle loro città perché nessuno ha provveduto, come incautamente ricorda l’ex ministro Martelli, magari con una “norma interpretativa” (cioè abrogativa) delle leggi esistenti, a riacciuffarli tutti. Cioè a dire, sia il ministro della giustizia che l’ex capo del Dap sono stati due incapaci, dovevano violare la legge e lasciar morire in carcere qualche vecchio moribondo pur di mostrare i muscoli. Ah, se ci fosse stato a dirigere le carceri Di Matteo, sospira Massimo Gilletti. Lo evoca, ed eccolo. Mancato ministro, mancato capo del Dap, cacciato dall’Antimafia, entrato per il rotto della cuffia dopo dimissioni di altri al Csm con il sostegno del suo amico Davigo, dovrebbe stare un po’ caché, come dicono i francesi. Invece no, alza il telefono quasi fosse stato in attesa della parola d’ordine, ed entra a cavallo nella trasmissione. Lancia subito sospetti nei confronti dell’autonomia del ministro Bonafede, anche lui sottoposto, lascia capire, al ricatto della mafia. Ma è proprio un pallino, il suo. Portare il processo “trattativa” ovunque. Chiunque rappresenti lo Stato, tranne lui, è condizionato dai mammasantissima. Certo, va detto che Alfonso Bonafede gli ha rubato il posto, non dimentichiamolo. Era Di Matteo che avrebbe dovuto diventare ministro di giustizia nel 2018. Lui era pronto e si è visto scavalcato da uno qualunque. Vendetta, tremenda vendetta. E’ giunto il momento di fargliela pagare. Anche perché, sempre nel 2018, questo modesto ministro riconfermato si è permesso di proporgli la presidenza del Dap o in alternativa il prestigioso ruolo che fu di Falcone come Direttore generale degli affari penali, e poi gli ha soffiato la prima poltrona (preferendogli un Basentini qualunque) e gli ha riservato solo la seconda. Perché? Perché i capimafia nelle carceri avevano protestato: se arriva al Dap Di Matteo, quello butta la chiave, dicevano. Il ministro ci ha ripensato, dice il magistrato. Poi, allusivo: o qualcuno lo ha indotto a ripensarci. Ci risiamo. Dopo aver insultato i giudici di sorveglianza quasi fossero fiancheggiatori della mafia solo perché avevano applicato alcuni differimenti di pena, ora è la volta del ministro. Colpito e affondato. In studio si comportano tutti (con l’eccezione dell’ex jena Giarrusso che non sa più come difendere il suo ministro) come ragazze coccodè intorno al loro mito e alla sua ricostruzione dei fatti. Fedele, onesta e leale, la definisce il suo ex collega de Magistris. Martelli gli domanda come mai lui non abbia chiesto spiegazioni sul dietrofront di Bonafede. Per orgoglio, sussurra con modestia il magistrato. Tutti annuiscono compunti. Si potrebbe chiudere il sipario con il funerale del ministro e la beatificazione dell’ex Pm, tanto che viene accolta con fastidio, mentre è ancora aperto l’audio di Di Matteo, la chiamata di Bonafede, che è “esterrefatto” e quasi piange al telefono, nel ricordare quanto tasso di antimafia e di forcaiolismo lui abbia nel sangue. Dà inutilmente la sua versione dei fatti e viene trattato come la cugina impresentabile che viene nascosta quando arrivano gli ospiti importanti. Faccia presto, si sbrighi che abbiamo cose più importanti, gli fanno capire. Fa tenerezza, anche perché nessuno ricorda che un ministro nomina chi ritiene all’interno del suo dicastero. E non deve certo render conto al partito dei professionisti dell’antimafia. Ma il guardasigilli è ormai diventato un pungiball su cui chiunque ritiene di potersi esercitare. Tutti i partiti dell’opposizione ne chiedono le dimissioni ignorando chi detiene oggi il vero potere, e il Pd che non lo sa difendere, tranne l’ex ministro Orlando che ritiene sarebbero scandalose le dimissioni a causa dell’opinione di un magistrato. Persino il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, forse vedendolo debole, gli rifila una lezioncina sulla divisione dei poteri, ricordandogli di agire su delega dell’autorità giudiziaria e non del ministero. Intanto per ora la vicenda finirà con una seduta parlamentare in cui ci sarà una gara di forche alte verso il cielo da parte di tutti, speriamo con qualche singola eccezione. Chi salverà il soldato Bonafede? Pier Camillo Davigo, se lo vorrà. È l’unico più potente di Di Matteo. Ieri mattina era dato sul treno della contro-immigrazione Milano Roma, nel primo giorno della fase due anticovid. Chissà se è andato a consolare il suo allievo. 

Nino Di Matteo, il pm che accusava gli innocenti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Ma guarda un po’ se alla fine ti tocca persino difendere Alfonso Bonafede! È che quando prende la parola Nino Di Matteo ti viene da difendere chiunque lui accusi, perché sai di non sbagliarti. Se lui accusa vuol dire che quello è innocente. La biografia di Di Matteo è abbastanza limpida sotto questo punto di vista. Da giovane si fece strada indagando sull’uccisione di Paolo Borsellino. Fece un bel lavoro: insieme ad altri suoi colleghi scovò un pentito formidabile che raccontò loro per filo e per segno come andarono le cose. Si chiamava Scarantino questo pentito. Loro lo ascoltarono bene e poi arrestarono tutti i colpevoli: l’indagine la chiusero lì. Poi si scoprì che Scarantino aveva raccontato solo balle, e loro si erano fatti prendere in giro e non avevano verificato. Scagionati i condannati, ma ormai era troppo tardi per trovare i colpevoli veri e capire cosa era successo. Non lo sapremo mai. Allora Di Matteo cercò di riscattarsi. E, andando appresso al suo collega Ingroia, mise sul banco degli imputati l’unico personaggio ancora vivente di quelli che la guerra alla mafia l’aveva fatta davvero, incastrando e catturando decine di boss autentici, a partire dal capo dei capi, Totò Riina.  Questo personaggio, che è uno dei giganti della lotta alla mafia, è il generale Mori: oggi è in pensione e deve pensare a difendersi da accuse scombiccherate e già smentite molte volte in altri processi, ma purtroppo la giustizia funziona così: un pugno di Pm si è fissato con la storia della trattativa Stato mafia e non molla. Se ne infischia delle assoluzioni che in altri processi arrivano a pioggia e scagionano tutti. E ti processa allegramente, anche se sa che tu sei quello che ha dato il contributo maggiore a ridurre la mafia nelle condizioni di debolezza nelle quali si trova oggi. A questo punto Di Matteo si è dato alla politica politica. Cioè la politica fatta in prima persona dal partito dei Pm. Ha trovato un posto alla Procura nazionale antimafia, ma dopo pochi mesi l’hanno buttato fuori perché parlava troppo con giornali e Tv. E allora lui è riuscito a farsi portare da Davigo al Csm. E ogni giorno tuona contro la mafia, dando a tutti del reggicoda dei mafiosi. Persino a questo povero ministro lo ha detto, che sicuramente è il ministro della Giustizia più forcaiolo della storia della Repubblica e che proprio ‘sto fatto di finire sotto il martello di Di Matteo non se l’aspettava. Come possono succedere queste cose? Succedono quando i partiti liberali si fanno intimidire da quelli delle manette e gli corrono appresso. In questi giorni sta succedendo al Pd e anche a Italia Viva. Chissà se questa nuova esibizione del partito dei Pm, e del suo alfiere più pittoresco, alla fine non li farà ragionare…

Filippo Facci smonta Nino Di Matteo: "Un magistrato idolo dei manettari che in tribunale colleziona sconfitte". Libero Quotidiano il Filippo Facci 09 maggio 2020. Torniamo sulla Terra: un Bonafede che si metta a fare «trattative» con dei boss mafiosi (quali, poi) è uno scenario anzitutto che fa ridere e che va relegato alla fantascienza, perché parliamo di gente che non saprebbe trattare per comprare un accendino in spiaggia. Rimettiamo i personaggi e gli scenari al loro misero posto, dunque. L' unico problema politico, parentesi, riguarda il Pd: l'imbarazzo ha un limite, e la prospettiva di doversi tenere ancora a lungo questo cronico incapace è stato mitigato solo dalla pandemia intesa come distrazione di massa, aggravata tuttavia dal dettaglio che intanto l' incapace continuava ad essere capo delegazione dei Cinque Stelle. Nell' insieme, poi, ne escono a pezzi l' incapace, certo, ma anche Antonino Di Matteo, il senza vergogna Marco Travaglio e il governicchio dei decretini. I dilettanti allo sbaraglio, in sintesi, hanno agito così: chiunque abbia votato Cinque Stelle si aspettava che al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) dovesse andarci come minimo un Di Matteo, idolo grillino a dispetto di un curriculum alquanto discutibile. Di Matteo era vicino al Fatto Quotidiano (ormai un quotidiano-lobby) e compagno di corrente di Piercamillo Davigo, anche lui amatissimo dai grillini. Però c' era un problema. Anzi due. Il primo è che a Bonafede e a Conte sarebbe tanto piaciuto piazzare al Dap un amico loro, questo Francesco Basentini ora dimissionario, che peraltro era legato a un altro del giro di Unicost, Leonardo Pucci, ora - non a caso - vicecapo di gabinetto di Bonafede ma a suo tempo anche legato a Giuseppe Conte dai tempi dell' università a Firenze. Poi può anche darsi - ma ha scarsa importanza - che abbiano contato i consigli di Fabrizio Di Marzio, altro amico di Conte, consigliere di Cassazione ben introdotto nelle cose romane e a sua volta amico di Gian Carlo Caselli, uno che i pregi e soprattutto i difetti di Di Matteo li conosce quanto basta. Ma poi c' è il secondo problema, che non ha una fonte diretta ma nei palazzi romani resta un segreto di Pulcinella: a Mattarella, al Capo dello Stato, l'idea di un Di Matteo a capo del Dap è sempre piaciuta pochissimo. Così, dunque, Bonafede ha deciso di tentare di gestire l' operazione e di salvare capra e carceri: l'obiettivo, alla fine, per non scontentare nessuno, era assicurare a un amico del loro giro una delle buste paghe più pesanti dell' intero apparato statale (320mila euro all' anno, con ricaduta su Tfr e pensione) ma accontentare anche Di Matteo convincendolo che la direzione degli affari penali (o generali) fosse il massimo della vita, anche se lo stipendio era esattamente dimezzato. Non ha funzionato. E tantomeno ha funzionato la mozione degli affetti, con l'ostentata sottolineatura di Bonafede sul fatto che gli affari penali (ora generali) furono il prestigioso e contestatissimo incarico che ricoprì Giovanni Falcone prima di saltare in aria. No grazie, ha ribadito Di Matteo dopo aver inteso che in ogni caso il Dap l' avevano dato a un altro.

Tutto il resto non è grave e non è neanche serio. Francesco Basentini è stato costretto a dimettersi per lo scandalo della scarcerazione dei «boss» (che poi 'sti boss, boss veri, saranno un paio) senza avere neppure particolari colpe, ma poi ecco il capolavoro: la telefonata di Di Matteo alla trasmissione di Massimo Giletti che riesce a suo modo a compromettere le carriere sia di Bonafede sia di Di Matteo. Di Matteo è stato cristallino, chiaro, apparentemente entro le righe, persino pacato: quasi da non farci accorgere che eravamo fuori dal mondo. Aveva ragione il piddino Andrea Orlando a considerare grave che un ministro possa essere attaccato per i sospetti di un magistrato in diretta telefonica. Più chiaro di lui solo Mario Mori, generale dei carabinieri in pensione e - lui sì - vero eroe antimafia: «Ma come si permette un magistrato della Repubblica di attaccare il ministro della Giustizia in diretta televisiva?... Quello che è accaduto l' altra sera in tv è semplicemente aberrante. Io che ho qualche anno sulle spalle non ho memoria di un magistrato che si rivolge a un ministro con quei modi. È mancato totalmente il senso delle istituzioni». Ricordiamo che Mori è stato assolto dalle gravi accuse di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, assolto poi anche dall' accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Ora sta affrontando l' appello per la famigerata Trattativa Stato-mafia con l'accusa rappresentata proprio da Di Matteo. Il quale, in definitiva, che curriculum ha? A che cosa deve tanta popolarità tra i grillini e i travaglini? Non è chiaro. Le minacce di Riina furono un clamoroso fake, per il resto ha raccolto fior d' insuccessi in infinite sentenze che hanno smontato la cervellotica tesi della «trattativa». Ha vinto solo un primo grado: vedremo come finirà. Di Matteo oltretutto è corresponsabile del credito concesso per 15 anni a Vincenzo Scarantino, falso pentito che, dapprima, fece condannare svariati innocenti nei processi per la strage di via D' Amelio. Questo pm non credette alle ritrattazioni del falso pentito e tantomeno ai dubbi di Ilda Boccassini, di altri magistrati e di svariati giornalisti non allineati con la procura, e non è chiaro se vide il verbale investigativo del pentito Gaspare Spatuzza che già nel 1998 - dieci anni prima che lo ascoltassero a processo - raccontava la verità sulla strage e rivelava che la pista di Di Matteo era una cazzata. Contro di lui, ha avuto parole durissime anche la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, neppure nominata in un ver-go-gno-so editoriale di Marco Travaglio che ricicciava la moritura «trattativa» a sostegno appunto di Di Matteo, già allora designato ministro qualora i 5 Stelle fossero andati al governo. Poi ci sono andati. E non sono riusciti a piazzarlo nenche al Dap. Però alla Giustizia c' è Bonafede, noto genio.

Fiandaca: “Di Matteo non adeguato al Dap”. Il Dubbio l'11 maggio 2020. Il giurista e garante dei detenuti in Sicilia non ha dubbi: “Lo scontro tra Bonafede e Di Matteo un diversivo, i problemi delle carceri sono altri”. Lo scontro tra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo?: “Non è un affare importante”. Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale e garante dei detenuti in Sicilia, ha altre priorità. Primo, i “gravi problemi di strutture, gestione e disciplina legislativa complessiva del sistema carcerario”. E poi, naturalmente, il sovraffollamento carcerario che, soprattutto in tempi di Covid, avrebbe potuto essere risolto con un maggior ricorso alle misure alternative .E naturalmente anche ai detenuti per mafia va riconosciuto il diritto costituzionale alla salute. Secondo Fiandaca le Procure antimafia in modo particolare, “esprimono  una concezione unilaterale del trattamento dei detenuti e pretendono di allineare la gestione del sistema carcerario a una logica puramente repressiva legata al ruolo del pm. Deformazione professionale”. E sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap, “Non basta – dice Fiandaca – essere un simbolo antimafia, con tutto il rispetto per l’attività da lui svolta su cui non ho mancato comunque di esprimere qualche perplessità. Ci vogliono altre attitudini. Quella di Dino Petralia, ora nominato capo del Dap, mi sembra una scelta promettente: è un magistrato di grande equilibrio, competenza giuridica e capacità organizzativa”. Il governo sta introducendo nuovi limiti al potere discrezionale dei giudici di sorveglianza. È una giusta misura di cautela la richiesta di parere alle Procure sulle domande di scarcerazione? “Si poteva chiedere anche prima – risponde Fiandaca – anche se non era obbligatorio. Ma su questo punto condivido le preoccupazioni di Antonietta Fiorillo, responsabile del coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Non vorrei che dalla Procure arrivassero solo carte e si intasassero gli uffici. I dati cartolari devono essere aggiornati sulla pericolosità attuale del detenuto. E vanno integrati con notizie sull’evoluzione dei rischi di contagio e sulla adeguatezza delle strutture sanitarie intramurarie”. Il rischio più grave che Fiandaca paventa è che sulle scarcerazioni “si diano ora risposte palliative e buone solo per tranquillizzare l’opinione pubblica e salvare a Bonafede il posto di ministro”.

Di Matteo accusa Bonafede di mafia, intervenga Mattarella. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Lo scontro tra l’ex Pm Di Matteo, membro autorevole del Csm, e il ministro Bonafede si sta allargando. Nei 5 Stelle si è aperta la guerra. I consiglieri laici del Csm che fanno capo ai 5 Stelle si sono dissociati da Di Matteo. È andata in crisi l’alleanza che controlla la maggioranza del Consiglio, cioè quella tra la sinistra giudiziaria e la destra di Davigo. Perché Di Matteo è un “soldato” di Davigo, e la sua rivolta fa saltare tutti gli equilibri. Cosa vuole Di Matteo? Evidentemente voleva essere nominato capo del Dap. Invece Bonafede gli ha preferito Petralia. E lui non ci sta. Anche perché Bonafede gli aveva promesso quel posto già due anni fa, quando governava con Salvini, e poi non aveva mantenuto. Fatto fuori per la seconda volta? Di Matteo si è infuriato per questo sgarbo e ha chiamato Giletti per lanciare accuse feroci contro Bonafede. Ha detto che il ministro ha ceduto al ricatto dei mafiosi. Secondo lo schema abitualmente usato da Di Matteo questa accusa equivale a “concorso esterno in associazione mafiosa”. È un reato per il quale si rischiano 10 anni di prigione senza benefici né sconti. Perché è così ambito il posto di capo del Dap? Per varie ragioni. Dà potere. È un posto “politico”. Può essere un trampolino. E poi è anche ben pagato: credo circa 320 mila euro all’anno, molto più di un posto da ministro o da deputato. Una bella poltrona, dicevano una volta i 5 Stelle. Ora – come scrive l’ex parlamentare radicale Franco Corleone su questo giornale – si pone il problema di cosa farà il presidente della Repubblica. È il capo del Csm. Ha ricevuto il giuramento di Bonafede. Può far finta che non sia successo niente e credere all’ipotesi – un po’ umoristica – di Marco Travaglio, che ha scritto sul Fatto (testualmente), riferendosi allo scontro tra Di Matteo e Bonafede, che “è stato solo un colossale equivoco tra due persone in buonafede”? Un mancato intervento del Quirinale potrebbe costare caro alla credibilità del governo e di una istituzione fondamentale come il Csm.

Su rivelazioni Di Matteo assurdo il silenzio di Mattarella ed Ermini. Franco Corleone su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Una volta ci si lamentava che Porta a porta di Bruno Vespa costituisse la Terza Camera, oggi con la crisi conclamata del Parlamento ci si è ridotti alla copia riveduta e scorretta di un giornalista che preferisco non nominare. Durante una trasmissione televisiva il magistrato Nino Di Matteo che fa parte del Csm e il ministro della Giustizia Bonafede si sono esibiti in un duetto sgangherato sulla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2018. Non si capisce la ragione della rivelazione dopo due anni, ma se viene fatta da chi vive di teoremi e complotti, non può essere casuale. Forse si tratta della ripicca per la mancata seconda offerta dopo le dimissioni di Basentini, messo sulla graticola per una presunta responsabilità nella scarcerazione di alcuni detenuti eccellenti per gravi patologie. Altre erano le responsabilità del vertice del Dap che di fronte a una vera possibile emergenza sanitaria annunciò misure restrittive senza alcun dialogo e provocò rivolte in più di venti carceri come non accadeva da cinquant’anni. Una vera Caporetto che non ha ancora trovato una soluzione di monitoraggio, prevenzione e cura: solo la fortuna ha evitato che in galera non si sia verificata un’ecatombe simile a quella toccata agli ospiti delle case di riposo. Le misure nei decreti per ridurre il sovraffollamento sono state timide, prudenti e condite con il rilancio del rassicurante braccialetto (in realtà cavigliera), fino ad ora noto solo per lo sperpero di denaro pubblico. In realtà nelle celle si continua ad essere troppo vicini e con condizioni igieniche e sanitarie deplorevoli, con i lavandini attaccati alla tazza del cesso. Ma per le vestali della legalità, questa non è una vergogna sesquipedale da eliminare immediatamente. Lo scandalo si concretizza quando alcuni magistrati di sorveglianza decidono l’incompatibilità con la detenzione domiciliare per alcuni detenuti di calibro gravemente malati e prossimi al fine pena. Nessuna considerazione per 13 detenuti morti, invece. Pietà l’è morta, davvero. Torniamo al battibecco tra Di Matteo e Bonafede che ha al centro l’accusa al ministro di non avere proceduto alla nomina del magistrato palermitano al capo del Dap per paura delle reazioni dei capi mafia ristretti nelle sezioni del 41bis. La difesa di Bonafede è patetica. Viene svelato un triste mercato per l’occupazione di fondamentali incarichi di responsabilità. Altro che la vituperata lottizzazione della Prima Repubblica. Di fronte a questo spettacolo increscioso (miserabile, avrebbe detto Ugo La Malfa), è inquietante il silenzio del presidente della Repubblica che nomina i ministri sulla base di un giuramento che impegna a esercitare le funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione e che è il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Nemmeno una parola da parte del vice presidente del Csm David Ermini. Le istituzioni ricevono un duro colpo e la crisi della democrazia e dello Stato di diritto pare irrimediabile. Sono solo peccati di omissione o segno di complicità? Neppure la pandemia fa prevalere il senso di umanità e l’egemonia giustizialista mette nell’angolo il Papa e la sua Via Crucis, la Corte Costituzionale e le sue sentenze, i magistrati garantisti e gli avvocati impegnati con i volontari e i garanti per i diritti. Manca la politica e un soggetto politico con l’ambizione di perseguire un disegno alternativo al populismo penale. La “Società della Ragione” che negli scorsi anni si è battuta per la cancellazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe e per la chiusura degli Opg, nella sua assemblea del 30 aprile ha deciso di lanciare una sfida ambiziosa. Ripresentare nel Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga a fine giugno una proposta di una riforma radicale; il 29 luglio nell’anniversario della morte di Sandro Margara porre sul tappeto i cambiamenti del carcere per rispettare la Costituzione; infine lanciare una campagna per la modifica degli strumenti di clemenza (amnistia, indulto e grazia) e delle norme del Codice Rocco sull’imputabilità dei malati di mente. Proprio ora nel fuoco della crisi sociale va scritta con coraggio un’agenda del cambiamento, contro l’arroganza del senso comune e della paura.

Da mesi chiediamo le dimissioni di Bonafede, oggi no. Davide Faraone su Il Riformista il 4 Maggio 2020. Nessuno tocchi Bonafede. Perché noi non cambiamo idea a seconda delle stagioni o delle convenienze politiche. Perché per noi la separazione dei poteri è un principio irrinunciabile ed è intollerabile un processo in piazza da parte di un magistrato, membro del Csm, nei confronti di un politico, qualsiasi maglietta indossi. Perché noi siamo seri e questa faccenda l’abbiamo affrontata cinque mesi fa al Senato con l’intervento di Matteo Renzi. Zitto Bonafede, zitti tutti. Da mesi chiediamo le dimissioni del ministro della giustizia ma oggi no. Oggi che il destino ridicolo si è abbattuto su chi si è servito dei processi in piazza per poi rimanervi vittima, no. E lo facciamo perché in gioco c’è qualcosa di più importante della poltrona di via Arenula, della nostra visione garantista che è alternativa a quella dei cinque stelle. C’è in gioco la democrazia. E secondo me anche il buon gusto. Domenica sera da Giletti non è andato in onda un botta e risposta tra due amici, cresciuti a pane e giustizialismo, è andata in scena la politica a libertà vigilata, il governo agli arresti domiciliari, una democrazia in cui regna il vuoto politico. Craxi del vuoto e della debolezza della politica provava orrore, Bonafede è oggi vittima, ieri è stato artefice. Di questo dobbiamo parlare, di una deriva populista che investe tutti i poteri dello Stato. Perché non è serio quello che è successo domenica sera. E se fossi stato al posto di Bonafede, paragonato a uno Zagaria qualunque, avrei scelto il silenzio e avrei chiesto immediatamente un chiarimento al ministero e non in un talk show. Ma Bonafede è Bonafede, quel vuoto politico che consente a chiunque di poter aspirare ai pieni poteri. Nessuno tocchi Bonafede, ma da domani o la politica ha il coraggio, la forza e l’autorevolezza di affermare quei principi di libertà che risiedono, per dirla alla Montesquieu, nella separazione dei poteri o l’Italia, culla del diritto, confondendo la politica con la giustizia penale, rischierà di diventarne la tomba. Così scrisse Giovanni Falcone.

La poltrona del Dap vale 320mila euro l’anno. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Dietro lo scontro per la poltrona del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ci sono solo ragioni ideali ma una super indennità che i magistrati mantengono per tutta la vita. Trecentovemtimila euro. Seicento e passa milioni del vecchio conio. E’ il valore della poltrona del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che si occupa dei detenuti e delle carceri italiane. A quanto pare male vista la situazione disastrosa dei nostri istituti di pena e la condizioni, al limite dell’inumano (fonte Cedu), nelle quali sono costretti a vivere i detenuti. Insomma, dietro lo scontro per sedere sull’ambitissima poltrona del Dap non ci sono solo motivi “ideali”. Ammesso che si possano considerare tali i motivi di chi usa il carcere come strumento punitivi e repressivo e non come mezzo rieducativo e di reinclusione sociale. In un lungo e informatissimo articolo, il Segretario Generale Aggiunto del Sappe, Giovanni Battista de Blasis, spiegava che il problema delle carceri italiane sta proprio in quello stipendio monumentale del capo del Dap: “Inevitabilmente, la poltrona di capo del Dap – scrive de Blasis – è uno degli incarichi dirigenziali più ambiti e desiderati dello Stato italiano. Per questa ragione, nonostante siano anni, forse decenni, che continuiamo a lanciare sos sulla necessità che a capo del Dap sia nominato un manager, esperto di organizzazione e, soprattutto, di gestione delle risorse umane, continuiamo a subire la nomina di Capi Dipartimento che non hanno alcuna cognizione di che cosa significhi comandare un Corpo di polizia e senza esperienza manageriale in senso stretto”. Non solo, de Blasis spiega anche che chi diventa capo del Dap mantiene quei 320mila euro per tutta la vita. Insomma, uno stipendio dal Dap è per sempre.

Di Matteo e Bonafede? Una questione da 160mila euro. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Continua in maniera feroce la polemica tra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Di Matteo è il pm di Palermo che credette a Scarantino e mandò a puttane l’inchiesta sull’omicidio di Paolo Borsellino, quello che ha costruito il grande processo sulla trattativa Stato-mafia che poi è stata demolita in moltissimi altri processi. E’ quello che andò alla procura nazionale anti-mafia ma che dopo qualche mese fu mandato via dal procuratore poiché “parlava troppo” rilasciando troppe interviste. La rottura con Bonafede è misteriosa. Perché una delle icone del Movimento 5 Stelle ha rotto con i grillini? Abbiamo fatto due conti, forse influenzati dal modo di pensare dei 5 Stelle. Abbiamo visto che Bonafede ha proposto a Di Matteo di fare il direttore del Dipartimento degli affari penali o di fare il capo del Dap. Di Matteo, dopo averci pensato, ha detto al ministro “Voglio fare il capo del Dap”. A quel punto Bonafede ha detto “No devi fare il direttore del Dipartimento degli affari penali“. Qui nasce il caso. Il capo del Dap guadagna 320 mila euro, il direttore del Dipartimento degli affari penali “solo“ 160 mila. Il capo del Dap è il magistrato più privilegiato d’Italia, guadagna molto più del presidente di Cassazione, dei deputati. Perché Di Matteo avrebbe dovuto guadagnare la metà e così rinunciare a 160 mila euro? Su questa polemica, intanto, si sta aprendo una grande crisi istituzionale che coinvolge il presidente della Repubblica, che avrebbe bloccato due anni fa la nomina di Di Matteo. C’è di mezzo il ministro della giustizia accusato dall’ex Pm di “concorso esterno in associazione mafiosa“. C’è Di Matteo che ha fatto saltare la maggioranza rosso-bruna del Csm. Tutto per una questione di 160 mila euro. La toga è sacra, finché non arriva qualche vantaggio politico o economico.

Scontro Di Matteo-Bonafede, i grillini scaricano il Pm adorato. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Si rompe il fronte “delle manette” al Csm. Per la prima volta nella storia, i consiglieri laici grillini “criticano” Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato-mafia e magistrato di riferimento della base pentastellata.  Con una nota diffusa ieri mattina, i laici in quota M5s Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti sottolineano come “i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio”. Nel mirino, l’attacco di Di Matteo sferrato nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. In collegamento telefonico, a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, il magistrato siciliano aveva “accusato” Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018. Parole durissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigili, scatenando una violenta polemica politica. “Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa – proseguono i laici del M5s – rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. E’ quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm”. La difesa pancia a terra del Guardasigilli anticipa l’intervento che Bonafede oggi pomeriggio terrà alla Camera sull’accaduto. Il ministro si era subito giustificato dicendo di aver proposto a Di Matteo anche un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, quello di direttore degli Affari penali, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia. Un ufficio che, leggendo però l’organigramma di via Arenula, non esiste. La sparata televisiva a scoppio ritardato di Di Matteo e la presa di distanza dei laici pentastellati rischia ora di provocare un terremoto al Csm, il secondo, dopo il “Palamara-gate”, incrinando l’asse di ferro fra i Davighiani, le toghe di sinistra e, appunto, i laici grillini. Di Matteo, un passato da toga progressista, poi transitato in Unicost ricoprendo l’incarico di segretario distrettuale dell’Anm del capoluogo siciliano, lo scorso ottobre venne “folgarato” da Davigo, accettando di correre per le elezione suppletive del Csm nelle liste di Autonomia&indipendenza, il gruppo fondato dall’ex pm di Mani Pulite. Su 26 componenti del Csm, l’asse “rosso-bruno” ne conta adesso 13, a cui si deve aggiungere il voto del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, toga progressista. “Sfilandosi” Di Matteo, c’è la parità perfetta e nessuna maggioranza predefinita. Ci sarà da divertirsi.

Pd non è giustizialista, avvisare le procure antimafia è buon senso. Franco Mirabelli su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Le recenti polemiche sulle scarcerazioni di diversi, forse troppi, uomini legati alla mafia e detenuti in alta sicurezza o per il 41 bis, richiedono alcune precisazioni. Innanzitutto credo sia senza fondamento l’idea di riconoscere in questo passaggio, nella preoccupazione per l’uscita dei boss e nelle norme contenute nel recente decreto, una svolta giustizialista del Pd. In questi mesi abbiamo lavorato e lavoriamo in coerenza col passato. Sia sull’emergenza carceri come sulla riforma del processo penale per noi resta centrale il tema dell’allargamento degli spazi per l’utilizzo delle pene alternative al carcere, per introdurre misure fondate sul risarcimento a fronte dei reati meno gravi, per non far entrare nel circuito penale gli autori di reati bagatellari. Ricordo che è stato il Pd ad impedire che la direzione delle carceri cambiasse natura dando, come si voleva fare col riordino delle carriere, ai comandanti degli agenti le stesse funzioni attribuite ai direttori. Avevamo e abbiamo questa idea della pena, siamo ancorati ai principi costituzionali e consideriamo prioritario l’obbiettivo di garantire a chi viene condannato la possibilità di trovare percorsi non solo punitivi ma utili per avere a fine pena possibilità di reinserimento e per trovare opportunità di vita che rompano col passato. In secondo luogo non è vero che ci sia da parte nostra alcuna volontà di ridimensionare il ruolo della magistratura di sorveglianza. Abbiamo difeso e continueremo a difendere le prerogative e l’autonomia di chi deve decidere sui benefici e valutare i percorsi e le condizioni di salute dei detenuti. Anzi abbiamo riconosciuto l’importanza delle decisioni assunte, in questi difficili mesi in cui il Covid19 ha reso esplosiva la questione della sovrapopolazione delle carceri, che hanno consentito di ridurre la popolazione carceraria da 61 a 53 mila unità. È grazie alle normative vecchie e nuove, ma soprattutto al lavoro dei magistrati di sorveglianza, se ciò è avvenuto e di questo l’intero Paese deve essere loro grato. Per noi esprimere preoccupazione, che dovrebbe essere di tutti, per il numero significativo di boss mafiosi tornati a casa non significa, e lo abbiamo detto a chiare lettere anche in Antimafia, accusare la magistratura ma piuttosto guardare agli errori e alle sottovalutazioni del DAP nella gestione delle richieste di benefici da parte di detenuti dell’alta sicurezza o per il 41 bis, che, in corrispondenza della pandemia, si sono moltiplicate. Su questo e non certo sul lavoro della magistratura la stessa commissione Antimafia ha deciso di indagare. Detto questo resta il punto di come rispondiamo al clamore che hanno suscitato, in particolare, alcune scarcerazioni. Questo non deve e non può rischiare di tradursi nell’idea di uno Stato che ha abbassato la guardia nella lotta alla mafia. È un problema che riguarda tutti coloro che hanno a cuore la battaglia contro la criminalità organizzata. Affrontare questa questione riproducendo la narrazione di una contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sbagliato. Non è questo il tema. Il tema è come mettiamo i capi mafia nelle condizioni di non nuocere più alla società pur rispettando il loro inalienabile diritto alla salute. Per comprendere meglio e evitare di considerare la norma contenuta nell’ultimo decreto come una violazione dell’autonomia della magistratura di sorveglianza, o peggio un atto ostile o, addirittura, eversivo perché interverrebbe con decreto su una modifica delle competenze, vorrei stare al merito. C’è una norma dell’ordinamento carcerario (l’articolo 4bis al comma 3 bis) che dice che permessi premio e misure alternative al carcere non possono essere concessi se il procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunicano che permangono collegamenti con la criminalità organizzata. Con la norma contenuta nel decreto si chiede semplicemente ai magistrati di sorveglianza, prima di prendere decisioni, di informare questi soggetti in modo che essi possano verificare se permangono collegamenti dei detenuti con le mafie che renderebbero pericolosa la scarcerazione. Mi pare una norma di buon senso. Trarre da questa misura l’idea che governo e Pd sono appiattiti su posizioni giustizialiste mi pare, onestamente, difficile.

Senatore Mirabelli, vorrei farle solo una domanda. Secondo lei fare uscire dal carcere un signore di 80 anni, gravemente malato di tumore, che ha già scontato quasi per intero la sua condanna a 18 anni (gli mancano 8 mesi) che non ha mai ucciso nessuno né mai ha ordinato un omicidio (condannato per estorsione) equivale a mettere in libertà il gotha dei boss mafiosi? Sa perché glielo chiedo? Io penso che il giustizialismo sia questo: lanciare allarmi infondati e chiedere misure d’eccezione per fronteggiarli. A spese dei diritti di tutti. Lei non crede che il suo partito, in questi giorni, sia corso appresso ai giustizialisti? Piero Sansonetti

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020. Un equivoco. Sgradevole quanto si vuole ma pur sempre un equivoco, niente di più. Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede prova a chiudere l' incidente con l' ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo. Icona grillina della prima ora, e forse anche per questo individuato come possibile governatore delle carceri italiane dallo stesso ministro della Giustizia, appena insediatosi nel giugno 2018. Ma nel giro di ventiquattr' ore la proposta fu ritirata, con un «voltafaccia» di cui il magistrato non ha mai avuto spiegazioni. Oggi una spiegazione è arrivata: quella del malinteso, per l' appunto. Che però non può bastare, perché non si può declassare a fraintendimento la ritrattazione di un' offerta così importante che nemmeno il ministro smentisce. Né è credibile immaginare che l' altro incarico prospettato a Di Matteo e improvvisamente ritenuto «più adatto» (il posto di Direttore generale degli Affari penali del ministero), potesse essere considerato equivalente o addirittura migliore. Dire che «fu l' ufficio di Giovanni Falcone» è solo un altro slogan, perché nel frattempo quell'ufficio è stato depotenziato, ha cambiato collocazione e competenze, e si sarebbe dovuto mettere mano a una riforma per riportarlo a qualcosa di equiparabile a quello che era. Le ricostruzioni dei due contendenti divergono soprattutto sulla percezione avuta da Di Matteo nel primo colloquio con il ministro, il quale aveva capito che «fossimo concordi su quella collocazione», mentre il magistrato intendeva accettare l' altra. Ma al di là dell'equivoco più o meno credibile, il nodo che Bonafede non ha sciolto resta un altro: perché ha cambiato idea rinunciando a nominare l'ex pm della trattativa Stato-mafia al vertice dell' Amministrazione penitenziaria? Scelta legittima e persino insindacabile, per carità. Se però si decide di darne conto - sia pure attraverso una irrituale telefonata semi-notturna in diretta televisiva, in risposta a un' altrettanto irrituale chiamata in cui il magistrato ha svelato il retroscena taciuto per due anni - la motivazione dev'essere almeno verosimile. Bonafede s'indigna all'insinuazione che il dietrofront fu dovuto alle proteste dei detenuti mafiosi per il temuto arrivo di Di Matteo, e ne ha tutto il diritto. Tuttavia un' altra ragione ci deve essere per aver virato, dalla sera al mattino, su un altro candidato: Francesco Basentini, nome che al popolo grillino diceva poco o niente. Non per questo non adatto all' incarico, sebbene i due anni di gestione e l' epilogo consumatosi pochi giorni fa possano legittimare i dubbi. Ma continua a mancare un chiarimento. Divenuto ormai ineludibile secondo i canoni istituzionali, prima ancora che del Movimento Cinque Stelle di cui Bonafede guida la delegazione governativa. Se il ministro non avesse replicato all' irruzione di Di Matteo (anch' essa discutibile, visto il ruolo istituzionale che ricopre da componente del Consiglio superiore della magistratura), o si fosse limitato a respingere ogni sospetto rivendicando la propria autonomia nelle scelte politiche di così alto livello, avrebbe forse potuto chiudere il caso. Con spiegazioni poco plausibili invece no. È possibile che la repentina marcia indietro del ministro su Di Matteo sia dovuta a qualche consiglio arrivato nel breve intervallo tra la prima e la seconda proposta, come ipotizzato dallo stesso magistrato. Ma pure in questo caso, visto che ormai l' episodio è stato squadernato in diretta tv, sarebbe meglio dirlo. Senza necessità di svelare altri particolari. Un ripensamento, autonomo o indotto, non è motivo di scandalo. Basta essere chiari, una volta che ci si inerpica sulla strada della trasparenza. Sempre più invocata che praticata, secondo vizi antichi che nemmeno la politica sedicente nuova riesce a scrollarsi di dosso.

I dubbi e le vergogne sulla querelle Bonafede-Di Matteo. Troppe le domande serie e pesanti senza risposta in una storia che sarebbe costata la crisi per qualsiasi Governo di centrodestra e che oggi passa quasi sotto silenzio. Maurizio Tortorella il 6 maggio 2020 su Panorama. Tanti dubbi, di certo qualche bugia e alcune omissioni, e tutt'intorno giornali e tv immersi un clima di fischiettante disattenzione, come se la querelle che ha opposto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il magistrato antimafia Nino Di Matteo fosse questione irrilevante. I fatti: domenica sera, a Non è l'Arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti su La7, si parlava di carceri e mafiosi liberati, e dei disastri combinati negli ultimi mesi dal Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, affidato dal ministro al dimissionario Francesco Basentini. A un certo punto, però, Di Matteo chiama in diretta e rivela una storia che, da sola, farebbe cadere qualsiasi governo di centrodestra. Il pm palermitano, che dal 2019 siede come membro togato nel Consiglio superiore della magistratura (per la corrente fondata da Pier Camillo Davigo), rivela che nel giugno 2018 Bonafede, appena insediatosi al ministero come ministro guardasigilli del primo governo Conte, l'aveva chiamato per proporgli di diventare "o il capo del Dap, o in alternativa il direttore generale degli Affari penali". Di Matteo ricorda di aver chiesto 48 ore di tempo per rispondere. Poi sottolinea con forza un particolare di gravità assoluta: "Nel frattempo" , dice, "e questo è molto importante che si sappia, alcune note informative redatte dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap". Quelle reazioni, ovviamente, erano state più che negative. "Trascorse le 48 ore, o forse già l'indomani" continua Di Matteo nella telefonata in diretta "io andai a trovare Bonafede perché avevo deciso di accettare la nomina al Dap. Il ministro, che pure fu molto cortese, mi disse però che ci aveva ripensato, che aveva pensato di nominare per quel posto Basentini, e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli Affari penali nel quale mi vedeva meglio". Il magistrato conclude: "Io rimasi colpito da quell'improvviso cambiamento di proposta. Il ministro ci aveva ripensato, o forse qualcuno l'aveva indotto a ripensarci; questo io non lo posso sapere. Il giorno dopo gli dissi di non contare su di me, perché non avrei accettato". Una rivelazione sconvolgente e sconcertante, insomma: uno dei pubblici ministeri più vicini al Movimento 5 stelle, l'uomo che gli stessi Cinque stelle considerano un'icona dell'antimafia, ipotizza oggi a freddo che il ministro grillino della Giustizia due anni fa avesse subìto pressioni che l'avrebbero indotto a cambiare idea sulla sua nomina al Dap. Sono affermazioni tanto gravi da indurre Bonafede a intervenire nella trasmissione, a sua volta in diretta. Il ministro si dice "esterrefatto" di quanto ha sentito, però conferma tutto il racconto di Di Matteo. Gli contesta solamente «l'idea che io, in virtù di chissà quale paura sopravvenuta, avrei ritrattato la mia proposta: è un'idea che non sta né in cielo né in terra». Così dice Bonafede, aggiungendo però una frase ambigua: «È una percezione, legittima, del dottor Di Matteo». Il ministro conclude facendo leva soprattutto sulla proposta alternativa che due anni fa ha fatto a Di Matteo: "Gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli Affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia, il ruolo ricoperto da Giovanni Falcone". Con queste parole, Bonafede cerca insomma di dimostrare di aver voluto a tutti i costi accanto a sé Di Matteo. È come se dicesse: io gli ho proposto il massimo tra quel che avevo a disposizione, ma alla ne è stato lui a non accettare. Questo, però, non corrisponde al vero. Perché nel giugno 2018, quando Bonafede s'è appena insediato, la direzione degli Affari penali del ministero della giustizia che nel maggio 1991 il ministro Claudio Martelli aveva affidato a Falcone in quanto «cabina di regia» del ministero, non esiste più. Meglio: non è più quella da quasi vent'anni, è stata depotenziata e ridimensionata. Dal 1999, cioè dalla riforma della Pubblica amministrazione di Franco Bassanini, il ministero della Giustizia si regge su quattro Dipartimenti che sotto di sé hanno varie direzioni generali: questi sono uffici secondari, burocratici. E la direzione generale degli Affari penali che Bonafede vorrebbe dare a Di Matteo è proprio uno di questi uffici. Quindi, se è plausibile che l'importante guida del Dap venga offerta a un magistrato della caratura di Di Matteo, l'altra proposta - quella della direzione degli Affari penali - è inverosimile. E è appena ammissibile che Bonafede potesse ignorarlo nelle sue prime settimane al ministero, due anni fa. Ma è del tutto impossibile che il ministro grillino possa continuare a non saperlo oggi: è anzi letteralmente incredibile che il ministro continui a fare confusione tra un suo capo Dipartimento e un direttore generale. Deve sapere per forza quanto sono diversi quei due ruoli: il primo, per esempio, parla direttamente con il ministro, mentre il secondo no; il primo ha uno stipendio di 320.000 euro, il secondo ne guadagna 180.000. Sull'importanza della direzione generale offerta a Di Matteo, quindi, Bonafede non dice il vero. Ma c'è di peggio: perché nel giugno 2018 la direzione generale degli Affari penali ha già un titolare, e quindi Bonafede non può nemmeno offrirla a Di Matteo. Tre mesi prima, infatti, e per l'esattezza il 21 marzo 2018, il suo predecessore Andrea Orlando l'ha affidata a un serio magistrato, Donatella Donati: e dato che si tratta di una nomina triennale, costei è ancora in quel ponto, tecnicamente inamovibile no al marzo 2021. C'è chi tenta oggi di censurare la gravissima querelle tra Di Matteo e Bonafede (il Tg1 non ne ha nemmeno fatto cenno) o di derubricarla a banale "equivoco" tra i due. L'ha scritto ieri, per esempio, il Fatto quotidiano, negli ultimi mesi divenuto particolarmente filogovernativo e lo-grillino. Il suo direttore Marco Travaglio, di solito accurato e documentato, nell'editoriale di ieri ha scritto: "Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione affari penali (che già era stata di Falcone) o il Dap". E continua a difendere a spada tratta Bonafede, aggiungendo che "chi vuole compiacere i boss non ore a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Claudio Martelli agli Affari penali, non al Dap". Ma questo non corrisponde al vero, come abbiamo visto. E anzi accende il neon di un altro punto interrogativo sul comportamento del ministro nel giugno 2018. Perché in quel momento Bonafede avrebbe la possibilità di offrire a Di Matteo, in alternativa alla guida del Dap, una poltrona davvero importante, un ruolo che assomiglia molto da vicino a quello affidato nel 1991 a Falcone: è il posto di capo del Dag, il Dipartimento affari di giustizia. A metà del giugno 2018, quando il ministro parla e s'incontra con il magistrato antimafia, il responsabile (/) / del Dag è ancora da nominare. Bonafede lo sceglierà soltanto il 27 di quel mese. Non sarà Di Matteo, ma Giuseppe Corasaniti, procuratore aggiunto della Cassazione. Certo, sulla questione restano irrisolti molti altri dubbi. Possibile che i grillini accettino senza problemi che un'ombra così grave oscuri il loro ministro della Giustizia? E com'è possibile che il presidente della Repubblica non abbia almeno chiesto chiarimenti? Va ricordato, in proposito, che Sergio Mattarella è presidente del Csm, di cui Di Matteo fa parte: è possibile che il Consiglio non abbia sentito la necessità di fare chiarezza su un tema così importante? Ma le domande riguardano anche Di Matteo: perché parla soltanto oggi, a quasi due anni dalla vicenda? Lo fa perché, come ha scritto qualcuno, oggi avrebbe voluto essere chiamato per il posto di capo del Dap, lasciato libero dal dimissionario Basentini? E ancora, visto che Di Matteo è uno dei pubblici ministeri del controverso procedimento palermitano sulla presunta "Trattativa" fra Stato e Cosa nostra, partita proprio sulla gestione dei capi di Cosa nostra in carcere, e visto che in qualche misura insinua che il ministro della Giustizia abbia assoggettato le sue scelte a quel che accadeva in prigione, tra i boss mafiosi, perché in questi due anni non ha adottato alcuna iniziativa?

Dagospia il 7 maggio 2020. Testo di Paolo Cirino Pomicino. Una Italia confusa e smemorata. La confusione. La denuncia fatta da Nino di Matteo nella trasmissione di Giletti circa pressioni da parte di detenuti mafiosi sul ministro della giustizia Alfonso Bonafede, vecchio dj siciliano, perché non nominasse a capo della polizia penitenziaria lo stesso di Matteo è una notizia di reato. E tanto più lo è in quanto di Matteo riferisce che quelle pressioni fecero addirittura cambiare una decisione già assunta dallo stesso ministro. Insomma un attentato ad un corpo dello Stato e chi lo dice è un magistrato senza macchia e senza paura. Il perché il di Matteo non abbia segnalato alla procura di Roma questo episodio è un mistero visto che lo stesso reato lo ha contestato ad un autorevole gruppo di carabinieri,  dal generale Mori al generale Subranni  passando per il capitano de Donno. E meraviglia che essendo diventata la notizia di pubblico dominio, ancora oggi ne ’Palermo ne’ Roma se ne stiano interessando aprendo una indagine. La smemoratezza. Oggi il fatto quotidiano ricorda il decreto Andreotti con il quale furono riarrestati i mafiosi del maxi processo intentato da Giovanni Falcone che erano usciti per decorrenza dei termini. Quel decreto però  non fu nel giugno del 1991 come ricorda il Fatto ma nel settembre 1989 (Andreotti-Vassalli) e Scotti, che racconta fantasie, non era neanche al governo mentre nel parlamento Luciano Violante lo contrasto’ con durezza inimmaginabile come risulta dagli atti parlamentari. Passata la pandemia alcuni dovrebbero andare in una confortevole residenze per anziani.

L'intervista all'ex direttore del Sisde. Intervista a Mario Mori: “Parole Di Matteo aberranti, politica tace perché ha paura dei magistrati”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2020. «Ma come si permette un magistrato della Repubblica di attaccare il ministro della Giustizia in diretta televisiva?». Mario Mori, generale dei carabinieri in pensione, ex comandante del Ros e direttore del Sisde, da qualche decennio è imputato in servizio permanente effettivo presso la Procura di Palermo. Tre i processi aperti contro di lui dai magistrati siciliani. Nel primo l’accusa era di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Con Mori era imputato il colonnello Sergio Di Caprio, alias il capitano Ultimo. Il processo si è concluso con l’assoluzione per entrambi. Nel secondo l’accusa era di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Coimputati erano il colonnello Mauro Obinu e il generale Giampaolo Ganzer, successore di Mori al Ros. Di Matteo, che rappresentava la pubblica accusa, aveva chiesto una condanna a nove anni di carcere. L’impianto dell’accusa si basava essenzialmente sulla testimonianza, dimostratasi inattendibile, di Massimo Ciancimino. Assoluzione per tutti, sia in Tribunale che in Corte di Appello. Infine c’è il processo Trattativa Stato-mafia. Nel dibattimento, all’inizio condotto dall’allora procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, l’accusa è stata rappresentata nuovamente da Di Matteo. Ad aprile del 2018 la sentenza di primo grado con la condanna a dodici anni di carcere. L’appello è in corso.

Generale, lei è critico con Di Matteo per via dei suoi processi?

«Guardi, le mie vicende processuali esulano dal giudizio sulle parole pronunciate di Di Matteo che, voglio ricordarlo, ha di fatto accusato il ministro di non averlo nominato al vertice del Dap a causa del “condizionamento” dei boss al 41 bis».

Una nuova “trattativa”?

«Quello che è accaduto l’altra sera in tv è semplicemente aberrante. Io che ho qualche anno sulle spalle non ho memoria di un magistrato che si rivolge a un ministro con quei modi. È mancato totalmente il senso delle istituzioni».

Lei però adesso esprime giudizi molto duri.

«Io parlo ora che sono in pensione. Quando ero in servizio non mi sono mai permesso di criticare i miei comandanti o l’autorità politica.

Il colonnello Di Caprio, suo stretto collaboratore, ha “difeso” Di Matteo stigmatizzando chi ha ostacolato la sua attività di magistrato».

Adesso è in pensione anche lui.

«Di Caprio esprimeva giudizi critici anche quando era in servizio…E ha sbagliato. Se vuoi criticare i tuoi superiori o chiunque altro, ti togli la divisa. Non puoi venire meno al giuramento di fedeltà prestato alle istituzioni».

Crede che ci sia una sorta di “sudditanza psicologica” nei confronti del dott. Di Matteo?

«Io non ho mai creduto alla sudditanza psicologica. Penso invece che molti abbiano una grande coda di paglia. Soprattutto la classe politica».

Sono terrorizzati?

«È impossibile esprimere una critica nei confronti di un magistrato in questo Paese. Tutti hanno paura. Adesso se mi espongo chissà cosa succederà, si domandano».

Il centrodestra ha messo nel mirino il ministro della Giustizia chiedendone le dimissioni.

«E sta sbagliando. Perché attaccare Bonafede è come sparare sulla Croce rossa. È Di Matteo a dover essere criticato. L’unico che ha preso posizione sulla vicenda è stato Armando Spataro, un magistrato in pensione».

Non è proprio possibile fare nulla?

«Siamo indifesi. L’ultimo pm della Procura di Guastalla ha un potere immenso. Può mettere sotto indagine il presidente del Consiglio. Anzi, pure il Papa. Chi ha il coraggio di dire qualcosa?»

“Tutti dentro!”. Bonafede dice che l’emergenza virus è passata e vuol riempire le carceri. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 7 magio 2020. Il guardasigilli segue le sirene dei “professionisti dell’antimafia” e studia il modo di far tornare in cella i detenuti messi ai domiciliari dai magistrati di sorveglianza. È in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41 bis». La notizia più importante il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la riserva per la fine del suo intervento alla Camera. È in Aula il Guardasigilli per rispondere per rispondere all’interrogazione, presentata dal deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, sullo “scontro” in atto tra via Arenula e il magistrato Nino Di Matteo sulla nomina del Capo del Dap del giugno 2018. Bonafede risponde colpo su colpo alle accuse mosse dalle opposizioni e alle «illazioni» sul suo operato avanzate in tv proprio dall’ex pm palermitano. Ma alla fine cede alle pressioni interne ed esterne al suo partito, il Movimento 5 Stelle, e annuncia la retromarcia. I 376 detenuti per mafia beneficiari delle misure alternative a causa dell’emergenza covid torneranno in galera. Oltre la metà di loro, 196, non ha ancora una condanna definitiva. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti in attesa del giudizio di primo grado. Bonafede, dunque, torna sui suoi passi per non finire impallinato in Aula ( a breve potrebbero arrivare mozioni di sfiducia nei suoi confronti dalle opposizioni ma anche da Italia Viva) ma prima prova a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. «Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria», scandisce a Montecitorio, nel tentativo di confutare una volta per tutte il “teorema Di Matteo”, secondo cui il Guardasigilli avrebbe scelto un altro magistrato alla guida del Dap dopo la «reazione di importantissimi capimafia» alla notizia di un possibile arrivo del pm della “Trattativa”. «Ogni ipotesi o illazione emersa in questi giorni è del tutto campata in aria», spiega Bonafede, «perché, come emerso dalla ricostruzione temporale dei fatti, le dichiarazioni di alcuni boss erano già note al ministero dal 9 giugno 2018 e quindi ben prima di ogni interlocuzione con il diretto interessato». Il ministro definisce poi «surreale» il dibattito di questi giorni, anche se per attaccare deve difendersi. E ribadire alcuni concetti già espressi nelle ore precedenti. A Di Matteo Bonafede avrebbe voluto affidare «o il vertice dell’amministrazione penitenziaria oppure un ruolo che fosse in qualche modo equivalente alla posizione ricoperta a suo tempo da Giovanni Falcone, a seguito di riorganizzazione», cioè il direttore degli Affari penali del ministero. E per l’inquilino di Via Arenula, proprio questo secondo incarico calzava a pennello per il pm antimafia, anche «perchè avrebbe consentito al dottor Di Matteo di lavorare in via Arenula, al mio fianco». Il Guardasigilli pulisce gli schizzi di fango arrivati in questi giorni, nella convinzione di non dover dimostrare a nessuno il suo impegno contro le mafie. «La linea della mia azione da ministro è stata, è, e sempre sarà improntata alla massima determinazione nella lotta alla mafia», continua in Aula. «Basta semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla Spazzacorrotti fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della Direzione nazionale e delle Direzioni distrettuali antimafia sulle richieste di scarcerazione». E infine mete in chiaro la supremazia della politica sulle chiacchiere: «Anche con riferimento alla recente nomina del nuovo Capo Dipartimento, ho seguito mie valutazioni personali nella scelta, la cui discrezionalità rivendico». Ma alle opposizioni la risposta del ministro non basta. Lega e Fratelli d’Italia chiedono maggiori chiarimenti a Bonafede, mentre per Forza Italia è il responsabile “Giustizia” Enrico Costa a replicare in Aula. «Nel premettere che noi consideriamo inappropriato che un membro del Csm utilizzi una trasmissione televisiva per accusare il Guardasigilli di essersi piegato alla mafia», dice il deputato azzurro, «il ministro della Giustizia ha una diretta responsabilità grande come una casa: aver legittimato, coccolato e rafforzato personaggi che mettono sotto i piedi le garanzie, la presunzione di innocenza, che usano i mass media per rafforzare la loro immagine e le loro inchieste, che sparano a zero sulle istituzioni e sui loro rappresentanti», è l’ammonizione. Ma il passo indietro del ministro sulle misure alternative fa tirare un sospiro di sollievo al capo politico del Movimento, che in mattinata aveva annunciato, ben prima di Bonafede, il provvedimento “correttivo”. La linea Di Matteo ha avuto comunque la meglio.

Il retroscena. Decreto liquidità, spunta la norma salva-Davigo. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Il governo rischia di cadere sulla giustizia. Anche se la ragione, come ha detto Marco Travaglio, è tutta un colossale equivoco. Il centrodestra ha presentato una mozione di sfiducia per il ministro Alfonso Bonafede e non per quello che si può pensare. Non per il suo giustizialismo, per aver abolito la prescrizione, per essere responsabile di 13 morti nelle carceri, ma per “aver liberato i mafiosi“. Una cosa nuova, inventata da giornali e politici. In questo clima di caos Bonafede appare come ministro liberale e rischia di cadere per questo. Ma scavando abbiamo scoperto che la questione tra il ministro e l’ex pm Nino Di Matteo è nata per una poltrona a cui ambiva il membro del Csm, quella del Dap che porta un sacco di vantaggi economici. Ma oggi scopriamo anche un’altra cosa. Il capo di Di Matteo, che è Piercamillo Davigo, a settembre compie 70 anni e per questo motivo perderebbe la sua poltrona al Csm che, naturalmente, vuole mantenere. Ma la legge è chiara: chi ha 70 anni termina il mandato. Così nel decreto liquidità, che serve per contrastare il danno economico dovuto al Coronavirus, per dare i soldi a chi sta in difficoltà, c’è un emendamento all’articolo 36 bis che recita così: “Al fine di assicurare l’espletamento dei compiti assegnati dalla legge ai rispettivi servizi di preminente interesse generale, […] è aumentata di due anni l’età di collocamento d’ufficio a riposo per raggiunti limiti d’età come previsto dai rispettivi ordinamenti […] dei magistrati in servizio alla data del 9 aprile 2020“. Cosa per cui Davigo sarebbe salvo. Un emendamento infilato tra buoni pasto a chi non può mangiare e sostegno alle imprese che stanno fallendo. Pare che Bonafede non sia d’accordo a questo emendamento e Di Matteo, che è un soldato di Davigo, è furibondo e tutto ciò rischia di far saltare il governo.

Il retroscena: perché Pd e Fdl si sono uniti per salvare Davigo. Giorgio Varano su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Continua il rapporto ombroso tra la politica e la magistratura. Mentre prosegue il silenzio imbarazzato e imbarazzante del CSM sulle esternazioni del proprio consigliere in carica Di Matteo contro il Ministro della Giustizia (nate a causa di aspettative tradite), la poca limpidezza dei rapporti tra magistratura istituzionale e politica può considerarsi persino peggiorata rispetto alla crisi che ha travolto il CSM mesi orsono. Per superare la crisi della magistratura, ormai sotto gli occhi di tutti, occorre partire dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, riforma costituzionale ineludibile. La critica mossa a questa riforma, da parte della magistratura inquirente, si fonda su un dogma: il pubblico ministero sarebbe sottoposto all’esecutivo! Quando viene chiesto perché ed in quale modo, si viene trattati da eretici e non si ottengono spiegazioni, come per ogni dogma degno di accettazione fideistica. Appare evidente che il problema attuale è l’esatto contrario: la necessità di separare le carriere tra magistratura e politica. Sono proprio alcuni pubblici ministeri che hanno aspettative dalla politica, non create certamente dal nulla, ma nascenti da una serie di rapporti personali e politici che poi portano o alla realizzazione di quelle aspettative con relativi ringraziamenti, o quando vengono tradite a reazioni scomposte come quelle del Dott. Di Matteo. Dunque il pericolo di sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo può nascere solo dai comportamenti di alcuni pm, non certo da una riforma costituzionale che darebbe finalmente in parte attuazione al giusto processo. Basterebbe, per fare smettere la commistione magistratura-politica, interrompere la chiamata dei magistrati nei palazzi della politica e dei ministeri, rimandando le centinaia di magistrati fuori ruolo a lavorare nei tribunali e nelle procure (dove ce n’è un gran bisogno, vista la cronica scopertura degli organici), e sostituendoli con dei professionisti esperti del settore legislativo e legale. Questo rapporto insano tra politica e magistratura è un tema sempre caldo che in questi giorni è diventato esplosivo. Alcuni partiti politici – su stimolo di chi? – stanno tentando di interferire ancora una volta sulla composizione del CSM, questa volta con alcuni emendamenti, (nientemeno che al decreto per il Covid) al momento dichiarati inammissibili, per allungare di almeno due anni la durata di alcune cariche. Dopo l’estate il Dott. Davigo sarà collocato a riposo per raggiunti limiti di età, e pertanto dovrà decadere dalla carica di consigliere del CSM. Lo dice la legge, lo ha detto il Consiglio di Stato (per un caso analogo), lo dice l’opportunità politica e istituzionale di non avere ancora in carica un consigliere togato non più giudicabile sotto il profilo disciplinare perché in pensione come magistrato (mica come Di Matteo!). Cosa dovrebbe accadere? Al suo posto subentrerebbe il secondo dei non eletti. In un organismo normale sarebbe una inezia non degna di interesse, ma in un organo di rilievo costituzionale che decide sulle nomine degli uffici giudiziari e quindi sull’amministrazione della giustizia è un argomento di grande interesse per il rapporto tra i poteri dello Stato e quindi anche per la nostra democrazia. Prescindiamo dalle persone, anche perché alcune le vorremmo sempre in TV (ho visto dal vivo il confronto tra Gian Domenico Caiazza e Piercamillo Davigo, e ne vorrei vedere ancora, ma temo non accadrà…). Il problema sono gli equilibri interni del CSM. Il secondo dei non eletti che dovrebbe subentrare al Dott. Davigo non è della corrente di Autonomia e Indipendenza, che quindi vedrebbe diminuire la propria rappresentanza all’interno dell’organo di governo della magistratura a favore di un’altra corrente della magistratura e dunque il proprio peso sulle nomine. Può la politica favorire una corrente, a discapito di un’altra? Può inserirsi nei risultati elettorali del CSM? Può influenzare gli equilibri di rappresentanza? Può creare una norma “ad correntem”? Può incidere sulle future nomine dei capi degli uffici giudiziari? Perché Partito Democratico e Fratelli d’Italia si sono uniti in questa volontà politica, presentando emendamenti simili? Queste domande, anche un po’ inquietanti nella loro genesi, se l’è poste anche l’Associazione Nazionale Magistrati, con una risposta univoca: no, la politica non può farlo e la magistratura deve dire no. E mentre l’ANM interviene contro qualsiasi favoritismo verso un suo past president, il Consiglio Superiore della Magistratura tace. Tacciono in pubblico anche le correnti, alcune delle quali interrompendo di colpo una certa assidua e scomposta grafomania degli ultimi tempi.

In piena Magistratopoli nuovo tentativo di salvare la poltrona a Davigo (a sua insaputa) e la tenuta del Csm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Il senatore Nicola Morra non ne sa molto di mafia e antimafia, però è un davighiano di ferro e in virtù di questa sua fede è stato nominato presidente della commissione parlamentare antimafia. Per la verità neppure Davigo ne sa molto di mafia, però Davigo ha una passione smodata per il carcere e siccome i mafiosi stanno bene in carcere un po’ di davighismo è sempre opportuno. Del resto la tendenza a chiamare a presiedere l’antimafia una persona che ne sa poco di mafia non è recente. Rosy Bindi non ne sapeva molto più di Morra. Non è questo il luogo dove porre la questione, ma prima o poi andrà posta: ha ancora senso la commissione antimafia? Sarà il caso di abolirla visto che non ha alcuna utilità e spesso fa danni? Comunque volevo parlarvi di una questione che – evidentemente – non ha niente a che fare né con Davigo né con l’antimafia. E quindi questa premessa che ho fatto è molto pretestuosa e potrebbe persino far venire idee sbagliate a chi legge. Succede. Voglio parlarvi della pensione dei magistrati e di un emendamento al Decreto scarcerazioni presentato – credo casualmente – proprio da Morra e che – per evidente coincidenza – ha a che fare forse con Davigo. Mi spiego: attualmente i magistrati devono andare in pensione a 70 anni. A ottobre Davigo compie 70 anni. Se non si trova una scappatoia, non solo dovrà andare in pensione ma dovrà anche lasciare il Csm che è composto per due terzi da magistrati e per un terzo da giuristi eletti dal Parlamento. Siccome Davigo non è un giurista e non è eletto dal Parlamento, può stare in Csm solo come magistrato, e se da ottobre non è più magistrato non può più stare nel Csm. Davigo però non ha nessuna voglia di lasciare il Csm. Lo ha dichiarato. Non solo, se lascia il Csm viene a mancare la maggioranza “rosso bruna” (“Area” cioè i togati di sinistra, più i laici 5Stelle, più i togati di estrema destra di “Autonomia e Indipendenza” e cioè, appunto, i davighiani) che governa il Consiglio Superiore. Capite bene che è un bel casino. Cambiano tutti rapporti di forza e di potere in un luogo che, abbiamo scoperto in questi giorni, con la giustizia magari c’entra poco ma con il potere c’entra eccome. E allora – sebbene, a quanto lui giura, del tutto all’insaputa di Davigo – si sono messe in moto varie forze per trovare una soluzione. Le possibili vie d’uscita sono due. La prima è quella di disporre di una maggioranza certa in Csm che voti, in violazione delle norme stabilite, per la proroga del mandato di Davigo. Questa maggioranza però è molto incerta. Per blindarla – pare – sono in corso scambi e mercati vari. Sempre all’insaputa di Davigo. Il quale, ad esempio ha votato per Prestipino procuratore di Roma, sebbene la sua corrente fosse compatta su Viola e contro Prestipino e persino il capo del suo partito (Marco Travaglio) fosse contro Prestipino (Prestipino, preciso, è la longa manus di Pignatone), ma sicuramente non ha fatto questa scelta per ottenere qualche vantaggio e qualche aiuto da parte dei consiglieri influenzabili da Pignatone, ma lo ha fatto solo perché ha avuto una illuminazione improvvisa di tipo etico-intellettuale. Davigo è fatto così. Ora però, col Palamara-gate in pieno svolgimento, le cose si complicano ed è impossibile prevedere come potrebbe andare, a ottobre, un voto su Davigo sì o Davigo no. E allora c’è la seconda via d’uscita. Che è una via parlamentare. Una legge apposita. Diciamo una vera e propria legge “ad Davigum” (si diceva così ai tempi di Berlusconi…) che sposti il limite della pensione dai 70 ai 72 anni. Bisogna far presto, però, sennò, con le ferie estive, ottobre arriva e Davigo è perduto. E così è successo che Fratelli d’Italia e Pd – separatamente a assolutamente all’insaputa di Davigo – hanno presentato un emendamento pro-Davigo al Decreto Coronavirus. Noi del Riformista ce ne siamo accorti, lo abbiamo scritto, e Davigo s’è arrabbiato molto con noi. Non solo, ma in commissione l’emendamento è stato considerato irricevibile perché qualcuno ha fatto notare che la pensione di Davigo non ha molto a che fare con la lotta al Covid. Sembrava finita lì. Invece no. Ecco Morra, citato all’inizio di questo articolo, seppur a sproposito. Morra ha preso l’iniziativa direttamente e in piena Magistratopoli – e cioè in una situazione nella quale la credibilità della magistratura è sotto lo zero – ha presentato un emendamento pro-Davigo al decreto scarcerazioni. Sempre per spostare di due anni il limite invalicabile della pensione. Perché questa strategia degli emendamenti a provvedimenti che non c’entrano niente? Perché una legge apposita non avrebbe la possibilità di essere approvata, e soprattutto non certo nei tempi necessari per Davigo. E poi perché è possibile che l’emendamento sfugga ai giornali e vada al voto un po’ alla chetichella. Stavolta i 5Stelle pare che si siano impegnati direttamente nel sostegno all’emendamento. Che, tra l’altro, oltre che Davigo, favorirebbe diverse decine di magistrati. Anche perché, per sicurezza, il provvedimento avrebbe addirittura valore retroattivo e farebbe tornare ai propri posti magistrati già in pensione, creando un casino davvero indescrivibile in alcune Procure. Succede anche questo: quando ci sono dei principi da difendere…Adesso bisognerà vedere come finirà questa vicenda. Se in Parlamento esiste o no una maggioranza di persone – come dire? – con qualche dignità, capaci di mandare a quel paese Morra, Davigo, 5Stelle e tutto questo piccolo esercito di “puri”, alcuni inconsapevoli, altri a propria insaputa. Se invece Morra e i suoi ragazzi ce la faranno, e salveranno Davigo, in piena magistratopoli (e con le intercettazioni Palamara-Davigo sparite grazie, forse, a un trojan amichevole e intelligente) vorrà dire che non c’è nessuna speranza. Che viviamo in uno Stato guidato da una vera e propria dittatura del partito dei Pm. E che conviene, a ciascuno, trovare una soluzione individuale per salvarsi. In attesa che prima o poi salti tutto e torni la democrazia.

Davigo querela Il Riformista, emendamento per prolungare carriera era a sua insaputa.  Piero Sansonetti de Il Riformista il 14 Maggio 2020. Piercamillo Davigo è molto arrabbiato con noi perché noi abbiamo scritto che era molto arrabbiato con Bonafede perché Bonafede era molto arrabbiato con lui per via di un emendamento alla legge rilancia-Italia, il quale emendamento – presentato da Fratelli d’Italia e in forma identica dal Pd – prevedeva il rinvio di due anni della pensione di Davigo. Come vedete è un giro vorticoso e un po’ cacofonico di arrabbiature che si inseguono. Davigo dice che invece queste arrabbiature non ci sono mai state (tranne la prima). E che lui non sapeva niente dell’emendamento di Fratelli d’Italia e del Pd sulla sua pensione. Noi ci crediamo a Davigo, anche perché lui è un magistrato e i magistrati sono persone che non dicono bugie (anche Di Matteo è un magistrato). L’emendamento di Fratelli d’Italia e quello del Pd, evidentemente, sono stati presentati all’insaputa di Davigo. Del resto noi siamo tra quelli che credettero senza tanto discutere all’ex ministro Scajola quando disse che certi pagamenti per la ristrutturazione della sua casa (mi pare) furono eseguiti a sua insaputa. Se uno fa delle cose e non te le dice, è chiaro che tu non puoi saperle. E così è successo che un gruppo di deputati di Fratelli d’Italia, che si era riunito per esaminare il decreto con le misure economiche a favore della ripresa dopo il tonfo del Covid, si è accorto che tra quelle misure mancava un provvedimento per alzare a 72 anni la pensione dei magistrati. Devono essersi detti: va bene i finanziamenti alle imprese, va bene l’aiuto ai lavoratori, le casse integrazioni, i prestiti, i bonus baby sitter, ma se poi non teniamo al lavoro i magistrati che compiono 70 anni, magari li compiono a ottobre, come si fa a garantire la ripresa economica? E così in fretta e furia hanno scritto quell’articolo 36 bis del decreto che prevedeva l’aumento dell’età pensionabile di 2 anni per i magistrati. Cosa c’entra Davigo? Niente, è logico: niente. Fatto che lui stesso ad ottobre compirà 70 anni e che se non si fa una leggina al più presto possibile per rinviare la pensione lui debba andare in pensione a ottobre, e che se lui va in pensione deve lasciare il seggio al Csm, e che se lascia il seggio al Csm, oltretutto, al suo posto entra il primo dei non eletti che fa parte di una corrente diversa da quella di Davigo, e che se ciò avviene in Csm non c’è più la maggioranza destra-sinistra che sta governando in questi mesi, e cambiano tutti i rapporti di forza…è chiaro che tutto questo è una pura e semplice coincidenza. Del resto pare che mentre il gruppetto di deputati di Fratelli d’Italia si riuniva per controllare che ci fossero misure pro-settantenni nel decreto rilancia Italia, la stessa cosa faceva un gruppetto di deputati del Pd, e pure a loro appariva subito evidente, nelle misure previste dal governo, la clamorosa mancanza di un provvedimento per cambiare la pensione dei magistrati. E quando sono due gruppi così distanti ideologicamente tra loro ad accorgersi di un difetto di una legge, è chiaro che quel difetto è un vero e clamoroso difetto, e che va corretto subito. Poi è successo che l’emendamento è stato dichiarato inammissibile. E che Bonafede non ha fatto nulla, sembra, per salvarlo. Ma questo non ha provocato nessun malumore di Davigo, che – lui stesso ci informa – è rimasto molto sereno, anche perché siccome non sapeva niente dell’emendamento, tantopiù non ha saputo niente del fatto che l’emendamento fosse stato bocciato. Davigo ha anche annunciato che ci querelerà. Non ho capito bene perché. Dice che non è vero che lui è stato il “mandante del diverbio” tra Bonafede e Di Matteo. Di Matteo, prontamente, ha smentito lui stesso Davigo escludendo di avere avuto un diverbio con Bonafede, diverbio invece accreditato dalla dichiarazione di Davigo. Mamma mia, come litigano questi tra loro! Ormai basta che uno parla e l’altro gli dà sulla voce. Povero Davigo, diceva diverbio così per dire, si riferiva semplicemente – credo – al fatto che Di Matteo aveva accusato Bonafede di avere ceduto ai ricatti mafiosi, così come – secondo Di Matteo – fece a suo tempo Dell’Utri, che infatti poi, per questa stessa ragione, è stato tenuto in prigione per cinque anni filati. Non era un diverbio, santo cielo! Il fatto è che neanche noi abbiamo mai parlato di diverbio. E tantomeno di mandante. Chissà dove le ha lette Davigo queste due parole. Ci siamo limitati a dire che correva voce che Davigo si sarebbe arrabbiato per la caduta di quell’emendamento salva-Davigo. Non gli avevano attribuito nessuna gagliofferia, soltanto uno stato d’animo. Gli stati d’animo, per definizione, sono incerti e opinabili. Si tratta di quella parte del giornalismo che di solito viene chiamato di “retroscena”. È una parte rilevantissima del giornalismo politico. E nessun politico mai ha querelato qualche giornalista per un retroscena. Figuratevi che giorni fa avevamo accreditato l’ipotesi che a bloccare la nomina di Di Matteo al Dap, nel 2018, fosse stato Mattarella. Il Quirinale ci ha fatto sapere che non era vero. Che Mattarella si era guardato bene dall’intervenire. Non ci ha mica querelato. Forse però la costituzione materiale, in questo Paese, prevede che i retroscena sono ammissibili per tutti, ma non per i magistrati. Loro vanno lasciati in pace.  Non tutti, magari. Per esempio il Procuratore Generale di Catanzaro, che aveva osato criticare Gratteri, è stato punito con una velocità fulminante. Degradato e spedito a 1000 chilometri da Catanzaro. Trattato quasi quasi da giornalista, mica da magistrato… Chissà perché. E chissà perché a Di Matteo che ha accusato di intelligenza con la mafia il tribunale di sorveglianza di Milano nessuno dice niente. Beh, anche tra magistrati bisogna distinguere. Molti sono assai più uguali degli altri magistrati…

P.S. 1. Al solito ho trovato il modo per polemizzare con Gratteri. È più forte di me. Al quale Gratteri comunque va riconosciuto un merito: non querela mai i giornalisti. Dimostra, almeno in questo, di avere un senso della sua funzione istituzionale piuttosto alto. Non tutti sono come lui.

P.S. 2. Davigo potrebbe fare una cosa molto semplice per dimostrare di aver ragione: dichiarare pubblicamente che, comunque, a ottobre se ne va in pensione.

Da liberoquotidiano.it il 20 maggio 2020. Non sarà Piercamillo Davigo a sostituire Alfonso Bonadfede al Ministero della Giustizia. Il magistrato più amato dal Movimento 5 Stelle, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, prima evita di entrare sul caso che potrebbe portare alla sfiducia del Guardasigilli grillino: "Non so niente di cosa sia avvenuto tra Bonafede e Di Matteo". Poi. incalzato da Paola Tommasi che gli chiede di una sua possibile discesa in campo, ribadisce secco: "Lo ripeto da anni, i magistrati non devono fare politica. Noi ragioniamo in termini completamente differenti dai politici: noi decidiamo se uno è innocente o colpevole, non se una cosa è conveniente o dannosa". Poi l'aneddoto che stupisce anche i presenti: "Ho già rifiutato una proposta di diventare ministro, dal primo governo Berlusconi (nato quando l'inchiesta Mani Pulite era ancora in corso, ndr)". Davigo non spiega se a chiederlo è stato lo stesso Silvio Berlusconi, ma rivela la sua risposta: "Non puoi indossare la maglia di una squadra se nel primo tempo facevi il guardalinee".

Roberto Cota linciato perché la moglie è un giudice serio, scaricato anche dai leghisti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Sui social è iniziato da qualche giorno il linciaggio del leghista Roberto Cota. Che oggi è fuori dalla ribalta politica, ma è stato qualche anno fa un personaggio di prima fila. Per quattro anni ha fatto il governatore del Piemonte. Poi è finito sotto processo per la storia dei rimborsi ai consiglieri regionali. Sul suo nome fu costruito lo scandalo “delle mutande verdi”, una espressione riferita all’acquisto di articoli di vestiario coi soldi pubblici e al colore verde della Lega. In realtà Cota è stato del tutto assolto dalle accuse, in primo grado, poi condannato in appello con una sentenza che è stata cancellata dalla Cassazione. Non è – come vorrebbe Davigo – uno che l’ha fatta franca: è un esponente politico che ha pagato un prezzo altissimo al protagonismo della magistratura. Prima o poi dovremmo convincerci di questo: se uno viene trascinato nel fango da un Pm e poi risulta innocente, può a ragione considerarsi un perseguitato dalla giustizia. Stavolta però Cota viene linciato per una ragione curiosissima: sua moglie. Che ha combinato la signora? È un giudice. Ha avuto una limpida carriera come Gip e come giudice ed ora è al tribunale di sorveglianza di Milano. E le è capitato di dover giudicare sulla richiesta di scarcerazione di un detenuto (Domenico Perre) al quale restava un modesto residuo di pena da scontare e per il quale i medici avevano certificato l’incompatibilità con la vita carceraria. Lei, insieme altri due sue colleghe e a un suo collega, ha deciso di accogliere la domanda sulla base del codice penale (sempre quello scritto da Alfredo Rocco ai tempi di Mussolini, non da un gruppetto di scalmanati garantisti liberali troppo umanitari…). Apriti cielo. Si è realizzata la perfetta convergenza tra destra e sinistra. Maurizio Gasparri ha reso noto il nome della magistrata e ha chiesto addirittura la sua radiazione da parte del Csm. A quel punto si è scatenata una macchina di propaganda di sinistra e Cinque Stelle che ha iniziato a inveire contro il leghista. «Ecco qui chi sta dalla parte dei mafiosi – hanno iniziato a gridare – la giudice, quindi suo marito leghista, quindi Salvini e magari anche Meloni». Difficile a questo punto trovare qualcuno che difenda Cota e soprattutto che difenda la dottoressa Rosanna Calzolari ( è il nome della moglie: avremmo preferito non scriverlo, ma ormai è stato esposto al pubblico). La destra non se la sente, perché nei giorni scorsi ha chiesto di imprigionare mezzo mondo e di cacciare a calci nel sedere i giudici di sorveglianza. La sinistra neppure perché comunque trova ghiotta l’occasione per attaccare la Lega. Chi resta? Beh, ci sarebbe lo schieramento liberale, che potrebbe prendere le difese della magistrata. Ma a voi risulta che esista uno schieramento liberale, in Italia? Non pervenuto.

P.s. La piena anche se isolatissima solidarietà da parte di questo giornale alla dott.ssa Calzolari e anche, ovviamente, all’avvocato Roberto Cota.

Bonafede "commissaria" i giudici di sorveglianza, sono troppo umani. Angela Stella su Il Riformista il 30 Aprile 2020. «La lotta alla mafia è una cosa seria» ha detto ieri il Guardasigilli Alfonso Bonafede rispondendo al question time sulle “scarcerazioni” di boss: di fronte a «fatti allarmanti – ha proseguito – non si rimane inerti». E allora il Governo passa al contrattacco attraverso un decreto legge, in discussione nel Consiglio dei Ministri di ieri sera alle 21:30, che andrà a limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura di sorveglianza. Come? Mediante alcune importanti modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 – Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà – . In particolare, per la concessione dei permessi e dei domiciliari nel caso di detenuti condannati per reati di grave allarme sociale come associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, terrorismo il magistrato di sorveglianza, prima di pronunciarsi, dovrà chiedere il parere del Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis, anche quello del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. «Salvo ricorrano esigenze di eccezionale urgenza – si legge del decreto – il permesso non può essere concesso prima di ventiquattro ore dalla richiesta dei predetti pareri». Non finisce qui: il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello sarà «informato dei permessi concessi e del relativo esito» con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati e nel caso di permessi concessi a detenuti in 41bis ne dovrà dare comunicazione al Procuratore della Repubblica e a quello nazionale antimafia. Tuttavia per il Ministro della Giustizia «non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo con grande sacrificio personale e impiego di energie. Si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto». Non sono mancate le polemiche, a partire dal deputato di Italia Viva Gennaro Migliore, già sottosegretario alla Giustizia: «Le dichiarazioni rese dal ministro Bonafede destano grande preoccupazione. La dichiarata volontà di sottoporre le decisioni della magistratura di sorveglianza al parere di altri organi giurisdizionali, magistratura inquirente e Dna, rischiano di compromettere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Si tratta di un provvedimento che ha alimentato preoccupazioni espresse autorevolmente anche dalla Associazione Nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Intanto registriamo un’incomprensibile difesa a oltranza del Dap e dei suoi vertici, veri e unici responsabili delle recenti improvvide scarcerazioni». Invece i parlamentari della Lega in Commissione Antimafia, convocata ieri pomeriggio, si sono lamentati che il Ministro Bonafede e il capo del Dap Basentini «non si sono presentati in commissione, nonostante la formale convocazione. Non hanno fornito neanche la documentazione richiesta ufficialmente per chiarire finalmente cosa stia succedendo in merito all’assurda concessione degli arresti domiciliari a numerosi boss mafiosi. Questa è omertà». Solidarietà ai magistrati di sorveglianza arriva invece da Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone: «C’è una cattiva abitudine a legiferare e assumere decisioni all’indomani di casi di cronaca sulla base dell’emotività. Compito delle forze politiche e di governo è quello di assicurare razionalità e ordinarietà alla materia penale e penitenziaria, e non quello di inseguire la realtà». Intanto si è risolta positivamente la vicenda del trentenne modenese recluso nel carcere di Vicenza a cui, pur dovendo scontare una pena residua sotto i 18 mesi, era stata negata dal magistrato di sorveglianza di Verona la detenzione domiciliare con o senza braccialetto. Il Tribunale di Sorveglianza ieri ha ordinato che il detenuto venisse posto in detenzione domiciliare senza braccialetto elettronico. «Siamo soddisfatti del risultato», ci dicono gli avvocati Roberto Ghini e Pina Di Credico. I legali si erano rivolti anche alla Cedu con una istanza urgente ma la Corte aveva deliberato di non voler indicazioni al Governo italiano di adottare una misura provvisoria. «Crediamo che ben difficilmente – proseguono i legali – sarebbero avvenute in tempi così rapidi la convocazione e la decisione del Tribunale di Sorveglianza se non ci fosse stato l’intervento della Cedu. Ovviamente dobbiamo valutare se proseguire nel giudizio davanti alla Corte al fine di ottenere il riconoscimento del fatto che per il nostro assistito vi è stata comunque violazione dell’articolo 3: costringere inutilmente una persona, in un contesto di pericolo di contagio, a rimanere in carcere quando non assolutamente necessario costituisce, per noi, un trattamento inumano e degradante». Ci sarà da valutare anche eventualmente se vi sia stato nelle repliche del Governo un atteggiamento sanzionabile.

Grazia Longo per ''La Stampa'' il 9 maggio 2020. I processi, si fanno nelle aule dei Tribunali». Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna e del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza risponde così alle critiche sulle scarcerazioni. Si tratta di quasi 400 mafiosi, di cui 180 condannati in via definita, alcuni dei quali anche al 41 bis...Non è imbarazzante?

«I processi si fanno nelle aule di giustizia non sui giornali o in tv e noi giudici di sorveglianza decidiamo in base agli atti. Applichiamo le norme dell' ordinamento penitenziario alla luce dei principi costituzionali in materia di esecuzione della pena, articolo 27 comma 3».

Quali?

«La concessione di misure alternative al carcere per gravi motivi di salute, come è avvenuto per migliaia di detenuti compresi i boss, durante l' emergenza coronavirus che stiamo attraversando, è prevista dagli articoli 146 e 147 del codice penale; il diritto alla salute è tutelato dall' art. 32 della costituzione quale diritto fondamentale della persona».

Voi, insomma, non avete regalato niente a nessuno?

«Nessun regalo. Noi siamo giudici, soggetti soltanto alla legge. Valutiamo tutti gli aspetti della persona, dal momento della condanna in poi».

Ma adesso, con il nuovo decreto legge o provvedimento ministeriale, sarete obbligati a rivedere le vostre posizioni e rispedire in cella i mafiosi scarcerati?

«Sinceramente ritengo ozioso discutere su un decreto o un provvedimento che ancora non esiste e di cui quindi non conosciamo i dettagli. Posso ricordare che già adesso la magistratura di sorveglianza ha il potere di rivalutare i provvedimenti di differimento della pena o detenzione domiciliare per motivi di salute e verificare se le esigenze di cura sono state superate.  In ogni caso, credo che non saremo costretti, ma si profilerà la possibilità di una nostra rivalutazione. Perché è vero che c' è la libertà del legislatore, ma è altrettanto vero che spetta a noi magistrati di sorveglianza ordinare misure meno restrittive del carcere valutando caso per caso, in base alle condizioni di salute dei detenuti».

Come considera la scelta del ministro della giustizia Alfonso Bonafede sulla necessità di un nuovo provvedimento?

«Sono scelte politiche, noi giudici facciamo altro».

Eppure la concessione dei domiciliari ai boss è parsa a molti un omaggio inappropriato.

«Ribadisco che noi applichiamo le norme in materia dopo un' istruttoria approfondita».

La decisione del Tribunale di sorveglianza da quante persone viene assunta?

«Da due giudici togati, due onorari, tra cui sono annoverati medici e psichiatri e la partecipazione del procuratore generale. Inoltre, in virtù del decreto legge 28 del 30 aprile scorso, si è stabilito che i Tribunali di sorveglianza, prima di emettere le ordinanze sui domiciliari dei boss, debbano consultare le direzioni distrettuali antimafia o, nel caso dei 41 bis, la procura nazionale antimafia».

Il suggerimento manettaro di Martelli a Bonafede: riarrestali come feci io. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Nella serata in cui si consumava la rissa di stampo forcaiolo tra un ministro di Giustizia in carica e un magistrato che ambirebbe a sedersi al suo posto, è passato inosservato un suggerimento arrivato da un ex guardasigilli. Il ministro Bonafede, ha detto Claudio Martelli nella puntata della trasmissione “Non è l’arena”, avrebbe dovuto fare come me. I magistrati scarcerano i mafiosi? E tu li fai riarrestare dando una diversa interpretazione della legge che li ha fatti uscire di galera.  È storia vera, lui ha proprio fatto così, quando era ministro. Con una grave interferenza del potere esecutivo sull’autonomia della magistratura che quella volta, nel nome della lotta alla mafia, fu accettata in un silenzio tombale da giudici, giuristi e sindacalisti in toga. Era il 1991, era da poco terminato con una raffica di condanne il maxiprocesso di Palermo, voluto tenacemente da Giovanni Falcone. Se la magistratura aveva vinto la sua battaglia, non altrettanto si poteva dire del governo Andreotti che già portava i segni della fine della Prima repubblica. La gran parte dei boss mafiosi, a partire da Totò Riina, era infatti latitante e apparentemente irraggiungibile. Il maxiprocesso aveva segnato anche la fine del sistema inquisitorio, retaggio anch’esso di un sistema che andava morendo. Dal 24 ottobre del 1989 era in vigore il nuovo sistema processuale accusatorio. Solo “tendenzialmente”, purtroppo, recitava la relazione introduttiva. Era giunta l’ora di cominciare ad applicarlo. Da bravo primo della classe, toccherà al giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della corte di Cassazione, rompere il ghiaccio. Le carceri traboccavano di detenuti in custodia cautelare, anche a causa di termini lunghissimi di detenzione, che però il nuovo codice riduceva sensibilmente. Così, ricalcolandone i tempi, la Cassazione dispose la scarcerazione di 43 imputati di reati di mafia. Scoppiò il finimondo. Tutti erano d’accordo sul fatto che i termini di custodia cautelare fossero proprio scaduti, ma un’interpretazione di tipo sostanzialistico sosteneva che il legislatore, anche se non lo aveva scritto nella relazione introduttiva alla riforma, avrebbe avuto l’intenzione di “congelare” i tempi processuali in relazione a persone detenute. I 43 furono comunque scarcerati e il mondo politico impazzì. Ecco dunque che cosa inventò un governo debole e incapace di combattere la mafia per esempio scovando e facendo arrestare i latitanti. Su iniziativa dei ministri Scotti (Interni) e Martelli (Giustizia), la coppia più muscolare e sostanzialista della storia passata, il governo emise un decreto legge di interpretazione della norma e, quel che è più grave, retroattiva. Lo fece 16 giorni dopo la sentenza. E quando nella notte le forze dell’ordine andarono a riarrestare i 43, li trovarono tutti nel loro letto, nelle loro case. Nessuno era scappato. Mai si era visto un governo comportarsi come un super-tribunale, come un quarto grado di giudizio inappellabile. Non risulta ci siano stati scioperi di magistrati o vibranti proteste dell’Anm per difendere l’autonomia della magistratura in quei giorni. E chissà che cosa potrebbe accadere oggi se il ministro Bonafede accogliesse il suggerimento di Martelli e facesse votare al governo un decreto “interpretativo” della norma che consente di scarcerare i detenuti le cui condizioni di salute sono incompatibili con il carcere. Il Pds del 1991, che era all’opposizione del governo Andreotti, votò la conversione in legge di quel decreto, con grande mal di pancia di Stefano Rodotà, che non lo condivideva per nulla, insieme a un piccolo drappello di socialisti. Di quei partiti non ne esiste più nessuno oggi in Parlamento, con l’eccezione per gli eredi del Pds. Sarebbe interessante sapere per esempio che cosa penserebbe Matteo Renzi di quel tipo di iniziativa di politica giudiziaria. E anche qualche giurista, visto che allora si scomodarono in favore del provvedimento giuristi come Neppi Modona e Vittorio Grevi. E il giudice Carnevale, il più preparato, puntiglioso e formalista, era rimasto isolato. I ministri Scotti e Martelli poterono così proseguire quel tipo di politica giudiziaria, soprattutto dopo quel che accadde nell’anno successivo, con le uccisioni per mano della mafia di Falcone e Borsellino. Sono i giorni della fretta, il governo ha il fiato sul collo dell’opinione pubblica perché Totò Riina è ancora uccel di bosco, perché c’è una grande debolezza economica, tanto che il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo un immediato risanamento della finanza pubblica con una manovra di 30.000 miliardi di lire per il 1992 e una da 100.000 per il 1993. Viene frettolosamente eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che sarà uno dei peggiori. E il Parlamento approverà il famoso decreto Scotti-Martelli, ultimo provvedimento di un governo ormai dimissionario, impregnato più di vendetta che di diritto. Che interviene non solo per combattere la criminalità mafiosa, ma in senso peggiorativo sull’intero processo. Da lì nasce per esempio il famoso “ergastolo ostativo”, solo oggi messo in discussione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte Costituzionale. Questa è la storia. Ed è singolare che colui che, nonostante in quelle occasioni e soprattutto dopo l’uccisione di Falcone abbia imbarbarito il processo sotto un impulso emotivo, è stato comunque un buon ministro, suggerisca oggi di imboccare quella strada a un pessimo ministro come Bonafede. Come mettere un kalashnikov in mano a un bambino. Ed è ancora più strano che Claudio Martelli, che è stato poi a sua volta vittima del furore giustizialistico di quegli anni, possa ancora rivendicare a proprio merito quel tipo di provvedimenti. Emergenziali, certo. Ma le peggiori leggi, dai tempi del terrorismo e poi delle stragi mafiose e infine dei reati contro la pubblica amministrazione, sono proprio quelle ispirate dalle emergenze del momento. Ieri e oggi.

Il ministro al question time. Bonafede calpesta la Costituzione: dietro le sbarre per decreto i malati scarcerati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Bonafede non è Martelli e Conte non è Andreotti. Però ci provano, trent’anni dopo, a replicare quella gravissima interferenza del potere esecutivo sull’autonomia della magistratura con un decreto che nei fatti tenda ad annullare le decisioni dei giudici. Tu scarceri e io rimetto le manette. Manette di governo.  Deve esserci qualcuno, al ministero di via Arenula, che legge il Riformista. Nessuno si era infatti accorto, durante la trasmissione tv in cui il pm Nino Di Matteo ha chiesto che il ministro Bonafede fosse indagato per “concorso esterno”, di quel che aveva detto l’ex ministro Claudio Martelli. Fai quel che ho fatto io, aveva suggerito l’ex numero due del Partito socialista, rimettili in galera. Non se ne sono accorti perché sono giovani, e anche perché non studiano e non conoscono la storia di questo Paese. Nessuno di noi era presente ai tempi delle guerre puniche, eppure sappiamo più o meno quel che è successo. Loro no. Tanto, uno vale uno. Fatto sta che ieri, scegliendo la via parlamentare più veloce e meno esposta, cioè quella del question time, una sorta di botta e risposta di pochissimi minuti tra un deputato e il ministro, il guardasigilli ha annunciato che penserà lui a sbattere di nuovo i detenuti gravemente malati in carcere e a buttar via la chiave. Lo farà con un decreto legge. In mattinata, ormai cloroformizzato dall’imbarazzo il Fatto quotidiano, aveva provveduto la Repubblica, per niente addomesticata dal nuovo direttore Molinari, a eccitare gli animi e a preparare le forche con le urla su «376 boss scarcerati». Poi, ben nascosta nel corpo dell’articolo, la precisazione che in realtà, tra i reclusi cui era stato concesso il differimento pena per motivi di salute, solo tre erano detenuti con il regime del 41 bis. Che, tanto per chiarire, non vuol dire “carcere duro”, ma carcere impermeabile ai contatti con l’esterno, colloqui con i vetri eccetera. Se dunque la preoccupazione è che, una volta a casa, gli ex carcerati possano entrare in rapporto con le cosche, si sappia allora che 373 hanno già colloqui e incontri regolari con i parenti e con gli altri detenuti all’interno del carcere. Con un fogliettino scritto da altri e disinformato (ringrazio «gli» interroganti, ha esordito, mentre il quesito era stato presentato dal solo deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin) Bonafede, visibilmente nervoso, ha sciorinato la solita tiritera. Bollino blu dell’antimafia, ma come vi permettete, proprio a me che rinnovo sempre i 41 bis (come tutti gli altri ministri prima di lui) e ho fatto tante leggi? Fa l’indignato, «non c’è stata alcuna interferenza diretta o indiretta», quando ha proposto al dottor Di Matteo, invece della presidenza del Dap, la direzione generale degli affari penali (lei e io sappiamo –gli aveva detto Zanettin- che quel ruolo non è più di prima linea per la lotta alla mafia) per averlo vicino a sé, in via Arenula. Per coccolarsi. Sapore di “c’eravamo tanto amati”. Ogni illazione è quindi campata in aria, conclude. Non gli crede nessuno tra i pochi deputati ben distanziati nell’aula di Montecitorio, ma la cosa singolare è che i brontolii assumono torni di scherno soprattutto quando il ministro grida la propria eterna intenzione di lottare contro la mafia: la mia azione c’è sempre stata, c’è e ci sarà. Aspetta applausi e raccoglie fischi. Una bella nemesi, per il rappresentante del partito degli “onesti”. Lo fa notare al ministro nella replica il deputato di Forza Italia (che questa volta è arrivata prima degli altri partiti di opposizione) Enrico Costa, con un intervento breve, come vuole la prassi del question time, ma molto efficace. Definisce «inappropriato» il fatto che «un membro del Csm utilizzi una trasmissione televisiva per accusare il Guardasigilli di essersi piegato alla mafia». Poi azzanna direttamente Bonafede. Lei ha legittimato questi personaggi, gli rimprovera, e ha creato la condizioni perché facessero carriera con incarichi delicatissimi. Che cosa aspettarsi possano fare in un’aula contro un cittadino, questi magistrati che covano risentimenti per due anni e poi si scagliano contro un ministro in diretta tv? Lei, signor ministro, rischia di «impiccarsi all’albero che ha concimato giorno dopo giorno» sperando di vedervi penzolare i suoi nemici. L’intervento del deputato Costa si conclude con la speranza di una piccola (impossibile) rivoluzione culturale nel cervello di Bonafede. E cioè che la lezione gli serva a qualcosa, magari a non considerare più l’innocente un colpevole che l’ha fatta franca (copyright Davigo). Vana speranza. Infatti il mostro è già in cantiere. Il decreto legge che costringerà i giudici a riaprire le porte del carcere per farvi rientrare chi ne era uscito, visto che l’emergenza del coronavirus è cambiata. Ah sì? Non ce ne eravamo accorti. Nelle carceri non si rischia più che la promiscuità e l’affollamento favoriscano il contagio? Non l’aveva notato nessuno. Quel che invece è da notare è che, oggi come trent’anni fa, se Bonafede fa quel che fece Martelli, cioè far tornare in carcere persone liberate da giudici nell’osservanza rigorosa della norma, sarà lui a mettersi fuori dalla legge. Anzi. Addirittura dalla Costituzione, che difende l’autonomia della magistratura. La storia si ripete. Nel 1991 il governo entrò a gamba tesa per cancellare una decisione della prima sezione della cassazione presieduta dal giudice Carnevale, oggi si appresta a farlo per interferire su sentenze e provvedimenti assunti da diversi tribunali e giudici di sorveglianza sparsi un po’ in tutta Italia. Ma la magistratura militante, quella che rivendica la propria autonomia (mai la propria imparzialità) dall’alba al tramonto, non ha nulla da dire sul fatto che il potere esecutivo umili le toghe in questo modo violento?

Decreto scarcerazioni voluto da Repubblica e Bonafede, il Fatto in seconda fila a fare il tifo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Le Camere penali si sono opposte a questo decreto che sbarra, in uscita, le porte delle carceri. E istituisce una specie di tribunale speciale per le scarcerazioni, come negli anni Venti. Un tribunale speciale al di fuori della Costituzione. Più precisamente, questo decreto rende le porte delle carceri porte girevoli, ma girevoli solo in direzione entrata. Se un giudice ti scarcera poi c’è un Pm che ti rimette dentro. Le Camere penali, dicevamo, si sono opposte, lo hanno definito decreto vergogna, hanno detto che è ispirato da una inaudita cultura poliziesca. Nessun altro ha fatto le barricate. Naturalmente è sempre possibile che in Parlamento, al momento della conversione in legge, scatti l’ostruzionismo. Il vecchio, democraticissimo, ostruzionismo (negli Stati Uniti si chiama filibustering ed è uno strumento di lotta parlamentare consueto). Possibile, ma per ora estremamente improbabile. Il mondo politico si è chiuso a testuggine, difende Bonafede, oppure lo accusa di essere un mollaccione e dice che il suo decreto non basta o cose del genere. Nella magistratura ci sono malumori, perché chiunque si accorge che è un decreto che spazza via, sul piano proprio dei principi, l’autonomia e l’indipendenza del magistrato. E in particolare riduce la magistratura giudicante a cenerentola. Senza principe. Ma nella magistratura, si sa, i cuordileone sono pochi pochi. Cosa dice questo decreto? Che se ti scarcerano perché le tue condizioni non sono considerate compatibili col carcere, sulla base di un vecchio articolo del codice penale varato dal fascismo (lo abbiamo scritto altre volte: l’antifascismo dell’attuale maggioranza, su questo tema, consiste nella critica all’eccessivo liberalismo del regime di Mussolini…) il magistrato sarà chiamato ogni 15 giorni a ripensare alla sua decisione e dovrà riattivarla, e cercare le pezze d’appoggio per riattivarla e in pratica, una volta che si è preso in carico la liberazione di due o tre detenuti dovrà occuparsi solo di quelli. Oppure arrendersi ai diktat di Repubblica–Bonafede (ormai Il Fatto è finito in seconda fila a fare il tifo…) e rimetterli in prigione, così poi potrà occuparsi anche di altre cose. Il decreto paralizzerà l’attività dei tribunali di sorveglianza e li sottoporrà alla pressione continua della politica e dei mass media. Se tenete conto di cosa sono oggi i mass media travaglizzati in Italia vi rendete conto che questi magistrati hanno due sole strade: o l’eroismo o la resa. Non tutti sanno, comunque, che la maggior parte dei detenuti scarcerati in questi giorni era in attesa di giudizio. Cioè – lo diciamo per chi non ha ancora letto o magari ha dimenticato la Costituzione- erano, e sono, innocenti. Non sono stati scarcerati dai giudici di sorveglianza, che devono occuparsi delle pene (e per i detenuti in attesa di giudizio, ovviamente, non ci sono ancora, o non ci saranno mai, pene) ma dai Gip. Voi sapete, forse, che i Gip sono i giudici delle indagini preliminari e che di solito agiscono a contatto strettissimo coi Pm. Negli stessi uffici, negli stessi bar, nelle stesse strade. È rarissimo che un Gip dia torto a un Pm. E questa, tra l’altro, è la ragione fondamentale per la quale si chiede la separazione delle carriere. Per avere dei Gip realmente indipendenti dai potenti Pm. Ebbene, secondo il decreto, anche i Gip, e gli stessi Pm, dovranno occuparsi a tempo pieno dei detenuti eventualmente scarcerati. Perché ogni 15 giorni anche loro dovranno motivare una sentenza di scarcerazione. Un Gip che scarcera dovrà rispondere al Pm che gli ha chiesto l’arresto, e ogni 15 giorni spiegargli perché il suo detenuto (suo: ormai c’è un nesso di proprietà tra pm e detenuto) non è più in prigione.Se non lo farà, l’ex prigioniero tornerà prigioniero. Ci sarebbe quell’articolo della Costituzione, quello sul giusto processo (il 111), il quale spiega che accusa e difesa sono sullo stesso piano, e che poi c’è un giudice terzo. Con questo decreto il giudice terzo invece non esiste più, deve rispondere al Pm (sia il giudice di sorveglianza sia il Gip) e la difesa è del tutto fuori gioco. Avete qualche dubbio sul fatto che questo decreto sia incostituzionale? No, nessuno ha dubbi su questo. La tesi di chi ha varato il decreto, e dei giornali che lo hanno spinto a fare ciò, è che della Costituzione ci se ne può anche fregare. Soprattutto ora che siamo in emergenza. Voi dite: ma c’è una emergenza mafia? No, non c’è, ma c’è l’emergenza virus che è sempre un’emergenza, e quindi possiamo benissimo mandare la Costituzione a quel paese. Poi voi dite: ma tutti questi scarcerati sono boss della mafia, come dicono i giornali? No, nessuno di loro è un capomafia e la maggioranza di loro con la mafia non c’entra niente. Ma resta l’emergenza virus che ha il potere di rendere boss mafioso anche un piccolo spacciatore. Chi pagherà per questo abominio da Stato di polizia? I detenuti prima di tutto. E poi, sanguinosamente, il nostro Stato di diritto, che ne esce a pezzi. Sembra proprio – dicevamo all’inizio – di essere tornati ai tempi dei tribunali speciali. Cos’altro sono, questi, se non tribunali speciali?

Fiandaca: “Di Matteo non adeguato al Dap”. Il Dubbio l'11 maggio 2020. Il giurista e garante dei detenuti in Sicilia non ha dubbi: “Lo scontro tra Bonafede e Di Matteo un diversivo, i problemi delle carceri sono altri”. Lo scontro tra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo?: “Non è un affare importante”. Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale e garante dei detenuti in Sicilia, ha altre priorità. Primo, i “gravi problemi di strutture, gestione e disciplina legislativa complessiva del sistema carcerario”. E poi, naturalmente, il sovraffollamento carcerario che, soprattutto in tempi di Covid, avrebbe potuto essere risolto con un maggior ricorso alle misure alternative . E naturalmente anche ai detenuti per mafia va riconosciuto il diritto costituzionale alla salute. Secondo Fiandaca le Procure antimafia in modo particolare, “esprimono  una concezione unilaterale del trattamento dei detenuti e pretendono di allineare la gestione del sistema carcerario a una logica puramente repressiva legata al ruolo del pm. Deformazione professionale”. E sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap, “Non basta – dice Fiandaca – essere un simbolo antimafia, con tutto il rispetto per l’attività da lui svolta su cui non ho mancato comunque di esprimere qualche perplessità. Ci vogliono altre attitudini. Quella di Dino Petralia, ora nominato capo del Dap, mi sembra una scelta promettente: è un magistrato di grande equilibrio, competenza giuridica e capacità organizzativa”. Il governo sta introducendo nuovi limiti al potere discrezionale dei giudici di sorveglianza. È una giusta misura di cautela la richiesta di parere alle Procure sulle domande di scarcerazione? “Si poteva chiedere anche prima – risponde Fiandaca – anche se non era obbligatorio. Ma su questo punto condivido le preoccupazioni di Antonietta Fiorillo, responsabile del coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Non vorrei che dalla Procure arrivassero solo carte e si intasassero gli uffici. I dati cartolari devono essere aggiornati sulla pericolosità attuale del detenuto. E vanno integrati con notizie sull’evoluzione dei rischi di contagio e sulla adeguatezza delle strutture sanitarie intramurarie”. Il rischio più grave che Fiandaca paventa è che sulle scarcerazioni “si diano ora risposte palliative e buone solo per tranquillizzare l’opinione pubblica e salvare a Bonafede il posto di ministro”.

Così il governo ha messo la Costituzione nelle mani dei pm anti mafia. Il Carcere possibile onlus su Il Dubbio il 7 maggio 2020. Le toghe schierate contro i giudici di sorveglianza, loro colleghi, sanno benissimo che noi tutti siamo più forti dei mafiosi proprio grazie ai diritti. Ma ora questi magistrati dell’accusa tentano di rovesciare l’ordinamento penitenziario che impedisce loro di toccare palla. Ecco perché mentono, sapendo di mentire, sulle fantomatiche orde di boss ingiustamente messi in libertà. Premesso che tutti detestiamo le mafie e che ciascuno di noi le combatte secondo le proprie possibilità e nel proprio ambito, e che non esistono persone anti mafia o pro mafia (ad eccezione dei mafiosi, ovviamente) dobbiamo, purtroppo e ancora una volta, ricordare che anche le guerre più cruente hanno le loro regole, e che la guerra alla mafia, in uno Stato di diritto, si combatte secondo i principii dell’ordinamento giuridico a cui sono soggetti tutti i cittadini. A quei principii sono soggetti anche i Magistrati come correttamente affermato dai Magistrati di sorveglianza nel comunicato Conams – sottoscritto dalla dottoressa Fiorillo nonché dal consigliere del Csm Dal Moro, che ha stigmatizzato i toni violenti e impropri che hanno caratterizzato le polemiche all’indomani di alcune scarcerazioni di detenuti in regime di cosiddetto carcere duro. Le indignazioni dell’opinione pubblica, sempre prontamente disorientata nonché nutrita di odio e rabbia da alcune arene televisive, si sono generate dopo le pubbliche esternazioni di alcuni esponenti della Magistratura antimafia che, contrariamente all’opinione pubblica, ben conosce i meccanismi delle procedure ex articolo 147 c.p. che si svolgono innanzi alla magistratura di sorveglianza nonché, con ogni probabilità, i contenuti delle specifiche procedure che hanno determinato le “scandalose“ scarcerazioni. Immaginiamo, infatti, che i Magistrati manifestanti le loro preoccupazioni sapessero come Pasquale Zagaria fosse stato già ritenuto soggetto non socialmente pericoloso dalla Corte di appello di Napoli (infatti bisognerebbe in realtà capire come mai fosse ancora in regime ex art. 41 bis o.p.) e che Bonura, che ha ottenuto un differimento dell’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare umanitaria, aveva in realtà un residuo pena di pochi mesi e condizioni di salute che rendevano impossibile la protrazione della detenzione in carcere. Immaginiamo, in sostanza, che i magistrati preoccupati sapessero bene che nessuna violazione delle regole giuridiche era stata commessa da parte dei loro Colleghi della sorveglianza e che le scarcerazioni erano state determinate da situazioni eccezionali. Nonostante queste conoscenze che attribuiamo ai magistrati preoccupati, si è ritenuto comunque opportuno provocare allarme sociale urlando attraverso i più disparati media che decine e decine di mafiosi pericolosissimi stavano per lasciare le patrie galere per andare a seminare di nuovo terrore in giro per il Paese. Ovviamente nessun contraddittorio e nessuna spiegazione tecnica ai telespettatori di trasmissioni e telegiornali urlanti. Al di là dei tecnicismi basterebbe spiegare che lo Stato dimostra la propria forza e autorevolezza quando non abdica al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda e che la Giustizia non è – e non deve essere – vendetta e soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per i peggiori criminali, perché solo così la comunità e la civiltà sono veramente tutelate e solo così si rispettano il preminente diritto alla salute ex articolo 32 Cost. e l’umanità della pena ex art. 27 Cost. Ci rendiamo conto che parlare di diritto è noioso e non fa audience ma, in realtà, pensiamo che la scelta di non fornire alcuna spiegazione e la manifestazione della preoccupazione con la conseguente indignazione avevano una loro utilità: determinare i presupposti dell’attacco all’odiato ordinamento penitenziario in cui il protagonista, almeno in teoria, è il detenuto e, specificamente, il suo percorso all’interno del sistema dell’esecuzione penale in cui la Procura resta un osservatore di questo percorso “sorvegliato” dalla tanto vituperata Magistratura di Sorveglianza. Creata la sensazione della necessità e dell’urgenza di intervenire per evitare il “liberi tutti”, rischio neanche lontanamente corso, il decretificio ha potuto produrre l’attacco all’ordinamento penitenziario, ultimamente troppo umanizzato dalla Corte Costituzionale, per cui, a colpi di ennesimo decreto (decreto n° 28 del 30 aprile 2020), per affrontare “l’emergenza”, sono state apportate modifiche ad alcune norme che, come abbiamo imparato bene, resteranno nel nostro sistema a prescindere dall’emergenza e ben oltre la stessa. Per alcuni detenuti, quelli condannati per i reati ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. nonché per quelli sottoposti al regime del 41 bis o.p., sarà possibile avere permessi di necessità, quelli che si concedono in casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, solo dopo aver atteso il parere della Procura ed anche della DNA che, in tal modo, possono porre una sorta di veto alla Magistratura di sorveglianza che, in caso di decisione favorevole al permesso, deve esporre una motivazione rinforzata. Analogamente per quel che riguarda la cosiddetta detenzione domiciliare in deroga o “umanitaria”, i detenuti condannati per i reati prima indicati nonché quelli sottoposti al regime ex art. 41 bis o.p., potranno vedersi concessa tale particolare detenzione solo dopo che rispettivamente la Procura e la Dna abbiano espresso il loro parere circa la pericolosità del recluso che si trova in condizioni di grave infermità fisica (ora anche psichica) e che non può essere più curato in carcere. Per i detenuti in regime di carcere duro, la Magistratura di sorveglianza non potrà decidere se non dopo che siano decorsi 15 giorni dalla richiesta del parere. Tali modifiche – che introducono la necessità di richiedere i pareri alle Procure – non apportano innovazioni di sorta nel senso che ovviamente i Magistrati di Sorveglianza chiedono normalmente informazioni sulla pericolosità dei detenuti, tuttavia è abbastanza intuitivo che in caso di “imminente pericolo di vita di un familiare” o in caso di impossibilità di protrarre le cure e le terapie in carcere, aspettare rispettivamente 24 ore e 15 giorni può fare la differenza, determinando anche l’inutilità del provvedimento richiesto e, di solito, già lungamente atteso. Con queste modifiche legislative si è voluto affermare che anche per “questioni umanitarie” non si può e non si deve prescindere dall’autorità dell’Antimafia, si è voluto affermare che nel bilanciamento degli interessi in contrapposizione, la bilancia deve pendere dal lato della Procura: deve essere lei, ora, a “consentire” che la pena non sia contraria al senso di umanità. Con quest’affermazione ci pare che i principi costituzionali si affievoliscano notevolmente e che si ritenga opportuno che la pena – sempre più – tenda innanzitutto alla punizione, anche alla punizione del congiunto in imminente pericolo di vita che per salutare il figlio, il padre o la madre reclusi deve attendere il rapido benestare della Procura. Il Carcere possibile onlus

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2020. La mettono giù così: «Vi pare giusto che, con la scusa del virus e sotto ricatto di rivolte sobillate dai boss, giudici ribelli abbiano scarcerato 376 pericolosi capimafia al 41 bis per offendere le vittime, irridere chi li aveva arrestati e mortificare chi li aveva denunciati?». E, messa così, la risposta sarebbe una sola. Ma una sindrome polacca sta contagiando i pm italiani: pochi mesi fa manifestavano a Varsavia contro l' involuzione di un governo che aggredisce i propri giudici, adesso capi di Procure antimafia, con contorno di aedi dell' informazione, intimidiscono i giudici che non gli garbano (quelli di Sorveglianza) con gli stessi toni e argomenti distorti che esecravano quando a usarli contro loro era Berlusconi. Dal 41 bis sono usciti non in 376 ma in 3, per tumori e cardiopatie a rischio vita combinati all' incapacità del sistema penitenziario di garantire cure indifferibili. Due terzi degli altri sono «boss» sulla fiducia, visto che attendono ancora sentenze. Quanti nelle rivolte di marzo oggi condannano - e ci mancherebbe - la violenza delle proteste per le condizioni dei detenuti (13 poi morti sotto custodia dello Stato) sono però gli stessi che nel 2016 ignoravano la protesta non violenta di 19.056 detenuti aderenti (con le firme al Papa e due scioperi della fame) all' iniziativa dei radicali che quelle condizioni additava. Età e malattie, in caso di contagio Covid, sono concause di alti rischi anche per i detenuti, diminuiti non di 376 ma di 9.000 (di cui 2.917 in detenzione domiciliare, 736 con braccialetto) spesso con l' ok proprio di pm (se in custodia cautelare), o su richiesta dei direttori di carceri (se con fine pena sotto 18 mesi): modo per recuperare, nella flagrante illegalità di 62.000 reclusi a febbraio in 51.000 posti (evidentemente tollerata da pm e cantori della legalità a targhe alterne), ciò che il ministero di Bonafede non aveva predisposto. E cioè minispazi dove almeno isolare i positivi per scongiurare in cella il bis del disastro-ospizi.

Nella lista-nera di Giletti finisce anche Rosa Zagari. Ma non è un boss e rischia la paralisi. Il Dubbio l'11 maggio 2020. La donna ha coperto la latitanza di uno ndranghetista. Non è pericolosa e la battaglia legale per le cure i domiciliari dura da un anno. Ed è in attesa del giudizio definitivo. Solo 4 i boss reclusi al 41 bis che hanno ottenuto un differimento pena – ma temporaneamente, perché la rivalutazione da parte del giudice è contemplata da sempre – per gravi motivi di salute. Gli altri 370, per la stragrande maggioranza, sono andanti in detenzione domiciliare (se definitivi) o agli arresti domiciliari (se in attesa di giudizio) non per il covid 19 come quasi tutti i mezzi di informazione dicono all’unisono, ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Nella lista dei nomi ci sono casi che proprio Il Dubbio ha sollevato. Casi che addirittura risalgono a due anni fa, quando la pandemia non era ancora nell’anticamera dei nostri pensieri. Uno di quelli riguarda proprio Rosa Zagari, citata nella trasmissione di Giletti senza però spiegare la sua vicenda e che patologie avesse. Ma si sa, la deontologia professionale oramai è inesistente nel giornalismo italiano. Non è una spietata assassina, non fa parte nemmeno di alcuna organizzazione mafiosa, ma ha fatto l’imperdonabile errore – ovviamente del tutto ingiustificato – di proteggere il suo compagno, ovvero il boss Ernesto Fazzalari, un appartenente alla famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘Ndrangheta. Si sarebbe fatta anche utilizzare come intermediaria e per questo le è stato contestato il reato associativo. Ma perché ha avuto il differimento di pena? Come riportato da Il Dubbio a febbraio dello scorso anno, la Zagari, mentre si trovava presso la casa circondariale di Reggio Calabria, a seguito di una caduta si è procurata una fattura duplice alle vertebre. Le condizioni di salute della Zagari -dopo un primo trasferimento a Santa Maria Capua Vetere dove non veniva curata- sono progressivamente peggiorate nonostante sia stata reclusa presso centro clinico di Messina. Talmente peggiorate tanto da non consentirle di deambulare autonomamente ma solo con il sostegno di una compagna di detenzione. Era a rischio paralisi. Una vicenda seguita passo dopo passo dall’associazione Yairaiha Onlus che ha denunciato la sua incompatibilità con il carcere dal mese di luglio del 2019 fino a febbraio del 2020. Alla fine la gip, alla luce del complessivo quadro di salute della detenuta e dell’insuccesso delle terapie mediche e riabilitative seppur praticate con costanza presso il carcere, «al fine di salvaguardare le sue condizioni di salute – scrive -, ormai peggiorate e non efficacemente fronteggiabili presso l’istituto di detenzione, risulta necessario disporre la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari». Non si fa alcun cenno al covid. Non c’entra nulla. Inoltre i domiciliari le sono stati concessi il 23 marzo, quando ancora la famosa e tanto ingiustamente criticata circolare del Dap non era nemmeno nota.

Malati terminali, infartuati e disabili: ecco i pericolosi mafiosi “scarcerati”. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Hanno ottenuto i domiciliari non per il Covid 19 , ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Solo 4 i boss reclusi al 41 bis che hanno ottenuto un differimento pena – ma temporaneamente, perché la rivalutazione da parte del giudice è contemplata da sempre – per gravi motivi di salute. Gli altri 370, per la stragrande maggioranza, sono andanti in detenzione domiciliare (se definitivi) o agli arresti domiciliari (se in attesa di giudizio) non per il Covid 19 come quasi tutti i mezzi di informazione dicono all’unisono, ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Nella lista dei nomi ci sono casi che proprio Il Dubbio ha sollevato. Storie che addirittura risalgono a due anni fa, quando la pandemia non era ancora nell’anticamera dei nostri pensieri. C’è ad esempio Rosa Zagari, citata nella trasmissione di “Non è l’arena” di Massimo Giletti senza però spiegare la sua vicenda e che patologie avesse. Non è una spietata assassina, non fa parte nemmeno di alcuna organizzazione mafiosa, ma ha fatto l’imperdonabile errore – ovviamente del tutto ingiustificato – di proteggere il suo compagno, ovvero il boss Ernesto Fazzalari, un appartenente alla famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘ndrangheta. Si sarebbe fatta anche utilizzare come intermediaria e per questo le è stato contestato il reato associativo. Ma perché ha avuto il differimento di pena? Come riportato da Il Dubbio a febbraio dello scorso anno, Rosa Zagari, mentre si trovava presso la casa circondariale di Reggio Calabria, a seguito di una caduta si è procurata una fattura duplice alle vertebre. Parliamo del febbraio del 2019. Via via ha avuto un peggioramento per cure del tutto inadeguate. Dopo tanti solleciti da parte dall’associazione Yairaiha Onlus al Dap e al ministro della Giustizia, è stata trasferita presso il centro clinico del carcere di Messina. Nulla da fare. Cure inadeguate con un rischio di paralisi. Non riusciva a camminare autonomamente, tanto da farsi sostenere dalla sua compagna di cella. Alla fine la gip, alla luce del complessivo quadro di salute della detenuta e dell’insuccesso delle terapie mediche e riabilitative seppur praticate con costanza presso il carcere, «al fine di salvaguardare le sue condizioni di salute – scrive -, ormai peggiorate e non efficacemente fronteggiabili presso l’istituto di detenzione, risulta necessario disporre la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari». Non si fa alcun cenno al Covid-19. Non c’entra nulla. Inoltre i domiciliari le sono stati concessi il 23 marzo, quando ancora la famosa e tanto ingiustamente criticata circolare del Dap era giunta due giorni prima e ovviamente l’istanza – presentata tempo addietro – non ha nulla a che vedere con essa.Nella lista compare il nome di Zafer Yildz con patologie gravi. Fine pena 2027, ha scontato 14 anni e 10 mesi di una condanna a 19 anni: con la liberazione anticipata gli erano rimasti 3 anni di carcere. I familiari hanno informato l’associazione Yairaiha Onlus che Zaafer, appena ha iniziato a capire la portata dell’emergenza Covid-19 e consapevole dei rischi che correva, ha chiesto l’isolamento assieme ad altri 3 detenuti con patologie gravi. Ha fatto 15 giorni di isolamento ed è uscito il 2 aprile scorso. Anche qui non c’entra nulla la circolare del Dap e l’emergenza Covid 19. Perché? Come spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus, a Zafer gli è stata accolta l’ultima istanza presentata prima dell’emergenza coronavisrus. Compare nella “lista nera” Fido Salvatore con fine pena tra 3 mesi. Aveva finito la parte ostativa ad aprile 2019 e il suo avvocato ha richiesto lo scioglimento del cumulo: dopo vari solleciti il magistrato di sorveglianza di Padova ha accolto l’istanza. «Non conosciamo tutte le storie dei detenuti finiti nella lista “riservata”, – spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus – ma abbiamo buoni motivi per ritenere che siano state tutte legittimamente motivate. Le liste dei detenuti in nostro possesso, per ognuna delle quali abbiamo presentato sollecito, rispecchiano una realtà ben diversa: malati terminali, plurinfartuati, morbi rari, leucemie, malattie autoimmuni, disabili e anziani allettati. Soggetti che, a prescindere dal rischio contagio e dal titolo del reato, non dovrebbero stare in carcere ma in luoghi di cura». La Berardi conclude: «Il diritto alla salute dei detenuti, che finanche Mussolini non si sognò di precludere a nessuno, non può essere abolito a colpi di frettolosi decreti dell’ultim’ora». C’è pure Giorgi Attilio, difeso dagli avvocati Chiara Penna e Giuseppe Lemma, affetto da patologie serie che lo hanno reso immunodepresso. In realtà il Covid 19 è solo un’aggravante. I suoi legali aveva presentato già un’istanza a luglio del 2019 e all’esito di questa, in autunno, lo hanno portato al centro clinico del carcere di Siano (Catanzaro). Lo hanno tenuto un mese e mezzo e dopo solo alcuni accertamenti l’hanno rimandato al carcere di Cosenza. Eppure, con precedenti istanze e solleciti, sono state documentate condizioni di incompatibilità, dovute dall’impossibilità dello stesso Dap a dar corso ad accertamenti e terapie adeguate. Quindi gli avvocati hanno presentato una nuova istanza sicuramente legata anche all’emergenza Covid, ma l’avevano già preparata a prescindere.

41bis. I "boss" scarcerati non sono 376 ma 3: i veri numeri dello scoop. Stefano Anastasia su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Lo scoop postumo di Repubblica (“Boss scarcerati, la lista segreta”, 5 maggio) ci informa che i boss scarcerati dal 41bis per motivi di salute sono 3, non 376. Gli altri erano detenuti al circuito detentivo di alta sicurezza, cui si accede – non sulla base di una valutazione individualizzata della pericolosità sociale, come nel caso del 41bis – ma per titolo di reato: basta averne uno tra gli ormai innumerevoli ricompresi nell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che limita l’accesso ai benefici e alle alternative al carcere. A vario titolo ostativi sono ormai non solo i reati legati alle organizzazioni criminali, ma anche quelli per fatti di corruzione, le rapine aggravate e alcuni reati sessuali. Comunque, certo è che – nonostante i profili criminali tratteggiati nell’articolo citato, nessuno di questi 373 detenuti scarcerati dal circuito di alta sicurezza è stato considerato da Ministro e Procura nazionale antimafia così pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica da stare in 41bis. D’altro canto, di questi 373 detenuti scarcerati dall’alta sicurezza per motivi di salute, ben 196 erano anche in attesa di giudizio, e dunque, secondo quel vecchio arnese della Costituzione, ancora legalmente innocenti. Questo significa anche che questi 196 detenuti sono stati scarcerati per ordine degli stessi magistrati che ne avevano convalidato l’arresto e la misura cautelare, evidentemente – a loro giudizio – non più necessaria in quella forma e in quella gravità. Solo 155 sono stati invece i provvedimenti di scarcerazione per motivi di salute adottati dai magistrati di sorveglianza, motivati come sappiamo, alla luce della legge e delle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani, che ritengono preminente la tutela della salute individuale a quello della esecuzione della pena in forma detentiva, che può essere commutata in detenzione domiciliare o sospesa, a seconda delle necessità. Infine, a conti fatti, è possibile ipotizzare che per 376 scarcerazioni siano stati coinvolti almeno 200 magistrati della Repubblica, servitori dello Stato al pari dei più famosi vocianti da ogni pulpito giornalistico e televisivo: tutti pericolosi eversori dell’ordine costituito?

Mafiosi ai domiciliari, uno su tre aspetta ancora il primo grado. Rocco Vazzana su Il Dubbio il  maggio 2020. Su 376 “boss” usciti durante la pandemia, 196 non hanno ancora una condanna definitiva, di questi, in 125 aspettano una sentenza di primo grado. La “lista Basentini”, l’elenco dei 376 “boss” finiti ai domiciliari nella fase della pandemia, non ha ancora finito di dividere il Paese che già sbuca un nuovo elenco.Eppure, a scorrere quelprimo documento, che ha spinto il ministro Bonafede ad annunciare un nuovo decreto per far tornare in cella i “mafiosi” scarcerati dai giudici, si scoprono dettagli importanti. Tanto per cominciare: le condanne. Su 376 persone ammesse alle misure alternative, a scontare una pena definitiva sono in 180. Di questi, solo tre in regime di carcere duro (41 bis): i boss Francesco Bonura, Vincenzo Iannazzo e Pasquale Zagaria. Ma il grosso dell’elenco, 196 nomi, è composto da detenuti in attesa di sentenza definitiva e in regime di sorveglianza speciale. Non solo, la stragrande maggioranza di questo gruppo, 125 persone, aspetta ancora il giudizio di primo grado. Molti di loro sono accusati di aver rivestito ruoli all’interno o all’esterno dei clan, ma ancora nessuna aula di Tribunale si è pronunciata in merito. Eppure, la pubblicazione della lista ha creato un vero e proprio terremoto politico, col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede accusato di aver liberato centinaia di boss e costretto a un dietrofront per non prestare il fianco a strumentalizzazioni, soprattutto dopo il colpo contemporaneo arrivato dall’ex pm della “trattativa Stato-mafia” Nino Di Matteo. Ora sul ministro pende addirittura una mozione di sfiducia individuale presentata dal centrodestra. L’argomento “mafia”, del resto, è sempre molto scivoloso e basta solo nominare la parola “garanzie” per essere accusati di connivenza. L’unico a provare a sparigliare un po’ nei giorni scorsi è stato Roberto Saviano, che su Repubblica ha scritto: «Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie». Ma non è bastato. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. E proprio nel giorno in cui il Csm dà il via libera alla nuova nomina di Dino Petralia, sul Dap piovono nuove istanze di scarcerazione per l’emergenza Covid. Sono 456 i presunti mafiosi, detenuti in regime di alta sicurezza a chiederla. Ma anche in questo caso, non tutti potranno essere definiti “boss”. In 225 hanno una condanna definitiva,ma ben 231 sono ancora in attesa del primo grado, appellanti e ricorrenti, recita il documento riservato inviato dal vicecapo del Dap Roberto Tartaglia al ministro Bonafede. Il Dipartimento ha subito dato inizio «all’acquisizione dagli istituti penitenziari delle istanze presentate e alla conseguente attività di analisi finalizzata alla predisposizioone di idonee misure organizzative», si legge nel testo. «Deve precisarsi. che il dato relativo al numero delle istanze prendenti presentate dai detenuti sottoposti al regime 41 bis e appartenenti al circuito dell’alta sicurezza non comprende quelle che i detenuti potrebbero avere avanzato per il tramite dei propri difensori di fiducia o per il tramite dei familiari, oppure potrebbero avere trasmesso in busta chiusa all’Autorità giudiziaria, per acquisire le quali saranno necessari sicuramente tempi più lunghi». Le richieste potrebbero dunque essere molte di più. Attualmente sono 745 i detenuti sottoposti al regime del carcere duro e 9.069 in alta sicurezza.

Bonafede dà i numeri: “498 scarcerati, di cui 253 in attesa di giudizio”. Ma poi promette: torneranno dentro. Il Dubbio il 14 maggio 2020. Il ministro della Giustizia tira le somme dell’emergenza Covid negli istituti di pena: “110 positivi al virus e nuove assunzioni”. “Sono in tutto 498 i detenuti al 41 bis o in alta sicurezza che sono stati scarcerati con provvedimenti dei magistrati. Di questi sono 4 quelli che erano sottoposti al regime del carcere duro. Di questi, 253 in attesa di giudizio sono agli arresti domiciliari, 195 in detenzione domiciliare, 35 affidati al servizio sociale”. Inizia così l’intervento del ministro Alfonso Bonafede in commissione giustizia della Camera.

Ripresa dei colloqui. “Con l’inizio della Fase 2  – ha poi aggiunto il Guardasigilli – l’Amministrazione, sempre inserendosi nel contesto nazionale relativo alle limitazioni negli spostamenti tra Regioni, ha iniziato le procedure per permettere la ripresa graduale dei colloqui visivi di persona. Fino al 30 giugno i colloqui con modalità “in presenza” saranno contingentati dal direttore del singolo istituto, previa interlocuzione necessaria con il Provveditore competente e con l’autorità sanitaria locale (art. 4 co. 1 e 2, Decreto Legge n. 29 del 10 maggio 2020)”.

110 i positivi al virus. “Sono 110 attualmente i detenuti positivi al coronavirus, 3 i ricoverati e 98 i guariti,  ha detto il ministro della Giustizia.

Ci saranno 1.100 nuovi agenti: “Nel contesto della ripresa dall’emergenza si inseriscono quei piani programmati, in parte già attuati e in parte che troveranno la propria realizzazione nei prossimi mesi. È stata disposta l’immissione anticipata di 1.100 nuovi agenti di Polizia penitenziaria, di cui 300 hanno già preso servizio nella sede di destinazione. Circa due mesi fa, il 12 marzo ho disposto con decreto la conclusione anticipata del 177° corso di formazione per gli allievi, che porterà nei prossimi giorni all’ingresso di circa 800 nuove unità”, spiga il ministro. “La necessaria sinergia con l’autorità sanitaria, declinata anche attraverso l’istituzione di un tavolo interministeriale con il Ministero della Salute – sottolinea Bonafede – oltre a permettere una uniformità delle procedure su tutto il territorio nazionale ha portato all’assunzione straordinaria di 1000 operatori sanitari ripartiti tra i vari Provveditorati. Le risorse inerenti il personale sono fondamentali perchè anche la c.d. Fase 2 possa essere affrontata con il massimo sforzo da parte dell’amministrazione, considerando il graduale ripristino dei regimi abituali proprio dell’universo penitenziario”.

Lotta alla mafia prioritaria. “La lotta alla mafia è prioritaria nell’azione del Governo ed è per questo – ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, – che con il decreto legge n. 29, abbiamo previsto che per quanto riguarda i soggetti ristretti per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, le scarcerazioni motivate da esigenze di carattere sanitario siano rivalutate alla luce del nuovo contesto epidemiologico, per verificare se permangano o meno le condizioni che hanno giustificato l’uscita dagli istituti detentivi”.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 15 maggio 2020. Poggioreale, l'Ucciardone, Regina Coeli, Rebibbia, Trani, Parma, Bellizzi Irpino. In ognuno di questi istituti di pena - famosi per il sovraffollamento o per i brindisi dei mafiosi o per le strutture di massima sicurezza, oppure per storiche rivolte o per vecchie gestioni finite sotto inchiesta - le condizioni di vita dei detenuti possono raggiungere, anzi, hanno raggiunto, livelli «inumani e degradanti». Tanto da consentire a qualcuno di ottenere sensibili sconti di pena e anche un po' di soldi di risarcimento. È la storia di Patrizio Bosti, 62 anni, capoclan dei quartieri Vasto e Arenaccia, boss al vertice di quella Alleanza di Secondigliano che ha rappresentato e rappresenta il più potente cartello di cosche attive sul territorio cittadino. Bosti fu arrestato il 10 agosto del 2008 in Spagna, a Girona, e tra residui di pena e condanne accumulate in cui era imputato per associazione di stampo camorristico, concorso in omicidio, estorsione e altri reati, sempre con l'aggravante della finalità mafiosa, sarebbe dovuto rimanere recluso fino al dicembre del 2023. Da qualche giorno, invece, ha lasciato il carcere di Parma, dove era detenuto al 41 bis, ed è tornato a Napoli, a casa sua, con il solo obbligo di firma cui dovrà sottoporsi per i prossimi nove anni. E non solo, lo Stato gli ha riconosciuto anche un risarcimento di oltre 2.600 euro. Dietro l'anticipata scarcerazione del boss c' è un complesso meccanismo che si fonda in parte sui benefici concessi per il riconoscimento della buona condotta e molto su due sentenze, emesse la prima dal Tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia e l' altra da quello analogo di Bologna. Ai giudici i legali di Bosti si sono rivolti sostenendo per il loro assistito la detenzione in condizioni non in linea con quanto disposto dall' articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell' uomo. Nel dettagliatissimo ricorso presentato si fa riferimento al sovraffollamento delle celle, o alla mancanza di acqua calda, di docce interne e di riscaldamento. Ma anche alla carenza di socialità e alla costrizione di usare il bagno in modo promiscuo, e cioè anche per lavare le stoviglie . Tutte ragioni ritenute evidentemente valide dai giudici chiamati ad esaminarle. Anzi, se il Tribunale di Reggio Emilia aveva concesso a Bosti 286 giorni di liberazione anticipata come risarcimento di 2.868 giorni trascorsi in cella in condizioni inumane, quello di Bologna ha accolto l' ulteriore ricorso degli avvocati del boss, riconoscendogli altri 947 giorni di reclusione degradante e fissando una ulteriore riduzione di pena che gli ha permesso di essere scarcerato con oltre tre anni di anticipo. E non è finita. Secondo i conteggi valutati dal giudice, Bosti sarebbe dovuto uscire anche prima. E quel periodo che ha passato in carcere «ingiustamente», in attesa che venisse emessa la sentenza, dovrà essere adesso monetizzato con un versamento di 2.672 euro che lo Stato, su disposizione del Tribunale, dovrà fare all' ormai ex detenuto.

Il boss Patrizio Bosti scarcerato in anticipo e risarcito: detenzione disumana. Viviana Lanza de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Il carcere duro è troppo, e disumano, anche per un boss del calibro di Patrizio Bosti, leader della cosiddetta Alleanza di Secondigliano, la cupola di potere camorrista che da decenni è al centro di storie criminali e inchieste dell’Antimafia. “Condizioni disumane”, si legge nel provvedimento con cui Bosti ha ottenuto il riconoscimento di una detenzione che gli ha riservato un trattamento lesivo della dignità umana al punto da ottenere dallo Stato un credito sugli anni da scontare in cella che gli è valso la scarcerazione e il risarcimento di 2.672 euro. Bosti ha così potuto lasciare il carcere di Parma con tre anni e mezzo di anticipo rispetto al fine pena. Arrestato l’ultima volta in Spagna nel 2008, il boss aveva un cumulo di condanne a 43 anni di carcere per reati vari di camorra ma nessun ergastolo e questo ha fatto scendere il tetto, come prevede la legge, a trent’anni. Con i soli benefici della liberazione anticipata tuttavia non sarebbe uscito così presto dal carcere, se non fosse intervenuta la decisione dei giudici della Sorveglianza riconoscendogli un credito per il danno patito nei difficili anni del carcere e dell’isolamento. Una decisione destinata a far discutere come le motivazioni alla base del ricorso che condannano certe condizioni di vita all’interno delle carceri del nostro paese. La dignità da garantire a ogni detenuto, i diritti da tutelare anche dietro le sbarre, la funzione rieducativa della pena sono discorsi ripetuti da anni. La decisione del tribunale di Sorveglianza di Bologna scarcerando Bosti ha dettato una linea. “Sulle scarcerazioni recenti vedo tante polemiche diversive da tifosi sugli spalti e mi chiedo – si interroga Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania – se sia possibile ipotizzare che i circa duecento magistrati, servitori dello Stato al pari di tanti altri magistrati vocianti da diversi pulpiti e che si sono pronunciati sulle scarcerazioni ai domiciliari di 376 boss, siano tutti eversori delle leggi italiane”. È una domanda provocatoria, quella di Ciambriello, che da anni si batte per i diritti dei detenuti. “Perché queste scarcerazioni non sono state decise da cappellani, garanti, o buonisti. Non si tratta di dividerci tra giustizialisti e garantisti ma di essere legalitari. Tutti i detenuti – conclude Ciambriello – anche quelli invisibili e ignoti, devono avere riconosciuti i loro diritti fondamentali, alla salute e alla vita”.

L’ex politico scambiato per boss querela Salvini: «Gogna social dopo la scarcerazione». Simona Musco il 12 maggio 2020 su Il Dubbio. L’ex sindaco calabrese non è un boss e fu rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per «evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria». Gettato in pasto al web, etichettato come mafioso, usato per propaganda politica. È così che si è sentito Angelo Alati, ex presidente del Consiglio comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Rc), arrestato a febbraio dalla Dda e scarcerato lo scorso 9 aprile. Per Matteo Salvini è uno dei tanti boss scarcerati grazie alla «scusa» del Covid. Ma in realtà, Alati è stato rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per «evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria». E così, dopo aver chiesto – inutilmente – la rettifica di quel post, al quale erano allegate anche le foto di presunti boss e mafiosi, Alati è passato ai fatti, depositando, ieri, una querela per diffamazione contro il leader della Lega. La scarcerazione è stata infatti decisa in base «ai presupposti dell’ordinanza di custodia cautelare e non certo a ragioni di tutela della salute e della dignità umana considerate, tuttavia, dal signor Salvini Matteo quale un escamotage per permettere a mafiosi e “stragisti”, con il concorso, evidentemente, di magistrati considerati troppo morbidi, di uscire dalle patrie galere». Alati rivendica il principio di presunzione di innocenza, attribuendo all’ex ministro «l’elemento psicologico del dolo», in quanto «è chiaro il suo preciso obiettivo diffamatorio nell’utilizzare la scarcerazione dello scrivente per evidenti fini politici, in totale disprezzo di tutti i diritti costituzionali, esponendo il querelante alla pubblica gogna e alla macchina dell’odio dei social network, grazie alla forza della sua enorme visibilità mediatica», proprio nel momento in cui il TdL lo aveva riabilitato. Prima della querela, il legale di Alati, Guido Contestabile, ha scritto a Salvini, invitandolo a pubblicare un post funzionale alla riabilitazione del suo cliente. E il leader della Lega, anziché ristabilire la verità dei fatti «ha semplicemente eliminato il post», senza avvisare i suoi milioni di follower di come stessero realmente le cose. «Avanzo seri dubbi sul fatto che lei conosca Angelo Alati e la sua storia processuale – ha scritto Contestabile – un incensurato coinvolto in un processo di mafia scarcerato dal TdL per ragioni di inconsistenza indiziaria. Non colpevole non solo fino a prova contraria e fino alla definitività del giudizio, ma anche innocente – allo stato – in virtù di un provvedimento emesso dall’organo di garanzia deputato al controllo delle ordinanze cautelari». È disgustoso, afferma Contestabile, «che qualcuno si prenda il lusso di contrabbandare la sua immagine come quella di un colpevole che l’ha fatta franca. Più che il dolore delle catene, l’innocente in carcere patisce il dolore della vergogna e il senso di abbandono». E in una terra stritolata dalla mafia, dalla povertà e anche dal pregiudizio, come la Calabria, la «spregiudicata criminalizzazione dell’individuo, con l’abbattimento delle sue garanzie, porta consenso anche all’antistato, inocula negli individui sani il senso dell’ingiustizia e li allontana dalle istituzioni. E proprio nel momento in cui l’Angelo Alati di turno riesce a venire fuori dalle maglie (sempre più) strette della custodia cautelare, di certo non si aspetta che l’istituzione che ella rapprenda e ancora di più ha rappresentato lo bolli come uno stragista mafioso scarcerato a casa dell’onda lunga del coronavirus».

Camilla Povia per fondazioneleonardo-cdm.com il 13 maggio 2020. “Sul tema del sovraffollamento nelle carceri, come nella lotta alla mafia, occorrerebbe mettere da parte ogni forma di propaganda e di ricerca del consenso facile, ed aprire tra tutte le forze politiche una seria e razionale discussione”. Andrea Giorgis, sottosegretario al Ministero della Giustizia e professore ordinario di diritto Costituzionale all’Università di Torino, racconta cosa è accaduto sulla vicenda scarcerazione dei boss e respinge le pesanti accuse mosse dall’opposizione al Governo: “Le accuse di Salvini sono false e irresponsabili. Perché è falso e irresponsabile individuare nelle disposizioni approvate dal Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria e il problema del sovraffollamento, la causa della scarcerazione di alcuni condannati per reati di mafia. Ed è falso e irresponsabile attribuire al Governo e alla maggioranza che lo sostiene un qualche arretramento nella lotta alle mafie”.

Le norme del Governo, contenute nel decreto Cura Italia del 18 marzo, non c’entrano nulla dunque con le scarcerazioni dei boss di cui si parla in questi giorni.

“Assolutamente no. Abbiamo agito per ridurre il sovraffollamento e in tal modo contenere i rischi di diffusione del Coronavirus prevedendo, attraverso gli articoli 123 e 124 del decreto, che il magistrato di sorveglianza potesse disporre la detenzione domiciliare, ma solo per chi non si era macchiato di reati particolarmente gravi (esclusi quindi mafia, terrorismo e altre fattispecie gravi di reato) e con un residuo di pena non superiore ai 18 mesi. Ed abbiamo previsto che il magistrato potesse estendere (fino al 30 giugno) le licenze straordinarie a chi era in regime di semi libertà, ovvero a quei detenuti che di giorno potevano uscire ma che la sera dovevano fare rientro in carcere. L’obiettivo di queste due disposizioni era ed è quello di ridurre appunto il sovraffollamento negli istituti penitenziari, senza minimamente allentare le misure di contrasto alla criminalità organizzata e alle mafie. Tra l’altro la detenzione domiciliare accordata deve essere accompagnata dal braccialetto elettronico nei casi in cui il fine pena sia superiore ai 6 mesi”.

Cosa è accaduto allora?

“E’ accaduto che i magistrati hanno ritenuto di accogliere alcune istanze di scarcerazione e di sospensione dell’esecuzione della pena, per motivi di salute, sulla base di quanto prevedono gli articoli 146 e 147 del codice penale. Se il detenuto è in uno stato di salute incompatibile con la detenzione carceraria, il magistrato di sorveglianza può sospendere l’esecuzione della pena qualsiasi reato abbia commesso e disporre il ricovero in ospedale, la detenzione domiciliare o il trasferimento presso un’altra struttura carceraria meglio capace di garantire il diritto alla salute. Nessuna scarcerazione di detenuti per reati di mafia è stata disposta in virtù degli articoli 123 e 124 del decreto Cura Italia. Nessuna delle 376 scarcerazioni di cui hanno parlato i giornali è avvenuta in conseguenza delle misure adottate per cercare di ridurre il sovraffollamento. Delle 376 scarcerazioni, peraltro, solo 155 sembrano essere state disposte dai magistrati di sorveglianza (nei confronti di detenuti condannati con sentenza definitiva) e solo 2 nei confronti di detenuti sottoposti al regime del 41 bis”; le altre circa 196 scarcerazioni sono sostituzioni di misure cautelari (dalla custodia in carcere agli arresti domiciliari e 1 sola di queste riguarda un detenuto sottoposto al 41 bis)"

A questo punto il Governo mette in campo altri due decreti legge.

“Sì uno il 30 aprile con il quale si prescrive ai magistrati di sorveglianza che devono decidere sulle richieste di detenzione domiciliare (anche ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale), di acquisire il parere all’antimafia in ordine alla pericolosità del soggetto e al permanere dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata sul territorio. Si tratta di una previsione che non intende affatto comprimere le prerogative dei magistrati di sorveglianza, né ovviamente compromettere la loro autonomia di giudizio che rimane immutata. C’è poi il decreto di sabato sera che prevede che i magistrati di sorveglianza verifichino se permangono i presupposti di fatto sulla base dei quali hanno disposto la detenzione domiciliare (di condannati per reati di mafia), entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. Nell’effettuare tale giudizio i magistrati dovranno sentire l’autorità sanitaria regionale e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP)”.

Il problema del sovraffollamento delle carceri permane. O a questo punto il problema è più quello opposto di riportare nelle carceri condannati pericolosi?

“Il problema rimane e se in passato avessimo avuto più coraggio nel mettere in campo misure contro il sovraffollamento delle carceri, forse sarebbe stato più facile affrontare anche l’emergenza sanitaria. Le do un po’ di dati. Al momento la popolazione carceraria è di 52915. La capienza regolamentare delle carceri è di circa 51mila, quella ‘effettiva’ 48mila. Negli ultimi mesi la situazione è migliorata: al 29 febbraio i detenuti erano infatti 61.230, circa 7.000 in più di oggi. Tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare, specie se consideriamo che all’origine della diminuzione vi è una significativa riduzione degli arresti, che potrebbe nei prossimi mesi ritornare a crescere. La posta in gioco è la salute di tutti: della polizia penitenziaria, del personale amministrativo, dei detenuti e anche dei cittadini liberi. Il carcere è una realtà complessa, difficile, chiusa e tuttavia è una realtà che non possiamo considerare separata ed estranea alle nostre comunità. Occorrono insomma nuove e coraggiose misure strutturali, capaci di dare piena ed effettiva attuazione alla funzione rieducativa della pena (prescritta dall’art.27 della Costituzione) valorizzando le misure alternative al carcere e considerando perciò quest’ultimo l’estrema ratio”.

Pochi i mafiosi “eccellenti” ai domiciliari. E il Covid non c’entra. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 maggio 2020. I detenuti al 41 bis che fecero tanto scalpore, ovvero Francesco Bonura (fine pena tra pochi mesi) e Pasquale Zagaria (finito in detenzione domiciliare per 5 mesi e poi ritorna dentro), avevano ottenuto il differimento pena per gravissimi motivi di salute e il Covid non c’entra nulla. Ma non finisce qui. Mentre è arrivata una nuova lista sul tavolo del Dap composta da nominativi di persone reclusi al 41 bis o in alta sicurezza che hanno fatto istanza per i domiciliari, c’è il capo della procura nazionale Federico Cafiero De Raho che si dice sorpreso per la concessione della detenzione domiciliare visto che – soprattutto per i reclusi al 41 bis – non c’è rischio di contagio da Covid 19. Il problema è che per quanto riguarda i nomi “eccellenti”, il coronavirus c’entra ben poco. O meglio, in alcuni casi è solo un problema aggiuntivo. Come detto e ridetto, i detenuti al 41 bis che fecero tanto scalpore, ovvero Francesco Bonura (fine pena tra pochi mesi) e Pasquale Zagaria (finito in detenzione domiciliare per 5 mesi e poi ritorna dentro), avevano ottenuto il differimento pena per gravissimi motivi di salute e il Covid non c’entra nulla. Ma non finisce qui. C’è ad esempio il nome dell’ergastolano Franco Cataldo, uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi ucciso e sciolto nell’acido, il quale ha ottenuto il differimento della pena per 6 mesi. Qui il Covid 19 è un problema aggiuntivo. Anziano e malato terminale perché affetto da due tumori, nei mesi scorsi era stato trasferito nel carcere di Opera proprio per essere curato, ma poi la zona di Milano è diventata l’epicentro del contagio e i giudici non hanno avuto molte alternative, viste le sue condizioni di salute. Nella famosa lunga lista, ma scarna di detenuti “eccellenti”, compare il nome di Rosalia Di Trapani, la moglie del boss Salvatore Lo Piccolo e condannata a 8 anni per estorsione aggravata. Ha ottenuto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, non a casa – perché per la sua pericolosità le è assolutamente vietato mettere piede a Palermo – ma in una casa di riposo di Messina. Tuttavia, come ormai sta emergendo in molti casi simili, a dispetto degli allarmi, il Coronavirus ancora una volta non c’entra proprio nulla. Il permesso per un mese le è stato concesso per motivi di salute perché la struttura carceraria non poteva garantire le cure indispensabili. Il Tribunale, oltre a vietare ogni tipo di contatto con i parenti, anche telefonici, le ha imposto di restare appunto a Messina. L’altro eri il gup di Palermo aveva respinto l’istanza di scarcerazione del vecchio boss di Pagliarelli, Settimo Mineo, recluso al 41 bis a Sassari e in attesa di giudizio con l’accusa di aver presieduto la nuova Cupola di Cosa nostra, smantellata a dicembre 2018 dai carabinieri. Il giorno prima – per l’ennesima volta – è stata negata la detenzione domiciliare a Gaetano Riina, fratello dell’ex capo dei capi. Non è un ergastolano e nemmeno un recluso al 41 bis. Ha 87 anni e presenta diverse patologie. Ha scontato nel carcere torinese una condanna a otto anni per estorsione e associazione mafiosa comminata dalla corte d’appello di Palermo per aver sostituito il fratello dopo la carcerazione nel 1993 – questa era l’accusa – alla guida del mandamento di Corleone. La pena era stata espiata interamente a luglio dell’anno scorso, ma Gaetano Riina resta in cella per un’altra condanna – ma non per mafia – dei giudici di Napoli e il fine pena è fissato al 2024. Ma se venisse concessa la liberazione anticipata, lui finirebbe di scontare la pena il prossimo anno. Ora il vice capo del Dap Roberto Tartaglia sta esaminando i fascicoli riguardanti le 456 richieste per i domiciliari (riguarda chi è in attesa di giudizio) o detenzione domiciliare (i definitivi), ma bisogna capire quanti siano per motivi legati al Covid 19. Attualmente ci sono casi di persone con gravi patologie dove i centri clinici penitenziari sono insufficienti e la detenzione risulta incompatibile. Un problema, quello sanitario, che deve essere risolto con un investimento nell’approntare all’interno degli istituti dei presidi specialistici idonei. Inasprire le norme, senza curare questi aspetti, rischierebbe di violare i diritti dell’uomo. 

Il boss Morabito “U Tiradritto” abbandonato al 41 bis è in gravissime condizioni di salute. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 maggio 2020. Ha 86 anni ed è “murato nel carcere di Opera di Milano. Ha febbre a 39, patologie che si sarebbero aggravate a causa di presunte mancate cure e accompagnato da un deterioramento cognitivo. Ha 86 anni e verserebbe in condizioni gravissime al 41 bis del carcere “Opera” di Milano. Ha febbre a 39, patologie che si sarebbero aggravate a causa di presunte mancate cure e accompagnato da un deterioramento cognitivo. Non stiamo parlando di un detenuto qualunque, ma di Giuseppe Morabito, detto U Tiradrittu, considerato a suo tempo il numero uno della ‘ndrangheta.  «Il 29 aprile dovevamo sentirlo al telefono – spiega al Il Dubbio l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti , il legale del recluso – , ma asserendo che le linee erano occupate (con il colloquio telefonico prenotato da tempo) il carcere di Milano non l’ha fatto chiamare». Dal 2004 è ininterrottamente recluso al 41 bis e dall’ultima perizia depositata urgentemente per chiedere un differimento pena per gravi motivi di salute emerge un quadro devastante. Si legge che presenta una enorme ernia inguinale bilaterale, maggiore a sinistra, condizionante dolore cronico; un voluminoso adenoma prostatico inoperabile in portatore di catetere vescicale a permanenza da circa 15 anni, con ricorrenti infezioni delle vie urinarie; cardiopatia ipertensiva in precario compenso; reiterati riscontri di iperglicemia al DTX, in assenza di accertamenti specifici; broncopneumopatia cronica ostruttiva; insufficienza venosa agli arti inferiori; cataratta bilaterale con indicazione all’intervento; diverticolosi del colon; gozzo multinodulare normofunzionante; artrosi polidistrettuale; sindrome ansioso-depressivo. Dopo una serie infinita di istanze e solleciti, al DAP, al Garante regionale, al Direttore e all’area sanitaria, i familiari hanno deciso di depositare una denuncia – querela al procuratore della Repubblica del tribunale di Milano perché Morabito versa in condizioni gravissime e – a detta loro – totalmente abbandonato a se stesso.  Secondo i familiari, Giuseppe Morabito sarebbe stato lasciato in una condizione di totale abbandono, degrado igienico-sanitario, con negazione delle cure indispensabili per la sua vita, non solo per l’età ma soprattutto per le importanti patologie che lo affliggono.  «Il quadro – si legge nella denuncia – si è aggravato negli ultimi due mesi, a causa di un elevato e costante stato febbrile per il quale è stato isolato, due volte per 15 giorni, negli ultimi due mesi, per come lo stesso ha riferito, faticosamente, nel corso dell’ultimo colloquio e di un’enorme ernia a rischio di strozzamento». Morabito stesso ha chiesto ripetutamente aiuto, tramite il difensore, che ha inoltrato richieste continue di intervento rimaste ad oggi inevase. Sempre i familiari chiedono al procuratore di valutare «il grave comportamento omissivo, contrario al senso di umanità e ai valori costituzionali e sovranazionali», essendosi trasformato, per il loro vecchio genitore, «lo stato detentivo in una condanna a morte tra atroci sofferenze e torture, che nessun essere vivente merita di sopportare in uno Stato di Diritto, che deve salvaguardare la vita e la salute». Parole forti, ma corroborate dalle continue richieste di intervento avanzate dal loro legale.«Il mio assistito ha 86 anni – spiega a Il Dubbio l’avvocata Giovanna Araniti del foro di Reggio Calabria – e sta scontando un trentennale non per omicidio, ma per reati di droga e associazione mafiosa, ed ininterrottamente detenuto da 16 anni». L’avvocata denuncia: «Quale che sia il titolo di reato commesso, non è ammissibile che in uno Stato che osa definirsi di diritto, un detenuto vecchio e malato debba morire di carcere, perché sottoposto al 41 bis O.P., in totale stato di abbandono».  Infine conclude: «Le condizioni deplorevoli in cui è stato lasciato per anni, nonostante le sue gravissime patologie, finalmente, dopo decine di richieste, sono state accertate con perizia di ufficio depositata l’altro ieri, presso il Tribunale di Roma che sta trattando l’ennesimo reclamo avverso la proroga del 41 bis».Giuseppe Morabito, come detto, è noto anche come u tiradrittu.  Dal dialetto calabrese vuol dire “spara dritto”, ovvero colui che tira dritto senza rispetto di alcuna regola o persona. Lo Stato dovrebbe essere diverso. Stato di Diritto o U Tiradrittu?

Strutture sanitarie inesistenti: i domiciliari a quei 376 mafiosi sono inevitabili. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 magio 2020. La Repubblica grida allo scandalo per i domiciliari concessi ai presunti boss, ma la verità è che le strutture sanitarie in carcere sono inadeguate a garantirne il diritto di salute dei detenuti: è questo il vero scandalo. Le polemiche per la detenzione domiciliare a 376 boss reclusi in alta sicurezza, solo tre al 41 bis, continuano a essere al centro del dibattito. Indirettamente si ritorna all’attacco dei magistrati di sorveglianza o i Gip che hanno emesso queste ordinanze. In un articolo di Repubblica si grida allo scandalo, perché in realtà i magistrati delle procure distrettuali antimafia dicono che basterebbe trasferirli nei centri medici penitenziari, considerati – a detta loro – strutture di eccellenza della nostra sanità. Ma è esattamente così? Forse c’è bisogno di fare chiarezza. Più volte è stato detto che basterebbe mandare i detenuti con gravi patologie fisiche nei centri clinici penitenziari di Roma e Viterbo. Partendo dal fatto chela detenzione domiciliare è stata concessa perché tali patologie sono quelle che possono provocare una morte certa, se contagiati dal Covid 19 (e già tre detenuti sono morti per questo), bisogna capire se effettivamente, allo stato attuale, i magistrati hanno possibilità di scelta e quindi possano assecondare le istanze dei procuratori. Un conto è la teoria, l’altra è la realtà che ben pochi conoscono. Il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa, interpellato da Il Dubbio sul punto, spiega: «Vorrei chiarire che parliamo di due situazioni diverse: una cosa sono i vecchi centri clinici penitenziari (ora Sai), destinati a lungodegenze croniche in ambito penitenziario (Regina Coeli a Roma), altro sono i reparti ospedalieri di medicina protetta (Viterbo Belcolle e Roma Pertini), con pochi posti destinati a ricoveri funzionali a diagnostica, terapia e pre-ospedalizzazione per interventi chirurgici. Questi ultimi sono anche qualificati, ma con pochi posti e per periodi brevi. I vecchi centri clinici, invece, sono delle specie di Rsa penitenziarie. Non mi pare che si possa parlare di eccellenze. Almeno fino a quando governo e regioni non decideranno che cosa farne, dopo la riforma del 2008 (il passaggio dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, ndr)».Questo è il punto. I famosi centri sanitari di “eccellenza” più volte citati dai chi si indigna per le scarcerazioni, si trovano nei reparti ospedalieri di medicina protetta di Viterbo e Roma, ma sono pochi i posti per ricoverare i detenuti bisognosi di terapia. Altra questione. A causa dei pochi centri clinici che, come ha sottolineato Anastasìa sono delle vere e proprie Rsa, non il massimo ai tempi del Covid 19, molti detenuti vengono trasferiti nel reparto di assistenza intensiva del carcere di Parma. Il risultato? Non ci sono posti letto liberi, occupati da detenuti con degenze lunghissime, anche di molti mesi e pertanto con un ricambio praticamente inesistente. E tutto ciò crea un altro problema ancora più volte segnalato dal garante locale Roberto Cavalieri: costringe detenuti parimenti ammalati, rispetto a quelli ricoverati al Sai a restare in celle ordinarie di sezioni ordinarie, con i conseguenti problemi di conciliazione tra necessità sanitarie e spazi detentivi inadeguati. Anche Rita Bernardini del Partito Radicale denuncia il problema. Lo ha ricordato durante la trasmissione di Radio Carcere condotta da Riccardo Arena. «La sanità penitenziaria è a pezzi e non è in grado di assicurare a decine di migliaia di detenuti i livelli minimi di assistenza. Il coronavirus porta alla luce il tradimento della riforma di 12 anni fa che prevedeva il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Quanti documenti in proposito ha prodotto, inascoltato, il dottor Francesco Ceraudo?». Recentemente, infatti, è stata presentata una interrogazione parlamentare da parte di Roberto Giachetti proprio su questa questione. L’altro problema riguarda la Sardegna, dove sono concentrati numerosi detenuti in alta sicurezza o al 41 bis. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria, dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante nazionale delle persone private della libertà aveva evidenziato «l’esigenza di avere nella regione almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41-bis o.p.». A tal fine aveva formulato la seguente raccomandazione (tenendo in conto della presenza nella regione rispettivamente di 520 e 90 persone detenute in Alta Sicurezza o in regime speciale): «Il Garante nazionale raccomanda al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in regime ex articolo 41-bis o.p., attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema». Purtroppo non c’è stata alcuna da parte dell’Amministrazione. Come se non bastasse, in un Rapporto tematico sul 41 bis, il Garante aveva osservato le difficoltà di traduzione di una persona detenuta in alta sicurezza o in tale regime speciale laddove non esistesse un Sai che garantisse tutela della salute e sicurezza. Si legge in quel Rapporto: «è il caso della Sardegna, ove non è disponibile un Sai che possa essere utilizzato a tutela della loro salute, giacché quello dell’Istituto di Sassari – strutturato originariamente per tale popolazione detenuta – è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari-Uta, è riservato al circuito della media sicurezza». Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – fa sapere Il garante Mauro Palma tramite il bollettino odierno – aveva risposto relativamente alle traduzioni in termini generali citando l’estrema rarità della ipotesi prospettata dal Garante. Proprio per questo, il tema era stato ribadito nel Rapporto redatto a seguito della visita condotta nel luglio 2019 e il Garante nazionale, richiamando la Raccomandazione già formulata nel 2017, aveva rilevato come la peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in istituti della Sardegna potesse rischiare di determinare la compressione di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute. Se da una parte si parla dei detenuti scarcerati per motivi gravi di salute, dall’altra non nasce lo scandalo per tutti quei detenuti che muoiono per patologie. In ognuno di loro c’è una storia, in molte riguarda proprio il diritto alla salute violato. E a proposito di ciò, sarebbe il caso di ricordare della morte dell’ergastolano ostativo Mario Trudu. Da 41 anni in carcere, mai usufruito di alcun permesso. Era gravemente malato e l’unica possibilità di curarsi adeguatamente era quella di andare via dal carcere. Dopo una lunga battaglia condotta dal suo legale Monica Murru, era riuscito ad ottenere la detenzione domiciliare e finalmente avrebbe avuto la possibilità di curarsi adeguatamente. Ma troppo tardi: dopo pochi giorni di “libertà” morì in ospedale. Facile dire che il sistema penitenziario ha strutture di eccellenza per curare i detenuti gravemente malati. Difficile, però, guardare in faccia alla realtà, riconoscere il problema e risolverlo.

 “Carceri italiane inumane e incostituzionali”. Parola di Gherardo Colombo. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Le “confessioni” dell’ex magistrato: “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile”. “Ritengo il carcere così com’è, non in coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente”. Lo afferma in una intervista all’Huffington Post l’ex Pm Gherardo Colombo. “Nemmeno io riuscivo a concepire una società senza la pena del carcere, quando ho iniziato a fare il magistrato – ha aggiunto – Credevo che la pena, inflitta rispettando tutte le garanzie del condannato, avesse una forza educativa. Non sbagliavo. Semplicemente, non mi ero mai chiesto a cosa educasse. In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anzichè mostrare che la regola risponde a un principio di ragione”. L’ex magistrato ricorda che ad un certo punto del suo percorso professionale, “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse piu’ compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”. Secondo Colombo, “Lo spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione”. E quindi, una società senza carcere, si baserebbe secondo l’ex magistrato “sull’idea del recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restand – ha concluso – che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo”.

Flick: “Così hanno espulso la Costituzione dalle nostre carceri”. Il Dubbio il 2 maggio 2020. Secondo il presidente emerito della Consulta, “a sconcertare è che lo sbilanciamento non è opera solo dell’opinione pubblica mediatico- politica: a lasciare perplessi sono le valutazioni che provengono da alcuni magistrati. Da chi è preparato e ben conosce la Costituzione”. «Mi ero illuso. Avevo visto nella tragedia dell’epidemia un futuro spiraglio di luce almeno per i diritti dei detenuti. Ero convinto che l’impressione di condannati costretti a vivere in promiscuità persino in pieno allarme coronavirus avrebbe dimostrato quanto la detenzione inframuraria sia inadeguata al recupero del condannato. Invece dal decreto di Bonafede in arrivo in Gazzetta ufficiale riconosco addirittura un peggioramento del clima. E assisto alla scena desolante di una Corte costituzionale entrata nelle carceri dalla porta mentre era proprio la Costituzione a uscire, per la finestra, dal sistema penitenziario». Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, considera le norme volute da Bonafede — che obbligheranno il giudice di sorveglianza ad attendere per 15 giorni il parere del procuratore nazionale antimafia prima di concedere i domiciliari ai detenuti in regime di 41 bis gravemente malati — meno devastanti di quanto temuto: «Si era vociferato, nei giorni scorsi, di un parere della Dna qualificato come vincolante. Non è così. Eppure le nuove norme sui domiciliari segnalano il precipitare del clima. Vale a dire una parabola opposta al mio auspicio di vedere più umanità nell’esecuzione penale proprio in virtù del coronavirus. Con l’ingresso del procuratore nazionale Antimafia sulla scena, le decisioni sui domiciliari rischiano di lasciare in un angolo il diritto alla salute e imporre ancora una volta una visione carcerocentrica».

La tragedia del covid avrebbe dovuto almeno scongiurare altri casi come quello di Provenzano. E invece entra in vigore un decreto che va in direzione opposta.

«Alla vigilia delle sentenze, della Cedu prima e della nostra Corte costituzionale poi, sulla compatibilità fra benefici e reati ostativi, avevamo assistito allo stesso fuoco di fila. Siamo sempre in quella scia, su un filo sottilissimo che vede compromesso ora non solo il fine rieducativo della pena ma anche l’articolo 32 della Costituzione: la salute come diritto dell’individuo da tutelare sopra ogni cosa. A sconcertare è che lo sbilanciamento non è opera solo dell’opinione pubblica mediatico- politica: a lasciare perplessi sono le valutazioni che provengono da alcuni magistrati. Da chi è preparato e ben conosce la Costituzione».

Il decreto di Bonafede sui domiciliari per chi è al 41 bis cancella i diritti dell’individuo?

«Nella sua forma è un provvedimento meno pesante del previsto. Va apprezzato il ridimensionamento delle ipotesi iniziali, secondo cui il parere del procuratore nazionale Antimafia avrebbe dovuto diventare vincolante per i giudici di sorveglianza. Ma intanto, proprio a questi ultimi sento di dover esprimere la mia solidarietà: comprendo la loro sensazione di essere commissariati, e implicitamente accusati di lassismo».

Saranno meno liberi di decidere, vista la delegittimazione?

«Ripeto: il problema è il clima generale. Bonafede ha opportunamente ribadito che il legislatore non può intromettersi nell’autonoma valutazione del giudice. Ma l’aria attorno ai magistrati di sorveglianza si è fatta ancora più pesante. Confido che avranno la forza di restare autonomi, nonostante tutto. Certo non è molto convincente vedere attribuita, a un magistrato che impersona l’accusa, la competenza sui domiciliari per gravi motivi di salute».

Come si è arrivati a una simile distorsione sul peso della Dna?

«Temo che abbia contribuito una consapevolezza non sufficientemente chiara delle diverse forme di detenzione domiciliare. Un conto è scontare la pena a casa come misura alternativa, dunque funzionale al trattamento del condannato, al recupero della sua personalità e identità. Di tutt’altra natura è l’istituto dei domiciliari come soluzione surrogatoria del differimento pena. Il punto è che tale seconda concezione dei domiciliari è stata contaminata da quella particolare accezione richiamata anche dal decreto 18, il “Cura Italia”: vale dire la misura alternativa della detenzione domiciliare concessa non solo in chiave trattamentale ma anche secondo una logica deflattiva. Una parte dell’opinione pubblica ha creduto che anche i detenuti al 41 bis avessero ottenuto i domiciliari per via di uno svuotacarceri? Si è certamente generata confusione. Eppure, senza entrare nel merito degli specifici casi che hanno suscitato scalpore, i giudici di sorveglianza hanno concesso la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti al 41 bis come forma sostitutiva surrogatoria del differimento pena per gravi motivi di salute. Un istituto che bilancia da una parte la necessità di interrompere la detenzione inframuraria di fronte a condizioni incompatibili col carcere, e dall’altra le esigenze di sicurezza sociale. Negli ultimi casi, sull’incompatibilità con la permanenza in carcere hanno pesato anche i rischi di contrarre il coronavirus considerata l’età anagrafica. Ora è stata introdotta una modifica in apparenza non sconvolgente, ma che comporta di fatto un ulteriore pesante sacrificio per il diritto alla salute».

Perché si tratta di un sacrificio pesante?

«Finora la valutazione del giudice di sorveglianza su casi simili era chiaramente regolata. La concessione dei domiciliari come rimedio sostitutivo del differimento pena è obbligatoria per i detenuti al 41 bis malati terminali: venne introdotta in relazione ai casi di Aids. Se il recluso affetto da gravissime patologie non risponde più alle cure, va scarcerato. La concessione dei domiciliari diventa facoltativa se non c’è una fase terminale ma il detenuto al 41 bis è comunque in condizioni molto gravi: in questo caso il giudice di sorveglianza non può adottare il provvedimento, oppure lo revoca, di fronte a un concreto pericolo di reiterazione del reato. Cosa cambia con il decreto Bonafede? Che il magistrato titolare della decisione, prima di concedere i domiciliari a un recluso al 41 bis gravemente malato, è obbligato a chiedere il parere del procuratore nazionale Antimafia. Ed è evidente come tale circostanza faccia precipitare il piatto della bilancia tutto dalla parte delle esigenze di sicurezza sociale. È come se ci fosse una chiara scelta di considerare il diritto alla salute nettamente subordinato a tali esigenze. Anche in virtù di un ulteriore sottile scarto interpretativo».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che secondo alcuni magistrati la concessione dei domiciliari per gravi motivi di salute va considerata solo in relazione alle cure che il detenuto al 41 bis potrebbe ricevere al di fuori della struttura penitenziaria: se in astratto non sarebbero più efficaci, secondo tale ottica non c’è motivo di portare il recluso fuori dalla galera. Secondo un’altra direzione giurisprudenziale, invece, innanzitutto secondo la Corte europea dei Diritti dell’uomo, chi è al 41 bis in buono stato di salute sconta una pena meno afflittiva di chi, in quel regime detentivo, si trova da malato grave. La consapevolezza di essere in carcere aggrava la pena, dunque la sofferenza, di una persona che già sta male. Ecco, con l’ultima soluzione normativa trovata, con l’enorme peso attribuito di fatto al parere della Dna, avremo forse procuratori Antimafia che entreranno nel merito delle cartelle cliniche e suggeriranno al giudice di non concedere i domiciliari, perché in fondo quella patologia non sarebbe curata meglio fuori che dietro le sbarre. Non solo, perché la norma è abbastanza ambigua da non poter escludere che qualcuno possa ritenere obbligatorio il parere della Dna persino per i detenuti in stato terminale, per i quali i domiciliari sarebbero obbligatori. Ma è così che diventa tristemente rovesciato l’esempio del viaggio nelle carceri compiuto dalla Corte costituzionale. Il giudice delle leggi era entrato negli istituti di pena dalla porta, ma così è proprio la Costituzione che esce dalla finestra del nostro sistema penitenziario».

Indignati per i domiciliari a un detenuto malato, ma silenzio per l’inesistenza delle cure per chi è al 41bis. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 maggio 2020. L’accusa principale al capo dimissionario del Dap Basentini è quella di aver risposto in ritardo per trovare un centro clinico adeguato per il detenuto pieno zeppo di patologie. Ma quelli che ora si stracciano le vesti sono gli stessi che si sono disinteressati della mancata assistenza sanitaria per i detenuti della regione Sardegna. Indignazioni, improbabili programmi come quelli condotti da Massimo Giletti, interrogazioni parlamentari e infine le dimissioni del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ( Dap) Francesco Basentini, tutte concentrate sulla detenzione domiciliare concessa a Pasquale Zagaria recluso al 41 bis del carcere di Sassari. L’accusa principale al capo del Dap è quella di aver risposto in ritardo per trovare un centro clinico adeguato per il detenuto pieno zeppo di patologie. Ma quelli che ora si stracciano le vesti, sono gli stessi che si sono disinteressati del grave problema riguardante l’assistenza sanitaria per i detenuti della regione Sardegna, compreso appunto coloro che sono in regime di alta sicurezza o al 41 bis. Sono reclusi per reati di mafia, in quel caso il diritto alla salute diventa un optional e, tranne questo giornale, a nessuno è interessato.  Ma il paradosso è che ora però si ricordano del problema sanitario nelle carceri quando un giudice, per salvare la vita di un detenuto, concede la detenzione domiciliare per curarsi meglio. Fin dal 2017, il garante nazionale delle persone private della libertà aveva posto l’attenzione proprio sulla Sardegna. Lo ha ricordato oggi tramite il suo bollettino settimanale. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante  aveva evidenziato «l’esigenza di avere nella Regione [Sardegna] almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41-bis o.p.». A tal fine aveva formulato la seguente Raccomandazione (tenendo in conto la presenza nella regione rispettivamente di 520 e 90 persone detenute in AS o in regime speciale): «Il Garante nazionale raccomanda al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella Regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in regime ex articolo 41-bis o.p., attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della Regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema». Purtroppo, tuttavia, non era seguita risposta alcuna da parte dell’Amministrazione. Come se non bastasse, in un Rapporto tematico  sul 41 bis, il Garante aveva osservato le difficoltà di traduzione di una persona detenuta in alta sicurezza o in tale regime speciale laddove non esistesse un Sai che garantisse tutela della salute e sicurezza. Si legge in quel Rapporto: «è il caso della Sardegna, ove non è disponibile un Sai che possa essere utilizzato a tutela della loro salute, giacché quello dell’Istituto di Sassari – strutturato originariamente per tale popolazione detenuta – è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari-Uta, è riservato al circuito della media sicurezza». Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – fa sapere Il garante Mauro Palma tramite il bollettino odierno – aveva risposto relativamente alle traduzioni in termini generali citando l’estrema rarità della ipotesi prospettata dal Garante. Proprio per questo, il tema era stato ribadito nel Rapporto redatto a seguito della visita condotta nel luglio 2019 e il Garante nazionale, richiamando la Raccomandazione già formulata nel 2017, aveva rilevato come la peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in Istituti della Sardegna potesse rischiare di determinare la compressione di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute. Nessuno si è indignato. Anzi, L’Espresso – lo stesso giornale che ha dato l’avvio all’indignazione – ha più volte scritto che il carcere modello per il 41 bis è proprio quello di Sassari. Dimenticandosi probabilmente che, oltre a vivere sotto terra, l’assistenza sanitaria per i reclusi al 41 bis con patologie gravi è inesistente.

«Io, ex giudice chiedo: chi ha distrutto la sanità penitenziaria?» Luigi Trapazzo su Il Dubbio il 2 maggio 2020. «Che fine hanno fatto i centri clinici delle carceri super attrezzati? Chi ne ha tratto non consentito vantaggio? Qualcuno risponda». Caro Direttore, sono un magistrato ordinario in pensione. Sono attento lettore de Il Dubbio anche in ragione della mia storia professionale. Ho fatto il giudice fino al luglio del 2000, quando, ad appena 60 anni, decisi di lasciare l’Ordine giudiziario per andare a cercare altrove lo spazio in cui meglio esercitare le mie pulsioni nel sociale. Ma sono rimasto sull’arena, fino al 2019, sotto la veste di avvocato cassazionista, dedito, tuttavia, più che alla libera attività forense (esercitata rare volte e sempre pro bono) a quella di tipo manageriale, in posizione di vertice in alcune rilevanti strutture pubbliche tra le quali l’allora Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma, l’ENAV SpA, e da ultimo, fino all’agosto del 2018, a titolo assolutamente gratuito, l’ATER Roma. Soltanto dopo lunga esitazione, ho infine deciso di portare all’attenzione pubblica, attraverso il Suo giornale, le molteplici falle che a mio avviso stanno per determinare l’esplosione del Corona virus nelle carceri italiane ed in tutte le altre strutture, pubbliche e private, nelle quali per ragioni istituzionali, sono obbligatoriamente riunite miriadi di persone. Mi riferisco, quindi, anche a tutti gli altri luoghi (ospedali, luoghi di cura, ospizi, conventi, seminari, RSA, accademie militari, convitti, caserme) la cui specificità non consente a quanti vi si trovano (costretti dai loro rispettivi ruoli, di amministrati e di amministratori, di sorvegliati e sorveglianti, a vivere gomito a gomito, in assoluta promiscuità) di potersene andare a casa, per esercitare da remoto il proprio ruolo. Sul fenomeno del sovraffollamento carcerario – in superamento delle violente proteste inizialmente espresse dai detenuti di alcuni istituti carcerari (e represse con modalità che hanno comportato la morte di diversi rivoltosi) e ad onta delle puntuali posizioni espresse al riguardo dal Cnf, da buona parte della magistratura di sorveglianza, ed anche dall’emerito Presidente emerito della Corte Costituzionale Professor Flick, già Ministro della Giustizia in anni per più versi bui – la voce più alta ed imperiosa finora udita appare soltanto quella di Papa Francesco. Ma finora, a parte l’incessante riproposizione, da più parti, della richiesta di ridurre il fenomeno del sovraffollamento carcerario attraverso la sostanziale liberazione di un gran numero dei reclusi, nessuno ha finora indicato quella che a mio avviso parrebbe la via maestra. Cioè lo smistamento di gran parte della popolazione carceraria nei numerosi spazi, sparsi in ogni parte d’Italia, isole e isolette comprese, dei quali l’amministrazione penitenziaria parrebbe essersi nel tempo spogliata e che oggi dovrebbe/potrebbe invece recuperare con un’azione rapida e incisiva. Allo scopo, appunto, di smistare in essi, senza celle a più letti, con ampia possibilità di movimento, tutte le persone che a vario titolo sono costrette a vivere l’una accanto alle altre, in obbligatoria contiguità. Accompagnato, tale esodo, da una profonda rivisitazione dell’intero sistema penitenziario, tra le cui pecche vi è anche quella di essersi privata di un proprio dedicato sistema di assistenza sanitaria in favore dei detenuti e degli internati. Siffatta missione, invece di essere potenziata ed estesa anche a favore della polizia penitenziaria, tuttora incomprensibilmente priva di propri medici competenti, venne stupidamente devoluta al Ssn e quindi alle aziende sanitarie locali nel cui ambito insiste ciascun Istituto, con inevitabili conseguenze negative. Non vi è più, ormai, una sanità penitenziaria interna, eguale in ogni Istituto carcerario, ma tante diverse sanità, affidate alla sensibilità, spesso carente, dei direttori generali delle tante aziende sanitarie locali nelle quali è suddivisa l’Italia, quasi tutti più attenti a curare buoni rapporti con il potere politico regionale da cui ciascuno di essi trae la propria legittimazione ad agire che a darsi da fare per rendere sempre più efficiente ed efficace l’azione complessiva delle loro aziende anche a vantaggio della popolazione carceraria. Non ho la veste per chiedere le dimissioni di chicchessia. E tuttavia mi sia consentito nutrire rilevanti perplessità sulle effettive capacità manageriali degli attuali vertici politici e amministrativi del sistema carcerario. Non conosco nè il Ministro della Giustizia nè il Capo del DAP. Conosco invece, personalmente, soltanto l’attuale direttore generale dei detenuti e del trattamento, chiamato a questo incarico soltanto da poco, già giudice di sorveglianza oltre che ex componente del Csm. Ma ho il timore, nonostante la sua assoluta bravura, che l’attuale contesto interno (e quello dell’intero governo) non saprà fornirgli il necessario sostegno. Ho lavorato nell’universo della Giustizia svolgendovi molteplici e non irrilevanti funzioni. Immediatamente giudiziarie quelle di Pubblico Ministero, di Giudice di sorveglianza, di Giudice d’appello penale. Di alta dirigenza amministrativa – negli anni di piombo e fino alla restaurazione del sistema del bastone e della carota attraverso la legge Gozzini, al quale mi opposi, nel 1983, con le mie volontarie dimissioni dall’incarico fino ad allora svolto e con il mio successivo rientro, poco dopo, in funzioni giudiziarie come Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano – come Direttore del Servizio sociale penitenziario e dell’assistenza ai detenuti, in breve della struttura centrale deputata al trattamento dei detenuti, dovunque ristretti. Venni così ad assicurare a tutta la popolazione carceraria (a fondamento del processo di rieducazione e nel contempo come strumento di maggiore ordine e sicurezza, volto a mettere al bando la violenza del manganello ed il prepotere dei capi bastone) la tutela dei loro fondamentali diritti allo studio, al lavoro, alla salute. Naturalmente accompagnato, tale processo, dall’avvio di un’estesa opera di formazione della polizia penitenziaria, purtroppo ancora insufficiente, come da tempo inutilmente rileva questa benemerita quanto misconosciuta categoria di operatori penitenziari in divisa. Credo da sempre nella rieducazione, a condizione che tutto il sistema vi creda, a partire proprio dal Personale della Polizia penitenziaria. Appare necessaria, insisto, una profonda rivisitazione del sistema sanitario in generale, ma anche della stessa organizzazione penitenziaria, volta a consentire che il personale del già Corpo degli Agenti di Custodia venga finalmente educato ad esercitare, con assoluta pienezza, il nuovo ruolo che ad essi spetta, di primi attori del processo di rieducazione dei detenuti e non più, come ancora oggi accade, di meri secondini. L’Amministrazione Penitenziaria ha saputo assicurare, nonostante quei tempi oscuri e sia pure con molteplici défaillances, il trattamento della popolazione carceraria, dando ampio riconoscimento al diritto allo studio, al lavoro, all’assistenza sanitaria, sia intramurale che extra murale, all’epoca organizzata in ben cinque Centri Clinici penitenziari super attrezzati, molto noto quello di Pisa. Che fine hanno fatto questi Centri? Chi ne ha tratto non consentito vantaggio? Qualcuno risponda! Grazie per l’attenzione. Luigi Trapazzo

Il caso. “Zagaria ha il cancro, se resta in carcere muore”, ma Bonafede grida allo scandalo. Angela Stella su il Riformista il 28 Aprile 2020. Continua a far discutere la scarcerazione di Pasquale Zagaria, decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari per motivi di salute. In tanti la definiscono ingiusta, scandalosa, immorale, vergognosa. Una lettura troppo semplicistica della vicenda che merita l’analisi delle carte. Prima di entrare nel dettaglio del provvedimento vediamo cosa è successo: Pasquale Zagaria, 60 anni, fratello di Michele, boss del clan dei Casalesi, trascorrerà i prossimi cinque mesi ai domiciliari in un paesino in provincia di Brescia, insieme alla moglie e ai due figli. Potrà uscire solo per esigenze sanitarie. Era detenuto al regime di 41 bis a Sassari per finire di scontare una pena di 20 anni. L’imprenditore edile era stato condannato per estorsione, sequestro di persona, detenzione illegale di armi ma non si è mai macchiato di reati di sangue. È considerato dagli inquirenti la mente economica del clan del Casalesi, dopo aver trasferito il settore di maggior interesse del clan, il cemento, a Parma, città nella quale, grazie a lui, la cosca ha pilotato l’aggiudicazione di appalti a ditte “amiche”. Ma ora cerchiamo di capire bene i motivi alla base della decisione del Tribunale di Sorveglianza riportando alcuni stralci dell’ordinanza, il cui estensore è il dottor Riccardo De Vito. Sono state necessarie, per acquisire tutti gli approfondimenti istruttori, quattro udienze, una a marzo e tre ad aprile al fine di esaminare le carte prodotte dalla difesa, la documentazione sanitaria del carcere, le informazioni delle forze dell’ordine. In merito al quadro clinico «non vi è dubbio – si legge nell’ordinanza – che il detenuto soffra di una patologia grave e qualificata – carcinoma papillifero della vescica, per la quale ha subito un importante intervento chirurgico di resezione transuretrale della vescica e un successivo ciclo di immunoterapia per instillazione endovescicale». Il problema, scrive De Vito, è che «il paziente non può effettuare il follow-up post-chirurgico e post-terapia in quanto il Centro clinico di riferimento è stato individuato come Centro Covid-19». Quindi, il magistrato ritiene che «sarebbe opportuno il trasferimento del paziente presso altro Istituto che possa garantire il prosieguo dell’iter diagnostico-terapeutico». A seguito di tali informazioni, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari il 9 aprile chiede ulteriori approfondimenti al responsabile sanitario del carcere per «verificare se vi fossero ulteriori strutture ospedaliere in Sardegna ove poter effettuare il follow-up previsto – e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per verificare l’eventuale possibilità di trasferimento in altro Istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure». Mentre il 23 aprile dalla casa circondariale di Sassari fanno sapere che il paziente non può effettuare i controlli previsti «né presso l’Aou di Sassari né all’interno della CC di Sassari», «dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è giunta risposta alcuna». Questi i motivi oggetti della decisione: esistenza di una malattia grave e necessitante cure che non possono essere effettuate nel circuito penitenziario, con concreta esposizione a un pericolo di esito letale; sussistenza di rischio di gravi complicanze in caso di contrazione del virus Sars-Cov-19. Pertanto, «all’esito di un confronto tra storia clinica del paziente e testo normativo, questo Tribunale reputa che […] Pasquale Zagaria debba avere accesso al differimento della pena per grave infermità fisica». «Lasciare il detenuto – conclude De Vito – in tali condizioni, pertanto, equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità». Inoltre i magistrati di sorveglianza hanno valutato anche la pericolosità sociale del detenuto, escludendola per vari motivi. Su questa scarcerazione il ministero della Giustizia vuole vederci chiaro e ha incaricato gli ispettori di Via Arenula di svolgere accertamenti, anche all’interno del Dap per fare luce sulle presunte mancate risposte alle richieste giunte da Sassari. Bonafede sta valutando di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia: domani su questo si riunisce la Commissione Antimafia, presieduta dal pentastellato Nicola Morra. D’accordo su questa proposta anche Franco Mirabelli, capogruppo dem in commissione Antimafia e Walter Verini, responsabile Giustizia nella segreteria nazionale del Pd. Fratelli d’Italia chiede una audizione urgente del Guardasigilli e del capo del Dap Basentini nella stessa commissione. Critico anche Matteo Renzi (IV): «La scarcerazione dei superboss di Camorra e Ndrangheta è inaccettabile. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna. Oppure venga lui in Parlamento ad assumersi le sue responsabilità». In sostegno invece si esprime l’Associazione Antigone, con il Presidente Patrizio Gonnella: «La magistratura di sorveglianza deve poter svolgere il proprio lavoro in modo indipendente applicando la legge. La legge, a partire dalla nostra Costituzione, prevede che il diritto alla salute sia garantito ad ogni individuo».

Le motivazioni. Perché è stato scarcerato Pasquale Zagaria, mente economica dei Casalesi. Angela Stella de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Stamattina la maggior parte dei quotidiani titola “Scarcerato il boss Zagaria”o  “Il virus scarcera boss”. Il Giornale apre con “L’allarme lanciato da numerosi magistrati antimafia non basta. Continua la scarcerazione di boss della criminalità organizzata che nelle pieghe dell’emergenza Covid-19 trovano lo spiraglio per uscire dal carcere”. Una lettura troppo semplicistica della vicenda che merita l’analisi delle carte. Prima di entrare nel merito vediamo cosa è successo: Pasquale Zagaria, 60 anni, fratello di Michele, boss del clan dei Casalesi,  è stato scarcerato per motivi di salute dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari e trascorrerà i prossimi cinque mesi ai domiciliari in un paesino in provincia di Brescia, insieme alla moglie e ai due figli. Potrà uscire solo per esigenze sanitarie. È attualmente detenuto al regime di 41 bis per finire di scontare una pena di 21 anni e 7 mesi. Non si è mai macchiato di reati di sangue. Uno scandalo per molti questo differimento pena, considerata la caratura criminale e i geni in comune con il fratello. Zagaria si consegnò, dopo un periodo di latitanza, alle forze dell’ordine  nel giugno del 2007; è considerato dagli inquirenti la mente economica del clan del Casalesi, dopo aver trasferito il settore di maggior interesse del clan, il cemento, a Parma, città nella quale, grazie a lui, la cosca ha pilotato l’aggiudicazione di appalti a ditte ‘amiche’. Durante la detenzione in varie carceri italiane ha subìto “un trattamento inumano e degradante”, mancando il riscaldamento in cella, e per questo motivo il magistrato di sorveglianza di Cuneo, Stefania Bologna, gli aveva ridotto la pena di 210 giorni. Ma ora cerchiamo di capire bene i motivi alla base della decisione del Tribunale di Sorveglianza riportando alcuni stralci dell’ordinanza, il cui estensore è il dottor Riccardo De Vito. In merito al quadro clinico “Non vi è dubbio – si legge – infatti, che il detenuto soffra di una patologia grave e qualificata –  “carcinoma papillifero di basso e focalmente altro grado” della vescica – per la quale ha subito un importante intervento chirurgico di resezione transuretrale della vescica e un successivo ciclo di immunoterapia per instillazione endovescicale”. Il problema è che “il paziente non può effettuare il follow-up post-chirurgico e post-terapia in quanto il Centro clinico di riferimento è stato individuato come Centro Covid-19. Sarebbe quindi opportuno il trasferimento del paziente presso altro Istituto che possa garantire il prosieguo dell’iter diagnostico-terapeutico. A seguito di tali informazioni, questo Tribunale – udienza del 9. 4. 2020 – ha chiesto ulteriori approfondimenti al responsabile sanitario del carcere – al fine di verificare se vi fossero ulteriori strutture ospedaliere in Sardegna ove poter effettuare il follow-up previsto – e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per verificare l’eventuale possibilità di trasferimento in altro Istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure.  Dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è giunta risposta alcuna“. Mentre dalla casa circondariale di Sassari fanno sapere che il paziente non può effettuare i controlli previsti “né presso l’AOU di Sassari né all’interno della CC di Sassari”. Questi i motivi principali della decisione. E secondariamente l’uomo non può restare neanche nella sua cella singola perché rischierebbe di essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere. Pertanto, ” all’esito di un confronto tra storia clinica del paziente e testo normativo, questo Tribunale reputa che […] Pasquale Zagaria debba avere accesso al differimento della pena per grave infermità fisica“. Ma soprattutto perché, e non poteva essere diversamente conoscendo la grande sensibilità nell’affrontare queste questioni di Riccardo De Vito, ” Lasciare il detenuto in tali condizioni, pertanto, equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità”. Su questa scarcerazione il Ministero della Giustizia vuole vederci chiaro ed ha incaricato gli ispettori di Via Arenula di svolgere accertamenti, anche all’interno del Dap. Che, dal canto suo, smentisce attraverso una nota stampa di non aver interloquito con il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, il quale ” è stato costantemente informato delle attività degli uffici dell’Amministrazione Penitenziaria per trovare al detenuto Pasquale Zagaria una collocazione compatibile col suo stato di salute. Tutti i passaggi che si stavano compiendo sono stati oggetto di comunicazione al Tribunale di Sorveglianza, con almeno tre messaggi di posta elettronica, ultimo dei quali risalente allo scorso 23 aprile “. Basito per la scarcerazione è Catello Maresca, uno dei pm antimafia che arrestò Zagaria. “Non ci posso credere – dice all’Ansa – Si sta praticamente ricostituendo uno dei clan più pericolosi del Paese. Spero solo che ora lo Stato si preoccupi di tutte le persone che corrono seri rischi a seguito di questa scarcerazione – aggiunge – a partire dai colleghi in prima linea che sono stati pesantemente minacciati. E se ci sono responsabilità, che vadano accertate e sanzionate. Qui si sta giocando con la vita delle persone perbene”. Ma indirettamente è la stessa ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari a rispondere a tale preoccupazione, avendo svolto accertamenti più specifici sulla pericolosità sociale di Zagaria: ” Di particolare importanza, sotto questo profilo, sono state le motivazioni del decreto di revoca della misura di prevenzione della sorveglianza speciale – Corte di Appello di Napoli in data 22. 1. 2015 –, nelle quali è dato leggere quanto segue: “A fronte di tale complesso di elementi non può ritenersi che l’appartenenza dello Zagaria alla associazione camorristica, certamente attuale all’epoca del decreto emesso nell’anno 2004, fosse tale anche nell’anno 2011, atteso che, coerentemente con le premesse, il prolungato periodo di detenzione, posto in correlazione con la circostanza che il detenuto si costituì spontaneamente in carcere e, nel corso del processo penale, rese confessione in ordine a gran parte dei reati contestati, condotta che rappresenta un inequivocabile sintomo di iniziale ravvedimento, inducono ad escludere la concreta operatività della presunzione di perdurante al momento della formulazione del giudizio”. Va poi osservato che anche i procedimenti penali pendenti – due – riguardano fatti risalenti a periodi coevi o antecedenti quelli dei reati giudicati con le sentenze in esecuzione. Alle rassicuranti conclusione della Corte di Appello di Napoli si aggiunge anche il comportamento processuale tenuto da Zagaria nel procedimento camerale partecipato di sorveglianza. Lo stesso detenuto, infatti, ha mostrato interesse esclusivamente per soluzioni di cura, anche in altri istituti penitenziari, e non univocamente per soluzioni extramurarie“. La critica alla decisione di Sassari mette d’accordo Giorgia Meloni e Annalisa Chirico. La prima fa sapere da Facebook: “Fratelli d’Italia denuncia da giorni questa vergogna ma Conte e Bonafede non muovono un dito. Il Governo ritiri immediatamente le circolari del Dap che consentono questa oscenità e ripensi la normativa carceraria per mettere fine a questo scempio. La pazienza è finita”. La seconda da twitter: ” Chiunque abbia a cuore lo stato di diritto vede il fallimento dello stato quando boss mafiosi&capi mandamento escono dal carcere. Oggi Pasquale Zagaria, dei casalesi. Il mio pensiero va ai familiari vittime, magistrati e collaboratori d giustizia che contribuirono al suo arresto”. In sostegno invece si esprime l’Associazione Antigone, con il Presidente Patrizio Gonnella: “Anche nel caso relativo alla concessione della detenzione domiciliare per motivi di salute a Pasquale Zagaria si sta creando un polverone strumentale e inaccettabile. La magistratura di sorveglianza deve poter svolgere il proprio lavoro in modo indipendente applicando la legge. La legge, a partire dalla nostra Costituzione, prevede che il diritto alla salute sia garantito ad ogni individuo (art. 32) e che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27). Disposizioni che valgono per tutti, senza eccezioni di sorta”.

Il boss Graviano: «Concepii mio figlio al 41bis grazie alla distrazione degli agenti». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. Il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano (1963), in carcere al 41 bis da 26 anni, torna a parlare in videoconferenza al processo sulla ‘ndrangheta in corso a Reggio Calabria. E rivela un particolare privato: «Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto. Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti del Gom...». Graviano — arrestato a gennaio del 1994 — risponde alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo sul concepimento del figlio avvenuto nel 1998, mentre si trovava detenuto al carcere Ucciardone. Non è chiaro se questo sia avvenimento con il passaggio di una provetta o facendo entrare la compagna in carcere, nascosta tra la biancheria. Fino a pochi anni fa si pensava che Graviano e suo fratello Filippo avessero fatto ricorso all’inseminazione artificiale. «Anche quando venni arrestato le dicevo dal carcere di farsi la sua vita». «Invece lei è voluta restare con me e così le dissi di preparare i documenti e di sposarci», ha aggiunto Graviano. E ci siamo sposati. Ma certo non dormivamo in cella assieme, come è stato scritto». E spiega: «I miei figli non dovevano nascere in Italia e infatti sono nati in Svizzera». Il capomafia condannato per le stragi mafiose e per l’omicidio di don Pino Puglisi, starebbe per pubblicare un libro sulla sua vita. Ad annunciarlo è lo stesso boss nel corso della videoconferenza. «Io penso che sia pronto, forse anche più di un libro», ha detto. E il pm Lombardo gli ha letto un’intercettazione in carcere del 2018 quando il figlio Michele gli disse che la casa editrice sarebbe stata pronta a pubblicare il libro «ma con uno pseudonimo». All’epoca il boss avrebbe detto “Madre Natura”, cioè il soprannome con cui lo hanno definito i pentiti di mafia. «Pure gli agenti in carcere mi chiamano con questo nome. Io non lo sapevo. Ma poi che c’è di male? A Brusca lo chiamano il “porco” e almeno a me mi chiamano “Madre Natura”», ha concluso.

I buchi del 41 bis: il fascista Roberto Fiore fece incontrare il boss di camorra e il fratello. Il regime di carcere duro oggi è stato svuotato e ammorbidito rispetto a quello post-stragi. E lo dimostra questa lunga serie di casi, con tanto di figli concepiti. Lirio Abbate il 14 gennaio 2020 su L'Espresso. Quando il fascista Roberto Fiore era un parlamentare europeo, riuscì a far violare il regime di carcere impermeabile del 41 bis a uno dei capi della camorra, Antonio Varriale. Si presentò alle dieci di sera all’ingresso del carcere di massima sicurezza di Viterbo accompagnato da due collaboratori e chiese e ottenne di parlare con un solo detenuto. Nonostante l’ora tarda per un carcere, a Fiore vennero aperti cancelli e porte blindate e fu accompagnato - in virtù del suo ruolo di deputato europeo - davanti alla cella del boss Varriale con il quale l’europarlamentare e i due suoi collaboratori iniziarono a conversare. Il dialogo però venne interrotto quando uno degli agenti della polizia penitenziaria si rese conto, controllando i documenti dei visitatori, che una delle persone che accompagnava Fiore era il fratello del capomafia. La porta blindata della cella venne richiusa e il parlamentare con i suoi amici furono accompagnati all’uscita. Fiore non profferì parola. Il responsabile degli agenti di Viterbo ammise che vi era stato «qualche errore nell’esecuzione della visita: primo perché uno degli accompagnatori del politico era il fratello del detenuto sottoposto al regime speciale del 41 bis e secondo perché dando l’autorizzazione ad aprire il blindo è stato permesso in un certo qual modo un colloquio di famiglia, eludendo le regole che vigono per l’effettuazione dei colloqui dei detenuti sottoposti al 41 bis». Chissà quali interessi aveva Fiore a far incontrare a tarda sera il capo di un clan camorristico detenuto con suo fratello. Questa storia non è mai emersa agli onori della cronaca, ma è documentata, e dimostra come Fiore, oggi membro di Forza Nuova e fondatore del movimento della Terza posizione europea, ha avuto contatti con persone legate alla camorra. Il 41 bis viene violato anche così. Un sistema temuto dai mafiosi, tanto che Riina ha trattato con uomini dello Stato per farlo ammorbidire, oggi è diventato permeabile. Perché questo sistema soffre di ipocrisia e tutte le cose che soffrono di ipocrisia tendono a morire. Altra stranezza delle ultime settimane nel popolo dei 41 bis è il comportamento del boss della camorra Francesco Schiavone detto “Sandokan”. Con dodici ergastoli sulle spalle è rinchiuso nella sezione di massima sicurezza di Parma, ma da qualche settimana ha avanzato una strana richiesta alla direzione del carcere, quella di poter fare lo scopino. Una scelta che non si addice al rango di un capomafia come Sandokan, dal momento che questa attività di solito è ambita dai detenuti meno abbienti perché consente di guadagnare qualcosa. Ma Schiavone non ha certo bisogno di arrotondare con mestieri umili. E allora? Tutto ciò ricorda quello che è avvenuto in passato quando uno dei capi di Cosa nostra, Salvatore Biondino, chiese di poter fare lo scopino. Anche Biondino non aveva bisogno di arrotondare. Voleva fare lo scopino perché quell’attività gli consentiva di muoversi più liberamente e soprattutto di contattare detenuti chiusi lontano dalla sua cella. In sostanza, lo scopino può aggirare i rigori del 41 bis. Questa strategia all’epoca in cui stava prendendo piede la dissociazione in alcuni capimafia venne intuita dall’allora capo dell’ispettorato del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il magistrato Alfonso Sabella, che bloccò la richiesta di Biondino. Lo stesso giorno Sabella venne destituito dal ministro Roberto Castelli. Sulla gestione dei detenuti al 41 bis e delle strutture in cui si trovano, è stata dedicata prima di Natale una riunione alla Procura nazionale antimafia (Pna) alla quale hanno partecipato tutti i procuratori distrettuali e i vertici del Dap. Ne è venuto fuori un quadro devastante nella gestione delle carceri e l’assenza di qualunque linea guida su questo regime da parte dei vertici dell’amministrazione. Il capo dei pm di Messina, Maurizio de Lucia, ha evidenziato la carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate. Non c’è un numero sufficiente di celle per tutti i detenuti sottoposti al 41 bis, che non è una ulteriore pena afflittiva, ma uno strumento di tutela della collettività che evita ai boss di continuare a comandare. Oggi sono 753 i detenuti al carcere impermeabile, fra cui dieci donne, e di questi 598 sono condannati definitivamente. Vi sono una trentina di richieste di nuove applicazioni del regime, a cui non viene data esecuzione perché i reparti sono saturi. Rispetto al 41 bis del dopo stragi, oggi questo regime si è svuotato e ammorbidito. Il 41 bis, come dimostrano i fatti degli ultimi dieci anni, non serve a far collaborare i boss con la giustizia, perché la decisione di “pentirsi” arriva subito dopo l’arresto. È accaduto ancora di recente a Palermo nella serie di inchieste coordinate dal procuratore Francesco Lo Voi che ha portato in cella per mafia decine di persone e svelando gli assetti di Cosa nostra. I nuovi mafiosi appena vedono il carcere iniziano a “cantare”. E come ha evidenziato il procuratore di Napoli, Gianni Melillo, durante la riunione alla Pna, se il Dap può realisticamente sopportare appena la metà degli attuali detenuti al 41 bis, è del tutto evidente che rinuncia all’effettività dei controlli e all’effettività di “impermeabilizzare” i detenuti sottoposti a questo regime carcerario. Per Melillo «i controlli sono assolutamente saltuari e non vi è alcuna seria aspettativa dei limiti del 41 bis». In precedenza Melillo, sentito in Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra, aveva tuonato sulla gestione degli istituti di pena, sostenendo che il carcere è un colabrodo, «governato non dallo Stato ma dalle organizzazioni mafiose». Basta pensare che nelle sezioni dell’alta sicurezza sono tantissimi i telefoni cellulari che si continuano a trovare a disposizione dei detenuti, che hanno pure il controllo delle sezioni. L’ultima inchiesta della procura di Catanzaro offre uno spaccato su questo punto, denunciando che era stata addirittura formata una “Locale” (gruppo organizzato) di ’ndrangheta all’interno del carcere di Vibo Valentia ad opera di un boss, Giuseppe Accorinti, che agiva in carcere come se governasse il clan sul territorio. Ad occuparsi dei 41 bis sono gli agenti specializzati del Gom della polizia penitenziaria, i quali devono fronteggiare l’aumento dei detenuti sottoposti a questo regime con un sempre più ridotto numero di personale. Riescono ad ottenere grandi risultati grazie alla loro professionalità, riconosciuta dai magistrati. Ma sono pochi rispetto al lavoro che devono affrontare. Gli ultimi festeggiamenti nelle sezioni dei 41 bis sono stati registrati nei mesi scorsi dopo la sentenza della Grande Chambre e della Consulta, che hanno dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. Le reazioni sono state di euforia e di vittoria. Chi diceva che finalmente avevano trovato ascolto le proprie preghiere, chi sospirava di sollievo all’idea di poter accedere ai benefici, comprese le misure alternative alla detenzione e chi, in un modo o nell’altro immagina di ritornare in libertà. In questo clima quasi da stadio, si respirava aria di vittoria, come se tutto ciò fosse da sempre dovuto. I boss Filippo e Giuseppe Graviano, condannati a più ergastoli in via definitiva, hanno concepito i loro figli in carcere nonostante il 41 bis, e hanno sempre detto ai propri familiari che prima o poi sarebbero tornati insieme, fuori. E non certo da collaboratori di giustizia. Chissà cosa gli è stato promesso.

·         La Trattativa degli Onesti.

Sandra Amurri 8 maggio alle ore 20:08 su facebook. “LO MINACCERO'SOLO CON UN DITO”-DISSE POGGIANDOLO SUL GRILLETTO.” (Stanislaw Lec). Una storia vera in un Paese privo di memoria. Detestando la consueta prassi del ridurre tutto a tifo da stadio, cercherò di andare indietro con il tempo, con assoluta laicità, per offrire una lettura di ciò che la cronaca ci impone affinchè ognuno possa farsi una opinione non condizionata da posizioni vincolate ad interessi di parte. Domenica a “Non è L'Arena” l'eurodeputato Dino Giarrusso ha detto di non essere al corrente della “trattativa” intercorsa fra Nino Di Matteo e il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dell'allora Governo Giallo-Verde. Di Matteo telefona in diretta per ristabilire la realtà dei fatti accaduti nel giugno del 2018 quando il Ministro lo chiamó per dirgli che avrebbe voluto affidargli la direzione del Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaro) o, in alternativa, la direzione degli Affari Penali. Di Matteo incontra il Ministro e, concorda un giorno di tempo per decidere. Decide per la direzione del Dap. Scelta condivisibile per chi sa bene che gli Affari Penali, ruolo ricoperto da Giovanni Falcone in attesa che nascesse la sua “creatura”,la Procura Nazionale Antimafia, è divenuta una sorta di scatola vuota nella lotta alla mafia. Ma a quel punto il Ministro gli comunica che il Dap, lo aveva già affidato a Francesco Basentini, procuratore aggiunto in Basilicata che si era occupato dell'inchiesta sulle piattaforme petrolifere che vedeva coinvolto l'Eni ma che mai si era occupato di inchieste sulla mafia o vantasse qualità specifiche per ricoprire un ruolo strategico come la direzione del Dap che ,non a caso, viene remunerato al pari del Presidente della Repubblica. Comprensibilmente, Di Matteo, che non aveva chiesto nulla ma che era stato cercato dal Ministro resta di stucco e anche molto offeso da un simile comportamento e gli dice di non tenerlo più presente per alcun incarico ma il Ministro insiste nel tentativo di convincerlo ad accettare la direzione degli Affari Penali, dove sedeva e siede ancora Donatella Donati, nominata pochi mesi prima dall'ex Ministro della Giustizia Orlando. Donati, che come spiega il Ministro a Di Matteo, non voleva cacciare, ma convincere con la “moral suasion” ad accettare un altro incarico. Dunque, il Ministro stava offrendo a Di Matteo una “poltrona” occupata. E se Di Matteo l'avesse accettata e la Donati non l'avesse liberata quella poltrona cosa sarebbe accaduto? Bene. Il Ministro insiste e nel tentativo di convincere Di Matteo, per portare a casa del M5S una nomina di pregio (già promessa e disattesa, ricorderete che per raccattare voti promisero Gino Strada Ministro della Sanità, Di Matteo all'Interno, Rodotà candidato al Quirinale ecc...) gli disse: “Non c'è dissenso o mancato gradimento che tenga” in riferimento alla direzione degli Affari Penali ammettendo, di fatto, che dissenso e mancato gradimento sul suo nome vi erano stati per la direzione del Dap. Uno di quei lapsus freudiani che sfuggono al vaglio della ragione. Di Matteo, nell'esporre i fatti,nel suo intervento telefonico, contestualizza aggiungendo che molti boss dalle carceri avevano commentato la sua nomina come la fine per loro. Frase che, evidentemente, fa sobbalzare il Ministro. Va bene subire decisioni altrui, ma non sia mai che si dica che si è fatto intimorire dai mafiosi, o peggio che sia colluso. Interviene in trasmissione. Si dice esterrefatto, parla, parla ma dimentica l'essenziale: perchè dopo aver offerto la direzione del Dap a Di Matteo, ha cambiato idea nell'arco di 24 ore? Chi ha manifestato dissenso e mancato gradimento sulla sua nomina? Non era stata sicuramente farina del suo sacco a meno che non soffrisse di gravi amnesie visto che era stato lui a proporla a Di Matteo? Quanto basta affinchè all'indomani si scatenino accuse di ogni genere nei confronti di Di Matteo. “Un magistrato non si vendica in tv dopo due anni...Un magistrato non accusa il Ministro della Giustizia di collusione con la mafia...Un magistrato non partecipa a programmi di quel genere...” Ovviamente, Di Matteo non si è vendicato ma ha solo impedito che il suo nome venisse di nuovo strumentalizzato, non ha partecipato ad alcun programma e non ha accusato il Ministro di collusione con la mafia. Il Ministro chiamato a rispondere al question time aggiunge una perla:”Ho proposto a Di Matteo la direzione degli Affari Penali così potevo averlo al mio fianco in via Arenula” E me te freghi , che fortuna, avrebbe esclamato l'uomo della strada. Ma come si sa non c'è modo migliore per gli stolti che spesso sono anche stupidamente ipocriti, che guardare il dito mentre il dito indica la luna. E a queste accuse false si aggiunge lo sport preferito nel Paese dove da vivi si è scomodi e da morti ammazzati si diventa eroi in bocca a chi ,non avendo nè conoscenza della storia nè argomenti, si serve degli eroi morti, che, in quanto morti, non possono rispondere per le rime: Falcone e Borsellino non avrebbero mai detto questo in tv ecc...E qui chiedo aiuto alla memoria con una premessa: di Giovanni Falcone ne è esistito uno, di Paolo Borsellino anche, ogni paragone con i due magistrati trucidati con gli uomini delle scorte e con Francesca Morvillo moglie di Falcone è strumentale. E utilizzare i loro nomi per apparire più alti è vergognoso, oltre che patetico. Il 19 Gennaio del 1988 a capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo il CSM a Giovanni Falcone aveva preferito Antonino Meli facendo prevalere il criterio dell'anzianità su quello della continuità di quella incredibile esperienza che era il Pool Antimafia diretto da Antonino Caponnetto, che aveva accettato di andare in pensione sicuro di lasciare il testimone a Giovanni Falcone. Tempo sei mesi e gli effetti devastanti di quella nomina non tardarono a palesarsi. Meli non era colluso con la mafia, si badi bene. Paolo Borsellino, procuratore capo a Marsala, non ci sta ad assistere inerme alla disfatta di quella storia gloriosa e il 20 luglio dello stesso anno rilascia un'intervista a L'Unità (organo del PCI) e a La Repubblica sferrando un attacco a Meli e al suo operato spiegando che stava disintegrando il Poll Antimafia, che aveva polverizzato le indagini parcellizzandole...” Il CSM lo mette sotto accusa, lui viene interrogato e ribadisce parola per parola e, Giovanni Falcone- che non aveva condiviso quella scelta-non esitò a difenderlo, contrariamente a quanti, colleghi di Di Matteo abbiano fatto oggi. A Falcone quando accettò la proposta del Ministro della Giustizia, Claudio Martelli di andare a dirigere gli Affari Penali dissero di tutto: che si era venduto ai socialisti, al potere politico ecc...Stessa cosa quando, era Agli Affari Penali, andò al Maurizio Costanzo show e sul palco con lui c’era l avvocato della Rete, Alfredo Galasso che gli aveva detto: “Giovanni esci dal Palazzo” mentre Leoluca Orlando lo aveva accusato di aver tenuto i fascicoli nel cassetto. O quando partecipò al programma Samarcanda di Michele Santoro dove si difese dall'accusa che lasciando Palermo, aveva tradito per la carriera politica, spiegando che quello che ricopriva era un “posto riservato ai magistrati fuori ruolo, non ho commesso nessuna irregolarità.”. Di lui, avvocati, giornalisti e colleghi dissero di tutto e di più, lo chiamavano “il fenomeno” “il giudice sceriffo”. Stiamo parlando di programmi televisivi, non di luoghi istituzionali. I grillini e anche esponenti del Pd che, con il M5S governa, nonostante nella precedente vita sia stato accusato dal Movimento di essere il partito dei mafiosi, per accusare Di Matteo gridano allo scandalo perchè il programma di Giletti è trash (io non amo quel genere di show dove tutti urlano a discapito del confronto civile) ma dove tutti corrono perchè fa ascolti, tant'è che quella domenica sera famosa, non a caso, c'era ospite il parlamentare europeo del M5S, Dino Giarrusso.

TORNANDO AD OGGI. La questione non si può ridurre alle bizze di due ragazzotti un po' discoli che alla fine, grazie alle esortazioni del maestro di turno fanno pace, o ad un semplice equivoco nato da una incomprensione di Di Matteo. La questione è politica. Un Ministro della Giustizia, soprattutto se del M5S che ha fatto della trasparenza, del no agli inciuci, delle dirette streaming il suo slogan, ha il dovere politico di dire ai cittadini la verità. E la verità equivale a rivelare chi ha fatto pressioni su di lui affinché retrocedesse dall'affidare l'incarico a Di Matteo. Di rivelare chi ha posto il veto sul suo nome. Esattamente come accadde quando, Governo Renzi, Napolitano pose il veto sulla nomina a Ministro della Giustizia di Nicola Gratteri, fatto che fu proprio Gratteri a raccontare in un programma televisivo senza che nessuno, a quanto ci risulti, si strappò le vesti. Eh sì perchè il “no” a Di Matteo con tutto quello che ne è conseguito, 476 fra boss mafiosi e criminali liberati ha una valenza politica anche per la tenuta democratica del Paese. Certo, non li ha rimandati a casa il Ministro della Giustizia, ma i magistrati di Sorveglianza che, ricevute le richieste, le ha inviate al Dap da cui non è mai giunta alcuna risposta. E Basentini, preferito a Di Matteo al Dap ha mentito dicendo che i detenuti scarcerati erano una quarantina, di cui 4 al 41 bis, mentre ne erano 376, arrivati nel frattempo a 496. Oggi si è appreso, che oltre a chi è stato condannato per aver tenuto in ostaggio il piccolo Di Matteo, poi sciolto nell'acido, sono usciti anche due del Clan Casamonica. E tutto questo non è bastato per rimuovere seduta stante Basentini, il Ministro ha atteso che si dimettesse. E, come se non bastasse, sembrerebbe che grazie ai suoi stretti rapporti amicali con Leonardo Pucci, vicecapo di Gabinetto del Ministro, allievo di Giuseppe Conte all'Università di Firenze, per Basentini sarebbe pronta una poltroncina in una delle tante task-force. Di fronte a tutto questo il Ministro cosa fa? Annuncia che sta preparando un decreto per riportare dentro i detenuti ben sapendo, almeno ce lo auguriamo, che si tratta di una mossa propagandistica. A meno che questo non sia più uno Stato di Diritto in cui il Ministro può introdurre per legge l'obbligo dei Magistrati di Sorveglianza di rivalutare le richieste al termine dell'emergenza covid-19, cioè una sorta di revisione obbligatoria per farli tornare in carcere. Ma siamo ancora in uno Stato di Diritto, infatti, il decreto è scomparso giusto il tempo di essere stato annunciato.

In conclusione il Guardasigilli deve dimettersi e prima di farlo dovrebbe fare nomi e cognomi in nome di quella verità, che è sempre rivoluzionaria, anche per onorare quel Giovanni Falcone e quel Paolo Borsellino che tiene sempre in punta di lingua, che per la verità, la giustizia, la libertà dalla schiavitù mafiosa e di chi con la mafia convive, hanno dato la vita. Chiudo con la risposta che il boss Frank Coppola diede ad un giudice che mentre lo interrogava gli chiese :cos'è la mafia? Episodio che Giovanni Falcone riporta nel libro scritto con Marcel Padovanì Cose di Cosa Nostra nel capitolo “Messaggi e messaggeri nella mafia”. “Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare Procuratori della Repubblica” esordisce Coppola “uno è intelligentissimo, il secondo gode dell'appoggio dei partiti di governo, il terzo è cretino, ma proprio lui otterrà il posto”. Non è stata sicuramente la mafia a dire no a Di Matteo, altrimenti dovremmo pensare, cosa inverosimile e pazzesca, vista la sua storia umana e professionale che la mafia ha preferito Dino Petralia (nominato a capo del Dap) Così come il Ministro non ha di certo preferito Basentini a Di Matteo per favorire la mafia. Bonafede, come dice Salvatore Borsellino, sarà pure un galantuomo, ma di certo è un galantuomo dannoso, per sè e per il Paese.

AGGIORNAMENTO. IL DECRETO APPROVATO IERI NON FA TORNARE I DETENUTI IN CARCERE ESATTAMENTE COME HO SCRITTO QUI. PROPAGANDA. Due foto che parlano. La prima racconta il sentire comune, la complicità che non conosce rivalità fra due uomini uniti dallo stesso alto senso del dovere e del sacrificio. La seconda, con il mio maestro Francesco La Licata de La Stampa, racconta riconoscenza, rispetto e affetto.

Carlo Taormina a gamba tesa: "Bonafede comandato dalla mafia o Di Matteo buffone?" Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Sul caso Alfonso Bonafede-Nino Di Matteo, esploso ormai una settimana fa con le dichiarazioni del secondo a Non è l'arena di Massimo Giletti, ora entra a gamba tesa, anzi tesissima, l'avvocato Carlo Taormina, insomma uno che qualche nozione in termini di giustizia ce l'ha. E Taormina per riassumere e commentare la vicenda usa termini pesantissimi: "Volete sapere se Bonafede si faccia comandare dalla mafia o se Di Matteo sia un buffone - premette -? La procura di Roma, da me investita, deve decidere. Siccome nessuno parla, fatevi sentire voi e ritwittate. È per la democrazia. Grazie", conclude su Twitter l'avvocato, invocando una rapida indagine e soprattutto offrendo due possibili soluzioni al "giallo" tutt'altro che assolutorie per i due protagonisti. Volete sapere se Bonafede si faccia comandare dalla mafia o se Di Matteo sia un buffone? La procura di Roma,da me investita, deve decidere. Siccome nessuno parla, fatevi sentire voi e ritwittate. È per la democrazia.

Presunta trattativa stato-mafia, Morra accusa i 5Stelle a sua insaputa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 maggio 2020. Il presidente della Commissione antimafia dà credito alle parole del pentito Mutolo e apre un’istruttoria sulla presunta nuova trattativa. Peccato però che stavolta a trattare sarebbe un ministro 5Stelle…Su Il Dubbio lo avevamo previsto e scritto, come provocazione, all’indomani della famosa telefonata del magistrato Nino Di Matteo in diretta Tv che aveva messo in imbarazzo il ministro Alfonso Bonafede. Mettendo in fila la sequenza dei fatti che suscitarono tanto scandalo, avevamo individuato tutti gli elementi “logico teatrali”  che avrebbero riportato in scena la trattativa Stato Mafia. Ci mancava un colpo d’ala, un nuovo filone che spiazzasse e fosse capace di catturare di nuovo l’attenzione degli spettatori, una specie di “Homeland” settima stagione direbbe Massimo Bordin. Ed ecco qua che il colpo d’ala è arrivato. Il pentito Gaspare Mutolo, interpellato come se fosse un fine conoscitore dell’ordinamento penitenziario, ha detto la sua. In sostanza ha spiegato che, a suo avviso, le scarcerazioni dei boss mafiosi fanno parte della trattativa tra Stato e mafia. Una trattativa – sempre a detta sua – che in realtà non si sarebbe mai esaurita. Da fine conoscitore del Diritto penitenziario, ha spiegato che ora i boss potrebbero ritornare a delinquere. I boss, come oramai è noto, non sono 376 ma ben tre. Tutti vecchi e malati terminali. Se fosse vera l’ipotesi di trattativa, come al solito ha partorito l’ennesimo topolino. Per giunta vecchio e decrepito. Ma poco importa. Nicola Morra, grillino e fan irriducibile del teorema giudiziario della presunta trattativa, ha subito fatto sapere all’agenzia Adnkronos che la Commissione Antimafia da lui presieduta non esclude di aprire un’istruttoria sulle parole di Mutolo. Siamo giunti così all’inimmaginabile. La commissione antimafia presieduta da un grillino potrebbe indagare sulla trattativa che sarebbe in corso tra lo Stato e la mafia. Questa volta, però, il governo sotto accusa è quello dove c’è il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che avrebbe permesso la scarcerazione dei mafiosi. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella famosa circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza e i Gip che hanno accolto l’istanza per il differimento pena sono stati indipendenti e lavorato avendo come via maestra la nostra costituzione italiana. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Karl Marx disse che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Prima c’era il ministro della giustizia Giovanni Conso, fine giurista e già presidente della Corte costituzionale, finito nella macchina del fango solo per aver far fatto rispettare una sentenza della Consulta che obbligava di valutare la proroga del 41 bis caso per caso e non collettivamente. Oggi, invece, ad essere ingiustamente infangato c’è Alfonso Bonafede, avvocato e già vocalist presso diversi locali (fonte Wikipedia).

Attentato ai poteri dello Stato, il reato che Di Matteo contesta a Bonafede e che vale 7 anni di carcere. Giuseppe Gargani su Il Riformista il 9 Maggio 2020. Sullo scontro tra Di Matteo e Bonafede ministro di Giustizia vi sono commenti reticenti, non adeguati, a volte non veritieri. La stampa va sempre alla ricerca di scandali anche su questioni irrilevanti o banali, ma il diverbio e le accuse tra due personaggi rappresentanti di settori delle istituzioni tra i più delicati sono un inedito che non può non destare allarme e preoccupazione. Lo scontro è avvenuto in una trasmissione Tv scandalistica e qualunquistica, che probabilmente ha fatto raggiungere il massimo della soddisfazione al suo conduttore, che fa registrare una caduta di stile molto grave per un componente del Csm, e la inadeguatezza di un Ministro che, colto di sorpresa, non sa cosa dire a un interlocutore finora considerato idolo, protettore e garante di un giustizialismo sfrenato che ha costituito e costituisce il programma politico del grillismo. Dobbiamo rilevare che nel regolamento interno del Csm non sono previste le regole di comportamento per le comunicazioni esterne che si applicano per tutti i magistrati, perché il ruolo del singolo componente è cosi “alto”, per cui è fuori da qualunque parametro; quindi Di Matteo non aveva alcun condizionamento! Ma la questione è assai più delicata e inquietante perché Di Matteo fa una accusa precisa: alludendo alla protesta dei detenuti per mafia, e in particolare di Graviano potente boss della mafia, che avrebbero protestato duramente nel caso della sua nomina, indica (non si può dire se consapevolmente) in Bonafede la vittima e al tempo stesso l’attore di un possibile attentato ai poteri dello Stato stabilito dell’art. 338 il codice penale. L’accusa è chiara, formale e senza equivoci perché il ministro avrebbe subito il ricatto e sarebbe venuto a patti con i rappresentanti di Cosa Nostra e quindi con la mafia. Per ragioni meno valide Di Matteo che è il massimo esperto della trattativa tra lo Stato e la mafia, ha chiesto la condanna per attentato ai poteri dello Stato, e ha ottenuto dal giudice condanne pesanti anche se discutibili come sappiamo, per cui è inevitabile che la Procura della Repubblica indaghi formalmente su questa notizia. Certamente l’accusa è inspiegabilmente tardiva e tradisce un risentimento covato per tanto tempo, una vendetta a freddo che un magistrato che pretende di avere la cultura della giurisdizione non può fare: ma tant’è, la denunzia c’è ed è stata ribadita nelle varie interviste, e non c’è dubbio che nell’accusa c’è la volontà di delegittimare il ministro. Tanti hanno rispolverato un vecchio adagio che chi pretende di essere “puro” troverà sempre uno più “puro” di lui, ma in questo caso credo si possa dire, lasciando da parte la “purezza”, che al giustizialismo non c’è limite e quindi il vero campione, in questo caso, non sono il grillino Bonafede o i grillini tutti, ma è un autorevole pubblico ministero che aveva insegnato loro che i colpevoli, comunque e sempre colpevoli, meritano una definitiva punizione. La conseguenza di tutto questo è che il ministro Bonafede ha dichiarato alla Camera dei Deputati di voler fare un decreto legge per rimettere in carcere i boss o i non boss per smentire i magistrati di sorveglianza e intaccare la loro autonomia e indipendenza, e pertanto diventare più “puro” e vincere la partita. Si tratta di una dichiarazione incredibile e fuori dall’ordinamento giuridico e costituzionale: come cattolico mi sento di dire che si è fuori dalla grazia di Dio la quale può essere data solo agli uomini di buona volontà! Ma di questa questione ci occuperemo altra volta.

Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 10 maggio 2020. Com' è finita la questione tra l' ex pm Nino Di Matteo, membro del Csm, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede? Vorremmo sapere com' è finita perché non è una questione di poco conto, è una notizia di reato. Nel corso della trasmissione «Non è l' Arena» condotta da Massimo Giletti, Di Matteo ha accusato pubblicamente Bonafede di avergli negato nel 2018 un prestigioso incarico al ministero della Giustizia per via di alcune pressioni ricevute da boss mafiosi, che si sarebbero lamentati dell' eventuale nomina. Rispondendo alle accuse di Di Matteo, in un question time alla Camera, il ministro ha dichiarato: «Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo del Dap». Non è importante che i due contendenti simpatizzino per il M5S; poco ci interessano i soliti retroscena (Di Matteo manovrato da Piercamillo Davigo?); risibili sono le difese d' ufficio degli aedi dei pentastellati («si tratta solo di un equivoco»). L' equivoco è che l' accusa finirà, come sempre, nell' apoteosi del vago. Perché c' è una sola cosa su cui varrebbe la pena soffermarsi: uno dei due ha mentito. Se è stato Di Matteo il disdoro ricade anche su tutto il Csm; se ha mentito il Guardasigilli è il governo a essere seriamente nei guai. Di fronte alla verità, un' angoscia oscura ci pervade. Preferiamo fingere indifferenza.

Fabio Martini per ''La Stampa'' il 10 maggio 2020. A metà giornata il messaggio è arrivato a tutti quelli che contano, ai ministri e ai big della maggioranza: a palazzo Chigi il premier aveva fretta, molta fretta. Voleva chiudere il prima possibile sul "decreto-scarcerazioni". Certo, nel Palazzo ormai da settimane si susseguono e affastellano decisioni strategiche sui temi più diversi, ma sabato 9 maggio passerà alla "storia" per la fretta di Giuseppe Conte. Mosso da una preoccupazione non confessabile: che i giudici di sorveglianza potessero nelle prossime ore concedere i domiciliari ad altri pezzi da "novanta": boss della criminalità ma anche l' ex terrorista rosso Cesare Battisti. Trasformando così le legittime ordinanze dei giudici in una Caporetto del governo, di fatto incapace di arginare un fenomeno giuridicamente legittimo ma politicamente destabilizzante per la maggioranza. Una gran fretta che, secondo uno dei partecipanti al summit-videoconferenza della maggioranza, potrebbe essere legato anche a un altro motivo: «Domenica sera è prevista una puntata di "Non è l' Arena" di Massimo Giletti, dedicato a questi temi e vista l' audience e la "grinta" del programma, la fretta potrebbe spiegarsi anche così». Dietrologie? È un fatto che il passaparola trasmesso da palazzo Chigi ai plenipotenziari della maggioranza, in serata si è trasformato in una convocazione formale del Consiglio dei ministri per le 21 del sabato, anche se la domenica non sono previste udienze dei magistrati di sorveglianza. Ma non è stato semplice chiudere: il decreto ("osservato" a debita distanza dal Quirinale), presentava delicati profili di costituzionalità, perché è impossibile intervenire sulle ordinanze di scarcerazione, o più in generale su sentenze emesse dai giudici, per il fondamentale principio della divisione dei poteri. Ma la difficoltà più seria, emersa nella videoconferenza di maggioranza che si era svolta due giorni fa, è sull' efficacia del decreto nel suo obiettivo di bloccare le scarcerazioni "facili". Anche i giuristi di fiducia di palazzo Chigi hanno avanzato informalmente un dubbio sugli effetti cogenti del decreto: l' estrema difficoltà, in alcuni casi l' impossibilità, degli istituti di pena di garantire cure e salute ai detenuti non troveranno soluzione col decreto e dunque differimenti di pena e carcerazioni domiciliari sono destinati a proseguire, sia pure in quantità più ridotte. Ma Conte aveva fretta anche perché gli stava a cuore blindare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede alla vigilia di settimane difficili: lo attendono passaggi delicati. In particolare la mozione di sfiducia presentata da tutto il centrodestra. Mozione che il M5s, al quale Bonafede appartiene, vorrebbe discutere presto, mentre il Pd preferirebbe farla slittare e accostarla a un' altra analoga mozione: quella nei confronti del ministro dell' Economia Roberto Gualtieri. Ma al di là delle differenti tattiche di "contenimento" tra Pd e 5S, l' unica incognita è rappresentata da Italia Viva, che non ha sciolto la riserva sul voto dei renziani, che al Senato saranno decisivi, in un senso o nell' altro. Maria Elena Boschi si è espressa in modo enigmatico («Vedremo...»), ma i messaggi di Matteo Renzi rivolti a Conte sono stati più espliciti: «Ci aspettiamo una decisione risolutiva per il Paese: che il governo faccia proprio il nostro piano choc su grandi opere e investimenti». Anche se Renzi si attende che, sia pure con 9 mesi di ritardo, Conte gli riconosca il ruolo di "socio fondatore" e co-regista del governo.

Scontro Bonafede Di Matteo, emergono pesanti responsabilità penali che la magistratura non può ignorare. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Maggio 2020. La corsa per aggiudicarsi il titolo di giornale più forcaiolo d’Europa prosegue appassionantissima. Il Fatto, clamorosamente, rischia di essere superato da Repubblica. Il Corriere arranca in terza posizione ma non si dà per vinto. La parola d’ordine è la stessa per tutti: “Metteteli in prigione!”. Chi? “Chi vi pare, ma metteteli in prigione”. E chi deve spiccare l’ordine di cattura? “Il governo, il ministro!”. Il Fatto è stato colto di sorpresa da questa offensiva sanfedista. Non si aspettava una Repubblica così battagliera su posizioni ultrareazionarie. Era abituato a Calabresi, a Verdelli. Allora reagisce con rabbia e manda a combattere in prima linea il vecchio Marco Lillo, che non ha molti rivali su queste praterie. Sta organizzando la riscossa. Ha dettato la linea (credo): “Molliamo Bonafede”. Anche perché Lillo quando sente parlare di trattativa Stato-mafia non ci vede più e picchia fendenti. Stavolta, diobuono, stavolta è proprio vero: Di Matteo ha le carte giuste per incastrare il suo rivale. Altro che Dell’Utri, qui c’è l’osso. Mi ricordo di aver sentito una volta, con le mie orecchie, Lillo che accusava Berlusconi di orridi reati perché lo riteneva responsabile di non aver denunciato le minacce che avrebbe ricevuto. Beh, se Berlusconi era colpevole, ragazzi, il povero Bonafede va proprio messo al rogo. E a proposito di trattativa Stato-mafia comincia a porsi un problema molto serio. Quello dell’immobilità della magistratura. La magistratura è stata colta impreparata dall’affondo di Di Matteo contro il ministro, ma soprattutto contro i colleghi. Sono centinaia i magistrati coinvolti nello “scandalo”, per avere firmato le scarcerazioni (saranno pure legittime, ma sempre scarcerazioni sono, eh…).. Non solo giudici di sorveglianza ma moltissimi Gip, cioè quelli che sono intervenuti per mandare a casa i detenuti in attesa di giudizio (e per ristabilire una situazione di legalità largamente violata dalla pratica degli arresti facili). E ora la magistratura che fa? I colleghi sono furiosi con Di Matteo, che sta radendo al suolo quel poco di credibilità che ancora la magistratura aveva. Ma poi c’è un problema molto complicato e immediato: si interviene? I fatti sono chiarissimi. C’è una notizia di reato che è stata dichiarata in Tv e su tutti i giornali da un Pm, e cioè da Di Matteo, che è anche membro del Csm. E ci sono nomi e cognomi degli indiziati, a partire dal nome del ministro. Il reato potrebbe essere quello indicato dal codice penale agli articoli 338 e 339, e cioè attentato contro un corpo dello Stato, che è il reato che è stato usato per condannare in primo grado tutti gli imputati di Di Matteo al processo Stato-Mafia. Lasciate stare l’opinione diffusa che quello sia stato un processo farsa. Comunque è un processo. E il Pm era Di Matteo, ed evidentemente era convinto dell’esistenza di quel reato e della possibilità di applicarlo non solo a chi minaccia ma anche a chi riceve le minacce, le accoglie, cede e non denuncia. Giusto? Poi c’è la possibilità che il reato sia invece quello che nel codice penale non esiste ma che ha determinato molte condanne, e cioè “concorso esterno in associazione mafiosa”. A due esponenti politici di primo piano come il senatore Dell’Utri e l’on. Cuffaro quel reato è costato circa cinque anni trascorsi in prigione senza benefici carcerari. Più la bolla indelebile. Beh, è vero che nessuno sa in cosa consista quel reato, ma certo, se esiste, scatta nel caso che qualcuno prenda ordini dai mafiosi e blocchi la nomina e la carriera e lo stipendio di Di Matteo. Giusto? E allora, prima domanda: perché Di Matteo, che è pur sempre un Pm, non si rivolge ai suoi colleghi e chiede che si proceda contro Bonafede? È suo preciso dovere. Di più? Perché non lo ha fatto due anni fa? E se non lo ha fatto due anni fa non è già incorso, comunque, in un reato pure lui, seppur più lieve, e cioè mancata denuncia o forse favoreggiamento? Non è abbastanza grave che il più importante magistrato antimafia si dimentichi di denunciare le minacce mafiose a un ministro per amor di pace? Boh. Comunque, anche se Di Matteo non denuncia, qualche Procura dovrà pure intervenire contro il ministro e deferirlo, quantomeno al Tribunale dei ministri. L’azione penale, avevo capito io, è obbligatoria. O è obbligatoria solo se non ci sta di mezzo qualche magistrato? Salvini c’è finito a processo, è assurdo che ora non tocchi a Bonafede. Ammenochè le accuse di Di Matteo non siano del tutto fantasiose (effettivamente io devo ancora capire come sia successo che domenica sera Bonafede ha proposto a Di Matteo di fare il capo del Dap, domenica notte i mafiosi lo hanno saputo, non si sa bene da chi, hanno protestato, si son fatti intercettare, le intercettazioni sono state trascritte dagli uffici della polizia penitenziaria e portati a Bonafede, sempre nel corso della notte, il quale alla mattina presto ha deciso di rinunciare a Di Matteo…). Ma se le accuse di Di Matteo sono fantasiose vuol dire che Di Matteo ha calunniato il ministro. Non c’è anche qui un reato abbastanza pesantuccio con azione penale obbligatoria? E poi, comunque, c’è la questione dei colleghi. Di Matteo ha accusato tutti loro, o almeno alcuni (quelli di Milano) di aver ceduto al ricatto mafioso come il loro ministro e di avere scarcerato i boss. Mica roba da niente. Anche lì dovrebbe scattare l’inchiesta per concorso esterno. E poi dovrebbe scattare l’iniziativa dello stesso ministro. Il quale è titolare della richiesta al Csm di aprire un’azione disciplinare contro il magistrato che accusa i suoi colleghi di essere mafiosi. Pensate che proprio ieri il Csm ha concluso l’azione contro il magistrato Lupacchini il quale per avere garbatamente criticato Gratteri è stato degradato sul campo e spedito a mille chilometri di distanza dalla sua sede. Beh, eppure Lupacchini non aveva dato del mafioso a nessuno. Per Di Matteo che si fa? Interviene il Procuratore generale della Cassazione? Interviene il ministro? Tutti fan finta di niente? In questo momento stiamo vivendo una situazione clamorosa di illegalità ai vertici del governo e della magistratura. Possiamo andare avanti così e poi fare la multa a una vecchietta che entra dal pizzicagnolo senza mascherina? 

“Di Matteo ha mentito”, Bonafede smentisce il Pm. Ora deve denunciarlo. Piero Sansonetti su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Se uno ragionasse con la testa dei 5 Stelle, dei quali il ministro Bonafede è un alfiere, ci sarebbe poco da discutere: il ministro se ne deve andare a casa. Perché da più di una settimana su di lui pesa il sospetto, avanzato da un eroe del suo partito (e cioè il Pm Nino Di Matteo) di qualcosa che a occhio e croce può configurarsi come il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Bonafede avrebbe preso ordini dalla mafia quando ha dovuto scegliere il capo del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Uno dice: vabbè, ma è solo un sospetto. Non c’è l’ombra di una prova. Certo, certo, per molti (o forse per pochi: diciamo per i liberali) le cose stanno così. Ma non per i 5 Stelle che hanno sempre detto – facendo infuriare i garantisti – che per un politico non vale la presunzione di innocenza. Che se su di te, politico, cala un sospetto, fosse pure per una tangente, o una raccomandazione, o una tesi di laurea copiata, prima di tutto ti dimetti, poi ti difendi. Qui non stiamo parlando di una tesi di laurea copiata, parliamo della possibilità che il ministro abbia preso ordini dalla mafia. E l’accusa non viene da un pentito – della cui credibilità tutti possono dubitare, e in genere dubitano a ragione – viene da un Pm delle cui capacità professionali io personalmente ho sempre dubitato, ma che sono sempre state considerate a prova di bomba dai 5 Stelle. Non a caso lo stesso Bonafede aveva immaginato di farlo capo del Dap, sebbene Di Matteo non abbia nessuna esperienza di politica e di amministrazione carceraria, o addirittura direttore degli affari penali, ripristinando un incarico che è stato di Falcone. E allora, che ci sta a fare lì, Bonafede, ancora al suo posto? Cosa avrebbe detto e quanto avrebbe strepitato se una cosa del genere fosse successa a un esponente di Forza Italia, o del partito di Renzi, o magari pure della Lega? Mamma mia, vengono i brividi a pensarci. Invece ieri Bonafede è andato nell’aula di Montecitorio e ha balbettato un po’ di scuse, ha giurato che non aveva subito nessuna pressione nella nomina di Basentini a capo del Dap e nella bocciatura di Di Matteo, ha spiegato che le scarcerazioni dei mafiosi non le decide lui ma i giudici di sorveglianza e i Gip. E poi ha rivendicato un suo decreto (quello richiesto a gran voce e ottenuto da Repubblica) che prevede che tutti quelli che sono usciti siano rispediti dentro il carcere. Con questo giurando che lui, anche se non si dimette, è e resta il più manettaro di tutti i manettari del mondo. Anche qui bisognerebbe capire bene come mai quando succedono queste cose ognuno ragiona come gli pare a seconda di chi sono le persone coinvolte. Prendiamo il caso della trattativa Stato-mafia (di quella che ci sarebbe stata nel 92-93 e per la quale si celebra un processo, per quanto strampalato). Di Matteo sostiene che i colpevoli di quella trattativa sono Dell’Utri e forse anche Berlusconi. E la prova che la trattativa ci fu consisterebbe nel fatto che furono fatti uscire dal 41 bis circa 300 detenuti. In quel caso la decisione la prese la Corte Costituzionale, e la eseguì il ministro Conso (centrosinistra). Come poteva essere la posta di una trattativa svolta, evidentemente, l’anno successivo da Dell’Utri e Berlusconi (che andò al governo solo nella primavera del 94 e che non aveva nessuna possibilità di influenzare la revoca del 41 bis)? È probabile che a Di Matteo non sia chiarissimo chi ha il potere di scarcerare e chi ha il potere di far uscire dal 41 bis. Ma il problema resta. Anche perché la probabilità che ci sia stata una trattativa Stato-mafia nel 92-93 non è superiore alla possibilità che ci sia stata nel 2018 con protagonista Bonafede. Se fosse vero quel che dice Di Matteo, di trattativa Stato-mafia si tratterebbe. Qual è il problema vero? Torniamo a ragionare con la testa nostra e quindi ad escludere la richiesta di dimissioni di Bonafede, che avrebbe un senso solo se avanzata doverosamente dai 5 Stelle. Resta un’altra questione, ineludibile. Se, come appare piuttosto evidente, Bonafede non ha colpe, è altrettanto evidente che le colpe le ha Di Matteo. Che è un Pm e con le accuse al ministro (e prima ancora ai suoi colleghi del tribunale di sorveglianza di Milano) ha violato tutte le norme di comportamento che un magistrato deve rispettare. (Pensate che un procuratore generale è stato degradato sul campo dal Csm, sollecitato dal ministro, per avere criticato Gratteri). Il ministro non può sfuggire a questo suo dovere: promuovere una indagine presso il Csm per accertare se non è il caso di condurre un’azione disciplinare contro Di Matteo. Non può sottrarsi. Se si sottraesse creerebbe una situazione di totale illegalità. Oppure ammetterebbe implicitamente di essere colpevole. P.S. Ieri sera i 5 Stelle hanno diffuso la seguente nota stampa: “Bonafede anche oggi, in aula, è stato chiarissimo: nessuna interferenza diretta o indiretta nella nomina del capo del Dap, nel 2018. Questa è la verità, e sono inaccettabili attacchi o illazioni da parte di chi è ben lungi dal poter vantare la nostra stessa trasparenza e il nostro impegno nella lotta alla mafia”. Chissà se chi ha scritto la nota si è accorto della ferocia con la quale stava attaccando Di Matteo (l’autore delle illazioni non può che essere lui) accusato, magari anche a ragione, di essere un incompetente nella lotta alla mafia…

Quando Bonafede chiedeva le dimissioni di un ministro. Maurizio Lupi su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Questo che pubblichiamo è l’intervento pronunciato dall’on. Maurizio Lupi ieri alla Camera dopo l’intervento del ministro Bonafede. Lupi nel 2015 si dimise da ministro perché la magistratura mise sotto inchiesta alcuni dirigenti del suo ministero. Riconosciuti successivamente innocenti. Bonafede si impegnò molto nella richiesta di dimissioni del ministro Lupi, anche se lui non era stato inquisito. Signor Ministro, la guardavo mentre informava il Parlamento e devo dire che il primo mio sentimento è stato quello di una grande solidarietà umana, non politica, perché la domanda che mi è venuta, guardandola negli occhi – e anche adesso la sto guardando negli occhi – è: come si sarà sentito, lei, sbattuto in prima pagina nella gogna mediatica, già condannato? Come ha passato le notti, insonni per l’ingiustizia che stava subendo? Lei si ritiene il campione del giustizialismo; come è possibile che tutto questo accada? Come è possibile che tutto questo sia accaduto? E non a caso lei ha reagito con forza, dicendo: menzogne e malafede, illazioni e suggestioni inaccettabili, limite e onorabilità, “cosi è se vi pare”. Guardi, nei due minuti, le faccio la declinazione del “così è se vi pare”, perché poi possiamo trarre tutti un insegnamento… Così è se vi pare: Di Matteo dice, in una trasmissione televisiva, che lei non l’ha nominato a capo del Dap perché ha ricevuto pressioni. Lei si scandalizza e lui ribadisce, in un’intervista sui giornali, sui quotidiani, che non l’ha nominato per questo: così è se vi pare? Il 7 e l’8 marzo c’è una rivolta nelle carceri, 13 morti, 376 mafiosi sono scarcerati, uno su tre tra l’altro ancora in attesa di giudizio: così è se vi pare? Lei ha decapitato, dopo averla difesa qui davanti a noi, la struttura del Dap, mandando a casa Basentini, che aveva nominato: così è se vi pare? Le leggo quello che diceva cinque anni fa, quando, in una trasmissione televisiva, lei chiedeva le dimissioni di un Ministro: “Non capisco perché non si sia ancora dimesso, è scandaloso, dal mio punto di vista, e non per le responsabilità penali, ma per le responsabilità politiche. Si deve dimettere perché in qualsiasi altro Paese civile del mondo un Ministro si dimette se la struttura centrale del suo Ministero – quella che lui aveva difeso a spada tratta, quella che aveva nominato – si rende responsabile di fatti che non sono condivisi”. Era il deputato Bonafede che parlava: è il deputato Bonafede o è il Ministro della Giustizia Bonafede che parla oggi? Sono accaduti o non sono accaduti quei fatti di cui dicevo: i 13 morti per le rivolte nelle carceri? Sono stati scarcerati o non sono stati scarcerati molti detenuti? Ha chiesto e ha ottenuto le dimissioni del capo del Dap che lei aveva nominato? Allora, guardi, io la conclusione che le voglio proporre è questa qui: il garantismo non è un’opinione. Lei ha fatto grande sfoggio mediatico, in tutti questi cinque anni – e addirittura su questo è arrivato a diventare ministro della Giustizia – di principi duri e puri di trasparenza, fomentando campagne mediatiche di gogna pubblica. Oggi si ritrova nella stessa fomentazione. Si ricordi, questo è un insegnamento, per lei e per tutti noi che siamo qui a fare politica: siamo tutti più ligi alle garanzie costituzionali, piuttosto che a presupposti e principi. Leo Longanesi ci ha lasciato un grande insegnamento: “Attenzione ad appoggiarsi troppo sui principi, perché poi si piegano”. Così è, se vi pare. 

Lupi e i suoi fratelli. Vittime innocenti dei tagliagole a 5 stelle. Tiziana Maiolo su Il Garantista l'8 Novembre 2019. Chissà se, quel 19 ottobre 1995 in cui il ministro Filippo Mancuso fu crocifisso nell’aula di Palazzo Madama, il giovane Maurizio Lupi, consigliere comunale a Milano, ha percepito il fatto come un punto di non ritorno e se ha immaginato che esattamente vent’anni dopo sarebbe toccata a lui una simile sorte. E soprattutto se aveva intuito, essendo stato lui eletto in un consiglio comunale risorto sulle macerie di una giunta sterminata da Tangentopoli, che da quel momento in avanti, o si procedeva alla ricostruzione, proprio come quella post-bellica, dello Stato di diritto, o non si sarebbero più contate le vittime del giustizialismo. Anche tra i componenti di un governo. Non ci sono molti modi per cacciare un ministro, nel nostro Paese. Non lo può fare, al contrario di quanto accade in paesi come la Spagna e l’Inghilterra, il presidente del consiglio, né la Costituzione ha previsto il caso della sfiducia individuale. Pure nel 1995, sulla base di un regolamento della Camera (che in seguito la Corte costituzionale dichiarò applicabile anche al Senato), il Pds, che costituiva la maggioranza di sostegno al governo Dini, riuscì a impallinare un grande ministro di Giustizia per “eccesso di garantismo”: il guardasigilli Mancuso aveva osato mandare gli ispettori all’intoccabile pool di Milano e aveva criticato gli incriticabili “professionisti dell’antimafia”. Quello del ministro Mancuso resterà l’unico caso di sfiducia individuale andato in porto. Anche se, da quel momento in avanti, e soprattutto dopo l’entrata in Parlamento del Movimento Cinquestelle, sarà tutta una fioritura di mozioni di sfiducia individuale, in gran parte legate a inchieste giudiziarie, anche se presentate nei confronti di ministri non indagati. Secondo la Banca dati della Camera, dal 1990 al 2017 sono state presentate 58 mozioni di sfiducia individuale, il solo partito di Grillo nella quindicesima legislatura ne ha protocollate 25. Sono armi spuntate, anche perché sono in genere strumenti usati dai partiti di opposizione, che non hanno i numeri per farle votare. Ma c’è un modo molto più subdolo ed efficace da parte degli stessi governi e delle maggioranze per eliminare un ministro quando un’ombra vada a oscurare la sua reputazione, ed è quello di accompagnarlo alle dimissioni “spontanee”. Il caso di Maurizio Lupi è esemplare, ma non è stato il solo, negli anni dei governi di sinistra. Apripista è stata la ministra del governo Letta Josefa Idem nel 2013, per una violazione nel pagamento dell’Ici. Un peccato veniale, la cui penitenza è stata scontata, prima ancora che con l’uscita della ministra dal governo, con una vera lapidazione mediatica ben orchestrata in particolare dal Fatto quotidiano. Seguirà un anno dopo, nel 2014, il caso di Nunzia De Girolamo, ministro dell’Agricoltura dello stesso governo, che verrà intercettata, quindi sbattuta sui giornali senza essere neppure indagata. Cosa che avverrà in un secondo momento. Ma intanto anche lei verrà accompagnata “spontaneamente” alla porta, salvo verificare nel 2017 di esser stata completamente prosciolta. Siamo arrivati al governo Renzi, quando assistiamo al consueto balletto del circo mediatico-giudiziario che coinvolge prima Maurizio Lupi e poi Federica Guidi, mai indagati in due inchieste (Grandi Opere e Tempa rossa) che si sono poi sciolte come bolle di sapone. Anche Matteo Renzi si comporterà come i suoi predecessori, a partire da quel presidente Dini che accompagnò alla porta il proprio ministro Guardasigilli. Non hai il potere di revoca? Lo sostituisci con le dimissioni “spontanee”. Basta che tu presidente del Consiglio lasci ai tuoi parlamentari la libertà di voto a una qualunque mozione di sfiducia individuale che qualche grillino tagliagole avrà sicuramente presentato, ben imbeccato dal suo quotidiano di partito. A quel punto il malcapitato ministro non potrà che dimettersi. Non c’è scampo, come ha ben verificato Matteo Salvini, quando ha cercato di difendere i diritti degli uomini di governo del suo partito. La storia si ripete, da quel 19 ottobre 1995. 

Renzi: “Lupi infangato, riscoprite il garantismo”. Redazione su Il Garantista il 7 Novembre 2019. A causa di quell’inchiesta, quattro anni fa, Maurizio Lupi si dimise da ministro tra gli strali delle opposizioni. Anche se non era indagato. E a o poco o nulla serve oggi, scoprire che l’indagine stralcio sulle Grandi Opere che lo aveva lambito tra mille titoloni è stata archiviata a Firenze, senza le scuse di nessuno. In primis quelle di Di Battista, che gli urlò in commissione: «Questi sono i suoi ultimi giorni!». «Mi dimisi il 15 marzo 2015 – è l’amaro sfogo che ha affidato ieri a social Maurizio Lupi – pur non essendo mai stato indagato, per le polemiche suscitate da quell’inchiesta e per gli attacchi alla mia famiglia. Oggi, a distanza di 4 anni, continuano le archiviazioni». «Ero certo, come lo sono adesso – ha proseguito il deputato di Noi con l’Italia – della correttezza del lavoro dei miei collaboratori al ministero e non ho mai contestato la legittimità delle indagini ma sempre il processo mediatico che ne è seguito e la sua strumentalizzazione politica. Non rimpiango di essermi dimesso perché con quel gesto volevo testimoniare la mia concezione di politica e di governo. Mi domando solo: chi ripagherà dei giorni terribili passati dalle persone coinvolte, le carriere rovinate, la sofferenza dei familiari?». «Maurizio Lupi – ha scritto su Facebook Matteo Renzi – era il ministro delle Infrastrutture nel mio Governo. I giornali pubblicarono sue intercettazioni e in molti gridarono allo scandalo. Lupi era totalmente estraneo alla vicenda ma decise di dimettersi lo stesso anche per assicurare tranquillità alla sua famiglia che venne gettata nel tritacarne mediatico. Dissi pubblicamente che ero fiero di aver lavorato con Lupi, che gli esprimevo la mia vicinanza e che il tempo gli avrebbe reso giustizia. Oggi scopriamo che l’indagine nella quale Lupi venne intercettato, indagine aperta allora dalla procura di Firenze, finisce con l’archiviazione». «Non troverete questa notizia – ha continuato il leader di Italia Viva – in evidenza nei gazzettini del giustizialismo italiano, nei talk show, sui social, no. Tutti fingono di aver dimenticato l’onda di piena dell’odio sui social, le sentenze su Twitter, le aggressioni verbali. Tutti oggi fischiettano facendo finta di nulla davanti all’ennesimo scandalo che scandalo non era. A distanza di quattro anni rinnovo a Maurizio la mia stima e la mia amicizia. E spero che questa vicenda aiuti tutti a riscoprire il senso della parola garantismo». «Ricevette insulti, lui e la sua famiglia furono esposti al pubblico ludibrio: titoloni e attacchi scomposti. Oggi veniamo a sapere che quell’inchiesta è stata archiviata. In tanti gli dovrebbero delle scuse, che non arriveranno», chiosa amara Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera.

Bonafede e Di Matteo dovrebbero dimettersi entrambi. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 10 Maggio 2020. Un membro del Csm, a un’ora pericolosamente tarda della sera, interviene in una trasmissione di quelle che fanno, e seguono, coloro che evidentemente non hanno mai visto Quinto Potere, altrimenti si vergognerebbero. Il magistrato, che non è un Pm in servizio, racconta di quando il ministro in carica, allora alleato di Salvini, dopo avergli offerto un posto, s’era rimangiato l’offerta nel giro di ventiquattro ore. Fin qui, a parte la stravaganza di un membro di organo di rilevanza costituzionale che telefona a una trasmissione trash, niente di che. Niente di che da queste parti, ovviamente, avvezzi come siamo al fatto che in nome della notorietà – vera o usurpata alla luce dei risultati non conta – un Pm possa essere nominato al vertice del Dap anche senza avere alcuna esperienza nel campo dell’esecuzione penale, e neppure nell’amministrazione, ma solo in nome della glorificazione del 41 bis. Come se la pena, e anche i diritti delle persone private della libertà, di cui la Costituzione parla agli articoli 13 e 27, siano cose da trattare in maniera demagogica proprio come fanno le tricoteuse manettare star del giornalismo italiano da anni. Comunque il racconto si risolve nella cronistoria di una nomina sfumata al miglio finale, insomma di uno che era stato scartato quasi al traguardo. Il che rende dal punto di vista umano più che giustificato anche se un po’ tardivo il suo, diciamo così, disappunto, ma non certo d’interesse pubblico la cosa. Se non che nel racconto si accosta la circostanza che l’eventuale nomina sarebbe stata accolta con terrore all’interno delle carceri, tanto che le puntuali intercettazioni delle reazioni dei detenuti, che evidentemente vivono registrati h 24 come succedeva in The Truman Show, sarebbero state talmente preoccupate che uno, napoletano, avrebbe detto che in tale sventurata ipotesi bisognava “fare l’ammuina”. Notizia che in trasmissione viene commentata da Giletti, sempre più immedesimato nel ruolo a suo tempo interpretato da Peter Finch, come una dichiarazione di guerra. Ora, accostare due fatti, anche senza dire che l’uno, la mancata nomina, dipende dall’altro, cioè la reazione nelle carceri, per trarne la conclusione che Di Matteo non è assurto al vertice del Dap perché il ministro ha ceduto alle “pressioni dei boss”, dovrebbe far ridere tutta l’Italia, tanto è sconclusionata la logica che sorregge l’ipotesi, ma da noi la logica per certi media player è optional, mentre l’insinuazione e il sospetto sono l’anticamera della verità. Ed ecco quindi che per il Peter Finch de noantri è questione di un attimo: guardando direttamente in macchina prorompe in una fatwa antimafia il cui succo è che il ministro deve spiegare perché ha commesso come minimo il delitto di lesa maestà. Accusato di essere messo quasi allo stesso piano di un Andreotti qualsiasi e svegliato da qualche insonne funzionario, il ministro in carica fa quello che sembra normale solo dalle parti nostre: telefona direttamente in trasmissione. Il problema è che poi non fa quello che un ministro dovrebbe fare, cioè dire in primo luogo che un membro togato del Csm non può operare in quel modo e in secondo luogo che la decisione di chi nominare o non nominare a capo del Dap è una faccenda politica, che gli compete e che non deve renderne conto né al diretto interessato né a un imbonitore televisivo. No, con eloquio al solito incerto, e l’aria di chi deve rendere conto, il ministro tenta di spiegare che evidentemente c’è stato un fraintendimento. Come fosse alla Esselunga spiega che aveva proposto due prodotti a scelta, poi aveva pensato che uno dei due andasse meglio, e arriva persino a tirare in ballo il povero Falcone, dicendo che la seconda carica gli era appartenuta e quindi era prestigiosa. Insomma, si assiste alla scena di un ministro che balbetta giustificazioni mentre Giletti lo incalza ribadendo che non si può trattare così, come una persona qualsiasi, il Di Matteo di turno. Nessuno, sia detto per inciso, nello studio quella sera, e su tutti i media sui quali rimbalza la notizia nei giorni successivi, nota che una delle frasi intercettate significa testualmente il contrario del catastrofico e minaccioso intento che gli viene attribuito. Se invece di un cattivo imitatore di Peter Finch in studio ci fosse stato Eduardo, avrebbe infatti spiegato agli astanti che l’ordine “facite l’ammuina”, si narra fosse in voga nella Regia Marina Borbonica in occasione delle visite sulle navi dei vertici militari, quando, per farsi vedere operosi, si ordinava all’equipaggio che “tutti quelli che stanno a basso vanno in coppa, e quelli in coppa vanno abbasso, quelli che stanno a dritta vanno a manca e quelli a manca vanno dritta; passando tutti dallo stesso pertuso”. Insomma, significa facciamo finta o al massimo confusione. Purtroppo sul set di Quinto Potere non si brilla né per la conoscenza delle regole istituzionali né per quelle della storia e la cosa, invece di finire a sberleffi diventa un caso politico di primo piano. E come al solito la politica, quando si accosta a questi temi, dà il peggio di se. Il ministro, che campa e fa fortuna politica strizzando l’occhio alle tricoteuse di cui sopra, sa anche che la strada per la ghigliottina è stata percorsa alla fine proprio dai giacobini che l’avevano aperta, e dunque, inizialmente, spalleggiato dalle più lucide menti del giornalismo forcaiolo, caldeggia la teoria dell’equivoco garantendo che lui – che di leggi forcaiole ne ha licenziate un pacco e una sporta – è un manettaro doc che non può essere sospettato di collusione. Ma poi cambia linea. Allora va in Parlamento e lì, finalmente non parlando a braccio ma leggendo quello che vivaddio gli hanno scritto i funzionari del ministero, spiega l’ovvio: la decisione è politica e la politica non ne deve renderne conto ai Pm o alle Procure. Lo dice perché glielo spiegano e glielo scrivono, ma non lo pensa, visto che negli stessi minuti proclama urbi et orbi che farà una legge ad personam per riportare in cella quelli che alcuni giudici hanno liberato in tempi di Covid poiché gravemente malati. Cioè fa quello che aveva fatto nel 1991 proprio Andreotti assieme a Martelli – che infatti se ne gloria e glielo suggerisce in diretta – e che all’epoca fece venire la pelle d’oca a tutti quelli che conoscono la separazione dei poteri. Insomma, per rimontare la china fa quello che molti procuratori pretendono che faccia, come al solito, così come aveva appena finito di fare anche prima della trasmissione imponendo che per decidere una istanza magari fondata sull’urgenza i magistrati di sorveglianza attendano giorni e giorni il parere delle procure Antimafia. Ora, visto che questa è la storia, mentre si comprende il compiacimento assai poco cristiano di chi gongola nell’assistere allo spettacolo degli adoratori del sospetto vittime della loro stessa perversione – scena non così originale come dimostra la storia della ghigliottina di cui sopra – davvero non si comprende perché uno dotato di buon senso e di dignità dovrebbe, anche solo per un giorno, smettere di chiedere le dimissioni di questo ministro. Certo, il rischio di essere accostati a quelli come Salvini e la Meloni, che lo sostengono con argomenti che ti fanno venire voglia di scappare alle Tonga, per quanto sono intrisi della stessa logica forcaiola, è alto; ma far diventare Bonafede, anche suo malgrado, un campione di indipendenza della politica non è uno sbaglio: è un imbroglio. Un imbroglio che non a caso fa il Pd che anche in questa vicenda non ha perso l’occasione di trattare le cose di giustizia con doppie verità. E non si dica che così si finisce dalle parti di Di Matteo, che è uno sbaglio ancora più grosso: basta chiarire che le dimissioni le dovrebbe dare pure lui ma dal Csm. Un brutto spettacolo, ovunque lo si guardi, viene quasi la voglia di affacciarsi alla finestra e gridare come Peter Finch, quello vero, “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più”. Ma è solo il pensiero di un momento: il demagogo lasciamolo fare al Giletti di turno.

Carlo Nordio sul caso Di Matteo-Bonafede: "Il Csm non ha nulla da dire?". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Sul caso Alfonso Bonafede-Nino Di Matteo, in un intervento sul Messaggero, interviene Carlo Nordio. E nel mirino di quest'ultimo, che pur premette di non aver mai lesinato critiche al ministro della Giustizia grillino, ci finiscono soprattutto Di Matteo e la magistratura. Riferendosi alla denuncia del pm della scorsa domenica a Non è l'arena, Nordio scrive: "Ha aspettato due anni, per lamentarsene in un intervento televisivo. Una scelta timidamente criticata dall'Anm, e sulla quale il Csm pare non abbia niente da dire", punta il dito. Il punto è che, rimarca l'ex magistrato, "se emergesse che la decisione finale (di Bonafede sul Dap, ndr) è stata frutto di un'imposizione, o peggio di un reato, la vicenda assumerebbe caratteri penali, e Di Matteo avrebbe dovuto essere il primo a denunciarli". E in tutto ciò, mette in evidenza Nordio, Csm e magistratura tacciono. "Incidentalmente ricordiamo che si tratta di un Csm falcidiato dall'inchiesta sul giudice Palamara, che ha consentito l'elezione suppletiva proprio di Di Matteo, inchiesta che, dopo le sapienti divulgazioni di intercettazioni e pettegolezzi, oggi sembra tranquillamente assopita", conclude critico Carlo Nordio.  

Carlo Nordio per "Il Messaggero" il 10 maggio 2020. Non sappiamo quale sarà la sorte del Ministro della Giustizia dopo la mozione di sfiducia presentata dall' opposizione. Poiché la politica segue criteri di pura utilità, tutto dipenderà dalla convenienza che avrà il governo a difenderlo, o a mollarlo. Noi abbiamo quasi sempre criticato le scelte di Bonafede, talvolta in modo severo, come nel caso delle intercettazioni, e talvolta in modo ruvido, come per l' obbrobrio della prescrizione. Ma adesso atteniamoci alle tre accuse principali: 1) la polemica con Di Matteo; 2) la scarcerazione dei mafiosi; 3) la gestione delle carceri durante l' epidemia. Vediamoli. Primo. Durante una trasmissione tv l' ex pm Nino Di Matteo ha telefonato raccontando che due anni fa Bonafede gli aveva offerto il ruolo di capo del Dipartimento dell' Amministrazione Penitenziaria, ma aveva cambiato idea dopo una serie di proteste di detenuti mafiosi. Di Matteo, ovviamente, non ha sostenuto che Bonafede vi fosse stato costretto o indotto, ma nel contesto del dibattito televisivo si capiva benissimo che quello era il suo sospetto. Tant' è che il Ministro è intervenuto subito, dicendosi esterrefatto e indignato. A questo punto un po' tutti hanno chiesto chiarimenti a Bonafede. In realtà, le cose sono un po' meno scontate. È Di Matteo che deve spiegare il significato del suo intervento e delle sue implicazioni: Onus probandi, incumbit ei qui dicit. Se poi questa prova sarà fornita, sarà Bonafede a doversi giustificare: In excipiendo, reus fit actor. Scusate il latinorum, ma trattandosi di un conflitto tra un membro del Csm e il Ministro della Giustizia un po' di tecnica ci sta. Il fatto è che Di Matteo, sin dal momento in cui aveva manifestato la disponibilità a riflettere su quell' incarico, e poi addirittura ad accettarlo, si era volontariamente sottomesso alle rigorose regole della politica. Perché il Dap è un ufficio di alta amministrazione sottoposto al ministro. Il suo capo guadagna il triplo dei suoi colleghi magistrati, viene posto fuori ruolo e diventa il braccio secolare del Guardasigilli, di cui deve eseguire le direttive perché è quest' ultimo che se ne assume la responsabilità politica. Si tratta di un incarico fiduciario, conferito secondo criteri insindacabili dagli eventuali aspiranti, ne abbiano o meno fatto richiesta. Se poi emergesse che la decisione finale è stata frutto di un' imposizione, o peggio di un reato, la vicenda assumerebbe caratteri penali, e, nel caso di specie, Di Matteo avrebbe dovuto essere il primo a denunciarli. Invece ha aspettato due anni, per lamentarsene in un intervento televisivo. Una scelta timidamente criticata dall' Anm, e sulla quale il Csm pare non abbia niente da dire. Incidentalmente ricordiamo che si tratta di un Csm falcidiato dall' inchiesta sul giudice Palamara, che ha consentito l' elezione suppletiva proprio di Di Matteo, inchiesta che, dopo le sapienti divulgazioni di intercettazioni e pettegolezzi, oggi sembra tranquillamente assopita. Secondo, le scarcerazioni. Il ministro si è giustificato in Parlamento per spiegare che queste vengono disposte dai giudici dai quali i detenuti dipendono, e non dal Dap e tantomeno da lui. In effetti, i giudici non sono vincolati nemmeno dai decreti sul Coronavirus, che riguardano tutt' altra materia: hanno solo applicato la legge esistente, che disciplina i casi di incompatibilità tra il regime carcerario e la salute del detenuto, magari largheggiando di manica vista l' eccezionalità dell' emergenza e la paura del contagio. Ora il governo pare voglia rimediare con un decreto. Temo che - per ragioni tecniche - avrà grosse difficoltà: e infatti questo decreto, più volte promesso da Bonafede è di la da venire. Terzo. La gestione carceraria. Qui il Ministro reca effettivamente una evidente responsabilità, perché non ha saputo evitare le conseguenze del prevedibile ed enorme timore creato dal virus tra i detenuti. Avrebbe cioè potuto e dovuto predisporre infermerie e settori che ne garantissero l' incolumità, senza dover ricorrere alle scarcerazioni. E comunque, vista la nostra consolidata situazione carceraria, sarebbe stata un' impresa quasi eroica, forse superiore alla tempra di Bonafede. In conclusione, questa vicenda esprime una serie di paradossi sintomatici della confusione che regna non solo nel governo, ma più in generale nella politica e nei rapporti tra questa e la magistratura. Abbiamo un membro del Csm, che attacca in modo improprio chi fino a ieri lo osannava e quasi lo voleva al Quirinale. Abbiamo un Ministro, per anni accusato di integralismo manettaro da quella stessa opposizione che oggi gli rimprovera un eccesso di generosità, o addirittura di garantismo. Abbiamo un Movimento ormai diviso tra i sostenitori dell' uno e dell' altro. Abbiamo chi, non sapendo che pesci pigliare, dà tutta la colpa una trasmissione tv. E la Rivoluzione giustizialista, che ha divorato i suoi figli, diventa uno spettacolo previdibilissimo per chiunque abbia assistito sin dall' inizio al trionfo di una cultura sbagliata che ha contaminato il Paese. Comunque la si metta, questa pagina che non fa onore alle istituzioni, poteva essere gestita dal Guardasigilli con ben altra sapienza politica.

LA TRATTATIVA CON LO PSICHIATRA. Filippo Facci su Libero, 6 maggio 2020. Che bello che non sia un giornalaccio di destra a chiederselo, per una volta: «Cosa sarebbe successo, in era Berlusconi?» Se l'è chiesto Massimo Giletti, il conduttore che domenica sera ha visto materializzarsi il surreale scontro tra grillini giustizialisti. In pratica il magistrato Di Matteo ha accusato il Guardasigilli Bonafede di non averlo nominato capo delle carceri nel giugno 2018 dopo averglielo chiaramente proposto: questo proprio mentre si registrava una reazione furibonda dei peggiori boss mafiosi in caso di cotanta nomina. L'accusa a Bonafede non è stata esplicitata, ma l'hanno intesa tutti, anche Giletti che l'ha tradotta chiaramente per il pubblico: Bonafede in pratica avrebbe ceduto a una «trattativa» ai danni proprio del pm che il processo sulla trattativa (l'altra, quella inverosimile sul '92-93) aveva in parte istruito. Assurdo. Ignobile. Aggettivi a scelta. Come sia andata veramente forse lo sanno solo Bonafede e Di Matteo, ma è difficile che in due anni se lo siano dimenticato: anche perché ne scrissero Repubblica del 23 giugno 2018 e Il Fatto del 27. Non ci fosse il coronavirus a occupare ogni giorno mezzo giornale, la questione sarebbe esplosa su tutte le prime pagine: del resto c'è da capire se abbia mentito uno dei magistrati più rinomati d'Italia (non da noi) oppure un Guardasigilli che di passaggio è anche capo della delegazione Cinque Stelle al governo. Il quale, su Facebook, ha poi scritto che l'idea di un condizionamento mafioso «è tanto infamante quanto infondata e assurda». Il problema è che l'idea l'ha formulata Di Matteo, mica Salvini. Fortuna che è intervenuto il cane da guardia del giustizialismo per salvare capra e carceri. Il Fatto, ieri, raccontava «La vera storia» e ha lasciato agli altri quella falsa. Un lungo articolo che però, detto senza acrimonia, non rivelava nulla. Dunque? Dunque eccoti intervenire Marco Travaglio col suo gioco dei tre verbali. Premesso che «Noi non eravamo presenti ai tre colloqui» (strano) e premesso che «non ne conosciamo i particolari», Travaglio è passato a scrivere come se fosse stato presente e come se ne avesse conosciuto i particolari. Ed ecco svelato l'arcano: si trattò di un «colossale equivoco». Niente di che: i colossali equivoci si aggirano normalmente per i palazzi del potere e, se spingono, passano pure dalle porte. Cioè: secondo Travaglio, Bonafede chiamò Di Matteo e gli propose l'ex Direzione affari penali o, in subordine, il Dap, Dipartimento affari penitenziari. Già messa così fa ridere. Equivale a chiedere: scusi, le interessa un ruolo da sottosegretario? Male che vada, può sempre ripiegare su un ruolo da ministro. Comunque Di Matteo si prese 48 ore per pensarci. Invece Travaglio, quello che non c'era, e non conosce i particolari, spiega che Di Matteo incontrò ancora Bonafede e diede un ok di massima per gli Affari penali: «Questa almeno è l’impressione del ministro», scrive Travaglio, che non c'era, non conosce i particolari ma legge nelle menti e nelle impressioni dei ministri. Sta di fatto che, passate le 48 ore, Di Matteo rincontra Bonafede e gli dice che sceglie il Dap e che degli Affari Penali non gliene frega niente. Bonafede però insiste per gli Affari penali, per la semplice ragione che il Dap l'ha già affidato a un altro. Una trattativa comunque c'è stata di sicuro, nel cranio di Bonafede: quella tra la corteccia cerebrale e il resto del suo cervello. Ha vinto quest'ultimo per ritiro della prima.

Stato-Mafia, il pentito Mutolo: "Trattativa ancora in corso, Di Matteo avrebbe potuto fare danni". Altre ombre su Bonafede. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. La nomina di Antonino Di Matteo a capo del Dap avrebbe potuto avere delle ripercussioni sulla trattativa tra Stato e mafia, tuttora in corso. Ne è convinto Gaspare Mutolo, il pentito di mafia che è stato uno dei primi collaboratori di giustizia ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da una località segreta l’ex picciotto di Cosa nostra ha parlato con l’Adnkronos dello scontro in atto tra Alfonso Bonafede e il consigliere del Csm. “Di Matteo ha fatto moltissimo contro la mafia e al Dap avrebbe potuto fare danni ai boss mafiosi - è la versione di Mutolo - è un personaggio competente e giustamente era stato fatto il suo nome al Dap nel 2018”. Per il pentito Di Matteo è “l’incarnazione di Falcone. E infatti in questi anni gli hanno fatto passare un po’ di guai, sia i politici che alcuni suoi colleghi. Non fu scelto al Dap perché sono delle ripercussioni della famosa trattativa - è la convinzione di Mutolo - sia Di Matteo che Ingroia sono stati quelli che hanno interrogato l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano”.  

Salvo Palazzolo per ''la Repubblica'' il 9 maggio 2020. «I boss di Palermo hanno di sicuro festeggiato per quelle scarcerazioni - sussurra al telefono - so come ragionano, sono stato anche io un mafioso. Hanno festeggiato per la disorganizzazione dell' antimafia». Pasquale Di Filippo, ex killer di Cosa nostra oggi collaboratore di giustizia, è turbato: «Ho letto su Repubblica che è andato ai domiciliari anche Nino Sacco, componente del triumvirato che reggeva il mandamento di Brancaccio. Adesso, ho paura. Perché io ho raccontato tanti segreti di quel capomafia, ho svelato che era uno dei fidati di Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina. Sacco è legatissimo ai Corleonesi, che mi hanno condannato a morte. E quella sentenza non è stata mai revocata». È un fiume in piena l' uomo che a metà degli anni Novanta ha fatto arrestare Bagarella e una quindicina di killer di Cosa nostra che hanno messo le bombe a Roma, Milano e Firenze nel 1993. Anche Pasquale Di Filippo era nel gruppo di fuoco di Brancaccio, ma rispetto agli altri aveva dei congiunti illustri: il suocero Tommaso Spadaro, uno dei padrini più autorevoli di Palermo, e il cognato, Antonino Marchese, fratello della moglie di Bagarella. «Un giorno, nel 1991 - racconta - eravamo in tanti davanti al carcere dell' Ucciardone, perché stavano per scarcerare mio suocero e tante alte persone, per decorrenza termini. Poi, però, arrivò un decreto che bloccò tutto. In Cosa nostra non fu presa affatto bene, perché quelli erano i tempi in cui ci si aspettavano delle cose da certi ambienti delle istituzioni, ambienti a noi vicini». Oggi, invece, secondo lei, cosa hanno pensato i familiari dei 376 detenuti, imputati per mafia e droga, che sono andati ai domiciliari nel giro dell' ultimo mese e mezzo? Di Filippo dice: «Dopo le stragi Falcone e Borsellino, lo Stato si è messo a fare seriamente la lotta alla mafia, i boss lo sanno. E neanche loro si aspettavano tanta disorganizzazione e confusione. Ma quando hanno capito che una grande maglia si era aperta, ne hanno approfittato subito, con decine, centinaia di istanze. Ne è venuto fuori un disastro, che non fa certo onore a chi è morto per mettere in carcere tutti quei mafiosi». Intanto, le richieste di scarcerazione continuano ad aumentare. E dentro le cosche un tam tam è iniziato a girare insistente: «Bisogna evitare altro clamore», è sbottato un boss, e la sua esortazione è stata captata da una delle tante microspie che tengono sotto controllo il mondo sotterraneo delle cosche siciliane. Un invito a far presentare l' istanza magari a un familiare, in modo da bypassare il monitoraggio del Dap. Un invito anche a non far trapelare le notizie di nuove scarcerazioni. «Loro le proveranno tutte - dice Pasquale Di Filippo - perché fanno questo di mestiere: approfittare delle occasioni per trarre il massimo del vantaggio. Ecco perché le istituzioni, in cui ho piena fiducia, devono recuperare al più presto, facendo capire che si è trattato solo di un momento di confusione e di disorganizzazione». Il collaboratore fa una pausa e riprende: «Certo, non sarebbe dovuto accadere. Perché Cosa nostra vive anche di segnali. E questo è stato davvero brutto. Davanti ai mafiosi non si indietreggia, mai. Altrimenti ti fregano, un' altra volta».

·         Quelli che non si pentono: I sepolti vivi come Raffaele Cutolo.

Carcere a vita per Raffaele Cutolo, il Tribunale conferma il 41bis. Angela Stella su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. Raffaele Cutolo resta al 41 bis: lo ha deciso ieri il Tribunale di Sorveglianza di Roma. L’udienza di reclamo per la revoca del carcere duro si era tenuta lo scorso 2 ottobre, ad un anno esatto dal reclamo dall’avvocato Gaetano Aufiero. Proprio il legale di Cutolo commenta così al Riformista questa decisione: «Questo provvedimento dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto». A proposito delle condizioni di salute, l’uomo è ricoverato presso l’Ospedale Maggiore di Parma dal 30 luglio e la relazione del perito di parte parla di “condizioni psicofisiche particolarmente scadute, di memoria a breve termine particolarmente compromessa, e di disturbo neurocognitivo maggiore”. Nonostante questo, il Collegio del Tribunale di Sorveglianza sostiene che nella stessa perizia si scrive che il detenuto è “lucido”: è un termine – ci dice sempre l’avvocato Aufiero – «che il Tribunale estrapola strumentalmente. Lucido vuole dire che ha gli occhi aperti se gli parli e ti risponde “Raffaele” se gli chiedi come si chiama. Ma se i magistrati avessero letto – loro – con maggiore lucidità la relazione avrebbero visto che Cutolo è completamente decontestualizzato, non sa nemmeno in che città si trova e che giorno è oggi. Non riconosce me che sono suo avvocato da 25 anni né sua moglie. Come può mantenere i contatti con l’esterno in questi condizioni?». Tuttavia la parte del provvedimento che più lo scandalizza è quella in cui si fa il paragone con Bernardo Provenzano: «Si dice che Cutolo non è nelle stesse condizioni dell’ex boss di Cosa Nostra. Ricordo che lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Roma ha determinato la condanna dell’Italia da parte della Cedu proprio perché Provenzano era stato mantenuto al 41bis nonostante fosse in uno stato neurovegetativo. Il richiamo a Provenzano è offensivo, perché si dice chiaramente che fin quando Cutolo non sarà in coma e un vegetale come Provenzano dovrà rimanere al carcere duro». Le altre due motivazioni addotte dal Collegio per mantenere al carcere duro l’uomo, detenuto dal 25 marzo 1971 e in 41bis dal 20 luglio 1992, è che esistono “congrui elementi a sostegno della permanenza della capacità del condannato di mantenere contatti con la criminalità organizzata” e che è ancora elemento di “spiccatissima pericolosità sociale”. Questo passaggio non meraviglia particolarmente l’avvocato Aufiero: «In sostanza si colpisce una mera astratta potenzialità perché in realtà non c’è un solo elemento per dire che lui abbia mantenuto i contatti con l’esterno. Sulla spiccata pericolosità sociale si rifanno sempre a quello che è successo 40 anni fa. Il Procuratore Generale in udienza è venuto addirittura a ricordarci le estorsioni che Cutolo faceva imponendo i prezzi ai contrabbandieri a Napoli negli anni ‘70. Ma di che parliamo? Invece non si spende una parola sul fatto che sia isolato da 40 anni. Non mi sorprende questo passaggio. Figuriamoci se il Tribunale di Sorveglianza di Roma, in questo clima politico, poteva dire che Cutolo non è pericoloso». A ciò, ci dice Aufiero, bisogna aggiungere che «sia il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia sia il Tribunale di Sorveglianza di Bologna non si sono mai degnati, nonostante mia formale richiesta, di accertare le condizioni mentali di Cutolo mediante una perizia terza». Se l’avvocato non l’ha richiesta invece ora al Collegio del Tribunale di Sorveglianza di Roma è perché ci sarebbero voluti altri mesi per istruirla e alla fine sarebbe terminato il biennio di proroga del 41bis disposto con decreto ministeriale. Un ultimo punto che i magistrati contestano è la condotta intramuraria non partecipativa di Cutolo: «Cosa c’entra con il 41bis? Cosa volevano, che Cutolo a 80 anni iniziasse ad avere una condotta partecipativa con l’assistente sociale? Essendo lui un fine pena mai è consapevole che non potrà ottenere nulla sotto il profilo delle misure alternative alla pena detentiva».

Possibile tanta ferocia in una sentenza? I giudici condannano Cutolo a morte per paura di stampa e tv…Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Ottobre 2020. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha deciso che Raffaele Cutolo, ex boss della camorra, deve andare a morte. La sua vita deve finire nella brandina di una cella in regime di carcere duro. Siamo nel 2020, sembra il medioevo. Raffaele Cutolo è un signore di 80 anni, in pessime condizioni di salute e con fortissimi problemi cognitivi, ha passato in prigione 57 anni della propria esistenza (e poco più di venti ne ha trascorsi in libertà, tra i quali i primi 18, quelli della scuola) ed è stato il fondatore di un’associazione camorristica che non esiste più da circa 40 anni. Si muove con gran difficoltà, ha notevoli problemi di attenzione e la memoria corta sta svanendo. Di questo i magistrati hanno preso atto, e sulla loro ordinanza, nella quale rigettano la richiesta degli avvocati quantomeno di sospendere il 41 bis, hanno copiato il parere drammatico del medico che ha svolto la perizia su Cutolo. Poi hanno concluso: no, Cutolo forse ha problemi fisici e intellettivi ma qualcosa capisce e dunque, se interrompessimo il regime di isolamento e il carcere duro, c’è il rischio che lui riesca a mettersi in contatto coi suoi vecchi compagni d’arme (quasi tutti, o forse tutti, morti o in carcere da anni) e a riorganizzare il gruppo camorristico. Potrebbe mettere su una banda, magari piccolina, composta da quattro o cinque ultranovantenni, un po’ rincoglioniti ma molto esperti. Questo disegno va fermato, hanno pensato i giudici. Quindi, istanza rigettata e 41 bis, cioè carcere duro, confermato. I magistrati romani hanno anche preso in considerazione la sentenza della Corte europea che condannò l’Italia per aver tenuto in prigione, moribondo, il capo della mafia Bernardo Provenzano, ma hanno ragionato sul fatto che Provenzano era in coma e Cutolo no. E dunque le condizioni di Provenzano non possono essere accostate a quelle di Cutolo e la sentenza della Corte europea non può valere per lui. Il tribunale che ha preso questa decisione precisa, nell’ordinanza, di non essere chiamato a decidere sulle condizioni di salute del detenuto, e dunque sulla compatibilità tra le sue condizioni e il carcere. Questa è una valutazione che spetta al tribunale di sorveglianza della città dove Cutolo oggi è in carcere (quindi Parma). Il tribunale di sorveglianza di Roma deve solo stabilire se Cutolo è ancora pericoloso o no. E ha stabilito che un vecchio traballante, praticamente privo di memoria breve, con forti problemi cognitivi, con quello che i medici definiscono “un disturbo neurocognitivo maggiore”, affetto da diverse malattie cardiocircolatorie, dal diabete e da altri disturbi, ha tutte le carte in regola per uscire di prigione, o almeno per uscire dal regime di isolamento nel quale vive, murato vivo, dal 1992, e mettere a ferro e fuoco Napoli, o forse tutta la Campania. Come può succedere che dei magistrati scrivano una ordinanza di questo genere? Le spiegazioni possibili sono solo due. La prima si riassume in una parola: Burocrazia. Del resto è impossibile non notare che nella prima pagina dell’ordinanza, è stampata la seguente scheda: Detenuto: Raffaele Cutolo/pena da espiare: ERGASTOLO/scadenza della pena: MAI (concessi giorni 1035 di anticipazione anticipata). C’è scritto esattamente così. Cioè, alla lettera, Cutolo dovrà essere liberato 1035 giorni prima della propria morte, però non si sa ancora chi potrà stabilire con almeno tre anni di anticipo la data della sua morte…La seconda spiegazione sta nel clima di forca che si è creato ormai da molto tempo nel paese. La furiosa campagna di stampa condotta dai giornali contro i tribunali di sorveglianza che mesi fa liberarono alcuni detenuti in cattive condizioni di salute, ha avuto il suo effetto. Oggi i tribunali di sorveglianza sono terrorizzati e non si azzardano a prendere provvedimenti che rientrino nell’ambito della civiltà giuridica.

Attenti ad annientare Cutolo: è una persona, non un “simbolo”. Avv. Nicola Quatrano su Il Dubbio il 13 agosto 2020. Secondo il Tribunale di Bologna, l’ex boss Cutolo esercita ancora un carisma tale da sconsigliarne l’uscita dal carcere. Il diritto alla salute va sacrificato a una suggestione? Ma è così solo se la cella è usata come tortura. Quando, nel 1982, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini intervenne per ottenere il trasferimento di Raffaele Cutolo dal carcere di Ascoli Piceno a quello di massima sicurezza dell’Asinara, riaperto appositamente per lui e dove per un paio di anni sarà l’unico detenuto, tutte le persone amanti della giustizia approvarono quella saggia iniziativa. La N.c.o. (Nuova camorra organizzata), fondata in carcere dal boss, aveva in poco tempo accumulato un enorme potere e assunto il controllo di vaste zone della Campania (e non solo), attraverso violenze di ogni tipo e omicidi efferati. Nel solo 1981, le vittime della guerra camorrista con la Nuova famiglia (la rivale associazione dei clan tradizionali) raggiunsero il numero di 295, furono 273 nel 1982, e toccarono quota 290 nel 1983.La diabolica intelligenza del professore aveva saputo costruire una organizzazione radicatissima che forniva “lavoro” e welfare, ma anche identità, a giovani senza altra prospettiva di futuro, riuscendo a pescare perfino negli ambienti politicizzati che vivevano con rabbia il “tradimento” delle promesse sui cui si era fondata l’impetuosa crescita di consensi al Pci negli anni Settanta (non tutti finirono nelle fila del “Movimento del 77”, qualcuno fu attirato dalla sirena camorrista). Inoltre Raffaele Cutolo aveva saputo cogliere l’occasione del rapimento dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, da parte delle Br, per entrare da protagonista nel grande gioco delle trattative con la Dc ed i Servizi segreti (non deviati).E fu proprio l’allarme per questa “trattativa”, i cui termini non erano affatto chiari, a spingere il saggio presidente Sandro Pertini a prendere un’iniziativa provvidenziale, che contribuì a stroncare un fenomeno nuovo e allarmante, e inferse senza dubbio un colpo gravissimo al prestigio di un uomo che non avrebbe dovuto averne, e alla forza di un’organizzazione che aveva prodotto solo danni alla civile convivenza. Ma, col tempo, le cose cambiarono, e oggi la Nco – checché ne pensi il Tribunale di Sorveglianza di Bologna – non esiste più, e anche il prestigio criminale del vecchio boss malato è oramai un ricordo del passato. Eppure, dal 1986, egli è ancora soggetto al regime “duro” del 41 bis, senza davvero che ce ne sia alcun bisogno. Che cos’è il 41 bis? Un sistema sadico mirante all’annientamento di un presunto nemico, e come tale incompatibile con la nostra Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena. È un regime che impone l’isolamento e forti restrizioni ai rapporti con l’esterno, ma anche molte altre prescrizioni che non hanno niente a che vedere con la “sicurezza”. Cosa c’entra con la sicurezza, per esempio, il divieto di vestirsi come si vuole? O di usare lenzuola meno grezze di quelle fornite dall’amministrazione, o l’imposizione di un vetro di separazione nel corso di colloqui controllati visivamente e registrati? O le mille altre restrizioni senza altra ragione che non sia quella di rendere la vita impossibile? Un mio assistito, provetto pasticcere, lamenta di preparare la pasta frolla con il pan carré (che cucina poi in un forno di fortuna composto di due pentole sovrapposte), perché gli è vietato comprare la farina. Che cosa c’entra la sicurezza con la farina? Legittimo dunque il sospetto, avanzato da molti, che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente”, o peggio di una tortura intesa a favorire la “collaborazione”, con ciò aggravando fortemente i profili di incostituzionalità dell’istituto. Perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta ad una revisione critica del proprio passato e alla decisione di farla finita col passato. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura. Nei giorni scorsi, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha respinto l’istanza di scarcerazione per motivi di salute avanzata nell’interesse di Raffaele Cutolo. Il suo avvocato, Gaetano Aufiero, ha assennatamente osservato: “Cutolo è una persona sola, ultraottantenne, afflitta da malattie e reclusa da quarant’anni, dei quali venticinque al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana”. Leggiamo sui giornali che il Tribunale avrebbe obiettato che la sua scarcerazione “potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”, e avrebbe aggiunto che il vecchio boss rappresenta “un simbolo”. Un simbolo? Che significa? Si mira forse a distruggere un “simbolo” attraverso l’annientamento fisico e morale di un essere umano? Sono parole che ricordano la violenta requisitoria che il pubblico ministero Michele Isgrò pronunciò nel corso del processo contro Antonio Gramsci e altri dirigenti del Pci. Era il 2 giugno 1928 e il rappresentante della pubblica accusa dinanzi al Tribunale Speciale disse che bisognava “far smettere di funzionare il cervello” del fondatore del Pci, perché era sommamente pericoloso. Voglio con questo dire che Raffaele Cutolo è una vittima innocente come lo fu Antonio Gramsci? NO, non ci penso proprio. Piuttosto è la cultura di certi magistrati di oggi e di tutti i tonitruanti difensori del carcere duro ad assomigliare pericolosamente a quella del fascismo.

Come sta Raffaele Cutolo? “Silenzio di Stato” in attesa della morte. Redazione de Il Riformista il 7 Agosto 2020. Pubblichiamo l’intervento della Giunta e dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane su quanto denunciato dall’avvocato di Raffaele Cutolo e riportato nei giorni scorsi dal nostro giornale.

Apprendiamo dal difensore e da notizie diffuse dai media, che Raffaele Cutolo – a suo tempo capo della Nuova Camorra Organizzata – è in gravissime condizioni di salute e che non è stata autorizzata la visita del medico di fiducia, per non meglio specificate “ragioni di opportunità”. Contraddittorie le notizie che giungono dal carcere di Parma, da dove la moglie e la figlia, in visita al detenuto, hanno riferito che Cutolo “non è riuscito ad alzare gli occhi, a portare una bottiglia d’acqua alla bocca, a parlare, ad interagire…” , stato comatoso confermato anche dal difensore che descrive una persona immobile, condotta in sala colloqui con la sedia a rotelle, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni di qualsiasi genere, mentre per la direzione sanitaria dell’istituto penitenziario, egli sarebbe “vigile, orientato nel tempo e nello spazio”. Certo è che il detenuto assume 15 pillole al giorno, soffre di diabete, prostatite, artrite ed è fortemente ipovedente. In questi giorni è stato condotto nuovamente in ospedale da dove non si riescono ad avere informazioni sul suo stato di salute. Le “ragioni di opportunità” evidentemente vengono prima del diritto alla salute, prima del diritto di una moglie e di una figlia di avere notizie del congiunto, prima dei principi costituzionali e di tutte le altre norme. Eppure quella piccolissima parte della Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, divenuta Legge aveva ribadito che “i detenuti e gli internati, possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia” ed aggiunto che “…con le medesime forme possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia nelle infermerie o nei reparti clinici e chirurgici all’interno degli istituti, previ accordi con l’azienda sanitaria competente e nel rispetto delle indicazioni organizzative fornite dalla stessa” (art. 11, comma 12, Ordinamento Penitenziario, così riformato dal D.Lvo 2 ottobre 2018, N.123). Evidentemente la Legge non è uguale per tutti e “non è opportuno” che un ottantenne capo di un’associazione criminale, che non esiste più da almeno 40 anni, che è detenuto da 57, possa avere le cure di un medico di fiducia, mentre è “opportuno”, che sul suo stato di salute vi sia il “silenzio di Stato”, in attesa che la vendetta possa giungere a termine, con la morte del “nemico”. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, esprime, ancora una volta, la propria indignazione per una politica giudiziaria che pratica, di fatto, la lenta, ma inarrestabile, pena di morte.

Cutolo sta morendo, silenzio di Stato da 10 mesi e lui scambia la moglie per la cognata morta. Angela Stella su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Perché Raffaele Cutolo è ancora ristretto al 41 bis? È quanto si chiede il suo legale Gaetano Aufiero che il 10 agosto ha inviato una istanza al ministro Bonafede per chiedere la revoca del regime di carcere duro: «È venuta meno la capacità del condannato di mantenere collegamenti con qualsivoglia associazione criminale e/o di rivestire ruoli all’interno delle stesse. Di conseguenza, non sussistono più i gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica giustificativi del mantenimento del regime detentivo speciale che, allo stato, in considerazione delle condizioni di salute del condannato, è inutilmente afflittivo». E perché, si chiede sempre il legale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma dopo dieci mesi dal reclamo difensivo ancora non fissa l’udienza per stabilire se sussistano le condizioni per trattenere al 41 bis Cutolo? Il decreto di proroga del 41 bis veniva emesso dal ministro della Giustizia l’11 settembre 2019; contro tale decisione il difensore ha proposto reclamo il 2 ottobre. «Ebbene, ad oggi – ci dice Aufiero – a distanza di oltre 10 mesi dalla proposizione del reclamo e di 11 mesi dall’esecuzione del decreto, l’atto di impugnazione non è stato ancora fatto oggetto di discussione in quanto, nonostante l’inoltro di ben due solleciti, il Tribunale di Sorveglianza di Roma non ha ancora provveduto alla fissazione della relativa udienza, così di fatto impedendo al condannato l’esercizio del suo legittimo diritto all’impugnazione del gravoso provvedimento eseguito nei suoi confronti». L’ordinamento penitenziario prevede, sia pure in termini meramente ordinatori, il termine di 10 giorni per la decisione del reclamo da parte del Tribunale di Sorveglianza, per non vanificare la portata dell’eventuale rimedio giurisdizionale che deve intervenire su un provvedimento avente la durata di due anni. Inoltre le condizioni di salute di Cutolo meritano maggiore attenzione, anche giudiziaria, e non consentono di aspettare tempo ulteriore. Come vi abbiamo infatti raccontato qualche giorno fa, l’uomo è ancora ricoverato nell’ospedale di Parma per un quadro clinico compromesso sotto diversi punti di vista. Inoltre lo scorso 7 agosto sua moglie Immacolata Iacone è andata a trovarlo ma ha trovato davanti a sé una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. Tali evidenti vuoti di memoria e disordini mentali rappresentano, secondo il legale e secondo il Primario del reparto dove Cutolo è ricoverato, sintomi inconfutabili di demenza senile. Pertanto in una seconda istanza, sempre del 10 agosto, l’avvocato Aufiero torna a chiedere una perizia medico legale sul suo assistito e il differimento della pena per motivi di salute. Si vuole lasciar morire Cutolo al 41bis? Ci si vuole accanire contro di lui come avvenuto con Provenzano? Il dubbio viene se la moglie racconta che durante il suo colloquio in ospedale non ha potuto toccare il marito allettato perché tra di loro sono state frapposte delle sedie ad impedire alcun contatto.

«Cutolo è un ex boss, vecchio e malato: che senso ha il 41 bis per lui?» Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2020. Il tribunale di sorveglianza dovrà decidere le sorti del vecchio camorrista malato. L’avvocato Gaetano Aufiero spiega: «per lui i domiciliari sono giustificati per i gravi motivi di salute in questo periodo di emergenza covid». C’è attesa per la decisione del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia sull’istanza relativa alla detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, avanzata dall’avvocato Gaetano Aufiero, del foro di Avellino, per conto del suo assistito Raffaele Cutolo. È detenuto al 41 bis del carcere di Parma e di recente è stato dimesso dall’ospedale a causa di una grave crisi respiratoria. Una decisione, da parte della magistratura di sorveglianza, che non sarà semplice. Soprattutto alla luce delle polemiche seguite alla concessione degli arresti domiciliari – con ordinanze cristalline e impeccabili – per gravi motivi di salute a due boss mafiosi. Uno è Francesco Bonura, gravemente malato, al quale mancano pochi mesi per il fine pena. L’altro è Pasquale Zagaria per il quale la pericolosità sociale è stata smentita già nel 2011, quando la Corte d’Appello di Napoli gli ha revocato la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Eppure i soliti giornali, dopo aver creato un uragano, travolgendo lo Stato di Dritto, grazie alle istituzioni che assecondano hanno stilato una lunga lista di nomi che secondo loro potrebbero uscire dal carcere accostando il nome del mafioso Leoluca Bagarella a quello di Raffele Cutolo. «Ma come si fanno a fare questi confronti – spiega l’avvocato Aufiero a Il Dubbio – con chi appartiene alla mafia, ha fatto stragi e gestisce un potere economico criminale». L’avvocato sottolinea: «Cutolo è una persona sola, ultraottantenne, afflitta da malattie e reclusa da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. Vada a vedere – continua l’avvocato – in quale condizione vivono i suoi familiari ad Ottaviano». Il legale di Cutuolo descrive così l’esatta dimensione delle cose. Che senso ha il 41 bis in questi casi? L’importanza strategica che ha svolto il regime differenziato nella lotta alla criminalità organizzata dovrebbe essere ben chiarita. L’obiettivo è volto a impedire che il detenuto continui a mantenere collegamenti, e possa dunque impartire ordini e direttive, pur dal carcere, con le associazioni criminali di riferimento. Se il 41 bis ha più volte superato il vaglio della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, questo è grazie a quei magistrati di sorveglianza che hanno emesso misure come quelle che ora hanno creato indignazioni. Intervenire con una norma per scoraggiare questi provvedimenti, vuol dire rischiare proprio di porre fine al 41 bis. Il paradosso è che potrebbe non superare più il vaglio grazie a chi invoca il pungo duro senza se e senza ma. Ma ritorniamo a Cutolo. Nel suo caso, al di là dell’incompatibilità di salute o meno con il carcere, c’è anche la questione dell’emergenza Covid 19. «Se Cutolo continua a manifestare grave patologie, e in particolare se quelle pneumologiche non hanno trovato definitiva soluzione – scrive l’avvocato nella sua memoria -, cosa accadrebbe in piena emergenza epidemiologica e con gli ospedali di Parma e dell’intera Regione Emilia Romagna ancora interessati all’emergenza come veri e propri presidi Covid-19, se dovesse rendersi necessario e non rinviabile un ricovero del Cutolo, come avvenuto il 19 febbraio, in piena notte ed in fin di vita?». Resta il fatto che al rientro presso il carcere di Parma, il personale sanitario dello stesso Istituto Penitenziario ha annotato il diario clinico di Cutolo con queste precise parole: «Il paziente deambula a fatica ed il bagno non è adeguato per poter aiutare il paziente nell’espletamento delle sue funzioni… il paziente necessita di una sistemazione più adeguata e di aiuto continuo». Da allora, nonostante siano trascorsi 50 giorni, secondo l’avvocato Aufiero non risulta siano stati adottati provvedimenti finalizzati a una più mirata assistenza di Cutolo all’interno della cella in cui è ristretto: a oggi non è in grado di autogestirsi e la cella in cui è recluso per l’intero arco della giornata non è affatto adeguata, «ma, ciò che appare ancor più grave – sottolinea il legale -, l’intera sezione di 41 bis non ha un presidio medico notturno, con la conseguenza che potrebbe essere impossibile fronteggiare un’eventuale crisi del detenuto durante la notte». C’è da chiedersi se per davvero un eventuale differimento pena per Cutolo, e in più provvisorio, possa davvero scatenare indignazioni. Al quel punto sarà davvero difficile delineare una linea demarcazione tra il bene e il male, tra lo Stato e la mafia. Ma soprattutto tra lo Stato di Diritto e quello di Polizia.

Cutolo grave in carcere, Salvini e Borrelli esultano ma l’avvocato frena: “Siamo in attesa”. Ciro Cuozzo su il Riformista il 28 Aprile 2020. Da una parte due populisti, seppur politicamente distanti, dall’altra l’ex capo della Nuova Camorra Organizzata che ha già passato in carcere 56 dei suoi 78 anni di vita ed è attualmente, stando alle relazioni mediche, in gravi condizioni di salute. I primi due, Matteo Salvini, leader della Lega, e Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale della Campania e giornalista professionista (che ogni tanto cade in qualche fake news), fanno a gara a chi annuncia per primo sugli amati social la scarcerazione negata a Raffaele Cutolo, rappresentato dall’avvocato Gaetano Aufiero che – al 21 di martedì 28 aprile, diverse ore dopo gli annunci di Salvini e Borrelli – nega di aver ricevuto alcuna comunicazione. E’ chiamato a pronunciarsi il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Reggio Emilia che una settimana fa, martedì 21 aprile, ha ricevuto l’istanza per la concessione degli arresti domiciliari. Cutolo è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di massima sicurezza di Parma. Lo scorso febbraio, in seguito a una crisi respiratoria avvenuta nella notte tra  martedì 18 e mercoledì 19, è stato ricoverato nel reparto riservato ai detenuti nell’ospedale di Parma. Dopo oltre due settimane, in piena pandemia di coronavirus, è tornato in cella. L’istanza è basata sui criteri presenti nella circolare che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha inviato alle strutture penitenziarie al fine di monitorare le condizioni dei detenuti con patologie gravi e di età superiore ai 70 anni. “Ho presentato l’istanza – spiega l’avvocato Aufiero – dopo aver letto la documentazione sanitaria. Cutolo non sta bene e per questo abbiamo chiesto gli arresti domiciliari ad Ottaviano. In mattinata – precisa il legale – ho presentato una memoria difensiva e per ora non ho ricevuto alcuna comunicazione dal magistrato. Non escludo che possa aver già deciso ma, ripeto, non mi è arrivato nulla, forse Salvini riesce a sapere prima le cose…”. L’avvocato di Cutolo ricorda che “circa 50 giorni fa ho presentato un’altra istanza di scarcerazione per un mio assistito detenuto nel carcere di Voghera. E’ gravemente malato ma ad oggi, quasi due mesi dopo, è stata solo inviata nei giorni scorsi la documentazione sanitaria al magistrato. Nel frattempo – spiega Aufiero – nel carcere di Voghera sono stati registrati diversi casi di coronavirus (il primo contagiato in cella si trovava nel penitenziario lombardo, ndr), un detenuto è morto dopo il ricovero in ospedale ed è deceduto anche il cappellano”. Sia Borrelli che Salvini, intanto, festeggiano. Il leader della Lega nel corso di una diretta Facebook ha anticipato la decisione del magistrato: “Basta, non se ne può più, sono ormai 43 ergastolani, mafiosi, camorristi, ndranghetisti, stupratori e spacciatori che sono usciti di galera in queste settimane. Poche ore fa per fortuna hanno negato la libera uscita Raffaele Cutolo”. Gli fa eco Borrelli che esulta: “Prima vittoria della nostra protesta. I boss devono restare in carcere, continua la nostra battaglia. Si tratta di una primissima vittoria della nostra protesta. Non vogliamo assolutamente che boss sanguinari e violenti vengano rimessi in libertà con la scusante del coronavirus. I criminali per tutto il male che hanno fatto devono restare a marcire in galera, questa è la giustizia, qualcosa di diverso sarebbe soltanto vergogna. Per questo abbiamo dato vita a questa protesta con sciopero della fame e petizione on-line e tantissimi cittadini si stanno unendo, le persone perbene vogliono vivere in territorio senza criminali, dove regna la legalità”. 

Non importa se è vecchio, malato e senza “potere”: Raffaele Cutolo resta in carcere. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha rigettato l’istanza di sospensione di esecuzione della pena con applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, avanzata per motivi di salute dalla difesa dell’ex boss della Camorra. Raffaele Cutolo resta in carcere. Il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha infatti rigettato l’istanza di sospensione di esecuzione della pena con applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, avanzata per motivi di salute dalla difesa del fondatore della Nuova Camorra Organizzata, detenuto al 41 bis nel carcere di Parma. Da anni Cutolo è recluso al carcere di Parma e la sua salute è diventata sempre più precaria. Il carcere duro non aiuta, anzi aggrava. Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, quasi cieco e, come se non bastasse, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muove le mani. Non si hanno altri particolari, tranne che si è trattata di una crisi respiratoria. Resta il fatto che oramai è anziano, solo e che si sta spegnendo al 41 bis, come denunciò l’anno scorso sua moglie Immacolata Iacone. L’ultimo in ordine di tempo a denunciare le sue condizioni è stato uno dei suoi storici avvocati, Paolo Trofino che ne ha parlato in aula in un processo che vede imputati diversi ex affiliati alla Nuova Camorra Organizzata. “Le sue condizioni di salute sono pessime” aveva detto in aula ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel corso del processo ai cutoliani casertani. Non è la prima volta che negli ultimi mesi si moltiplicano gli allarmi sulle condizioni di salute del “professore” e in molti chiedono che possa trascorrere gli ultimi mesi di vita fuori dal carcere”.

“Illustri magistrati la pensano come Salvini: fanno marcire in cella un vecchio malato come Cutolo”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Le parole dell’avvocato Gaetano Aufiero: “del rigetto non ne rimango sorpreso visto che anche nel passato è accaduto e nonostante che a febbraio Cutolo ha rischiato di morire”. «I provvedimenti giudiziari si rispettano, ma posso anche non condividerli. La stessa giudice conferma che Cutolo ha gravissime patologie soprattutto al livello polmonare, ma che ora è al sicuro perché nel frattempo il Dap ha fatto sapere dell’imminente arrivo degli operatori socio sanitari (Oss). Con tutto il rispetto del loro lavoro, ma non sono né infermieri né tantomeno dei medici». Così l’avvocato Gaetano Aufiero, il legale di Raffaele Cutolo, spiega a il Dubbio il suo pensiero sul provvedimento che però dovrà essere discusso al tribunale di sorveglianza. «Vede – continua a spiegare l’avvocato – del rigetto non ne rimango sorpreso visto che anche nel passato è accaduto e nonostante che a febbraio Cutolo ha rischiato di morire tanto di essere stato trasportato urgentemente in ospedale. È chiaro che sia a rischio di vita». Raffaele Cutolo è una persona ottantenne, afflitta da malattie e reclusa da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. È in pericolo di vita, ma visto che ci sono gli oss che posso accudirlo, potrà rimanere in carcere. «Tutti mi chiedono cosa ne penso di Salvini che all’epoca dette una notizia falsa (il rigetto, ndr) – spiega l’avvocato Aufiero -, ma io perché dovrei prendermela con lui e con le sue espressioni “marcire in carcere” quando illustri magistrati, presunti giuristi e il governo stesso hanno detto che un detenuto – se più o meno assistito – può benissimo morire in carcere? Mi sa dire che differenza c’è con la spiacevole espressione salviniana?». Cutolo potrebbe morire da un momento all’altro. «Ha una polmonite bilaterale confermata anche nel provvedimento – spiega l’avvocato -, ma evidentemente devo stare tranquillo perché se subisce un nuovo attacco respiratorio ci sono gli oss». L’avvocato ci tiene a precisare che – pur non condividendo il provvedimento – rispetta la giudice «a differenza di giornalisti come Marco Travaglio che hanno definito i magistrati “rei” di aver emesso la detenzione domiciliare, “magistrati di badanza”». Ma quello che l’avvocato ci tiene a dire è che in questi giorni è passata l’idea di morte. «Dicono che anche chi è malato, magari terminale, deve comunque rimanere in carcere. Io rifiuto con forza il fatto che vada a consolidarsi un’idea di morte del nostro sistema penitenziario», conclude l’avvocato Aufiero.

Cutolo va abbattuto come l’orso in fuga, è meno crudele. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 4 Agosto 2020. Alessandro de Guelmi, veterinario, ha affermato, riguardo a m49 l’orso in fuga da qualche giorno, che «se l’orso è veramente pericoloso va abbattuto» dato che «non è dignitoso rinchiuderlo a vita, prima in una gabbia, poi in un recinto». Sì, ammazzate M49, ha detto proprio questo, scatenando maledizioni che gli sono arrivate addosso dai social. Una fiera irredimibile per non nuocere all’uomo può essere solo uccisa. Un ragionamento estremo, cinico, ma non ipocrita: la sicurezza totale rispetto a un pericolo la si ottiene con la cancellazione della minaccia. In fondo è ciò che ha chiesto per sé stesso il carcerato catanese Turi Cappello, da più di vent’anni ingabbiato negli esigui metri quadri del 41bis. In fondo è ciò che ha chiesto la signora Immacolata per il marito, Cutolo, che sta squagliando tutta la cera della sua candela: goccia a goccia, in una sofferenza bollente e lentissima. È un tema antico questo, dell’uomo: sul suo diritto di controllare i fattori di disequilibrio, sulla sua propensione a cautelarsi dagli eventi che ne minacciano la tranquillità. Il sogno è vano, perché ci sarà sempre un prodotto della natura che sfuggirà al controllo. Ma l’uomo insiste, tenta il dominio su fatti ed esseri viventi. Il dottor De Guelmi svela una verità bruciante: le ripetute fughe dell’orso m49 testimoniano la sua insofferenza per la prigionia, per lui la vita dietro le sbarre è senza dignità, meglio morire. Forse, davvero, se l’orso avesse voce, chiederebbe di essere ucciso se per vivere deve stare ai ceppi. E forse gli uomini in fuga lanciano lo stesso messaggio. Chissà Grazianeddu Mesina, il re del Supramonte, che messaggi lancia con le sue innumerevoli fughe? Nascosto in qualche grotta a dire che è meglio di Papillon. Comunque la si pensi, qualunque delitto si sia commesso, c’è qualcosa che commuove nel tentativo di esalare l’ultimo respiro all’aria aperta. Comunque la si pensi, ci sono occasioni di umanità in cui il controllo diventa disumano e ci si potrebbe abbassare dalla statura di Dio, prendendosi il rischio, correndo il pericolo. L’orso M49, intanto, scappato dal recinto di Casteller, dopo aver abbandonato la Marzola si trova ora sulla catena del Lagorai, il radiocollare che lo spia testimonia che da 24 ore staziona in Alta Val dei Mocheni, fra il lago di Erdemolo e la Valcava, la zona la conosce bene perché ci era passato durante la prima fuga. Il sindaco di Palù del Fersina, Stefano Moltrer, ha chiesto per lui la morte. Per contenere i suoi istinti di libertà gli sono stati somministrati farmaci castranti. Un po’ ha cominciato a morire quando, essendolo, ha deciso di assecondare la sua natura di orso. E forse in questa società amare l’aria libera è un delitto che segna l’esistenza, per tutti, bestie e uomini. E per tutti, bestie e uomini, pochi metri quadri di cella non ci somigliano nemmeno alla dignità.

Raffaele Cutolo, un moribondo torturato dallo Stato fino alla morte. Angela Stella su Il Riformista il 4 Agosto 2020. Raffaele Cutolo, ex capo della Nuova Camorra Organizzata, sta morendo? E lo Stato lo lascerà morire in una condizione di umanità? Le domande sono lecite mettendo in fila una serie di elementi che ci illustra il suo avvocato Gaetano Aufiero, il quale proprio ieri ha presentato al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia una integrazione urgente all’istanza del 30 luglio in cui chiedeva un differimento della pena per motivi di salute per l’uomo detenuto in regime di 41 bis a Parma. Cutolo ha quasi 80 anni, è recluso da 57 anni, e fin dagli anni ‘90 è tra i sepolti vivi del regime di carcere duro. «Venerdì – ci racconta l’avvocato Aufiero – abbiamo saputo che il mio assistito è stato condotto in ospedale la sera precedente. Informalmente dall’ospedale ci hanno detto per un colpo di tosse ma sappiamo che invece la situazione è ben più grave». Innanzitutto un quadro clinico compromesso da tempo: lo scorso febbraio Cutolo infatti era stato ricoverato per una crisi respiratoria. L’uomo assume circa quindici pillole al giorno, soffre di diabete, prostatite e artrite ed è fortemente ipovedente. Nonostante questo, le condizioni di “Don Raffaè”, come cantò Fabrizio De André, il 10 giugno sono state considerate compatibili con la detenzione dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna che aveva respinto la precedente istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute. Il 22 giugno sua moglie Immacolata Iacone, come ha raccontato qualche giorno fa al Consiglio Direttivo di Nessuno Tocchi Caino, era stata a trovare il marito insieme alla loro figlia: «mio marito non è riuscito ad alzare gli occhi, a portare una bottiglia d’acqua alla bocca, a parlare, ad interagire con me e nostra figlia. Il carcere di Parma è un cimitero di vivi: stanno solo aspettando di farlo uscire morto da lì. Facciamo prima a mettere la sedia elettrica». La testimonianza della donna è stata al termine così commentata dal segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia: «Da Caino che è stato, Cutolo è diventato vittima di uno Stato che ha abolito la pena di morte ma pratica la tortura e la pena fino alla morte. Nessun diritto, nessuna pietà per i nemici dello Stato. Non si fanno prigionieri, Cutolo deve morire in galera, come sono morti Riina e Provenzano». Dopo l’episodio del 22 giugno «ho chiesto – prosegue Aufiero – all’avvocato Monica Moschioni di recarsi a trovare Cutolo per verificare effettivamente come fosse la situazione. La collega mi ha riferito che il colloquio è durato pochissimi minuti perché Cutolo, portato nella sala colloqui su una sedie a rotelle, è rimasto immobile, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni a qualsivoglia sollecitazione».  Ciò appare, ci dice l’avvocato, «in netto contrasto sia con due rapporti del diario clinico dello stesso periodo in cui leggiamo che per la direzione sanitaria del carcere Cutolo è “vigile, orientato nel tempo e nello spazio e collaborante”; sia con una nota della Polizia Penitenziaria secondo cui il detenuto “è riuscito, pur con un eloquio essenziale” a rispondere sia alla moglie che alla figlia». L’avvocato Aufiero non riesce a dare una spiegazione logica a queste opposte rappresentazioni della situazione di Cutolo che provengono dal carcere; inoltre non si comprende perché a Cutolo sia stato negato il permesso di essere visitato da un medico specialista in geriatria, individuato dalla difesa per constatare il suo stato di salute: «Dalla direzione del carcere mi è stato risposto che il diniego sussiste per ‘ragioni di opportunità’ ma non mi si spiega quali siano. Avrei compreso il diniego se il medico da noi scelto fosse stato di Ottaviano, dove risiede la famiglia di Cutolo, ma si tratta di un geriatra in pensione della Asl di Parma che in passato è già entrato in carcere». Chiediamo all’avvocato se questa situazione possa essere dettata dal fatto che Cutolo sia stato sotto i riflettori durante l’emergenza Covid e che una ‘scarcerazione’, seppur per motivi di salute, possa minare la credibilità del Ministro Bonafede: «Quello che posso dire è che in 28 anni di professione questa è la prima volta che mi viene negata la possibilità di far entrare un medico di parte a visitare un mio assistito. So che il direttore del carcere di Parma conosce bene la legge e non è né un folle né uno stupido. Mi chiedo se il suo rifiuto sia dettato da un libero e autonomo convincimento o se abbia ricevuto indicazioni dall’alto, ad esempio dal Dap». Sta di fatto che, date le nuove circostanze, l’avvocato Aufiero con l’istanza di ieri chiede che venga effettuata una perizia terza sul quadro clinico di Cutolo e ribadisce la sua richiesta, per motivi di salute, di detenzione domiciliare e in subordine di ricovero presso idonea struttura ospedaliera o presso centro clinico penitenziario: «Mi auguro che questa volta a valutare le carte ci sia un giudice che faccia il giudice».

La moglie di Cutolo: “Meglio la sedia elettrica che la pena del 41bis”. Il Dubbio il 27 luglio 2020. La moglie di Raffaele Cutolo parla e denuncia: “Vogliono farlo morire in carcere. E’ vecchio, malato e isolato. Meglio la pena di morte”. ”Ho incontrato mio marito in carcere a Parma un mese fa, era previsto un colloquio normale attraverso il vetro, ma mi sono ritrovata davanti una persona 90enne con una bottiglia in mano, non parlava, non dava segni, è stato bruttissimo vederlo in quelle condizioni. Mia figlia non si è sentita bene, non ha voluto restare più di tanto, e siamo andati via perché era inutile parlare con una persona che non alzava gli occhi, non riusciva a portare la bottiglia alla bocca, una persona che non rispondeva quando lo chiamavamo”. Ad affermarlo, a tratti piangendo, è stata Immacolata Iacone, moglie di Raffaele Cutolo, intervenendo al Consiglio Direttivo di ”Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem” dal titolo ”41-bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi”. Cutolo, fondatore e capo della Nuova Camorra Organizzata, oggi ha quasi 80 anni ed è sottoposto al carcere duro dal 1992. Nel corso del Consiglio Direttivo, che ha preso spunto dall’uscita di un numero monografico sul carcere duro della rivista giuridica ”Giurisprudenza Penale”, la moglie di Cutolo, intervenendo all’interno della sessione ”Storie e testimonianze in diretta dalla fossa dei sepolti vivi”, ha poi aggiunto: ”Io ho visto una registrazione di Provenzano, almeno lui alzava la cornetta, mio marito non ha alzato neppure gli occhi. Poi ci hanno mandato fuori perché ha buttato la bottiglia a terra, si è rovesciato un bicchiere di acqua addosso. Non riusciamo ancora a capire perché sta in quelle condizioni, e perché sta ancora in carcere. Io non dico di portarlo a casa, ma almeno in un posto dove venga curato”. Poi la moglie di Cutolo spiega: ”Al 41bis hanno messo degli assistenti socio-sanitari, ma il 31 di questo mese il contratto che li prevede scadrà. Cosa accadrà a mio marito? Resterà da solo in una cella con delle piaghe, seduto su una sedia oppure allettato? Ho saputo che gli hanno dato un letto con materasso ad acqua e una sedia a rotelle. Lui ha problemi seri. Chiedo che sia curato, umanitariamente una persona deve essere curata, anche se lui sta pagando le sue pene, ma fatelo curare”. Per Immacolata Iacone, ”non va bene che stia là dentro, noi da fuori soffriamo, mia figlia di 12 anni ha dovuto vedere cose che non erano in conto, mi ha detto ”papà non è più mio papà, perché non mi risponde, non reagisce”. Giustamente mio marito sta pagando, ma lui con Dio ha detto basta, e non è giusto che si debba pentire per farlo curare. Anche se lì lo curano, non lo curano come si dovrebbe. Portatelo dove si possa curare”. Subito dopo la moglie del fondatore della Nco ha aggiunto: ”Ma questo 41bis per mio marito a cosa serve? Sta in carcere da 40 anni, non ha contatti con nessuno, ha detto basta col suo passato quando mi ha sposato, che altro volete più da lui? Sta pagando la sua pena, ma basta, va bene così. Io ho fatto un’istanza per farlo venire a casa, ma solo per farlo curare, non perché lo voglio a casa, ho capito che non me lo daranno, ma almeno curatelo. Ma vale per tutti quelli al 41bis. Il carcere di Parma è un cimitero di vivi, stiamo solo spettando che lui esca coi piedi davanti, come Provenzano e Riina, li hanno fatti uscire morti, stanno aspettando che anche Cutolo esca morto da lì?”. “Io non ho parole, anche per una bambina vedere quelle cose è stato brutto, ma io non accetto questa cosa, non l’accetto proprio. Il 41bis a che serve? Non ha più contatti con la camorra, non ha più contatti con nessuno, ne ha con noi, stanno facendo pagare il 41bis a me e a mia figlia, perché non solo lo pagano loro all’interno, ma siamo noi fuori che soffriamo di più vedendo in che condizioni sta. Da mesi -aggiunge- noi abbiamo fatto domanda per un geriatra e uno psichiatra, ma non ci hanno risposto, ciò significa che lo vogliono morto, devo dire, oppure devo pensare che quando l’hanno portato per il colloquio gli hanno dato qualcosa per fare in modo che non parlasse”. ”Quando mia figlia gli ha chiesto chi fossi io, lui ha risposto che ero la dottoressa. Poi ha abbassato la testa e non ha parlato più. Ma allora -conclude Immacolata Iacone- mettete la sedia elettrica, così noi della famiglia non soffriamo più, perché noi soffriamo di più, loro devono scontare una pena, ma noi che peccato abbiamo fatto?”

L’unghia di Cutolo e il sogno d’emancipazione affogato in carcere: solo pietà per essere migliori. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Ciò che ognuno di noi è realmente, la personalità (o le tante) che ci guida, si annida nei particolari. Tic, vezzi, balbuzie, segnali a volte vistosi, a volte minuzie. Certo, solo i professionisti possono coglierne il senso, trarne conclusioni. C’è un video in cui Raffaele Cutolo rende dichiarazioni spontanee in corte d’assise, non è tanto recente, per cui l’imputato parla di presenza, addirittura esce dalla gabbia, si siede davanti alla corte, a mani libere. Cutolo parla delle dichiarazioni di Giovanni Pandico, anche lui presente in aula. Sembra una gag famosa di Totò: il pazzo che cerca di convincere il medico che il pazzo sia un altro. Il presidente lascia parlare l’imputato, e quando Cutolo si sente di soverchiare dialetticamente il giudice, il suo tono, da bonario diventa arrogante, cattivo. La follia di Pandico risiederebbe nell’avergli chiesto una ciocca di capelli e un pezzo d’unghia del mignolo, feticci di un uomo che il futuro avrebbe trattato da grande. “Pandico faceva paura agli altri carcerati, sapeva fare citazioni in latino, girava con un’agenda e si sentiva il direttore del carcere”. Cutolo è sicuro di aver dimostrato la pazzia del suo accusatore, di dominare la scena. “Ma lei gli ha dato un po’ dei suoi capelli, un pezzo d’unghia, ha acconsentito che il Pandico scrivesse la sua biografia”, lo fulmina il presidente. Cutolo raccoglie le spalle a guscio, annaspa e torna a usare il tono bonario. Cutolo e Pandico hanno inizi criminali simili: una terribile reazione a quella che ritenevano un’offesa imperdonabile, una parola di troppo alla sorella per uno, un eccesso di zelo di un impiegato per l’altro. Cutolo ammazza un uomo che fa un apprezzamento a Rosetta, Pandico spara all’impazzata nel Comune, uccide un vigile, perché gli fanno troppe domande per rilasciargli un documento. I due si conoscono in carcere, fanno un percorso nei manicomi giudiziari. Cutolo negli anni realizza un sogno orribile e folle: atterrare la camorra vera, tradizionale. Fonda una sua organizzazione mettendoci dentro i rifiutati e gli offesi della mafia dei Bardellino, dei Nuvoletta, degli Alfieri: scarti di crimine. È il padrone delle carceri, e davvero per qualche anno impera nella malavita. Il suo è un regno di sangue. Ma lui era già tutto dentro la lunghezza spropositata dell’unghia del suo dito mignolo, stava infisso nelle cellule morte che corrono nello spazio e poi si incurvano, si fermano, perché la fuga è impossibile. L’unghia del mignolo nelle culture rurali era il simbolo dell’emancipazione dal bisogno: chi lavora la terra deve avere unghie cortissime perché non gli siano d’impedimento. Chi ha unghie lunghe non fa lavori manuali. L’unghia di Cutolo era il suo sogno d’emancipazione, finito nel sangue, affogato nel carcere. De Andrè rispose male ai suoi ringraziamenti per la canzone Don Raffaè, negò che fosse riferita a lui. E Cutolo che aveva solo una follia da raccontare non aveva altro aedo a cui affidarla se non il compagno di manicomi giudiziari, Giovanni Pandico. C’è una foto bellissima del carcere di Reggio Calabria, mostra un passeggio sul cui muro è disegnato un arcobaleno, sopra c’è una rete di copertura: dentro ci sono rimasti incastrati tre palloni. Pedate troppo forti li hanno mandati fuori dal gioco, per sempre, ma non sono state abbastanza forti per mandarli oltre il muro, in un altro gioco. Quei palloni, da lontano, sembrano gonfi e turgidi, ancora nuovi. Se ricadono a terra si afflosciano al suolo, se gli si dà un calcio rimangono infilzati nel piede. Se si buttano fuori dal muro non potranno più animare nessun gioco. Bisognerebbe portarli in un angolo sicuro per consentirgli di esalare l’ultima aria avvelenata, per gli altri e anche per loro. Per quei palloni e per i vecchi arnesi del male come Cutolo bisogna trovare un posto al riparo dagli altri. Sono solo fantasmi su cui, dopo averli sconfitti, si dovrebbe esercitare solo la pietà. Ne uscirebbero rafforzati lo Stato, la società, i sentimenti, sarebbe davvero la prova di essere diversi e migliori.

Travaglio, Caselli e Di Matteo: i manettari che vogliono la morte di Cutolo. Piero Sansonetti de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Giancarlo Caselli, ex Procuratore di Palermo e Torino, chiede che il 41 bis – cioè il carcere duro – diventi una misura più rigorosa, afflittiva. Caselli se la prende con la Corte Europea e con la Corte Costituzionale. Non manda giù l’idea che la Costituzione valga pure per i mafiosi. Considera questo principio un cavillo, una falla per la Giustizia. Nino Di Matteo, membro del Csm, punta di lancia del movimento giustizialista, pedina di primo piano nella strategia Cinque stelle, si scaglia contro i giudici di Milano che hanno deciso la scarcerazione (con otto mesi di anticipo) di Francesco Bonura, detenuto che stava finendo di scontare una pena a 18 anni per reati di mafia. Di Matteo accusa i suoi colleghi giudici di avere ceduto al ricatto mafioso (testuale). In pratica li indica per l’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che gli è caro. E chiede al governo di intervenire. I partiti di maggioranza e di opposizione gridano allo scandalo, naturalmente ce l’hanno con i giudici che hanno scarcerato: chiedono contromisure, convocano l’antimafia, pretendono controlli sulla salute di Bonura. Diciamo che sono fuori dei gangheri perché è stata applicata la legge. Il ministro Bonafede manda gli ispettori. Marco Travaglio scatena il suo giornale. E lancia l’allarme degli allarmi: dopo Bonura vogliono scarcerare anche Raffaele Cutolo, il camorrista, quello della canzone di De André, che è in prigione dal 1963. Sì, sì, nessun refuso: l’hanno messo in gattabuia 57 anni fa, quando era un ragazzetto, un guappo di 22 anni. Ora ne ha quasi 80. Da allora è stato fuori solo un po’ meno di due anni, alla fine dei 70, perché era evaso. Questo è il quadro. Anno 2020. circa 230 anni dopo la rivoluzione francese, più di 250 anni dopo il libro di Beccaria, 396 anni dopo la nascita di Voltaire. Secoli e decenni passati inutilmente: non c’è quasi nessuna differenza tra il giustizialismo di oggi e quello del ‘700. Cosa è successo per scatenare questo putiferio? Che il tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto l’istanza di arresti domiciliari per ragioni di salute di un detenuto quasi ottantenne, molto malato, e che ha già scontato 17 anni di carcere su 18 di condanna e gli mancano otto mesi alla scarcerazione definitiva. Tutto qui. Però si è scoperto che il detenuto, Francesco Bonura, è stato condannato per reati di mafia. E voi sapete che un reato di mafia non è un reato, è la malvagità delle malvagità. Se stermini la famiglia, per esempio, non vai al 41 bis. Se incassi il pizzo per un boss, ci vai. Bonura era al 41 bis: al carcere duro, quasi ottantenne, malato, operato, con un cancro, a rischio di vita. Nessuno si scandalizza perché stavano torturando un vecchio? No: nessuno si scandalizza.  L’articolo di Giancarlo Caselli è un autentico capolavoro. Perché è il vero e proprio manifesto del giustizialismo. Si fonda su principi solidi, molto lontani dalla Costituzione repubblicana, anzi alternativi, ma solidi. Giancarlo Caselli tra l’altro (a differenza degli altri suoi colleghi capifila del giustizialismo e del travaglismo) è uno che ha studiato parecchio, che sa. Lui è convinto che una società che funzioni è una società che punisce. Quando smette di punire, una società diventa fangosa. Bisogna impedire che l’Italia diventi fangosa. Caselli non ha mai guardato in faccia nessuno: mafiosi, brigatisti, no-tav, tangentari. Tutti insieme. al carcere duro. Una sola condizione: che ci sia un sospetto. Le prove poi magari verranno, ma non sono l’aspetto decisivo della giustizia. La giustizia, per Caselli, si fonda su due pilastri: sospetto e punizione inflessibile. E condanna morale. La forza etica del suo manifesto è lì: condanna morale. Noi buoni, loro malvagi. In mezzo la famosa zona grigia. Di Matteo è diverso. È un po’ un caso limite. Si è sempre battuto per l’indipendenza della magistratura, perché, forse, gli hanno detto che è essenziale per la causa del giustizialismo. Poi si distrae e attacca l’indipendenza del giudice, addirittura sembra invocare l’intervento del governo.  C’è da chiedersi cosa farà il Csm di fronte al caso Di Matteo. L’altro giorno il Csm è saltato su come una furia perché un suo membro, laico, ha messo in discussione il lavoro di qualche magistrato milanese. E ora che farà con il suo membro togato, con Di Matteo che addirittura accosta la figura dei magistrati milanesi a quella dei mafiosi? Prenderà provvedimenti? Censurerà? Si indignerà? Forse farà proprio come lo Stato di cui parlava De Andrè nella sua canzone su Cutolo: “si costerna, s’indigna s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…”. C’è poco da scherzare. L’attacco al diritto da parte del fronte giustizialista è sempre più spavaldo e arrogante. Si fa beffe della Costituzione, del diritto internazionale, dell’Europa. Persino dell’ordinamento penale. Sapete di quando è la norma che è stata utilizzata per scarcerare Bonura? Del 1930. Codice Rocco. Il premier era Mussolini. Qui, altro che fascismo! Siamo oltre, oltre, oltre… 

La sentenza imposta dai media. Raffaele Cutolo è stato condannato a morte. Piero Sansonetti su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Il tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia, come fu anticipato più di una settimana fa da Matteo Salvini, ha rigettato la richiesta di scarcerazione di Raffaele Cutolo. La motivazione è semplice: sta male, ma non abbastanza male. E c’è un rischio, in caso di scarcerazione, per la sicurezza. Raffaele Cutolo ha 79 anni. E’ seriamente malato da diverso tempo. Ha problemi polmonari gravi. E’ al 41 bis, cioè al carcere duro. E’ molto complicato, per una mente che ragioni senza pregiudizi faziosità e odii, immaginare che ci sia qualcosa di legittimo, o di compatibile con la Costituzione e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, nel tenere al carcere duro un signore di ottant’anni. Cutolo è al carcere duro da 25 anni. Dei suoi 79 anni di vita, 24 li ha trascorsi in libertà, gli altri 55 in prigione. Sta scontando una pena infinita. E’ del tutto evidente che la Nuova Camorra (Nco) che fondò 40 anni fa non esiste più, è sepolta, non ci sono più i suoi sodali, i luogotenenti, gli amici gangster. Quasi tutti morti, o spariti, o vecchissimi. 55 anni in cella vi sembrano pochi? 25 al carcere duro vi pare una pena ragionevole 600 anni dopo la fine del medioevo? Avete mai letto l’articolo 27 della Costituzione? Dice che le pene non possono “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Quale senso di umanità trovate nel tenere una persona in prigione per 55 anni? E 25 anni al 41 bis? Chi ha preso la decisione di non scarcerarlo conosceva l’articolo 27 della Costituzione? Cutolo ieri è stato condannato a morte. Con questa “sentenza”, richiesta a gran voce nei giorni scorsi dai partiti e dai giornali, tutti, a partire da quelli dello schieramento democratico e liberale (penso alla campagna di Repubblica) viene sancita l’uscita dall’ipocrisia. In Italia la giustizia si ispira e si uniforma a un solo principio e a tre parole: vendetta, vendetta, vendetta!

La poesia di Raffaele Cutolo sulla droga, il testo di “Polvere bianca”. Redazione su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Il boss della Nuova Camorra Organizzata (Nco) Raffaele Cutolo è rinchiuso in carcere da 55 anni. All’età di 49 anni ha rilasciato un’intervista a Enzo Biagi in cui ha dichiarato di trascorrere le giornate a leggere e scrivere. Alla domanda sulla droga Cutolo ha detto di aver anche scritto una poesia. Ecco lo scritto del boss di Ottaviano.

“Polvere bianca / polvere bianca / ti odio! / Sei dolce e sei amara / come una donna / sei pura e sei buio. / Giovani odiatela / la polvere bianca / sì! vi fa volare / per poi farvi / ritornare nel buio più cupo. / Vola per l’ aria / limiti di un’ anima / fatta a pezzi / si tocca il fondo / i fatti diventano voragini buie… / e poi di colpo / i dolori si placano / e il cielo è un’ esplosione di luce / poi più nulla. / L’ indomani / solo un trafiletto sui giornali / ennesimo giovane morto: per droga. / Polvere bianca / ti odio”. 

Il caso di Raffaele Cutolo. Cutolo ha già un letto ed è assistito bene, no alla scarcerazione. Viviana Lanza su Il Garantista il 13 Maggio 2020. «Il paziente può contare su presenza e monitoraggio costante degli operatori sanitari». È uno dei passaggi del provvedimento con cui il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha rigettato l’istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute presentata da Raffaele Cutolo, il vecchio capo della Nuova camorra organizzata e protagonista di un pezzo importante della storia criminale campana e italiana. In sintesi, Cutolo può essere efficacemente curato nel carcere di Parma, anche perché lì di recente sono stati assunti nuovi operatori socio sanitari e nella cella è stato predisposto “un letto dotato di sponde e un materasso anti-decubito”. «Io – commenta l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore di Cutolo – non sarei tranquillo a farmi curare da operatori socio sanitari se avessi gravi patologie polmonari. Rispetto ma non condivido la decisione del magistrato». La decisione arriva dopo settimane in cui il dibattito sulle scarcerazioni ai tempi del Covid ha assunto toni forti, scatenato aspre polemiche, creato fazioni e scandalizzazioni. La decisione del magistrato di Sorveglianza non mette un punto alla vicenda. Il provvedimento sarà a breve al vaglio del Tribunale di Sorveglianza. «Non mi aspetto nulla», aggiunge l’avvocato Aufiero facendo riferimento al clima di queste settimane. «Rispetto tutte le decisioni ma non posso condividere un’idea di morte della giustizia, l’idea che chi è condannato per determinati reati debba morire in carcere». Cutolo ha 79 anni, da oltre 40 anni è ininterrottamente detenuto ma aveva già fatto 15 anni, in regime di 41bis dal 1992. I problemi respiratori che il 18 febbraio scorso aggravarono il suo quadro di salute rendendo necessario il ricovero in ospedale fino al 9 marzo saranno curati in carcere. La documentazione acquisita dalla direzione sanitaria del penitenziario dove Cutolo è recluso, a Parma, «comprova – scrive il magistrato di Sorveglianza – una situazione detentiva rispettosa della dignità personale». Esclusa la possibilità di trasferire il detenuto in un’altra struttura adeguata a fornire le cure di cui ha bisogno, il Dap, interpellato sul punto, il 9 aprile aveva fatto sapere che nel circuito dei detenuti al 41bis, il famigerato carcere duro, «non ci sono standard assistenziali più elevati rispetto a quelli garantiti a Parma». Come a dire che lì, nell’istituto di pena emiliano, Cutolo potrà sicuramente essere ben curato. A integrare la comunicazione, il Dap ha fatto anche sapere che nel carcere emiliano a fine aprile ci sono state assunzioni di operatori socio sanitari, con nuove 14 unità, otto delle quali si occuperanno della salute di detenuti come lo stesso Raffaele Cutolo. Quanto all’ipotesi di un possibile aggravamento delle condizioni di salute dell’anziano boss, ipotesi che l’avvocato Aufiero aveva indicato tra i motivi a sostegno della richiesta di consentire al detenuto di lasciare la cella per la detenzione domiciliare, il magistrato di Sorveglianza ha chiarito che, se la salute di Cutolo dovesse peggiorare, l’ex capo della Nco potrebbe contare su strutture territoriali esterne, un ospedale come quello dove fu portato d’urgenza a febbraio. Mentre sul rischio di contagiare il Covid-19, il 41 bis – si è sottolineato – prevede una cella singola con i necessari presidi sanitari. Inoltre, si legge nel provvedimento, «Cutolo ha da anni rinunciato ai momenti di socialità così di fatto riducendo ulteriormente i contatti interpersonali e le vie di contagio».

Quelli che non si pentono. Cristina Bassi e Luca Fazzo per “il Giornale” il 25 novembre 2019. A mandarlo fuori di testa, racconta, è il silenzio. «Se ci fosse almeno il rumore di uno sciacquone mi farebbe compagnia», ha detto una volta al suo difensore. Invece Michele Zagaria, il boss del clan dei Casalesi, catturato otto anni fa dopo una interminabile latitanza, è stato sepolto vivo nel reparto più duro del carcere di Opera: l'AR, la cosiddetta «area riservata», non prevista dalle leggi ma applicata di fatto ai detenuti così pericolosi che neanche il famoso 41 bis, il reparto ad alta sicurezza, è sufficiente a neutralizzarli. E nell'AR di Opera «don Michele» si è reso responsabile di una serie di minacce e di violenze che lo hanno fatto finire di nuovo sotto processo, assistito dall'avvocato di fiducia Paolo Di Furia: concretamente irrilevante, perché Zagaria è già gravato da numerosi ergastoli. Ma la vicenda ha causato il suo trasferimento d'urgenza al remoto carcere di Tolmezzo. Ed è da lì, in videocollegamento, che è apparso nei giorni scorsi in tribunale, nell'udienza a suo carico per le sue imprese ad Opera: devastazioni di celle e telecamere, minacce alle guardie e al direttore dell'epoca Giacinto Siciliano. Il tutto appesantito dall'aggravante mafiosa che il pm Stefano Ammendola ha deciso di applicare, ritenendo che Zagaria, nonostante l'isolamento ferreo, continui a farsi forza di prestigio e alleanze. La nuova inchiesta contro il boss camorrista è stata tenuta segreta dai vertici dell'amministrazione penitenziaria, ed è venuta alla luce solo ora che il processo è approdato nell'aula della Sesta sezione penale del tribunale. Lì, nel suo collegamento video, Zagaria - apparso segnato e provato - ha spiegato i motivi della sua perdita di controllo: il gangster dice di essere stressato dalle continue visite di investigatori che gli chiedono di pentirsi. «Ormai ne saranno venuti un centinaio», ha detto. Di cose da dire ne avrebbe molte: a partire dal contenuto della famosa pen drive a forma di cuore che aveva con sé al momento dell'arresto, e che è svanita nel nulla con tutti i suoi segreti. «Ma io - dice Zagaria - non ho alcuna intenzione di pentirmi». A Michele Zagaria vengono contestati ben undici reati, commessi tra il 5 e il 19 maggio 2018. Tutto, in realtà, inizia con una sorta di tentativo di suicidio: la mattina del 5 maggio l'agente del Gom (i reparti speciali della polizia penitenziaria) di servizio all'AR rossa vede Zagaria con un sacchetto di plastica in testa. Ma quando arrivano i rinforzi, Zagaria si toglie il sacchetto e si scatena, prendendo un manico di scopa e iniziando a menare fendenti contro le telecamere di sorveglianza che lo controllano 24 ore su 24. Cinque giorni dopo, il detenuto ricomincia ad agitarsi, sbattendo il «blindo», lo spioncino della sua cella; quando le guardie bloccano il blindo, «il detenuto Zagaria non domo ha continuato a creare disordine sbattendo la porta di ferro del bagno, provocando un rumore assordate e mettendo a rischio la sicurezza della sezione». Poi il boss attacca una telecamera e la lancia in corridoio, e spacca l'altra. L'episodio più grave è di pochi giorni dopo, quando rientrando in cella Zagaria prende di petto l'agente che gli aveva fatto rapporto per i fatti precedenti, gli dà due schiaffoni su un orecchio, e quando in qualche modo lo immobilizzano continua a gridare «sei un pezzo di merda, sei un pezzo di merda». Minacce che durante un colloquio con i medici manda anche al direttore Siciliano: «Il direttore io lo paragono a una busta di immondizia e io l'immondizia la butto fuori». Tra le aggravanti contestate a Zagaria, avere oltraggiato gli agenti «in un luogo aperto al pubblico quale è considerato il carcere».

Cutolo, cieco e sepolto vivo "Mai pentito. E non tradisco". Parla dopo 40 anni in isolamento: «Sapevo dov'era nascosto Moro, ma Gava mi fermò. Giusto che stia qui». Luca Fazzo, Venerdì 26/07/2019, su Il Giornale. «Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto Aldo Moro, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè, fatevi i fatti vostri». Così parlò don Raffaele, ovvero Raffaele Cutolo, il boss della Nuova camorra organizzata, sepolto dal 1979 in una cella di massima sicurezza, piegato dagli anni e dall'isolamento, ma ancora con la voglia un po' guappa di dire la sua. Non potrebbe, perchè ha il divieto di incontro con chiunque tranne gli stretti familiari. Ma un cronista del Mattino riesce ad arrivare faccia a faccia con lui, separato dal vetro blindato della sala colloqui del carcere di Parma. Ne nasce una intervista-scoop che suscita le ire del ministero, che annuncia una inchiesta interna per capire come il giornalista sia arrivato a incontrare Cutolo e a raccontare il vecchio camorrista: «il respiro affaticato, il volto smagrito, i capelli lunghi la barba incolta». Il carcere lo ha piegato, anche perché vive in isolamento totale: anche all'aria dovrebbe andarci da solo, «ma che ci vado a fare?». Così resta nel suo loculo: «Aspettiamo la morte. Le giornate sono sempre uguali. Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall'altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli. E poi guardo qualche programma in televisione: l'altro giorno ho visto quello di Massimo Ranieri, Sogno o son desto». Può fumare i toscani. L'altra grande passione, le canzoni di Sergio Bruni, a Parma non gliele hanno fatte portare. É lo stesso carcere dove era rinchiuso Totò Riina, fin quando venne portato a morire in ospedale: «Riina era uno spietato, lo incontrai due volte durante la latitanza e una volta gli buttai la pistola addosso». Il 15 maggio Cutolo ha compiuto i quarant'anni di carcere ininterrotto. Sono stati, almeno all'inizio, anni di carcere un po' strani, in cui l boss detenuto poteva scegliersi la prigione, la cella, i compagni-camerieri; ed alla sua porta bussavano politici, poliziotti, spie. Al giornalista, il boss ricorda la processione che veniva a chiedergli di intercedere per la liberazione di Ciro Cirillo, l'assessore campano rapito dalla Br: don Raffaele intervenne, le Br accolsero la mediazione, Cirillo - a differenza di Moro - tornò a casa. Lo Stato, racconta Cutolo, alla porta della sua cella è tornato a bussare più di recente: «Fino a due anni fa sono venuti per convincermi a parlare. Quando stavo nel carcere di Carinola mi proposero di andare in una villetta con mia moglie per fare l'amore con lei, ma io non ho voluto: non volevo far arrestare qualcuno per poter stare con Immacolata, non l'avrei mai accettato. Il pentimento è davanti a Dio». Non mi pento, manda a dire Cutolo: ed è forse un segnale per tranquillizzare quelli fuori, quelli che ancora oggi - più a Roma che ad Ottaviano - potrebbero avere dei problemi se quest'uomo aprisse la sacca dei suoi segreti. «Io ho fatto tanto male ed è giusto che resti qui dentro», manda a dire Cutolo. A dicembre ha compiuto 77 anni, due terzi della sua vita l'ha passata dietro le sbarre. I morti che pesano sulla sua coscienza sono innumerevoli: di alcuni dice «me li sogno di notte», di altri delitti dà una spiegazione cruda, prosaica. Il vicedirettore di Poggioreale, Giuseppe Salvia, lo fece ammazzare «perché mi faceva perquisire sempre, ogni volta che entravo e uscivo dalla cella, non ne potevo più. Mi spiace, ma che potevo fare?». Il comunicato del ministero sull'intervista è duro: «L'intervista di Cutolo non è mai stata autorizzata, si sta procedendo alla ricostruzione della catena di responsabilità che ha portato a questo fatto increscioso e si prospettano provvedimenti esemplari». Certo, Cutolo avrebbe potuto rifiutare di rispondere: ma, come dice il suo legale Gaetano Aufiero, «uno che da venticinque anni non vede nessuno, se viene chiamato a colloquio da qualcuno non può che averne piacere....»

L’ex boss della nuova camorra organizzata ha quasi 80 anni e da 57 è sepolto vivo in galera. Don Raffale Cutolo è vecchio malato e senza guappi ma è ancora al carcere duro. Chi ha paura di lui? Damiano Aliprandi il 19 febbraio 2020 su Il Dubbio. Come anticipato da Il Dubbio nella versione on line, il fondatore della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo è stato ricoverato urgentemente, mercoledì sera, nel reparto detentivo per i reclusi al 41 bis dell’ospedale di Parma. Il garante del comune di Parma dei diritti dei detenuti Roberto Cavalieri – raggiunto da Il Dubbio -, ha spiegato che, su sollecitazione dei familiari, è andato a far visita all’ex boss. L’ha fatto sia per verificare le sue condizioni e sia per chiedere all’amministrazione penitenziaria di anticipare i colloqui con i familiari che erano già fissati per sabato, come prevede il regolamento per chi è recluso nel carcere duro. Quella di Raffaele Cutolo è stata l’ennesima crisi respiratoria, già verificatasi nel recente passato, ma nel frattempo le sue condizioni fisiche si sono aggravate a causa della lunga detenzione. Ha quasi 80 anni, detenuto da 57 anni, e fin dagli anni 90 è sepolto vivo ininterrottamente al 41 bis. Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, quasi cieco e, come se non bastasse, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muove le mani. Lo scorso settembre, anche in seguito alla sentenza della Corte costituzionale in merito ai reati ostativi che vietano – in assenza di collaborazione della giustizia – i benefici penitenziari, il legale ha impugnato il regime di 41 bis ed è in attesa che il Tribunale di Sorveglianza di Roma fissi una udienza. Ha senso tenere recluso in regime duro una persona anziana che, di fatto, non ha più nessun legame con l’organizzazione criminale da lui fondata e disciolta da tempo immemore? Raffaele Cutolo nasce nel 1941 a pochi passi dal Castello mediceo di Ottaviano, da genitori contadini. A soli 22 anni commette il suo primo omicidio per una questione d’onore. Dopo tre anni entra in carcere. Qui, con brevi periodi di latitanza, passerà l’intera sua vita, e da qui inizierà a lavorare al suo progetto criminale. Cutolo, all’interno del carcere napoletano di Poggioreale, formò un’associazione criminale sul modello di quella calabrese e siciliana, con una precisa data di fondazione: il 24 ottobre del 1970. I simboli, i rituali, le cerimonie erano fondamentali per ricostruire la “vera camorra”, ovvero una organizzazione che, secondo Cutolo, si sarebbe dovuta presentare come non individualistica, ma come una grande famiglia, rispettata e temuta, capace di aiutare e mantenere tutti i suoi affiliati, che, da fatto individuale, si trasformasse in una temuta macchina criminale. «La camorra-organizzazione venne formalmente ricostruita, ad oltre 70 anni dalla sua decretata fine. Era anche la camorra-massa: disoccupati, giovani sottoproletari, detenuti, in carcere per piccole rapine o furti isolati, pronti a fare il salto di qualità nel crimine organizzato. La Nuova camorra organizzata (Nco) di Cutolo rappresentò il loro senso di identità sociale», scrive Gigi Di Fiore nel suo libro “La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime guerre”. Le vecchie famiglie reagirono e si riunirono sotto il nome di Nuova Famiglia (Nf). Lo scontro tra le due organizzazioni criminali fu spietata, i morti erano centinaia, e si concluse nei primi anni ottanta con la sconfitta della Nco. Anche la Nuova famiglia smise di esistere. Nel 1992 ci prova il boss Carmine Alfieri a dare alla malavita organizzata campana una struttura verticistica creando la Nuova mafia campana (Nmc) anch'essa scomparsa dopo poco tempo. Attualmente la camorra si presenta come un'organizzazione di tipo orizzontale, (con varie bande territoriali più o meno in lotta tra loro) non verticistico. Il suo potere le consente il controllo delle più rilevanti attività economiche locali, in particolare modo nella provincia di Napoli. Raffaele Cutolo avrebbe anche avuto un ruolo importante per la liberazione di Ciro Cirillo, assessore regionale democristiano rapito nel 1981 da un comando di cinque appartenenti alle Brigate rosse nel garage della sua abitazione in Via Cimaglia, a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Una storia ancora non chiarita del tutto. Durante il sequestro, il commando delle Br apre il fuoco, uccidendo il maresciallo della Polizia Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, che fanno parte della scorta di Cirillo, mentre il suo assistente, Ciro Fiorillo, viene invece gambizzato. La politica e i servizi segreti – a differenza di quando avvenne con il rapimento di Aldo Moro - avrebbero intavolato subito una trattativa, a cui avrebbe dunque partecipato anche la Nuova camorra organizzata di Cutolo, per liberare l'assessore della Democrazia cristiana. Dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire, dopo 89 giorni di prigionia, il 24 luglio del 1981 Cirillo viene liberato in un palazzo in abbandono in via Stadera, a Napoli. C’è un verbale di un interrogatorio di Cutolo reso nel 2016. «Aiutai – ha spiegato l’ex boss - l'assessore Cirillo, potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi». Nel '78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, ha sostenuto lui, di salvare Moro. «Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava», ha detto durante l’interrogatorio. Cutolo fu recluso anche al carcere speciale dell’Asinara nel 1982. Fu mandato lì su sollecitazione del presidente della Repubblica Sandro Pertini per porre fine a quello che allora veniva definito “il soggiorno” del boss nel penitenziario di Ascoli Piceno, dove si dice potesse contare su una camera elegantemente arredata, un segretario e un tuttofare. Un anno più tardi, si sposò all’Asinara – riaperto soprattutto per contenere i brigatisti rossi – che ha segnato duramente la sua esistenza: arrivò infatti da boss temuto e rispettato, se ne andò dall’Asinara poeta, dopo aver scritto il suo primo libro di poesie. Parliamo del maggio 1893 quando Cutolo, detenuto nel Bunker della diramazione centrale del carcere dell’isolotto sardo (quello dove poi fu recluso Totò Riina), convola a nozze con una giovane donna di Ottaviano conosciuta quando era già detenuto. Lei è Immacolata Iacone e rimarrà per sempre affianco a lui. Grazie all’inseminazione artificiale, autorizzata dalla magistratura di sorveglianza, dodici anni fa hanno avuto una figlia, Denyse. Per il 41 bis, a 12 anni, ora è maggiorenne e non può più abbracciare il padre, ma salutarlo tramite un vetro divisorio. Ma davvero una ragazzina di 12 anni è adulta? Davvero può rinunciare senza traumi all'idea di toccare un genitore in carcere e tenergli la mano, anche se quel genitore si chiama "O Prufessore" e a suo tempo muoveva eserciti di guappi armati e dava ordini a gente che mangiava il cuore dei nemici? Ma questa è un’altra vicenda che riguardano tutte quelle misure afflittive contemplate dal 41 bis e che sono tuttora argomento di discussione.Resta il dato oggettivo che “Don Raffaè”, reso famoso da Fabrizio De Andrè in una canzone a lui dedicata, e da Giuseppe Tornatore nel film “Il camorrista”, interpretato da Ben Gazzara e ispirato al libro di Joe Marrazzo, ora è vecchio, malato e attualmente ricoverato in ospedale. Ha senso il 41 bis visto che lo scopo originario era finalizzato esclusivamente ad evitare che un boss mandi messaggi al proprio gruppo di appartenenza criminale?

Raffaele Cutolo ricoverato in ospedale, il legale: “Da mesi attendiamo udienza su 41 bis”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. L’ex boss della camorra napoletana, Raffaele Cutolo, è stato ricoverato all’ospedale di Parma, nel reparto riservato ai detenuti, in seguito a una crisi respiratoria avvenuta nella notte tra martedì 18 e mercoledì 19 febbraio. Cutolo, 78 anni, è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di massima sicurezza di Parma. Sulle sue condizione c’è il massimo riserbo così come conferma il suo legale, il penalista Gaetano Aufiero. “E’ in ospedale dalla giornata di ieri – dichiara telefonicamente al Riformista – ma non posso aggiungere altro per rispetto della privacy del mio assistito”. Aufiero sottolinea la massima disponibilità e “civiltà” ricevuta “dal carcere e dall’ospedale di Parma”. Lo stesso legale ha presentato la scorsa estate un reclamo contro il carcere ostativo al Tribunale di Sorveglianza di Roma ma “ad oggi, sono passati sette mesi e i giudici non si sono ancora pronunciati”. L’ex boss di Ottaviano, capo della Nuova Camorra Organizzata, ha già passato in carcere 56 dei suoi 78 anni. Sta scontando diversi ergastoli, tra cui quello relativo alla morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nel 1981. Le sue condizioni di salute, anche per via dell’età, sono precarie da anni. E’ recluso in una cella di 5-6 metri quadri, cammina poco e non fa attività fisica da tempo. Ha problemi di diabete, alla vista ed è affetto da artrite e prostatite. Da qualche mese può vedere solo attraverso un vetro la figlia (avuta con l’inseminazione artificiale) che ha compiuto più di 12 anni.

Don Raffale Cutolo è vecchio malato e senza guappi ma è ancora al carcere duro. Chi ha paura di lui? Damiano Aliprandi il 21 febbraio 2020 su Il Dubbio. L’ex boss della nuova camorra organizzata ha quasi 80 anni e da 57 è sepolto vivo in galera. Come anticipato da Il Dubbio nella versione on line, il fondatore della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo è stato ricoverato urgentemente, mercoledì sera, nel reparto detentivo per i reclusi al 41 bis dell’ospedale di Parma. Il garante del comune di Parma dei diritti dei detenuti Roberto Cavalieri – raggiunto da Il Dubbio -, ha spiegato che, su sollecitazione dei familiari, è andato a far visita all’ex boss. L’ha fatto sia per verificare le sue condizioni e sia per chiedere all’amministrazione penitenziaria di anticipare i colloqui con i familiari che erano già fissati per sabato, come prevede il regolamento per chi è recluso nel carcere duro. Quella di Raffaele Cutolo è stata l’ennesima crisi respiratoria, già verificatasi nel recente passato, ma nel frattempo le sue condizioni fisiche si sono aggravate a causa della lunga detenzione. Ha quasi 80 anni, detenuto da 57 anni, e fin dagli anni 90 è sepolto vivo ininterrottamente al 41 bis. Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, quasi cieco e, come se non bastasse, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muove le mani. Lo scorso settembre, anche in seguito alla sentenza della Corte costituzionale in merito ai reati ostativi che vietano – in assenza di collaborazione della giustizia – i benefici penitenziari, il legale ha impugnato il regime di 41 bis ed è in attesa che il Tribunale di Sorveglianza di Roma fissi una udienza. Ha senso tenere recluso in regime duro una persona anziana che, di fatto, non ha più nessun legame con l’organizzazione criminale da lui fondata e disciolta da tempo immemore? Raffaele Cutolo nasce nel 1941 a pochi passi dal Castello mediceo di Ottaviano, da genitori contadini. A soli 22 anni commette il suo primo omicidio per una questione d’onore. Dopo tre anni entra in carcere. Qui, con brevi periodi di latitanza, passerà l’intera sua vita, e da qui inizierà a lavorare al suo progetto criminale. Cutolo, all’interno del carcere napoletano di Poggioreale, formò un’associazione criminale sul modello di quella calabrese e siciliana, con una precisa data di fondazione: il 24 ottobre del 1970. I simboli, i rituali, le cerimonie erano fondamentali per ricostruire la “vera camorra”, ovvero una organizzazione che, secondo Cutolo, si sarebbe dovuta presentare come non individualistica, ma come una grande famiglia, rispettata e temuta, capace di aiutare e mantenere tutti i suoi affiliati, che, da fatto individuale, si trasformasse in una temuta macchina criminale. «La camorra-organizzazione venne formalmente ricostruita, ad oltre 70 anni dalla sua decretata fine. Era anche la camorra-massa: disoccupati, giovani sottoproletari, detenuti, in carcere per piccole rapine o furti isolati, pronti a fare il salto di qualità nel crimine organizzato. La Nuova camorra organizzata (Nco) di Cutolo rappresentò il loro senso di identità sociale», scrive Gigi Di Fiore nel suo libro “La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime guerre”. Le vecchie famiglie reagirono e si riunirono sotto il nome di Nuova Famiglia (Nf). Lo scontro tra le due organizzazioni criminali fu spietata, i morti erano centinaia, e si concluse nei primi anni ottanta con la sconfitta della Nco. Anche la Nuova fmiglia smise di esistere. Nel 1992 ci prova il boss Carmine Alfieri a dare alla malavita organizzata campana una struttura verticistica creando la Nuova mafia campana (Nmc) anch’essa scomparsa dopo poco tempo. Attualmente la camorra si presenta come un’organizzazione di tipo orizzontale, (con varie bande territoriali più o meno in lotta tra loro) non verticistico. Il suo potere le consente il controllo delle più rilevanti attività economiche locali, in particolare modo nella provincia di Napoli. Raffaele Cutolo avrebbe anche avuto un ruolo importante per la liberazione di Ciro Cirillo, assessore regionale democristiano rapito nel 1981 da un comando di cinque appartenenti alle Brigate rosse nel garage della sua abitazione in Via Cimaglia, a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Una storia ancora non chiarita del tutto. Durante il sequestro, il commando delle Br apre il fuoco, uccidendo il maresciallo della Polizia Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello, che fanno parte della scorta di Cirillo, mentre il suo assistente, Ciro Fiorillo, viene invece gambizzato. La politica e i servizi segreti – a differenza di quando avvenne con il rapimento di Aldo Moro – avrebbero intavolato subito una trattativa, a cui avrebbe dunque partecipato anche la Nuova camorra organizzata di Cutolo, per liberare l’assessore della Democrazia cristiana. Dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire, dopo 89 giorni di prigionia, il 24 luglio del 1981 Cirillo viene liberato in un palazzo in abbandono in via Stadera, a Napoli. C’è un verbale di un interrogatorio di Cutolo reso nel 2016. «Aiutai – ha spiegato l’ex boss – l’assessore Cirillo, potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi». Nel ’78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, ha sostenuto lui, di salvare Moro. «Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava», ha detto durante l’interrogatorio. Cutolo fu recluso anche al carcere speciale dell’Asinara nel 1982. Fu mandato lì su sollecitazione del presidente della Repubblica Sandro Pertini per porre fine a quello che allora veniva definito “il soggiorno” del boss nel penitenziario di Ascoli Piceno, dove si dice potesse contare su una camera elegantemente arredata, un segretario e un tuttofare. Un anno più tardi, si sposò all’Asinara – riaperto soprattutto per contenere i brigatisti rossi – che ha segnato duramente la sua esistenza: arrivò infatti da boss temuto e rispettato, se ne andò dall’Asinara poeta, dopo aver scritto il suo primo libro di poesie. Parliamo del maggio 1893 quando Cutolo, detenuto nel Bunker della diramazione centrale del carcere dell’isolotto sardo (quello dove poi fu recluso Totò Riina), convola a nozze con una giovane donna di Ottaviano conosciuta quando era già detenuto. Lei è Immacolata Iacone e rimarrà per sempre affianco a lui. Grazie all’inseminazione artificiale, autorizzata dalla magistratura di sorveglianza, dodici anni fa hanno avuto una figlia, Denyse. Per il 41 bis, a 12 anni, ora è maggiorenne e non può più abbracciare il padre, ma salutarlo tramite un vetro divisorio. Ma davvero una ragazzina di 12 anni è adulta? Davvero può rinunciare senza traumi all’idea di toccare un genitore in carcere e tenergli la mano, anche se quel genitore si chiama “O Prufessore” e a suo tempo muoveva eserciti di guappi armati e dava ordini a gente che mangiava il cuore dei nemici? Ma questa è un’altra vicenda che riguardano tutte quelle misure afflittive contemplate dal 41 bis e che sono tuttora argomento di discussione. Resta il dato oggettivo che “Don Raffaè”, reso famoso da Fabrizio De Andrè in una canzone a lui dedicata, e da Giuseppe Tornatore nel film “Il camorrista”, interpretato da Ben Gazzara e ispirato al libro di Joe Marrazzo, ora è vecchio, malato e attualmente ricoverato in ospedale. Ha senso il 41 bis visto che lo scopo originario era finalizzato esclusivamente ad evitare che un boss mandi messaggi al proprio gruppo di appartenenza criminale?

Raffaele Cutolo in ospedale, l’unica richiesta dell’ex boss: “Fatemi abbracciare mia figlia”. Vito Faenza de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova camorra organizzata, uno dei boss più temuti della storia del crimine, l’ispiratore di trame vere e immaginarie, nonché di film, canzoni e romanzi, è stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Parma per un peggioramento delle sue condizioni di salute. In carcere dal 1979, è dal 1995 in regime di carcere duro al 41 bis. “Non è grave, ma ha bisogno di cure migliori” ha detto il suo avvocato, Gaetano Aufiero che di recente ha presentato istanza al Tribunale di Sorveglianza affinché Il suo assistito, che ha 78 anni, possa abbracciare la figlia di 13 anni, concepita attraverso l’inseminazione artificiale con autorizzazione ottenuta dal ministero di Giustizia nel 2001. Tragedia e parodia, vero e falso, possibile e verosimile: tutto è vissuto in lui, e tutto ha contribuito a farne un mito, sebbene negativo. Un giorno, nel 1988, si sparse la voce che stava lì lì per pentirsi. Da Napoli accorse il pm Greco per interrogarlo. Macché. “Le mie donne mi hanno chiesto di non pentirmi”, si sentì dire. La sua “carriera” criminale Cutolo la comincia il 24 settembre del 1963, quando uccide Mario Viscido che aveva offeso la sorella. Rimane in fuga due giorni, poi si costituisce e resta in carcere fino al 1970, ma torna libero per decorrenza dei termini. Quando la Corte di Appello di Napoli riduce la pena dell’ergastolo a 24 anni, Cutolo deve tornare in carcere, ma diventa uccel di bosco. Nel 1971 viene però nuovamente arrestato per un errore grossolano: imbocca una strada a senso unico e si trova parata davanti un’auto dei carabinieri. Nonostante abbia frequentato solo la quinta elementare e non abbia dimostrato particolare attitudine allo studio (dai 14 anni fino all’omicidio ha svolto lavori di varia natura) in carcere diventa “o’ prufessore” (il professore), perché sa leggere e scrivere. Il prestigio tra i reclusi gli deriva da un episodio controverso: avrebbe sfidato, secondo i suoi fedelissimi, Antonio Spavone, un boss della camorra, che però ha smentito l’episodio. In realtà, Cutolo si era affiliato alla ‘ndrangheta e grazie a questa affiliazione riesce ad ottenere vari privilegi. Poi, seguendo proprio i riti di affiliazione della mafia calabrese, crea la Nco, cioè dà un vertice a una realtà criminale storicamente acefala, e fa aderire alla sua nuova creatura centinaia di detenuti (alla fine degli anni ’70 le forze di polizia li stimeranno in 3.000). Il sistema è dei più elementari. L’organizzazione distribuisce i proventi delle estorsioni fra gli affiliati e pensa, economicamente, alle famiglie nel caso finiscano in carcere. La struttura è piramidale, al vertice c’è Raffaele Cutolo (il Vangelo) sotto i Santisti, poi i capizona e infine i semplici affiliati. Il capo resta a Poggioreale fino al 1977, quando gli viene riconosciuta l’infermità mentale. È ricoverato prima all’ospedale psichiatrico di Sant’Eframo nuovo, a Napoli, poi in quello di Aversa, dal quale evade il 5 febbraio del 1978, nelle prime ore del pomeriggio, grazie a un piano organizzato da Giuseppe Puca (uno dei santisti) che fa saltare il muro di cinta, mentre il boss era nel giardino. Durante la latitanza ad Albanella, un centro in provincia di Salerno, sostiene di aver offerto ai servizi segreti il suo interessamento per rintracciare Aldo Moro, e che il suo aiuto viene rifiutato. Lo ribadisce anche qualche anno dopo davanti alla commissione di inchiesta del Parlamento. Durante la latitanza va a spasso per l’Italia con i documenti di un ingegnere incensurato. “A Milano fummo bloccati dalla polizia, dopo il controllo delle generalità il capo pattuglia mi prese da parte e – ha raccontato più volte – mi disse: attenzione ingegnere, che il suo autista è un pregiudicato”. Un altro errore lo commette il 10 maggio del 1979, quando telefona a un giornale per intimare la liberazione di un ragazzo rapito a San Giuseppe Vesuviano. Appena pubblicata la notizia della telefonata, attraverso i tabulati del gestore telefonico, si riesce a risalire all’utenza da dove ha chiamato. Il 19 maggio il boss della Nco viene arrestato. Da quel momento non lascerà più il carcere. Resta per qualche mese a Poggioreale e da qui trasferito nel “supercarcere” di Marino del Tronto dove, però, ha a disposizione una specie di suite, un paio di segretari e dove riceve quotidianamente visite e addirittura gli viene portato il pane fresco dai picciotti da Ottaviano. Oramai ha grosse disponibilità di denaro e compra il casino di caccia mediceo di Ottaviano per 270 milioni. Durante un processo nel quale è imputato assieme ad alcuni camorristi e al figlio che ha appena riconosciuto, riceve l’omaggio di un calciatore dell’Avellino, Juary e del suo presidente, Sibilia. Scoppia la guerra nella camorra. Cutolo pretende dai contrabbandieri diecimila lire per ogni cassa di sigarette di contrabbando scaricata sulla costa campana. Il rifiuto è netto, allora i cutoliani tentano di uccidere il nipote del boss Michele Zaza, che viene solo ferito. Correva l’anno 1979 e la reazione è violenta. Viene costituita una associazione fra gli anti-cutoliani, La nuova famiglia, e i morti ammazzati si contano a centinaia. In quattro anni saranno un migliaio le vittime di questa “guerra”. Cutolo, comunque, è al massimo del potere camorrista. Così nell’81, quando viene rapito dalle Br Ciro Cirillo, l’assessore regionale della Dc, si mettono in moto politica, servizi segreti e camorristi: tutti per ottenere la liberazione dell’ostaggio, che avverrà dietro il pagamento di un riscatto di 1450 milioni. Si interessa anche di Roberto Calvi e la sua cella viene perquisita durante il sequestro del generale Usa Dozier. Comincia, proprio da questi contatti con la politica, la parabola discendente. Vengono pubblicati articoli che descrivono la sua cella e i privilegi di cui gode a Marino del Tronto e il presidente Pertini lo fa trasferire a l’Asinara. Sposa Immacolata Iacone, conosciuta nel carcere marchigiano. Nel 1983, però, due fedelissimi, Barra e Pandico, diventano pentiti. Finiscono dietro le sbarre circa 850 persone (tra cui Enzo Tortora), nonostante i tanti difetti (e assoluzioni) il blitz segna la fine della sua organizzazione. Ottiene il permesso per fare la fecondazione artificiale nel 2001 e la moglie dà alla luce una bambina, Denise. Nel corso degli anni gli vengono dedicati numerosi libri. Uno, “Il camorrista”, di Giuseppe Marrazzo (dal quale è tratto il film di Tornatore) lo fa inferocire perché contiene la perizia in cui si parla di suo padre alcolizzato. Il viale del tramonto è costellato di testimonianze, di cose dette e non dette nei processi. Poi arriva la canzone, don Raffaè, di Fabrizio De André. “Ah, che bello ‘o café, come in carcere lo sanno fa…”. Il carcere? “Non lo lascerò mai – disse anni fa in un processo – perché così muore un camorrista”.

·         Non è Tutto Bianco o Tutto Nero.

«La ’ndrangheta uccise papà, se mio marito è legato ai clan io sarò dalla parte dello Stato». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Carlo Macrì. «Io sono allibita, spiazzata, sconcertata. Ma devo rimanere lucida per capire se mio marito è innocente, e quindi va tirato fuori dal carcere, o se ha delle responsabilità. Perché se risulterà colpevole io, figlia di un servitore dello Stato ucciso dalla ‘ndrangheta, resterò dalla parte dello Stato», dice tra le lacrime Ivana Fava, 34 anni, moglie di Nino Creazzo, arrestato dalla polizia con l’accusa di «scambio elettorale politico-mafioso». Ma prima ancora figlia dell’appuntato dei carabinieri Antonino Fava, assassinato insieme al collega Vincenzo Garofalo il 18 gennaio 1994 alle porte di Reggio Calabria: delitto di collegato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, secondo la ricostruzione che ha portato a un processo in cui Ivana Fava è parte civile contro i boss imputati, assistita dall’ex pm, oggi avvocato, Antonio Ingroia. In più, lei stessa è stata carabiniere fino al 31 dicembre scorso, ufficiale della riserva selezionata con mansioni amministrative presso la scuola dell’Arma, intitolata al padre. Una vita dalla parte delle vittime e delle istituzioni, insomma. Finché l’inchiesta della Procura reggina ha svelato che gli affari della cosca Alvaro erano arrivati dentro casa sua, attraverso il marito Nino e il cognato Domenico (neoconsigliere regionale per Fratelli d’Italia) accusati di avere chiesto voti alla ‘ndrangheta «in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi e le esigenze dell’associazione mafiosa». Ivana Fava stenta a crederci: «Per come conosco mio marito non penso che possa essere un affiliato alle cosche, ma ora deve dare delle spiegazioni. Prima ai magistrati, poi a me. Io non sono un giudice, però voglio sapere che ha combinato. E che cosa è accaduto». E’ accaduto, per esempio, che Nino Creazzo frequentasse e fosse amico di Domenico Alvaro, boss della omonima cosca con 7 anni di pena già scontati per ’ndrangheta e riarrestato l’altro giorno. E che agli atti dell’inchiesta ci sia una foto, scattata in un ristorante, nella quale Alvaro e sua moglie Grazia sorridono accanto a Creazzo e sua moglie, Ivana Fava. Che ora ricorda: «Nino e Domenico Alvaro sono cresciuti insieme da ragazzini, e io e Graziella pure. E’ stata la mia migliore amica da quando eravamo bambine, ed è nipote di un mio zio acquisito. Poi ha fatto quel matrimonio, e da allora ci siamo sentite raramente. Io sapevo chi era Domenico Alvaro, ma ognuno fa le sue scelte. Quella cena me la sono trovata organizzata, ed è stata motivo di discussione con mio marito. Tante volte mi sono arrabbiata con lui per certe sue frequentazioni, se ci sono le intercettazioni in casa sentiranno anche le mie urla». In realtà gli investigatori hanno riportato un’intercettazione in cui Ivana Fava ride quando il marito le racconta di essersi rivolto a certi personaggi per aiutare un amico vittima degli usurai, e lei ora spiega: «Se hanno scritto che ridevo forse bisogna riascoltare tutto. Perché proprio in quella vicenda io avevo consigliato di seguire altre strade, non credo che si possa dedurre che ero d’accordo con mio marito. Io lo contestavo...», e la voce si rompe nuovamente nel pianto. Come quando cerca di spiegare un’altra frase intercettata dalla polizia, quando al marito che le parla dell’incontro con un generale in rapporti con l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, lei «ribatte che il ministro deve fare qualcosa per lei»: «Dal 1994 Salvini è stato l’unico politico che ha voluto omaggiare mio padre, e io ho apprezzato quel gesto. Forse ho detto quelle parole perché cercavo qualcuno a cui rivolgermi per ottenere l’equiparazione al grado di ufficiale ricoperto nell’Arma, ora che sono rientrata al ministero della Difesa come civile. Ma sono discorsi che si fanno tra marito e moglie, io non volevo niente. Quando Nino mi ha proposto di candidarmi come sindaco a Sant’Eufemia ho risposto di no. Mi dispiace...».Un sospiro, poi continua: «Lui ha un modo di parlare un po’ esagerato, io gli dicevo sempre di stare attento ma non potevo controllarlo in tutto. Questa storia dell’elezione del fratello era diventata un’ossessione, chissà a chi si è rivolto... Doveva rappresentare il cambiamento, per non lasciare la politica in mano ai criminali». Si blocca, intuendo il paradosso; perché l’inchiesta racconta che proprio con quella candidatura si sarebbe realizzata l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella politica calabrese. Riprende: «Capite in che situazione mi trovo? Non so che pensare. Ora sono venuta da mia madre, ne avevo bisogno. Anche lei è senza parole, ma come sempre è lei che conforta me».

Arrestato per associazione mafiosa il fratello della vedova dell’agente Schifani, nella scorta di Falcone. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. C’è anche Giuseppe Costa, fratello di Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta di Giovanni Falcone, tra le otto persone arrestate dalla Dia di Palermo (tra cui i fratelli Scotto). Secondo il gip del Tribunale che ha firmato la misura cautelare Costa, ufficialmente imbianchino disoccupato di 58 anni, avrebbe «fatto parte della famiglia mafiosa di Vergine Maria, mantenendo rapporti con esponenti mafiosi di altre famiglie (...) nell’interesse primario dell’organizzazione mafiosa». Avrebbe anche «organizzato e coordinato attività estorsive, nonché atti ritorsivi nei confronti di imprenditori e commercianti della zona». Non solo, avrebbe anche «provveduto al mantenimento degli affiliati detenuti e alla corresponsione pro quota dei proventi dell’associazione mafiosa». La sorella di Giuseppe Costa è Rosaria, vedova di Vito Schifani, il poliziotto di 27 anni morto nella strage di Capaci che lasciò la moglie 22enne e un figlio di appena 4 mesi. Quando, nella camera ardente allestita a Palazzo di Giustizia a Palermo, il Presidente del Senato Spadolini si avvicinò alla vedova, lei gli disse «Presidente, io voglio sentire una sola parola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola». Rosaria è famosa per il discorso che tenne durante i funerali del marito quando dall’altare tuonò contro i mafiosi dicendo «...io vi perdono però vi dovete mettere in ginocchio».

Mafia, Rosaria Costa vedova Schifani: «Mio fratello è un Caino: ora si inginocchi lui». Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. «Adesso inginocchiati tu, Pino, mio Caino, fratello traditore. Inginocchiati davanti a Dio e agli uomini. Chiedi perdono. E pentiti raccontando tutto quello che hai visto e sentito tra i mafiosi. Svela i nomi e gli sporchi affari di chi ti sei ritrovato vicino, stando ad accuse che sono palate di fango sulle nostre vite...». Dopo una notte insonne, le gocce, il colloquio con uno psicologo, la pressione che balla e la testa che scoppia, ecco Rosaria Costa reagire contro il fratello finito in carcere perché associato ai boss dell’Arenella e di Vergine Maria. Le borgate frequentate da bambina. Quel pezzo di Palermo da dove era fuggita via sposando a vent’anni Vito Schifani, uno degli agenti dilaniati nella strage di Capaci. Trent’anni dopo, nella sua nuova casa in Liguria, tutto avrebbe immaginato Rosaria, un figlio capitano della Guardia di Finanza, tranne di ritrovarsi col fratello Giuseppe, Pino per amici e parenti, in cella per associazione mafiosa.

Lei, che aveva lanciato ai boss il monito a pentirsi, «a inginocchiarsi», ripete lo stesso appello al fratello?

«Adesso è il turno di Caino. Di questo debosciato che non vedo da tempo, nemmeno quando corro a Palermo per assistere mia madre, alle soglie dei 90 anni, pronta per morire se qualcuno le raccontasse cosa sta accadendo. Come vorrei morire io. Travolta dalla vergogna. Ma forse un modo per uscirne, per non soffocare, per tenere ancora la testa alta c’è. E dipende da Caino...».

Che cosa vuole fargli sapere?

«Che per salvarsi, che per salvarci adesso deve chiedere ai magistrati di essere ascoltato, di ammettere tutte le sue colpe, se ne ha, e di rivelare ogni recondito segreto, se ne conosce. Parlare e accettare il giudizio degli uomini, non solo quello di Dio».

Tornava qualche volta in quelle due borgate?

«Mai. Ho rivisto forse due anni fa la casa di Pino, una stamberga malandata a due passi dal cimitero, vicino a un mare che potrebbe essere bellissimo come tutta la zona dove invece si soffoca perché l’aria della mafia arriva alla gola».

Aveva intuito che suo fratello, come rivela un pentito, s’era dissociato con i padrini della mafia prendendo le distanze da lei quando, nel ’92, tuonò contro Cosa nostra?

“Come avrei potuto capire e sapere tutto questo? Ignoro se sia vero. Per me Pino resta quel fratello che ho visto crescere con mille problemi. L’adolescenza di un bullizzato. Lo chiamavano “Pino il checcho”. Per la balbuzie. Sempre isolato. A un tratto, a tredici anni, non è più andato a scuola. E ha cominciato a cercare un lavoro, a fare il manovale, il muratore...».

Frequentando pessimi personaggi?

«Gli ambienti malsani delle borgate palermitane. Non riesco a capire come possa essere caduto nella trappola. I mafiosi sono dei mostri che reclutano questi elementi. Soprattutto i deboli. Per farli sentire forti. Sfruttandoli. Ominicchi. Ma non può essere una attenuante per Pino che così ha rovinato la sua e la mia vita».

E se suo fratello non dovesse accogliere l’invito a pentirsi?

«Allora lo ripudierei definitivamente. Ma non può restare in silenzio rovinando pure i suoi ragazzi, un figlio benzinaio, una figlia estetista. Li affosserebbe per sempre».

Dicono che fosse al servizio degli Scotto e di quel padrino comparso dopo il carcere perfino sulla barca con la statua di Sant’Antonio e la fidanzata a bordo...

«Manifestazioni di volgare potenza messe in scena per conquistare un malinteso rispetto anche usando e sfruttando i santi e la Chiesa. Per i creduloni come quel Caino dal quale adesso devo difendermi per salvare anche la vita di mio figlio...».

Un capitano delle Fiamme Gialle...

«Capite la vergogna che si rovescia addosso alla nostra storia per quel maledetto? Aveva quattro mesi il mio bimbo quando arrivò la strage portando via la nostra vita. Che fatica riprenderla a pezzi, provare a costruire un futuro senza Vito per quel bimbo che cresceva facendo mille domande. E io dovevo cercare le risposte. Tormenti intimi a parte, adesso sembrava che tutto si stesse rimettendo a posto. Parlo di mio figlio. Vederlo giurare fra i cadetti, superare la laurea, la prima divisa, i gradi... e le manifestazioni antimafia con il capo della polizia, con Don Ciotti, con gli altri familiari di vittime di mafia... Ecco, penso a tutto questo e chiedo scusa al mondo per avere avuto un mostro in famiglia».

SALVO PALAZZOLO per repubblica.it il 19 febbraio 2020. Il ricordo della strage di Capaci resta legato alla sua immagine: una giovane donna in lacrime, appena rimasta vedova, che nella Cattedrale di Palermo si rivolge ai mafiosi che le hanno ucciso il marito e urla: "Io vi perdono, ma vi dovete inginocchiare".  Rosaria Schifani, vedova di Vito Schifani, saltato in aria su una montagna di tritolo il 23 maggio del 1992, è diventata l'emblema del dolore di un'intera nazione. Oggi, a distanza di 28 anni dall'attentato, si torna a parlare di lei e della sua famiglia perché tra gli arrestati nel blitz della Dia che ha riportato in cella il boss palermitano Gaetano Scotto c'è suo fratello, Giuseppe Costa, ufficialmente muratore, di fatto, dicono gli investigatori, riscossore del pizzo per conto del clan. Giuseppe Costa è accusato di associazione mafiosa: sarebbe affiliato alla famiglia di Vergine Maria. Per conto della cosca avrebbe tenuto la cassa, gestito le estorsioni, "convinto" con minacce le vittime - imprenditori e commercianti - a pagare la "tassa" mafiosa, assicurato alle famiglie dei mafiosi detenuti il sostentamento. Ristoranti, negozi, concessionarie di auto, imprese: nel quartiere pagavano tutti e Costa sarebbe stato tra i collettori del pizzo. Gli inquirenti lo descrivono come pienamente inserito nelle dinamiche mafiose della "famiglia", tanto che, alla scarcerazione del boss della zona, Gaetano Scotto, per rispetto al padrino invita le sue vittime a dare il denaro direttamente a lui. Il trojan piazzato nel cellulare di Scotto ha svelato ogni parola. In due anni di intercettazioni, però, mai nessun riferimento alla strage di Capaci, alla sorella che vive da anni lontano dalla Sicilia, al nipote diventato ufficiale della Guardia di finanza. Come se quel lutto terribile che ha attraversato una famiglia e un intero Paese non fosse mai esistito. Giuseppe Costa aveva già preso le distanze in modo plateale dalla sorella diventata in quel maggio terribile del 1992 il simbolo della Sicilia che non si rassegnava alla mafia. Racconta il collaboratore di giustizia Maurizio Spataro di avere chiesto al suo capo, il boss Giovanni Bonanno, se ci si poteva fidare del fratello di Rosaria Costa. Era metà anni Duemila. Bonanno spiegò che Costa si era "comportato bene, perché aveva preso le distanze dalla sorella". E tanto era bastato. Costa avrebbe organizzato incontri riservati a casa sua, sarebbe stato messaggero fidato: Spataro racconta pure che avrebbe anche custodito delle armi di alcuni uomini d’onore. L'ultima indagine della procura di Palermo fotografa anche il ruolo di vertice che Scotto aveva riconquistato nel clan. Già accusato di mafia, il boss è ora parte civile nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino. Accusato ingiustamente da falsi pentiti fu condannato all'ergastolo e poi scarcerato. Oggi siede come vittima davanti ai tre poliziotti accusati di aver depistato l'indagine. Nel blitz di oggi è stato coinvolto anche il fratello Pietro, tecnico di una società di telefonia, anche lui accusato nell'inchiesta sull'uccisione di Paolo Borsellino. Per la polizia aveva captato la chiamata con cui il magistrato comunicava alla madre che stava per andare a farle visita nella sua abitazione di via D'Amelio davanti alla quale fu piazzata l'autobomba. Pietro Scotto, condannato in primo grado, era stato poi assolto in appello.

SALVO PALAZZOLO per repubblica.it il 19 febbraio 2020. Ha appena finito di leggere i giornali, che riportano la notizia dell'arresto del fratello per associazione mafiosa, e dice: "Sono devastata per tutto questo". Rosaria Costa, la vedova dell'agente Vito Schifani, morto nella strage di Capaci, non ha parole per definire il suo dolore. "È come se fosse morto ieri purtroppo", dice a Repubblica. Non lo nomina neanche il fratello che adesso è rinchiuso nel carcere palermitano di Pagliarelli con l'accusa di essere stato "un mafioso riservato" al servizio della cosca mafiosa dell'Arenella, quella guidata da uno scarcerato eccellente, Gaetano Scotto, il boss ritenuto dai magistrati trait d'union fra mafia e ambienti deviati delle istituzioni. "Sono devastata", ripete. "Ma la mafia non mi fermerà". Rosaria Costa vive ormai da anni lontano dalla Sicilia, ma continua senza sosta il suo impegno per la legalità. E le parole pronunciate il giorno del funerale del marito e delle altre vittime della strage di Capaci ("Io vi perdono, ma voi dovete inginocchiarvi") sono ancora un simbolo di ribellione, un percorso di riscatto. Chissà, forse, Rosaria sta meditando di rilancare il suo appello, proprio a suo fratello arrestato per associazione mafiosa. Ma per il momento è chiusa nel suo dolore. Però, dice ancora: "Mi hanno voluto colpire al cuore per quelle parole che ho detto. La mafia non mi fermerà, continuerò il mio impegno". Adesso, Rosaria vuole capire. Vuole capire anche il senso di quelle parole pronunciate dal boss Francesco Bonanno qualche anno fa, pure di questo ha letto su Repubblica questa mattina. "Di Costa possiamo fidarci - disse il capomafia di Resuttana a un suo fidato, Maurizio Spataro, poi diventato collaboratore di giustizia - si è comportato bene, ha preso le distanze da sua sorella". Giuseppe Costa era davvero un uomo fidato del clan, teneva addirittura la cassa, si occupava della riscossione del pizzo e dell'assistenza alle famiglie dei detenuti. "Per me è come se fosse morto ieri", dice sua sorella.

La vedova Schifani scarica il fratello indagato per mafia: ma non è tutto bianco o nero. Gioacchino Criaco de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. «Chi sono i mafiosi? Sono criminali senza alcuna pietà che ritengono di essere i padroni della vita e della morte, ma sono esseri infelici che si nutrono di ingiustizie e del sangue di innocenti, spargendo lutti ed odio a piene mani…». E ancora: «Se non pagano per i loro delitti e se non si pentono dei loro peccati, li attende un baratro senza fine. Non ho spirito di vendetta e, nel loro interesse, per il mio Vito allo Stato ho chiesto giustizia e a Dio li affido perdonandoli. Infatti ritengo che, se nutriamo spirito di vendetta non faremmo altro che aggiungere barbarie a barbarie, in una catena di orrori senza fine». Sono parole di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta di Giovanni Falcone, morto insieme al magistrato nell’attentato di Capaci. Sono meno dure di quelle pronunciate durante il rito funebre per le esequie del marito e dei morti della strage, meno dure di quelle che, nella camera ardente, chiedevano al ministro Spadolini di vendicare i martiri. Sono parole contenute in una lettera del 2015, a 23 anni di distanza, indirizzati agli alunni di una scuola ligure durante l’ennesima commemorazione del massacro. Rosaria si è trasferita in Liguria, ha messo in un canto del cuore le rovine, si è costruita una nuova famiglia portandoci dentro il figlio che aveva avuto con Vito: Emanuele, che è diventato finanziere. E Rosaria ha un fratello che ora è stato arrestato per mafia, ed Emanuele ha uno zio che è accusato di appartenere a quell’organizzazione che lo ha privato del padre. C’è un vecchio cunto, dice: «Gli abitanti del versante orientale del Mongibello, dopo aver goduto del tepore del sole lo aspettavano sulla cima del monte e lo coprivano con una maschera, ogni giorno più mostruosa. Gli abitanti del versante occidentale non avevano mai potuto godere del suo calore. Anzi erano terrorizzati dalla sua orripilante faccia. Scappavano dal loro mondo, andando lontano o consegnandosi schiavi agli artefici dell’inganno. Tutto sin quando uno schiavo arguto, scoperto il trucco, non si nascose a levar la maschera apposta al sole dai levantini». Il Mongibello è per i siciliani il vulcano. Per i continentali è l’Etna. Sempre fuoco sputa, ma può essere l’uno o l’altro, a seconda di come lo si voglia vedere. A certe latitudini nulla è come sembra, gli schemi generali non valgono, non possono applicarsi dappertutto, nello stesso modo. Non si possono apporre alle vicende umane e ai percorsi culturali tortuosi, figli di sovrapposizioni continue. Così nella stessa famiglia Impastato c’è il veleno e l’antidoto alla pozione mortale. Non perde di rilievo morale la figura di Rosaria, resta intangibile il sacrificio di Vito, anche se Giuseppe Costa, per ora solo indagato, davvero dovesse essere ritenuto affiliato alla famiglia mafiosa della Vergine Maria, davvero fosse agli ordini di Gaetano Scotto. Gaetano Scotto che attualmente è indagato per mafia, ma contemporaneamente è parte civile nel processo sul depistaggio della strage di via D’Amelio contro tre poliziotti, dopo essere stato prima condannato all’ergastolo e poi assolto per la morte del giudice Borsellino e degli uomini della sua scorta. La notizia dell’arresto di Giuseppe Costa, muratore incensurato di 53 anni, fa scalpore, certo, per le parentele, ma è un fatto tutt’altro che sorprendente alle latitudini basse: non perché tutto sia mafia o lo possa essere. Perché la mafia è il terrazzo di don Mariano, del Giorno della Civetta, lo Stato lo guarda dalla caserma del partigiano Bellodi e non lo capisce perché la gente sale e scende da quella veranda. Continua a guardare solo con gli occhi del carabiniere, utilizzando il bianco e il nero. Mentre don Mariano possiede un’infinita gamma di colori per dipingere gli uomini. Il Sud è un susseguirsi continuo di bivi e intersezioni, tutti senza cartelli indicatori. È facile smarrirsi. È complicato orientarsi. Si vaga cercando di capire chi siano i compagni di viaggio. E manca quasi del tutto la possibilità di riprendere il cammino dall’inizio.

·         L'antimafia degli ipocriti sinistri.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

La Dia ridotta a reception dei pm. La triste parabola della Dia: da eccellenza con Falcone a esercito di Kim. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Da reparto investigativo di punta a “passacarte” della prefetture. È il triste epilogo della Dia (Direzione investigativa antimafia), il reparto d’eccellenza creato nel 1991 da Giovanni Falcone per contrastare efficacemente il crimine organizzato. La genesi della Dia è nota: l’esperienza del maxi processo di Palermo aveva evidenziato le criticità dei classici metodi d’indagine nella lotta alla mafia. Per condurre le investigazioni più delicate e complesse, la magistratura aveva bisogno di una polizia giudiziaria maggiormente qualificata. La soluzione proposta da Falcone fu, dunque, quella di ottimizzare le esperienze operative delle forze di polizia in un’unica realtà investigativa. Nacque quindi nel 1991 la Dia, con la fusione di carabinieri, polizia e guardia di finanza. A distanza di quasi trent’anni, il reparto ha però assunto le fattezze dell’esercito del Maresciallo Kim, dove i comandanti sono più dei soldati. Una fonte interna ha riferito che il rapporto sarebbe di un funzionario ogni tre agenti. Le pattuglie, ad esempio, sarebbero composte anche da due tenenti colonnelli perché mancherebbero i marescialli. Come mai si è giunti ad uno scenario da Corea del Nord? Secondo la fonte, se i vertici della Dia richiedono ai comandanti delle forze di polizia il personale, il più delle volte non viene autorizzato al transito. Pare che siano rarissimi, se non inesistenti, i trasferimenti di personale già specializzato nel contrasto alle mafie. Ai carabinieri del Ros, ad esempio, è precluso l’accesso alla Dia. La Dia ha sede in ogni distretto di Corte d’Appello. Senza transiti gli organici si stanno riducendo e alcune sedi sono composte adesso di solo venti unità. E ciò soprattutto nelle regioni del centro e del nord dove il pericolo del riciclaggio di denaro è una costante da anni. Ma cosa fa in concreto questo esercito di ufficiali? Molto poco, sempre da quanto risulta al Riformista. Spesso si limita ad evadere le certificazioni antimafia richieste a pacchi dalle prefetture, controllando al massimo i precedenti sulla banca dati delle forze di polizia, perché non vi sono uomini per fare le verifiche sul territorio. “L’ostruzionismo” delle forze di polizia non riguarda solo il personale ma anche l’accesso alle banche dati più qualificate. Pare che ai finanzieri sia precluso l’uso delle banche dati “economiche”, a iniziare dal terribile “Serpico”. Il motivo? Gelosia. Il comando generale della guardia di finanza vede come “competitor” la Dia in materia di contrasto sul piano economico. Lo stesso per i poliziotti. Non hanno nessuna possibilità di accedere alla banca dati degli alloggiati nelle strutture ricettive, banca dati nata nel periodo del terrorismo ma oggi altrettanto importante nel contrasto alla criminalità organizzata. Le Procure della Repubblica, sapendo come si è ridotta la Dia, non delegano più da tempo le importanti indagini antimafia perché consapevoli della scarsità di uomini e mezzi tecnologici a disposizione. Visti i ridottissimi organici alla Dia non riescono nemmeno a fare le indagini penali classiche, quelle sul territorio, quelle con le intercettazioni telefoniche, con i pedinamenti, le osservazioni perché non vi sono uomini per fare i servizi. Poi ci sono gli “scivoloni” della politica. Tralasciando Marco Minniti che da ministro dell’Interno nominò nel 2017 Giuseppe Calderozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per la vicenda dei pestaggi alla Diaz del G8 di Genova, vice capo operativo, nessuno ha mai preso di punta il problema. Ci vorrebbe coraggio per chiudere la Dia e poi sarebbe una decisione subito strumentalizzata, dove il proponente verrebbe accusato di abbandonare il contrasto alla mafia. Ma nello stesso tempo nessuno vuole mettersi contro i comandi generali delle forze di polizia e il dipartimento della pubblica sicurezza per pretendere che la Dia sia messa nelle condizioni di operare in modo efficace e completo. Alla fine, come nelle migliori tradizioni italiche, si è optato per la scelta di lasciare tutto così com’è. Senza infamia e senza lode.

Scopriamo il retrobottega dell’antimafia. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 19 Giugno 2020. “La vetrina e il retrobottega del negozio dell’antimafia”, è questo il titolo che insieme al Segretario, Sergio D’Elia, e alla Presidente, Rita Bernardini, abbiamo scelto per la riunione del Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem che si svolgerà domani, 20 giugno, dalle 9:30 alle 21:30 sulla piattaforma Zoom. I lavori saranno trasmessi anche in diretta su Radio Radicale e sui canali social YouTube e Facebook dell’associazione. L’obiettivo di questo terzo appuntamento del nostro Consiglio, dopo quelli di aprile e maggio, è affrontare le questioni legate all’antimafia andando oltre la vetrina, dove è esposto il capo nobile e fine della lotta alla mafia, per andare a guardare all’armamentario con cui la si contrasta e che si trova nel retrobottega. Tanto più nel momento in cui l’antimafia diventa la tempesta di parole di ministri di giustizia e manette, di esponenti di partito preso, di giornalisti di stampa e regime carcerario che non conoscano le basi minime della Costituzione. Due i punti centrali della riunione. Il primo, come sempre per Nessuno tocchi Caino-Spes contro spem, il vissuto delle persone. Interverranno, infatti, imprenditori vittime di misure interdittive e di prevenzione antimafia, Sindaci di Comuni sciolti per mafia, ex detenuti entrati al 41 bis da indagati e usciti da innocenti. Verrà ricordato anche Francesco di Dio, entrato in carcere a 18 anni e deceduto il 3 giugno scorso nel carcere di Opera, dopo 30 anni ininterrotti di ergastolo ostativo. Il secondo, di grande rilievo, è l’intervento previsto – oltre che degli avvocati difensori di imprenditori – dei docenti dell’Università di Ferrara che nel novembre 2019 hanno organizzato il seminario sul tema “Confische e sanzioni patrimoniali nella dimensione interna ed europea” con la partecipazione delle cliniche legali del Dipartimento di Giurisprudenza della stessa Università a fornire supporto in relazione a casi concreti. Nel corso dei lavori saranno discusse anche alcune proposte di iniziativa. Tra queste, una “Marcia del sale” delle vittime del sistema dell’Antimafia, della quale si avrà un piccolo saggio nelle testimonianze dei partecipanti a riunione del Consiglio Direttivo. E poi un documentario sulle vittime delle misure di prevenzione e interdittive antimafia da presentare a Strasburgo a supporto dei ricorsi incardinati davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. All’ordine del giorno della nostra riunione anche la campagna per il raggiungimento di 2.000 iscritti a Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem entro la fine dell’anno.

Col sigillo antimafia molti,  come dice Sciascia, fanno carriere, e molti, come dice il PM Maresca, fanno i soldi. 

Dagospia il 21 maggio 2020. Comunicato stampa di Paolo Cirino Pomicino. Ieri sera sulla rete 7 è andata in onda una trasmissione pensata e condotta da Andrea Purgatori ingiuriosa e calunniatrice della storia della Democrazia cristiana indicata come il partito della mafia con la quale avrebbe fatto un patto scellerato insultando così tutti i suoi uomini, compreso l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, leader indiscusso della Democrazia cristiana siciliana. Bugie ed omissioni si sono susseguiti ininterrottamente durante tutta la trasmissione falsificando così la storia repubblicana, senza alcuna impudenza. Chiederò alla cortesia della direzione della rete 7 di ospitarmi per una intervista con giornalisti indipendenti per evidenziare i grossolani falsi di una trasmissione che tenta di riscrivere la Storia del paese con la penna di quelli che furono vinti dalla politica democratica del cattolicesimo politico.

Dagospia il 28 maggio 2020. “Voi avete una narrazione che, in realtà, offende tutta la Democrazia Cristiana e l’attuale presidente della Repubblica che è stato commissario provinciale della Dc a Palermo e leader indiscusso della Dc siciliana”. Durissimo j’accuse di Paolo Cirino Pomicino in diretta a Andrea Purgatori, conduttore di Atlantide per la puntata dedicata alla strage di Capaci e sulla trattativa Stato-Mafia. “Una trasmissione ingiuriosa e calunniatrice della storia della Dc”, aveva detto l’ex ministro democristiano, di rito andreottiano, che ha voluto replicare punto per punto a quelle che lui definisce falsità e omissioni. “Se il maxiprocesso si è concluso, è solo perché quando buona parte dei boss erano usciti dal carcere per decorrenza dei termini, il governo Andreotti il 14 settembre 1989, su proposta del Guardasigilli Vassalli, fece un decreto legge che raddoppiava i termini della misura cautelare. Grazie a quella misura le forze dell’ordine provvidero a recuperare e riportare dietro le sbarre tutti i mafiosi che erano stati scarcerati”. Pomicino ricorda che quel provvedimento fu avversato dal Pci e in particolare da Luciano Violante il quale sostenne che c’erano "altre misure che potevano essere prese per controllare i boss usciti dal carcere”. E ancora: “Il dottor Di Matteo ha detto che dopo la strage di Capaci il decreto legge del governo Andreotti che istituiva il 41bis trovava una difficoltà in Aula Parlamentare. Lei sa chi faceva difficoltà? Il Partito comunista”. Alta tensione con Purgatori: “Lei non mi deve interrompere, altrimenti io parlo fino a tardi. Sono ospite della rete"...”Io non sono sintetico! Mi tolga la parola se vuole". Nando Dalla Chiesa aveva ricordato poco prima in un altro servizio che prima di andare a Palermo il padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa scrisse a Spadolini rivelandogli di aver paura della “famiglia politica più inquinata del luogo", Pomicino rammenta che la Dc ha espresso grandi uomini in Sicilia come Lillo Mannino (assolto 19 volte) e l’attuale presidente della Repubblica. Alle accuse di infangare anche il capo dello Stato, Purgatori ribatte a muso duro: “Questa non gliela lascio passare. Abbiamo parlato con estrema attenzione di Mattarella e di tutte le vittime di mafia. Adesso devo toglierle la parola”. Pomicino definitivo: “Lei deve chiedere scusa alla Democrazia cristiana. Sa cosa mi insegnavano i miei genitori quando ero ragazzino? Che si può sbagliare. Però quando uno sbaglia chiede scusa. E se non chiede scusa è solo un mascalzone”. Purgatori si morde la la lingua: “Va bene, mi tengo il mascalzone…”

"Su La7 troppe bugie sui rapporti mafia-Dc. L'aiutino ai boss dal Pci". L'ex ministro contesta lo show "Atlantide": "Noi duri contro Cosa nostra ma Violante..." Massimo M. Malpica, Venerdì 22/05/2020 su Il Giornale. Paolo Cirino Pomicino contro Andrea Purgatori. Con l'anniversario della strage di Capaci alle porte, il giornalista torna su La7 con una puntata di Atlantide dedicata all'attentato e alla trattativa Stato-mafia, ma l'ex ministro democristiano, davanti alla tv, balza sulla poltrona e detta un comunicato polemico al vetriolo, parlando di trasmissione «ingiuriosa e calunniatrice della storia della Dc» e chiedendo il diritto di replica. Cirino Pomicino ce l'ha soprattutto con la parte del programma dedicata al maxiprocesso contro i boss cominciato nel febbraio del 1986, e concluso con una raffica di condanne. «Cosa nostra è decimata e furiosa spiega la voce fuori campo di Purgatori sulle immagini dei boss dietro le sbarre la Dc non ha potuto fare nulla per impedire le condanne». «Di falsità e omissioni ce ne sono state talmente tante nel corso della trasmissione replica l'ex ministro dello scudocrociato che servirebbe un piccolo libro, ma questa proprio è la più grande».

Non le è piaciuto l'accostamento tra la rabbia dei mafiosi e l'impotenza del suo ex partito nel difenderli?

«Una falsità assoluta. Se il maxiprocesso si è concluso, è solo per un motivo. E precisamente perché quando buona parte dei boss erano usciti dal carcere per decorrenza dei termini, il governo Andreotti il 14 settembre 1989, su proposta del Guardasigilli Vassalli, fece un decreto legge che raddoppiava i termini della misura cautelare. Quel provvedimento fu come un mandato di cattura, infatti le forze dell'ordine provvidero a recuperare e riportare dietro le sbarre tutti i mafiosi che erano stati scarcerati».

Quindi rivendica il ruolo del governo e del partito di cui lei faceva parte nel aver permesso a quel processo di arrivare a conclusione.

«Certo. E anzi. Io mi occupavo ovviamente soprattutto di economia, altre faccende affliggevano la mia quotidianità, ma pensavo che quel decreto sarebbe andato liscio perché ovviamente condiviso, invece avvenne uno scontro durissimo con l'opposizione, con il Pci. Bisognerebbe leggere gli stenografici di quella seduta per constatare con quanta forza Luciano Violante osteggiò in prima persona quella misura, sostenendo che non bisognava assolutamente consentire il raddoppio dei termini di misura cautelare per i boss mafiosi, e che c'erano altre misure che potevano essere prese per controllare i boss usciti dal carcere. Con questo, sia ben chiaro, non intendo certo sostenere che Violante era amico dei mafiosi. Ma a maggior ragione non si può certo dire che la Democrazia cristiana abbia tutelato i mafiosi. Abbiamo fatto l'esatto contrario, e infatti abbiamo pagato anche col sangue, perché alcuni di noi siamo stati uccisi. Di fronte a una tale volgarità l'indignazione è il minimo che si possa provare. E quindi ho chiesto a La7, rete che apprezzo peraltro, di consentirmi una replica, anche in contraddittorio con giornalisti indipendenti, sulla storia della Democrazia cristiana».

Parlando di mafia e di trattativa tra Cosa nostra e lo Stato, il suo partito non gode certo di buona stampa.

«Ma la Dc ha espresso grandi uomini anche in Sicilia, non solo Bernardo Mattarella, papà dell'attuale presidente della Repubblica, ma aggiungo che, nell'82-'83, la Dc siciliana venne commissariata. E commissario a Palermo fu proprio Sergio Mattarella. Mentre il commissario regionale fu Lillo Mannino. Mattarella è diventato presidente della Repubblica, amato da tutti gli italiani, Mannino è stato perseguitato e per 25 anni si è dovuto difendere per poi essere assolto 19 volte».

Assolto, tra l'altro, anche dal processo per la Trattativa.

«Naturalmente, e con formula piena. E io continuo a dire che la sentenza con la quale Mannino è stato assolto in Corte d'appello dalla trattativa Stato-mafia bisognerebbe mandarlo alla procura di Caltanissetta, perché probabilmente in quella sentenza c'è la dimostrazione dello stalking che la procura di Palermo ha fatto nei confronti di Mannino. Associare la Dc alla mafia, farne un partito di amici della mafia merita l'indignazione ed è pessima informazione, stranamente perché La7 ha una sua dimensione culturale e politica che dà punti a molti concorrenti. Ma quanto ho visto l'altra sera è sconcertante. Due ore di racconto costellate di sciocchezze di vario tipo. La verità è che è vero che la storia non la devono scrivere i vincitori, ma meno che meno i vinti. E il mio amico Andrea Purgatori è un uomo che è stato vinto, perché lui era giornalista dell'Unità, apparteneva a una cultura che ha fallito in tutto il mondo, e mentre io mi posso continuare a chiamare democratico cristiano, lui non può continuare a chiamarsi comunista».

La falsa narrazione sulla lotta alla mafia che ha distrutto questo paese. Fu il Pci a votare contro il decreto che riportava in carcere i mafiosi del maxiprocesso. E’ tempo di ristabilire la verità. Paolo Cirino Pomicino il 7 Giugno 2020 su Il Foglio. Ventotto anni fa tra maggio e luglio iniziò la campagna stragista dei corleonesi prima con l’assassinio di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con la loro scorta e poi con quello di Paolo Borsellino e la sua scorta. Un tempo più lungo della durata del fascismo e quindi sufficiente a ricordare le tappe salienti di quegli anni Ottanta che videro una lotta senza quartiere alla mafia da parte di tutti i governi e in parte anche dell’opposizione. E invece da qualche tempo c’è in giro una falsa narrazione degli accadimenti, addirittura tacendo o omettendo i fatti per come storicamente sono accaduti, da parte di ambienti che notoriamente contrastarono Giovanni Falcone e la sua azione. Ma tralasciamo le opinioni e andiamo ai fatti, pregando e sollecitando i falsi narratori di correggerci se incorriamo in errore. Partiamo dal 1984 quando si avviò di fatto la storia del maxiprocesso intentato da Giovanni Falcone e da quel pool antimafia costituito da Antonino Caponnetto, capo dell’ufficio Istruzione di Palermo con l’arresto di 380 mafiosi. Un grande successo della lotta antimafia tanto che lo stesso Caponnetto sentì il bisogno di dichiarare a tutta la stampa italiana che quella iniziativa “è stata possibile grazie all’ossigeno che ci è venuto dal ministro dell’Interno Scalfaro e da quello della Giustizia Martinazzoli”. In realtà, già due anni prima con il ministro Rognoni all’Interno e Clelio Darida alla Giustizia furono introdotti il reato di associazione mafiosa (il 416 bis), l’alto commissario antimafia e la legge Rognoni-La Torre che innovò le indagini sui clan mafiosi e le loro ricchezze.

L’allarme di Falcone. Ma torniamo al maxiprocesso facendo un salto di alcuni anni, senza però dimenticare che nel 1984 Sergio Mattarella divenne commissario provinciale della Dc di Palermo e un anno dopo Lillo Mannino divenne segretario regionale a testimonianza che la Dc schiero due degli uomini più autorevoli per garantire che la lotta alla mafia diventasse una lotta senza quartiere. Mannino è stato processato, incarcerato e poi assolto 19 volte e il secondo è diventato il presidente della Repubblica amato da tutti gli italiani. Andiamo avanti. Ai primi di settembre del 1989 il maxiprocesso era alle battute finali ma c’era un grande rischio e cioè che per la decorrenza dei termini uscissero dal carcere diventando uccel di bosco quasi tutti i boss mafiosi. Falcone avvertì Giuliano Vassalli, ministro socialista di Grazia e giustizia, che riferì subito a Giulio Andreotti presidente del Consiglio che. Quest’ultimo, sentiti subito Mattarella e Mannino entrambi ministri in carica, convocò in un tardo pomeriggio il Consiglio dei ministri che approvo un decreto legge con il quale si raddoppiava la durata del carcere preventivo per gli imputati di associazione mafiosa. Un decreto che di fatto era un mandato di cattura, come dissero alcuni critici, tanto che la sera stessa i carabinieri arrestarono quanti erano da alcune ore già usciti dal carcere. Ebbene, quel decreto legge che pensavamo andasse veloce all’approvazione in parlamento trovò la forte resistenza di Luciano Violante, e quindi dell’intero Partito comunista dell’epoca, con una dura reprimenda al governo in cui si sosteneva che c’erano norme che consentivano il controllo di scarcerati pericolosi e quindi non si doveva raddoppiare la custodia cautelare per gli imputati di associazione mafiosa ma lasciarli liberi benché controllati. La Dc e l’intero pentapartito tenne ferma la posizione e il maxiprocesso continuò, concludendosi anni dopo con condanne durissime a tutto il gotha mafioso. Quell’atteggiamento comunista si sposava con alcuni suoi comportamenti, prima e dopo quella data, nei riguardi di Giovanni Falcone. Nel gennaio del 1988, all’interno del Csm la sinistra giudiziaria e politica – fatta eccezione di Caselli – votò contro la nomina di Falcone a capo di quell’ufficio Istruzione retto sino ad allora da Antonino Caponnetto, costruttore del primo pool antimafia, preferendogli Antonino Mele privo di qualunque esperienza di lotta alla mafia. Paolo Borsellino, commemorando Falcone, definì Giuda alcuni che in quel Csm avevano tradito Falcone. L’avversione a Falcone fu in quegli anni una caratteristica della sinistra politica e giudiziaria che portò lo stesso Falcone prima a doversi presentare alla commissione disciplinare del Csm e poi a dover superare il contrasto comunista sia all’istituzione della Direzione nazionale antimafia e poi alla sua nomina alla guida della nuova istituzione. Agli inizi del 1991, Falcone prese la decisione su sollecitazione di Francesco Cossiga di venire a collaborare con il governo Andreotti diventando direttore generale degli affari penali con l’assenso di Claudio Martelli, ministro della Giustizia. Nei diciotto mesi successivi furono approvate, tra le altre, la legge sui collaboratori di giustizia, sulle norme anti riciclaggio e il contrasto alle infiltrazioni mafiose nei consigli comunali con il loro scioglimento con decreto del ministro dell’Interno. L’ispiratore fu sempre Falcone e l’intero governo agevolava ogni iniziativa.

Chi si oppose al 41 bis. Quando Falcone saltò in aria a Capaci, il governo Andreotti, Scotti all’Interno e Martelli alla Giustizia, approvò un decreto legge con il quale estendeva il carcere duro (il famoso 41 bis) anche ai mafiosi, ai camorristi e agli ndranghetisti. E ancora una volta il Pci si oppose facendo prima una pregiudiziale di costituzionalità che se fosse stata accolta avrebbe fatto decadere il decreto e poi, un a volta superato questo scoglio, si astenne sull’approvazione. Nei mesi precedenti, con Falcone ancora in vita, la sinistra politica non perdeva occasione di attaccarlo. Memorabile fu l’attacco di Leoluca Orlando Cascio che accusò in diretta televisiva Falcone di tenere nel cassetto carte compromettenti contro Lima per insinuare che con la sua presenza alla direzione nazionale antimafia si sarebbe venduta l’anima. Ricordo che per Lima non è mai stato richiesto un rinvio a giudizio neanche dalla procura di Palermo. Certo se non ricordassimo il sacrificio di Pio La Torre, di Peppino Impastato e di pochi altri comunisti ammazzati dalla mafia, verrebbe da dire che dal 1988 al 1992 i comportamenti del Pci guidati da Violante potrebbero far pensare alla volontà, essendo all'epoca tra l'altro la crisi del comunismo internazionale alle porte, di costruire una trattativa con alcuni ambienti della criminalità mafiosa. Ma questa è una nostra suggestione interpretativa e come tale va considerata non tenendola neanche in conto, ma i fatti restano questi: il Pci votò contro il decreto che riportava in carcere i mafiosi del maxi processo, tentò di far cadere il carcere duro del 41 bis, ostacolò la nascita della Dna e fu permanentemente contro Giovanni Falcone oggi ipocritamente elogiato in ogni commemorazione. Ma c’e ancora qualcosa da ricordare. Dopo la morte di Falcone i carabinieri del Ros Mori e De Donno, oggi accusati e condannati in primo grado per la trattativa stato-mafia, tentarono di far pentire Ciancimino, uno dei capi della mafia che si infiltrò nella Dc da cui fu cacciato nel 1983, molto prima che arrivasse la magistratura. Bene, la famosa trattativa che Mori e De Donno avrebbero fatto fu che convinsero Ciancimino a parlare alla commissione antimafia utilizzando le norme della legge sui collaboratori di giustizia. Nell’ottobre del 1992 fu annunciata da Violante questa convocazione alla commissione antimafia. Qualche giorno prima della audizione, Ciancimino fu arrestato guarda caso dalla procura di Palermo e consegnato alla polizia di stato e Violante, sempre guarda caso, cancellò quella audizione che poteva tranquillamente fare come già la commissione aveva fatto nel 1989 con il detenuto Totuccio Contorno che Gianni de Gennaro tentava di convincere a pentirsi. In questi mesi abbiamo visto una narrazione in televisione e su alcuni giornali che non ha mai riportato questi fatti mentre la liturgia commemorativa di Falcone e Borsellino li nasconde offendendo la loro memoria, come nasconde l’atto di accusa di Borsellino e della Boccassini contro quell’area della magistratura che aveva sempre contrastato in vita Falcone. Quell’area della magistratura rappresentava una parte dello stato così come lo rappresentavano anche Ciampi e Conso, che liberarono dal 41 bis 300 mafiosi nel novembre del 1993 e il cui governo era appoggiato dal Pci. Le bombe che nei mesi precedenti avevano colpito Milano Firenze e Roma improvvisamente cessarono mentre iniziavano i grandi flussi di scarcerazione di mafiosi, camorristi e ndranghetisti, compresi alcuni assassini rei confessi di Falcone dopo pochissimi anni di carcere senza che i mafiologi ne abbiano mai parlato (fino al 2005 erano diecimila). La falsa narrazione è andata oltre la Dc, ritenendo quella eliminazione dei 300 mafiosi dal 41 bis fu una trattativa fatta da Berlusconi e Dell’Utri ancora non entrati in politica! Ma solo per completare i fatti ricordiamo che da sempre una parte del Pci ha accusato la Dc di collusione o compiacenza con la mafia perché puntualmente perdevano le elezioni, salvo poi che a distanza di anni gli stessi fatti smentivano le ricostruzioni e le accuse fantasiose. Un solo esempio: il noto Michele Pantaleone, deputato all’assemblea siciliana del Fronte popolare, sin dopo la guerra accusò Bernardo Mattarella, padre di Sergio e uno dei fondatori della Dc siciliana insieme ad Alessi, Alderisio e Scelba, di colludere con ambienti mafiosi, salvo poi a venir fuori la documentazione che lo stesso Pantaleone dopo lo sbarco degli americani fu per diverso tempo il delegato del sindaco di Villalba, tale don Calogero Vizzini, noto autorevole capomafia. Pantaleone, dopo una denuncia di Bernardo Mattarella, ritirò ogni accusa scusandosi. E se è giusto ricordare il sacrificio di Pio La Torre e di Peppino impastato, vanno ricordato i tanti morti della Dc, a cominciare dal vicesegretario regionale Vincenzo Campo durante le elezioni del 1948; nel marzo 1979, Michele Reina segretario provinciale della Dc di Palermo; nel gennaio del 1980 Piersanti Mattarella, il sindaco di Palermo Insalaco, gli attentati ai sindaci democristiani Elda Pucci e l’avvocato Martellucci, e non essendo siciliani, non ricordiamo che i morti eccellenti. In ultimo, non possiamo non ricordare che la Cassazione confermando l’assoluzione di Giulio Andreotti per tutti gli anni Ottanta concluse sugli anni precedenti dicendo così: “La ricostruzione dei singoli episodi e la valutazione delle relative conseguenze è stata effettuata sulla base di apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise e a cui sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica, ma che non sono mai manifestamente irrazionali e che quindi possono essere contestati nel merito ma non in sede di legittimità”. Chi conosce l’italiano, la sintassi e l’analisi logica capirà.

Giudicare i fatti per quel che sono. E’ tempo dunque che i grandi opinionisti e gli storici dicano con forza i fatti per quel che sono, perché a nostro giudizio fino a quando gli stessi fatti vengono nascosti o falsati, la lotta alla mafia non è vinta. E la festa della Repubblica di ieri e le tensioni sociali che sono all’orizzonte devono far ricordare che quella libertà riconquistata il 25 aprile del 1945 fu difesa da altri autoritarismi definitivamente il 18 aprile del 1948 con la vittoria della democrazia cristiana. Offenderla come fanno alcuni vinti della storia significa offendere la storia repubblicana e i suoi uomini migliori. Lo testimonia il fatto che dopo 25 anni dalla scomparsa della Dc, l’Italia era nelle condizioni in cui si trovava prima della pandemia. Oggi più che mai il paese avverte che la sua àncora resta Sergio Mattarella, democristiano e leader indiscusso della Dc siciliana la cui famiglia pagò con il sangue l’impegno politico dall’immediato dopoguerra in poi e la lotta permanente contro la mafia. Il resto è solo falsa narrazione che deve indignare innanzitutto la sinistra che oggi è al governo del paese con una parte della Democrazia cristiana.

Palermo, arrestato per corruzione il manager anti-tangenti. La mazzetta del 5% per gli appalti della sanità, 10 arresti. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da Salvo Palazzolo su La Repubblica.it. Antonino Candela è oggi il coordinatore per l'emergenza coronavirus in Sicilia, è finito ai domiciliari. Intercettato mentre diceva: "Io sono il capo condominio della sanità". In manette il dirigente generale dell'Asp di Trapani, faccendieri e imprenditori. L'allarme della Gdf: "Corruzione sistemica nella sanità siciliana". Avviso di garanzia per il deputato regionale Carmelo Pullara. Per anni ha vissuto sotto scorta, dopo aver denunciato affari e tangenti nella sanità siciliana, adesso è lui accusato di corruzione e stamattina è finito agli arresti domiciliari. Antonino Candela, l'ex manager dell'Asp 6 di Palermo e attuale coordinatore per l'emergenza coronavirus in Sicilia, è uno dei dieci arrestati di una maxi inchiesta della procura e del comando provinciale della Guardia di finanza di Palermo che ha svelato un sistema di mazzette attorno a quattro appalti della sanità siciliana. Gare, per un valore di 600 milioni di euro, che sono state aggiudicate dal 2016 in poi dalla "Centrale unica di committenza della Regione" e dall'Asp 6, per la fornitura e la manutenzione di apparecchiature elettromedicali e per servizi di pulizia. Candela è accusato di avere intascato in più trance una mazzetta da 260 mila euro dagli imprenditori che hanno gestito uno di quegli appalti. Sono intercettazioni choc quelle che lo hanno portato in manette. Diceva: "Ricordati che la sanità è un condominio, io sempre capo condominio rimango". Il gip ricorda: "Si atteggiava a strenuo paladino della legalità", ma quello che è emerso invece dall'indagine è una "pessima personalità". Un vero e proprio terremoto giudiziario, che secondo l'accusa avrebbe avuto due centri di potere: uno legato a Candela e all'imprenditore Giuseppe Taibbi, anche lui ai domiciliari per aver fatto da tramite con gli imprenditori per la consegna del denaro; l'altro, gestito da Fabio Damiani, ex responsabile della Centrale unica di committenza della Regione, oggi dirigente generale dell'Asp 9 di Trapani, che è invece finito in carcere, come il suo faccendiere di riferimento, l'imprenditore Salvatore Manganaro. L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Sergio Demontis e condotta dal nucleo di polizia economico finanziaria guidato dal colonnello Gianluca Angelini, coinvolge anche manager di aziende molto note del settore delle forniture sanitarie. Indagato a piede libero il deputato regionale Carmelo Pullara, eletto nella lista "Idea Sicilia popolari e autonomisti Musumeci presidente", oggi è componente della commissione regionale antimafia e vice presidente della commissione sanità: è accusato di turbativa d'asta, avrebbe sollecitato Damiani ad aiutare una ditta, in cambio il manager gli avrebbe chiesto aiuto per la sua nomina. Ai domiciliari sono andati invece Francesco Zanzi, amministratore delegato di "Tecnologie sanitarie spa"; Roberto Satta, responsabile operativo della società; Angelo Montisanti, responsabile operativo per la Sicilia di "Siram spa"; Crescenzo De Stasio, direttore Unità business centro sud di Siram; poi Salvatore Navarra, presidente del consiglio di amministrazione di "Pfe spa"; e il faccendiere Ivan Turola. Il gip Claudia Rosini ha invece imposto il divieto di "esercitare attività professionali e imprenditoriali" a Giovanni Tranquillo, ritenuto referente occulto di alcune società e a Giuseppe Di Martino, componente di una commissione di gara.

Le accuse. L'inchiesta dei sostituti procuratori Giacomo Brandini e Giovanni Antoci contesta a vario titolo le accuse di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilità, istigazione alla corruzione, rivelazione di segreto di ufficio e turbata libertà degli incanti. Le intercettazioni hanno sorpreso passaggi di denaro in contante, ma le mazzette sarebbero state mimetizzate anche attraverso complesse operazioni contabili instaurate fra le società aggiudicatarie degli appalti e una galassia di imprese riconducibili ai faccendieri ritenuti legati ai manager. Dice il generale Antonio Quintavalle Cecere, comandante provinciale della Guardia di finanza di Palermo: "Le spregiudicate condotte illecite garantivano l'applicazione di un tariffario che si aggirava intorno al 5 per cento del valore della commessa aggiudicata". Probabilmente, l'inchiesta ha scoperchiato solo la punta di un iceberg: "Il quadro emerso è a dir poco allarmante - spiega il colonnello Angelini - la gestione degli appalti pubblici della sanità siciliana appare affetta da una corruzione sistemica con il coinvolgimento, con compiti e ruoli diversi di funzionari e dirigenti pubblici infedeli, faccendieri e imprenditori senza scrupoli disposti a tutto pur di aggiudicarsi appalti milionari".

Il sistema della spartizione. Per gli specialisti anticorruzione del Gruppo Tutela spesa pubblica del nucleo di polizia economico finanziaria, "gli operatori economici vincitori delle gare, importanti società a livello nazionale, erano consapevoli e partecipi alle dinamiche criminali, dalle quali traevano un vantaggio che avrebbe remunerato nel tempo il pagamento delle tangenti". I gruppi di potere erano due, ma avrebbero avuto lo stesso schema illecito: era l'imprenditore interessato all'appalto ad avvicinare il faccendiere che faceva da interfaccia con i due manager; raggiunto l'accordo, la società faceva la sua offerta pilotata. Le intercettazioni raccontano di buste sostituite durante le gare, di punteggi attribuiti illegittimamente, di informazioni riservate che circolavano con troppa facilità.

Chi è il commissario Covid siciliano arrestato per tangenti (che fu premiato come esempio di legalità). Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Salvo Toscano. Nel 2016 Antonio Candela era stato premiato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la medaglia d’argento al Merito della Sanità pubblica per essere stato, tra l’altro, «autore di circostanziate denunzie presentate alla Procura della Repubblica, con conseguente aggravamento dei rischi per la sua incolumità personale». Manager apprezzato per le sue capacità organizzative, in prima linea a Lampedusa per il grande naufragio del 3 ottobre 2013, vive sotto scorta da quell’anno, dopo aver subito minacce. Oggi è finito ai domiciliari nell’ambito dell’indagine della Guardia di finanza su un presunto giro di mazzette nella sanità siciliana. Accuse che se provate travolgerebbero un ennesimo simbolo di legalità in Sicilia. Già commissario e direttore generale dell’Asp di Palermo, nelle scorse settimane, dopo un periodo di stand by il governo regionale lo aveva richiamato in prima linea, affidandogli il delicato ruolo di coordinatore della struttura regionale per l’emergenza Covid-19 in Sicilia. E Candela si era subito dato da fare, affrontando tra l’altro la delicata situazione dell’Oasi di Troina, centro per disabili dove il virus si era diffuso tra pazienti e sanitari con numeri drammatici. Cinquantaquattro anni, sotto scorta dal 2013, anno in cui il manager denunciò una turbativa su una maxi fornitura di pannoloni quando era direttore amministrativo dell’Asp di Palermo, Candela in quella circostanza era stato elogiato da pm palermitani di primissimo piano per essere «passato dalle parole ai fatti» e dagli stessi additato come esempio. Dall’Asp, infatti, Candela si era più di una volta recato in procura per segnalazioni e per instaurare una collaborazione con i magistrati che liberasse il campo da eventuali ombre sugli appalti della sanità. Tutto questo gli era costato una serie di minacce, un’escalation che aveva portato a metterlo sotto scorta. Anche per la magistratura contabile Candela è stato un esempio. Nella requisitoria della Corte dei Conti del 2017 il procuratore generale per la Sicilia lo ringraziò pubblicamente «per avere segnalato diverse anomalie agli organi competenti». Nel frattempo era arrivato il prestigioso riconoscimento concesso dal Quirinale su proposta del ministro della Sanità (all’epoca Beatrice Lorenzin). «La sua azione ha consentito — si leggeva nella motivazione — l’avvio di diversi procedimenti penali a carico di dipendenti dell’Azienda e di soggetti ben inseriti nel tessuto criminale e dotati di risorse finanziarie pressoché illimitate ad essi variamente collegati, responsabili di numerosi episodi di corruzione e di altre azioni illecite a danno del Sistema Sanitario Nazionale. Da evidenziare inoltre l’istituzione nell’isola di Lampedusa del servizio permanente di ginecologia e pediatria dallo stesso fortemente voluto, che ha permesso agli abitanti dell’isola il facile accesso a prestazioni sanitarie precedentemente fornite solo alcuni giorni a settimana». Adesso però, arrivano le accuse, da provare, dei magistrati di Palermo che ritengono di dover spostare il suo nome dall’altro lato della lavagna. Il manager appassionato e perbene avrebbe accettato tangenti secondo l’ipotesi degli inquirenti. In un’indagine che ha travolto anche un altro uomo chiave della sanità siciliana, quel Fabio Damiani — per lui custodia cautelare in carcere e non domiciliari come per Candela — che a sua volta aveva denunciato pressioni e minacce sulla maxi gara dei pannoloni, raccontando tutto a Rosario Crocetta e Lucia Borsellino, allora presidente della Regione e assessore alla Sanità. Il caso finì in procura. Quella stessa procura che oggi, sette anni dopo, ne ha chiesto, e ottenuto l’arresto.

Chi è Antonio Candela? Il manager per l'emergenza Covid "paladino della legalità". Il ritratto di un personaggio noto nell'ambiente della sanità siciliana, già direttore dell'azienda ospedaliera siciliana e manager per l'emergenza Covid in Sicilia. Il gip di Palermo: "Si atteggiava a strenuo paladino della legalità". Roberto Chifari, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Antonino Candela, 55 anni, attualmente coordinatore dell'emergenza Coronavirus in Sicilia, chiamato dal Presidente della Regione Nello Musumeci lo scorso 12 marzo, è finito agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione perché avrebbe intascato tangenti per centinaia di migliaia di euro. Per la Regione gli era stato affidato il compito di fare da collegamento operativo fra l'assessore alla Salute Ruggero Razza e le strutture pubbliche sparse nell'Isola, avendo come interfaccia anche la Protezione civile. Un ruolo di prestigio che si inquadra nel personaggio fin qui conosciuto. Nel 2013 gli era stata assegnata la scorta per avere denunciato un tentativo di tangenti per l'acquisto di pannoloni, il grande business svelato allora proprio dalle forze dell'ordine e che aveva permesso di smantellare una fitta rete di interessi nei dispositivi per la persona erogati proprio dall'Asp. Per la sua denuncia era stato anche premiato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per avere svelato le mazzette che ruotavano attorno al sistema di erogazione dei pannoloni. Nel 2016 aveva ricevuto la Medaglia d'argento al merito della Sanità pubblica che andava a premiare l'impegno per il funzionamento, per la legalità e l'anti-corruzione nel settore. Adesso però la situazione è cambiata, anzi ribaltata. Da tempo Candela non viveva più sotto scorta. Il gip del Tribunale di Palermo usa parole dure nei suoi confronti nella misura cautelare. È accusato: "in concorso morale e materiale" con un altro indagato, "anche quale suo intermediario, di avere accettato la promessa di denaro da parte di Francesco Zanzi e Roberto Satta, rispettivamente amministratore delegato e responsabile operativo di Tecnologie Sanitarie Spa, per un ammontare pari a 820mila euro per poi ricevere la complessiva somma di 268.400 euro per ritardare e omettere e per avere ritardato e omesso atti del suo ufficio, tra cui la sottoscrizione del contratto relativo alla gara indetta dall'Asp 6 del valore di 17.635.000 euro, avente ad oggetto la manutenzione delle apparecchiature elettromedicali, aggiudicata, in data 30.11.2017, alla Tecnologie Sanitarie Spa". Tutto questo "al fine di consentire all'impresa di continuare a beneficiare delle condizioni ritenute più remunerative previste dal contratto, già aggiudicato alla Tecnologie Sanitarie Spa in Ati con Ebm (ora Althea Spa), scaduto nel settembre 2017" e prorogato, dicono gli inquirenti. "Sia al fine di consentire, nelle more, l'adesione dell'Asp 6 alla procedura indetta dalla Centrale Unica di Committenza della Regione Siciliana (CUC), avente oggetto la medesima tipologia di prestazioni dei menzionati contratti, della quale la Tecnologie Sanitarie Spa si era aggiudicata due lotti, del valore complessivo di 202.400.318/17 euro, le cui condizioni erano ritenute più vantaggiose per la stessa Tecnologie Sanitarie Spa rispetto all'appalto bandito dalla Asp 6". Secondo l'accusa, il coordinatore dell'emergenza Covid Antonino Candela, avrebbe "compiuto atti contrari ai propri doveri di ufficio in favore della Tecnologie Sanitare Spa". Tra l'altro consistenti "nel minacciare Fabio Damiani (ex manager Asp di Trapani ndr), per costringerlo ad attestare la maggiore convenienza per l'Asp 6 della procedura facente capo alla Cuc e conseguentemente a richiedere l'adesione della stessa Asp 6 alla procedura Cuc". E "nell'accelerare l'iter di adesione dell'Asp 6 alla procedura della Cuc, sollecitando, per mezzo di Taibbi, Zanzi e Satta a trasmettere una formale comunicazione con la quale si invitava l'Asp 6 a valutare l'adesione alla procedura Cuc ed inducendo a tal fine i dirigenti dell'Asp 6, tra cui il Direttore Amministrativo Domenico Moncada ed il Direttore Sanitario Salvatore Russo, ad avallare tale adesione, mediante un'opera di persuasione e di pressione diretta a simulare la maggiore convenienza per l'Asp 6 della Cuc". "Quando abbiamo applicato il protocollo anticorruzione Anac-Agenas avevamo individuato nel 'rischio' gare quello più alto - spiega l'assessore regionale alla Salute Ruggero Razza -. Ed è anche questa la ragione per la quale, attirandomi polemiche, ho alzato la voce sulle centrali di committenza pubbliche perché il sistema sanitario non può essere depauperato da condotte criminose. Ho sempre invitato, e continuo ad invitare oggi - conclude l'assessore -, tutte le imprese a denunciare all'autorità giudiziaria ogni anomalia e a segnalarlo formalmente alla nostra anticorruzione".

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2020. Alla vigilia dell' anniversario di Capaci, mentre tutti parlano di legalità, l' ennesima inchiesta sulla corruzione pubblica scuote il mondo politico e la Regione Siciliana. Ma stavolta finisce agli arresti anche il paladino della trasparenza, Antonio Candela, un rampante manager antiracket per cinque anni sotto scorta come presidente dell' Azienda sanitaria di Palermo e da due mesi alla guida della task force chiamata a combattere il Covid nell' isola. Con acquisti e appalti adesso passati ai raggi X. Come ha fatto la Guardia di Finanza per gli affari di questa operazione avviata da due anni e chiamata con un pizzico di perfida ironia «Sorella Sanità». Un pozzo nero da 600 milioni di euro per forniture e servizi, come sintetizzano gli inquirenti che hanno arrestato anche altri nove personaggi tra presunti famelici superburocrati, faccendieri e imprenditori del settore, tutti indicati come «la cricca del cinque per cento». A Trapani è finito in carcere anche l' attuale manager dell' Azienda sanitaria provinciale Fabio Damiani, fino a non molto tempo fa responsabile della Centrale unica delle gare di appalto a livello regionale. Indagine estesa a Milano con sette società sequestrate fra Sicilia e Lombardia, tangenti intascate da 160 mila euro, acconto di promesse fino a un milione e 800 mila euro, secondo l' accusa del procuratore Franco Lo Voi, dell' aggiunto Sergio Demontis e dei sostituti Giovanni Antoci e Giacomo Brandini. Mazzette consegnate a volte anche su borse griffate. Come si addice al look di Candela, sempre elegante, fiero della medaglia d' argento «al merito della Sanità pubblica», promossa dal ministero della Salute e consegnata al Quirinale. Ottenuta «per le circostanziate denunzie presentate alla Procura...». D'altronde, nel paradosso di una storia che sembra ormai macchiata dall' impostura, Candela è stato considerato un esempio anche dalla magistratura contabile. Nel 2017 il procuratore generale della Corte dei conti lo ringraziò infatti pubblicamente «per avere segnalato diverse anomalie agli organi competenti». Encomi legati ai risparmi ottenuti nella gestione dell' azienda sanitaria dove era subentrato a un magistrato, Salvatore Cirignotta, a sua volta arrestato. Qualcosa di buono deve aver fatto, ma adesso campeggiano le intercettazioni diffuse dalle Fiamme Gialle con funzionari ignari delle microspie, come lo stesso Candela che si presentava così: «Sono il capocondomino della sanità». C' è anche la sua voce fra quelle impigliate nella rete delle cimici, parlando di gare truccate. «Una volta che poi l' hai vinta non ci vediamo più e mi mandi a dire Roberto "mi inizi a mandare i soldi, così mi tappi la bocca, mi compri con i soldi", facendomi vedere che rispetti gli impegni...Salvo fammi dire però che è il cinque netti dei contratti dei grandi impianti...». La scossa per il mondo politico è devastante, non solo perché fra i denunciati figura anche un deputato regionale, Carmelo Pullara, eletto nella lista «Autonomisti Musumeci presidente», ma perché lo stesso governatore e l' assessore alla Salute Ruggero Razza avevano presentato Candela come il fiore all' occhiello della battaglia anticovid. Adesso Razza parla di «quadro impietoso» e si dice «deluso per la condotta morale dei personaggi». Turbato però anche dal presidente dell' Assemblea regionale siciliana Gianfranco Micciché, infuriato quando qualcuno mette in relazione il suo nome con quello di Fabio Damiani, il manager arrestato a Trapani, pronto al contrattacco: «Millantatori. Avvertii invece Musumeci su chi fosse Antonio Candela, nel giro di Montante-Lumia e Crocetta. Lo sapevano tutti. Non mi diede ascolto». Sua la richiesta di una inchiesta parlamentare sulla sanità da avviare in commissione antimafia. Quella presieduta da Claudio Fava, disponibile: «Sanità, tragico bancomat a servizio della politica». Base di partenza resterebbe la cricca descritta dal generale Antonio Nicola Quintavalle Cecere e dal colonnello Gianluca Angelini come «un centro di potere». Lo stesso che Candela definiva il suo condominio.

Fascicoli falsificati nel Napoletano: nella retata degli avvocati c'è anche la moglie del presidente anticamorra. Leandro Del Gaudio Lunedì 11 Maggio 2020 su Il Mattino. C’è anche la moglie del presidente della commissione regionale anticamorra tra gli avvocati arrestati nella storia dei fascicoli manomessi nel Nolano. Una doccia fredda per Carmine Mocerino (Caldoro presidente), da sempre uomo delle istituzioni impegnato nella lotta ai clan e a ogni genere di malaffare nel territorio regionale. È quanto emerge da un blitz coordinato dalla Procura di Nola, che ha portato agli arresti la cancelliera del giudice di pace di Marigliano; ai domiciliari una pattuglia di una decina di avvocati; mentre è stata disposta la sospensione di tre avvocati per un anno. Fascicoli distrutti, fascicoli falsificati con l’inserimento di marche da bollo fasulle o - in alcuni casi - di nomi inesistenti o di soggetti deceduti. Succedeva anche questo dinanzi al giudice di pace di Marigliano, grazie alla presunta complicità di una cancelliera factotum, per i suoi rapporti illeciti con un gruppo di avvocati. Finisce in cella Antonietta Briaca, impiegata del comune vesuviano poi distaccata come cancelliere del giudice di pace, ritenuta il terminale di una serie di operazioni opache, finalizzate a veicolare procedimenti giudiziari sempre dinanzi allo stesso giudice; ma anche a distruggere alcuni fascicoli processuali o a crearne di nuovi, in modo completamente fasullo, nel tentativo di rubare marche da bollo, per una truffa allo Stato di oltre 40mila euro. È per lei, per la cancelliera Briaca, che viene organizzata una cena in una villa in casa di uno degli avvocati, per consegnarle un regalo da mille euro - un bracciale modello tennis - che rappresenta, secondo gli inquirenti, uno dei modi per sdebitarsi di una serie di condotte illecite. E non è un bel giorno per la giustizia vesuviana, secondo quanto emerge dalle indagini della Procura di Nola. È stato il gip Fortuna Basile a firmare dieci ordini di arresti ai domiciliari a carico di altrettanti avvocati; e di un altro ex dipendente del comune di Marigliano, finito nella trama delle indagini; ed è lo stesso gip ad aver disposto l’interdizione dalla professione per altri tre avvocati. Ma andiamo con ordine. Decisive le immagini ricavate grazie a una telecamera nascosta, ma anche alle intercettazioni che consentono di ricostruire la presunta trama di contatti clandestini. Corruzione, soppressione, distruzione e occultamento di atti pubblici, falsità in atti pubblici, uso di valori di bollo contraffatti e truffa ai danni dello Stato sono le accuse mosse sulla scorta di filmati e intercettazioni. Sotto accusa gli avvocati Maria Luisa D’Avino, Raffaele Pellegrino, Raffaele Montella, Anna Sommese, Pasquale Ambrosino, Maurizio Incarnato; Filomena Liccardo (per la quale scatta la sospensione di un anno dalla professione di avvocato), Massimo Marra, Angelo Guadagni (per il quale c’è la sospensione di avvocato per un anno); Maria Rosaria Santoro (per la quale scatta la sospensione dalla professione di avvocato per un anno); Pietro Marzano. A finire agli arresti domiciliari, dunque, anche l’avvocato D’Avino, moglie del consigliere regionale Carmine Mocerino, un politico da tempo impegnato nella lotta alla camorra e a ogni genere di malaffare, che al Mattino spiega: «Come uomo delle istituzioni ripongo assoluta fiducia nell’operato della magistratura, dobbiamo leggere le prime conclusioni di questa indagine per replicare in modo puntuale alle accuse». Assieme alla Briaca e al collega Raffaele Pellegrino, D’Avino avrebbe contribuito a distruggere in una occasione due fascicoli processuali; in un’altra circostanza avrebbe fatto sparire un numero imprecisato di fascicoli. A partire da oggi gli interrogatori di garanzia. Difesi - tra gli altri - dai penalisti Giovanni Conti, Roberto Cuomo, Francesco Picca, Angelo Pignatelli - tutti gli indagati potranno replicare alle accuse e dimostrare la correttezza della propria condotta. 

L'intervento. C’è la società dei migliori, il resto è solo mafia. Armando Veneto su il Riformista il 28 Aprile 2020. Dopo alcuni giorni dedicati quasi esclusivamente al distanziamento sociale ed alla reclusione volontaria, con il conseguente calo dei delitti, attendevo con ansia il tempo nel quale la mafia sarebbe tornata a spadroneggiare in TV e sui media. Attendevo con ansia, ma anche con la certezza che i cantori della giurisprudenza creativa e della galera a vita e per ceppi familiari non si sarebbero lasciati sfuggire l’emergenza per tornare alle loro ossessioni. Un susseguirsi di eventi ha placato la mia attesa; alcuni esempi lo confermano. Quasi contemporaneamente all’annunzio delle sovvenzioni a famiglie e aziende, erano insorti quanti paventavano ulteriori arricchimenti illeciti dei mafiosi; venne riaperta la contrapposizione tra il nord virtuoso (con l’accantonamento di mani pulite) e il sud a struttura mafiosa. Ed un sommo magistrato con vocazioni politiche, tanto da decidere chi debba o non candidarsi alle cariche pubbliche, offrì la soluzione miracolosa: siano i PM a gestire l’assegnazione delle risorse, probabilmente per i pochi non ancora raggiunti da interdittiva antimafia; almeno al Sud. Ancora: durante una trasmissione TV un noto conduttore aveva intanto zittito il politologo Luttwak che, rimbeccando il sommo magistrato, aveva osservato che gli investitori non vengono in Italia per timore dei magistrati, non dei mafiosi. Il povero Luttwak, catalogato tra gli esponenti del partito della mafia, aveva inteso dire, come esplicitò prima che le esigenze della pubblicità lo bloccassero, che era l’incertezza della giurisprudenza e la lentezza della giustizia a tenere lontani gli investitori. Non sapeva, Luttwak, che basta evocare certi poteri per mettere a repentaglio la libertà di parola. Cosa che non teme altro sommo magistrato che proprio in questi giorni tuona contro altri magistrati rei di avere scarcerato un moribondo, con l’assordante silenzio di altri magistrati che dovrebbero esercitare pur essi un potere; ma di controllo! E che dire di quanti, magistrati, giornalisti, politici disinformati, tramano o fanno da tramiti irresponsabili per demolire il processo penale accusatorio; quello nel quale un giudizio terzo rispetto alle parti, in pubblica udienza dirige il contraddittorio e, attraverso di esso, tenta di avvicinarsi alla verità processuale, o di sbagliare il meno possibile. Chi vive il dramma del processo “ da remoto” nel quale l’avvocato è “ospite”, come precisa la didascalia delle postazioni riservate ai difensori dalla piattaforma scelta dal Ministero della giustizia (rectius: dal cerchio magico che sovviene il Ministro nelle sue molteplici giravolte) sa come sia inesistente ogni rapporto dialogico; e come esso sia l’anticamera di un nuovo processo inquisitorio che, complice l’emergenza, si tenta di introdurre nel sistema, sconvolgendolo. “Tenete fuori gli avvocati dal processo” tuona il capo dei sommi magistrati: trattasi di ossessione da virus professionale; con possibilità di combatterlo solo mediante isolamento; anche se esso è reso difficile per la quantità di suffragi dei quali gode tra benpensanti, profittatori di contingenza e simili. Importante è schierarsi per la legalità; se poi essa non coincide con la giustizia (che include la norma morale prima che quella giuridica), poco importa. Ciò che conta è far parte degli onesti, scheletri negli armadi a parte: cioè della maggioranza ciarliera e combattente; magari conseguendo profitti o usando poteri (legittimamente?) conseguiti. Importante è manifestare quale sia il fine da raggiungere senza badare ai mezzi per conseguirlo: perché solo il fine prefisso dà gloria, acquisisce consenso, genera soddisfazione. Importante è essere riconosciuti quale adepto della parte migliore del Paese; perché tutto il resto è da aborrire; tutto il resto è mafia. Senza capire che la mafia si combatte seminando legalità vera; e vissuta senza arroganza; e senza violentare una storia fatta di ribellione ad ogni prepotenza.

BORDIN LINE, QUANTO CI MANCHI. Il Foglio Quotidiano 17 Aprile 2020. Un appunto contro il luogo comune, un commento eterodosso, un duello a distanza nel nome del garantismo. Ricordo fogliante di Massimo Bordin a un anno dalla morte.   Dichiarazioni-bomba da riscontrare, di Massimo Bordin (5 aprile 2012). Un anno fa oggi moriva Massimo Bordin, voce storica di Radio Radicale (di cui fu anche direttore dal 1991 al 2010) e storico collaboratore del Foglio. Per sette anni esatti, dal 3 aprile 2012 al 2 aprile 2019, il Foglio è uscito ogni giorno con la sua rubrica Bordin Line: appunto, nota o commento eterodosso alla cronaca politica e giudiziaria. Con il titolo “Una passione unica” , lo scorso anno abbiamo pubblicato un libretto con un’ampia antologia della Bordin Line. In queste pagine, oggi, vi proponiamo qualche altro stralcio di quella sua “passione unica”. Parlamentari, avanti un altro Nelle proposte degli indignati “anti casta” si può rintracciare una interpretazione del mandato parlamentare come una sorta di sussidio, come la cassa integrazione, che non sia destinato a durare in eterno, così che altri bisognosi possano fruirne. Due legislature, dieci anni al massimo, e poi via, avanti un altro, intimano Grillo e i suoi grillini. L’onorevole Pionati, che è un moderato ma vuole seguire lo Zeitgeist, ieri ha avanzato la sua proposta: vent’anni al massimo e non parliamone più. Ha esagerato? Non è detto. Gli Usa non saranno un paese per vecchi ma il vice-presidente Biden è stato senatore per 27 anni prima di arrivare al fianco di Obama, e nessuno si è scandalizzato. Mitterrand al ventesimo anno da senatore è arrivato all’Eliseo. Non si può prevedere dove arriverà Pionati, ma il problema forse non sta nella durata del mandato. L’Unità e Il Fatto annunciavano ieri una nuova importante testimonianza nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Se vi state chiedendo come sia possibile nel momento in cui le carte sono già sul tavolo del giudice per la udienza preliminare, la risposta è che è possibile. Se mai il problema sta nell’immagine che gli stessi magistrati dell’accusa danno della loro inchiesta. Ma come? Avete stizzosamente risposto ai critici e ai dubbiosi che le loro critiche e i loro dubbi si fondavano sull’ignoranza della mole probatoria racchiusa negli atti dell’inchiesta e ora, a tempo praticamente scaduto, vi affannate a portare testimonianze fuori sacco? Si può parlare di materiale acquisito in tempi recentissimi? Neanche per idea. Ci si basa su una telefonata, o più probabilmente un tabulato telefonico, agli atti da una ventina d’anni, in cui è coinvolto un tizio, vecchia conoscenza delle procure di mezza Italia, che in seguito avrebbe rilasciato – scrivono sul Fatto Rizza & Lo Bianco – “dichiarazioni che più di un inquirente definisce una bomba , ma ancora tutte da riscontrare”. Un dettaglio marginale, nessuno è perfetto. (12 ottobre 2012) Neo magistrati in carcere Mentre i Radicali, i carcerati e altre persone di buon senso e di buona volontà sono mobilitate no a domani, per quattro giorni di la, in scioperi della fame e varie iniziative non violente su amnistia e diritto di voto per i detenuti, io, che sono sostanzialmente un vile, mi sono limitato a raccogliere da fonte degna di fede voci che arrivano dalla mailing list dei magistrati progressisti. Una storia indicativa, però. Discutono fra loro dell’opportunità di una proposta per la nuova scuola di formazione dei magistrati. Si tratterebbe di far passare un paio di settimane in carcere ai neo magistrati freschi di concorso vittorioso. Naturalmente non in cella, e facendoli tornare a casa la sera. Si parla di inserirli fra gli agenti di custodia, ma è un’ipotesi. Sta di fatto che sulla mailing list si riversano due tipi di pareri contrari alla novità. Il primo è quello dei diretti interessati che non paiono entusiasti. Non li approvo ma sono portato a capirli, ho già detto che sono un vile. Il secondo è quello di qualche magistrato anziano, che sostiene che così si rischia di condizionare la loro serenità di giudizio quando dovranno emettere una sentenza. L’argomento, fondatissimo, mostra nel modo più chiaro lo stato delle nostre carceri e della nostra giustizia. (21 novembre 2012) Rosario anti “casta” “Dimezzamento del numero dei parlamentari e non più di due mandati”. Lo dicono tutti, destra, sinistra e centro, in genere alla ne del talk-show quando il conduttore chiede loro cosa intendano fare contro la famigerata “casta”. Rispondono con aria stanca, recitano un rosario nel quale si vede benissimo non credono minimamente. Pensano piuttosto che alla ne qualcuno dovrà farlo e sono in parte rassegnati, anche se non consenzienti, ma i più intelligenti fra loro si rendono anche conto che si tratta di una sciocchezza. Basterebbe abbattere le spese, e non sarebbe così difficile, senza toccare la rappresentanza. Per di più la faccenda dei due mandati è storicamente una clamorosa esemplificazione di un utilizzo partitocratico dell’incarico parlamentare. L’idea non è di Grillo ma fu del primo Pci per garantire una pensione almeno ai migliori dei suoi numerosi funzionari. Per questo Botteghe Oscure inventò il criterio, con le dovute eccezioni, della non ricandidatura al terzo mandato. Altri dovevano subentrare e le casse del partito se ne sarebbero giovate. Due mandati perché allora uno non bastava per una pensione decente. Altri tempi. (1 febbraio 2013) La condanna (in primo grado) di Del Turco Dunque l’hanno condannato e la pena inflitta in primo grado è molto pesante, quasi dieci anni. L’entità non deve stupire perché non solo il reato è grave ma il processo, per come si era messo, non offriva possibilità di mediazioni. Possibile che un personaggio politico moralmente irreprensibile come Ottaviano Del Turco, che fu scelto dai socialisti quando era loro assolutamente necessario eleggere un segretario al di sopra di ogni sospetto, sia divenuto, alla ne della sua carriera politica una sorta di satrapo che addirittura pretendeva che le tangenti gli venissero portate a domicilio? Quale terribile torsione o diabolica doppiezza ha caratterizzato la sua vita ? In un caso simile le prove dovrebbero essere evidenti e gli accusatori tanto se ne resero conto che parlarono, al momento dell’arresto, di prove schiaccianti. Salvo poi alla ne del processo modificare alcuni capi di imputazione perché la difesa aveva dimostrato che in determinati giorni, citati dai pm nel capo d’accusa, Del Turco sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. “E’ vero” , rispose l’accusa, “vorrà dire che cambieremo la data”. Si potrebbe scegliere anche altro, ma forse è questo l’esempio più evidente per mostrare che di questa vicenda sentiremo ancora parlare. (23 luglio 2013) In alto i cuori, in alto i gagliardetti Sono un lettore attento dei comunicati del Movimento cinque stelle e in particolare di quelli di Beppe Grillo. Non lo dico per vantarmi, mi pagano anche per questo. Da un po’ di tempo avevo fatto caso che al termine dei proclami era sempre inserito uno slogan, un motto per incitare alla mobilitazione. Tecnica antica, un po’ retrò, se si vuole, ma che funziona sempre. “Al lavoro e alla lotta!” , si concludevano così i comizi del vecchio Pci e come lo diceva Occhetto, nessun altro. Oppure “Hasta la victoria siempre!” in calce al pamphlet di Che Guevara “Creare due, tre, molti Vietnam”. Ovviamente non solo a sinistra si usa questa tecnica. Nella messa in latino, al momento più solenne, l’ociante dice “Sursum Corda” ma non credo che Beppe Grillo sia un cultore della messa all’antica, e forse nemmeno del latino. Per questo quando ho visto che i suoi proclami si concludono da un po’ con il motto “In alto i cuori” non ho pensato alla messa ma a qualcosa di politico che però non mi veniva in mente, c’era solo un vago ricordo di risse universitarie. Così ho controllato. E’ il titolo italiano dell’inno delle Camicie Brune. “In alto i cuori, in alto i gagliardetti / serriamo i ranghi è l’ora di marciar” eccetera. Mi sono informato meglio e ho trovato conferma che l’inno era in voga in anni passati. Chi l’avrà suggerito al “dottor Gribbels”? In ogni caso ho capito perché dice che se non ci fosse stato il M5s ci sarebbe stata Alba dorata. Si vede che qualcuno aveva già avuto la stessa idea. (23 ottobre 2013) La “fattoria dei magistrati” La manifestazione è venuta bene. Migliaia di persone, standing ovation nei passaggi salienti dell’intervento di Barbara Spinelli, e soprattutto la presenza dei magistrati in solidarietà dei quali la manifestazione si teneva ovvero i pubblici ministeri del processo sulla trattativa. Prendo queste notizie dal Fatto di ieri. Del resto la vicenda la conoscete, si tratta delle minacce rivolte da Riina al dottor Di Matteo e al rischio che esse possano essere messe in atto, estese agli altri magistrati che nel processo rappresentano l’accusa. Qualcosa però nel resoconto del Fatto non c’è. Sabato è uscita su Repubblica, ma non sul Fatto, la notizia di un allarme in procura a Palermo. Una fonte confidenziale ha avvertito che Matteo Messina Denaro, latitante e non al 41 bis come Riina, sta preparando un attentato contro il procuratore aggiunto Teresa Principato che il mese scorso ha fatto arrestare alcuni famigliari e complici del boss di Castelvetrano. Il blitz ha dato i suoi frutti e il rischio per la dottoressa Principato ora è serio. Ma nella “fattoria dei magistrati” del Fatto quotidiano alcuni magistrati sono più uguali degli altri, e nella manifestazione “contro le minacce ai magistrati” non risulta, almeno dal resoconto, che della vicenda si sia fatto cenno. (14 gennaio 2014) I tacchini da talk-show si beccheranno Tanti anni fa, un mio amico siciliano, un avvocato che non ha mai difeso mafiosi, tanto per capirci subito, mentre prendevamo l’aperitivo mi fece il seguente discorso: “Vedi, questi finiranno per realizzare quello che dissennatamente tu e, in modo interessato, molti di quelli che la pensano come te, continuate a chiedere. Alla ne si arriverà davvero alla separazione delle carriere e perno alla abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. E non voglio pensare a che altro. Ma non succederà per le battaglie dei radicali e dei socialisti. Il fatto è che questi sono stupidi”. Parlava di certi pubblici ministeri. Alcuni, anche famosi, erano stati suoi compagni di liceo. Ne faceva ritratti impietosi. Quella chiacchierata, condita da aneddoti esilaranti, mi è ritornata in mente ieri alla notizia dell’indagine sul padre del presidente del Consiglio. Ma non è detto che finisca come sostiene il mio amico. Basta vedere i social forum. Il “dibbbattito” è già partito. I tacchini da talk-show si beccheranno. “Giustizia a orologeria! Complotto!”. Ma in realtà è cosa priva della grandezza del male. Una meschina ritorsione da burocrati, al massimo. “Nessun orologio! L’indagine è di sei mesi fa”. Giusto a ricordarci che il circo giudiziario non funziona senza la sua appendice mediatica. Sei mesi fa non era una notizia. Gli ipocriti diranno che la giustizia deve fare il suo corso. Anche perché le vacanze sono comunque nite. (19 settembre 2014) Una bufala sulla depenalizzazione Sul blog di Grillo ieri è partita una campagna, subito ripresa da creduloni ed esagitati che affollano la rete, a proposito dei provvedimenti di depenalizzazione varati dal governo. Grillo propone un elenco di 112 reati dall’incesto al maltrattamento di animali passando per il furto e sostiene che sono stati depenalizzati. Non è solo, anzi arriva dopo una campagna di stampa condotta dal Fatto quotidiano. Su internet la cosa però fa più impressione perché la bufala propinata si abbina ai commenti ovviamente indignati di chi pensa di stare per vivere dentro “Blade runner”. Anche qualche altro parlamentare, oltre ai grillini, prende sul serio la cosa e decide di cavalcarla. Si va da Saverio Romano di Forza Italia, che twitta la sua protesta, a Loredana De Petris di Sel, preoccupata per gli animali quanto l’ex ministro Brambilla. Nessuno però si è preoccupato di verificare come in realtà il provvedimento riguardi principalmente le imputazioni più lievi, sanzionabili con multa e ammenda, e la depenalizzazione consista nel rendere il provvedimento, da penale, amministrativo, snellendo la trala burocratica e rendendo così più rapida e certa la sanzione. dicembre 2014) “Corda e sapone” per un suicida Su Twitter una attenta lettrice con acuta sensibilità sociale mi segnala l’ennesimo suicidio in un carcere italiano. Argomento sgradevole come pochi, di quelli che non si contestano, perché sono incontestabili, ma si fuggono perché inquietano. Esempio per eccellenza: la Shoah. In questo caso la storia ha due protagonisti, un ergastolano suicida e una pagina di Facebook. Già sull’ergastolano c’è da interrogarsi, volendo. Non era un mafioso né un serial killer. Era un romeno, Ioan Gabriel Barbuta di 39 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio di un vicino di casa. Chi sa che casa fosse e che tipo di vicino. Uno solo comunque. Non come Olindo e Rosa che per avere la stessa pena hanno dovuto fare molto di peggio ai loro vicini. Comunque Ioan Gabriel ha pensato di impiccarsi e quello che conta è che c’è perfettamente riuscito, malgrado la sorveglianza. E siamo al secondo protagonista, la pagina Facebook, gestita da uno dei numerosi (ma quanti sono?) sindacati degli agenti di custodia, l’Alsippe, qualsiasi cosa voglia dire questa sigla. Commenti imbarazzati per quello che potremmo chiamare un increscioso episodio? Ma no. Roba tipo: “Uno di meno” La faccenda dei due mandati è una clamorosa esemplificazione di un utilizzo partitocratico dell’incarico parlamentare Del Turco non aveva potuto commettere il reato. “E’ vero” , rispose l’accusa, “vorrà dire che cambieremo la data” Grillo propone un elenco di 112 reati dall’incesto al maltrattamento di animali e sostiene che sono stati depenalizzati. Ma è una bufala La “gogna mediatica”: il pm non ha trovato indizi sufficienti per indagare qualcuno ma almeno lo indica al pubblico ludibrio o “Sono solo extracomunitari”. Peraltro i romeni sono membri dell’Ue ma, se hanno faticato a realizzarlo Alemanno e Gasparri, perché prendersela con gli agenti di custodia? “Fornirgli corda e sapone” scrive simpaticamente un altro utente della pagina sindacale. Ma se un senatore del M5s, Giarrusso, ha pubblicamente proposto di impiccare Renzi, perché inerire sul sindacalista? E, infine, se il ministero ha aperto un’inchiesta, ha senso chiedersi a cosa possa servire? (19 febbraio 2015) Lupi, ultima vittima della discovery La parola chiave è “discovery”. Suona bene alle orecchie del profano di procedura penale perché almeno è una parola inglese, dunque moderna per definizione, e lontana dai tempi immutabili degli azzeccagarbugli e del loro latinorum. E’ addirittura musica soave per il giurista che ne coglie il suono anglosassone, evocatore per lui di un processo finalmente ad armi pari, promessa mai mantenuta a sud delle Alpi. Eppure, da quando la discovery è divenuta parola corrente nel processo penale, ha portato in auge come mai prima espressioni quali “gogna mediatica” e “macchina del fango”. Eterogenesi dei ni o riprova che le peggiori persecuzioni, con l’unica eccezione forse del nazismo, nascono e si affermano in nome del “bene comune”. Con la discovery si sono trovate messe alla gogna, metaforica ma non meno umiliante, signorine dai costumi leggeri divenuti non più privati, mariti non irreprensibili ma nemmeno fuorilegge, uomini e donne appartenenti ai ceti sociali più diversi dai muratori ai ministri, dalle puttane alle principesse. Chi scrive, pur se per indole e ideali è più portato alla difesa di puttane e muratori, deve ammettere che il fenomeno è interclassista e l’ultima vittima della discovery è il ministro Lupi, per il quale qui non si prova nessuna simpatia e più ancora delle dimissioni si sarebbe preferito non vederlo riconfermato. Ma è singolare che ora lo si voglia fuori dal governo senza nemmeno il rituale avviso di garanzia. Come è potuto succedere? La discovery, appunto. Fino agli anni 80 c’era il mandato di cattura che veniva “spiccato” dal pm. Uno veniva sbattuto in galera e poi, con calma e in segreto, si vedeva. Oggi il pm deve prima far valutare al gip l’emissione di un ordine di custodia cautelare. Altro linguaggio e altra prassi. Se il gip è d’accordo si procede, se invece ritiene quella del pm una pessima idea non lo sapremo mai. Quando il provvedimento viene emesso, e non “spiccato” , avviene la discovery. Ovvero, lealmente, l’accusa scopre le sue carte. Così la difesa potrà regolarsi meglio. E che si vuole di più? L’indagato è messo nelle condizioni di difendersi n dal momento in cui si chiude la porta del carcere. Josef K. fu trattato assai peggio. Nella discovery ci sono le accuse per tutti gli indagati, l’ordine di custodia è unico, cambia solo l’indirizzo. Meglio, così la difesa ha un quadro completo. E ci sono le intercettazioni, che non possono mancare se non a scapito dell’accuratezza dell’indagine. Funzionano così: devono fondarsi su indizi di reato o almeno essere indispensabili alla prosecuzione delle indagini. In parole povere si può intercettare anche chi non è indagato e a maggior ragione se parla con chi invece lo è. Il pm, naturalmente, non sta ad ascoltare in cuffia. Ci pensa l’addetto della polizia che stende un brogliaccio e ogni cinque giorni dovrebbe farlo valutare al magistrato per scegliere le telefonate rilevanti ma i pm non ce la fanno a tenere il passo delle intercettazioni da loro stessi richieste e in genere solo grazie a una proroga di indagine riescono a fare una scrematura. E allora come è possibile che si ritrovino nelle ordinanze telefonate prive di rilievo penale ? Servono a definire il “contesto” è la risposta. Ma possono finire sui giornali? No. Ma la sanzione è una multa, ammortizzata da un po’ di copie in più. Dunque ci finiscono. La “gogna mediatica” è una specie di sanzione anticipata. Il pm non ha trovato indizi sufficienti per indagare qualcuno ma almeno lo indica al pubblico ludibrio. Un po’ come la carcerazione preventiva. So che sei colpevole perché, come Pasolini, “io so” , ma so anche che non ho prove e dunque ti tengo dentro n che posso, sperando che tu me le fornisca. Con la pubblicazione delle intercettazioni il pm sfiora l’autolesionismo. Faccio sapere a tutti, dunque anche a te, che ti sto puntando. La politicamente tempestiva pubblica gogna può far evitare la pena forse in futuro dovuta. Estremo paradosso della discovery. (19 marzo 2015) Il pm Henry John D’Alema Insomma – fermo restando che se per avere un appalto si corrompe un pubblico amministratore si commette un reato, e grave – la notizia su cui si è dibattuto con accanimento ieri consiste nell’esistenza di una inchiesta che ha appurato, fra l’altro, come Massimo D’Alema, che al momento non ha alcun incarico pubblico né di partito, abbia buoni rapporti con una cooperativa fra le maggiori della Lega Coop. Non erano necessarie intercettazioni per sospettarlo. Né stupisce che a valorizzare una simile acquisizione investigativa sia il pm Henry John D’Alema. (1 aprile 2015) Inseguire farfalle e trattative Prevedibile, inevitabile, il nuovo libro sulla trattativa è firmato direttamente dal pm Nino Di Matteo insieme al giornalista Salvo Palazzolo. Le anticipazioni di Repubblica non possono essere esaustive, e dunque il libro bisognerà leggerlo, ma qualcosa di più chiaro sul senso dell’accusa forse fanno intendere e fanno riemergere la questione, molto tecnica, di come si possa imputare, attraverso naturalmente il codice penale che non lo contempla, il reato di trattativa. Quanto alle critiche all’inchiesta, ieri se ne è occupato Attilio Bolzoni, addebitando ai critici la tesi della sopravvenuta sparizione della mafia. Non so altrove, ma qui non si è mai sostenuta. Però quando Bolzoni sostiene che nel 1963 alcuni dettero per sconfitta la mafia per essere poi clamorosamente smentiti da omicidi e stragi che ripresero dopo pochi anni in un terribile crescendo no al 1993, qui, dove pure non si dà per sparita la mafia ma nemmeno trionfante, non si può fare a meno di osservare che negli ultimi anni non ci sono state più stragi e nemmeno delitti eccellenti anche perché tutti i capi sono sepolti da ergastoli che scontano al 41 bis e perno la maa ha bisogno di tempo per riorganizzarsi. Bisognerebbe evitare di concederglielo mettendosi a inseguire farfalle e trattative. (7 maggio 2015) Quelli che ci insultano per il nostro bene La federazione italiana tabaccai ha annunciato una sua campagna che supera l’aspetto meramente corporativo e credo meriti attenzione. Il presidente dei tabaccai ha inviato quella che definisce “una civile nota di disappunto” al ministro Beatrice Lorenzin per il tono della nuova campagna anti fumo, condotta dal ministero all’insegna dello slogan “Ma che, sei scemo?”. “Non sono scemo, sono un fumatore consapevole” , sta scritto nelle cartoline prestampate da inviare al ministero della Salute. La questione supera il tema del fumo e civilmente i tabaccai segnalano che si può fare prevenzione senza insultare. E qui sta il punto centrale della faccenda. Ormai gli insulti sembrano essere le coordinate di qualsiasi discorso sulle questioni pubbliche. Sdoganato – e promosso a elemento di programma politico – il vaffanculo, gli insulti entrano ora a vele spiegate nella pubblicità progresso. E’ il grado zero del discorso, regressione culturale allo stato puro, altro che progresso. E’ il fondo, astioso e autoritario, di chi vuole il nostro bene a tutti i costi. (27 ottobre 2015) M.me Le Pen e Grillo, due populismi Alcune categorie politiche si dilatano e perdono i loro connotati di riconoscibilità. Non intendo dal punto di vista teorico, ma almeno per il minimo necessario a capire e a capirsi. Populismo, per esempio. Sono riconducibili a questa stessa categoria sia M.me Le Pen che Grillo? Ovviamente no. Con una battuta si potrebbe dire che il Front national viene del neofascismo e punta a superarlo, il M5s, al contrario, rischia di arrivarci partendo dal web. Per ora comunque i pentastellati più che ai lepenisti sono vicini a Podemos, almeno nell’immaginario di una larga parte del loro elettorato. Il Fn è una formazione che si va modi- cando partendo però da una struttura ideologica compatta che il M5s non ha, se non, forse, nelle intenzioni di Casaleggio. Infine, il sistema elettorale della quinta Repubblica fu concepito per ridimensionare, se non tagliare, le estreme. In Italia ad oggi non siamo nemmeno sicurissimi del sistema col quale voteremo alle prossime elezioni politiche. Tutto ciò premesso, da oggi il dibattito sui grandi giornali probabilmente si orienterà sulla “avanzata europea delle forze populiste” e sulle possibili analogie fra la situazione italiana e quella francese. Durerà tutta la settimana. (8 dicembre 2015) La mafia come retrovia Nel processo Maa Capitale le udienze finora non sono state elettrizzanti, si susseguono le testimonianze degli ufficiali del Ros citati dall’accusa per rendere edotto il tribunale delle varie tappe dell’inchiesta e della raccolta di prove e indizi. Ogni tanto qualche imputato chiede di rilasciare una dichiarazione spontanea in cui ribadisce la propria innocenza più a beneficio delle agenzie di stampa che dei giudici. Più incisivi i controesami delle difese che in qualche occasione hanno evidenziato lacune investigative e incongruenze. Ma queste prime testimonianze mostrano un ambiente che stenta a omologarsi allo stereotipo del controllo mafioso. Mancano i killer, c’è un personaggio addetto al recupero crediti ma pesantemente criticato dagli altri per la sua sbadata inconcludenza. Ci sono molti tipi assai poco raccomandabili e con lunghe fedine penali, poco propensi però alla disciplina di gruppo. In fondo la squadra messa insieme da Carminati ha pochi elementi. Molti personaggi ben rappresentano un certo milieu molto romano, di commercianti e imprenditori edili alle prese con l’usura, non sempre o solo nella parte delle vittime. Sociologicamente si va dal gioielliere dei Parioli al grossista di mozzarella. Fra usura ed estorsione invece il ruolo che l’accusa ritaglia con notevole messe di registrazioni anche video per Carminati e i suoi due o tre sodali. Naturalmente non mancano amministratori locali accusati di corruzione. E la mafia propriamente detta? Una sorta di potente retrovia attestata sul litorale e a Roma sud. Nel processo ci arriveremo, assicurano i pm. (19 febbraio 2016) L’intervista di Vespa a Riina jr. Il dibattito sull’intervista di Vespa a Riina jr. continua, in spregio al monito caro ad Alessandro Milan che tutte le mattine ricorda agli ascoltatori della sua rassegna stampa che “la carta costa”. Comunque, una volta trasmessa l’intervista ognuno la può valutare come meglio crede. Anche se da alcuni commenti emerge un sotto-tema di qualche interesse. Bruno Vespa catalizza una notevole ostilità, non sempre motivata, come riesce solo a un’altra diversissima icona delle tv e delle librerie: Roberto Saviano. Personalità diversissime, a cominciare dal look, che hanno in comune solo due cose: i loro detrattori e i successi di share e di vendite. Non è azzardato pensare che in molti casi, non in tutti certo, la seconda sia la causa della prima. Quanto al dibattito parlamentare, molti trovano normale che a occuparsi della faccenda sia stata la commissione Antimafia e non, se mai, quella di vigilanza Rai. A me pare singolare e indicativo. Infine ci sarebbe da notare che ieri qualcosa di serio sulla mafia e la società, sui giornali c’era. Ma era l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere, che parlava di mafia, antimafia e Confindustria. Cose serie e complicate sulle quali disponibili ad appassionarsi sono pochi. Quelli capaci di ragionare. (8 aprile 2016) E’ necessario tornare a occuparsi del dottore Ingroia, perché a tutto c’è un limite. Ieri sera alcuni tg hanno proposto la sua versione a proposito dell’indagine per peculato che lo riguarda e si sono potuti apprendere nuovi particolari dalla sua viva voce, sottolineati dalla sua mimica inconfondibile. La sua linea difensiva è la seguente: i dati usati dai magistrati palermitani sono sbagliati in partenza. Non mi si può accusare, dice Ingroia, di aver incrementato il passivo della società partecipata regionale per avere incassato un “premio di risultato” di 117 mila euro a fronte di un attivo conseguito di soli 33 mila. Ovviamente, sostiene Ingroia, nell’attivo era compresa anche la cifra del mio premio, dunque l’azienda non ci ha rimesso e non capisco di che mi si accusi. Questa la tesi. Può essere che la parola abbia tradito il pensiero ma il ragionamento del dottore Ingroia, preso alla lettera, porta a concludere che a fronte di un attivo societario di circa 150 mila euro, la Regione Sicilia, governata dall’ineffabile Crocetta, lo ha gratificato di un premio pari a oltre l’80 per cento dell’utile conseguito. Siccome la società partecipata resta gravata da un passivo accumulato che si conta in milioni, la linea difensiva del dottore Ingroia rappresenta un caso lampante di quella che Ernesto Rossi chiamava la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti. Il fatto che il dottore Ingroia, ora avvocato, consideri la sua una brillante tesi difensiva, aiuta retrospettivamente a capire come abbia svolto il ruolo di pubblico accusatore. Qui ci si continua a chiedere quando finirà questa costosa buffonata. Roma tra la Svizzera e la Germania. Niente “fontanelle che zampillano” descritte in un esilarante reportage sulla capitale pubblicato dal blog di Beppe Grillo e scritto in uno stile nordcoreano. La Acea ha da tempo ridotto la pressione che determina il flusso dell’acqua dalle fontanelle pubbliche e ora minaccia di fare la stessa operazione con i rubinetti delle nostre case. L’acqua è un bene comune ma anche prezioso e dunque non va sprecato. D’accordo. Però è anche vero che qualcosa di simile a Roma non s’era mai visto. Dunque quel racconto di una città immaginaria dove tutto funziona a meraviglia, tranne i mezzi pubblici perché anche l’apologeta più sfacciato sa dove fermarsi, è stato messo in rete nel momento oggettivamente meno propizio. Restava comunque azzardato descrivere Roma ai tempi della Raggi come una via di mezzo fra una località di vacanza svizzera e una metropoli tedesca. Forse però è proprio l’incongruenza evidente a rendere fruttuosa, da un punto di vista politico, l’operazione mediatica. L’improntitudine è irritante ma è anche un segno di forza o almeno come tale può essere percepito. In fondo sono gli stessi che propongono come statisti Di Maio e Di Battista. Pensano di potersi permettere tutto e vogliono farlo sapere. (30 agosto 2017) Ciancimino e la famosa trattativa Nella condanna di Massimo Ciancimino per il reato di calunnia, ai danni di Gianni De Gennaro e Lorenzo Narracci, pronunciata ieri a Caltanissetta c’è un dettaglio che dice molto. Il pubblico ministero aveva chiesto una pena di 5 anni e 9 mesi che il giudice ha, diciamo così, arrotondato a 6 anni. Quei tre mesi in più rispetto alla richiesta dell’accusa suggeriscono l’idea che le motivazioni saranno, se possibile, un ulteriore passo nella demolizione dell’attendibilità del “super teste” su cui si regge in gran parte il processo sulla cosiddetta trattativa. Ciancimino jr. ha ormai collezionato un album Panini di condanne e procedimenti pendenti per i reati più vari, dalla detenzione di candelotti di dinamite al riciclaggio, passando naturalmente dalla falsa testimonianza. L’aspetto più singolare, e indicativo, è che, nella maggior parte dei casi, queste vicende giudiziarie, concluse o ancora in corso, rimandano a un periodo nel quale Ciancimino aveva già iniziato la sua collaborazione, se così si può dire, con la giustizia e la sua carriera di “icona dell’antimaa” , tuttora osannata da sconsiderati sventolatori di agende rosse guidati dal fratello del giudice Borsellino. La questione vera è che l’apporto di un personaggio simile è, in mancanza d’altro, comunque irrinunciabile per gli inventori della famosa trattativa. Prova ne sia il fatto che pochi giorni fa il dottore Ingroia, nella veste di avvocato di parte civile, con raro sprezzo del pericolo e del ridicolo ne ha chiesto l’inserimento fra i testimoni nel processo “’Ndrangheta stragista” che si svolge a Reggio Calabria. (17 novembre 2017) Breve storia dell’albero Spelacchio Breve storia dell’albero Spelacchio, raccontata dalle massime autorità della città che ebbe per sindaci Ernesto Nathan e Giulio Argan e ora Virginia Raggi o chi per lei. Il 9 dicembre presenta l’albero come “il nostro omaggio alla città” , lo denisce “certicato e molto bello” nella sua semplicità, sobrietà e sostenibilità. Gli addobbi prevedono 600 palle e 300 cascate di led da 10 metri. I romani lo vedono e comprendono perché la sindaca avesse usato quei termini. Viene subito chiamato Spelacchio da tutti. Con quel nome tracima sui social ed è oggetto di articoli e filmati. Ride mezzo mondo. Il battesimo popolare dell’albero è stato troppo tempestivo, osserva il 21 dicembre l’assessora all’ambiente Pinuccia Montanari, per non pensare quanto meno a un mezzo complotto. Poi l’assessore si profonde in giustificazioni degne di John Belushi in “The blues brothers”: veniva da dieci mesi di siccità, gli aghi potrebbero essere caduti per via delle decorazioni troppo strette. Mancano giusto le cavallette. In ogni caso è evidente che c’è una regia in corso, conclude, riproponendo “il complotto di Spelacchio”. Oggi l’epilogo raccontato dall’assessora e dalla sindaca. L’albero è entrato nel quotidiano della gente e ha rapito l’attenzione di radio e tv. Oltre che per l’aulica improntitudine le parole di Montanari sono significative per l’esclusione dell’odiata carta stampata ma anche del solitamente amato web. La sindaca tira le somme dell’operazione Spelacchio annunciandone il riciclo sotto forma di riuso creativo. Non solo gadget ma anche una casetta di legno dotata di fasciatoio in legno. Simbolo di tempi nuovi, da immaginarsi tristi e regressivi. (9 gennaio 2018) Il ministero della democrazia diretta L’annunciato ministero “per la democrazia diretta” induce al sorriso, ma siccome prima di ridere, o piangere, è meglio capire, occorre immaginare. Il ministero dovrebbe avere una sede, anche se modesta, probabilmente negli uci distaccati della presidenza del Consiglio nella galleria Colonna, nulla più che qualche stanza. Una bella e grande per il ministro, una comunicante per il suo sta, un’altra più ampia per i (pochi) funzionari. Nel corridoio, che affaccia sulla porta, naturalmente a vetri in nome della trasparenza, la postazione più delicata: quella dell’uscierecentralinista. “Pronto, ministero della democrazia diretta. Chi vuole? Il ministro? Le passo la segreteria”. La democrazia diretta, che è comunque una cosa seria, finirebbe con una telefonata ma nascerebbe un magnifico personaggio letterario. Il centralinista del ministero della democrazia diretta. (2 marzo 2018) Il ministro dell’Interno gioca a flipper Da ultimi gli articoli di Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera e di Arianna Ciccone sul web mettono in la gli atti di violenza contro immigrati e rom che stanno caratterizzando questa estate nel nostro paese. Sono articoli meticolosamente attendibili e il pessimismo induce a pensare che, al di là dello scrupolo delle autrici, possano perno essere approssimati per difetto. Va però anche aggiunto che una semplice, per quanto impressionante sequenza, va comunque confrontata statisticamente e non è lavoro da giornalisti ma da istituti che pure esistono ma hanno i loro tempi, che non sono quelli della informazione. Per di più, sulle ultime e più impressionanti vicende, ancora la cronaca lascia spazio, con le sue contraddizioni e zone d’ombra, a possibili letture diverse. Tutto questo però non toglie, anche a voler essere minimalisti per autocontrollo, che l’impressione di un aumento di episodi violenti a sfondo razzista abbia un suo solido fondamento. Né rassicura l’atteggiamento del ministro dell’Interno, non solo per le sue dichiarazioni e citazioni. Compaiono sui social foto che ritraggono Salvini sulla spiaggia che si fa selfie con altri bagnanti o al bar che gioca a flipper. Eppure nessuno invoca un suo maggiore impegno, forse considerando che nelle sue funzioni di ministro in soli due mesi, oltre tutto, ha già causato due incidenti diplomatici, con Tunisia e Ucraina. Meglio dunque che giochi a flipper. E’ evidente anche alle pietre come in ogni caso, impegnandosi, potrà solo peggiorare la situazione che, al di là delle sue foto, non può essere denita, come al solito, drammatica ma non seria. Stavolta è anche seria. (31 luglio 2018) L’idea di giustizia di Lega e M5s La bagarre inscenata dai leghisti sulla questione del disegno di legge Molteni ha coinciso con la reiterazione degli attacchi del M5s alle modiche della legge sulle intercettazioni. I temi sono lontani dal punto di vista della procedura, il primo riguarda il giudizio, ovvero la fase nale, il secondo le indagini, ovvero la fase che può originare il processo, ma è innegabile che all’origine delle rispettive prese di posizione ci sia la stessa idea di “giustizia”. Un "idem sentire" , come diceva Umberto Bossi quando voleva fare colpo sul professore Miglio, che si mostra con l’immagine di un sacrificio umano in onore di alcuni idoli del tempo, primi fra tutti la semplificazione e l’efficienza. L’indagine non deve trovare limiti nei diritti delle persone, si scatenino Trojans e telecamere e peggio per i passanti. Il ne del processo è la condanna e l’unica condanna possibile deve essere il carcere. Se poi le galere si inzeppano no al doppio della loro capienza, come documentava ieri uno splendido articolo sul Mattino, poco male. Sarà solo Rita Bernardini, con pochi altri, a cercare di impedirlo senza naturalmente riuscirci. In nome della lotta alla casta e alle pastoie burocratiche si torna a forme tribali. Sarebbe auspicabile che Berlusconi mandasse una volta per tutte a quel paese Salvini e Bersani smettesse di considerare possibile il dialogo con la tribù dei cinque stelle, ma non succederà. Tutto lascia pensare che il piano continuerà a inclinarsi. (13 dicembre 2018) Senza medaglie di stagnola Passato il weekend resta la scia delle polemiche su Freccero, sul ritorno in Rai di Daniele Luttazzi, sulla collocazione di Luca Bizzarri Paolo Kessisoglu. Altro preme e la faccenda può restare in stand-by senza per questo uscire di scena. Tocca però rispondere al direttore del Fatto che ha citato questa rubrica. Naturalmente si è trattato di una citazione critica e questo non può che rassicurarci. Secondo tradizione l’argomentazione criticata era rovesciata nel suo assunto per meglio essere confutata. Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è che Travaglio mi definisce polemicamente “sedicente liberale”. Non posso accettarlo. La realtà è che mai mi sono presentato a qualcuno come un liberale, non ho questa pretesa, in un mondo di Montanelliani e liberal di ogni ordine e grado non ho medaglie di stagnola di questo tipo nel cassetto. (8 gennaio 2019) Il caso vuole che per una bizzarra quasi coincidenza di date, oggi sia l’anniversario dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993. E’ passato un quarto di secolo, la memoria può annebbiarsi, eppure ieri risultava difficile comprendere le affermazioni dei due ministri, quello in borghese e quello mascherato, precipitatisi a Ciampino per rimarcare come “storica” la data di ieri. Cesare Battisti era un membro di secondo piano di un gruppo terrorista di poche decine di persone che si sciolse nel giro di tre anni, non prima di aver ucciso cinque persone, a causa della dissociazione del suo fondatore, un tizio di Verona. Insomma non è la caratura criminale di Battisti a rendere storica la giornata, né il pericolo da lui rappresentato attualmente. Certo i tempi della sua latitanza sono stati molto lunghi ma neanche questo è un dato così straordinario. Un paio di anni fa, sempre dal Brasile venne estradato un camorrista di rango, Pasquale Scotti, dopo una latitanza lunga grosso modo quanto quella di Battisti. Nessun ministro o oppositore parlò di giornata storica, al massimo qualche cronista giudiziario napoletano. La caratteristica della latitanza di Battisti, più che la durata, è il suo svolgimento sotto gli occhi di tutti fra la rive gauche e Copacabana. L’obbiettivo della evidente strumentalizzazione governativa non è lui ma i suoi amici , “la sinistra”. Qui, dove pure non si dà per sparita la maa, non si può fare a meno di osservare che negli ultimi 22 anni non ci sono state più stragi Sdoganato, e promosso a elemento di programma politico, il vaanculo, gli insulti entrano a vele spiegate nella pubblicità progresso Sono gli stessi che propongono come statisti Di Maio e Di Battista. Pensano di potersi permettere tutto e vogliono farlo sapere In nome della lotta alla casta e alle pastoie burocratiche si torna a forme tribali. Tutto lascia pensare che il piano continuerà a inclinarsi quella di Mitterrand e poi di Lula. Il cambio del regime brasiliano ha reso possibile tutto ciò. Prima che comparisse Bolsonaro, Battisti non era al centro dei pensieri del governo. Ora si può leggere qualsiasi cosa. Perno un paragone fra un cancro e l’Internazionale socialista di Pietro Nenni e Willy Brandt. (15 gennaio 2019) Dibba e Di Maio, marcatura a uomo Continua l’affiancamento, la marcatura a uomo verrebbe da dire, di Di Battista nei confronti di Di Maio. Ieri i due hanno varcato le Alpi per incontrare una rappresentanza di gilet gialli. Il copione sembra essere quello dei due poliziotti, quello buono e quello cattivo. L’abbigliamento aiuta a distinguere i ruoli. Di Maio con i suoi terribili completini grigi nella parte del mediatore istituzionale, Di Battista col giubbotto da movimentista, a rappresentare il movimento di lotta e di governo nel tentativo di arginare la perdita di punti nei sondaggi a tutto vantaggio di uno che è sicuramente più abile di loro a travestirsi. Infatti si comincia a notare come il ritorno in campo del girovago Dibba non stia producendo i risultati sperati dalla Casaleggio Associati. Forse la parabola si sta compiendo. Non basta una cravatta a fare un governante e in tempi dicili emerge l’inadeguatezza anche degli agitatori a casaccio. In parole povere chi li ha votati comincia a non darsi, a nutrire il dubbio del giocatore d’azzardo che alla ne del primo tempo comincia a pensare di aver puntato sulla squadra sbagliata. Questo sembrano dire i sondaggi nel momento in cui le migliori opportunità sono state già estratte dal famoso contratto. La legislatura ora dovrà proseguire affrontando i problemi notoriamente più controversi fra gli alleati di governo oltre le inevitabili difficoltà impreviste e per i pentastellati la partita si fa sempre più dicile. (6 febbraio 2019) Il Pci e l’equivoco sul sequestro Moro Il libro di Giovanni Bianconi sul 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, pubblicato da Laterza nella collana dedicata ai giorni più importanti della storia del nostro paese, non è solo molto bello. È imprescindibile. Almeno di fronte alla marea di sciocchezze cresciute e autoalimentatesi nel corso del tempo. Bianconi nel suo libro fa un lavoro da grande cronista e rimette in la i fatti, dalla sera di vigilia di quella giornata, l’agguato, la reazione dei partiti, l’accelerazione del voto di ducia al governo col Pci nella maggioranza, le prime indagini e le prime manifestazioni no al voto denitivo sul governo a tarda notte. Il risultato della lettura è molto significativo. La radice, la base delle successive farneticazioni, - no a quelle di chi sostiene che Moro non sia stato rapito a via Fani ma in un altro posto, sta tutta in quelle prime 24 ore così come si trovano puntuali smentite, prese solo dallo svolgersi dei fatti, a molto avventurose ricostruzioni. Sostenere, come fece da subito il Pci ma anche molti altri, che si aveva a che fare non con una formazione politica ma con una accolita di assassini utilizzata da imprecisati servizi segreti, non servì solo e tanto a stravolgere l’identità e la natura politica delle Br, quanto e soprattutto a rafforzare quella “linea della fermezza” che caratterizzò da subito tutto l’arco politico con l’eccezione di socialisti, radicali e della parte più saggia dell’estrema sinistra. E’ la lezione principale del libro di Bianconi e spiega anche perché le baggianate in materia durino da quarant’anni. (19 marzo 2019)

 “L’associazione Libera? Mafia dell’antimafia”. Catello Maresca, magistrato della Direzione Nazionale Antimafia, ha accusato, in un'intervista a Panorama, l'associazione Libera di Don Ciotti di gestire i beni sequestrati alla mafia in regime di monopolio. E ritornano alla mente le parole di Sciascia sul "professionismo antimafioso" mentre l'Italia imputridisce grazie alle organizzazioni criminali. Lintellettualedissidente.it il 19 Gennaio 2016. E’proprio vero ciò che scriveva Leonardo Sciascia: con la mafia si fa carriera. E non solo affiliandosi, ma soprattutto sventolando il vessillo dell’antimafia. Ad oggi, però, a denunciare il fenomeno del “professionismo antimafioso” ci pensa paradossalmente un giudice: Catello Maresca,  pm della Direzione Nazionale Antimafia, nonché magistrato che fece arrestare il boss dei Casalesi Michele Zagaria. Maresca, in un’intervista rilasciata a Panorama lo scorso 14 gennaio, ha attaccato con parole forti l’Associazione “Libera contro le Mafie” di Don Ciotti, definendola come l’organizzazione che attualmente in Italia detiene “il monopolio della gestione dei beni sequestrati alla mafia”.  Inoltre, sempre nella stessa intervista, il pm ha affermato che: “Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse”. Insomma, il pm non ha usato mezzi termini per esprimere il proprio parere su Libera e sull’associazionismo che dovrebbe combattere la mafia. E Don Ciotti non è stato a guardare, anzi ha minacciato di querelare lo stesso Maresca, affermando in un comunicato stampa che ad “oggi è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera.” E nell’avvincente dibattito si è inserita anche Rosi Bindi, esprimendo la propria solidarietà nei confronti del sacerdote veneto che ha spesso e volentieri alternato la pratica religiosa e l’attivismo socio-politico. Infatti Don Ciotti è noto non solo per la fondazione di “Libera contro le Mafie”, ma anche per la istituzione nel 1995 della onlus: il “Gruppo Abele”, impegnata in numerose attività sociali.  Un sacerdote sui generis, dunque, che non ha mai disdegnato spogliarsi della tunica per indossare la toga del tribuno. Inoltre, c’è da dire che le associazioni fondate da Don Ciotti di certo non muoiono di fame. L’attivo di Libera, solo nel 2014, ( si legge nel bilancio pubblicato sul sito web) è di 2.426.322 euro. Ancora meglio è andato il “Gruppo Abele” che sempre nel 2014  ha potuto vantare profitti per  6.291.776 euro. Quindi Libera, ad oggi resta, al netto degli “attacchi per demolirla”, un’associazione ricca, potente, che coordina circa 1600 realtà (tra cooperative, enti, gruppi) che a loro volta gestiscono direttamente decine di migliaia di beni sequestrati alla mafia. In che modo? Sicuramente le parole di Maresca non saranno del tutto infondate. 

Foggia in 20mila contro la mafia: il corteo di Libera dopo gli attentati. Presenti, tra gli altri, Don Ciotti, il ministro Teresa Bellanova, il presidente Emiliano, il sindaco di Foggia Franco Landella, il sindaco di Bari Antonio Decaro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Gennaio 2020. «Siamo qui per disinnescare la miccia della paura e della rassegnazione. Siamo qui per fare emergere i tanti valori della nostra terra affinché ci sia un passaggio, un cambiamento. È importante che ci sia continuità. Noi non possiamo lasciare la responsabilità solo sulle spalle della magistratura e delle forze di polizia, perché c'è una responsabilità di noi cittadini. Guai se non fosse così, guai se viene meno questo». Lo ha detto il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, alla testa del corteo contro la mafia appena partito a Foggia. Alla manifestazione partecipano, secondo le forze dell’ordine, circa ottomila persone. «Sono 165 anni che parliamo di mafia - ha concluso don Ciotti - aveva ragione Falcone quando diceva che era una lotta di civiltà e legalità».

Il PREMIER CONTE - "Il mio pieno sostegno alla manifestazione contro la mafia che si svolge oggi a Foggia. La lotta alle mafie non deve avere bandiere nè colori politici. E’ una lotta che deve vederci tutti uniti nella stessa direzione e a difesa della libertà, legalità e giustizia». Lo scrive su twitter il premier Giuseppe Conte in relazione alla manifestazione promossa da Libera. Un fascio di rose rosse è stato lasciato in viale Candelaro a Foggia, all’altezza del civico 27, dove il 2 gennaio scorso è stato ucciso il commerciante d’auto Roberto D’Angelo. Da qui è partito il corteo contro le mafie organizzato da Libera di don Ciotti. Tante le persone anche comuni che hanno aderito all’iniziativa intitolata «Foggia Libera Foggia», promossa per rispondere all’escalation criminale nei primi giorni dell’anno: tre incendi, a due bar e una macelleria; l'omicidio di D’Angelo; e l’attentato dinamitardo all’auto del manager sanitario Cristian Vigilante, testimone in un’indagine contro la mafia foggiana. Al corteo hanno annunciato la propria presenza anche la ministra Teresa Bellanova, il governatore pugliese Michele Emiliano, magistrati, sindacalisti, politici e studenti. «Scendete in strada. Se ancora avete dei dubbi che questa manifestazione ha un qualche motivo di inutilità fateveli passare ora. Scendere di casa e state assieme a noi». Così la vicepresidente di Libera, Daniela Marcone, a Foggia per il corteo contro le mafie che partirà a breve.

IL SINDACO DI FOGGIA - «Questa - ha aggiunto il sindaco di Foggia, Franco Landella - è una bellissima giornata perché è scesa in piazza la stragrande maggioranza della Foggia perbene, che vuole continuare a vivere e che non si abbassa, non cala la testa davanti alla minoranza criminale che offende l’immagine di questa città». «Questa è la vera Foggia - ha concluso - quella che vuole continuare a progettare il futuro dei propri figli». «È molto importante essere qui. È molto importante che ci sia tanta gente perché dobbiamo avere finalmente la forza e il coraggio di riprenderci questo territorio, riprenderci casa nostra». Così Arcangela Luciani, vedova di Luigi Luciani ucciso con suo fratello Aurelio a San Marco in Lamis il 9 agosto 2017, perché testimoni involontari dell’agguato al boss Mario Luciano Romito e al cognato Matteo De Palma. «La mafia - ha aggiunto - fa tanta paura ma bisogna andare avanti, non bisogna abbassare la testa perché altrimenti a questa paura se ne aggiungeranno delle altre. Mi auguro che da oggi lo Stato diventi parte integrante di questo territorio». Alla manifestazione partecipa anche Marianna Luciani, vedova di Aurelio, secondo la quale «è fondamentale la nostra testimonianza per avere un futuro migliore per tutti noi. Rassicuro i miei figli senza portarli verso l’odio, altrimenti saremmo come loro».

DON LUIGI CIOTTI - «Siamo qui per disinnescare la miccia della paura e della rassegnazione. Siamo qui per fare emergere i tanti valori della nostra terra affinché ci sia un passaggio, un cambiamento. È importante che ci sia continuità. Noi non possiamo lasciare la responsabilità solo sulle spalle della magistratura e delle forze di polizia, perché c'è una responsabilità di noi cittadini. Guai se non fosse così, guai se viene meno questo». Lo ha detto il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, alla testa del corteo contro la mafia appena partito a Foggia. Alla manifestazione partecipano, secondo le forze dell’ordine, circa ottomila persone. «Sono 165 anni che parliamo di mafia - ha concluso don Ciotti - aveva ragione Falcone quando diceva che era una lotta di civiltà e legalità».

LA MINISTRA BELLANOVA - «Questo è il posto dove devono stare i rappresentanti delle istituzioni perché noi dobbiamo dare forza ai cittadini e insieme a loro gridare ad alta voce che lo Stato è più forte e la criminalità sarà sconfitta con la partecipazione degli uomini e delle donne che vogliono vivere in serenità con le loro famiglia e vogliono vivere in uno Stato libero dalla mafia». Così la ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, a Foggia per il corteo di Libera.

IL PRESIDENTE DELLA REGIONE - «Oggi siamo a Foggia con tutti i sindaci della Puglia e cittadini pugliesi che stanno dando solidarietà e sostegno alla città di Foggia minacciata e intimidita dalla mafia. Tutti al fianco dei cittadini di Foggia, di #donLuigiCiotti, di Libera Puglia, di Avviso Pubblico». Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che partecipa al corteo di Libera nel capoluogo dauno. «La rete nazionale degli Enti locali antimafia senza bandiere di partito per far sentire a tutti i testimoni che stanno denunciando questi criminali - aggiunge - alle Forze dell’Ordine ed alla Magistratura la nostra vicinanza e il nostro sostegno. Tutta la Puglia è Foggia e così sarà per sempre». «La Puglia - conclude - non torna indietro e non si farà fermare da questi criminali». «Con la gente di Candelaro contro la criminalità». E’ quanto si legge su uno striscione di alcuni bambini che partecipano al corteo antimafia di Libera a Foggia. In via Candelaro lo scorso 2 gennaio è stato ucciso un commerciante di auto con colpi di pistola. «Siamo tutti contro la mafia - dicono i bambini - la mafia a Foggia è pericolosa e non si può più vivere così, ne va del nostro futuro». Tra i manifestanti spicca un grande uomo di cartapesta che rappresenta la città di Foggia. E’ stato realizzato dal Teatro del Pollaio la cui direttrice artistica Rosanna Giampaolo spiega: «Abbiamo voluto far sfilare la bellezza in risposta alle tante bruttezze che si sono verificate in città. Questo pupazzo ha anche i colori della nostra città: il rosso e il nero».

IL SINDACO DI BARI - «Oggi siamo qui per contarci. Dobbiamo contarci uno ad uno, fino a quando non potremo dimostrare nei fatti che siamo di più noi. In carne e ossa. Siamo di più. Sono di più quelli che stanno dalla parte del bene. Ecco perché è importante essere presenti qui oggi, come presenza fisica, non come testimonianza. La criminalità organizzata deve sapere che noi ci mettiamo la faccia, le braccia, le gambe, la testa. Chi si nasconde sono loro, i criminali». Lo ha detto il sindaco di Bari e presidente Anci, Antonio Decao, partecipando al corteo organizzato da Libera a Foggia contro la criminalità. «Questo - ha aggiunto - lo devono sapere anche i cittadini di Foggia e dei comuni di questa zona che magari in questi mesi hanno paura, a loro vorrei dire “non siete soli”. Foggia non è sola, Foggia è Bari, è Lecce, è Taranto, è Brindisi. Foggia è la Puglia e questa terra non è abituata a nascondersi. Mai». «Noi siamo qui - ha concluso - perché i cittadini pugliesi non vogliono nascondersi e vogliono lottare per dare un futuro ai loro figli, a questi territori».

L'ARCIVESCOVO DI FOGGIA - «La chiesa è sempre vicina a coloro che soffrono e che sono tentati dall’indifferenza che è la malattia spirituale di questi tempi. Il coinvolgimento è bello perché è bello sapere che si cammina per una città più fraterna e solidale». Lo ha detto l’arcivescovo di Foggia e Bovino, monsignor Vincenzo Pelvi che si è unito al corteo organizzato a Foggia da Libera contro le mafie.

PARLA IL FIGLIO DELL'IMPRENDITORE UCCISO - «Quando è stato ucciso mio padre siamo rimasti soli. Sembravamo degli appestati, lo Stato non c'era e vedere invece oggi questa partecipazione mi emoziona». Lo ha detto dal palco di Libera, Francesco Ciuffreda, figlio di Nicola imprenditore edile ucciso dalla mafia nel 1990 che con altri parenti di vittime di mafia è intervenuto a conclusione del corteo di Foggia. «Non abbiate paura e non mollate mai», ha aggiunto ringraziando Libera e «don Luigi Ciotti che - ha detto - ci hanno dato la forza di uscire dal nostro isolamento». «Dopo l’omicidio di mio suocero nel 1992, sembravamo noi i mafiosi a Foggia. Ci eravamo chiusi in casa perché eravamo soli», ha raccontato sempre dal palco Giovanna, nuora di Giovanni Panunzio imprenditore edile ammazzato nel 1992 perché aveva denunciato il malaffare in città. Al corteo ha partecipato anche Cristian Vigilante, manager sanitario a cui venerdì scosso hanno fatto esplodere una bomba sotto l’autovettura. «Sono in piazza come tutti i cittadini per manifestare contro ogni tipo di mafia - ha detto - Mi sento un cittadino come tutti e come tutti dico no alla mafia». «La mia vita è cambiata - ha aggiunto - nel senso che c'è una maggiore attenzione e timore, ma si cerca di riprendere la vita di tutti i giorni in maniera normale anche con il supporto delle Istituzioni che mi sono molto vicine». «Non posso dire di non aver paura - ha concluso - però cerco di dare serenità a mia moglie e ai miei figli. Con loro cerco di distrarli, di farli giocare e ridere».

Foggia, don Ciotti: «Il mio sogno? il cartello comune demafiosizzato». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo, nostro inviato a Foggia. «Il mio sogno è vedere, all’ingresso della città, il cartello “comune demafiosizzato”. Un augurio per tutto il Paese, perché il problema non è solo di Foggia, ma nazionale». È stata la frase più applaudita di don Luigi Ciotti, fondatore dell’Associazione Libera, che ieri ha eletto la terra della quarta mafia a Capitale della lotta alla criminalità organizzata. In 20 mila hanno seguito il suo discorso dal palco, interrotto solo dai cori Fog-gia-li-be-ra: tantissime famiglie, tantissimi ragazzi e oltre 400 tra associazioni ed enti, per una città spesso omertosa e che invece ieri si è riversata in massa per le strade, come accaduto in passato solo per le promozioni della squadra di calcio. Il discorso di don Ciotti è stato l’atto finale di un corteo di tre ore che per cinque chilometri ha attraversato Foggia, dalla periferia al centro: dal mazzo di fiori di via Candelaro, teatro il 2 gennaio del primo omicidio del 2020 in Italia, fino a piazza Cavour, dove brillano ancora le luci natalizie che hanno fatto da contorno «alla voglia della città di stare insieme», per dirla con le parole del prefetto Raffaele Grassi. Tra i 20 mila anche due procuratori, Giuseppe Volpe, di Bari, dove ha sede la Dda, e Ludovico Vaccaro, di Foggia, per i quali il discorso di don Ciotti è stato, rispettivamente, «condivisibile al 100%, in particolare nel riferimento alla Costituzione» e «straordinario e senza fronzoli, soprattutto nei passaggi sul lavoro». Quel lavoro che, per don Ciotti, «deve essere per tutti, perché è fondamentale il diritto alla sicurezza ma lo è anche la sicurezza dei diritti». Tra i 20 mila anche politici di ogni colore - come auspicato dal presidente del Consiglio, il foggiano Giuseppe Conte, rappresentato dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova - e, soprattutto, le vittime della mafia. Anche l’ultima, Cristian Vigilante, a cui l’altra Foggia, quella rimasta nell’ombra, lo scorso 3 gennaio ha fatto saltare in aria l’auto: «La marcia è il più bel messaggio che mi potesse arrivare». Nella speranza che il «siamo tutti foggiani» pronunciato ieri dal governatore pugliese Michele Emiliano, valga anche oggi. A festa della legalità finita.Foggia, portavoce delle Sardine: "Mai a marcia di Libera". Ma comitato nazionale la smentisce: "Ci saremo". Bufera su Anna Rita Melfitani che aveva annunciato la non adesione alla manifestazione di Don Ciotti. Le Sardine nazionali si schierano: "Saremo a Foggia". Tatiana Bellizzi il 09 gennaio 2020 su La Repubblica. Anna Rita Melfitani, portavoce di Foggia delle 'Sardinè è al centro di numerose polemiche dopo il comunicato stampa in cui annunciava che "Le sardine di Foggia non ci saranno alla marcia di Libera. Una decisione presa consapevolmente - si legge - dato che è una vita che marciano contro la mafia e oggi non vediamo nessuna sconfitta della mafia. Non sarà una marcia, una delle tante, a fermare la "piovra" con i suoi tentacoli". Immediata la presa di posizione del comitato nazionale delle Sardine. "Siamo Sardine. E siamo e saremo sempre contro la mafia, fenomeno indegno contro cui serve un impegno forte, duraturo e costante dello Stato, ma anche dei cittadini liberi e onesti. Per questo saremo domani a Foggia, alla manifestazione di Libera. Convinti che alle "batterie" delle cosche che si spartiscono il territorio, ci si contrapponga con la partecipazione, la testimonianza e la presenza sia ideale che fisica. Per combattere la mafia non basta lo Stato, anche perché "lo Stato siamo noi" come scriveva Pietro Calamandrei. Anche per questo i cittadini devono essere nelle piazze, tra la gente, ad opporsi alla criminalità organizzata". "Da Sardine di tutta Italia - prosegue ancora la nota - siamo vicini alle Sardine pugliesi e in particolar modo alle sardine di Foggia. E saremo vicini con il corpo e con la mente a tutti coloro che saranno in piazza ad raccogliere il richiamo di don Luigi Ciotti. Come saremo sempre in prima fila, fianco a fianco con coloro che in tutta Italia  continueranno a lottare quotidianamente contro la mafia, in tutti gli ambiti del tessuto sociale". Insomma nessuna polemica a viso aperto ma una chiara presa di distanza. Non ci sta, però la portavoce foggiana. "Il comunicato - afferma Anna Rita Melfitani - è stato strumentalizzato. Noi come Sardine, siamo sempre state vicine alla legalità e vicine all'associazione di don Ciotti". "Ma quando il fuoco si sarà spento e si spegneranno i riflettori lo Stato dove sarà?? A cosa servirà una marcia?? ...l'ennesima marcia!!" - si legge nella nota. Secondo la rappresentante cittadina con il comunicato: "volevo semplicemente chiedere allo Stato di non abbandonare il territorio della provincia di Foggia dopo la marcia. Quindi non era nessun attacco diretto né a don Ciotti né alla sua associazione. Era semplicemente un  mio pensiero, un mio sfogo, poi ognuno poi è libero di partecipare alla manifestazione".

Sardine, no alla manifestazione contro le mafie di Libera: ecco perché. E' già scontro tra le sardine, il "no" di Melfitani alla marcia contro la mafia imbarazza il movimento: "Stanchi del terrore". La portavoce delle sardine a Foggia, Anna Rita Melfitani, annuncia la mancata partecipazione alla mobilitazione contro la mafia del 10 gennaio 2020 con partenza alle 15 in viale Candelaro. Michele Cera parteciperà. Sulla decisione di Melfitani: "Stiamo cercando di capire". Massimiliano Nardella l'08 gennaio 2020 su foggiatoday.it. Primi malumori e divisioni tra le sardine a Foggia, ad appena un mese dalla manifestazione del 7 dicembre scorso quando circa 300 persone, tra uomini e donne, giovani e anziani, saltellarono e intonarono più volte 'Bella Ciao' contro l'odio e le politiche di Salvini,  immaginando un mondo migliore. Oggi, al centro della querelle che sta mettendo a dura prova la compattezza del gruppo, la decisione tranchant di Anna Rita Melfitani, tra i fondatori, insieme a Michele Cera, dei gruppi Facebook del movimento, di non aderire alla mobilitazione del 10 gennaio 2020, "Foggia Libera Foggia" contro la violenza delle mafie. "Le sardine di Foggia non ci saranno alla marcia di Libera. Una decisione presa consapevolmente dato che è una vita che marciano contro la mafia e oggi non vediamo nessuna sconfitta della mafia. Non sarà una marcia, una delle tante, a fermare la "piovra" con i suoi tentacoli. Tentacoli ormai diramati in ogni luogo di potere. I cittadini onesti sono stanchi di vivere nel terrore. Vogliamo la presenza dello Stato ogni giorno. Non vogliamo che quando i riflettori si spegneranno saremo di nuovo soli. È arrivato il momento di schierare l'esercito qui a Foggia, ma non solo nel centro foggiano, bisogna monitorare le periferie dove questo male si annida ogni giorno di più". Ci sarà invece l'altro coordinatore Michele Cera, per Link e Unione degli Studenti: "A titolo personale la mia posizione è chiara". Le parole di Melfitani hanno scatenato un dibattito interno al movimento, che nel merito si cercherà di risolvere ragionando sui contenuti rispetto a posizioni aprioristiche, filtra tra gli attivisti. "Stiamo cercando di capire" si limita a dire a FoggiaToday Cera, segno evidente di un certo imbarazzo rispetto alla decisione dell'altra coordinatrice di non partecipare alla mobilitazione indetta da Libera. Melfitani che aggiunge: "Lo Stato ci dice di non essere omertosi...e noi non lo siamo stati!! Lo Stato ci dice di denunciare...e noi abbiamo denunciato!! Lo Stato ci ha detto di non aver paura...e noi non avevamo e non abbiamo paura!! Lo Stato ci dice scendiamo in Piazza...e noi scendiamo!! Lo Stato ci dice siamo con voi...ma onestamente noi non lo sentiamo!! Era e sarà sempre così, sarà sempre un fuoco di paglia". La portavoce delle sardine nel capoluogo dauno conclude: "Ora che il fuoco brucia vediamo lo Stato, la mano forte dello Stato, ma quando il fuoco si sarà spento e si spegneranno i riflettori lo Stato dove sarà? A cosa servirà una marcia, l'ennesima marcia? Quella "gente" non ha paura delle marce! Quella gente ha bisogno della mano forte dello Stato, mille mani forti dello Stato. Solo lo Stato pulito potrà mettere fine a questa paura tutta foggiana".

Don Aniello Manganiello a Foggia, da prete antimafia a prete anti Libera: l'attacco a don Ciotti. Michele Gramazio su Foggiacittaaperta.it il 09/12/2019. Don Aniello Manganiello contro don Luigi Ciotti. Il prete, fondatore dell'associazione 'Ultimi' che gira l'Italia per presentare il suo libro 'Gesù è più forte della camorra', si è scagliato contro il fondatore di Libera, reo a suo dire di avere una posizione a favore della legalizzazione delle droghe leggere.

L'ATTACCO. L'accusa di don Aniello Manganiello è stata lanciata a Foggia, in occasione dell'incontro sul tema della legalità 'Non voltiamo le spalle' che si è tenuto presso il teatro Giordano. Il prete, che dal 1994 al 2010 è stato parroco a Scampia, nel corso di un intervento ha affermato di “ritenere sbagliata l'opinione di don Luigi Ciotti favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere” e che tale posizione “deve essere condannata perchè sottovaluta i potenziali pericoli”. Pochi minuti in cui, però, l'invettiva, anche se pacata, è sembrata diretta e senza mezze misure.

LA REPLICA. Come mai questa entrata a gamba tesa? Difficile comprenderlo. Un “fuoco amico” che ha lasciato sorpresi anche i componenti del presidio di Libera Foggia che, in un post su Facebook hanno manifestato tutta la loro incredulità. Facendo chiaro riferimento a don Aniello Manganiello, pur non nominandolo espressamente, si dolgono del fatto che abbia pensato “di utilizzare del tempo per parlare di don Luigi Ciotti, non per raccontare quanto Libera e lo stesso don Luigi costruiscono qui da vent'anni, della grande manifestazione del 21 marzo 2018, di noi tutti che nelle nostre piccole vite abbiamo trovato la forza di esserci, ma per dirsi pubblicamente in disaccordo con don Luigi perché quest'ultimo sarebbe favorevole alla liberalizzazione delle droghe leggere”.

LE PERPLESSITA'. Alla manifestazione, promossa dal Comune di Foggia con la partecipazione dei massimi esponenti delle istituzioni della cosiddetta 'squadra Stato', era presente anche Libera. Al momento, come spiegano nella nota i componenti del presidio non hanno voluto “sprecare l'occasione di confronto con tante realtà ed istituzioni che si stava vivendo per una polemica sterile e inopportuna”. A mente fredda, tuttavia, ritengono importante non lasciar correre: “Ci sembra fondamentale esprimere perplessità su questo modo di fare, in quanto noi tutti, prima di parlare dell'opinione altrui, proviamo sempre ad informarci per non sbagliare, a cercare il dialogo per costruire, rispettando chiunque doni tempo ed energia per rendere migliore questo territorio”.

SUL TEMA DELLE DROGHE. Il presidio di Libera Foggia, quindi, entra nel merito delle accuse: “Sul tema delle droghe, per don Ciotti parlano la sua grande esperienza ed il suo impegno cinquantennale nel Gruppo Abele. Chiariamo: don Luigi non si è mai dichiarato favorevole alla liberalizzazione delle droghe leggere, ha accettato di confrontarsi su una questione delicatissima, che tocca la vita di tante persone e che non può essere utilizzata come spot o slogan. Crediamo che questa terra meriti attenzione e riflessione, fatti concreti ma adeguati alle specifiche del territorio. Il lavoro da fare è tanto e bisogna darsi, di nuovo, un bello scossone, tutti insieme, concentrando le forze sull'unico obiettivo: contrastare criminalità e disuguaglianze”.

UN PRETE DI DESTRA. Insomma, Don Aniello Manganiello non ha 'voltato le spalle' ma avrebbe sbagliato bersaglio mirando a dividere chi invece dovrebbe avere il comune obiettivo di combattere la mafia. Quali i motivi? L'ex parroco di Scampia non è nuovo a esternazioni che hanno fatto discutere. In diverse occasioni è stato definito un prete di destra per le sue convinzioni spesso allineate a quelle dei partiti di quello schieramento. Negli ultimi tempi, per esempio, è stato spesso chiamato in causa per la sua posizione ostile nei confronti dei migranti. A settembre in un suo post su facebook si rivolse al segretario del Pd, Nicola Zingaretti che chiedeva un cambio di rotta nella politica di integrazione: “Cosa intenderà?" scrisse. "Ci dovremo prendere tutta l’Africa perché è questo che ci chiede l’Europa? Non so se Zingaretti si è mai recato a Castelvolturno, a Borgo Mezzanone, nel Foggiano, alle centinaia di supermercati dove i migranti chiedono l’elemosina, oppure nei casolari di campagna abbandonati, nelle stazioni ferroviarie, soprattutto le stazioni secondarie, nelle piazze di spaccio oppure nei luoghi di prostituzione. A questa gente la coscienza rimorde quando i migranti sono sui gommoni o sulle navi delle ONG….poi quando sono a terra la coscienza pensa ad altro. Io ho sempre espresso il mio parere: non condivido questo tipo di immigrazione…..perché è una immigrazione che fa male a loro che vengono e a noi italiani. È un danno per entrambi”.

L'INCARICO. In occasione dell'incontro foggiano, ancora una volta don Aniello Manganiello, ha voluto sollevare un tema, quello della legalizzazione delle droghe leggere, prettamente 'politico', di quelli che notoriamente dividono. Nel farlo ha voluto prendere le distanze da don Luigi Ciotti che dovrebbe essere suo alleato nel combattere la criminalità organizzata e, invece, proprio la lotta alla mafia si spacca. Mentre Libera presenterà sabato 14 dicembre il presidio di Mattinata, l'associazione Ultimi, due giorni prima, giovedì 12 dicembre, a Manfredonia presenterà il gruppo operativo sul Gargano. Come si chiamerà? Presidio. Michele Gramazio

Corteo contro la mafia, la polemica di Tutolo: "Ci sarò ma non serve a nulla perchè lo Stato è vigliacco". Lo sfogo rabbioso del sindaco di Lucera. Foggiacittaaperta.it il 07/01/2020. "Il 10 gennaio parteciperò in qualità di Sindaco a questa ennesima marcia contro la Mafia. Ne Parlerà la Stampa per l'ennesima volta e per l'ennesima volta dopo qualche giorno tutto verrà dimenticato e non cambierà un cazzo. E la mafia avrà vinto ancora una volta non perché è più forte ma forse perché il suo avversario, lo Stato, nella migliore delle ipotesi è vigliacco. Sono 40 anni che si fanno marce contro la mafia e 40 anni che il legislatore vigliacco prende per il culo la nazione. La verità è che non c'è la volontà politica di affrontare il problema". Comincia così lo sfogo sui social del sindaco di Lucera, Antonio Tutolo, che venerdì parteciperà alla mobilitazione promossa da Libera, ma con perplessità sulla reale utilità della manifestazione.

TRA ESERCITI E PAURA. "A Foggia - prosegue Tutolo - abbiamo di stanza l'esercito e lo si potrebbe impegnare per un controllo serio e continuo del territorio ma si preferisce tenerlo in caserma a fare costose e inutili esercitazioni in attesa di una guerra che non ci sarà mai. Abbiamo una Legislazione che è sbilanciata in maniera vergognosa a favore dei delinquenti e si fa finta di non vederlo. Un parlamento cieco, sordo e complice. Il paradosso è che chi ha il compito istituzionale di intervenire a difesa della popolazione accusa quest'ultima di omertà. Fanno finta di non sapere che non è omertà ma paura. Solo loro non capiscono che il cittadino non denuncia perché è certo di vedersi il proprio aguzzino sotto casa il giorno dopo perché ci sono leggi di merda. Solo loro non capiscono che uno sviluppo questa terra senza aver debellato la mafia non lo avrà mai. Perché un imprenditore sano di mente deve venire a investire qui sapendo che si troverà in casa il proprio taglieggiatore ? Su forza, ce lo dite perché? E senza Sviluppo la Mafia ingrosserà sempre di più il suo esercito".

"BISOGNA ANDARE A ROMA". Poi, l'ulteriore affondo. "Ma veramente vi meravigliate se la gente vi schifa?.... Vi schifa perché ha capito che le uniche opportunità di sviluppo questa terra le ha solo nelle campagne elettorali. Sappiatelo, Vi schifo anche io. Ci avete lasciato da soli in trincea. Avete abbandonato i territori. Vi siete rinchiusi nei palazzi e giocate a chi affossa di più questa nazione facendo finta di non vedere cosa c'è fuori. E allora io dal profondo del mio cuore vi dico: andate a fare in culo! P. S. Partecipo alla marcia perché è più facile partecipare che spiegare perché non partecipi ma non perché credo possa servire a qualcosa..... A meno che - conclude Tutolo - non si decide di andare a Roma a costringere chi ha il potere ad usarlo per difendere la brava gente contro i delinquenti e non viceversa".

·         Non è Mafia…

Voto di scambio, la Cassazione annulla la condanna di Raffaele Lombardo. L'ex presidente della Regione era stato condannato a un anno di reclusione insieme al figlio Toti per un reato elettorale. La Repubblica il 17 dicembre 2020. La Cassazione ha annullato, senza rinvio, perché il fatto non sussiste la condanna a un anno di reclusione ciascuno per reato elettorale nei confronti dell'ex presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo e e di suo figlio Toti emessa, il 10 luglio del 2019, dalla Corte d'appello di Catania. Con la stessa formula erano stati assolti in primo grado dal Tribunale monocratico, presieduto da Laura Benanti. Secondo l'accusa, i Lombardo avrebbero promesso due posti di lavoro in cambio di voti in favore di Toti eletto con 9.633 preferenze nella lista del Mpa alle Regionale dell'ottobre del 2012. A dare il via all'inchiesta erano state dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. La sentenza è definitiva. "Sono senza parole, l'emozione è tanta, anche perché in questa vicenda era coinvolto mio figlio Toti. Sono felice. Questa sentenza mi ripaga di tante amarezze". Così all'Adnkronos l'ex governatore Raffaele Lombardo, dopo la sentenza della Cassazione che ha annullato senza rinvio la condanna della Corte d'Appello di Catania per lui e il figlio Toti.

Raffaele Lombardo assolto: «Colleziono accuse da anni, altri sarebbero crollati». Errico Novi su Il Dubbio il 19 dicembre 2020.

Parla Raffaele Lombardo, l’ex presidente della Regione Sicilia, dopo l’annullamento della condanna per voto di scambio. «Ah sì, allora: una mezza dozzina di procedimenti minori si è spenta per lo più senza arrivare neppure davanti al gup. Al processo di Palermo per inquinamento dell’aria, dopo l’assoluzione in primo grado, neanche la Procura ha fatto appello. L’accusa di disastro ambientale a Enna si è prescritta a indagini in corso, un’altra spolverata di assoluzioni e archiviazioni per abuso d’ufficio…». Raffaele Lombardo è straordinario già per come lo dice. Parla dei suoi dieci anni da ex governatore più amato d’Italia («più del Formigoni dei tempi d’oro» ) passato come un filetto nel tritacarne del macellaio e non si scompone mai. Quasi sorride. E non è una serenità dettata solo dall’ultima assoluzione, pronunciata due giorni fa dalla Suprema corte in un altro “giudizio minore”, ma andato avanti per una mezza dozzina d’anni: lo avevano accusato di voto di scambio insieme con il figlio, Toti. «Assolti in primo grado, condannati a un anno in appello, eppure in primo grado era finita con un bel “il fatto non sussiste”, una giudice donna, una splendida sentenza: la Cassazione, nell’annullare senza rinvio, si è riportata alla pronuncia del Tribunale». Su tutto poi c’è il processo- madre, manco a parlarne: «Sì quello nato dall’inchiesta Iblis, entro febbraio l’appello bis dovrebbe chiudersi».

Sì presidente, 10 anni dopo, un avviso di garanzia dato sui giornali, capi d’accusa declamati dal Tg1.

«Vedo che sa tutto, complimenti».

Ci si documenta, ma viene un gran mal di testa.

«La capisco, si figuri il mio stress. Ero il secondo presidente di Regione più amato d’Italia nel 2008, dopo Formigoni, lo superai nel 2009, con l’avviso di garanzia notificatomi da Repubblica il 29 marzo 2010 scesi appena alla quinta posizione».

Appunto, poi dieci anni di uragano giudiziario.

«Ancora in corso, e le posso dire che altri al mio posto sarebbero crollati, con una simile valanga di accuse, tutte finora svanite ben prima del processo, o cadute nel nulla, come l’ultima, o tormentate da incredibili contraddizioni come il concorso esterno, il processo principale. Ecco, altri, scaraventati dalla popolarità a un simile bombardamento, avrebbero sballato. Prima di iniziare la carriera politica, da consigliere comunale già negli anni 80 a Catania, da laureato in Medicina mi ero specializzato in Psichiatria forense. Delle relazioni fra stress e alcune gravi patologie so tutto».

Lei come Bassolino, De Girolamo…

«Come Mannino, mio caro amico. Ci siamo visti pochi giorni fa a un funerale, ci siamo salutati con grande affetto. Lui si è fatto 25- 30 anni nei palazzi di giustizia».

Ma a furia di politici assolti dopo lustri, la fiducia nei magistrati non crollerà?

«Mi perdoni se aggiro la domanda. Io ho ancora un paio di centinaia di persone che a ogni festività mi mandano messaggi di auguri. Rispondo sempre a tutti, ma stavolta sarò in difficoltà, perché subito dopo la notizia dell’assoluzione per me e mio figlio Toti, ai tradizionali 200 se n’è aggiunto almeno il doppio. Persone che non si erano mai fatte sentire in questi anni. Si sono tutti rallegrati della sentenza in Cassazione».

Ma non c’entra con la fiducia nei giudici.

«C’entra con la paura. Secondo lei perché in questi dieci anni non s’erano mai sentiti? Temevano che inviarmi un messaggio potesse metterli nei guai. Una cosa da conigli: che rischio c’era? Tanti di loro se ne sono usciti col solito epitaffio “c’è un giudice a Berlino”. La citazione dotta… Avessero almeno scritto “c’è un giudice a Roma”, dove ha sede la Cassazione».

Da dov’era nato il processo con suo figlio?

«Un consigliere di quartiere a Catania, figlio di un mio vecchissimo amico, dopo la candidatura di mio figlio all’Assemblea regionale mi aveva chiesto l’assunzione del cognato. Io ero governatore dimissionario. Lui è un uomo del popolo, timoroso di disturbarmi quando mi chiamava, una via di mezzo fra lo smargiasso e il millantatore quando ne parlava con altri. “Se Lombardo non fa quello che gli ho chiesto vi faccio vedere io come finisce…”. La giudice in primo grado ci assolse. Poi mio figlio arrivò a fine mandato nel 2017: non volle comunque ricandidarsi, nonostante l’avessero molto apprezzato a Palazzo dei Normanni».

Ha pagato, comunque, suo figlio: ora vi hanno assolti, ma a lui è venuto il disgusto per la politica.

«Gli era venuto prima della condanna a un anno che ci siamo visti infliggere in appello. È avvocato in uno degli studi di diritto d’impresa più noti, con Abbadessa e Franchini. Di politica non vuol più saperne».

A breve finirà l’appello bis sul concorso esterno.

«Farò le mie dichiarazioni entro gennaio, poi le conclusioni. Siamo tornati in appello nonostante la Procura generale della Cassazione si fosse detta favorevole ad accogliere il ricorso presentato da me contro la condanna residua per voto di scambio aggravato, anziché quello dell’accusa sull’assoluzione dal concorso esterno. Ma proprio il paradosso dell’assoluzione dal reato più grave e la colpevolezza per l’altro reato è parsa, alla Suprema corte, abbastanza illogica da indurla a chiedere un nuovo giudizio».

È venuto il mal di testa solo a seguirla, presidente.

«E s’immagini a me».

Ok della Cedu al ricorso di un “fratello minore” di Bruno Contrada. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 ottobre 2020. La Corte Europea ha ritenuto ricevibile il ricorso presentato dall’ex senatore della Dc Vincenzo Inzerillo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1994. In Italia esiste una disparità di trattamento, tra il soggetto che ha fatto ricorso alla Corte europea di Strasburgo (Cedu) e chi alla Corte nazionale. Questa situazione, ora, viene ulteriormente cristallizzata con il ricorso ritenuto ammissibile dalla Corte Europea presentato dall’ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, assistito dall’avvocato Stefano Giordano. Ma andiamo con ordine. Fino al ’94 non esisteva il concorso esterno in associazione mafiosa, quindi non può esserci una condanna se l’accusa risale a fatti antecedenti di quell’anno. Un principio che la Cedu ha riconosciuto a l’ex 007 Bruno Contrada. Teoricamente, ciò deve valere per tutti coloro che sono stati condannati per i fatti antecedenti, appunto, al 1994. Parliamo dei cosiddetti “fratelli minori” di Contrada che però, puntualmente, la Cassazione non riconosce. Eppure la Corte Europea, il 14 aprile del 2015, aveva stabilito che la sentenza è legittima solo per fatti commessi dopo il 1994. Lo ha stabilito certamente per Contrada, ma ha identificato un deficit sistemico nell’ordinamento: fino a quel momento il reato non era infatti, per la Corte, configurato in modo sufficientemente chiaro. Un principio che riguarda proprio quella “certezza della pena” che oggi però viene citata confondendolo con altro. La pena è certa quando il cittadino che tiene una certa condotta sa se essa costituisce reato oppure no, e in caso positivo quali sono le sanzioni previste. Con le pronunce della Cassazione nei confronti dei “fratelli minori”, si è cercato di annullare le conseguenze che la pronuncia Contrada avrebbe avuto nel sistema ( di fatto, una sentenza “pilota”), perché si sarebbero dovute revocare tutte le sentenze di quelli che, pur non avendo fatto ricorso a Strasburgo, erano comunque nelle stesse condizioni di Contrada. Ma nulla da fare. Per questo sono fioccati numerosi ricorsi alla Cedu. Ma ora è arrivata la prima conferma. La Cedu ha ritenuto ricevibile il ricorso presentato dall’ex senatore dell’ex Dc Vincenzo Inzerillo, assistito dall’avvocato Stefano Giordano, lo stesso legale – ricordiamo – che ha fatto annullare la condanna a Contrada ed è riuscito ad ottenere anche un risarcimento di 667 mila euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione. Nel ricorso di Inzerillo – condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1994 -, si fa presente che ci sono state diverse violazioni degli articoli della Cedu. Come ad esempio l’articolo 46 e 32, perché – come scrive l’avvocato Giordano nel ricorso – «dall’inestensibilità degli effetti della sentenza Contrada deriva l’assenza di un rimedio interno idoneo a far valere la violazione convenzionale patita e ottenere l’eliminazione delle relative conseguenze». C’è anche la lesione dell’articolo 7 Cedu «in relazione all’assenza di prevedibilità e accessibilità del precetto penale che ha condotto alla sua condanna, al fine di conseguire l’eliminazione di quest’ultima». Ma non solo. Altro aspetto degno di nota del ricorso è che si fa un riferimento alla presunta mancata imparzialità di due magistrati membri del collegio delle sezioni unite della Cassazione che ha dichiarato infondato il ricorso di Inzerillo. Perché? Si legge sempre nel ricorso alla Cedu che un magistrato era stato membro del collegio che emise ( in sede di rinvio) la sentenza di condanna a carico di Contrada, l’altro avrebbe invece scritto un libro di diritto penale dove in un capitolo ha criticato la sentenza Cedu “contrada c. Italia”. Quindi, secondo l’avvocato Giordano, ci sarebbe stata la violazione dell’articolo 6 della convenzione, perché privi del requisito di imparzialità. In effetti si fa riferimento a diverse sentenze Cedu dove si evince che «l’imparzialità viene infatti esclusa se il giudice sia portatore di un pregiudizio personale, manifestato anche attraverso dichiarazioni rese fuori dal processo». Il ricorso è ammissibile, ora si attende la sentenza.

Da corriere.it il 30 settembre 2020. La Corte d’Appello di Napoli ha assolto «per non aver commesso il fatto» l’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, nel processo cosiddetto «Il principe e la scheda ballerina», in cui l’ex coordinatore campano di Forza Italia era accusato del reato di tentato impiego di capitali illeciti con l’aggravante mafiosa, in relazione alla costruzione a Casal di Principe (Caserta) di un centro commerciale voluto dal clan dei Casalesi, ma mai edificato. In primo grado Cosentino era stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere; oggi il procuratore generale aveva chiesto per Cosentino la conferma della condanna. È la seconda assoluzione per l’ex uomo forte di Forza Italia, dopo quella ricevuta nel processo sull’azienda di carburanti di famiglia. I legali di Cosentino, Stefano Montone e Agostino De Caro, hanno commentato: «Abbiamo sempre avuto fiducia nella magistratura, e questa fiducia viene ripagata con questa ulteriore assoluzione per Nicola Cosentino. Sapevamo che la mole di elementi a discolpa di Cosentino emersi durante il processo, avrebbero trovato una corte attenta».

Camorra, Cosentino assolto in appello. L'ex sottosegretario: "Nove anni di inferno". "Nessuno potrà cancellare la mia sofferenza e quella dei miei familiari". La Repubblica il 29 settembre 2020. I giudici della corte di Appello di Napoli hanno assolto l'ex sottosegretario all'Economia del governo Berlusconi Nicola Cosentino, nove anni dopo l'avvio dell'inchiesta della Dda di Napoli su camorra e colletti bianchi che aveva al centro la costruzione di un centro commerciale a Casal di Principe e brogli elettorali per le comunali. L'inchiesta del 2011 aveva portato all'arresto di oltre 50 persone e alla condanna in primo grado di una ventina di soggetti tra cui Cosentino, tutti assolti in secondo grado. All'esponente di Forza Italia erano stati inflitti 5 anni e mezzo di reclusione in relazione al finanziamento da 5 mln di euro per la costruzione - mai avvenuta - del centro commerciale "Il Principe", che, secondo l'accusa, sarebbe stato voluto dal clan dei Casalesi. "Siamo assolutamente soddisfatti, quando ci sono sentenze che leggono in maniera adeguata le prove non resta che ribadire la fiducia nella macchina giudiziaria". Così Stefano Montone, avvocato di Nicola Cosentino, commenta la sentenza. Cosentino era stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione per reimpiego di capitali illeciti aggravato dall'utilizzo del metodo mafioso, mentre era stato assolto dall'accusa di corruzione. La Procura generale aveva chiesto la conferma della condanna. Cosentino ha seguito l'ultima udienza in aula: alla lettura della sentenza, racconta Montone all'Adnkronos, "ci siamo abbracciati. Ora deve metabolizzare il tutto, non dimentichiamo che per questo processo ha scontato 3 anni di carcere". Sui 9 anni trascorsi dall'apertura dell'inchiesta alla sentenza d'appello, Montone, ricordando che "ci si è messo anche il Covid", commenta: "E' storia nota, oggi si parla di Cosentino ex sottosegretario, ma io difendo tanti 'illustri sconosciuti' le cui vicende giudiziarie durano altrettanto, se non di più. C'è qualcosa che non funziona nella macchina, ma io continuo a credere nel sistema, nella macchina giudiziaria e, quando ci sono sentenze che leggono le prove in maniera adeguata, non resta che ribadire la fiducia". "Nove anni di inferno, ma finalmente la mia sofferenza è finita", ha detto in serata Cosentino all'agenzia di stampa Adnkronos. E ha aggiunto: "Sono felice dell'assoluzione, ma nessuno potrà cancellare la mia sofferenza e quella dei miei familiari".

CBas per “il Giornale” il 30 settembre 2020. Assolto in secondo grado Nicola Cosentino. I giudici della corte d' Appello di Napoli hanno cancellato la condanna all' ex sottosegretario all' Economia del governo Berlusconi, nove anni dopo l' avvio dell' inchiesta della Dda su camorra e colletti bianchi che aveva al centro la costruzione di un centro commerciale a Casal di Principe e presunti brogli elettorali per le Comunali. L' inchiesta del 2011 aveva portato all' arresto di oltre 50 persone e alla condanna in primo grado di una ventina, tra cui Cosentino. Sono stati tutti assolti in secondo grado. All' esponente di Forza Italia erano stati inflitti cinque anni di reclusione in relazione al finanziamento da 5 milioni di euro per la costruzione, mai avvenuta, del centro commerciale «Il Principe», che secondo l' accusa era voluto dal clan dei Casalesi. «Dopo nove anni di inferno, finalmente è finita - dichiara Cosentino all' Adnkronos -. Sono felice dell' assoluzione, ma nessuno potrà cancellare la mia sofferenza e quella dei miei familiari». L' accusa a suo carico era di tentativo di reimpiego di capitali illeciti con l' aggravante mafiosa. Così l' avvocato Stefano Montone: «Siamo assolutamente soddisfatti, quando ci sono sentenze che leggono in maniera adeguata le prove non resta che ribadire la fiducia nella macchina giudiziaria». Cosentino ieri era in aula. Alla lettura della sentenza, racconta il legale, «ci siamo abbracciati. Ora deve metabolizzare il tutto, non dimentichiamo che per questo processo ha scontato tre anni di carcere». A proposito dei nove anni trascorsi dall' apertura dell' inchiesta Montone, ricordando che «ci si è messo anche il Covid», commenta: «È storia nota. Oggi si parla di Cosentino ex sottosegretario, ma io difendo tanti illustri sconosciuti le cui vicende giudiziarie durano altrettanto, se non di più. C' è qualcosa che non funziona nella macchina, ma io continuo a credere nel sistema». Interviene la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: «Dopo nove anni di calvario giudiziario, l' ex sottosegretario di Forza Italia Nicola Cosentino è stato assolto in Appello da tutte le accuse di collusione con la camorra. È uno dei casi più sconvolgenti di uso politico della giustizia, che conferma quanto sia urgente una profonda riforma che scongiuri il massacro preventivo di imputati che poi risultano innocenti. A Nicola l'abbraccio mio personale e di tutto il gruppo azzurro del Senato: l' incubo è finito». E la capogruppo di Fi alla Camera Mariastella Gelmini: «L' assoluzione di Nicola Cosentino, la cui colpa principale a quanto pare è stata di essere un dirigente e parlamentare di Forza Italia, è un emblematico esempio di malfunzionamento della giustizia, di uso improprio della custodia cautelare e di creazione di veri e propri processi politici. La vita di un uomo, la sua carriera politica, i suoi affetti sono stati devastati dall' accusa di collusione con la camorra e dall' applicazione di una carcerazione preventiva per reati infamanti che non esistevano. Verrebbe da gioire, per Cosentino, per la sua famiglia, per la storia di Forza Italia e per il fatto che, giustamente, la Camera all' epoca respinse la richiesta d' arresto per l' evidente fumus persecutionis di quella inchiesta. Dopo nove anni però è difficile perfino gioire, nella consapevolezza che niente e nessuno potrà risarcire Nicola Cosentino e i suoi affetti».

Camorra: assolto Cosentino “I miei nove anni all’inferno”. Il Corriere del Giorno il 30 Settembre 2020. Assolto per non aver commesso il fatto. La sentenza della Corte d’assise d’appello di Napoli ha scagionato dalle precedenti accuse Nicola Cosentino, del processo che era stato battezzato con il pittoresco titolo: “Il principe e la scheda ballerina”. “Dopo nove anni di inferno, finalmente è finita” ha commentato Nicola Cosentino, ex coordinatore di Forza Italia per la Campania ed ex sottosegretario all’Economia . “Sono felice dell’assoluzione, ma nessuno potrà cancellare la mia sofferenza e quella dei miei familiari”.  Assolto per non aver commesso il fatto. La sentenza della Corte d’assise d’appello di Napoli ha scagionato dalle precedenti accuse Nicola Cosentino, del processo che era stato battezzato con il pittoresco titolo: “Il principe e la scheda ballerina“. L’inchiesta del 2011 aveva portato all’arresto di oltre 50 persone e alla condanna in primo grado di una ventina di soggetti tra cui Cosentino, tutti assolti in secondo grado. Accuse degli inquirenti che lo imputavano del reato di tentato impiego di capitali illeciti con l’aggravante mafiosa, ovvero l’uso dei soldi della camorra per la costruzione a Casal di Principe di un centro commerciale voluto dal clan dei Casalesi, ma mai edificato. Nicola Cosentino era stato condannato nel processo di primo grado dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere a cinque anni e mezzo di carcere. In appello il procuratore generale aveva chiesto la conferma della condanna per Cosentino: invece alla fine è arrivata l’assoluzione. Ed è questa la seconda sentenza di assoluzione incassata dell’ex uomo forte di Forza Italia in Campania, dopo quella ricevuta nel processo sull’azienda di carburanti di famiglia. “Siamo assolutamente soddisfatti, quando ci sono sentenze che leggono in maniera adeguata le prove non resta che ribadire la fiducia nella macchina giudiziaria”. Così Stefano Montone, avvocato di Cosentino, ha commentato la sentenza. L’ex sottosegretario ha seguito l’ultima udienza in aula: alla lettura della sentenza, racconta Montone “ci siamo abbracciati. Ora deve metabolizzare il tutto, non dimentichiamo che per questo processo ha scontato 3 anni di carcere“. Resta però ancora aperto quello per concorso esterno in associazione camorristica. È il processo “Eco4“, relativo alla gestione di uno dei quattro consorzi rifiuti del Casertano, che la Direzione distrettuale antimafia ritiene di natura “politico-mafiosa”, in cui Cosentino è stato condannato in primo grado a nove anni di carcere. Il processo riprenderà il 28 ottobre ed i giudici dovranno preliminarmente decidere se sciogliere la riserva sull’esame di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Nicola Schiavone, figlio di “Sandokan” Francesco Schiavone il “capoclan” dei Casalesi. Nei confronti dell’esponente di Forza Italia pesano altre due condanne definitive: la prima a 4 anni di detenzione per la corruzione di un agente del carcere di Secondigliano (Napoli) , un’altra a 10 mesi per diffamazione e violenza privata nei confronti dell’ex governatore della Campania Stefano Caldoro. Sui 9 anni trascorsi dall’apertura dell’inchiesta alla sentenza d’appello, l” avv. Montone, ricordando che “ci si è messo anche il Covid“, commenta: “E’ storia nota, oggi si parla di Cosentino ex sottosegretario, ma io difendo tanti ‘illustri sconosciuti’ le cui vicende giudiziarie durano altrettanto, se non di più. C’è qualcosa che non funziona nella macchina, ma io continuo a credere nel sistema, nella macchina giudiziaria e, quando ci sono sentenze che leggono le prove in maniera adeguata, non resta che ribadire la fiducia”.

In primo grado condannato a 5 anni. Nicola Cosentino assolto nove anni dopo "Il principe e la scheda ballerina": ribaltata la sentenza di primo grado. Redazione su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Clamoroso ribaltone nel processo di Appello per Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi indagato dalla DDA di Napoli nell’ambito dell’inchiesta “Il principe e la (scheda) ballerina”. L’ex dominus di Forza Italia in Campania, condannato in primo grado a 5 anni e mezzo di reclusione per il reato di tentativo di reimpiego di capitali illeciti con l’aggravante mafiosa, è stato infatti assolto dai giudici della corte di Appello di Napoli. La vicenda riguarda la costruzione, mai avvenuta, del centro commerciale Il Principe a Casal di Principe, che secondo l’accusa sarebbe stato voluto dal clan dei Casalesi per inquinare il voto alle amministrative del 2008 e del 2010. Un’indagine sfociata in oltre 50 ordinanze di custodia cautelare e venti condanne in primo grado emesse dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere, tra cui quella dell’ex sottosegretario. Per Cosentino, più volte coinvolto in inchieste su camorra e politica, è la seconda vittoria giudiziaria: era già stato assolto in Cassazione dall’accusa di tentata estorsione e concussione, con l’aggravante mafiosa, nel processo relativo alla società di carburanti di famiglia, l’Aversana Petroli. “Siamo assolutamente soddisfatti, quando ci sono sentenze che leggono in maniera adeguata le prove non resta che ribadire la fiducia nella macchina giudiziaria”, spiega all’AdnKronos Stefano Montone, avvocato di Cosentino. L’ex sottosegretario ha seguito l’ultima udienza in aula: alla lettura della sentenza, racconta Montone all’Adnkronos, “ci siamo abbracciati. Ora deve metabolizzare il tutto, non dimentichiamo che per questo processo ha scontato 3 anni di carcere”.

"Assolto e ora tacciono. Quei silenzi vergognosi sul caso di Cosentino". Il direttore del Riformista: "Indecenti quei giornalisti che danno sempre ragione ai Pm". Stefano Zurlo, Giovedì 01/10/2020 su Il Giornale. È scatenato: «Sul Riformista domani attacco la nostra categoria». Piero Sansonetti, direttore del rinato Riformista, usa parole taglienti, anche se foderate con la consueta ironia: «Questa storia di Nicola Cosentino è una vergogna. L'hanno assolto per la seconda volta e i quotidiani tacciono o dedicano alla notizia, con le lodevoli eccezioni del Giornale, di Avvenire, del Foglio, poche righe. È terribile: siamo diventati una corporazione di giustizieri».

Un attimo, Cosentino è ancora sotto accusa.

«Certo. Ha sulle spalle una condanna in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica, l'appello comincerà in ottobre, ma va detto che la pena si basava sui due procedimenti precedenti».

Quelli finiti con l'assoluzione?

«Sì, io non conosco i pm che hanno condotto le indagini, mi limito a osservare i fatti. Si trattava di storie di corruzione legate alla mafia».

Ai Casalesi, clan sanguinario di Casal di Principe.

«Appunto. Cosentino è di Casal di Principe, terra ad alta criminalità, quindi nessuno poteva avere dubbi sulla sua colpevolezza».

Un pregiudizio?

«Da parte della stampa mi pare evidente. Nessuno ha mai scritto, anche solo come ipotesi remota, che non fosse un personaggio collegato ai boss. Poi, però, l'hanno assolto due volte su due e, a mio parere, si prepara anche la terza assoluzione. Ti pare poco?»

Qualcosa non funziona nella giustizia italiana?

«Lui era deputato, era il capo di Forza Italia in Campania, era sottosegretario all'Economia nel governo Berlusconi. Oggi non è più niente, è stato trattato come un appestato per dieci anni e più, la politica, tutta gli ha voltato le spalle come fosse un lebbroso, la magistratura gli ha portato via il patrimonio di famiglia e ha inquisito i suoi fratelli, pure assolti».

Il Parlamento disse no alla prima richiesta di manette.

«Si, ma poi Cosentino è stato arrestato, si è fatto più di tre anni di carcere, tanti e alla luce delle sentenze, ingiusti. Anzi, c'è di più. C'è un altro procedimento, quasi surreale, nato in carcere, dove era detenuto per reati che non aveva commesso. È la storia delle zeppole, quasi incredibile».

No, non sono zeppole ma miele, medicine e vestiti.

«Insomma, in galera a Secondigliano, avrebbe corrotto un agente».

La moglie, per la precisione.

«Il marito o la moglie, non so, per avere le zeppole o il miele o quello che era in cella».

In cambio avrebbe garantito alla signora due ore settimanali di lavoro in una cooperativa che aiuta i portatori di handicap.

«Per me è una vicenda che si commenta da sola ma che si è conclusa con un'altra grandinata di anni di carcere».

Nel 2013 Cosentino scappò per qualche ora con le liste dei candidati. Ora tornerà in politica?

«Ma no, quella stagione per lui è finita. E poi deve passare altro tempo a difendersi. Intanto, il Fatto quotidiano che in questi anni gli ha dedicato 542 articoli e citazioni, tutti colpevolisti e scuri come la pece, ha raccontato l'assoluzione con 542 battute. O giù di lì».

Tu sei un garantista da sempre. Questa vicenda rappresenta un'eccezione?

«Mi pare che si vada di male in peggio».

Non stai esagerando?

«No, ai tempi di Mani pulite la detenzione era in media brevissima. Oggi, complice lo Spazzacorrotti, vedo politici languire a lungo in carcere. È una deriva che non mi piace per niente. E poi l'opinione pubblica è distratta, i giornali danno sempre ragione alle procure. E quando si scopre che quel tale era innocente, la riabilitazione ha il perimetro di un trafiletto».

Come per Cosentino?

«Esatto. Non c'è alcuna riabilitazione. Dalla gogna si passa all'indifferenza. Io non pretendo le scuse, ci mancherebbe, ma un minimo di decenza dopo le innumerevoli lenzuolate sul mostro di Casal di Principe. E allora punto il dito contro i miei colleghi».

Assolto l'ex sottosegretario. Dopo 9 anni di massacro Cosentino è assolto: Travaglio e co. gli chiederanno scusa? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Nicola Cosentino è stato assolto in secondo grado nel processo fantasiosamente denominato “Il principe e la scheda ballerina”. Le Procure spesso ricorrono a immagini molto cinematografiche per dare un titolo alle loro inchieste. A loro piace così: immaginare il processo come un film di avventura, leggero, divertente, dove, se tutto va bene, vincono i buoni, cioè i Pm, e pèrdono gli imputati. Stavolta invece ha vinto Cosentino. Ex deputato di Forza Italia, ex dirigente politico in Campania, ex sottosegretario. Era stato condannato in primo grado a cinque anni e mezzo, era stato massacrato sui giornali e le Tv, indicato come camorrista oltre ogni ragionevole dubbio, incarcerato per circa quattro anni, rovinato politicamente, gli erano stati sequestrati tutti i beni di famiglia, era stato ridotto in povertà, contro di lui i partiti democratici di centrosinistra avevano votato mozioni a ripetizione, i giornali pubblicato titoloni, le tv e gli opinionisti pontificato tra gli applausi della plebe. I giudici dell’appello gli hanno detto però che è innocente: non ha corrotto, non ha concusso, e tantomeno ha fatto ciò in “modalità mafiosa”, come aveva sostenuto la Procura e come avevano confermato – come succede quasi sempre – i giudici di primo grado. Cosentino è una brava persona. Volete sapere cosa diceva di lui, per esempio – ne scelgo uno a caso – Marco Travaglio nel 2014, e cioè quando la persecuzione giudiziaria contro di lui culminava col primo arresto? Leggete qui.  «Fino a pochi anni fa Cosentino è stato sottosegretario all’Economia, con delega al Cipe. Mangiava i soldi dei contribuenti al fianco di Tremonti, nonostante si sapesse da tempo che era legato a clan camorristici. Bastava passare da Napoli per sapere chi era Cosentino e su cosa aveva basato la sua carriera politica. Adesso non è più parlamentare, quindi le intercettazioni possono coinvolgere direttamente e si scoprono più cose. La libera stampa su queste cose era arrivata da tempo, ma tutti aspettano sempre che intervengano i giudici… Non si può pensare che questa gente cambi, andrebbe tenuta lontana dalle istituzioni…». Le cose stanno esattamente così. Travaglio non è una mosca rara, è il leader del giornalismo giudiziario in Italia, è un’icona, è un mito anche per i giovani professionisti. E la sua idea è questa. Per condannare una persona basta passare da Napoli. Per dire che è camorrista non serve neppure il condizionale, l’indicativo va benissimo. E non serve un tribunale, basta il sospetto di un giornalista. Dopodiché si prende questa persona e la si bastona ben bene, la si esclude dalle istituzioni in attesa che un giudice, senza prove, lo sbatta in gattabuia. E poi lo si insulta, una volta che lo hanno catturato, lo si insulta quanto si vuole, tanto è in prigione, è al massimo della sua condizione di debolezza, non può reagire, può essere sopraffatto come si vuole. Sì, sì: bullismo, vigliaccheria. Rileggevo l’anno scorso la Colonna infame di Manzoni. Sono passati quattrocento anni da quei tempi? Da quei giudici? Non mi pare. Certo, per fortuna i sospettati non li squartano più materialmente. Ora lo fanno moralmente. Certo: è meglio. Però lo spirito è quello: Travaglio o suoi allievi giornalisti, oppure il tribunale della colonna infame, siamo lì. La storia di Cosentino è complicata da raccontare. Perché è molto lunga. Spesso è così: quando qualche Pm decide di metterti in mezzo, poi non finisce più. Cosentino ha subìto quattro processi brutti. Le prime accuse risalgono al 2011. In due processi, quelli nei quali gli si contestavano i reati, è stato assolto, dopo che in primo grado era stato condannato, in tutto, a una dozzina abbondante di anni di galera. Nel terzo processo è ancora in ballo. Condannato in primo grado ora va in appello. L’accusa è la famosa accusa che non c’è: «concorso esterno in associazione mafiosa». Concorso per far che? Niente. L’accusa si basava sul collegamento tra questo reato e quelli per i quali è stato ora assolto, e cioè i reati di avere corrotto e concusso, insieme alla camorra, per far quattrini e per ottenere voti. Ma ora è accertato che non ha corrotto, non ha concusso e non c’entra niente con la camorra. Resta l’accusa di concorso esterno, che assume un aspetto persino un po’ ridicolo in questa occasione. Sarà impossibile non assolverlo, ma magari servirà ancora qualche anno. Nicola Cosentino è in ballo da nove anni, avrà bisogno ancora di quattro o cinque anni per uscire dalla burocrazia kafkiana che lo sta travolgendo. Poi potrà provare a rifarsi una vita, ma sarà difficile, molto difficile. Il quarto processo del quale parliamo invece è giunto a condanna definitiva. Condanna pesante: tre anni (già scontati abbondantemente). Perché? È accusato di aver dato un po’ di euro a una guardia carceraria perché gli procurasse delle zeppole a carnevale. Sono quei dolci fritti con la crema e lo zucchero sopra. Lo so: non ci credete. E invece è esattamente così: tre anni per le zeppole. E il reato è stato consumato perché l’imputato era in prigione, cioè in un luogo dove non doveva essere e dove invece stava per colpa di alcuni magistrati pasticcioni e incapaci, i quali – statene certi – non dovranno rispondere a nessuno. Come non risponderanno i giornalisti che hanno linciato Cosentino e ora, vedrete, non troveranno neppure il coraggio e l’umiltà per chiedergli scusa. A voi tutto questo non sembra una vergogna? A me sì. Solo mi auguro che almeno il mondo politico riconosca i propri errori. Hanno linciato un innocente, hanno chiesto che si mettesse in cella il loro collega, lo hanno costretto alle dimissioni e a non presentarsi alle elezioni.  Troveranno la coerenza per dire: che cretini, che balordi che siamo stati! Quante sciocchezze si fanno per genuflettersi ai Pm!

Stampa o regime? La persecuzione di Travaglio contro Cosentino: negli anni gli ha dato del camorrista 532 volte. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Gratteri era stato molto chiaro, pochi giorni fa, nella sua intervista a Libero: «Smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo: se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi. Il migliore giudice di ciascuno di noi è la sua coscienza». Già. Chissà cosa ha pensato Nicola Cosentino, ex big di Forza Italia in Campania, ex parlamentare, ex sottosegretario, ex detenuto di lungo corso, quando ha letto queste parole di Gratteri. Prendiamo il suo caso. Pare che fosse a posto con la coscienza. Svariati tribunali hanno stabilito che non aveva commesso i crimini mafiosi dei quali era accusato e per i quali era stato già seppellito vivo dalla stampa. Quindi che ragione c’era di aver paura? Cosentino non aveva paura, era tranquillo, continuava a far politica e anche, credo, a occuparsi degli affari della sua famiglia. Poi un giorno vennero i carabinieri a casa sua e se lo portarono via. Ha scontato quasi quattro anni in prigione. Carriera politica finita. Danni economici enormi. Ho scritto “scontato”, ma non è la parola giusta, perché in genere si sconta una colpa: i giudici hanno detto che la colpa non c’era, hanno detto che i Pubblici ministeri, come qualche volta capita loro, si erano sbagliati. Ecco, magari questo si potrebbe fare osservare a Gratteri: un politico che sa di non avere fatto niente di male può stare – diciamo – abbastanza tranquillo, deve avere solo un filo filo di paura che qualche Pubblico Ministero prenda lucciole per lanterne…E che avrà pensato Nicola Cosentino, negli anni scorsi, quando gli avvocati gli portavano in galera i ritagli dei giornali, con i titoloni che lo davano per uomo della camorra, con gli articoli di Travaglio e quelli di Saviano e tutti gli altri appena un po’ più attenti, magari, ad usare il condizionale invece dell’indicativo. Sapete, noi giornalisti – quelli istruiti, dico – abbiamo un’arma invincibile: il condizionale. Scriviamo: “Nicola Cosentino sarebbe un camorrista e tutte le sue iniziative politiche avverrebbero su ordine delle cosche, e in cambio lui riceverebbe montagne di voti mafiosi”. Siamo a posto se scriviamo così. Perchè noi sottintendiamo che tutto questo è la tesi del procuratore – che noi ci guardiamo bene dal contestare, e magari evitiamo di riportare gli argomenti della difesa, o addirittura di cercare di capire come stanno davvero le cose – ma noi da questa tesi prendiamo le distanze perché usiamo il condizionale. Se poi il condizionale nel titolo non c’entra si fa saltare. Vabbé, ma non perchè siamo giustizialisti, solo perché il grafico del giornale ha disegnato un titolo troppo stretto. I grafici sono così. Non c’entra nel titolo la frase “Cosentino secondo i Pm sarebbe camorrista” e allora si levano quelle quattro paroline pleonastiche (“secondo i Pm sarebbe”) e si scrive solo, a caratteri un po’ grossetti: “COSENTINO CAMORRISTA”. E’ un’operazione che i greci – mi pare di ricordare dal liceo – chiamano “crasi”. Puro accorgimento linguistico, nessuna maliziosità. Quello che davvero – uscendo dallo scherzo – mi ha colpito ieri è la reazione che hanno avuto i giornali alla notizia dell’assoluzione di Cosentino. Io penso che se l’opinione pubblica, guidata dai media, per mesi e anni ha dato per accertata la mafiosità di un importante esponente politico, e poi si scopre che invece che era innocente, quella è la notizia del giorno. Nessun quotidiano nazionale (tranne Il Giornale e l’Avvenire e il Foglio) hanno dato la notizia in prima pagina (e anche il Giornale e l’Avvenire e il Foglio non hanno esagerato con la vistosità dei titolo), alcuni grandi giornali non hanno dato per niente la notizia, altri, come il Corriere, hanno pubblicato un trafiletto a pagina 17, mi pare. Il Fatto Quotidiano, che in questi anni ha citato Cosentino – come imputato e camorrista – 532 volte (le abbiamo contate, ma forse qualcuna ci è sfuggita) ieri ha dedicato alla notizia della sua assoluzione 500 lettere. Lettere, eh, non parole: come diciamo noi giornalisti 500 battute spazi inclusi. Circa 16 righe dattiloscritte, strette bene in una colonnina in pagina interna. Che cosa si può dire dinanzi a uno spettacolo così umiliante (umiliante per Travaglio e i suoi numerosi allievi, voglio dire)? Niente. Bisogna solo trovare il coraggio per non arrendersi. Per chiamarsi fuori dal coro dei giornalisti e rimanere aggrappati alla Costituzione e alla civiltà. Il giornalismo italiano è questo: possiamo se volete fare decine di bei festival del giornalismo a Perugia o dove volete voi, ma il giornalismo italiano è questa cosa qui: arroganza, arroganza, arroganza. E anche sottomissione, paradossalmente: ma non alla propria professione: ai Pm e ai partiti politici. Poi, se volete, un giorno parliamo anche dei partiti politici e della loro vigliaccheria. Se stampa e Pm scorrazzano indisturbati in tutt’Italia facendo danni ovunque e lasciando macerie, e sopraffacendo donne e uomini, la metà almeno delle colpe sono loro. Leggete l’intervista a Maurizio Turco. Vedete il cuordileonismo di quelli del Pd. Che poi sono i meno peggio…

Il retroscena. Quando i radicali si opposero all’arresto di Cosentino, Turco: “Era chiaramente persecuzione”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Maurizio Turco, attualmente Segretario del Partito Radicale Transnazionale e Transpartito, capitanava una pattuglia di deputati radicali quel 12 gennaio 2012 quando la Camera fu chiamata a decidere sull’arresto di Nicola Cosentino a seguito dell’inchiesta sfociata poi nel processo cosiddetto “Il Principe e la Scheda Ballerina”, in cui è stato assolto in appello.  Il voto fu segreto ma i sei di Pannella dichiararono espressamente il loro “no” all’arresto, pur essendo nelle fila del Partito Democratico che invece votò a favore. Se i radicali avessero seguito le direttive imposte dal partito che li ospitava Cosentino sarebbe finito a Poggioreale con 304 voti favorevoli e 303 contrari. «Era la seconda volta che venivamo chiamati a decidere sull’arresto di Nicola Cosentino – racconta Turco al Riformista – . Già nel 2009 dovemmo pronunciarci dopo che i pm avevano chiesto l’arresto per concorso esterno in associazione mafiosa. Anche in quella occasione noi radicali votammo contro. Ma la nostra opposizione all’arresto è stata ancora più forte nel 2012 perché i pm avevano scritto che Cosentino era il referente politico nazionale della camorra, dei Casalesi. Tuttavia il suo nome compariva solo nelle deduzioni dei magistrati, non in una sola intercettazione. Era evidente la sua estraneità alle contestazioni che gli venivano mosse, e la Corte di Appello di Napoli lo ha confermato assolvendolo per “non aver commesso il fatto”». Un altro aspetto che spinse i deputati radicali ad opporsi alle manette «è che già in precedenza vi erano stati i processi Spartacus 1 e Spartacus 2 contro la camorra in cui i casalesi erano stati condannati e in tutti quegli anni di processi il nome di Cosentino non era mai venuto fuori, nonostante le dichiarazioni di diversi pentiti». Però, ci dice Turco, «se nel primo procedimento avevo realizzato un dossier in cui sottolineavo molti dubbi sulla colpevolezza di Cosentino, nella inchiesta “Il Principe e la scheda Ballerina” ho letto cose sconce. Non esisteva il fumus, solo la persecutionis. Ma nonostante questo c’è un dato politico da sottolineare, ossia che si era creato intorno a Cosentino un clima ostile, anche da parte di persone a lui vicine, tanto è vero che Forza Italia non lo ricandidò nel 2013, lo lasciò nella mani della persecuzione. Per me l’origine dei guai giudiziari di Cosentino è innanzitutto una questione politica: a qualcuno non stava bene la sua ascesa in regione». Un altro dato politico è forse la spaccatura che si creò tra voi e i colleghi del Partito Democratico: «Già per la prima richiesta di arresto, quella relativa all’inchiesta sui rifiuti, si era delineata una spaccatura con loro. Boccia disse “tra noi e i radicali è finita”. Però voglio ricordare un altro episodio: quando fummo chiamati a decidere sulla prima richiesta di arresto, ci fu una assemblea dei parlamentari del Partito democratico: la riunione si concluse con la sintesi del capo gruppo Dario Franceschini che disse che al di là del merito non erano in grado di reggere la pressione mediatica a fronte di un possibile diniego all’arresto. Quando disse queste parole dal fondo della sala Arturo Parisi ad alta voce replicò “quando le convenienze fanno premio sulle convinzioni”». Tra gli accusatori di Cosentino c’era anche Roberto Saviano che scrisse un duro J’accuse contro di lui: «Noi con Marco Pannella invitammo Saviano a leggere le carte: una cosa è il modo di fare politica in quei territori e un’altra cosa è la camorra».

Cosentino come Dreyfus. Vincenzo D'Anna su cronachedi.it l'1 Ottobre 2020. “Sono qui perché le mie notti non siano affollate dai fantasmi della cattiva coscienza”. Cominciava così il mio intervento nell’Aula della Camera dei Deputati, il 12 gennaio del 2012, allorquando intervenni, in nome del gruppo parlamentare al quale appartenevo e nella veste di componente della Commissione per le Autorizzazioni a Procedere. Si decideva sulla richiesta dei pubblici ministeri di arrestare il deputato Nicola Cosentino, indagato nella vicenda denominata “Il Principe e la scheda Ballerina”. In sintesi: si accusava il parlamentare casertano di aver intercesso presso una Banca per la concessione di un mutuo necessario alla costruzione di un complesso commerciale in “odore” di camorra. L’intervento era consistito nella visita fatta presso il direttore di una filiale romana dell’istituto bancario in questione, durata circa 30 minuti, come risultava dal verbale della Digos. Enorme il tomo dell’accusa, composto da circa 800 pagine, pervenuto alla Commissione, appena qualche giorno prima. In quelle pagine venivano descritte, come in un romanzo sceneggiato, l’architettura criminale e le gesta malavitose dei clan dei Casalesi. Un affresco suggestivo, la trama di un film, ma a Cosentino, in quello stesso “romanzo criminale”, venivano dedicate appena una decina di pagine. In sintesi, l’ex Sottosegretario veniva identificato come il riferimento politico dei Casalesi. Affermazioni apodittiche, quelle fatte dai magistrati della Dda di Napoli, non suffragate da alcun riscontro probatorio, nessun riferimento a fatti concreti: solo le delazioni – confessioni interessate di pentiti – che, indirettamente e per sentito dire, riferivano sul presunto ruolo svolto dall’allora segretario regionale del Pdl. La Commissione parlamentare, come al solito, votò secondo le indicazioni politiche dei partiti, senza alcun riferimento alla fattispecie giudiziaria. Erano quegli gli anni nei quali prendeva vita la lunga stagione dell’anti-politica, la malmostosa, scandalistica azione mediatico giudiziaria che la sinistra mise in campo per debellare il “fenomeno berlusconiano”. Insomma: ci fu la corsa di taluni partiti a farsi paladini intransigenti della lotta alla malavita organizzata, innanzi ad un’opinione pubblica sobillata quotidianamente e che cominciava ad abboccare alle mistificazioni del moralismo e dei moralisti a senso unico. Una atteggiamento vergognoso che segnava l’inizio della resa della politica e del Parlamento allo strapotere di certi pm e dei loro abusi. Cosentino aveva tutti i requisiti per costituire un bersaglio esemplare: vicino al Cavaliere quanto basta, era elettoralmente fortissimo, tanto da ribaltare in Campania, in pochi anni, la lunga egemonia politica di Bassolino e della sinistra. Per dirla in altre parole: l’ideale per una magistratura che identificava gli uomini vicini a Berlusconi come depositari di consensi elettorali senz’altro equivoci, frutto di collusioni con la camorra. Semplice, allora, ipotizzare ed applicare quell’abominio giuridico chiamato “concorso esterno in associazione malavitosa”. Un reato impalpabile, tuttora non definito e tipizzato, che inverte l’onere della prova a carico dell’indagato, incastrato e chiamato a smentire le dichiarazioni di pentiti (spesso prezzolati) e giammai verificate. Un’onta sulla nostra civiltà giuridica, che tuttora permane e che un Parlamento vigliacco e codino non vuole disciplinare e regolamentare. In pratica, una sorta di licenza di uccidere uomini e politici lasciandoli nelle mani di talune toghe che non risponderanno mai né della loro negligenza, né degli abusi commessi. A pagare dopo anni di sofferenza ed ingiusta detenzione e le assoluzioni che si sono fin qui susseguite, sarà ancora una volta lo Stato che tenterà di risarcire lo scempio fatto nella vita di persone distrutte dalla mala giustizia. Questa oggi l’amara ed ulteriore considerazione che sovviene alla mente per la sentenza che scagiona Nicola Cosentino da ogni addebito dopo 9 anni di indagine dei quali quasi la metà trascorsi in regime detentivo. Affermai in quell’intervento nell’Aula di Montecitorio, nei cinque minuti concessimi dalla Presidenza, che io non ero un famoso intellettuale e scrittore come Emile Zola, né Cosentino poteva essere paragonato al Capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus, falsamente accusato e condannato per spionaggio nel 1894. Non mancavano però le analogie tra i due casi. In entrambi si trattava di imbastire un processo politico con la finalità di eliminare un personaggio scomodo. Una storia che negli anni successivi si è puntualmente ripetuta in provincia di Caserta, con gli arresti e le inchieste farlocche, finite nel nulla, a carico dei principali protagonisti politici del centrodestra. Innanzi al proscioglimento di Cosentino, il secondo in ordine di tempo, molti sono quelli che dovrebbero vergognarsi. Alcuni vestono ancora la toga, altri indossano il lacero mantello delle buone intenzioni, quelle che non ebbero il coraggio di manifestare indifesa di un amico innocente.

Chi ripaga Cosentino di quasi dieci anni di gogna? Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 4 Ottobre 2020. Ormai siamo assuefatti a vicende giudiziarie come quelle che hanno interessato l’on. Nicola Cosentino, già sottosegretario in un Governo della Repubblica, parlamentare di lungo corso, arrestato con accuse gravissime, detenuto in custodia cautelare per circa tre anni, espulso dalla politica e dalla vita pubblica, condannato in primo grado ad una pena molto severa, ed ora assolto, dieci anni dopo, “per non aver commesso il fatto”. Tra l’altro, leggo che si tratta della seconda assoluzione. Ovviamente, i tifosi della forca permanente e i tenutari della contabilità delle disgrazie giudiziarie altrui ci tireranno fuori quel terzo o quarto processo in cui pende una condanna, o una richiesta di condanna, o una impugnazione del P.M., ma ragionare con costoro è del tutto inutile. Solo dei fanatici irresponsabili possono non comprendere che qui in gioco, oltre naturalmente alla vita ed alla dignità delle persone, è la stessa credibilità della giurisdizione nel nostro Paese. Non bastano a riscattarla, purtroppo, giudici indipendenti e coraggiosi che sanno assumersi la grande responsabilità di assolvere a dieci anni di distanza, senza farsi condizionare da nessuna altra valutazione che quella dei fatti sottoposti al proprio giudizio. Non è per niente facile. Onore a loro e ai tanti loro colleghi che sanno garantirci questo, ma una giurisdizione che debba fare affidamento su virtù eccezionali -e in certi contesti quasi eroiche- del giudice, è una giurisdizione che ha già rinnegato sé stessa. Le questioni che queste ormai ordinarie vicende di malagiustizia squadernano davanti ai nostri occhi sono evidentissime. Per prima, ovviamente, la durata irragionevole dei processi. Converrete che se un imputato impiega dieci anni per vedere riconosciuta la propria innocenza, a tutti potrete imputare responsabilità nel trascorrere impietoso del tempo fuorché alla sua attività difensiva. D’altronde, il principio costituzionale della ragionevole durata del processo è dettato a garanzia dell’imputato, non a contenimento o compressione delle sue garanzie difensive. Quel comando costituzionale interroga dunque, ed innanzitutto, la durata delle indagini. Dal momento in cui l’Ufficio di Procura si assume la responsabilità di iscrivere qualcuno nel registro degli indagati, occorre individuare un termine di prescrizione dell’azione penale, ovviamente proporzionato alla gravità del reato ed alla complessità delle indagini. Le indagini devono avere una deadline temporale oltre la quale non deve essere possibile trascinarle. Ed al contempo, una volta esercitata tempestivamente l’azione penale, occorre reintrodurre quell’elementare principio di civiltà, annientato dalla riforma Bonafede, che pone un termine di prescrizione del reato contestato. Se lo Stato non riesce a pronunciare entro un termine ragionevole una sentenza definitiva sulla colpevolezza o l’innocenza del cittadino che ha accusato, ha il dovere, il sacrosanto dovere, di rinunziare ad esercitare la propria potestà punitiva. Ciò che non può accadere è che sia la persona imputata a pagare, oltre ogni ragionevolezza, la inefficienza dello Stato. La indecente ubriacatura mediatica che ha accompagnato la riforma populista della prescrizione ha diffuso nella pubblica opinione la storiella grottesca degli “avvocatoni” che fanno prescrivere i reati. È almeno dal 2006 che ciò è tecnicamente impossibile. Ripeto: tecnicamente impossibile. Qualunque istanza, anche la più ragionevole e motivata (impedimento professionale del difensore, malattia o altro impedimento dell’imputato, sciopero, rinvio della udienza comunque richiesto ed ottenuto dalla difesa) determina la sospensione del corso della prescrizione. Inoltre, nel corso di questi ultimi 15 anni i termini prescrizionali dei reati, soprattutto quelli di maggiore allarme sociale, sono stati innalzati fino ad oscillare tra i 15 ed i 45 anni. Di fronte a questa semplice constatazione, i fanatici cantori della riforma populista della prescrizione farebbero bene a vergognarsi. La seconda questione è altrettanto chiara ed impellente, e riguarda la constatazione che nessuno sia mai chiamato a rispondere di simili fallimenti giudiziari. Ci troviamo di fronte ad un potere tanto micidiale quanto del tutto irresponsabile. Lasciamo perdere, per un momento, la responsabilità civile e perfino quella disciplinare: ma è davvero mai possibile che chi ha imbastito e poi legittimato simili vicende giudiziarie non sia chiamato a risponderne nemmeno in termini di valutazione di professionalità, e dunque di carriera? Molto spesso sono indagini che, oltre a maciullare la vita delle persone ingiustamente imputate, sono costate milioni e milioni di euro in intercettazioni, consulenze, impegno di personale e mezzi di polizia giudiziaria. Ebbene, è francamente incredibile che nessuno possa chiedere conto, in nessuna sede, nemmeno del denaro che è stato speso per avviare e svolgere quelle indagini poi dimostratesi infondate. Se dovessimo individuare la distorsione più grave ed insidiosa per gli equilibri democratici di una società, non potremmo avere dubbi: un potere – amministrativo, legislativo, giudiziario – esercitato, senza alcuna forma di responsabilità, nemmeno la più attenuata o indiretta. Il ripetersi sempre più allarmante di vicende come quella da ultimo occorsa all’on. Nicola Cosentino dimostra per fatti concludenti che quella distorsione della vita democratica è da troppo tempo inoculata come un virus nelle radici del nostro sistema istituzionale. Lo capiremo, prima o poi?

Concorso esterno, assolto l’ex senatore Barbato. Il Dubbio il 26 Settembre 2020. Il politico: «Mi sono sempre professato innocente, è la fine di un incubo». Assolto dalla Cassazione l’ex senatore Tommaso Barbato, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Gli ermellini, accogliendo la tesi difensiva sostenuta dagli avvocati Francesco Picca e Claudio Botti, la Suprema corte ha annullato la sentenza pronunciata nel 2018 dalla Corte d’Appello di Napoli che aveva stabilito una pena a sei anni di carcere, uno in meno rispetto a quanto stabilito in primo grado. «Mi sono sempre professato innocente ed è stato sancito dalla Cassazione – ha commentato Barbato in una nota -. Finisce un incubo. Non ho mai avuto dubbi che la Suprema Corte avrebbe accolto la tesi difensiva dei miei avvocati, Francesco Picca e Claudio Botti, che ringrazio per il lavoro svolto con impegno e professionalità, annullando quanto sentenziato dalla Corte d’Appello di Napoli che, nel 2018, mi ha ritenuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa». Barbato ha quindi aggiunto: «Resto un uomo delle istituzioni, nonostante il calvario giudiziario subito, per questo ringrazio la magistratura inquirente e quella giudicante per la loro preziosa opera quotidiana a difesa della legalità e dei principi costituzionali. Ringrazio quanti mi sono restati vicini in questi anni difficili, senza mai nutrire dubbi sul mio conto. La mia esperienza mi sollecita ad invitare i cittadini a credere sempre nella giustizia, perché anche se in ritardo arriva». La vicenda era quella relativa l’affidamento degli appalti in somma urgenza per la rete idrica campana tra il 2006 e il 2010: secondo la Direzione distrettuale antimafia, ad essere sistematicamente favorite erano le aziende vicine al clan dei Casalesi, sulla base di un presunto accordo tra Barbato, all’epoca funzionario in Regione nel settore della gestione dei servizi idrici, e Franco Zagaria (poi deceduto), cognato del boss Michele Zagaria. Una tesi che, però, non ha retto il vaglio della Cassazione, che ha rinviato gli atti alla Corte d’Appello di Napoli, sezione diversa da quella che ha già giudicato Barbato. Confermate, invece, le condanne per l’imprenditore Pino Fontana, per il carabiniere Alessandro Cerlizzi e per il finanziere Carmine Lauretano. 

"Ecco a voi il mafioso Casari": assolto. Cpl Concordia, lo scandalo più grande del secolo (che non lo era) della premiata ditta Woodcock & Maresca. Angela Stella su Il Riformista il 13 Agosto 2020. Roberto Casari, alla guida di Cpl Concordia dal 1976 al 2014, è da circa sei anni al centro di un corto-circuito giudiziario, mediatico, politico perché coinvolto in varie inchieste che portano la firma, tra gli altri, di Henry Woodcock e Catello Maresca. Il 27 luglio la Corte di Appello di Napoli ha pubblicato le motivazioni con cui lo ha assolto definitivamente dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa: dopo l’ennesima assoluzione sceglie di parlare con il Riformista, perché più pesante era l’accusa, più feroce è stato il processo mediatico; crocifisso sulle prime pagine durante le indagini e la carcerazione, dimenticato quando assolto. Il contesto in cui si sono svolti i fatti è quello della modenese Cpl Concordia, colosso industriale dell’energia con un fatturato di 310 milioni, una delle maggiori cooperative aderenti a Legacoop. Negli anni Ottanta Casari decise di interessarsi al Mezzogiorno e al suo bisogno di infrastrutture. Arriviamo nel 2014 quando, da alcune intercettazioni dell’inchiesta su Alfonso Papa – ex magistrato ed ex deputato Pdl prosciolto per prescrizione nell’inchiesta sulla P4 – i pm Woodcock, Carrano e Loreto, con il supporto del capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, puntano i riflettori su Casari, facendo emergere a loro dire uno dei più grandi scandali corruttivi d’Italia: tangenti e favori per la metanizzazione di Ischia. Il dem Giosi Ferrandino, primo cittadino dell’isola, viene arrestato per corruzione. A corromperlo sarebbe stato proprio Casari, che viene arrestato e trascorre 36 giorni a Poggioreale e poi altri 20 nel carcere di Modena, prima di andare ai domiciliari in Trentino. Mentre il presunto corrotto è stato assolto, dopo essersi fatto anche 22 giorni di carcere, la posizione di Casari è da definire. Il processo è stato spostato a Modena, come deciso dal Tribunale del Riesame di Napoli: in primo grado condannato per corruzione e reati fiscali, e assolto per l’accusa di associazione per delinquere. Invece è giunta l’archiviazione per lo stesso fatto ma riguardante la metanizzazione dell’isola di Procida. L’inchiesta ha sfiorato da lontano, non da indagato, anche Massimo D’Alema: Casari era amministratore unico della società immobiliare della Concordia, che gestiva tra l’altro un albergo con ristorante, per cui si acquistano circa 20mila bottiglie all’anno e in varie cantine, con prevalenza di Lambrusco, ma in quei giorni sembrava ci fosse solo il vino di D’Alema. In altri procedimenti, è stato assolto dall’accusa di corruzione di un agente dei servizi segreti e un procedimento per truffa è stato archiviato. Poi il pool di Catello Maresca e Maurizio Giordano accusa Casari di concorso esterno in associazione mafiosa per aver stretto rapporti con i casalesi nel periodo in cui si procedette alla metanizzazione dell’agro aversano. Le accuse arrivano dal pentito Antonio Iovine. “Un plotone di giornalisti non ha esitato a evidenziare i fatti gravi di cui si sarebbe resa responsabile la cosiddetta cooperativa rossa – racconta Casari al Riformista – dimostrando grande interesse per settimane, con notizie riprese poi da tutti i giornali nazionali. Io intanto ero in carcere e pensavo che le indagini avrebbero subito accertato che avevamo agito con correttezza, senza mai scendere a patti con la camorra, tanto più che la metanizzazione dell’agro-aversano ci era stata sollecitata dal segretario della Commissione Parlamentare Antimafia, Diana”. Casari si fa altri 17 giorni nel carcere di Trento e poi ancora domiciliari in Trentino, fino a che la Cassazione annulla la misura cautelare e il Tribunale del riesame la revoca definitivamente. In questa inchiesta furono pubblicate dal Fatto Quotidiano anche le intercettazioni di nessuna rilevanza penale tra Matteo Renzi e il comandante della Guardia di Finanza Matteo Adinolfi, in cui l’attuale leader di IV esprimeva giudizi poco piacevoli su Enrico Letta. Ciò era stato possibile perché era stata depositata una informativa Noe non omissata, a differenza di quanto accaduto nel procedimento di Ischia. Adinolfi, accusato di corruzione per uno scambio di persona, fu comunque intercettato per diverso tempo e poi la sua posizione archiviata. Ora sia il Tribunale di Napoli Nord sia la Corte di Appello di Napoli hanno dato ragione a Casari e ai suoi avvocati, Luigi Chiappero e Luigi Sena, in quanto hanno rilevato la completa estraneità di Cpl Concordia a rapporti con la criminalità organizzata dei casalesi. Stessa sentenza per altri due della Cpl: il direttore generale Giuseppe Cinquanta e l’ingegnere Giulio Lancia. Per una doppia conforme di assoluzione la Procura ha deciso di non ricorrere in Cassazione. Ma intanto per anni Casari è stato additato come uomo vicino ai mafiosi e contro di lui hanno puntato il dito diverse realtà antimafia: “Libera e la Commissione antimafia della Bindi sposarono immediatamente le tesi dell’accusa fondate principalmente sulle parole di un camorrista che si diceva pentito: lui reduce già da diversi ergastoli, io persona incensurata, alla guida di una società centenaria con milioni di euro di fatturato e 1800 famiglie che si sentivano appellate come camorriste nel loro lavorare quotidiano. Questa è una colpa del nostro sistema giudiziario che non posso digerire”. Per l’avvocato Luigi Sena “questi processi non colpiscono solo le persone ma anche le aziende provocando pesanti conseguenze di cui poi non ci si ricorda quando arriva l’assoluzione. Per la semplice contestazione del reato associativo a Casari, Cpl Concordia è stata esclusa dalla white-list, ossia quell’elenco di aziende virtuose che possono contrattare con la pubblica amministrazione. Purtroppo non si attende l’esito dei processi, spesso troppo lunghi. A ciò si lega anche lo stigma sociale: più grave è l’accusa più grande è il giudizio popolare senza che nessuno conosca gli atti. Questo è il vero problema della spettacolarizzazione della giustizia in Italia”. Di tutto questo tempo nelle aule di tribunale ma anche in carcere a Casari rimane “la consapevolezza che anche in un contesto come quello carcerario esistono forme di rispetto e solidarietà che non conoscevo e a volte penso, come diceva Amadeo Peter Giannini, che se tra i banchieri ci fosse il dieci per cento di solidarietà che esiste tra i carcerati e le prostitute il mondo sarebbe migliore”.

Ammanettato ingiustamente come un capomafia: in un libro la storia di Loris Cereda. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Agosto 2020. Solo un intellettuale folle, uno che ha toccato il carcere da dentro, pur avendone da sempre conoscenza per cultura e propensione all’ascolto, avrebbe potuto scrivere un romanzo di vita e di morte, che prende il lettore e lo fa prigioniero, lasciandogli poche speranze di avere la sua uscita di sicurezza. Chiarendo che di lì non si esce. Loris Cereda c’è riuscito. Direttore da sempre di aziende farmaceutiche, è finito a Bollate nel 2011, quando contro ogni previsione e a capo di una lista civica aveva sconfitto la sinistra del governo locale ed era diventato sindaco di Buccinasco, quella cittadina appiccicata a Milano che gli amici di Travaglio chiamano la “Platì del nord”. Perché lì ci sono le famiglie Barbaro e Papalia. Diverse generazioni con diverse storie. E già il giovane sindaco era stato preso di mira perché un giorno aveva ricevuto nel suo ufficio, senza segreti e sotto gli occhi di tutti, uno di quei giovani con il cognome sbagliato. Era uno decisamente molto scorretto, politicamente, quel sindaco. Poi qualcuno aveva cominciato ad andare dai carabinieri, un po’ con la logica del “cercate cercate, qualcosa salterà fuori”. Così Loris Cereda è stato ammanettato di colpo una mattina, con impiego di forze ed elicotteri, un paese intero messo a soqquadro, come se si fosse trattato di un capomafia. Invece la ‘ndrangheta non c’entrava niente. Ma c’entravano molto i rischi che si corrono ad amministrare la cosa pubblica. E infine è stato condannato per fatti molto presunti e molto politici e mai del tutto chiariti. Tiene molto al suo ruolo di “pregiudicato”. Non ha scritto un saggio e neanche una lagna o una protesta, ma un romanzo un po’ agghiacciante. Il libro (L’Educatore, ExCogita, 170 pagine, 16 euro) è nato in gran parte in carcere. Il primo pugno nello stomaco te lo dà prima ancora di introdurti alla storia di Claudio Bassetti, un tizio neanche tanto simpatico, che di mestiere fa l’educatore nel carcere più aperto d’Italia e che, a quanto dice lo scrittore, non c’entra niente con quello che lui ha incontrato a apprezzato da detenuto a Bollate. Parla subito di pena di morte e di suicidio, e con lucida precisione certosina ti spiega come si fa a morire in carcere, pur in un Paese dove la pena capitale è stata da tempo abolita. «L’impiccagione alla branda del letto a castello con il lenzuolo legato a cappio, il taglio longitudinale delle vene eseguito con il filtro della sigaretta, scaldato e poi compresso per farne una lama sottilissima, il soffocamento, con il sacchetto di plastica dopo essersi tramortiti con dosi massicce di ansiolitici raccolti giorno dopo giorno dall’infermeria e conservati sfidando le notti insonni: sono tutti strumenti di morte molto più diffusi delle camere a gas, delle sedie elettriche e delle iniezioni letali». Claudio Bassetti è un po’ come si immagina debba essere il bravo educatore, quello disponibile, che capisce il detenuto, quello che non lo identifica con il reato. Ma è anche un uomo molto solo, senza amici, che ha una relazione sentimentale con una donna che vive con un altro uomo, e non riesce a corteggiarne in modo adeguato un’altra che forse gli piace più della prima ma che, quando capisce, chiarisce che no, non ha intenzione. Una vita sempre uguale, in cui i colloqui tra l’educatore e i detenuti parlano sempre dei comportamenti. Ogni carcerato sa che il suo futuro dipende dalla relazione che l’educatore farà al direttore e in seguito quest’ultimo al magistrato che deciderà su misure alternative, liberazione anticipata e ogni provvedimento che avrà il sapore della libertà. La vita a Bollate è un po’ come ce la si immagina: celle aperte, corsi di ogni tipo, anche di scrittura, filosofia finalizzata al famoso recupero del detenuto secondo il dettato costituzionale. Un luogo, sul piano teorico, di non violenza. Un paio di volte il racconto è attraversato dal fantasma di Marco Pannella, quando si apprende che è malato, e quando muore, e i detenuti delle carceri di tutta Italia battono per tutta la notte con le pentole sulle inferriate delle celle e piangono colui che li aveva aiutati di più, che aveva creduto nel loro essere persone e non bestie feroci. Anche i più feroci, quelli che avevano sparato e ucciso. Anche loro avevano pianto, quella notte. Il paradosso di questa storia di vita e di morte è che la violenza, quella che sarà determinante per il resto dei suoi giorni, Claudio Bassetti la incontra fuori dal carcere. Quando l’uomo della sua donna, quello ufficiale, la riduce una maschera di sangue e lividi e sarà lui a portarla all’ospedale. Lui che forse non ne è neanche innamorato, ma che nella quotidianità del carcere ha costruito minuto dopo minuto il suo mondo di dignità, di regole e di giustizia. Ma è giusto quel che un uomo ha fatto colpendo una donna? E quella donna, si domanda Bassetti, avrà mai una vera giustizia? La risposta è no, e lui lo sa, è obbligato a saperlo. È così – forse anche con la memoria a quel che gli diceva il detenuto Amedeo Fassi (intellettuale e farmaceutico, in cui è facile riconoscere l’Autore), quando contrapponeva il comportamento trasgressivo alla non accettazione di una legge sbagliata – che l’Educatore diventa il Vendicatore. Ed entrerà di colpo nella sua seconda vita, quella dall’altra parte. Quella in cui sarà il suo comportamento a esser giudicato, esaminato, vivisezionato. Quella in cui le sue relazioni con i detenuti saranno nella cella con i letti a castello, nella quotidianità del cucinare, del leggere, dello scrivere, dell’andare a rapporto con un altro educatore. Quella in cui ogni giorno ci sono in gioco la vita e la morte, fino a quel corpo semi-appeso e il suo tragico “c’eri cascato, eh?”. L’Educatore ha ricevuto nel 2017 il premio “Bormio contea” per gli inediti, all’interno della Milanesiana ed è stato selezionato quest’anno, dopo la pubblicazione, al concorso Masterbook per gli studenti dello Iulm. È in vendita online e nelle librerie. Non è un libro da ombrellone, ma magari anche sì.

 "Greco non era mafioso" Riabilitato dopo il suicidio. Sentenza del Tar. L'imprenditore si era tolto la vita dopo aver ricevuto l'interdittiva antiracket. Tiziana Paolocci, Sabato 11/07/2020 su Il Giornale. «Non c'entra con la mafia». Ma l'imprenditore gelese Rocco Greco, per tutti Riccardo, non saprà mai che l'immagine della sua società, costruita con tanto sudore, è stata riscattata. La decisione del Tar del Lazio arriva troppo tardi perché l'uomo è morto suicida 16 mesi fa. Con un colpo di pistola alla tempia a 57 anni ha voluto cancellare la sua via crucis, iniziata quando ha scelto di denunciare Cosa Nostra e la Stidda, che gli imponevano il pizzo, venendo a sua volta infangato dai criminali. «Il Tar del Lazio ha restituito una immagine scevra da pregiudizi» scrivono i giudici, che hanno riabilitato la Cosiam srl, la società edile di Gela guidata ora dai figli di Greco. Le hanno finalmente restituito quella certificazione antimafia «annullata» nel dicembre del 2018 perché l'imprenditore, dopo essere stato assolto dall'accusa di associazione mafiosa, aveva pendente il ricorso in Corte d'Appello a Caltanissetta. Nell'aprile dello scorso anno, a due mesi dal suicidio, la procura rinunciò all'appello che era stato proposto contro l'assoluzione dalle accuse di aver avuto rapporti con i clan. Rinuncia, che confermò l'assenza di presupposti per ritenere Greco fosse in odore di Mafia. L'imprenditore del resto aveva sempre rivendicato il ruolo di vittima. Ha tentato di farlo dall'inizio del martirio, iniziato quando a fine anni Novanta la Cosiam si è aggiudicata la raccolta dei rifiuti a Gela. Esponenti della Stidda e di Cosa Nostra hanno iniziato a taglieggiarlo. Lui nel 2006 ha denunciato i danneggiamenti e i tentativi di estorsione e il suo coraggio, insieme a quello di altri sei imprenditori, ha fatto scattare le manette ai polsi di 11 criminali. I boss hanno cercato a quel punto di gettare ombre su di lui, che ha dovuto difendersi dalle insinuazioni di essere un mafioso. Il giudice ha riconosciuto la sua innocenza, ma la prefettura ha fatto scattare una misura interdittiva nei confronti della sua azienda. Per questo la Cosiam è stata esclusa dagli appalti per la ricostruzione post-sisma in Abruzzo e dall'Anagrafe antimafia dei fornitori pwedebdo numerosi appalti. L'imprenditore non ce l'ha fatta a reggere il peso di questa situazione e si è ucciso. Le sue denunce, però, sono state presentate dai figli al Tar del Lazio. «Non si vede - scrive il tribunale amministrativo - come altro possa reagire una impresa che non intenda farsi condizionare, se non denunciando i danneggiamenti e le richieste estorsive, presumibilmente provenienti da chi intenda assoggettarla a condizionamento. Se è comprensibile che la vittima silente di pressioni e condizionamenti mafiosi possa ritenersi meritevole di interdittiva, posizione diversa riveste quell'imprenditore che si ribella, denuncia e chiede l'intervento repressivo dello Stato, facendo emergere proprio quei rapporti nei quali si sostanzierebbe il condizionamento mafioso». I giudici hanno accolto il ricorso presentato dai figli di Greco e hanno spiegato che quel provvedimento non andava emesso, perché privo della necessaria verifica sul «quadro indiziario relativo alla attualità del rischio di infiltrazione mafiosa».

“Rocco Greco non è un mafioso”, assolto ma intanto si è ucciso…Giorgio Mannino su Il Riformista il 12 Luglio 2020. Per anni ha denunciato l’attività estorsiva di Cosa Nostra e della Stidda gelese. Insieme a un manipolo di imprenditori coraggiosi è diventato il leader dei commercianti anti-racket. Ma quando nel 2018 la sua azienda – la Cosiam srl, impegnata nell’esecuzione di lavori stradali e di servizi di raccolta rifiuti – ha ricevuto l’interdittiva antimafia, Rocco Greco, 57 anni, ha deciso di farla finita sparandosi un colpo di pistola alla testa. A distanza di un anno e mezzo dal documento firmato dal Viminale, la sentenza del Tar del Lazio – annullando il provvedimento ministeriale – definisce l’istruttoria «carente in ordine al presupposto di attualità del condizionamento mafioso». Una grave superficialità da parte del Viminale e degli organi competenti, che è costata la vita a un uomo e che ha cambiato per sempre quella di un’intera famiglia. La sua. Così mafia e antimafia, ancora una volta, si confondono in una storia «angosciosa e tremenda in cui la giustizia arriva con grave ritardo», dice Alfredo Galasso, avvocato di Greco. Una trama inquietante nella quale il dolo è uno spettro, in una vicenda tutta da chiarire, che s’intravede nelle parole del figlio dell’imprenditore, Francesco: «Non ho le prove – dice – ma l’interdittiva è arrivata quando gestivamo 20 cantieri e non in anni precedenti quando lavoravamo meno. Il provvedimento sembra essere arrivato quasi ad orologeria». E se da un lato le sentenze della magistratura hanno dimostrato l’estraneità di Greco a Cosa Nostra, dall’altro l’iter prefettizio è andato avanti. Ma riavvolgiamo il nastro. Durante il processo “Munda Mundis” – svoltosi al tribunale di Gela, che ha messo in luce gli affari di Cosa Nostra sui rifiuti – Greco ha ripetuto e arricchito di particolari il suo racconto in merito ai soprusi subiti dalle cosche. Il processo si è concluso con una sentenza di condanna per quasi tutti gli imputati. Durante il dibattimento, però, alcuni capimafia accusano Greco di essere stato un loro complice e di avere ottenuto favori nell’attribuzione di appalti pubblici. Accuse che, però, vengono smontate dai giudici nei tre gradi di giudizio: «È stato riconosciuto che queste dichiarazioni da parte dei mafiosi erano espedienti utili a difendere la loro posizione. Eppure nonostante tutto il Viminale non ha creduto alle sentenze ma ai mafiosi», tuona l’avvocato Galasso. Perché nel documento firmato dall’allora prefetto di Caltanissetta, Cosima Di Stani, e dal capo del Sisma (Struttura di Missione e Prevenzione Antimafia), Carmine Valente, si legge che «l’insieme delle vicende giudiziarie evidenziano una figura d’imprenditore che dimostra di conoscere le dinamiche mafiose gelesi adoperandosi nel trovare protezione dalle stesse per sé e le sue aziende». «Dunque Greco – continua il documento – pur essendo stato riconosciuto dal giudice vittima delle richieste estorsive da parte delle locali consorterie mafiose, ha manifestato nel corso degli anni, atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese. Comportamenti che assurgono a forma di situazione a rischio di infiltrazione criminale nei confronti della Cosiam». Quattro giorni fa, però, il Tar del Lazio ribalta il verdetto del Viminale: «Gli elementi a sostegno della collusione di Greco sono costituiti dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Ad avviso del collegio, l’attendibilità di tali dichiarazioni andava valutata alla luce dell’esito del processo che aveva coinvolto Greco assolvendolo dall’imputazione per associazione di tipo mafioso e dalla posizione di vittima che lo stesso ha sempre rivendicato. A ciò deve aggiungersi la prova delle denunce di danneggiamenti o tentativi estorsivi proposte da Greco dal 2007, che si pongono in logico contrasto con l’assunta infiltrazione mafiosa, configurandosi come illecite pressioni sull’impresa al fine di estorcere un qualche vantaggio». Con la voce increspata dall’emozione, Francesco Greco commenta: «Non avevamo bisogno di una sentenza del Tar per sapere chi fosse mio padre. Mi dispiace che per superficialità da parte di chi ricopre cariche importanti si facciano errori così gravi.

Il prefetto che ha firmato la prima interdittiva era Carmine Valente. Lo stesso che tre anni prima, quando era prefetto a Caltanissetta, ci aveva iscritti in white list. Bastava fare una verifica». L’azienda torna a lavorare nel solco della memoria di Greco: «Da quando ci ha lasciati – dice il figlio – proviamo a onorarlo così, mandando avanti l’azienda e gestendo la quotidianità con serietà e garbo». Greco fa sapere inoltre che non denuncerà il Viminale per danni: «Le mele marce stanno dappertutto, anche nello Stato».

Riabilitazione postuma di Rocco Greco restituisce onore ma non cancella vergogna del sistema. Sergio D'Elia su Il Riformista il 13 Luglio 2020. La riabilitazione postuma di Rocco Greco, vittima a un tempo della mafia che lo ha infamato e dello Stato che lo ha “antimafiato”, se restituisce l’onore all’imprenditore siciliano interdetto dal fare impresa, non cancella la vergogna di un sistema in teoria di prevenzione, di fatto di distruzione di alternative di vita economica, civile e sociale al potere mafioso. Secondo un rapporto dell’Anac del luglio 2019, sarebbero 2.044 le aziende destinatarie di misure interdittive prefettizie dal 2014 al 2018. Mediamente, ogni santo giorno, 4 interdittive in più e centinaia di posti di lavoro in meno. La crescita è esponenziale e dilaga dal Sud al Nord. Dalle 122 interdittive del 2014 si passa alle 573 del 2018 (370% in più): nel Nord da 31 a 116; nel Centro da 16 a 34; nel Sud da 75 a 423. Dati sottostimati, perché riferiti solo a quelle imprese che nei 5 anni di riferimento hanno partecipato ad appalti pubblici. Nella lotta alla mafia non vi può essere una terra di mezzo tra il potere criminale e il potere “democratico”, tra la mafia che intimidisce e uccide e il suo eguale e contrario, lo Stato che reprime e, soprattutto, “previene”. Perché, nella logica contorta, autoreferenziale, dell’accanimento antimafioso, prevenire è meglio, perché è peggio che reprimere. La repressione presuppone che vi sia un rito processuale, un gioco delle parti e regole da rispettare: accusa, difesa, giudice, prove, controprove, sentenze e appelli fino all’ultimo grado di giudizio. Un lusso, quello del “giusto processo”, che la lotta alla mafia non si può permettere, soprattutto in uno stato di emergenza. Meglio prevenire. Così il sistema di prevenzione nella lotta alla mafia si è progressivamente sostituito al sistema penale. Una operazione colossale di vaccinazione obbligatoria e di massa volta a prevenire il contagio mafioso. Nella logica del sospetto che presiede al sistema delle misure interdittive e di prevenzione antimafia, non importa che vi sia prova di un reato specifico, di una partecipazione diretta o di un qualche concorso esterno riconducibili a una associazione mafiosa, è sufficiente che il prefetto intraveda il rischio eventuale o faccia una sua personalissima prognosi di condizionamento o infiltrazione mafiosa in una azienda per decretarne la morte. Dallo Stato di Diritto allo Stato del Prefetto, questo è avvenuto nel nostro Paese, celebrato come la culla del diritto, divenuto la tomba del diritto. Il potere della prevenzione in capo al prefetto ha effetti salvifici immediati e ultimativi. Luigi Einaudi è stato il primo, dopo di lui anche Marco Pannella, a chiedere l’abolizione dei prefetti, protesi in ogni territorio del potere accentratore e di occupazione manu militari dello Stato, soprattutto nelle regioni del Sud. Un provvedimento indispensabile e sempre più attuale che i democratici fasulli dello Stato di Diritto e i finti federalisti si guardano bene dal proporre. Dominus assoluto e incontrastato, il Prefetto di fatto decide sulla libertà di fare impresa, sul diritto al lavoro, sulla vita degli imprenditori e dei lavoratori, in definitiva sulla vita del Diritto nel nostro Paese. Dell’armamentario speciale monumentale della lotta alla mafia costruito a partire dai primi anni Novanta, il potere dei prefetti è risultato quello più “efficace” se il parametro è quello dello stato di emergenza, ma anche quello più distruttivo per chi ha cuore lo Stato di Diritto. Propone e dispone che un Comune sia sciolto per mafia senza contraddittorio e per via di relazioni di commissioni d’accesso da lui istituite. Decide, a sua discrezione, chi sta dentro e chi sta fuori la blacklist degli interdetti dal lavoro con la Pubblica Amministrazione. Si dice: la misura interdittiva è temporanea, puoi ricorrere al Tar e poi al Consiglio di Stato. La realtà è che nella stragrande maggioranza dei casi, se l’azienda lavora solo con la pubblica amministrazione, il provvedimento “provvisorio” è comunque una condanna a morte dell’impresa, un ergastolo bianco che sancisce la sua scomparsa dal mercato e dal consorzio economico, civile, sociale. Con il provvedimento in atto e, in attesa del Tar e del Consiglio di Stato, sei comunque condannato all’estinzione: non puoi portare a compimento i lavori già assegnati, non puoi partecipare a nuove gare d’appalto. Dopo l’eventuale, improbabile revoca della interdittiva prefettizia, la tua impresa sconta un’ipoteca negativa che graverà per sempre sul tuo nome e il nome della tua azienda: una pena d’infamia, il marchio indelebile con la scritta “interdetto” che segnerà per sempre il tuo nome e il nome della tua azienda. Quel marchio che Rocco Greco, suicidandosi, ha voluto cancellare per sempre, non lasciarlo in eredità ai suoi figli, quale condanna pendente sul loro futuro.

Storia di Francesco Lena: Di Matteo chiese 9 anni per associazione mafiosa, assolto con formula piena. Gianfranco Lena su Il Riformista il 5 Luglio 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la prima di un ciclo di storie sulle vittime delle misure di prevenzione antimafia. Quando l’incredibile si interseca con la realtà è allora che nascono storie come questa che ha coinvolto mio padre, in prima persona. Raccontarla non è semplice per me ma penso sia doveroso farlo. È sempre stato un uomo libero, Francesco Lena. Libero nel fare impresa, libero da legami equivoci, libero di realizzare quello in cui ha sempre creduto anche lontano da casa sua. Oggi è ancora più libero. Tre sentenze di assoluzione con formula piena “per non aver commesso il fatto”. Adesso anche il decreto della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che gli ha restituito l’azienda nella quale crede come una sua “creatura”. In tutto 2.860 giorni di calvario giudiziario che non si dimenticano facilmente. Non si dimenticano i titoli della grande stampa a poche ore dall’arresto, non si dimenticano tutti coloro che, fino al giorno prima amici fidatissimi, sono scappati come i topi di una nave che affonda. Era un giovedì quel 10 giugno 2010, quando venne prelevato, all’alba e costretto in manette, dalla sua villa con le telecamere ed i flash in faccia. Ricordo il telefono che squillò alle 6 del mattino e l’espressione sul volto di mia moglie quando mi passò la cornetta. Ricordo la girandola di voci, telefonate, la lettura di tutte le pagine dell’ordinanza d’arresto seduto in cucina e la mia esclamazione finale: «se possono arrestarti per questo allora domani tutti possiamo essere arrestati!» Una vicenda che ricorda, con le dovute proporzioni, quella di Enzo Tortora. L’ingegnere, così lo chiamano per la laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Princeton, ripensando alla gogna mediatica subita abbozza un sorriso: «Non mi lamento. A Tortora è andata peggio». E continua: «Voglio raccontare la verità. Perché io sono innocente. Anzi, di più: sono una vittima. Una vittima di certa antimafia». Le accuse mossegli sono condensate nell’inchiesta “Mafia e appalti”. I PM della Direzione distrettuale antimafia di Palermo ritengono che i suoi soldi siano sporchi. Il GIP firma il provvedimento di custodia cautelare. Il riassunto mette i brividi. Lena elemento organico della famiglia mafiosa del quartiere palermitano dell’Uditore. Lena in società con Salvatore Lo Piccolo. Lena prestanome di Bernardo Provenzano. «Tutto ha avuto inizio quel maledetto 10 giugno del 2010», racconta Francesco Lena. «Alle quattro del mattino, bussano: Polizia, siamo qui per lei, si tratta di mafia. Mia moglie Paola sorride: state scherzando? E l’agente: non c’è niente da ridere». «Mi sentivo come se quell’assurda esperienza stesse accadendo a un’altra persona. Prima mi portano al Pagliarelli, in isolamento. Poi vengono a prendermi». Riprende la descrizione di quelle ore. «Mi trovo alla presenza del pm Nino Di Matteo, che fino ad allora non avevo mai sentito nominare. Questi inizia a pormi le sue domande. Spiego da dove vengono i miei soldi. Spiego che quei mafiosi che parlano di me nelle intercettazioni, io non li conosco. Del resto, questi personaggi parlano sì di me ma non parlano mai con me. E poi Salvatore Lo Piccolo che afferma il Pm sia stato mio socio. Non è il boss, ma un omonimo nato ad Agrigento nel 1912! Ci sono anche gli atti di compravendita di alcuni terreni a Palermo fatti proprio con i suoi eredi!». «Finito il racconto, il Pm si alza e dice: Non mi convince». «Mi crolla il mondo addosso». Finiscono i giorni del Pagliarelli, ecco i domiciliari ed il processo. Alla vigilia della prima udienza, l’11 luglio 2011, il sindaco di Castelbuono, Mario Cicero (all’epoca del Pd, poi transitato in Sel), gli revoca la cittadinanza onoraria. Il processo di primo grado, svolto con il rito abbreviato, è agli sgoccioli. Il 19 settembre 2011 il Pm, che ha abbandonato il profilo della contestazione dell’aver fatto parte della famiglia mafiosa di Uditore, chiede 9 anni di reclusione per associazione mafiosa, oltre alla confisca dell’azienda. «Rimasi sereno – riprende – il GUP mi guardò negli occhi. Ecco un uomo che mi tratta da uomo». La sentenza è di assoluzione. Assoluzione in Appello. Sigillo definitivo dalla Cassazione che chiosa nelle motivazioni definendo il processo di Appello “una doppia conforme” del processo di Primo grado. La voglia di ritornare alla guida del timone è tanta: «Santa Anastasia deve essere il futuro per i giovani del paese». Il riferimento è al procedimento che si è concluso alla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, azzerata dopo lo scandalo che ha coinvolto i giudici che ne facevano parte e in particolare il suo ex presidente Silvana Saguto. Dopo 8 anni di amministrazione giudiziaria, l’Abbazia – che produce vini fra i migliori in Sicilia, come il pluripremiato Litra – si trova in grande sofferenza economica. Mio padre non può risolvere da solo la crisi. Non può avere accesso al credito bancario perché nel frattempo la Procura ha impugnato il dissequestro e il processo di appello è ancora in corso. E pensare che, durante l’amministrazione giudiziaria, in Abbazia si tenevano dei corsi di “alta formazione” per amministratori giudiziari: “Summer school”, li chiamavano, un nome sofisticato per nascondere delle vere e proprie messe in scena autocelebrative di una certa antimafia. Oggi l’Abbazia è diventato il luogo del riscatto imprenditoriale e civile. Qui si sono svolti due convegni del Partito radicale e di Nessuno tocchi Caino all’insegna dell’antimafia sciasciana, quella non della terribilità ma del diritto. “Historia magistra vitae”.

Inchiesta archiviata, ma Leoluca Orlando insiste: è mafia! Diego Cammarata su Il Riformista il 2 Luglio 2020. Caro direttore, vorrei raccontarle una storia di brogli mafiosi, però senza mafiosi e senza brogli. Nel 2007 vinsi a primo turno con un largo scarto (oltre 31000 voti) le elezioni a sindaco di Palermo contro Leoluca Orlando Cascio. Orlando la cosa non la prese bene e presentò ricorso denunziando una serie di presunte irregolarità. In particolare sostenne che nei verbali di 192 sezioni su 600 non era indicato il nome di chi aveva consegnato il plico. Le buste vengono consegnate dal presidente del seggio ad un delegato del Comune presso il seggio OPPURE da lui personalmente al Comune o da due scrutatori da lui delegati. Nei verbali di quelle sezioni non erano indicati né il delegato del Comune (in verità in nessuno dei 600 verbali) né gli scrutatori delegati dal presidente alla consegna. Io, che sono poco intelligente, ho pensato: dov’è il problema? Saranno stati ovviamente consegnati dal presidente personalmente. Orlando, che invece è molto intelligente, disse che erano stati manipolati dalla mafia. Nel 2014, dopo sette anni dal ricorso, un solerte magistrato, tale Filoreto D’Agostino, presidente e relatore, in una sentenza che doveva solo dichiarare la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, si inventò il concetto di «procedimento perplesso», che avrebbe addirittura potuto portare ad una «probabilità di inquinamento della documentazione versata». Fatto davvero insolito in una sentenza di quel genere, da cui il povero Leoluca, che è una mente raffinata sempre in attività, ricavò, a suo modo, di essere stato davvero raggirato e dichiarò: «Mi assumo la piena responsabilità di affermare che tutto questo è stato organizzato da una vera e propria organizzazione di stampo mafioso». Mise addirittura nero su bianco questa sua idea e la mandò al procuratore Agueci, al presidente del Consiglio, al ministro della Giustizia, al ministro dell’Interno, al presidente del Senato, al presidente della Camera dei Deputati, al presidente della Commissione Parlamentare antimafia e al Segretario Generale delle Nazioni Unite. Dico sul serio, non è uno scherzo. Non contento, fece una conferenza stampa e queste dichiarazioni vennero riprese da oltre trenta testate tra carta stampata, giornali online e blog. Un’aggressione vera e propria, arricchita da una campagna mediatica basata sul verosimile che non è la verità ma che potrebbe esserlo o non esserlo. Il danno in questi casi non viene dal “fatto” (che in realtà non esiste) ma dalla notizia del fatto. Orlando in questo è sempre stato un maestro. Allarmato, pertanto, per avere scoperto di avere vinto le elezioni grazie ad una organizzazione di stampo mafioso e conoscendo il mio amico Leoluca che, come dicevo prima, quando si parla di lotta alla mafia, minchiate non ne dice (certo a tutti ogni tanto può accadere di dirne una), dissi pubblicamente che volevo, come lui, vederci chiaro e lo invitai a presentare un esposto alla Procura a firma congiunta. Niente, non mi diede conto. Nella sua visione, io dovevo essere l’abusivo e lui la vittima. Decisi allora di non aspettare e l’esposto lo presentai io.  Dopo qualche anno l’inchiesta, su richiesta del pm, è stata archiviata e nel fascicolo da me ritirato in questi giorni, nella nota di indagine della Digos si legge: «Si trasmette l’esito dell’attività di indagine esperita da questa divisione dalla quale non emerge alcun elemento investigativo che possa dimostrare qualsivoglia infiltrazione di organizzazione mafiosa nella competizione elettorale indicata». Si è acquietato? Manco per idea, ha confermato quanto allora dichiarato con una variante grottesca: «Mi assumo la piena responsabilità di affermare che la manipolazione delle elezioni del 2007 fu organizzata da una vera e propria organizzazione di stampo mafioso». Certo, io posso capire che non l’abbia presa bene ma qui siamo alla farsa. Direttore, lei lo ha capito? La mafia ed i mafiosi c’entrano o no? È davvero difficile vedere un gatto nero in una stanza buia ed è impossibile se il gatto non c’è. Orlando spesso ci riesce. Stavolta però la stanza era ben illuminata e si vedeva chiaramente che non solo non c’era alcun gatto ma la stanza era totalmente vacante. Ma è possibile, però, che nessuno gli dica: ma cosa vai raccontando?

Il finto garantismo della destra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 26 Giugno 2020. Trent’anni di rissa sulla giustizia hanno disegnato una mappa piuttosto chiara del disinteresse per i diritti individuali: è diffuso a destra e a manca, ma le cause che lo determinano da una parte e dall’altra sono diverse e diverso è il modo in cui esso si manifesta in un caso e nell’altro. Il giustizialismo di sinistra, diciamo, è più equanime: reclama manette per tutti e il carcere, secondo quell’impostazione, è uno strumento di correzione delle ingiustizie sociali, un modo per rimettere in riga le aberrazioni della morale nella società libera. Fa abbastanza schifo, ma una specie di orrenda giustizia in quell’impostazione c’è innegabilmente. A destra, almeno da un quarto di secolo, non funziona così. A destra, pressappoco, il criterio è che in linea di principio bisogna buttare via la chiave, mentre l’esigenza garantista e il fervore che la invoca si regionalizzano senza spingersi oltre il confine di Arcore: con la giustizia che è buona, o in ogni caso poco allarmante, quando si occupa di negri e drogati, mentre è cattivissima e suscita la rivolta delle coscienze liberali quando si intrufola nei possedimenti berlusconiani o comunque nella vita della gente “perbene”, che solitamente sono gli amici stretti o quelli col portafoglio ricco e molto spesso le due cose insieme. Poi hai voglia di contestare il giudice forcaiolo o il giornalista che gli regge il microfono quando dicono che a destra il garantismo è farlocco: è spesso vero, purtroppo, e i pochi che seriamente lavorano per i diritti delle persone dovrebbero riconoscere che il degrado della giustizia italiana trova causa a destra non meno che a sinistra, con la destra forse anche più colpevole perché durante un trentennio ha razzolato molto male dietro lo schermo di una predicazione garantista parecchio improbabile. L’editorialismo fascistoide che scopre la prepotenza della magistratura perché pizzica il “galantuomo” può essere tollerato se traccia un corso nuovo che parte da quel caso per denunciare l’ingiustizia comune: non quando si biforca come abbiamo visto, contestando la giustizia che fa le pulci a quello là mentre lascia che si incattivisca contro chi non ha mezzo parlamento adunato a difesa d’ufficio. E così, per stare in tema, il voto parlamentare posto a certificazione dei rapporti di parentela di una figliola con un autocrate africano potrebbe anche essere un buon prezzo da pagare se si trattasse di un episodio magari imbarazzante ma comunque parte di una vicenda riformatrice nell’interesse della giustizia di tutti: non quando chiude una stagione politica in cui l’inciviltà del carcere coincideva con il pericolo che ci finisse il capo del centrodestra o al più qualche plenipotenziario, e altrimenti chissenefrega. La realtà è che la storia del populismo giudiziario italiano non è stata fatta dalle toghe rosse, e a spiegarne il trionfo non c’è solo il tiro mancino della parte politica che ha creduto, sbagliando, di avvantaggiarsene: c’è anche il maldestro e ipocrita comportamento della controparte che, sbagliando anche più gravemente, ha creduto di sottrarvisi. Nei due casi, con i diritti dei cittadini lasciati da parte.

La storia di quando da presidente della commissione giustizia della Camera fui inquisita per mafia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Giugno 2020. La voce al telefono era poco più che un sussurro: esterno per Tiziana e Vittorio. Clic. Era il 2 novembre del 1995 ed era sera, la chiamata era arrivata nel mio ufficio, alla Presidenza della Commissione giustizia della Camera dei deputati. Aveva risposto Giorgio Stracquadanio, mio collaboratore, amico e “complice” di ogni battaglia, che lui continuerà anni dopo come senatore e deputato. Ci siamo, ho pensato, ecco a noi di nuovo la Calabria. La terra di mio padre, i luoghi che avevo conosciuto da bambina e dove un anno prima ero tornata con Vittorio Sgarbi, e insieme avevamo svolto la campagna elettorale, candidati nella lista di Forza Italia. La mattina dopo la misteriosa telefonata, puntuale alle nove, la Calabria dei miei avi si materializzò ai miei occhi nelle vesti di due ufficiali dei carabinieri. Dalle loro passarono alle mie mani due foglietti che ho firmato senza stupore, mentre il cortese tenente colonnello mi spiegava di aver viaggiato verso Roma in auto tutta la notte per poter mantenere la riservatezza ed evitare che la notizia dilagasse prima che il provvedimento fosse nelle mie mani. Il provvedimento era un “Invito per la presentazione di persona sottoposta ad indagini”, proveniva dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, ed era una vera bomba. Come si dimostrerà nei giorni e nelle settimane che seguirono. La Presidente della Commissione giustizia della Camera inquisita per mafia! Il procuratore capo Mariano Lombardi e il sostituto Stefano Tocci mi indagavano per concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110 e 416 bis del codice penale) per aver favorito, nella campagna elettorale del 1994, la cosca di un certo Francesco Pino, promettendo riforme legislative in cambio di voti. In particolare mi sarei impegnata a «condurre una sistematica attività di delegittimazione della magistratura inquirente antimafia italiana, nonché del ruolo dei collaboratori di giustizia nell’azione di contrasto dello Stato alla criminalità organizzata di stampo mafioso». Poi il colpo d’ingegno: la mia attività criminosa si sarebbe concretizzata «attraverso la proposizione di riforme legislative dirette ad ammorbidire il sistema legale antimafia». Tutto ciò perché? Per aiutare una cosca e «quale contropartita al sostegno elettorale procurato dall’organizzazione criminale del Pino relativamente alla città di Cosenza». Ancora oggi, nessuno crede che su quel pezzo di carta fosse scritto proprio così. Avrei dunque barattato voti con riforme? Ma non è esattamente quel che si fa in democrazia? Naturalmente non conoscevo né avevo mai sentito nominare quel signore, che, immaginai, fosse un pentito fresco di giornata. Nella lunga campagna elettorale Vittorio Sgarbi e io, che eravamo candidati nella lista proporzionale, avevamo girato tutta la Calabria, fermandoci non più di mezza giornata a Cosenza, bellissima città dove Vittorio aveva imposto anche un giro artistico-urbanistico. Ovviamente avevamo stretto molte mani, niente selfie, allora i cellulari servivano solo per telefonare, e io avevo salutato molti “cugini” (Maiolo è un cognome piuttosto diffuso), che si moltiplicavano di numero man mano che il giro proseguiva. La sera prima dell’invito a comparire, dopo la telefonata anonima che sicuramente era arrivata da qualche amico calabrese, ero riuscita in qualche modo ad avvisare Sgarbi, che era in viaggio, nella sua veste di Presidente della Commissione cultura della Camera, verso la Croazia. Erano bastate poche parole. Non eravamo troppo preoccupati, ce lo aspettavamo, i segnali c’erano già tutti. Io in particolare, dai miei giri di amici avvocati, avevo saputo che in alcuni interrogatori i pubblici ministeri chiedevano se qualche indagato per reati di mafia mi conoscesse. C’era stato, un paio di mesi prima di quel 3 novembre, uno strano precedente. Sempre di sera, sempre in ufficio, era squillato il mio telefono personale. Era un mio ex collega del Manifesto che mi chiamava insieme a un cronista calabrese dell’Unità. Mi chiedevano di Giuseppe Piromalli, patriarca della ‘ndrangheta di Gioia Tauro e mi riferivano di un’inchiesta a Reggio Calabria in cui, a quanto pareva, io sarei stata coinvolta. In particolare desideravano sapere come era andata, sempre in campagna elettorale di un anno prima, la visita mia e di Sgarbi al carcere di Palmi. Non avevo avuto difficoltà a confermare l’incontro, che ricordavo molto bene: di Piromalli mi avevano colpito due cose, l’eleganza di un cardigan di cachemire color tabacco e la lunga unghia del mignolo della mano. Ma ricordavo anche di averlo appena salutato per accorrere da un gruppo di ragazzi che mi chiamavano a gran voce dall’altra parte del corridoio. Il capomafia era rimasto qualche minuto con Sgarbi che, in tono ironico, continuava a chiedergli se lui fosse veramente Piromalli, proprio PIromalli-Piromalli, proprio quelli lì così famoso. Il tutto era durato pochissimo. Non così nel falso “ricordo” del compagno di cella del vecchio patriarca, un tipo di cui non ci eravamo neanche accorti e chi si chiamava Giuseppe Scopelliti, era di Reggio Calabria e si era poi pentito. E aveva riferito che io mi sarei impegnata nella mia attività legislativa a fare modificare l’articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario. Il che era cosa nota e risaputa, sarebbe bastato leggere i giornali, non c’era bisogno di prometterlo specificamente a una persona. Avrei anche promesso di presentare un’interrogazione parlamentare sulle condizioni di Piromalli al 41 bis, cosa falsa che non ho detto e neanche fatto, ovviamente. La cosa era finita lì, forse l’avevo anche dimenticata, non avendo mai ricevuto alcuna informazione di garanzia da Reggio, quando la mattina del 3 novembre del 1995 erano entrati nella mia vita due ufficiali dei carabinieri con l’invito a comparire della Dda di Catanzaro. La lettura della prima pagina del documento che mi avevano consegnato mi aveva suscitato quasi un sorriso all’idea di aver tentato di delegittimare qualche procura “antimafia” e qualche pentito. Era tutto vero, ma fino a quel momento nessuno aveva mai sostenuto che il fatto costituisse reato. E addirittura un reato di mafia! Ma quello che veramente mi turbò, quella mattina d’autunno, fu la lettura della seconda pagina del provvedimento, che mi convocava il 10 novembre alle ore 10 (non so perché) a Bologna. Ecco che cosa c’era scritto: «AVVISA che, in caso di mancata presentazione senza che sia stato addotto legittimo impedimento, potrà disporsi a norma dell’art. 133 cpp l’accompagnamento coattivo». Questi magistrati, senza dire altro, erano così ignoranti da pensare di poter sequestrare un parlamentare della repubblica e portarlo al loro ufficio! Dico la verità, forse mi è tremata un po’ la voce quando, dopo aver firmato, ho invitato i due ufficiali ad accompagnarmi al bar dietro a Montecitorio a prendere un caffè. Ed è stato lì che, mentre il tenente colonnello mi ribadiva che la notizia della mia convocazione era ancora segretissima, mi squillò il telefonino. Era il cronista di una radio vicina al Pds che mi chiedeva un commento sul mio avviso di garanzia, che evidentemente lui teneva tra le mani. Avevo firmato il documento dieci minuti prima.

Maiolo e Sgarbi accusati di mafia difesi da tutti, tranne che da Marco Travaglio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Giugno 2020. Sarei bugiarda, se dicessi che sulla mia pelle quell’indagine di mafia non lasciò nessun segno. Provate a svegliarvi al mattino, a guardarvi allo specchio e a dirvi “faccia di mafiosa, faccia di mafiosa”. Andare alla Camera, presiedere la Commissione giustizia, sedersi allo scranno più alto, toccare la campanella argentata simbolo di potere ma anche di integrità, e pensare che magari qualcuno ha creduto davvero che tu abbia fatto un patto scellerato, un po’ come la monaca di Monza: la sciagurata rispose. Ti viene il dubbio che tra le tante facce, tra le tante mani che hai stretto ci fosse anche quella viscida del pentito Franco Pino. Poi rialzi la testa, e improvvisamente accade il miracolo. Nella lettura dei giornali. Ed ecco il fatto straordinario, in quei primi giorni di novembre del 1995. Era talmente paradossale l’idea che persone come Tiziana Maiolo e Vittorio Sgarbi avessero concordato un consistente pacchetto di voti con un boss della ‘ndrangheta in cambio di riforme sulla giustizia per le quali si battevano già ogni giorno, che tutto il mondo politico e dell’informazione si trovò d’accordo. Credereste? Tutti contro i pubblici ministeri di Catanzaro. Invano i cronisti in quei giorni andarono a cercare il famoso ago nel pagliaio, un politico che si schierasse con la magistratura. Non fu mai trovato. Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo sul piano giornalistico, possiamo andare a ripescare la cronaca di un giovanissimo Marco Travaglio che sull’Indipendente, sotto il titolo “Parola d’ordine: la Piovra non esiste”, mi dedicò affettuosità del tipo: «Donnina previdente, la Tiziana Maiolo. Nemmeno un mese fa aveva caldeggiato l’abolizione dell’associazione mafiosa. Lo stesso reato che le ha contestato l’Antimafia calabrese…». Ma fu l’unico. Anche perché sullo stesso quotidiano Massimo Fini, pur dicendosi in dissenso dalle nostre posizioni politiche, difese Vittorio Sgarbi e me senza esitazione alcuna. Persino il manifesto, che non mi amava molto per via del mio “tradimento” con Berlusconi, fu costretto a difenderci. Tiziana che tratta con un boss non ce la vedo proprio, disse il direttore Valentino Parlato. “Bufera sui giudici calabresi”, titolò La Stampa, e affidò a Marcello Sorgi la difesa incondizionata al diritto di due deputati di lottare per le garanzie di tutti e persino di essere contro i professionisti dell’antimafia. Durissimi furono i commenti di Repubblica (in che cosa consisterebbe lo scambio?) e del Corriere, con Paolo Frajese e Enzo Biagi. L’Unità lasciò a Enrico Deaglio il compito di dire esplicitamente che nel nostro caso non si trattava di “voto di scambio” ma di normale democrazia. Ma il capolavoro lo fecero alcuni magistrati. Il procuratore aggiunto di Napoli Michele Morello, che aveva già svolto nel 1992 indagini per corruzione elettorale, avvicinato dai giornalisti, sul caso Maiolo-Sgarbi aveva detto: «Il mio ufficio e io ci interessiamo di cose serie». E il procuratore nazionale antimafia Alberto Maritati aveva mostrato stupore per un’inchiesta che pareva riguardare opinioni. Il Pds, l’erede del Pci che aveva sostenuto la magistratura di Milano nella demolizione del pentapartito nell’attesa di impadronirsi delle spoglie in particolare del Partito socialista, era in grande imbarazzo. Intanto perché stava sostenendo un governo di tecnici presieduto da Lamberto Dini, dopo la caduta di Berlusconi per opera del pugnale di Bossi, e si era adoperato con forte grinta ad abbattere il ministro di giustizia Mancuso, con la prima mozione di sfiducia individuale della storia. Mancuso era un vero garantista, e aveva mandato ispezioni al pool di Milano. Questo era parso intollerabile agli uomini del Pds, che avevano scelto in quegli anni di schierarsi con i Pubblici ministeri senza esitazione. Per questo rimasero imbambolati per qualche ora, quel tre novembre. Ma io fui lestissima nello schierare tutto quanto il Polo delle libertà al mio fianco, in una conferenza stampa con gli esponenti di Forza Italia, ma anche Gustavo Selva di An e Rocco Buttiglione, Marco Taradash e l’avvocato Taormina, che versò parecchia benzina sul fuoco. Sventolammo quell’avviso di convocazione che mi accusava di aver barattato voti con riforme e minacciava di farmi accompagnare dal Pm con i carabinieri. Ma fu lesto anche il responsabile giustizia del Pds Pietro Folena, uno che non era considerato molto prestigioso, tanto che Cossiga lo chiamava “l’indossatore”, ma che in quell’occasione capì subito da che parte tirava il vento. Ma furono chiarissimi personaggi storici come Emanuele Macaluso («caso folle, segno di crisi di alcuni settori della magistratura»), Stefano Rodotà («Le deduzioni dei pm sono scorrette») e Giovanni Pellegrino («è un non-reato»), tanto che fu costretto a essere esplicito anche Cesare Salvi, capogruppo pds al Senato e fratello maggiore di Giovanni, che oggi è il procuratore generale della cassazione. Persino colui che era stato il principale accusatore del ministro Mancuso, quel giorno disse con chiarezza che, in mancanza di riscontri oggettivi, ci trovavamo davanti a un caso di «abuso compiuto dal pubblico ministero». Disse la sua anche Mauro Paissan, leader dei Verdi, che non dimenticò la buona scuola del garantismo del manifesto, invitando i magistrati a «pensare ai reati e non alle posizioni politiche». E il professor Flick non le mandò a dire: cari pm, ci vogliono le prove. I magistrati non se lo aspettavano. La Dda di Catanzaro aveva dichiarato guerra alla città di Cosenza, con un’operazione chirurgica che colpiva politici e avvocati: Giacomo e Pietro Mancini, di cui invano il pm aveva chiesto l’arresto, e poi i legali Tommaso Sorrentino ed Enzo Lo Giudice, il cui studio era stato perquisito nella vana ricerca della minuta del “decreto Biondi”, cosa che aveva fatto imbufalire l’ex guardasigilli del governo Berlusconi. Andatelo a cercare al Quirinale dove è stato firmato dal Presidente della repubblica, aveva sibilato. La tesi dei pm era che molte iniziative politiche sulla giustizia, in particolare da parte di Forza Italia, fossero guidate da un gruppo di avvocati calabresi legati alla ‘ndrangheta. Alcuni di loro furono addirittura inquisiti perché avevano proclamato uno sciopero, quindi sospettati di volersi scegliere i giudici che avrebbero dovuto processare i loro assistiti. E un fascicolo su alcuni magistrati cosentini sospettati di collusione con gli avvocati fu spedito per competenza a Messina. Ci furono giorni e giorni di accuse martellanti contro la Dda di Catanzaro sui giornali. Anche il prudentissimo presidente del Consiglio Lamberto Dini si era detto “sorpreso” e il Presidente emerito della repubblica Francesco Cossiga, elegantissimo con bastone e cappello era venuto con codazzo di giornalisti a portarci la solidarietà nei nostri uffici alla Camera. Così a un certo punto i pubblici ministeri di Catanzaro reagirono. E la toppa fu peggio del buco. Invocarono l’obbligatorietà dell’azione penale. Perché, se il pentito Franco Pino aveva detto di averci dato voti in cambio del nostro impegno a fare le riforme, loro dovevano indagare, e gli avvisi erano un atto dovuto. Poi dissero che non eravamo indagati come parlamentari, ma come cittadini “comuni”, candidati alle elezioni del 1994. I poveretti ignoravano che noi eravamo già deputati dal 1992, Sgarbi eletto nella lista del Partito liberale e io come indipendente radicale in Rifondazione. E in quegli anni avevamo già visitato tutte le carceri e presentato diverse proposte di legge per riformare la giustizia, nonché criticato ripetutamente una certa gestione dell’antimafia e dei pentiti. A Catanzaro evidentemente era tutto passato inosservato. Fecero allora un vero passo falso. Convocarono come persona informata dei fatti Silvio Berlusconi. Volevano sapere come mai il leader di Forza Italia avesse candidato proprio noi due in Calabria, oltre a tutto nella lista proporzionale. La cosa per loro evidentemente era sospetta. E fu chiaro a tutti che la loro operazione era politica. Il che comporterà, nei tempi successivi, un innalzamento del livello del confronto-scontro tra istituzioni. E saranno costretti a occuparsi del “caso Maiolo-Sgarbi” il Consiglio superiore della magistratura, il premier Lamberto Dini, i presidenti della Camera e del Senato Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio e il Presidente della repubblica Oscar Maria Scalfaro.

Quando Dini ci stupì e disse no al governo dei giudici. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Giugno 2020. “Mafiosi” per otto mesi, Vittorio Sgarbi e io. Alla fine siamo stati prosciolti dal reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”, per il sospetto che avessimo ordito un ignobile baratto tra pacchetti di voti della ‘ndrangheta e il nostro programma politico di riforme. Immaginiamo siano stati otto mesi di indagini serrate, in quel di Calabria, tra il novembre del 1995 e il luglio del 1996, per cercare il riscontro alle parole del pentito Franco Pino. Che aveva accusato noi, pur non avendoci mai visto. Ma anche quello che aveva determinato la perquisizione nello studio dell’avvocato Enzo Lo Giudice, difensore di Bettino Craxi, alla vana (e ridicola) ricerca della brutta copia del decreto Biondi, presentato e affossato un anno prima in Parlamento. Il che la dice lunga sul clima politico-giudiziario di quegli anni. Il teorema, sostenuto anche da alcuni emendamenti presentati dal Pds in Commissione Antimafia, era che l’intero partito Forza Italia fosse una emanazione istituzionale delle ‘ndrine calabresi. O di mafia siciliana, in alternativa. Fatto sta che il 6 luglio 1996, otto mesi dopo l’inizio di tutto, il sostituto procuratore nazionale “antimafia” Emilio Ledonne ha chiesto e ottenuto dal giudice Nicola Durante l’archiviazione dell’inchiesta su noi due e anche sull’avvocato Lo Giudice. La vicenda giudiziaria avrebbe potuto essere, a parte l’implicazione personale offensiva e sconvolgente, anche piccola cosa: un pentito che ti accusa, un pm che gli crede e ti indaga, un altro di grado superiore che chiude il caso. Ma la vicenda politica fu enorme, soprattutto perché raggiunse il livello istituzionale massimo. E nessuno poté tirarsi indietro. A volte mi domando se, in questo clima di minestrine riscaldate di questi tempi, sarebbe mai possibile quel che accadde allora. La risposta è no. Il presidente della repubblica Scalfaro che quando, in quegli stessi anni, ebbe a che fare con la vicenda del Sisde che lo riguardavano si mise subito a strillare «Non ci sto!», fu costretto a occuparsene. Perché fu chiamato in causa da Silvio Berlusconi, l’ex presidente del consiglio nei cui confronti avrebbe dovuto coltivare qualche piccolo senso di colpa per come erano andate le cose nei mesi precedenti, e anche perché non si sarebbe potuto sottrarre nella sua veste di Presidente del Csm. Fosse stato un tipo diverso e fosse arrivato alla Presidenza della repubblica sulla base di una scelta politica solida del Parlamento, forse avrebbe fatto quel che in tanti si aspettavano e che la Costituzione prevede, cioè un messaggio alle Camere. Ma l’uomo era al Quirinale un po’ per caso, e la sua forza era più di facciata che di sostanza. Ben diverso di Francesco Cossiga, che aveva esibito la propria presenza, con cappello e bastone, a Montecitorio, a sancire l’autonomia del Parlamento e la dignità di due deputati cui avevano inferto una ferita infamante. Dunque Oscar Luigi Scalfaro convoca all’improvviso la seconda e la terza carica dello Stato, il Presidente del Senato Carlo Scognamiglio Pasini e la Presidente della Camera Irene Pivetti per discutere del problema “politica-giustizia”. Un vertice di altissimo livello, convocato per lunedi 13 novembre alle ore 17. Il comunicato del Quirinale è un capolavoro. Davanti alle numerose richieste di deputati e senatori di intervenire per salvaguardare almeno quel che restava dell’immunità parlamentare tutelata dalla Costituzione, cioè almeno “voti e opinioni espresse”, Scalfaro pensò bene di ricordarsi che anche lui era stato per cinque minuti un magistrato. La sua premessa è dunque «nell’assoluto rispetto del dettato costituzionale che sancisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere…». Il contentino per noi e per i tanti – compresi i maggiori commentatori dei quotidiani italiani – che l’avevano sollecitato a prendere posizione su una magistratura sempre più politicizzata, era la battuta finale che impegnava a una «riflessione sull’esigenza di prevenire qualsiasi sospetto di strumentalizzazione dell’amministrazione della giustizia». Come andò quel vertice, che comunque impegnò per qualche giorno le prime pagine dei principali quotidiani, lo si può immaginare. Ed è inutile rileggere il documento in cinque punti che fu prodotto ufficialmente dal Presidente Scalfaro e controfirmato da Scognamiglio e Pivetti, ma in realtà precedentemente preparato e calibrato dal consigliere giuridico della presidenza Salvatore Sechi, che seppe miscelare un sapiente cocktail di garantismo e difesa dell’autonomia della magistratura. Quella che doveva essere la giornata-chiave per la giustizia italiana si era trasformata in poche ore nel classico colpo al cerchio e colpo alla botte. Ma non era ancora finita. Altri tre capitoli si erano intanto aperti: la discussione in parlamento, che fu aperta dall’intervento del Presidente del Consiglio Lamberto Dini, che era anche ministro di giustizia, dopo la defenestrazione di Filippo Mancuso, l’apertura della pratica presso la prima commissione del Csm nei confronti dei magistrati di Catanzaro, e la proposta di azione disciplinare che Dini non avviò direttamente (avrebbe potuto), ma suggerì al Procuratore generale presso la corte di cassazione. Il premier “tecnico”, che i sensi di colpa nei confronti di Berlusconi probabilmente li aveva davvero, ci stupì. E il quotidiano La Stampa gli diede l’apertura: “Dini: no al governo dei giudici”. Caspita, ve lo immaginate il “tecnico” di oggi, quello che si proclama avvocato del popolo, dire frasi come: «Grazie giudici, ma non fate politica»? Le cronache dell’epoca narrano che sono stati visti affiancati nell’emiciclo di Montecitorio Silvio Berlusconi e Luciano Violante che applaudivano in modo convinto. Il primo soddisfatto anche perché nel suo discorso Dini disse non solo di aver inviato le carte al procuratore generale della cassazione ma anche di aver avviato un’ispezione sulla procura di Catanzaro. Meglio tardi e quel che ne consegue. Durissimo fu quel giorno l’intervento di Alfredo Biondi, che ricordò al suo successore il suo interim al posto di Mancuso e lo rimproverò per non aver detto nulla sul fatto che il pm milanese Gherardo Colombo in una requisitoria avesse trattato il governo Berlusconi (di cui anche lo stesso Dini aveva fatto parte) come entità criminale. Inutile dire che il Csm archiviò, dopo aver sentito solo il procuratore Mariano Lombardi, il quale si scusò con me e Sgarbi per il tentativo di farci accompagnare dai carabinieri, dando la colpa al computer e a formulari preconfezionati. Del resto noi non ci siamo mai presentati e nessuno ci ha messo le manette. Anche il procuratore generale della cassazione non intraprese alcuna iniziativa. A noi rimase la soddisfazione di un bel dibattito in Parlamento, in anni in cui ancora si poteva fare. Se poi qualcuno ha la curiosità di sapere che fine abbiano fatto quei pm e quel pentito, ecco un aggiornamento. Il procuratore Lombardi è morto nel 2011, ormai in pensione. Ma prima, nel 2007, era stato costretto a chiedere il trasferimento a Messina, quando se la era vista brutta per un procedimento al Csm dopo scontri con Luigi de Magistris. Era “imputato” per la pessima gestione dei suoi uffici. Il giovane sostituto Stefano Tocci se la squagliò rapidamente e lasciò la Calabria per andare a Lucca. Ma anche lui ebbe la sua ammonizione dal Csm, denunciato per vari motivi legati alla gestione dei pentiti, ma soprattutto perché aveva restituito al pentito Franco Pino un libretto bancario con 700 milioni di lire e dopo aver istruito un maxiprocesso con oltre cento imputati, che furono quasi tutti assolti. Quanto al pentito Pino, l’unica notizia recente che ho trovato è che nel 2016, dopo vent’anni di onorata carriera coronata da molti insuccessi, gli è stato revocato il programma di protezione.

Dopo mafia capitale, l’accusa va al processo con prove già pronte e non controllabili. Valerio Spigarelli Il Riformista il 23 Giugno 2020. C’è un aspetto della sentenza Mafia Capitale che non è emerso con la dovuta importanza nei commenti di questi giorni e che prescinde dallo specifico caso. Esso lega il metodo investigativo impiegato in vicende di questo tipo, la possibilità di controllo degli atti delle indagini preliminari al momento della irrigazione di misure cautelari e l’informazione giudiziaria. Come è noto fin dal dicembre del 2014, cioè dal momento dei primi arresti, la vera novità della indagine concerneva la “scoperta” di una mafia “originaria ed originale” della capitale. Una “scoperta” che era fondata su di una lettura innovativa del reato previsto all’art. 416 bis che, diluendo la sua tipicità, pretendeva che l’esercizio del metodo mafioso coincidesse con le attività corruttive e che il capitale di intimidazione che le mafie accumulano prima di diventare tali potesse essere incarnato dall’impalpabile concetto di “riserva di violenza”. Il che, al di là delle fumisterie che tanto piacciono ai giuristi, significava che la Procura di Roma, in assenza di una mafia vera ne aveva inventata una che il codice penale non prevedeva. Il problema è che per sostenere tale lettura la Procura non solo aveva fatto il surf giuridico sulle parole utilizzate dal codice e sui concetti elaborati dalla giurisprudenza ma, come oggi spiega la Corte di Cassazione – pur senza mai citare la Procura stessa – aveva anche apertamente forzato il significato di molte delle acquisizioni probatorie effettuate durante le indagini preliminari: dalle intercettazioni telefoniche alle sommarie informazioni, fino alla storia giudiziaria di alcuni protagonisti, come Massimo Carminati ma non solo. Per far comprendere ciò di cui si sta parlando è emblematica la vicenda di uno degli imputati definitivamente assolti dal reato associativo, le cui conversazioni, del tutto stravolte nel loro significato, erano state poste a base non solo della sua presunta consapevolezza di far parte di una associazione mafiosa ma anche della dimostrazione dei vincoli di omertà esistenti tra gli associati e della caratura mafiosa dello stesso Carminati. Insomma quelle intercettazioni non solo valevano a carico di un imputato ma risultavano centrali per la ricostruzione della intera vicenda e come tali erano state valutate sia dal Tribunale del Riesame che dalla Corte di Cassazione che le avevano esaminate a suo tempo valutando i ricorsi contro l’ordine di custodia cautelare. Solo che il significato che era stato attribuito dagli inquirenti alle frasi pronunciate era talmente arbitrario che oggi la stessa Corte di Cassazione stigmatizza la questione nei seguenti termini «si tratta di un travisamento dimostrato dalla semplice constatazione del testo». Toni icastici che la Corte, per la verità, indirizza, come suo compito, alla sentenza di appello, che è l’oggetto del giudizio di legittimità ma che ovviamente riguardano anche il lavoro della Procura. Ed infatti uno degli aspetti rilevanti della vicenda giudiziaria, ovviamente silenziato dai grandi organi di informazione, è che per riconoscere l’esistenza della Mafia la Corte di Appello, ignorando le risultanze del dibattimento di primo grado, si era appiattita sulle valutazioni delle decisioni intervenute nelle indagini preliminari. Insomma la Cassazione parla a nuora perché suocera intenda giacché le risultanze delle indagini in discorso erano proprio quelle presentate dalla Procura al Gip, e da lì passate al Tribunale del Riesame prima e poi alla Corte di Cassazione che nel 2015 aveva “certificato” l’esistenza di Mafia Capitale in sede cautelare affidandosi alla lettura degli indizi proposta dai pm. Il problema è che questo effetto perverso è il risultato di un format investigativo da sempre in uso nei processi di mafia che rende le Procure depositarie di una massa di informazioni probatorie praticamente incontrollabili da parte dei giudici prima del dibattimento (e a volte anche all’esito dello stesso) oltre che degli avvocati. Questo tipo di indagini, infatti, si sviluppano attraverso il ricorso massiccio alle intercettazioni telefoniche ed ambientali e a servizi di osservazione e controllo videoregistrati, i vecchi pedinamenti, che coinvolgono, oltre agli indagati, anche decine di persone che con loro entrano in contatto. Tutto ciò dura anni e anni permettendo di accumulare uno sterminato serbatoio di dati probatori, di fatto non verificabili nelle prime fasi del processo, il cui significato può essere plasmato secondo le intenzioni degli inquirenti senza apparentemente forzare il dato testuale nel caso delle intercettazioni, o le immagini, negli altri casi, ma semplicemente accostandole in maniera strumentale e comunque prescindendo dalla realtà dei fatti oggetto delle stesse conversazioni e degli incontri che a volte non viene neppure investigata. In indagini di questo tipo si registra poi, costantemente, il ricorso a spericolate congetture investigative contenute nelle informative di polizia, che in fase cautelare diventano la motivazione dei provvedimenti giudiziari in quanto oggetto di copia ed incolla da parte dei pm prima e dei giudici poi.  Nel corso del processo di primo grado di Mafia Capitale molte di queste forzature, che sostenevano proprio la costruzione giuridica del carattere mafioso dell’associazione, erano emerse di fronte ai giudici del Tribunale in maniera a volte imbarazzante ed è per questo che in primo grado l’accusa di mafia era caduta. A titolo di esempio questo ha riguardato tanto il significato di alcune conversazioni intercettate, quanto i precedenti giudiziari di Carminati, ovvero i suoi presunti ma di fatto insussistenti rapporti con esponenti delle mafie storiche o la favola della ricattabilità dei magistrati che si erano occupati delle sue precedenti vicende giudiziarie a seguito del furto del caveau, e molto altro ancora. Ipotesi investigative, congetture, sospetti, legittimi nella fase investigativa che diventano indizi o prove perché nessuno è in grado di controllarle in fase cautelare. Inutile dire che questa messe di informazioni lette in maniera parziale, quando non apertamente fuorviante, sono quelle che poi finiscono sui media nel medesimo periodo di tempo – per Mafia Capitale ancor prima della emissione delle ordinanze di custodia cautelare – contribuendo a creare il perverso effetto del condizionamento sia della pubblica opinione che di quella giudici che via via si occupavano della vicenda. Questo in forza di un rapporto tra organi di informazione e circuiti investigativi che, da tempo, vede gran parte del giornalismo italiano embedded sul carro dell’accusa a prescindere. Le originarie regole del codice sulle indagini preliminari e le intercettazioni, prevedendo tempi limitati tanto per le une che per le altre, ed in generale guardando con sfavore ai maxi processi, erano state dettate anche per evitare questi effetti perversi. È stata la giurisprudenza, prima ancora della ideologia dell’emergenza che ha guidato la mano del legislatore, che nei quarant’anni successivi ha svuotato di contenuto quelle regole permettendo quello che, sempre con il solito linguaggio esoterico, i giuristi definiscono gigantismo dell’accusa nel corso delle indagini. È stata la giurisprudenza a permettere il ricorso ossessivo e troppo prolungato delle intercettazioni, a svuotare di contenuto le norme sui termini delle indagini preliminari, a legittimare il copia ed incolla, a rendere evanescente la distinzione tra indizi e congetture investigative, a consentire la pubblicazione arbitraria delle intercettazioni. È stata la giurisprudenza che ha costruito il super potere delle Procure, mettendo il pm sul piedistallo anche ai danni degli stessi giudicanti. Sarebbero ora di ripristinare il modello del processo accusatorio che mette il giudice al disopra delle parti, pm inclusi, ma per farlo non basta riformare le regole del processo: ci vuole la riforma costituzionale della giustizia per cambiare la cultura della giurisdizione.

Criticò le toghe, esposto contro il legale di Buzzi: «Mi sento condizionato». Mafia Capitale, il clamoroso caso dell’avvocato. Simona Musco su Il Dubbio l'11 Settembre2020. Deferito al Consiglio disciplinare dell’Ordine degli avvocati per aver criticato la Cassazione. Con un tempismo chirurgico: proprio a ridosso del processo d’appello bis per la rideterminazione delle pene, svuotate da quella mafiosità che aveva trasformato il “Mondo di mezzo” in “Mafia Capitale”. L’avvocato in questione è Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo del secolo. Una mafia, quella ipotizzata dalla Procura di Roma, della quale secondo i giudici di Cassazione non c’è traccia, tanto da spingersi in una critica feroce della Corte d’Appello di Roma, l’unica ad averla ravvisata, riformando la sentenza di primo grado, che già l’aveva esclusa. Il “caso” Diddi ruota attorno alla critica mossa dal penalista nel corso del processo d’Appello, quando discutendo delle decisioni della Cassazione in sede cautelare – smentite durante il dibattimento – ha contestato l’ipotesi di un collegamento tra il clan Mancuso e Massimo Carminati, collegamento in realtà mai accertato. «Cosa hanno fatto qua? – aveva detto in aula – Questa sentenza chi l’ha scritta e come è stata scritta?». Frase trovata sconveniente dai giudici della Corte d’Appello, che due anni dopo la sentenza di secondo grado, il 23 giugno scorso, hanno trasmesso, con una nota a firma del presidente della Corte Fabio Massimo Gallo, le trascrizioni di quell’udienza al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma. Una segnalazione inviata a seguito di una nota del presidente della terza Sezione penale, a sua volta sollecitato dai colleghi della Sezione che ha deciso il processo “Mafia Capitale”. Secondo quella segnalazione, «Diddi ha usato espressioni sconvenienti che appaiono travalicare l’oggetto della causa e limiti del diritto di difesa, giungendo ad ipotizzare che la sentenza n. 24535/2015, resa dalla sesta sezione della Corte di Cassazione in fase cautelare, sia stata scritta da altri o dietro suggerimento». Una violazione, continua Gallo, dell’articolo 3 del nuovo ordinamento della professione forense, che impone espressamente di «evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi». «Quella sentenza della Cassazione era l’unico argomento portato in aula dalla Procura generale – spiega Diddi al 11 – e contiene un clamoroso falso storico. Mi chiedo ancora oggi come abbiano potuto scriverlo. Dicono le mie siano parole sconvenienti, ma io le direi allo stesso modo anche adesso: vorrei sapere la Cassazione, che deve emettere giudizi di legittimità e non di merito, dove ha trovato scritta questa roba, perché non c’è da nessuna parte. Tant’è che successivamente, nell’annullare il giudizio d’appello, la stessa Cassazione dice che quella sentenza conteneva dei fatti oggettivamente rimasti privi di riscontro». Il tempismo, a distanza di due anni, continua l’avvocato di Buzzi, «è ancora più inquietante, perché arriva alla vigilia del processo d’appello bis per rideterminare le pene per Buzzi e Carminati. Non dico cosa penso di questa iniziativa – continua -, perché dovrei usare parole davvero sconvenienti, ma l’effetto è che mi sento profondamente condizionato. Penso sia una cosa di una gravità inaudita, un fatto mai verificatosi prima». Per Diddi, dunque, si tratta di una «gravissima violazione del diritto di difesa», al punto di aver ricevuto solidarietà anche da parte di alcuni magistrati. Il penalista ha già presentato memoria difensiva al Consiglio dell’ordine, inoltrando tutto anche alla Camera penale. «Credo che la censura che mi è stata mossa, senza minimamente prendere in considerazione il clamoroso falso storico (riconosciuto dalla sentenza del 22 ottobre 2019) che ho messo in luce nel corso della mia discussione – conclude Diddi -, rappresenti un vulnus alla libertà di pensiero ed all’inviolabilità del diritto di difesa che, penso, dovrebbe essere difeso ad oltranza da parte della nostra categoria. Ho sempre cercato di combattere da solo le mie battaglie, ma questa volta credo che la Camera Penale debba intervenire per stigmatizzare una iniziativa che, a mio parere, costituisce una grave interferenza nella libertà di espressione ed un tentativo di condizionamento della nostra delicata funzione».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 7 dicembre 2020. L'archiviazione del segretario del Pd Nicola Zingaretti è tornata d' attualità l'1 dicembre scorso quando il sostituto procuratore generale della Corte d' appello di Roma, Pietro Catalani, durante la sua requisitoria, ha ridiscusso la vicenda della turbativa d' asta per la gara regionale del Centro unico di prenotazione del 2014, un affare che oscillava tra i 60 e i 90 milioni di euro. La Cassazione aveva chiesto un nuovo esame perché la condanna di secondo grado per i sette imputati rimasti nel procedimento (13 hanno concordato la pena) non era stata ritenuta sufficientemente motivata, soprattutto dopo l' archiviazione di Zingaretti, della maggioranza dei commissari (due su tre) e l' assoluzione dell' ex capo di gabinetto del governatore, Maurizio Venafro. I giudici supremi hanno chiesto: come è possibile turbare un' asta se la maggioranza della commissione non è coinvolta? Il sostituto Pg ha parlato per più di due ore, e i convitati di pietra, è stato chiaro a tutti, erano Zingaretti e i referenti politici della sinistra. Scrive Catalani: «Le condotte già riferite a quelle che di seguito si illustrano significano con sufficiente chiarezza che la gara Cup fosse predeterminata nei suoi risultati dalla politica sin dall' origine». Da tutta la politica: tre lotti dovevano andare alla maggioranza e uno alla minoranza. Alla fine però è finito alla sbarra soltanto il rappresentante dell' opposizione Luca Gramazio, ex consigliere regionale di Forza Italia, e non i garanti dell' accordo dentro al centro-sinistra. Però il presidente della coop «29 giugno», Salvatore Buzzi, il principale imputato dell' inchiesta, con le sue intercettazioni aveva chiamato in causa tutti, soprattutto i referenti della sua parte politica, il Pd. Quanto alla commissione di gara, era composta da tre membri, due considerati in quota maggioranza (Elisabetta Longo e Rita Caputo) e uno in quota minoranza (Angelo Scozzafava). Anche in questo caso è stato portato a giudizio soltanto Scozzafava e non gli altri due membri, indagati e poi archiviati. In particolare vanno ricordate le motivazioni, sino a oggi inedite, con cui il gip Flavia Costantini il 6 febbraio 2017 ha archiviato Zingaretti per la vicenda del Cup. In quel filone il segretario del Pd era indagato insieme con uno dei tre commissari della gara, la Longo. Scrive la gip: «Non risultano acquisiti riscontri in ordine alla posizione di Zingaretti e le dichiarazioni di Buzzi sono de relato. La Longo risulta aver agito su indicazione di Venafro (Maurizio, capo di gabinetto di Zingaretti, non intercettato nella fase calda delle indagini, ma solo dopo gli arresti del 2014, ndr), seppure all' interno di discutibili prassi dell' amministrazione regionale, e ciò rende inidonei gli elementi acquisiti a sostenere l' accusa in giudizio». Nel 2014 Zingaretti decise di svolgere la nuova gara per il Cup, servizio che sino ad allora era stato svolto dalla cooperativa Capodarco di Maurizio Marotta (imputato a piede libero) che aveva mantenuto «una sorta di monopolio nel campo della sanità» con giunte di orientamento politico diverso. A detta di Buzzi, quella gara, come riportato anche nella memoria depositata da Catalani e in due sentenze, era «una turbativa della turbativa», in quanto il ras della «29 giugno» si era «inserito a turbare una gara già interamente predeterminata in favore del gruppo Marotta». Decide di concorrere anche se non aveva mai operato nel settore. Tanto che nelle conversazioni «non si affrontano temi tecnici, né si illustrano difficoltà nell' ottenere un appalto del tutto estraneo a quelli di cui si erano occupati sino ad allora [] si sottolinea solo la necessità di ottenere politicamente una quota». Catalani ritiene che sia «da sottolineare la frase di Carlo Guarany (ex vicepresidente della "29 giugno", ha già patteggiato la pena, ndr) "ma l' ha nascosta Zingaretti?» a cui segue "lo sapevo fa sempre così"». Per il magistrato questo «è un punto centrale per ritenere come la gara non fosse orientata verso una verifica effettiva delle offerte migliori, ma diretta da interessi politici di lottizzazione». Due lotti della maggioranza erano destinati a Marotta e uno alla Manutencoop. Quindi Buzzi si reca da Gramazio per avere quello riservato all' opposizione. Catalani, su questo tema, parla di «frasi assai significative che vale la pena di riportare per intero». Ed eccole queste parole: «Allora lui (Gramazio)» dice Buzzi, «è andato da Venafro, perché 'sta partita la gestisce Venafro per conto de Zingaretti e ha detto che vuole lo spazio. Venafro gli ha detto: "Ah, non lo so se c' è (lo spazio). E lui ha detto: "Guarda io lo voglio lo spazio. E poi, siccome vuole essere sicuro che lo spazio ci sia [] indica come membro della commissione Scozzafava (Angelo, ndr)». Secondo il sostituto Pg «questo punto è assai rilevante perché in poche frasi riassume come Buzzi già sapesse che Gramazio aveva raggiunto un accordo politico con Venafro (capo di gabinetto di Zingaretti) per fare aggiudicare un lotto all' opposizione (area di destra), chiedendo e ottenendo, a garanzia di questo accordo, la nomina di Scozzafava, quale componente della commissione aggiudicatrice». In effetti dopo la consegna delle offerte, nel mese di luglio 2014, viene nominata la commissione di gara e Scozzafava che non ne faceva parte, viene scelto al posto di Ileana Fusco, un paio di settimane prima che questa venisse ritenuta incompatibile. Il 15 settembre 2014 Buzzi viene a sapere che il lotto da assegnare a Manutencoop, a seguito di errori documentali, non poteva essere aggiudicato e pertanto lo stesso Buzzi si reca da Giuseppe Cionci, uomo di fiducia di Zingaretti, per chiedere di entrare al posto di Manutencoop. Il 17 settembre 2014, nell' ennesima intercettazione riportata da Catalani, Buzzi parla con Emilio Gammuto, altro socio della 29 giugno condannato in Mafia capitale e gli dice: «Allora, quando l' altra sera siamo andati a cena, che c' erano questi della commissione, mi hanno detto: "Guarda che questi hanno sbagliato, quindi non possiamo fargli vincere il lotto [] quindi se ne libera uno". Gli ho detto: "Che faccio? Vado da Gramazio?". "No, questo non è quello di Gramazio, devi anda' da Zingaretti" e ieri se semo fatti il giro al contrario, siamo andati dall' uomo da Forlenza ieri (Salvatore, responsabile per il Lazio del Consorzio nazionale servizi - Cns - di Legacoop, ndr), che è andato dall' uomo dei conti di Zingaretti (Cionci, secondo la versione di Buzzi, ndr) dicendo: "C' è 'sta situazione, Manutencoop non può vincere, ci proponiamo noi, va bene?" E mi ha risposto: "Va bene". Mo' se tutto va bene, pigliamo il secondo e il quarto». Ma la presunta promessa non viene mantenuta e Buzzi incassa solo il lotto dell' opposizione, quello di Gramazio. In ogni caso per Catalani «deve essere sottolineato l' incontro con l' uomo dei conti di Zingaretti» e cita anche altre captazioni da cui si desume «la necessità della "politica" per ottenere l' appalto». Nel suo interrogatorio sul Cup ascoltabile su Radio radicale Buzzi ha evidenziato come la commissione aggiudicatrice, tra il 17 e 18 settembre, fosse andata velocemente assegnando tre lotti su quattro, mentre il 19 avesse sospeso i lavori per dieci giorni in attesa che si decidesse a chi dovesse andare il terzo lotto della maggioranza, finito poi a Marotta. Catalani arriva a conclusioni pesantissime: «Il compendio probatorio contro gli imputati consiste in due confessioni, nelle intercettazioni che le confermano, in dati obiettivi quale l' aggiudicazione del lotto tre, la nomina di Scozzafava, i favori remunerativi a costui e a Gramazio. Contro questa visione milita l' archiviazione di Zingaretti e l' annullamento senza rinvio nei confronti di Venafro». Decisioni che sembrano non convincere il rappresentante dell' accusa: «Il fatto che gli aspetti più inquietanti del rapporto con la politica riguardavano Forlenza e, per il legame con Zingaretti, Cionci inducono a ritenere che non esista un giudicato definitivo che escluda la sussistenza di un accordo illecito tra politica e imputati».

Da "liberoquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Il tornado Salvatore Buzzi si abbatte su La7, travolge Corrado Formigli e segna il trionfo di Massimo Giletti. Lo sfogo che il protagonista di Mafia Capitale affida alla penna di Salvatore Merlo per il Foglio è clamoroso. "M'aveva chiamato Formigli, e me voleva da' 500 euro per la trasmissione sua. Gli ho detto di andarsene a fanculo. E ora vado da Giletti, domenica alle 22.30. Sempre su La7. Gratis". Formigli aveva detto di aver rifiutato di ospitare Buzzi a Piazzapulita  in quanto "voleva essere pagato profumatamente". Versione diametralmente opposta quella dei diretto interessato. "Giletti mi avrebbe dovuto pagare. Ma poiché ho rifiutato Formigli, e Formigli s'è incazzato, non mi paga più. Ma io ci vado lo stesso da Giletti. Per fare un'opera di verità. E anche per fare un dispetto a Formigli". "A Formigli avevo detto: 'Io ce vengo da te. Però me dovete pagare, perché io non c'ho più una lira. Sei tu che mi hai invitato. E se mi hai invitato vuol dire che pensi che ti sale lo share", spiega Buzzi al Foglio. "Gli ho detto proprio così a Formigli. Te lo giuro: 'A Formigli, non è che tu scopi e io lo prendo solo in culo. O scopiamo in due o lo pigliamo in culo in due'". A quel punto Formigli gli avrebbe formulato l'offerta: 500 euro. "Ci ho pensato tutta la notte. E poi gli ho detto: ma annate a quel paese, per 500 euro me ne sto a casa mia". Lui voleva duemila euro, "una miseria. E Formigli fa il moralista dall'alto dei suoi quattrocentomila euro d'ingaggio dicendo che volevo essere pagato "profumatamente". Duemila euro gli aveva chiesto. Duemila. Nun me fate parla'". A questo punto, via libera a Non è l'arena "perché Giletti è un uomo libero. Uno che se La7 gli rompe le scatole prende e se ne va a Mediaset. Non è uno legato a catena come Formigli. Non so se me stai a capi'. E poi io con Giletti ci ho parlato. Giletti mi ha corteggiato. Quando te scopi una donna prima la devi corteggia'. Ecco un'altra metafora mia: 'Prima di inculrmi baciami sul collo, che fai mi inculi a freddo?'. Giletti mi ha convinto". Ora palla ai telespettatori.

Salvatore Buzzi a Non è l'Arena: "All'epoca di Marino tutti ci chiedevano favori, tutti". "Quella ragazza era l'amante?" Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. "Tutti ci chiedevano qualcosa". Salvatore Buzzi, ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, dice la sua verità su Mafia Capitale e imbarazza il Pd, come temuto da molti a sinistra all'annuncio dello scoop di La7. L'ex ras delle cooperative romane spiega cosa accadeva nel 2014, con sindaco Ignazio Marino dopo l'esperienza di Gianni Elemanno: "Ci chiedevano favori? Nell'epoca Marino, il consiglio comunale era pessimo: tutti ci chiedevano qualcosa, in consiglio comunale, tutti!". "Tipo?", chiede Giletti. "Per esempio, assumere una ragazza". "Un'amante?", suggerisce il padrone di casa: "Questo non lo so, diciamo una ragazza...". Così andavano le cose all'epoca del sindaco "marziano", fatto cadere peraltro in maniera ben poco trasparente sull'onda di scandali mediatici e interni al Pd.

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per "il Foglio" - da "Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell'Arti" il 12/10/2020. Buzzi (Mafia capitale) va in televisione a pagamento, 2.000 euro da Discovery, poi ne ha rifiutati 500 da Formigli. Da Giletti però è andato gratis. «Ma come fa Giletti a ottenere gratis quello che Formigli non è riuscito ad avere per 500 euro? Perché Giletti è un uomo libero. È uno che se La7 gli rompe le scatole prende e se ne va a Mediaset.  Non è uno legato a catena come Formigli. Non so se me stai a capi’. E poi io con Giletti ci ho parlato. Giletti mi ha corteggiato. Quando te scopi una donna prima la devi corteggia’. Ecco un’altra metafora mia: “Prima di incularmi baciami sul collo, che fai mi inculi a freddo?”. Giletti mi ha convinto».

Da huffingtonpost.it il 12/10/2020. “Se non avessi fatto la gara con Massimo Carminati avrei perso l’appalto. Carminati nel 2011 era una persona rispettabilissima con conoscenze importanti. Io con Carminati sono andato a pranzo insieme a molti politici mai con criminali”. Lo ha detto Salvatore Buzzi intervenendo a ’Non è l’Arenà su La7. “Ho conosciuto Carminati tramite Riccardo Mancini, ad di Eur Spa dove dal 2000 la ’29 giugno’ faceva la manutenzione. Lui era l’unico non ostile alla nostra cooperativa - aggiunge - Mi viene presentato Carminati, che nel 2011 era una persona che aveva finito di scontare una pena per furto, me lo presentano come una persona inserita che voleva lavorare. Con lui abbiamo gestito due affari, all’Eur e al campo nomadi”.

Da liberoquotidiano.it il 12/10/2020. "Già avevo dei dubbi, dopo questa sera si sono moltiplicati". Massimo Giletti, a Non è l'Arena, gela le speranze di chi nel centrodestra lo vorrebbe candidare a sindaco di Roma nel 2021. La puntata è in gran parte dedicata allo scandalo Mafia Capitale, con lo scoop dell'ospitata a Salvatore Buzzi, condannato a 18 anni in appello per corruzione. In studio c'è anche Alfonso Sabella, magistrato ed ex assessore nella giunta di Virginia Raggi, che accusa: "A Roma c'erano più organizzazioni che hanno piegato gli interessi pubblici ad interessi privati. I funzionari spesso sono corrotti, o incapaci". Una giungla di malaffare che impressiona, al di là di processi e sentenze. L'avvocato di Buzzi, ex re delle cooperative romane, a questo punto pungola Giletti: "E lei vorrebbe fare il sindaco...". Giletti sorride amaro, aspetta qualche secondo, poi lascia intendere che al momento è "più no che sì". Matteo Salvini e Giorgia Meloni riusciranno a fargli cambiare idea?

Da liberoquotidiano.it il 12/10/2020. "Tutti ci chiedevano qualcosa". Salvatore Buzzi, ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, dice la sua verità su Mafia Capitale e imbarazza il Pd, come temuto da molti a sinistra all'annuncio dello scoop di La7. L'ex ras delle cooperative romane spiega cosa accadeva nel 2014, con sindaco Ignazio Marino dopo l'esperienza di Gianni Alemanno: "Ci chiedevano favori? Nell'epoca Marino, il consiglio comunale era pessimo: tutti ci chiedevano qualcosa, in consiglio comunale, tutti!". "Tipo?", chiede Giletti. "Per esempio, assumere una ragazza". "Un'amante?", suggerisce il padrone di casa: "Questo non lo so, diciamo una ragazza...". Così andavano le cose all'epoca del sindaco "marziano", fatto cadere peraltro in maniera ben poco trasparente sull'onda di scandali mediatici e interni al Pd.

 Cooperativa "29 giugno". Antimafia Capitale, così hanno regalato 3 milioni ai commissari per distruggere la mia azienda. Salvatore Buzzi su Il Riformista il 17 Ottobre 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la nona di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Quella fredda mattina dei primi di dicembre 2014 non sono stato arrestato solo io quale “capo della mafia” nella capitale del mondo, è stato arrestato anche un progetto di inclusione sociale che aveva tolto dalle strade e dalle carceri di Roma quasi duemila disgraziati, ex ladri e rapinatori, tossicodipendenti, immigrati e altri emarginati dalla vita economica e sociale. Non credo sia mai successo. Nello stesso giorno, si arrestano i capi della mafia e si sequestrano cinque cooperative sociali. Tutto mi appare irreale e ancora oggi non riesco a comprendere come la Procura della Repubblica possa aver creato un teorema così strampalato che ha distrutto la vita mia e quella di centinaia di famiglie a cui avevo dato un lavoro e l’occasione di un riscatto sociale. La Cooperativa “29 giugno” era nata nel 1985 nel carcere di Rebibbia e si era subito affermata come una impresa tra le più solide a Roma e nel Lazio che occupava 1.276 persone con quattordici mensilità oltre alle due aggiuntive distribuite dalla cooperativa grazie agli utili. Oltre ai soci lavoratori vi erano anche i soci sovventori che avevano investito i loro risparmi in cooperativa con una remunerazione del capitale sociale più vantaggiosa dei titoli di stato, garantita da un patrimonio reale di oltre 30 milioni. Le commesse di lavoro erano 110, i mezzi impiegati per eseguirle oltre 250 con una sede centrale e varie sedi distaccate dove operava personale altamente qualificato. Tanto per intenderci: le commesse di lavoro in partecipazione con Massimo Carminati – il “mostro da prima pagina” che con la sua “riserva di violenza” avrebbe connotato di mafiosità la cooperativa sociale e la stessa capitale d’Italia – erano solo 2 su 110, rispetto alle quali la Procura non ha riscontrato reati. Dopo il sequestro più veloce della storia, il Presidente del Tribunale delle misure di prevenzione di Roma, Guglielmo Muntoni, nomina tre amministratori giudiziari. Ero detenuto nel carcere di Tolmezzo quando apprendo di una gestione disastrosa delle cooperative, della riconsegna ai soci nel marzo 2018 in condizioni economiche pessime che hanno determinato lo stato di liquidazione nel 2019 per le eccessive passività accumulate durante la gestione commissariale. A giugno 2020, in coincidenza col mio ritorno in libertà dopo la sentenza della Cassazione che ha buttato giù il castello di carta dell’associazione di stampo mafioso, mi è stato notificato dal Tribunale delle misure di prevenzione il rendiconto di gestione delle cooperative. Lo riporto per sommi capi e senza commenti. È la cronistoria dei danni che si possono arrecare nel nome della lotta alla mafia. I tre amministratori giudiziari nominati da Muntoni sono avviati commercialisti con studio in Roma. I loro compensi sono a me tuttora ignoti. Li posso però immaginare se considero che i tre commissari si fanno subito autorizzare dal Tribunale l’assunzione di otto coadiutori – che altri non sono che impiegati dei loro studi professionali – al costo di 67.200 euro a testa. Inoltre, sono autorizzati ad assumere molti consulenti con un compenso mensile dai 1.500 ai 2.000 euro a presidio delle tante società partecipate dalla Cooperativa. Vengono assunti come dirigenti altre cinque persone. Viene nominato un nuovo commercialista e un nuovo consulente del personale, senza indicazione dei compensi. Ancora, pochi giorni dopo, viene conferito incarico ad altri due commercialisti per analizzare e verificare la organizzazione delle società sequestrate. Compenso non pervenuto. Siccome – come è emerso anche dalle cronache siciliane del sistema Saguto – dei collaboratori nella gestione di imprese a rischio di infiltrazione mafiosa bisogna fidarsi, ecco la richiesta, subito accolta da Muntoni, di essere autorizzati ad assumere “familiari e conviventi dei preposti”. Non servono solo commercialisti, all’inizio del 2015, gli amministratori giudiziari si fanno autorizzare l’assunzione di legali. Anche qui compensi non pervenuti. I nuovi amministratori cambiano quasi tutti i vecchi fornitori, senza liquidarli e dando incarico ad altri senza indicare il vantaggio economico ottenuto. Nel contempo sono chiusi alcuni centri di accoglienza e iniziano costosi lavori di ristrutturazione nella sede. Tutti noi arrestati siamo stati sospesi e non licenziati, in tal modo impedendoci di accedere alla indennità mensile di disoccupazione in danno delle nostre famiglie. Invece, a luglio 2015, a quattro alti dirigenti sono aumentati i compensi. Aumenti non pervenuti. A fine anno, nonostante questa infornata di dirigenti, i tre amministratori giudiziari assumono un direttore operativo a cui viene corrisposto un compenso annuo di 50.000 euro. Ad inizio 2016, viene cambiato il consiglio d’amministrazione della ABC che si occupava di servizi alle persone. Dei tre massimi operativi del nuovo gruppo dirigente non conosciamo i compensi. Vengono nominati ancora altri tre consulenti. Compensi non pervenuti. Ho letto i curricula dei tre massimi dirigenti e principali responsabili di questo disastro e ho scoperto che sono senza traccia di incarichi operativi nel campo dei servizi. I nodi della gestione giudiziaria cominciano ad arrivare al pettine. Nel maggio 2017, viene sciolta l’ATI Sial – Eriches, la prima proprietaria del terreno sul quale insiste parte del campo nomadi Castel Romano. Non sappiamo se siano stati incassati i relativi canoni di locazione. Sempre nel corso del 2017 i bilanci delle cooperative chiudono con una significativa riduzione del volume di affari e con perdite ingenti. Il fatturato complessivo delle cinque cooperative, pari a 46 milioni di euro al dicembre 2017, ha una perdita di quasi 15 milioni di euro: è il 31% del fatturato con una punta significativa per Formula Sociale che ha una perdita dell’86%. La Cooperativa “29 giugno” e imprese collegate partecipano alla nuova gara indetta da AMA per la raccolta differenziata effettuando un ribasso del 25%, così perdono in media un milione di euro al mese, tanto che per contenere la perdita gli amministratori giudiziari modificano il contratto di lavoro degli operatori passando da una retribuzione di 1.400 a 900 euro al mese. Nel gennaio 2019, quando già le cooperative sono in agonia e stanno per essere poste in liquidazione, il Tribunale delle misure di prevenzione riconosce ai tre amministratori giudiziari un compenso di un milione di euro cadauno a titolo di acconto del compenso reale che ancora non sappiamo a quanto ammonta, come pure non conosciamo le retribuzioni dei tre massimi dirigenti. Dopo un disastro di questa natura, i soci lavoratori che fine hanno fatto? La gran parte è rimasta precaria, assunta in altre aziende e degradata nelle mansioni. Altra parte, la più significativa, è rimasta senza lavoro e con minime indennità di disoccupazione. Solo una piccola parte, in prevalenza impiegati degli uffici, ha trovato la strada di una ricollocazione. Questa è la fine della storia della Cooperativa “29 giugno”, l’impresa della “mafia” che dava lavoro ai disgraziati di Roma e che doveva essere salvata dall’antimafia che quei derelitti ha ributtato in mezzo a una strada. È una storia comune a centinaia di imprese affidate all’amministrazione giudiziaria. Una storia di fallimenti e di danni che gli “onesti”, nel nome della lotta ai “disonesti”, arrecano alla vita, alla libertà e al lavoro delle persone e delle imprese. Sono i “costi della legalità”, così vengono definiti, i danni collaterali della “guerra alla mafia”, nella quale – come in tutte le guerre – va messa nel conto la strage di diritti, di beni e persone innocenti. Dopo aver letto le prime carte a disposizione, credo ci sia lo spazio, con il patrocinio di Nessuno tocchi Caino, per una concreta azione di responsabilità e invito gli ex soci della cooperativa che hanno perso il lavoro e la retribuzione, il capitale sociale e la liquidazione, per non parlare della dignità, ad associarsi in questa azione risarcitoria. Non serve più indignarsi. È arrivato il tempo di agire legalmente. Se non ora, quando?

Roma, la versione di Buzzi e il peccato Capitale di abituarsi al peggio. A "Non è l'arena" l'imputato ha posato a capro espiatorio, raccontando Mafia capitale come una faccenda da quattro soldi, e Massimo Carminati come un semplice "promoter". Ma è arrivato il momento di dare alle cose il proprio nome. E ai singoli le loro responsabilità. Carlo Bonini il 12 ottobre 2020 su La Repubblica. Neanche fosse una maledizione da cui è impossibile affrancarsi, Roma assiste all'ultima capriola che, nel riscrivere una pagina di storia recente della città, dovrebbe fare da viatico all'inizio della lunga campagna elettorale per la scelta del nuovo sindaco. Parliamo di "Mafia Capitale", del ritorno sulla scena di Salvatore Buzzi (imputato oggi in libertà in attesa che un nuovo processo ridetermini la pena cui è stato condannato in primo, 19 anni, e secondo grado, 18 anni e 4 mesi, per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), della ineffabile banalizzazione di ciò che quel processo ha documentato, della lezione che se ne sarebbe potuto e dovuto trarne. Ancora domenica sera, ospite di "Non è l'Arena" di Massimo Giletti, Buzzi ha posato a capro espiatorio raccontando una storiella che, all'osso, suona così. Quella di "Mafia Capitale" è una faccenda da quattro soldi in cui un campione della cooperazione sociale, cresciuto politicamente a sinistra (Buzzi) e con alle spalle una storia di ravvedimento e reinserimento sociale (una condanna per omicidio in giovane età), scopre, negli anni della giunta Alemanno, e quindi nella breve stagione di quella Marino, le virtù di "promoter" (testuale) di un signore di mezza età con "qualche precedente per furto", che di nome fa Massimo Carminati. Capace di farlo pesare di più nei rapporti con la corrotta pubblica amministrazione capitolina e di fargli avere il "dovuto" nella riscossione di crediti legittimamente vantati per appalti di beni e servizi. Altro dunque che mafia, altro che banditi, altro che corrotti e corruttori. Semplicemente, la triste storia di un uomo costretto ad arrangiarsi in una città irredimibile dove "così fan tutti". Dove "una mano lava l'altra". Dove "a chi tocca nun se ingrugna". Dove "la mucca va fatta magna'" per poterla mungere. Una giungla abitata da "forchettoni" dove tutti chiedono grano e favori, dall'ultimo rapace funzionario di Municipio all'ultimo consigliere comunale. E dove le minacce proferite nel tempo al telefono con i diversi "clientes" dal "promoter" Carminati che amava definirsi "il Re di Roma" e catturate dalle cimici dei carabinieri, sono in fondo solo la voce dal sen fuggita di "una banda di cazzari". A ben vedere, è la riproposizione del canovaccio con cui, nel 2014, l'allora avvocato Giosué Naso, allora legale di Carminati (prima che i rapporti tra i due si rompessero platealmente, con l'accusa mossa dal secondo al primo, di aver immaginato una strategia difensiva che lo avrebbe fatto "marcire in carcere") definì Mafia capitale "un processetto". E che oggi convince l'avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi, a posare come "vincitore" di una vicenda processuale in cui il suo assistito, pur avendo visto cadere l'accusa di mafia, incassa sin qui una condanna definitiva per associazione a delinquere e corruzione e due condanne da 19 e 18 anni. E' uno spettacolo di fronte al quale si potrebbe fare spallucce. Da archiviare, dunque, con la stessa dose di cinismo e banalizzazione che lo ispira. Magari pensando che in fondo, come in ogni recita a soggetto, ognuno si attiene ad un copione (basterebbe, per dire, confrontare il "riduzionismo" su Mafia Capitale dell'avvocato Diddi con l'affilato approccio "inquisitorio" con cui, nella sua veste di procuratore aggiunto di giustizia vaticano, sta conducendo l'inchiesta sul cardinale Becciu e le malversazioni nella gestione della cassa della Segreteria di Stato Vaticana). Ma forse non è una buona idea. E non per accanimento personale nei confronti di Salvatore Buzzi (che pagherà con la giustizia italiana il conto che un tribunale riterrà congruo), o perché Roma, con la sua condanna, abbia riacquistato la piena agibilità e trasparenza della sua vita pubblica. Ma per il singolare sillogismo con cui lo stesso Buzzi è arrivato a paragonare se stesso a Luca Palamara e la degenerazione correntizia del Csm alle sue riunioni con gli ex nar Massimo Carminati e Riccardo Brugia. Nell'avventurosa equazione di Buzzi si rintraccia infatti quella stessa convinzione - "nella notte tutti i gatti sono grigi" - che è stata il presupposto della catastrofica stagione del populismo in Campidoglio. Sostenere a distanza di sei anni dal 2014, e alla vigilia di una nuova campagna elettorale, che "Mafia capitale" fu solo il sapiente prodotto di una montatura o, peggio, complotto mediatico-giudiziario per caricare la croce di tutti sulle spalle di un povero disgraziato, significa voler continuare nel racconto di questa città indicando il dito e dimenticandosi della luna. Evitando così di dare alle cose il loro nome. E ai singoli le loro responsabilità (quali che esse siano. Politiche o penali). Diciamo che il prezzo che Roma ha pagato consiglierebbe di non ripetere l'errore.

Dagospia il 12 ottobre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ieri sera durante l’intervista di Giletti a Buzzi, “tra le righe” è venuta fuori una notizia-bomba: i Ros dei carabinieri hanno depositato in aula durante il processo Mafia capitale delle intercettazioni telefoniche “mutilate”: la parte tagliata riguardava un “notissimo anchorman televisivo che compra 50 grammi di cocaina a settimana”. Parola dell’avvocato di Buzzi che ha aggiunto “ma noi abbiamo recuperato l’intercettazione originale dove si fa nome e cognome dell’anchorman che i carabinieri hanno stranamente coperto invece di segnalare il nominativo, come prevede la legge, al prefetto e disporre, tra l’altro, il ritiro della patente di guida”. Essendo la trascrizione dell’intercettazione telefonica originale un atto pubblico in mano al legale di Buzzi non sarebbe complicato venirne in possesso e pubblicarla TUTTA! Gli unici che possono farlo siete voi. Aspetto fiducioso, Mario

Giletti sindaco di Roma parla con Buzzi a La7. “Se prima avevo dubbi, ora...” Fabio Carosi per affaritaliani.it il 12 ottobre 2020. Più che un sassolino dalla scarpa, Salvatore Buzzi in versione ospite d'onore, si toglie un sanpietrino. Sbarbato di fresco e con un taglio al mento ancora sanguinante affronta l'ex assessore di Marino, Alfonso Sabella, il giornalista Carlo Bonini e l'avvocato Alessandro Diddi. Si parte dai 5 anni di carcere a Tolmezzo, al confine con la Slovenia dove è stato spedito al momento dell'arresto. E Salvatore Buzzi parla al plurale, è un Noi che sintetizza la sua posizione rispetto ai fatti e alla storia sino all'affermazione di Giletti, “lei ha corrotto” alla quale Buzzi risponde secco: “Io non ho corrotto”. Carlo Bonini traccia un profilo: “Buzzi è stato due cose; il campione delle cooperative sociali ed era portato in palmo di mano dalla sinistra come un esempio luminoso di un uomo che si era riabilitato dopo la condanna per omicidio. Lo stresso uomo appare in una veste diversa non solo per i reati di cui viene accusato ma per il compare Massimo Carminati.” Sulla testa di Buzzi si agita il fantasma di Riccardo Mancini, ex ad di Eur Spa, poi scomparso e Gianni Alemanno sindaco di Roma, nonché della “leggenda nera”, Massimo Carminati. E parte la santificazione del Nero: “Massimo Carminati nel 2001 era una persona rispettabilissima”. Le verità di Buzzi iniziano ad emergere: “Carminati non conosceva Gianni Alemanno; Carminati conosceva Riccardo Mancini”. Il teorema del mondi di mezzo regala una rivelazione persa nella lunga storia processuale. Scorrono le intercettazioni, la madre di tutte le intercettazioni e sia Buzzi che l'avvocato Diddi denunciano il taglio di una registrazione: precisamente nella parte in cui si narra di un anchorman televisivo che aveva bisogno di 50 grammi di cocaina a settimana. E il cui nome sarebbe stato coperto dai carabinieri del Ros, poi diffuso in versione integrale durante il processo. Buzzi narratore parte dagli appalti per il verde di Eur Spa, una gara che la Coop 29 giugno aveva vinto nel 2000 e poi rivinta prima in Ati con una società Australiana e poi con Carminati. Arriva una seconda sentenza e la pronuncia il magistrato ed ex assessore, Alfonso Sabella: “Io non penso che Alemanno sia un delinquente, anzi penso che si sia circondato di persone sbagliate”. E cade con una telefonata in diretta di Gianni Alemanno l'ipotesi che l'ex sindaco abbia avuto rapporti diretti con il Nero Carminati, tant'è che lo stesso avvocato Diddi precisa che agli atti del processo risulta evidente il “disprezzo di Carminati per Gianni Alemanno”. La domanda della staffa la fa l'avvocato Diddi: “Giletti lei vuole fare il sindaco?”. E Giletti risponde a metà: “Avevo già qualche dubbio, poi con quello che... “. Buzzi e Giletti prenotano una seconda puntata. Non prima che Buzzi lanci l'anatema su Ignazio Marino sindaco: “Co' lui era pure peggio - a proposito di richieste favori – c'era tutto il Consiglio Comunale”.

 Francesco Borgonovo per “la Verità” il 13 Ottobre 2020. Salvatore Buzzi, ora che ha cominciato a parlare, non si ferma più. Uno degli uomini simbolo di Mafia Capitale, ora che la parola mafia è stata tolta dall' inchiesta, è in attesa di una nuova sentenza e nel frattempo fa il giro delle sette chiese per far conoscere la sua versione dei fatti. Nei giorni scorsi La Verità ha anticipato alcune sue dichiarazioni, riguardanti soprattutto i rapporti con la giunta romana di centrodestra e poi con il Partito democratico. A quei primi racconti - contenuti in parte in un libro intitolato Se questa è mafia (Mincione editore) - Buzzi ha aggiunto parecchio altro materiale. Domenica sera è intervenuto a Non è l' arena, il programma di Massimo Giletti su La7, dove tornerà presto per mettere ulteriore carne sul fuoco. Ieri mattina, invece, l' ex capo della cooperativa 29 giugno è intervenuto a Rpl (radiorpl.it), facendosi intervistare dal sottoscritto. Nel corso della conversazione, Buzzi ha detto molte cose interessanti, soprattutto riguardo al legame fra la sua storia e il caso Palamara. Abbiamo deciso dunque di riportare vari stralci dell' intervista radiofonica (disponibile integralmente sul sito della radio), integrandoli qui e là con alcuni necessari approfondimenti. «L' inchiesta parte per colpire Alemanno», racconta Buzzi in onda. «Io sono stato soltanto uno strumento. Io sono una vittima perché l' inchiesta nasce per colpire Alemanno. Arrestano il suo braccio destro che era Mancini, il suo braccio sinistro che era Panzironi. Alemanno viene perquisito poi viene arrestato Carminati. Perché per gli inquirenti Carminati era quello che favoriva la cooperativa 29 giugno grazie appunto ai suoi rapporti con Alemanno. Io ho tentato inutilmente di spiegarlo, quando mi hanno arrestato, ma mi dicevano che non ero credibile. Dopo 5 anni però è emerso che avevo ragione io: Alemanno non conosceva Carminati. E mi faccia dire una cosa».

Dica.

«Questa inchiesta giudiziaria nasce da inchieste giornalistiche. Prima escono gli articoli di Lirio Abbate sull' Espresso. Poi esce il libro Suburra, ad aprile 2013».

Suburra è il libro di Carlo Bonini, firma di Repubblica.

«È il libro di Carlo Bonini scritto con Giancarlo De Cataldo, il magistrato. In questo libro, Bonini ad aprile 2013 svela 10 personaggi dell' inchiesta, che sarebbero poi diventati noti nel 2014. È impossibile che sia un caso».

Lei sta dicendo che in quel libro vengono indicati in anticipo i protagonisti dell' inchiesta che la coinvolge?

«Esatto. Perché gli hanno passato le carte. Nel mio libro alle pagine 130-131 elenco i personaggi di Bonini e i corrispondenti reali».

Lei, nel suo libro, scrive: «Suburra per i non addetti ai lavori e appassionati del genere è un romanzo, ma letto da chi ha un minimo di conoscenza delle carte processuali sembrerebbe essere l' anticipazione geniale di un' inchiesta (Mafia Capitale) e la riproduzione servile di un teorema lanciato da l' Espresso [...]. La prima impressione è quella di una diretta conoscenza delle carte processuali dell' inchiesta "Mondo di mezzo" che almeno sino al 2 dicembre 2014 avrebbero dovuto essere coperte dal segreto istruttorio».«Bene. Di fronte a questa clamorosa fuga di notizie c' è mai stata un' inchiesta? No».

Ormai ci siamo abituati al fatto che le carte delle inchieste arrivino alla stampa.

«Ma non è tanto normale che 10 personaggi appaiano in un libro e poi divengano un anno e mezzo dopo protagonisti di una inchiesta, abbia pazienza».

Nel corso dell' intervista radiofonica, Buzzi fa più volte riferimento agli articoli di Giacomo Amadori usciti sulla Verità, invita ripetutamente gli ascoltatori a leggerli. Tra le altre cose, Buzzi rimanda a un passaggio dell' intervista che Luca Palamara ha rilasciato al nostro vicedirettore. Quello in cui Palamara spiega di avere «incontrato parlamentari o ministri insieme con l' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, in occasioni conviviali, come pranzi e cene privati». Nella stessa conversazione, Palamara racconta anche che «in pranzi o cene» lui e Pignatone incontrarono giornalisti, «anche direttori di importanti testate giornalistiche e i loro inviati», e in quelle occasioni si parlò «anche di inchieste in corso».

In quelle cene o pranzi si parlò anche di Mafia Capitale secondo lei?

«Non so se esattamente in quelle cene o quei pranzi o da qualche altra parte. Però mi sembra proprio che ci sia un nesso diretto. Le dico questo: di fare 6 al Superenalotto c' è una possibilità su 622 milioni. Quante possibilità ci sono di individuare esattamente 10 protagonisti di Mafia Capitale? È impossibile. Bonini ci deve dare una spiegazione. Dovremmo anche sapere perché non ci siano state inchieste visto che parliamo di reati gravi...».

[...] Lei ha sempre detto di essere un uomo di sinistra. Dopo tutto quello che è successo, dopo aver visto lo «spettacolo desolante» (così scrive nel suo libro) del Pd, si sente ancora di sinistra?

«Nel mio intimo sono di sinistra. La cooperativa era di sinistra. La differenza tra il mio stipendio e quello di un operaio era di 4 volte. Eravamo comunisti davvero, non per finta».

Quanto guadagnava?

«3.600 euro al mese».

E non si è mai messo in tasca niente...

«No. Anche nella sentenza più ostile nei miei confronti, quella in cui si parla di mafia, viene escluso che ci sia stato arricchimento personale». [...]

Della sinistra politica, dei partiti di sinistra, che cosa pensa?

«Ma chi li vota più, chi li vota più, tutta gentaglia... Guardi io voterò solo partito radicale. E mi pento di non aver mai finanziato il partito radicale».

Si pente di aver fatto le campagne elettorali per il Pd?

«Massì. Gentaccia. A me, uomo di sinistra, mi arrestano con quel teorema sbagliato di Pignatone... Possiamo ammettere che un procuratore possa anche sbagliare? Arrestano Buzzi, arrestano Carminati e parlano della cooperativa di destra... [...] Ma nessuno è andato dal procuratore a dirgli: guarda che questa non è una cooperativa di destra? Perché un procuratore può pure sbagliare».

Quindi lei dice che l' hanno fatta passare per uno di destra per tenere fuori il Pd?

«Esatto. Nel libro scrivo che mi aspettavo una difesa da parte di Legacoop o del Pd o Sel ma non avvenne niente di tutto questo, anzi il segretario del Pd romano, Lionello Cosentino, fu fatto dimettere e al suo posto nominato Matteo Orfini, al fine di estirpare il marcio che c' era nel partito. E dove va Orfini a fare l' assemblea per rigenerare il Pd? Presso la Cae, Città dell' Altra economia a Testaccio, una realtà creata dal mafioso Buzzi e di cui ero ancora formalmente il vicepresidente. In quell' occasione Orfini ringraziò Pignatone per aver liberato Roma dalla mafia. Io lo conoscevo, Orfini».

È anche quello che disse: il Pd non c' entra con Mafia Capitale. In ogni caso ci fu la gara a prendere le distanze da lei.

«Bastava che avessero avuto la schiena dritta e dicessero: guardi, procuratore, questo avrà pure corrotto ma non c' entra niente con Alemanno e Carminati. Il procuratore può sbagliare, ma se poi tutti gli vanno dietro...».

Hanno voluto farla passare per uno di destra per lavarsi la coscienza?

«Guardi, io tra tanti giornalisti apprezzo molto Giacomo Amadori. Andate a rileggere quello che ha scritto Amadori ieri e nei giorni precedenti, sul caso Palamara». [...]

Che cosa pensa della vicenda che coinvolge Palamara?

«Palamara mi è simpaticissimo, lo vorrei conoscere perché mi è proprio simpatico. A lui è successo quello che è accaduto a me. Chi lo conosce, oggi, Palamara? Non lo conosce più nessuno».

A lei è capitato così? Prima tutti la conoscevano e tutti le chiedevano favori, poi sono spariti?

«Certo. Glielo ripeto. Orfini il 4 dicembre va alla città dell' Altra economia creata da me, Buzzi Salvatore. Ero ancora vicepresidente della Cae, e dice ringraziamo Pignatone che ha liberato Roma dalla mafia. Ma come, Orfini, non ti ricordi chi sono io? Chi ti ha finanziato le campagne elettorali? O te lo sei scordato? [...] Orfini è dalemiano, io sono sempre stato nel Pd, dalemiano poi bersaniano. Mi conosceva... Vorrei fare un confronto con Orfini. Ancora mi deve chiudere scusa, intanto perché non c' era la mafia, e poi perché non ero di destra. Però un mio amico mi ha fatto notare che quelli che hanno parlato in mia difesa sono tutti di destra, mentre quelli di sinistra... Tutti afoni. Succede pure questo».

I due casi anticipati dalla stampa. “Mafia Capitale e Palamaragate: fughe di notizie ma nessuna indagine…” l’accusa di Buzzi. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Novembre 2020. «Visto che nessuno in questi anni ha fatto qualcosa, ho deciso di presentare nei prossimi giorni un esposto alla Procura di Perugia per la fuga di notizie riportate nel romanzo Suburra. Alla Procura di Perugia da qualche mese c’è un nuovo procuratore (Raffaele Cantone, ex capo dell’Anac, ndr), spero che abbia voglia finalmente di indagare». Salvatore Buzzi, già numero uno della cooperativa sociale 29 Giugno, assegnataria per anni, spesso dietro il pagamento di tangenti, di un numero imprecisato di appalti da parte del Comune di Roma, è un fiume in piena. Coinvolto nell’inchiesta “Mafia capitale”, dallo scorso giugno è libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare dopo cinque anni e mezzo in carcere.

Salvatore Buzzi, perché ritiene ci sia stata una fuga di notizie?

«Il romanzo Suburra è uscito nella primavera del 2013. È stato scritto da Carlo Bonini (vice direttore di Repubblica, ndr) e da Giancarlo De Cataldo (attuale consigliere della Corte d’Appello di Roma, ndr). Il libro anticipa esattamente l’indagine Mafia capitale che verrà svelata alle fine del 2014».

Non può essere stata una coincidenza?

«Una coincidenza? Vorrei capire come è stato possibile “indovinare” dieci personaggi, nel libro anche se travisati sono riconoscibilissimi, che sono nell’inchiesta Mafia capitale. Un anno e mezzo prima. Massimo Carminati, ad esempio, è il Samurai, c’è la Smart con cui si spostava, la sua villa di Sacrofano, ecc. Già fare sei al Superenalotto è difficilissimo, una probabilità su seicentodue milioni, figuriamoci indovinare dieci personaggi in una città come Roma di oltre quattro milioni di abitanti. Praticamente è impossibile».

Ha mai parlato con Bonini?

«Sì, di recente dopo una puntata di Non è l’Arena, la trasmissione condotta da Massimo Giletti su La7. Gli ho chiesto se mi dava tre o quattro numeri che poi li avrei giocati al lotto».

Battute a parte.

«Bonini mi ha detto che prima di scrivere il libro aveva fatto una inchiesta sugli ambienti neofascisti a Roma. Ma non è così».

Perché?

«La frase relativa alla famosa “teoria del mondo di mezzo”, ad esempio, che è contenuta nel libro e che dà il nome all’inchiesta, venne pronunciata a dicembre del 2012».

Si riferisce all’incontro nel distributore di benzina di corso Francia con Massimo Carminati?

«Sì. All’incontro di Carminati con Riccardo Brugia (un appartenente dell’estrema destra, un ex dei Nuclei armati rivoluzionari, ndr) e Riccardo Guarnera (un imprenditore, ndr)».

Gli autori avranno parlato con loro.

«Io mi sono accertato. Nessuno di loro ha mai parlato con Bonini».

Ci sarà stato presente qualcun altro che non è emerso dalle indagini.

«Sicuro. C’era la microspia del Ros (sorride)».

Lei comunque è prevenuto.

«Ma no. Bonini è bravissimo. Ha anche indovinato l’indagine della Procura di Perugia a carico di Luca Palamara che ha schiantato il Csm facendo saltare la nomina di Marcello Viola a Procuratore di Roma dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone».

Si riferisce all’articolo del 29 maggio dello scorso anno, “Corruzione al Csm”?

«Quel giorno la stessa notizia era anche sul Corriere della Sera in un pezzo firmato da Giovanni Bianconi, un giornalista legato agli ambienti dei Servizi segreti. E non lo dico io. Non voglio querele. Lo dicono tre magistrati: Palamara, Stefano Fava (ex pm a Roma, ndr) e Cesare Sirignano (ex sostituto presso la Dna, ndr). È tutto agli atti del procedimento di Perugia».

I giornalisti per motivi professionali parlano con i magistrati.

«E come no. Infatti Palamara ha sempre detto di avere un ottimo rapporto con Bianconi. Fa pure il suo nome nella cena dell’hotel Champagne (a cui parteciparono i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm, ndr) la sera fra l’8 ed il 9 maggio del 2019. Mi sono letto tutti gli atti. Corrado Cartoni (uno di questi cinque ex consiglieri del Csm, ndr), parlando con Palamara, gli chiede se Bianconi fosse “un suo amico come Cascini (Giuseppe, ex aggiunto a Roma, attuale consigliere al Csm, già esponente di Md, ndr)”. Bianconi aveva parlato qualche settimana prima con Palamara per sapere se era vero che alla Procura di Roma dopo Pignatone volessero “discontinuità”. Cartoni, sentendo questa parola dice: “È la frase che ho usato con Cascini”. Allora interviene Ferri dicendo: “È una frase che non mi è piaciuta”. Palamara, allora, aggiunge: “Chi te l’ha detta?”. Ferri: “Gliela detta Cascini”. E Palamara: “Certo”. Ripeto, ho letto tutti gli atti. So bene come sono andati i fatti».

Insomma, intende dire che c’è un rapporto stretto fra giornalisti e magistrati? Non è una grande novità..

«Ci sono giornalisti funzionali al sistema. Lo stesso giorno che Corriere e Repubblica pubblicavano la notizia dell’indagine a carico di Palamara, Il Fatto Quotidiano e La Verità riportavano il contenuto dell’esposto del pm Fava contro Pignatone. Veda un po’ lei».

Un gioco di specchi…

«È la stampa che orienta la Procura o la Procura che orienta la stampa? Il dato oggettivo è che le fughe di notizie, su cui nessuno ha mai indagato, hanno cambiato il destino della Procura di Roma. Oggi al posto di Michele Prestipino poteva esserci Viola».

 “CON LA MAFIA LAVORAVANO E SENZA MAFIA NON LAVORANO PIÙ”. Dagospia l'8 ottobre 2020. Anticipazione da Discovery. Borgata di Castelverde: cinquemila abitanti e uno stradone dritto, tra palazzine modeste. È in questa periferia romana che vive il protagonista della cosiddetta Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’amico di Massimo Carminati, protagonista dell’intervista esclusiva di Dplay Plus, la piattaforma streaming pay di Discovery Italia, disponibile in esclusiva da venerdi 9 ottobre. Salvatore Buzzi si racconta in un faccia a faccia senza censura con il giornalista Daniele Autieri, un confronto aperto e appassionante in cui gli viene offerta la possibilità di raccontare la propria verità su quel “Mondo di Mezzo” che ha ridisegnato gli scenari dell’illegalità italiana nel XXI secolo e su fatti per anni deflagrati sulle prime pagine dei giornali. Fondatore della cooperativa 29 giugno, una delle più grandi cooperative sociali d’Italia, composta da ex detenuti recuperati e reinseriti nel mondo del lavoro e poi fallita, Buzzi dopo cinque anni di detenzione in regime di massima sicurezza, è ora in attesa della rideterminazione della penadopo che è caduta definitivamente l’accusa di mafia. Figlio di un invalido di guerra e di una maestra, Salvatore Buzzi racconta una vita tutta a sinistra. E di Mafia Capitale dice: “Un’inchiesta gonfiata nel cortocircuito mediatico. Una storia piccola, miserabile”. Secondo lui, un fenomeno prodotto dell’esasperazione mediatica in cui si è consumato il processo, ennesimo sintomo della decadenza della Capitale, la stessa all’origine delle clientele, del caos amministrativo e di quel senso di grottesco che da anni è in sospensione nella vita pubblica capitolina. Una storia che si iscrive alla romanità e a un malcostume divenuto canone, in una città di faccendieri, spacconi, imbroglioni e corrotti. Nella quale Buzzi faceva la parte del leone, entrando negli annali per quella celebre intercettazione in cui spiega che gli immigrati rendono più della droga. La versione di Buzzi (1x50’), con Salvatore Buzzi e il giornalista Daniele Autieri, è una produzione Darallouche per Discovery Italia. Realizzato e prodotto da Stefano Pistolini da un’idea di Luca Ferrari, con la collaborazione di Cristiano Panepuccia, Andrea Leonetti di Vagno e Antonella Liucci. In esclusiva sulla piattaforma streaming pay Dplay Plus, e successivamente sul canale Nove.

La Cassazione conferma la confisca dei beni di Carminati e Buzzi. Valore: 30 milioni di euro. i giudici hanno reso definitiva la richiesta di sequestro dei pm romani nell'ambito dell'inchiesta Mondo di mezzo. Lirio Abbate su L'Espresso il 23 ottobre 2020. La Corte di Cassazione ha confermato la confisca dei beni per Massimo Carminati, capo del suo clan romano e a Salvatore Buzzi, imprenditore delle coop sociali a Roma. Si tratta di un patrimonio del valore complessivo di 30 milioni di euro che era stato sequestrato su richiesta dei pm romani Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini e riguarda fra le altre cose opere d'arte, quadri di pregio, terreni e fabbricati. Il provvedimento di confisca ha riguardato anche gli altri affiliati al clan Carminati, come Riccardo Brugia. Tutto ciò è legato all’inchiesta “mondo di mezzo” a cui lo scorso ottobre gli ermellini hanno tolto l'aggravante mafiosa per i 18 imputati che l'avevano sui 32 che avevano fatto ricorso al Palazzaccio, ma oggi come allora non ci sono ragioni per rallegrarsi. Il quadro di quanto accadeva nell'assegnazione degli appalti dei servizi del welfare capitolino è devastante. Tutto, dalla gestione dei campi nomadi, ai migranti, alla manutenzione del verde, era improntato a un "mercimonio" di pubblici funzionari, imprenditori e politici della Capitale. Una folla di collusi che diceva sì al “sistema” messo in piedi dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi, e dall'ex nar Massimo Carminati. Ci sono volute 379 pagine agli 'ermellini' per 'declassare' l'indagine della procura di Roma dell'era di Giuseppe Pignatone, da inchiesta per mafia a due “semplici” associazione per delinquere. Gregari e comprimari di una Roma in piena decadenza morale e gestionale, non usavano armi e nemmeno l'intimidazione, dice la Cassazione cancellando l'ombra mafiosa. Ma solo il volto ed il nome di Carminati, che di fatto a qualcuno ha fatto paura e si è piegato ai loro voleri. Un metodo ben conosciuto nel meridione, ma difficile da far comprendere ai giudici di merito. Adesso le misure di prevenzione sulla confisca sono state confermate, accogliendo di fatto ciò che nel 2018 aveva scritto il tribunale presieduto da Guglielmo Muntoni e cioè che siamo in presenza di soggetti «pericolosi socialmente e la loro pericolosità, ritenuta di rilevante spessore, ancora oggi ha i caratteri dell'attualità». In primo grado, quando l’aggravante di mafia non è stata riconosciuta dal tribunale di Roma, Carminati e Buzzi sono stati condannati rispettivamente a 20 e a 19 anni, pene che non dovrebbero far sorridere gli imputati. Adesso la loro condanna deve essere rivalutata dalla Corte d'Appello di Roma chiamata a  rideterminare, dopo la sentenza di Cassazione, le pene per 20 imputati coinvolti nel processo Mondo di Mezzo. Lo scorso settembre i giudici della prima sezione hanno aggiornato il procedimento al 3 novembre. Buzzi e Carminati sono nel frattempo stati scarcerati lo scorso giugno per decorrenza dei termini. Al momento sono diverse le proposte di concordato giunte al procuratore generale. In apertura dell'udienza l'avvocato Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi. Oggi Diddi è allo stesso tempo anche il promotore di giustizia del Vaticano, uno dei titolari dell’inchiesta sul cardinale Becciu che ha ordinato anche l’arresto di Cecilia Marogna, la consulente e manager cagliaritana coinvolta nello scandalo vaticano che è costato le dimissioni all’ex numero 2 della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu. Il difensore di Buzzi durante l'udienza in appello per il mondo di mezzo ha reso noto di aver ricevuto un esposto da parte del collegio del primo processo d'Appello per le parole utilizzate durante l'arringa. Per Diddi si tratta di «Un esposto che arriva a due anni di distanza da quell'arringa e che mi è stato notificato a un mese di distanza dal processo d'Appello bis. Una tempistica che lascia senza parole. E ho chiesto al Consiglio di disciplina dell'ordine che la mia pratica venga trattata il primo possibile, voglio essere giudicato il prima possibile».

Mondo di mezzo, l’ex sindaco di Roma Alemanno condannato a 6 anni: “Sono un corrotto senza corruttore”. Redazione su Il Riformista il 23 Ottobre 2020. L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è stato condannato a sei anni di reclusione nell’ambito dell’inchiesta che lo vede coinvolto in uno dei filoni dell’indagine sul ‘Mondo di mezzo’. Alemanno si è visto quindi confermare in Appello la condanna avuto in primo grado il 25 febbraio 2019 per corruzione e finanziamento illecito. Il procuratore generale Pietro Catalani nel corso del processo di Appello aveva chiesto una condanna minore, a 3 anni e mezzo. Stando all’accusa Alemanno, tra il 2012 e il 2014, tramite l’ex amministratore delegato di Ama (azienda rifiuti di Roma) Franco Panzironi avrebbe ricevuto, attraverso la fondazione Nuova Italia, oltre 223mila euro per compiere atti contrari ai doveri di ufficio. Soldi che per la Procura erano arrivati da Salvatore Buzzi in accordo con Massimo Carminati. L’ex sindaco della Capitale, difeso dagli avvocati Pietro Pomanti e Filippo Dinacci, ha definito “sconcertante” la sentenza di condanna in Appello che “pur di condannarmi smentisce una decisione della Cassazione secondo cui i miei coimputati sono stati riconosciuti colpevoli di traffico di influenza”. “A questo punto io sono un corrotto senza corruttore, evidentemente mi sono corrotto da solo. Proclamo la mia innocenza come ho fatto sin dal primo giorno. Ricorrerò in Cassazione”, ha concluso Alemanno, che era presente in aula alla lettura del dispositivo della sentenza. In aula l’avvocato Pomanti ha ricordato che “non c’è traccia di alcun pagamento, accredito, linea di finanziamento, che possa ricondurre ad Alemanno con nessuno dei soggetti citati negli atti”. “La sentenza della Cassazione, per il filone principale di ‘Mondo di mezzo’ – ha continuato il legale – ha non solo reso definitive una serie di assoluzioni sul caso che ci riguarda, ma ha anche chiarito che di alcune accuse ad Alemanno non si deve più parlare”.

La Corte d’Appello sfida la Cassazione e condanna Gianni Alemanno a 6 anni. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Gianni Alemanno si sarebbe corrotto da solo. La corte d’appello di Roma ha confermato ieri pomeriggio la sentenza di condanna di primo grado, emessa a febbraio dello scorso anno, a sei anni di reclusione nei confronti dell’ex sindaco di Roma. Alemanno è stato ritenuto responsabile di corruzione e finanziamento illecito nonostante la Cassazione avesse condannato, in via definitiva, i suoi originari coimputati per traffico d’influenza. Il sostituto procuratore generale Pietro Catalani aveva chiesto una condanna a 3 anni. Il procedimento in questione è uno dei filoni della celeberrima inchiesta “Mafia capitale”, condotta dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. La posizione di Alemanno era stata inizialmente stralciata. Caduta l’accusa di associazione mafiosa, era rimasta quella di corruzione. L’ex sindaco di Roma, in particolare, avrebbe percepito da Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” soldi ed erogazioni per la fondazione “Nuova Italia”, da lui presieduta, per circa 300 mila euro. Buzzi, che agiva in concorso con l’ex nar (la banda armata neofascista) Massimo Carminati, avrebbe pagato per far nominare dirigenti apicali in Ama, la municipalizzata del Comune di Roma che si occupa dello smaltimento dei rifiuti, per pilotare l’appalto per l’organico indetto dalla stessa municipalizzata (in favore delle coop della galassia Buzzi, ndr) e per far sbloccare alcuni crediti che vantava con la pubblica amministrazione, la stessa Ama ed Eur spa. I giudici della II sezione penale del Tribunale di Roma avevano disposto nei confronti di Alemanno anche la confisca pari all’importo della presunta corruzione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Era stata fissata anche una provvisionale di 50mila euro sia per Ama che per il Comune di Roma. Una condanna molta dura anche in assenza del corruttore. Buzzi, infatti, aveva sempre smentito di aver dato soldi all’ex sindaco. “In tutta la mia vita avrà visto Alemanno quattro o cinque volte”, aveva detto Buzzi, sottolineando di aver “sempre e solo dato tangenti a Franco Panzironi”, l’allora potente amministratore delegato di Ama. All’epoca le cooperative di Buzzi avevano un contenzioso aperto, per mancati pagamenti, con il Comune di Roma per la gestione del verde. Il Campidoglio esternalizzava le attività di manutenzione e potatura delle piante alla cooperative sociali, fra cui quelle di Buzzi. Gli affidamenti venivano dati da Panzironi fin dal 2009. “Una delle volte che avevo portato i soldi a Panzironi gli chiesi espressamente se fossero per Alemanno. Volevo essere sicuro”, puntualizzò Buzzi. Il motivo della richiesta di Buzzi era semplice: “ Se i soldi erano per Alemanno per quale motivo il Comune di Roma non sbloccava i pagamenti per le mie cooperative?” “Panzironi mi giuro sulle figlie che i soldi non andavano ad Alemanno ma erano per lui”, concluse Buzzi. Senza essere creduto. Panzironi, a cui non è stata applicata nessuna misura di prevenzione, era anche il segretario della fondazione Nuova Italia e gestiva personalmente la raccolta dei fondi, sia in “chiaro” che in “nero”. Alcuni di questi fondi provenivano anche dalle cooperative di Buzzi. “Non ho mai saputo che i soldi venissero dalle cooperative di Buzzi”, ha dichiarato Alemanno, ricordando che “Panzironi provvedeva a far effettuare i bonifici da altre cooperative non riconducibili alla 29 giugno”. Per il tribunale, invece, Alemanno non poteva non sapere cosa faceva Panzironi. “Sono sconcertato perchè questa sentenza d’appello pur di condannarmi smentisce una decisione della Cassazione secondo cui i miei coimputati sono stati riconosciuti colpevoli di traffico di influenza”, ha commentato l’ex sindaco. “A questo punto io sono un corrotto senza corruttore, evidentemente mi sono corrotto da solo. Proclamo la mia innocenza come ho fatto si dal primo giorno. Ricorrerò in Cassazione”, ha quindi concluso Alemanno. “È una grande ingiustizia”, il commento a caldo di Buzzi. Il “corruttore”.

Sentenza Alemanno, solo in Italia per una Corte sei assassino e per un’altra vittima….Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma, è stato condannato a sei anni di prigione, per corruzione, dalla Corte d’Appello di Roma. È una condanna pesantissima: sei anni sono previsti per chi commette il reato di stupro. Alemanno è accusato di non aver impedito che una certa somma – secondo i Pm circa 250mila euro – sia finita, in parte, a una fondazione politica che faceva capo a lui. La somma sarebbe stata versata dal famoso Salvatore Buzzi, del quale abbiamo parlato tante volte e al quale abbiamo anche dato voce sul nostro giornale, ma non ad Alemanno, bensì a Franco Panzironi (ex Ad di Ama) che in parte l’avrebbe tenuta per se, in parte l’avrebbe versata a due Fondazioni politiche, quella di Alemanno, che è una fondazione di destra, e una fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi. Gli aspetti misteriosi di questa sentenza sono diversi.

Il primo sta nella sfida dichiarata alla Cassazione. Perché? Perché il processo Alemanno è uno stralcio del più grande processone Mafia-capitale. Che è finito in Cassazione. E la Cassazione, che ha giudicato i presunti corruttori di Alemanno, ha stabilito che in quella donazione non ci fu il reato di corruzione ma semplicemente il reato di traffico di influenze, che prevede una pena enormemente inferiore. La Corte d’Appello ha ignorato la sentenza della Cassazione e ha condannato Alemanno per corruzione. In Italia può succedere: una Corte dice che hai ucciso, un’altra che sei stato ucciso…

Qui sta il secondo mistero. Come può essere corrotta una persona se non esistono i corruttori? La Cassazione ha detto che non ci sono corruttori, ma può un ex sindaco essere corrotto senza che nessuno lo corrompa? Anche perché non si è trovata nessuna contropartita concessa da Alemanno ai corruttori- non corruttori. E allora? Diciamo pure che è stata una sentenza – come si dice? – etica: Alemanno è corrotto nell’intimo, nel Dna, nella sua oscena natura di ex sindaco, ex fascista, ex almirantiano, ex politico, ex ministro…. va bene così?

Terzo mistero: la pena. La Procura generale ha chiesto tre anni e mezzo. La Corte, dopo una Camera di Consiglio che è durata mezz’ora (molto meno di una riunione di redazione del Riformista) ha quasi raddoppiato gli anni di carcere. Perché? Per fare rumore, per fare bella figura. Nessuno al mondo – credo- neanche tra chi ha una pessima opinione di Alemanno e magari gli sta pure antipatico, può negare che siamo di fronte a una sentenza politica clamorosa, netta, da tribunale speciale: lontana mille miglia da ogni principio e da ogni pratica del Diritto. Potrei adesso parlarvi dello scandalo Palamara? Voi dite che stavolta non c’entra niente? Non sono sicuro. L’impressione è che anche stavolta le appartenenze politiche abbiano contato molto di più della legalità e della ricerca del vero.

Deputati, giornalisti, amici: per Alemanno ci mettono la faccia a centinaia. “Non è un corrotto”. Valeria Gelsi sabato 24 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Una condanna inaspettata, che “sorprende e amareggia”. Ignazio La Russa commenta così la decisione della Corte d’Appello di Roma di condannare l’ex sindaco, Gianni Alemanno, a sei anni per corruzione, in un contesto in cui però, per questo presunto corrotto, non ci sono i corruttori. Per i coimputati, infatti, quell’accusa è caduta ed è stata sostituita con quella più leggera di “traffico di influenze”. Dunque, a conti fatti, secondo i giudici d’Appello di Roma Alemanno si sarebbe dovuto corrompere da solo. Insomma, qualcosa di macroscopico con torna, tanto che tutto fa pensare a una sentenza politica, come ha scritto anche Mario Landolfi proprio qui sul Secolo. Ma sono in tanti a pensarla così e in tantissimi a metterci la faccia per “garantire” sull’onestà dell’ex sindaco di Roma, colpito da una sentenza chiaramente illogica.

La Russa: “Una sentenza che lascia molto perplessi”. “Sorprende e amareggia la sentenza della Corte d’Appello che condanna inaspettatamente Gianni Alemanno per corruzione, mentre la Cassazione ha derubricato per suoi coimputati il fatto a semplice ‘traffico d’influenza’. In sostanza, per Alemanno ci sarebbe corruzione, ma senza corruttori“, ha sottolineato La Russa. “Mi auguro che la Cassazione – ha aggiunto il senatore di FdI – possa fare giustizia e dare ragione ad Alemanno, ribaltando una sentenza che lascia molto perplessi“.

Lollobrigida: “La condanna non può che stupire”. Anche per il capogruppo di FdI alla Camera, Francesco Lollobrigida, “la conferma della condanna di Gianni Alemanno in Corte d’Appello non può che stupire. Alemanno sarebbe corrotto in assenza di corruttori. Non possiamo che augurare a Gianni Alemanno che la Cassazione, alla quale pone legittimo ricorso, possa ribaltare questa sentenza”.

Gasparri: “Un racconto tutto politico”. Dello stesso avviso anche Maurizio Gasparri. Per il senatore azzurro, infatti, “ci sono toghe che invece di spiegare su basi logiche le loro decisioni decidono che due più due fa cinque”. Gasparri quindi ha sollecitato l’ascolto delle parole del “comunista Piero Sansonetti, che con argomenti concreti smonta il teorema giudiziario”. Parlando poi di un “racconto tutto politico”, l’esponente di Forza Italia ha rimandato alla Cassazione, che “non potrà sulla stessa vicenda escludere la corruzione per i presunti corruttori e affermarla per un presunto corrotto senza corruttori”.

Fidanza: “Alemanno non è un corrotto”. A sottolineare l’illogicità della sentenza è stato poi anche l’eurodeputato di FdI Carlo Fidanza. “Ho condiviso tanti anni di militanza con Gianni Alemanno, a cui riconosco grandi meriti e anche errori politici. Ma non ho mai creduto, nemmeno per un secondo, che potesse essere un corrotto. Tanto meno penso che uno si possa corrompere da solo, come invece afferma l’assurda sentenza di ieri. Mi auguro, da italiano prima ancora che da suo amico e da uomo di destra, che la Cassazione possa fare vera giustizia”, ha scritto Fidanza su Facebook.

Su Facebook centinaia di messaggi di stima. E sui social sono stati centinaia e centinaia i messaggi di solidarietà, affetto e stima nei confronti di Alemanno. Tanto sulla sua pagina e quanto sulle pagine personali dei tantissimi che nei suoi lunghi anni di servizio politico hanno avuto modo di conoscerlo, apprezzarlo, affiancarlo. Ognuno di loro si è fatto in qualche modo “testimonial” della rettitudine dell’ex sindaco, ripetendo in modo quasi ossessivo che, no, non c’è alcun dubbio sulla sua onestà: Alemanno non è un corrotto.

Storace: “Alemanno è onesto. Ficcatevelo in testa”. Fra questi anche Francesco Storace, che ha sottolineato come “quegli anni non li offusca una sentenza che punta a macchiare l’onore“. “Con Gianni Alemanno – ha scritto il condirettore del Tempo – ho trascorso anni di intensa amicizia e anni di dura ostilità, perché ci stanno anche le liti in politica. Ma quel verdetto della Corte d’Appello – avendo letto un’enormità di carte sul suo processo e avendo vissuto quegli anni in consiglio comunale – fa a pugni con la realtà.

Frassinetti: “Ne uscirà a testa alta”. “Con Alemanno farei a capocciate ogni giorno, ma è onesto. Ficcatevelo in testa. Lo conosco da quarant’anni”, ha concluso Storace, mentre è stata la deputata di FdI, Paola Frassinetti a scrivere: “Sono certa che Alemanno uscirà a testa alta da questa brutta vicenda!”.

Sansonetti: “Una sentenza politica”.

Contro Alemanno sentenza politica. È tempo di fare luce sulla (in)giustizia a senso unico. Mario Landolfi sabato 24 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Si è detto già tutto sulla sentenza bis che ha confermato la condanna per corruzione di Gianni Alemanno. Merito soprattutto del Riformista, che ha illuminato come meglio non avrebbe potuto le incongruenze di un verdetto a dir poco sorprendente, per non dire addirittura sconcertante. Ci limiteremo pertanto a ribadire che l’ex-sindaco di Roma è un corrotto senza corruttori. Una enormità per un reato a concorso necessario, dove uno lancia l’amo e l’altro afferra l’esca. Qui, però, il primo manca perché nel parallelo processo di Mafia Capitale, di cui quello di Alemanno è uno stralcio, la Cassazione ha derubricato in traffico di influenza il titolo di reato contestato ai coimputati dell’ex-ministro. Ciò nonostante, i giudici di Appello hanno quasi raddoppiato l’entità della pena richiesta dalla Procura generale: sei anni invece di tre e mezzo.

Il centrodestra difenda Alemanno. Certo, scriveranno le loro motivazioni. Ma prima facie appare innegabile che Alemanno sia tecnicamente ostaggio di una contesa interna alla magistratura sul significato politico di Mafia Capitale. E qui davvero stordisce il silenzio del centrodestra, romano e nazionale, che anche in questo frangente si è limitato a fischiettare con la testa rivolta dall’altra parte. È evidente, e in parte è comprensibile, che non voglia farsi risucchiare dalla vicenda Alemanno. E, quindi, chi lo conosce… Ma il problema permane, grande come non mai. Perché non ha senso giocare la partita se l’arbitro indossa la maglietta del colore (più o meno) di una delle squadre in campo.

25 anni di intrecci tra toghe e sinistra. È questo il punto segnalato dalla vicenda di Alemanno. Ma che cos’altro deve accadere per convincere chi di dovere che il virus della giustizia politicizzata è pernicioso almeno quanto il Covid. Quanti Palamara dovranno ancora dire «Salvini ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo»? E quanti «plotoni d’esecuzione» (copyright giudice Amedeo Franco) dovranno ancora giustiziare Berlusconi? E perché a Fontana contano pure i peli sulla testa mentre a Zingaretti neanche le dita della mano. Eppure, qualche inghippo sulle mascherine c’è stato anche nel Lazio. O no? Insomma, che cos’altro deve accadere per spronare Salvini e Meloni a pretendere l’istituzione di una commissione parlamentare che faccia luce sul verminaio parzialmente scoperchiato dal caso Palamara. Si convincano una buona volta che fino a quando resisterà l’incesto tra toghe e politica, a loro sarà consentito solo di vincere le elezioni. Non certo di governare.

Mafia Capitale, la versione di Buzzi: “E’ stata un’inchiesta politica”. Il Dubbio il 14 settembre 2020. Salvatore Buzzi presenta il suo libro e spiega: “Non c’era nessuna mafia. Tra l’altro la cooperativa quando la gestivo io era in attivo e godeva di ottima salute, dopo essere stata diretta per tre anni da quei predoni di Stato che sono gli amministratori giudiziari, è fallita". Presentato all’Arena Farnesina di Roma il libro di Salvatore Buzzi, ”Se questa è mafia”. Il volume, curato da Stefano Liburdi (Il Tempo) e pubblicato dalla Casa editrice Mincione, ripercorre la vicenda giudiziaria che ha sconvolto gli equilibri istituzionali e politici della Capitale nel dicembre del 2014. E’, in particolare, un racconto minuzioso dell’esperienza processuale e carceraria dell’autore. A Buzzi, condannato a 18 anni e 8 mesi dalla corte d’appello di Roma, nell’ambito delle inchieste "Mafia Capitale" e "Mondo di mezzo", è stato derubricato dalla Corte di Cassazione il capo di imputazione di associazione mafiosa. Decaduta questa ipotesi di reato è ora in attesa del ricalcolo della pena. ”La Cassazione ha riconosciuto quello che ho provato a dire sin dall’inizio di questa vicenda. Non c’era nessuna mafia. Tra l’altro la cooperativa "29 giugno", quando la gestivo io, considerato mafioso, era in attivo e godeva di ottima salute, dopo essere stata diretta per tre anni da quei predoni di Stato che sono gli amministratori giudiziari, e’ fallita”, ha esordito Buzzi. ‘Tutta l’inchiesta si basava sui miei rapporti con Carminati, ma su 110 commesse della cooperativa, solo 2 erano state prese con Massimo. Una per la cura del verde dell’Eur e un’altra per il campo nomadi F. Che sodalizio criminale sarebbe questo? La verità è che si è trattato di una inchiesta politica. Sono stati condannati solo politici di destra, come Luca Gramazio e Giordano Tredicine, e della corrente bersaniana del Partito Democratico, come Daniele Ozzimo. Tutti gli altri che hanno ricevuto soldi evidentemente erano seri ed onesti secondo il procuratore Pignatone”, ha proseguito Buzzi. ”Che la magistratura sia politicizzata lo abbiamo visto, ultimamente, anche con la vicenda Palamara. Un’altra cosa poi che mi preme dire riguarda la copertura mediatica e, diciamo, letteraria della vicenda: come è possibile che un libro come Suburra, uscito nel 2013, aveva come personaggi 10 soggetti che poi sono risultati indagati dal dicembre 2014? Qualcuno ha passato le carte agli autori?”. Ha concluso così il suo intervento Salvatore Buzzi, che durante la presentazione del libro e’ stato affiancato sul palco dal direttore del Tempo, Franco Bechis, dall’editrice Mariangela Mincione, dal curatore del volume Stefano Liburdi e dalla presidente dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’, Rita Bernardini.

Scemenza Capitale domina ancora ma nessuno chiede conto a Pignatone. Francesco Storace lunedì 22 giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. Ma quanto deve durare scemenza capitale, ovvero la mafia con tanto di pugnali e pistole in Campidoglio? Vedete di puntare bene i riflettori, signori della stampa al cloroformio. Le bande mafiose che stanno a Roma hanno nomi e cognomi in diversi quartieri della città, ma non stavano in mezzo alla politica. Si ha il timore di raccontare che la grande scoperta di Giuseppe Pignatone sia stata un bluff clamoroso, servito solo a infangare la città agli occhi del mondo e a far eleggere un’inetta alla guida del Comune. E’ molto grave che si insista nel mescolare con le cosche che uccidono, vicende amministrative esattamente e tristemente eguali a quanto accade in tutta Italia. E che nei casi più rilevanti politicamente devono ancora essere acclarate. Ovviamente non per quel che riguarda le posizioni di vertice a sinistra perché – Palamara docet, ma anche De Magistris – non bisogna dare fastidio al manovratore rosso. Ma quel che sta emergendo proprio dalla vicenda Palamara testimonia che la politica c’è stata eccome nei palazzi di giustizia. E proprio Pignatone – nell’accomiatarsi da Palazzo di Giustizia per la pensione – chiedeva una successione alla Procura di Roma che fosse di continuità.  Palamara straintercettato dal troian che lo ha rovinato, cenava col capo della Procura ma quella conversazione non la registrò nessun “sofisticato” apparecchio. A Pignatone chiederemmo volentieri se nel suo animo – anziché attaccare la Cassazione come fece su La Stampa dopo il verdetto definitivo che smontò Mafia capitale – esista qualche traccia di pentimento. Non abbiamo alcuna ragione di provare sentimenti favorevoli a Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e a quasi tutti gli altri  imputati del processone: ma quegli anni al 41bis furono immotivati. Proprio perché non c’era mafia. Con quell’accusa si è fatto credere che le cosche fossero padrone del Campidoglio. Ma le cosche non c’erano. Eppure lo si è fatto credere alla pubblica opinione. Se il metodo mafioso è l’appartenenza che cosa dovremmo dire oggi delle pratiche in seno al Csm per l’attribuzione degli incarichi (lo sostiene persino Di Matteo)? Se il metodo mafioso è rappresentato dalle minacce e dalle intimidazioni, dove stavano in Campidoglio? Perché non sono venute fuori? Semplicemente non c’erano.

È più scomodo parlare dei mafiosi veri liberati. Certo, reati, come prima e anche come dopo, persino con l’attuale amministrazione, ad esempio. Ma resta comodo ripetere la scemenza capitale. Recentemente persino uno che si è occupato di processi di mafia come Ingroia – non certo un pericoloso estremista di destra – ha dichiarato: “L’indagine condotta da Pignatone è un bluff molto pompato dai media, nella quale è emerso un grumo di affari illeciti di una piccola associazione politico-criminale, come in Sicilia ne esistono a decine“. Ma il giornalismo nazionale non se ne accorge, salvo rarissime eccezioni. C’è un ministro che manda gli ispettori a controllare perché è uscito Carminati ed è lo stesso ministro che dormiva mentre uscivano una valanga di boss riconosciuti come mafiosi veri dalla magistratura. Su scemenza capitale continua a dominare l’ipocrisia di un’informazione che se ne sta comoda. Anche perché ci sono fior di giornalisti in quelle chat di Palamara e non si sa mai qualcun altro ne dovesse uscire fuori… Pignatone è il Verbo.

A Roma non era Mafia Capitale ma una mini Tangentopoli. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Non c’è materia di ispettori del ministero, caro ministro Bonafede. Lo stato di diritto funziona così. Siccome la Cassazione ha smontato tutto il teorema costituito dal procuratore Pignatone su mafia capitale tutte le pene andavano ridimensionate. Comunque Carminati ha fatto larga parte dei suoi 5 anni di carcere al 41bis e per di più ha dovuto aspettare i mesi di stesura della motivazione della sentenza. Anche se in questi anni lo stato di diritto è stato smantellato per larga parte dai Borrelli, Davigo, Di Pietro, Di Matteo, De Magistris, Woodcook e compagnia bella ancora qualche pezzo di esso rimane e ci stanno magistrati giudicanti e della sorveglianza che lo fanno rispettare, anche se ciò provoca le crisi di nervi in diretta televisiva di Massimo Giletti. Tuttavia non ci vogliamo fermare a questi aspetti più banali della sentenza della Cassazione. Le motivazioni della Corte vanno lette in profondità perché esse inchiodano il sistema politico ed economico romano in modo assai più penetrante di quanto paradossalmente non avesse fatto lo schema elaborato da Pignatone. Secondo Pignatone le forze politiche e i gruppi economici romani in un certo senso erano stati costretti alla corruzione, alla manipolazione degli appalti, alle nomine di burocrati compiacenti dalle pistole spianate di Carminati e camerati, con la conseguenza di dar luogo allo status mafioso di Roma Capitale. Questa interpretazione ci ricorda tanto le lettere al pool di Mani Pulite inviate nel 1993 dalla FIAT e dalla CIR (Romiti e De Benedetti) nelle quali i cosiddetti “poteri forti” si prosternavano alla eticità dei magistrati inquirenti di Milano. Poi, per sfangarla sul piano giudiziario, essi dichiaravano di essere le vittime della protervia dei politici, vil razza dannata, che li avevano concussi e costretti a pagare tangenti come se essi non fossero dotati di un tale potere mediatico che, se avessero voluto, avrebbero potuto spazzare via il sistema di Tangentopoli dalla sua nascita. Ma invece fino al trattato di Maastricht quel sistema andava benissimo agli imprenditori di tutte le dimensioni. Veniamo a Roma. Nel momento in cui con Alemanno il centro-destra conquistò il comune allora fu ricontrattato tutto il sistema di potere che regolava i rapporti fra i gruppi economici e le forze politiche: il perno dell’operazione non era Carminati, per molti aspetti folclore che però consentiva ad alcuni giornali e ad alcuni gruppi politici di dimostrare a se stessi e al pubblico quanto erano antifascisti, quanto Buzzi che non era un personaggio di poco conto, ma il capo delle cooperative rosse che costituiva il cuore del sistema di potere del PCI-PDS. Ciò è confermato anche da alcune intercettazioni telefoniche nelle quali qualche malcapitata parlamentare del PD lo appellava appunto “capo”. Buzzi era per Alemanno la quadratura del cerchio che consentiva di realizzare un nuovo compromesso tra il tradizionale sistema di potere rosso e quello di una parte della destra missina trasferitasi in AN e poi nel PDL. Poi Buzzi aveva un rapporto con Carminati, derivante dal loro incontro in carcere, e ciò consentiva di arrivare fino all’estrema destra. Ma di mafioso nel senso di organicamente armato e violento non c’era nulla, a parte il linguaggio e il folclore. Anzi, nel rapporto con Buzzi e con il mondo che egli esprimeva Alemanno si illude anche che ciò avrebbe comportato pure una copertura giudiziaria, quella di cui il PCI-PDS-DS-PD ha sempre goduto a Roma. Come conseguenza, una serie di interessi economici si sono innestati in quelle sue reti. Certamente quella pax fu inaspettatamente sconvolta da Pignatone, che non apparteneva alla normale rete di magistrati romani. Egli però, per rendere mediaticamente travolgente la sua operazione, ci ha aggiunto il carico di un teorema, quello del carattere mafioso di quei legami corruttivi, rispetto al quale Carminati è servito benissimo aggiungendoci addirittura l’evocazione sia della banda della Magliana che dei NAR. Invece si è trattato della ricostruzione di una mini Tangentopoli a livello romano con un filo che andava da un pezzo della destra alle cooperative rosse, al sistema Roma di una parte del PD, a pezzi del mondo economico romano unificati da fortissimi interessi economici, non dalla pistola. Il bello è che al PD sono saltati i nervi proprio quando aveva eletto un sindaco, ci riferiamo a Marino, che con quel sistema non aveva nulla a che fare, anzi che ad esso era estraneo. Sennonché allora Renzi non era arrivato al garantismo attuale, ma anzi sfidava i grillini sul loro stesso terreno, quello del populismo giustizialista: all’epoca le sue vittime sono state molto numerose, dalla De Girolamo, alla Cancellieri, a Maurizio Lupi, alla Federica Guidi, solo che in quei casi le conseguenze politiche sono state nulle, invece nel caso del comune di Roma sono state disastrose. Quando per far dimettere un sindaco di sinistra notoriamente estraneo non solo al sistema romano, ma allo stesso sistema di potere del PD, le firme dei consiglieri comunali di sinistra si sono combinate assieme a quelle dei consiglieri di Alemanno è esplosa una sorta di reazione di rigetto per cui una assoluta incapace come la Raggi (ma allora nessuno la conosceva e quella fu la sua grande forza) fu eletta a furor di popolo e il PD pagò giustamente tutta la catena di errori che aveva commesso. Come si vede, l’interpretazione militare di quello che è accaduto a Roma crea minori problemi specie alla sinistra di quanto non sia avvenuto nella realtà, una realtà nella quale a essere determinante sono stati la sommatoria degli interessi economici della destra e della sinistra più che la forza armata dei mafiosi.

(ANSA il 22 giugno 2020) - Scontro verbale tra Massimo Carminati e il suo ex difensore Giosuè Bruno Naso, in una pausa dell'udienza in cui l'ex Nar è imputato assieme ad altre 15 persone. "Se fosse stato per te sarei marcito in galera", ha detto Carminati, tornato libero per decorrenza termini dopo 5 anni e 7 mesi di carcere preventivo. Il penalista ha quindi ribattuto: "Devi ringraziare Pignatone e De Cataldo altrimenti saresti rimasto il semplice ladro che eri".

Massimo Carminati ha scontato 5 anni al 41bis senza motivo. Giusto che esca. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Se un comune detenuto, condannato per un fattaccio di corruzione, uscisse di prigione per decorrenza dei termini della custodia cautelare dopo aver passato quasi cinque al regime di carcere duro, senza alcun motivo, essendo alla fine stato assolto con formula pienissima dall’accusa di essere a capo di un’associazione mafiosa, nessuno ci troverebbe nulla di strano. Se un comune detenuto, condannato per un fattaccio di corruzione, uscisse di prigione per decorrenza dei termini della custodia cautelare dopo aver passato quasi cinque al anni 41bis, il regime di carcere duro, senza alcun motivo, essendo alla fine stato assolto con formula pienissima dall’accusa di essere a capo di un’associazione mafiosa, nessuno ci troverebbe nulla di strano. Sui giornali la notizia comparirebbe forse in qualche trafiletto. Di certo il ministero della Giustizia non spedirebbe con la rapidità del fulmine i suoi ispettori a verificare le ragioni per cui il Tribunale del Riesame ha deciso di rispettare i diritti di quel detenuto. Se a varcare ieri le porte del carcere di Oristano, senza obbligo di domicilio né di firma, fosse stato solo un tal Carminati Massimo, condannato a 14 anni e mezzo ma in attesa di ridefinizione della pena sproporzionata una volta caduta l’accusa di essere il Totò Riina della Capitale, le cose andrebbero effettivamente così. Ma a uscire ieri dal carcere è stato invece il Nero, popolarissimo coprotagonista del più fortunato noir italiano di tutti i tempi, il Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo, una trasposizione sul grande schermo e due stagioni di una serie tv che ha aperto la strada a una quantità di epigoni. A andarsene libero come l’aria dal carcere di Oristano è stato il Samurai, protagonista del romanzo Suburra e del seguito La notte di Roma, entrambi dello stesso De Cataldo e del giornalista di punta di Repubblica Carlo Bonini. Anche in questo caso film e poi serie tv che ancora spopola sono seguiti a stretto giro. Soprattutto, lascia la galera l’uomo che nel 2012 era stato descritto dal giornalista dell’Espresso Lirio Abbate come uno dei “quattro re di Roma”, i boss che secondo l’inchiesta tenevano in pugno Roma. Gli altri tre erano tutti nomi notissimi, boss del calibro di Carmine Fasciani o Peppe Casamonica, Il vero oggetto dell’inchiesta era il quarto uomo, l’ex nar ed ex banda della Magliana che nessuno sospettava essere diventato nel frattempo un padrino. Un articolo profetico: due anni dopo l’inchiesta della Procura di Roma nota alle cronache come Mafia Capitale confermava. Massimo Carminati era il vero boss della Capitale. Anche se a suo carico non comparivano fatti di sangue, anche se a intimidire i politici, secondo l’atto di accusa, non erano minacce formali ma solo il temuto nome. Anche se il quartier generale non era la villa dei Corleone a Long Island ma una stazione di servizio su Corso Francia e se la sua cosca erano vecchi camerati, amici e sodali dagli anni’70, dediti soprattutto al “recupero crediti”. Cravattari, come si dice a Roma. La sentenza di Cassazione ha smontato quel fantasioso impianto. Le motivazioni, uscite appena cinque giorni fa, la hanno letteralmente polverizzata. La biografia del supposto padrino avrebbe dovuto far suonare campanelli d’allarme sin dal primo momento. Carminati ha frequentato davvero sia i Nar sia la banda della Magliana, soprattutto in virtù del forte legame con il fondatore e forse unico vero capo, Franco Giuseppucci, “er Negro”. Ha commesso crimini, compiuto rapine, secondo i pentiti si è reso colpevole di un omicidio ma le sentenze non hanno confermato. E’ stato processato per l’omicidio di Mino Pecorelli ma assolto. Sia nei Nar che nella banda era una specie di compagno di strada o fiancheggiatore, partecipe, rispettato ma esterno. La rapina al caveau del palazzo di giustizia della Capitale, nel 1999. Fu un colpo grosso che fruttò 50 mld di lire. Ma l’ipotesi che il vero bottino fossero documenti segreti che gli avrebbero poi permesso di ricattare buona parte dei togati della capitale è invece frutto di quella stessa fantasia sbrigliata che ha reso un malavitoso certamente temibile ma di medio calibro una leggenda del crimine. La sentenza di Cassazione dice a tutte lettere che Massimo Carminati non è mai stato il capo della mafia romana. Non si tratta di negare l’esistenza di organizzazioni mafiose a Roma. Solo di chiarire che la banda dedita al recupero crediti di Corso Francia e il gruppo di corrotti e corruttori che si dava da fare intorno al comune di Roma non erano né mafiose né collegate tra loro, nonostante la presenza di Carminati all’interno di entrambe. Ma quella è la realtà di Massimo Carminati e non sarà mai tanto forte e potente quanto la leggenda del Nero e del Samurai. O la bufala del “quarto re di Roma”.

Accolta l'istanza dei suoi legali. Massimo Carminati torna libero, scarcerato dopo quasi sei anni di reclusione: Bonafade invia gli ispettori. Redazione su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Massimo Carminati tornerà libero. Uno dei principali protagonisti dell’inchiesta Mafia Capitale lascerà il carcere di Oristano dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione per scadenza dei termini di custodia cautelare. Gli avvocati del “cecato”, come era chiamato Carminati, ex membro dei Nar che perse un occhio durante uno scontro a fuoco con la polizia, avevano già presentato tre istanze di scarcerazione, tutte rigettate. L’ultima, col meccanismo della contestazione a catena, è stata quindi accolta dai giudici del Tribunale della Libertà. Parlando all’Adnkronos l’avvocato Cesare Placanica, che insieme all’avvocato Francesco Tagliaferri difende Carminati, ha spiegato di essere “soddisfatto che la questione tecnica che avevamo posto alla Corte d’Appello e che tutela un principio di civiltà sia stata correttamente valutata dal Tribunale della libertà”.

IL PROCESSO A CARMINATI – Carminati era considerato dai pm romani il capo e organizzatore dell’associazione mafiosa al centro dell’inchiesta ‘Mondo di mezzo’, per questo chiesero la condanna a 28 anni di carcere. Nel luglio 2017 Carminati viene condannato a 20 anni di reclusione dal tribunale ordinario di Roma per associazione a delinquere, mentre nel settembre dell’anno successivo l’ex membro dei NAR vede la terza sezione della Corte d’Appello di Roma ripristinare il disposto dell’articolo 416bis riconoscendo la sussistenza del “metodo mafioso”. La Corte d’Appello di Roma condanna quindi Carminati e il suo braccio destro Salvatore Buzzi rispettivamente a 14 anni e 6 mesi e 18 anni e 4 mesi di reclusione. Nell’ottobre 2019 quindi la Cassazione non riconosce il “metodo mafioso” annullando il 416bis senza ulteriori rinvii e disponendo la celebrazione di nuovo processo in Corte di Appello per la rimodulazione delle pene in base alla nuova sentenza.

BONAFEDE INVIA GLI ISPETTORI – Secondo quanto si apprende da fonti di via Arenula, il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha delegato l’ispettorato generale del Ministero della Giustizia a svolgere i necessari accertamenti preliminari in merito alla scarcerazione di Massimo Carminati.

Massimo Carminati, il criminale fascista che torna sempre libero. Lirio Abbate su L'Espresso il 25/6/2020. Già negli anni 80 il "Cecato" era un punto di congiunzione tra estremismo di destra e malavita romana. È nonostante sia entrato in tutte le inchieste giudiziarie degli anni di piombo ne è sempre uscito sempre indenne o quasi. Non stupisce quindi che sia di nuovo a piede libero. Negli anni Ottanta il fascista Massimo Carminati era una figura di cerniera tra l’estremismo eversivo di destra e la malavita organizzata romana, che in quel periodo di terrore non disdegnavano di collaborare e scambiarsi favori. Componente dei Nuclei armati organizzati (Nar), veniva indicato dagli ex della banda della Magliana come un esperto di armi ed esplosivi, furbo e “solista” nelle sue attività criminali che lo vedranno entrare e uscire nei processi per alcuni dei fatti più cruenti accaduti in Italia.  Inchieste giudiziarie da cui ne esce indenne o con semplici graffi penali. Tra questi, il depistaggio per la strage alla stazione di Bologna del 1980, l’uccisione, il 18 marzo 1978 a Milano dei due studenti di sinistra Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci e l’omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista assassinato a Roma la sera del 20 marzo 1979. Per la morte di quest’ultimo verranno chiamati in causa tutti i poteri occulti, dalla P2 alla mafia, fino a Giulio Andreotti. In un interrogatorio dell’11 marzo 1994, Antonio Mancini, ex componente della banda della Magliana, dichiara: «Fu Massimo Carminati a sparare assieme ad “Angiolino il biondo” [Michelangelo La Barbera, nda]. Il delitto era servito alla banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere». Parole che alla fine non basteranno a far condannare il Cecato. Non è un caso che Mancini metta in relazione la banda della Magliana con Carminati. Il fascista, infatti, già negli anni Settanta cattura l’interesse degli storici boss Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati. I due ne apprezzano la spregiudicatezza e il coraggio. Lo prendono sotto la loro ala protettiva sia per coinvolgerlo nelle attività illecite sia per uno scambio di favori. Carminati e i suoi sodali ricambiano generosamente le simpatie di Giuseppucci. I neri si adoperano spesso e volentieri in azioni di recupero crediti, danneggiamenti e altro, nei confronti di alcuni soggetti entrati in conflitto con gli affari della banda della Magliana. A distanza di anni, Carminati non risparmia però qualche critica nei confronti dei suoi vecchi amici. Al costruttore romano Cristiano Guarnera, in una conversazione intercettata pochi anni fa, spiega che lui era un «politico» non come «i cialtroni della Magliana», fatta eccezione per «il Negro [Giuseppucci]» che «era l’unico vero capo che c’è mai stato... che era un mio caro amico». E aggiungeva: «Una banda di accattoni straccioni, per carità sanguinari perché si ammazzava la gente così senza manco discutere, la mattina si decideva se uno doveva ammazzare qualcuno la sera... ma quelli erano altri tempi, stiamo parlando di un mondo che è finito tanto è vero che poi si sono tutti pentiti, se so’ chiamati tutti l’uno con l’altro». Carminati fa capire che avevano «interessi» diversi. «Io sono diventato, secondo loro [i pentiti], uno della banda della Magliana mentre io... io facevo politica a quei tempi, poi la politica ha smesso di essere politica ed è diventata criminalità politica, perché c’era una guerra a bassa intensità prima con la sinistra e poi con lo Stato». Carminati non attacca solo i pentiti, se la prende spesso anche con i giornali. E ai suoi amici racconta che gli avevano accollato di tutto. «Hanno scritto che sono stato killer della P2, killer dei servizi segreti, capito, io sono stato tutto, sono stato tutto ed il contrario di tutto». E aggiungeva dilungandosi in un ragionamento in cui sottilmente esibiva non solo le altisonanti malefatte attribuitegli nel tempo dalla stampa e dagli inquirenti (di cui pure sottintendeva l’infondatezza), ma anche le proprie conoscenze altolocate, maturate nella militanza di estrema destra, con le quali asseriva di essere sempre in contatto. «Sono stato qualunque cosa, la strage di Bologna, cioè a me mi hanno accollato tutto, tutto quello che mi potevano accollà, me lo hanno accollato, cioè hai capito, io ero l’anello mancante, diciamo fra una realtà politica ed una realtà di criminalità organizzata, la banda della Magliana era diventata l’anello mancante, capito, quello famoso…», Il suo interlocutore gli suggerisce «il ponticello» e lui: «Bravo, hai capito, e allora tutto quello che poteva si poteva affibbiare a quella che era diventata la cosiddetta agenzia del crimine, la banda della Magliana, cioè che era un’agenzia secondo loro disposta a tutto per soldi, per potere, per prebende, capito, quella che gli è servita per far poi carriere politiche, film libri e quant’altro». Carminati spiega al suo amico imprenditore che cos’era l’agenzia del crimine. E davanti ai giudici precisa: «Non me la sono inventata io l’agenzia del crimine», e aggiunge che la persona che aveva parlato all’epoca di agenzia del crimine era stato «il dottor Domenico Sica» era lui che aveva “ipotizzato” l’esistenza di quest’agenzia, suggerisce il difensore di Carminati. La coincidenza vuole che l’ex alto commissario antimafia Domenico Sica sia stato fra le vittime del furto al caveau della banca di piazzale Clodio in cui Carminati ha svuotato solo alcune delle centinaia di cassette di sicurezza: selezionate, nella lista che l’ex Nar aveva in mano, c’erano anche le due cassette di Sica. Il nome del magistrato non venne mai pubblicato dai giornali durante le indagini (lo ha rivelato solo L’Espresso tre anni fa) , e quando il magistrato all’epoca venne ascoltato in aula dai giudici di Perugia nel processo in cui Carminati era imputato del furto, ammise che una delle cassette l’aveva aperta quando era Alto commissario per la lotta alla mafia per custodire documenti o somme di denaro. Una coincidenza. Le ipotesi sull’agenzia del crimine fatte da Sica, dirà Carminati ai giudici e quindi dopo il colpo al caveau, «non vennero poi riscontrate al processo, che è quello che poi conta insomma». La Cassazione lo scorso ottobre ha escluso l’associazione mafiosa per la gang del Cecato, riconoscendola come un’organizzazione criminale. Dopo 8 mesi i giudici della Suprema corte hanno depositato le motivazioni, quasi in concomitanza con la scadenza dei termini di custodia. In questo modo Carminati ha potuto lasciare il carcere di Oristano dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione, pur facendo parte del “mondo di mezzo” riconosciuto dagli ermellini che hanno rimandato alla corte d’appello di Roma per un nuovo processo che rideterminerà la pena. La notizia non ha colto di sorpresa Antonio Mancini, che l’aveva più volte detto: «Dopo cinque anni Carminati tornerà a casa». E così è stato.

Il profilo. Chi è Massimo Carminati, da quarant’anni coinvolto nei misteri italiani. Redazione su Il Riformista il 16 Giugno 2020. “Il Nero”, “il Guercio”, “Er Cecato”, “il Pirata”, il “Samurai”. Massimo Carminati ha molti soprannomi. Alcuni plasmati dalla realtà, dal sottobosco criminale di gruppi eversivi di destra e organizzazioni che ha frequentato; altri partoriti da opere di fiction nelle quali è comparso, alcune di queste anche di notevole successo negli ultimi anni, come le serie Romanzo Criminale e Suburra. Certo è che ognuno di questi nomi è indissolubilmente legato a certi anni. Quegli anni ’70 del terrorismo, degli estremismi di destra e di sinistra, di stragi e depistaggi, di agguati. Fino ai tempi del cosiddetto “Mondo di Mezzo”. Carminati è stato scarcerato oggi dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione. Accolta l’istanza di scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri. Alle 13:30, il principale imputato del processo “Mondo di Mezzo” – la Cassazione ha deciso lo scorso ottobre che non si trattava di mafia, e quindi non più “Mafia Capitale” – è uscito dal carcere di Massama di Oristano. Classe 1958, Carminati nasce a Milano, ma si trasferisce negli anni sessanta a Roma. È solo un adolescente quando comincia a frequentare la sezione dell’MSI di Marconi e del Fuandi a via Siena. Partecipa anche ad Avanguardia Nazionale. La sua fama negli ambienti di estrema destra comincia a crescere in quegli anni. Perde l’occhio sinistro al confine tra Svizzera e Italia, a un posto di blocco. I poliziotti sparano al varco usato abitualmente dagli estremisti neri per passare clandestinamente nella Federazione elvetica. Quella sera gli agenti si aspettano di intercettare Francesca Mambro, tra i fondatori dei NAR. Nell’auto ci sono invece Carminati e altri due camerati disarmati. Anni prima, si lega in particolare a due compagni di liceo l’istituto paritario Federico Tozzi del quartiere di Monteverde: Alessandro Alibrandi, figlio di un noto giudice della Capitale, Franco Anselmi, ex missino e fondatore dei Nar, e Valerio Fioravanti, poi condannato in via definitiva per la strage della stazione di Bologna. Il loro punto di ritrovo diventa il bar Fungo, al quartiere Eur, frequentato anche dalla malavita organizzata della Capitale. Il 27 novembre 1979 il gruppo compie la prima rapina: alla Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi all’Eur. I traveller cheques rubati vengono affidati al boss della Banda della Magliana, Franco Giuseppucci. Nei primi anni ’80 è in Libano con  altri componenti dei NAR a sostenere i falangisti cristiano-maroniti di Kataeb nella guerra civile contro i filo-palestinesi. Con la malavita i gruppi terroristi hanno un’altra cosa da condividere: le armi. Alcune vengono trovate in un garage nei sotterranei del ministero della Sanità a Roma. E poi ancora su un treno Taranto-Milano. Carminati viene accusato nel processo per depistaggio che coinvolge due esponenti dei servi segreti. Assolto.

È assolto anche per molti altri processi nei quali viene coinvolto, soprattutto per le deposizioni dei testimoni che lo accusano. Assolto anche per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il 20 marzo 1979, direttore del settimanale Osservatorio Propaganda (Op) iscritto alla P2 e legato ai Servizi Segreti. Un’azione che sarebbe stata un favore e un gesto di alleanza con Cosa Nosta. Condannato per ricettazione nel 1988, la condanna viene cancellata per indulto nel 1991; stessa sorte per condanne del 1991 per rapina, detenzione illegale di armi e munizioni, porto illegale di armi. Nel 1998, nel processo alla Banda della Magliana, Carminati è condannato. La pena a causa del cumulo di condanne arriva a 11 anni e 9 mesi, in parte già scontati. Nel 2006 il magistrato di sorveglianza revoca la libertà vigilata. Dopo aver lasciato l’Italia per un po’ di tempo torna a Roma e comincia il periodo che viene definito di “Mafia Capitale”. Agli imputati viene contestata l’appartenenza o la gestione di associazioni a delinquere dedite all’estorsione e a un’attività di corruzione verso funzionari e politici dell’amministrazione comunale romana.

Da ilmessaggero.it il 21 giugno 2020. «Sono stato dipinto come il "grande corruttore", ma le persone non le ho corrotte, erano corrotte di loro. La sentenza della Cassazione che certifica l'entità delle corruzioni ammontano a 65mila euro, su un fatturato di 180 milioni. Allora dico, non è giusto corrompere, pagare tangenti, ma se io pago 65mila euro di tangenti su un fatturato di 180 milioni di fatturato sono stato bravo e lo rivendico. Tutti mi chiedevano soldi, favori, assunzioni: è la realtà imprenditoriale a Roma, lo abbiamo visto con Parnasi, lo vedremo successivamente con qualche altro disgraziato, ma un imprenditore che fa impresa a Roma, nei servizi con il Comune di Roma si ritrova con persone da assumere, manifestazioni da sponsorizzare e poi se tutto diventa corruzione...». Così Salvatore Buzzi a Radio Radicale, durante il lungo dibattito organizzato dall'associazione Nessuno Tocchi Caino, commenta l'inchiesta di Mafia Capitale, dissoltasi fino alla recente scarcerazione di Massimo Carminati. E precisa: «Io tante corruzioni le ho avute perché non riuscivo a incassare i miei crediti legittimi: ogni mese mi servivano 5milioni di euro per pagare dipendenti, fornitori, ma se il Comune non pagava? - incalza retorico Buzzi - La famosa intercettazione nella quale avrei detto a una mia collaboratrice 'si guadagna più con la droga che con i migrantì è un falso, è stata montata ad arte. È un'intercettazione ambientale che dice ben altro - attacca - elaborata dal colonnello Russo dei Ros. C'è stato un attacco alla cooperazione sociale mettendo in bocca anche frasi non volute. In relazione alle intercettazioni ambientali che colpiscono oggi i magistrati, con le chat di Palamara, con il trojan, dicono che tra amici si dicono delle cose. E noi? Noi non possiamo dire stupidaggini? No, perché è come se parli davanti a un ufficio notarile». Poi Buzzi nel dibattito di Nessuno Tocchi Caino entra nel merito delle accuse «politiche». «Tutta questa storia di Mafia Capitale che ha consentito la desertificazione della cooperazione sociale a Roma e alla Raggi di diventare sindaco, è stata un'operazione fatta a tavolino per colpire alcune parti politiche: la destra, Alemanno, Gramazio e Tredicine, e la sinistra, ma guarda caso tutti gli esponenti di Bersani, gli altri erano tutti innocenti. Questa è la cosa grave: poi vedendo le chat di Palamara si scopre che ci sono tante altre cose». E ancora: «Quando ci arrestano il 2 dicembre per mafia nessuno di tutti gli amici con i quali eravamo cresciuti ha detto a Pignatone che stava sbagliando, anzi, addirittura Orfini ha dichiarato che lo ringraziava per aver liberato Roma dalla mafia. La solidarietà vera l'ho avuta dal Partito Radicale, da Sansonetti, da Sgarbi, da pochissime persone». «Mi sono fatto da mafioso 5 anni e 18 giorni in alta sicurezza al confine con l'Austria - continua Salvatore Buzzi - mia moglie arrestata, 2 anni e 2 mesi ai domiciliari, mia figlia l'ho ritrovata come un'estranea, aveva 5 anni l'ho ritrovata a 10. Ho querelato tg 5 e tg La7, la Sciarelli perché a me del mafioso non me lo puoi dare più. Bisogna dare un segnale, incominciare a ribellarsi. Non mi sorprende quanto accaduto in altre aziende, quella di Cavallotti l'ho seguita alle Iene. Noi in cooperativa avevamo livelli retributivi elevatissimi, i soci prendevano 16 mensilità, con la legalità si sono ritrovati il cambio di contratto, 13 mensilità quando li pagava, la riduzione del 30% degli stipendi e ora che sono falliti la metà sono disoccupati. Questa è stata la legalità. E le cavallette che hanno depredato la nostra cooperativa, adesso stanno spolpando altre aziende». «Sono stato condannato per corruzioni per versamenti pubblici - conclude il fondatore della cooperativa 29 giugno - Con Ozimo per 20mila euro messi a bilancio, con Tredicine 20mila euro messi a bilancio, con Gramazio 15mila euro messi a bilancio. Non li finanziavo in nero, ho sempre finanziato in chiaro: ad esempio con Tredicine, che non è che ha una nomea carina a Roma, non ho telefonate in 2 anni e 2 mesi, ma quale favore mi ha mai fatto se non l'ho mai incontrato? Finanzi la politica perché lo chiedevano. Quando stavo in carcere avevo il rimpianto di aver finanziato 'sti papponi. Trecento mila euro l'anno gli davo legalmente, più quelli illegali, e poi quando ci hanno arrestato per mafia Orfini andava a dire 'ho liberato Roma, ma da chi?'».

Inchiesta "Mondo di mezzo", Salvatore Buzzi ai domiciliari dopo 5 anni di carcere. Redazione su Il Riformista il 19 Dicembre 2019. Salvatore Buzzi, una delle figure centrali nell’inchiesta "Mondo di mezzo", ha ottenuto gli arresti domiciliari dopo cinque anni di carcere. A deciderlo, accogliendo l’istanza presentata dai suoi difensori, gli avvocati Pier Gerardo Santoro e Alessandro Diddi, è stata la Corte di appello di Roma. Secondo le accuse Buzzi avrebbe usato la cooperativa “29 giugno” per distrarre ingenti quantità di denaro a beneficio suo e dei suoi sodali. Lo scorso 22 ottobre la Cassazione aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti del ras delle cooperative romane, condannato in secondo grado a 18 anni e 4 mesi. Anche l’altro condannato eccellente dell’inchiesta "Mondo di mezzo", l’ex Nar Massimo Carminati, si era visto revocare il regime di carcere duro al 41bis per la decisione della Cassazione. “Dopo 5 anni di custodia preventiva finalmente è stata restituita giustizia. Mai nessuno in Italia ha pagato in questo modo per una corruzione“. Lo ha sottolineo all’Adnkronos l’avvocato Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi. ”Adesso finalmente possiamo guardare con serenità all’ultimo pezzo del processo che ci attende in appello. Spero – aggiunge Diddi – che si possa mettere fine a questa strana e forse distorta pagina della giustizia italiana”.

Mattia Feltri per huffingtonpost.it il 13 giugno 2020. Io me la ricordo la desolante eccitazione del giorno d’apertura del processo di Mafia capitale. Me la ricordo la calca, la moltitudine, l’abbordaggio dei cronisti stranieri, sfrenati, eccitati all’idea di corrispondenze dalla Corleone globale per New York o Londra o Berlino. Avevano in testa Mario Puzo, quelle fascinose suggestioni, e dunque un Marlon Brando con le grinfie allungate sul Campidoglio, dunque sull’ombelico del mondo, sull’epicentro favoloso della civiltà occidentale. Ridotto a una cosca. C’era di meglio su cui pasteggiare all’ora dell’entertainment, della nostra vita civile e politica appaltata a un business plan stile Netflix? Se ne andarono un po’ delusi, perché ancora, talvolta, in qualche carruggio di resistenza, la vita civile e politica non cede all’adescamento dello show calibrato sulla potenzialità media dei succhi gastrici: fu una lunga, protocollare, noiosissima udienza di incardinamento del processo, non ci furono confronti all’americana, doppiopetti gessati, sigari cubani, coppole, allusioni luciferine, valigie di soldi, rinvenimenti d’esplosivi, donnine in giarrettiera, mitra col caricatore rotondo, niente di niente. Il plot delle loro speranze se ne andò a puttane. Alla fine, di Mafia capitale, nella mia memoria rimane soprattutto questa gigantesca, stomachevole calunnia di Roma. Nelle propaggini di una pavonesca inchiesta su quattro rubagalline con quartier generale in una pompa di benzina di corso Francia, o qualcosa del genere, è stata costruita una scenografia di cartone col palazzo comunale di una capitale trimillenaria, distributrice di sapienza ingegneristica, militare, giuridica, teologica, artistica, architettonica, avvolto nei tentacoli della piovra. Le avete viste le belle fiction? I film piovosi del sottoscala di Blade Runner, coi cardinali con le chiappe all’insù a spartirsi autostrade di cocaina e fanciulle in fiore col ministro e il tagliagole di Ostia? Ce lo siamo venduti bene il brand, no? Ci siamo giocato bene quel poco di decoro e di amor proprio per due piotte. Ha ragione il sommo avvocato Cataldo Intrieri quando dice che l’opposizione al populismo giudiziario alla lunga arriva proprio dalla magistratura. Sono via via usciti dal processo, perlomeno per le mirabolanti implicazioni mafiose, l’ex sindaco Gianni Alemanno, gli assessori, gli uomini della Regione e, i pochi rimasti a risponderne, hanno risposto di faccende di corruzione che no, non è una bella cosa, ma non è mafia. Se fosse stato per corruzione non uno di quei corrispondenti di testate mondiali avrebbe piantato le tende all’alba davanti all’aula del processo per guadagnarsi la prima fila. E, infine, per certi cocciuti del bla bla e dello gne gne, alla Matteo Orfini o alla Virginia Raggi, e cioè del sì però la mafia a Roma c’è – bella scoperta, no? – è vero, la mafia a Roma c’è, come c’è a Palermo, a Milano, a Londra, a New York, ma non accoglieva i suoi mammasantissima nelle stanze dell’amministrazione comunale, e fino in quella del sindaco. Eccola la madornale differenza che ha prodotto la madornale calunnia. Io me le ricordo le settimane precedenti la caduta del sindaco Ignazio Marino, trascinato all’autodafé su un palco del Laurentino 38 dai boss del nuovo corso della purezza del Pd, che dicevano mai più la mafia nel partito, per prenderselo e condurlo alla festa di piazza dell’Onestà. Me lo ricordo quel soldatino di piombo di Luigi Di Maio che invocava lo scioglimento per mafia del comune di Roma, come se fosse una frazione da sparatorie di Palmi. Me lo ricordo quel guappo del dopocena di Alessandro Di Battista che incitava i picciotti del Pd e del Pdl a confessare, anche anonimamente, in cambio del perdono (gulp!), per sgominare quel lordume a canne mozze. Me la ricordo l’esagitata e demente campagna elettorale, quando i contendenti si disputavano il ruolo di eroi incaricati dal destino di salire a piantare la bandiera dei liberatori, come l’Armata rossa sul Reichstag. Allora sembrava il delirio, adesso, visto da qui, dopo la pubblicazione di ieri delle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha illustrato perché non era Mafia capitale, non era nemmeno mafia e basta, sembra solo miseria. Roma è l’enormità della storia dell’uomo. Le ha sempre fatte le sue porcate, ma le ha sempre fatte in cambio della grandezza. Questa è stata fatta per piccineria, per la micragnosa disputa dell’anima candida e della vanagloria di uno strapuntino, e al prezzo della calunnia di una città che porta il titolo di eterna. Nessun delitto sarà mai all’altezza di questo rasoterra.

Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 27 giugno 2020. A Castelverde, 27 chilometri dal Colosseo, Salvatore Buzzi aspetta i carabinieri. L'attesa stavolta è dolce: «Mi devono notificare la libertà». Dopo 5 anni di carcere duro e i mesi passati ai domiciliari, all'imprenditore a lungo etichettato come " Ras delle coop" è di nuovo concessa la facoltà di uscire da casa. « Potrò finalmente andare oltre quel paletto lì» , indica Buzzi puntando il cancello della sua casa all'estrema periferia Est di Roma. «La prima cosa che farò? Porterò mia figlia a mangiare un gelato. Nel quartiere mi vogliono tutti bene e alle accuse della procura non hanno mai creduto». Prima di continuare, l'ex titolare della cooperativa 29 Giugno si cambia la maglietta. Via quella bianca, ecco la blu. Tira fuori anche il suo libro, scritto per dire che Mafia Capitale non era mafia: « In Cassazione mi hanno dato ragione. Ora attendo la rideterminazione delle pene. Spero siano eque. Si parla di corruzione, turbativa d'asta. La scarcerazione? È arrivata per decorrenza dei termini. Io non l'ho mai chiesta». Pur in attesa di condanna, Buzzi guarda al futuro. Non senza attaccare i politici da cui si è sentito tradito. La nuova passione - lo suggerisce pure l'orto domestico in cui coltiva zucchine, pomodori e cavoli - potrebbe essere la ristorazione: « Voglio aprire un ristorante. Lo chiamerò " Da Mafia Capitale". Aspetto che vada via il Covid. I soldi? Li chiederò a chi si è fatto ricco scrivendo di questa storia. Io sono andato in carcere, altri ci hanno fatto i soldi». Se si insiste con Buzzi sul concetto di mafia, la risposta è secca: «Non c'è nemmeno uno schiaffo, almeno da parte mia». E da parte degli altri? Massimo Carminati? « È amico mio. Lo sentirò, ma in privato. Ci siamo rovinati a vicenda. Lo seguivano dal 2010, hanno trovato me e fatto bingo. Nel suo passato ci sono solo tre rapine. I documenti del colpo alla banca in tribunale? Ma cosa. Si è preso solo i soldi. Non è un uomo dei servizi. Era solo un cassettaro. Pure invalido dall'81, da quando gli hanno sparato. Secondo lei perché ha il cerotto e non l'occhio di vetro? Lo deve pulire costantemente, potrebbe morire da un momento all'altro. I furti? Embé, che je voi dà? 50 anni? Le intercettazioni, estrapolate dal contesto, fanno sempre effetto. Sono frasi da romano, gente che non si prende mai troppo sul serio». Quindi la politica: « Io sono iscritto dal ' 76 al Pci. Mi conoscevano tutti nel Pd. Pignatone (ex procuratore capo di Roma, ndr) ha fatto il suo lavoro. Io me la prendo con chi non gli ha spiegato che si stava sbagliando e poi lo ha ringraziato. Penso a Matteo Orfini, all'ex segretario Cosentino. A ' sti papponi ho pagato cene e campagne elettorali, portato le truppe cammellate alle urne. E tu poi fai quella scena? Una banda di str... hanno arrestato solo quelli di destra e a sinistra i bersaniani». Buzzi qui riafferma di essere « comunista. Salvini e Meloni? Da ex detenuto non voterei chi chiede il carcere per tutto». Altra accelerazione sui grillini: «Virginia Raggi ringrazi. Quando sarebbe diventata sindaca senza Mafia Capitale? L'ho vista in aula, in attesa per ore per le sentenze. Ma non ha da fare per la città? Voleva che Roma venisse dichiarata mafiosa? È corruzione. Quella che neanche i 5S sono riusciti a estirpare. Ora c'è la storia del Condono. Ma ci sono state Multopoli, Parnasi, il Servizio giardini. I grillini gridano " onestà", poi non cambia nulla. Anzi, stai a vedere che a ottobre condannano la sindaca in appello. Lo diceva Pietro Nenni, " un puro trova sempre uno più puro che lo epura". O no?». Se la prima cittadina (che con i suoi ieri si è detta «preoccupata per la scarcerazioni») non pare piacere troppo a Buzzi, lo stesso non si può dire di altri politici. Persino di un pm: «Mi piacciono Palamara e Di Battista. Il magistrato mi è simpaticissimoo. Si barcamenava per tutti e ra non lo conosce nessuno. Ma andate aff... poi c'è Dibba, uno in gamba. Lo conosco? No. Ma è l'unico 5S rimasto con l'apriscatole. Dice la verità, gli altri si sono tutti incravattati». Per il protagonista del Mondo di Mezzo, l'importante è che non corra per il Campidoglio: «Bisogna strane lontani. Lì non è cambiato nulla. Se i bandi sono farraginosi, arriva la corruzione per snellire le pratiche. Questo la politica non lo capisce». Buzzi, invece, lo sa: «Con Alemanno e Marino, il Comune aveva un tasso di affidamenti diretti dell'87%. Era colpa mia? Se ci fossero stati bandi, avrei partecipato. Ho vinto gare in tutta Italia. Mentre facevo 180 milioni fuori Roma, qui mi indagavano per 65 mila euro. Sono stato vittima di un sistema. Mi sono pentito? Certo, ho pure detto che ho pagato di più, ma per i giudici non ero credibile». La difesa è arcigna: «Avrei corrotto Giordano Tredicine. Ma in 2 anni e 2 mesi non c'è stata manco una telefonata. Era un contributo elettorale». Restano gli affari con Carminati e le accuse ancora in piedi: « Sul campo rom di Castel Romano il Comune ha messo 9 milioni e noi 1,4. Chi è la Banda Bassotti? Noi due ovviamente. Gli anni in carcere, le coop fallite in mano agli amministratori giudiziari non me le ridarà nessuno. I lavoratori mi hanno scritto. I politici? Nessuno. Non li voglio più vedere» .

Intervista a Salvatore Buzzi: “Il Csm funziona come funzionava Mafia Capitale”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Non era mafia, “non esistevano metodi da criminalità organizzata”. Non c’era la leva della paura e a dirla tutta perfino la corruzione era poca cosa. Episodi circoscritti. Il quadro delineato dal dispositivo che derubrica i reati di Salvatore Buzzi lo restituisce ridimensionato, rispetto al fantomatico mostro di cui si è parlato. Intanto a Roma c’è stato un terremoto, sono venuti giù palazzi interi. Spazzata via una classe dirigente, è stata suonata la fanfara che ha accompagnato in Campidoglio la “banda degli onesti” a Cinque Stelle. Buzzi intanto si è fatto cinque anni e sette mesi, cinque dei quali di carcere duro. Istituto di massima sicurezza a Tolmezzo, incastonato tra le Alpi Carniche. «Un confinamento dove mia moglie e mia figlia di dieci anni non potevano neanche raggiungermi». Con Buzzi c’era qualche siciliano che nella mafia c’è stato, eccome. «Ma con quelli non si parlava mai. Quelli parlano pochissimo». Lui invece è sempre stato loquace e oggi che può parlare, parla a ruota libera. Chiamando in causa più di qualcuno. Il Riformista lo ha raggiunto per la sua prima intervista a piede libero: esce dal regime detentivo dopo che il tribunale del Riesame ha rigettato il ricorso presentato dalla Procura generale della Corte d’appello di Roma contro la sua scarcerazione. «Appena ho saputo di poter uscire dai domiciliari, sono andato con mia figlia a mangiare un gelato», ci racconta. «Voglio farle capire che suo padre può camminare per le strade di Roma a testa alta, perché non ha mai fatto male a nessuno».

Il reato di corruzione però è accertato.

«Abbiamo concentrato tutte le energie difensive sull’accusa di mafia, e non ho un apparato di difesa come può permetterselo Berlusconi. I capi di accusa sulle corruzioni li abbiamo un po’ tralasciati, perché c’è il primum vivere, deinde philosophari. La priorità era scongiurare l’infamante accusa di aver costruito un metodo mafioso a Roma. Ma io mi considero responsabile solo di tre corruzioni. Tre, non di più».

E tutto il resto?

«Se io pago un facilitatore per aiutarmi ad avere i pagamenti cui ho diritto da parte del Ministero degli Interni che non mi paga, e questo facilitatore è del tutto esterno all’amministrazione, come mi si fa a condannare per corruzione? Luca Odevaine non era interno all’amministrazione, ma aveva rapporti con dirigenti del Viminale, dove io non riuscivo a entrare. Io a lui chiedevo solo di aiutarmi a essere pagato, perché le fatture il Ministero le pagava con troppo ritardo. In un Paese normale funziona così? No di certo. Non è giusto raccomandarsi l’anima al diavolo per ottenere il saldo di una fattura, sono io il primo a dirlo. Ma la pubblica amministrazione non ci sente, chiunque fa il fornitore nell’ambito del pubblico lo sa bene. Io avevo crediti legittimi per milioni di euro che non sono stati mai contestati. La mia corruzione è stata quella di aver pagato un professionista terzo per sollecitare questi pagamenti. Qualcuno pensa che mi sia divertito a farlo? Ma perché, io non lo vorrei un mondo normale, in cui si lavora e si viene pagati il giusto?»

Entriamo nel merito. Le carte parlano di corruzione diffusa.

«A Roma, come in tutta Italia, c’è corruzione. Mance, mazzette, richieste di favori o di assunzioni. Va così dal Regno d’Italia a oggi. La settimana scorsa hanno arrestato tre persone all’ufficio del catasto. Parnasi è coinvolto con importi molto superiori ai miei. Lo scandalo del palazzo Atac è di questi giorni. Di cosa stiamo parlando, allora? Io ho corruzioni per 65.000 euro, a fronte di un fatturato di 180 milioni di euro. Uno zerovirgola. Mi considero uno bravo.

Percentualmente poco, ma sempre corruzione rimane. Non è commendevole pagare tangenti, certo. La mia cooperativa era sana, ma quando ti trovi in quel contesto poi sbagli. Anche io mi chiedo perché ho pagato quelle tre tangenti».

E che cosa si risponde?

«Che non bisogna pagare nessuno né per lavorare né per farsi pagare il lavoro, in un mondo ideale. Ma da noi non funziona. Il paradosso è questo: io dovevo avere dei pagamenti dal Ministero dell’Interno e dalla Protezione Civile. Ho dovuto pagare un tramite perché rendesse fluidi i pagamenti che mi spettavano per legge».

La condotta mafiosa dove stava?

«Quello che ho detto ai magistrati sin dal primo momento. Loro insistevano: voi cooperative di destra avete fatto un patto mafioso. Io li guardavo con gli occhi di fuori. Ragioniamo, dicevo loro: la mafia esige il pizzo e mette paura. Io avevo diritto a pagamenti per il lavoro della cooperativa, oltretutto un lavoro di reinserimento sociale, e neanche mi saldavano il dovuto. E se dovevo chiedere l’intervento di un mediatore era proprio perché non mettevo paura a nessuno. In banca mi ridevano in faccia: le fatture del Ministero erano praticamente crediti inesigibili. Ma io i lavoratori miei li dovevo pagare: tutti contrattualizzati e con famiglie a carico. Nella mia cooperativa c’è la regola per cui il presidente non può guadagnare più di quattro volte quello che guadagna l’ultimo dei dipendenti. E io l’ho sempre rispettata».

Non era lei a offrire le tangenti?

«Io non ho mai corrotto di mia iniziativa, ma dove ti giri ti giri, trovi sempre chi ti chiede soldi. Un po’ tutti. Qualcuno quasi estorcendomeli. Ero un pezzo di un sistema che funzionava così. Chi non chiedeva soldi, mi chiedeva di assumere persone. I figli. Le amanti. In questi giorni ho seguito la vicenda di Palamara e mi sono detto: ecco, io sono come Palamara. Prima tutti a chiedergli favori, poi appena si scopre che era intercettato, tutti spariscono.

Il Csm quindi funzionava come Mondo di mezzo?

«Ci sono dinamiche di do ut des che conosco bene. Il Csm funziona come funzionava Mafia Capitale per gli accordi collusivi tra le correnti della magistratura mentre io agivo con le cordate economiche per partecipare alle gare».

Si spieghi meglio.

«Io sono stato condannato dieci volte, non una, per turbativa d’asta in cui mi si incolpa di accordi collusivi con le altre imprese, cioè “io vado da una parte e tu da un’altra”. Salvo poi scoprire che al Consiglio superiore della magistratura, dei quattro posti da pm, invece che mettere a correre chi vuole in liste di corrente, se ne indicano uno per ciascuna corrente in modo da spartirsi i posti uno per corrente. Lo ha rivendicato Davigo intervistato da Bianconi quando gli ha detto: “Se avessi saputo di prendere tutto questo consenso, non avrei chiuso quell’accordo”. Un accordo collusivo per eleggere un organo costituzionale ed è tutto tranquillo. Lo faccio io e mi danno dieci turbative d’asta. È l’equilibrio di Nash: tutti concorriamo ad avere un vantaggio, a scapito di avere un vantaggio singolo superiore. Si applica in economia, ed è quello che ha fatto Piercamillo Davigo con Giuseppe Cascini».

Cos’era la sua cooperativa al momento del suo arresto?

«La “29 Giugno” era la più solida cooperativa sociale del Lazio. Trenta milioni di patrimonio, 1250 dipendenti. 500 soci. I soci avevano sedici mensilità, e ogni mese prendevano i loro soldi. Questa realtà gli amministratori giudiziari la hanno spolpata».

Spolpata?

«Sto leggendo ora la relazione: gli amministratori si sono liquidati parcelle da un milione di euro l’una. Hanno assunto svariati collaboratori, si sono fatti autorizzare dal giudice l’assunzione di familiari. E una cooperativa solida è fallita. I dipendenti sono stati precarizzati. Io sono passato per boss mafioso, e loro per fenomeni».

Un milione di euro l’uno?

«Ha capito bene. Più Iva. Per tre anni di lavoro. E non per averla rimessa in piedi, al contrario: per averla fatta fallire. Erano tre, quindi tre milioni. Settantamila euro agli otto collaboratori che si sono portati dietro, più svariate centinaia di migliaia di euro per tutte le assunzioni, tra cui alcuni famigliari degli amministratori. Io l’azienda l’avevo lasciata sana, adesso non c’è più. E il danno non lo subisco solo io ma tutti quelli che ci lavoravano».

Vi hanno descritto come una banda malavitosa.

«Loro partono con l’operazione mediatico-giudiziaria che prende alla lettera quello che scrivono Bonini e De Cataldo nel libro Suburra. Il libro Suburra esce nel 2013. Io nel mio libro riporto dieci similitudini tra l’inchiesta che mi ha colpito e la narrazione del libro. Dieci punti identici. Per fare sei al superenalotto ci vuole parecchia fortuna, no? Ecco, loro pretenderebbero di aver fatto dieci con l’inchiesta cosiddetta di Mafia Capitale, che poi è stata smontata. E il Ros dei Carabinieri ha estrapolato alcune conversazioni private, le ha stravolte fuori dal contesto e le ha proiettate nell’immaginario collettivo come fossero frasi da film».

Quali intercettazioni contesta?

«“La mucca deve mangiare per poter essere munta”; parlavo della Cooperativa, che deve lavorare se deve dare lavoro; loro hanno detto che la mucca era il Comune. Sbagliando. Ma non accettavano la mia immediata spiegazione, no. Erano convinti di dover dare una interpretazione univoca alle parole. “Gli immigrati rendono più della droga” era una iperbole detta per rispondere a una provocazione della mia segretaria, con quel tono ironico con cui si parla a Roma. Ma le intercettazioni ambientali decontestualizzano sempre, e non rispettano sarcasmo, ironia e qualche eccesso colloquiale. D’altronde non ho avuto alcun reato collegato all’immigrazione, e per l’assistenza ai migranti prendevo quello che prendeva la Caritas».

Le sembra che gli inquirenti stessero seguendo un copione?

«Esattamente. Quando i carabinieri vanno a perquisire l’abitazione di Gianni Tinozzi, mio amico che era colpevole soltanto di essere direttore del ristorante dove io andavo ogni tanto a mangiare, lui trasecola e chiede spiegazioni. Si sente rispondere dal Carabiniere: “Domani legga Repubblica e ci trova tutto”. Come mai i Carabinieri alle 7 del mattino suggeriscono di comprare Repubblica per sapere i dettagli che loro stessi ancora non hanno in mano? E come mai Bonini “indovina” dieci personaggi su dieci che pochi anni dopo vengono indagati? Vedo troppe ombre nell’osmosi tra pm e giornalisti».

Quali?

«Tante. Non si capiscono i ruoli. Un esempio? Ancora aspetto che Luciano Fontana o lo stesso Giovanni Bianconi smentiscano l’affermazione di Palamara per cui Bianconi era dei servizi. Smentiscano o confermino. Che tutto passi in cavalleria, questo è inaccettabile. Non è proibito collaborare con i servizi, ma ce lo dicano».

Una trama a beneficio di chi?

«Loro arrestano Carminati, che era l’incarnazione del Male. Riccardo Mancini, che era il braccio destro di Alemanno e Franco Panzironi che ne era il braccio sinistro. Alemanno viene indagato per 416 bis e la cooperativa 29 Giugno, definita “cooperativa di destra”, messa in amministrazione giudiziaria. Non avevano neanche capito che noi eravamo di sinistra. Passano dei mesi e arrestano Gramazio. E poi arrestano qualcuno della corrente di Bersani, nel Pd di Roma. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Arrestano Daniele Ozzimo per un contributo elettorale richiesto e dato, e Pierpaolo Pedetti non ho mai capito perché l’hanno arrestato. Tutti gli altri, niente. E dire che tutti gli altri, che pure erano nelle intercettazioni, che mi chiedevano soldi e contributi, tutti archiviati. Solo qualche arresto in una certa corrente di destra e in una precisa corrente di sinistra. Quasi col bilancino. La mia operazione era funzionale a colpire due famiglie politiche equidistanti, io posso solo dare questo dato. Poi ciascuno tragga le sue valutazioni».

Proprio in questi giorni anche a Parma va in soffitta l’inchiesta che ha portato l’ex sindaco alle dimissioni e assicurato la vittoria ai Cinque Stelle. Ora la Procura ha ammesso gli errori investigativi.

«Certo, e a Roma è stata la stessa cosa. Hanno spianato la strada ai Cinque Stelle. Una come Virginia Raggi senza di me quando mai sarebbe diventata sindaco? Senza di me e senza Matteo Orfini».

Che c’entra Orfini?

«Orfini è quello che ha detto “ringraziamo Pignatone che ci ha liberati dalla mafia”. Questo da una persona che mi conosce non lo posso accettare. Io sono stato iscritto al Pci dal 1976, poi militante nel Pds-Ds. Sempre stato dalemiano, come una volta era Orfini. Ma quando Pignatone dice che la mia era una cooperativa mafiosa e di destra, dopo aver invece lavorato per anni con tutti i sindaci di centrosinistra degli ultimi vent’anni, mi aspettavo che qualcuno alzasse un dito. O il telefono. Invece niente, all’improvviso mi hanno fatto il vuoto intorno tutti».

Come nasce il sodalizio con Carminati?

«Feci la prima manutenzione dell’Eur nel 2000, vinsi la prima gara da solo. Nel 2008 vince Alemanno, ma inizialmente con l’ad di Ente Eur, Riccardo Mancini, andava tutto bene. Usava il motto di Deng Xiao Ping: non mi interessa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo. E noi lavoravamo sodo, problemi di mancata manutenzione non ce n’erano mai. Quando nel 2009 rifacciamo la gara, la faccio da solo. Ma nel 2012 va a rinnovo e Mancini mi parla di Carminati, che è un ex detenuto come tanti con cui già lavoravo. E io perché mi devo fare problemi? Gli ho detto sì. E quando me lo presentano, guardo i suoi precedenti penali. Tre rapine a mano armata e un furto. Il resto è operazione mediatica. Io in cooperativa avevo già avuto Concutelli, killer del giudice Vittorio Occorsio. Era un uomo di estrema destra, certo, ma che aveva pagato i conti con la giustizia. Due volte è stato assolto per l’omicidio Pecorelli. Nel mio libro pubblico le sentenze di condanna di Carminati, per mettere le cose in chiaro».

Buzzi rimane un uomo di sinistra?

«Credo nel valore della redistribuzione sociale, e applico la differenza tra imprenditore e dipendente nel massimo di 1 a 4. Ho sempre combattuto contro le discriminazioni e per il reinserimento sociale dei detenuti. Pignatone può sbagliare, ma chi a sinistra mi ha voltato le spalle è imperdonabile. Io oggi voterei per Silvio (Berlusconi, ndr). O per i radicali. Ma mi sembra che i radicali non si presentano più, quindi mi astengo».

Come le appare il mondo, adesso che si riaffaccia da uomo libero?

«C’è una osmosi tra giornali e magistrati che non ha uguali nel mondo. Il caso dell’audio su Berlusconi che avete pubblicato è eloquente. Le sentenze escono con novanta pagine di motivazione, come fossero state scritte a monte, ben prima della camera di consiglio. Antonio Esposito fa l’editorialista del Fatto e nessuno si scandalizza. Ditemi un altro Paese nel mondo in cui questo può avvenire. Di tutto questo parlo nel libro Se questa è mafia, curato da Stefano Liburdi e uscito con un editore piccolo ma coraggioso, le edizioni Mincione. Un libro che però non riesco a presentare: nessuno vuole darmi una sala. Sono diventato scomodo per tutti».

Si sente un personaggio da romanzo, suo malgrado?

«Mi sento vittima di un complotto mediatico-giudiziario nel quale Bonini ha fatto i soldi e io ho fatto la galera».

Federica Angeli e Simona Casalini per ''la Repubblica - Roma'' il 12 giugno 2020. C'è voluto quasi un anno per comprendere i  motivi per cui la Cassazione nell'ottobre del 2019 decise che l'organizzazione capeggiata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non era mafia. smontando l'impianto accusatorio della procura di Roma. In mattinata, a 8 mesi dal verdetto degli Ermellini, è finalmente arrivato il deposito delle motivazioni. Le pagine a sostegno della tesi della suprema corte sono 379. "L'associazione mafiosa non è un reato associativo puro - scrivono i magistrati nelle carte - e per la configurazione del reato di 416bis è necessario che il gruppo abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice "dolo" di farvi ricorso: occorre che il sodalizio dimostri di possedere detta forza e di essersene avvalso". Al netto quindi di singolo episodi in cui Carminati, ad esempio, minaccia l'ad di Eur spa Riccardo Mancini di farlo strillare come un'aquila se non avesse assecondato i suoi desiderata i quelli di Buzzi, la maggior parte dei politici e dei funzionati implicati nell'inchiesta, non hanno avuto bisogno di essere intimiditi. Bastava corromperli per ottenere in cambio l'appalto o la delibera costruita ad hoc. La Corte ha escluso il carattere mafioso dell'associazione contestata agli imputati e ha riaffermato l'esistenza, già ritenuta nel processo di primo grado, di due distinte associazioni per delinquere semplici: l'una dedita prevalentemente a reati di estorsione, l'altra facente capo a Buzzi e Carminati, impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell'amministrazione comunale romana ovvero in enti a questa collegati. "Non era Mafia Capitale, ma i clan nella Capitale ci sono", sottolineano gli Ermellini. Nel sistema criminale emerso nel processo Mondo di mezzo, la Cassazione "senza negare che sul territorio di Roma possano esistere fenomeni criminali mafiosi" rileva che "i risultati probatori hanno portato a negare l'esistenza di una associazione a delinquere di stampo mafioso". Quel che è stato appurato "è un quadro complessivo di un sistema gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione". La complessa sentenza ha ripercorso le fasi del processo ed esaminato i numerosi motivi di ricorso, fissando alcuni principi di diritto sia in tema di associazione mafiosa, sia nella materia dei reati contro la pubblica amministrazione. Dure le parole della Cassazione nei confronti dei giudici dell'Appello. "La decisione della Corte di appello di riformare in peius (in senso peggiorativo) la sentenza del tribunale - scrivono - e di ritenere esistente un'unica associazione mafiosa richiedeva innanzitutto una motivazione "rafforzata". Obbligo della motivazione rinforzata si impone per il giudice dell'appello tutte le volte in cui ritenga di ribaltare in senso peggiorativo la decisione del giudice di primo grado". La Corte, senza affatto negare che sul territorio del Comune di Roma possano esistere fenomeni criminali mafiosi, ha spiegato che i risultati probatori hanno portato qui a negare l'esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l'utilizzo del metodo mafioso, né l'esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l'associazione possedesse una propria e autonoma "fama" criminale mafiosa. Quello che è stato accertato è "un fenomeno di collusione generalizzata, diffusa e sistemica, il cui fulcro era costituito dall'associazione criminosa che gestiva gli interessi delle cooperative di Buzzi attraverso meccanismi di spartizione nella gestione degli appalti del Comune di Roma e degli enti che a questo facevano capo. Ciò ha portato alla svalutazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di accaparramento a vantaggio di privati". I fatti "raccontano" anche di imprenditori che hanno accettato una logica professata da Buzzi e dai suoi sodali, basata sugli accordi corruttivi, intercorsi tra funzionari pubblici e imprenditori, convergenti verso reciproci vantaggi economici. In questo modo si è limitata la libera concorrenza e ciò è avvenuto attraverso forme di corruzione sistematica, ma non precedute da alcun metodo intimidativo mafioso".

 “Mafia Capitale”, i giudici: «Non c’è traccia di metodo mafioso». Simona Musco su Il Dubbio il 12 giugno 2020. Le motivazioni della sentenza: «un “sistema” gravemente inquinato dal mercimonio della pubblica funzione. ma senza alcuna forma di intimidazione». Affermare che “Mafia Capitale” non sia stata un fenomeno mafioso non vuol dire negare l’esistenza della mafia sul territorio romano. Bensì significa che «i risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa». È quanto affermano i giudici di Cassazione nelle motivazioni della sentenza “Mafia Capitale”, depositate oggi. Un’inchiesta, quella condotta dall’allora capo della Procura Giuseppe Pignatone, che ha di fatto ha cambiato le sorti della politica capitolina, spianando la strada al M5S. Ma stando a quanto scrive la Cassazione, la parte fondamentale di quella teoria accusatoria era infondata. L’errore della Corte d’Appello, scrivono i giudici, è soprattutto essersi richiamata alle decisioni della Cassazione in sede cautelare, «affermando apoditticamente la identità dei fatti». Una valutazione «gravemente erronea», in quanto «non solo non risulta la disponibilità di armi, ma neanche sono state dimostrate nel giudizio le strette relazioni con altri gruppi mafiosi», escluse dalla stessa motivazione della sentenza d’appello, mentre lo sfruttamento della forza d’intimidazione «è circostanza che questa Corte di Cassazione, nelle sentenze citate, basava su di un determinato materiale indiziario, ma che il Tribunale, sulla scorta dell’istruttoria dibattimentale, che certo non è stata di mero completamento di prove formate in fase di indagine, ha smentito». Insomma, i fatti che avevano portato la Cassazione a confermare la necessità del carcere per gli imputati «non sono affatto i medesimi emersi in dibattimento ed accertati dal primo giudice». Ovvero le indagini avevano fornito un quadro di gravità poi smentito dalle prove. «La complessa sentenza – affermano i giudici – ha ripercorso le fasi del processo ed esaminato i numerosi motivi di ricorso, fissando alcuni principi di diritto sia in tema di associazione mafiosa, sia nella materia dei reati contro la pubblica amministrazione». E le evidenze probatorie hanno portato ad escludere il carattere mafioso dell’associazione contestata agli imputati, riaffermando l’esistenza, già ritenuta nel processo di primo grado, «di due distinte associazioni per delinquere semplici: l’una dedita prevalentemente a reati di estorsione, l’altra facente capo a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell’amministrazione comunale romana ovvero in enti a questa collegati». A processo c’erano 32 imputati, di cui 17 condannati a vario titolo dalla Corte d’Appello di Roma, a settembre del 2018, per associazione a delinquere di stampo mafioso, con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno. L’accusa avanzata dalla procura di Roma era quella di aver costituito una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. Si tratta, invece, di «un fenomeno di collusione generalizzata, diffusa e sistemica, il cui fulcro era costituito dall’associazione criminosa che gestiva gli interessi delle cooperative di Buzzi attraverso meccanismi di spartizione nella gestione degli appalti del Comune di Roma e degli enti che a questo facevano capo. Ciò ha portato alla svalutazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di accaparramento a vantaggio di privati». Un quadro non meno grave di quello delineato dall’ipotesi accusatoria, che però aveva attribuito alle due associazioni caratteri tipici della criminalità organizzata di stampo mafioso, le cui modalità di azione non emergono però, secondo la sentenza, dalle indagini svolte.  Ciò che emerge è «un “sistema” gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione. Una parte dell’amministrazione comunale si è di fatto “consegnata” agli interessi del gruppo criminale che ha trovato un terreno fertile da coltivare». Alcuni imprenditori hanno «accettato una logica professata da Buzzi e dai suoi sodali, basata sugli accordi corruttivi, intercorsi tra funzionari pubblici e imprenditori, convergenti verso reciproci vantaggi economici. In questo modo si è limitata la libera concorrenza e ciò è avvenuto attraverso forme di corruzione sistematica», che, però, non sono state precedute «da alcun metodo intimidativo mafioso». Confermata la responsabilità penale di quasi tutti gli imputati per una serie di gravi reati contro la pubblica amministrazione, oltre che per la partecipazione alle associazioni criminali, ribadendo sotto questi profili le precedenti decisioni di merito. Per alcuni è necessario tornare in appello per un nuovo giudizio sulla responsabilità per reati contro la pubblica amministrazione, mentre nella maggioranza dei casi per una rideterminazione della pena a seguito dell’esclusione del carattere mafioso delle due associazioni criminose.

Gli attentati al giornalista anticamorra sono tutto un bluff? Le Iene News il 26 maggio 2020. Pochi giorni fa è uscita questa notizia: “Mario De Michele indagato per simulazione di reato, si è sparato da solo i colpi di pistola contro la sua abitazione”. Per noi è stato uno shock, dopo averlo conosciuto con il nostro Silvio Schembri. La Iena è tornato da lui per chiedergli spiegazioni. Qualche giorno fa è uscita su tutti i giornali questa notizia: “Il giornalista Mario De Michele indagato per simulazione di reato, ha sparato lui i colpi di pistola contro la sua abitazione. Ha ingannato tutti”. Per noi è stato uno shock, perché Mario è una nostra vecchia conoscenza. Il nostro Silvio Schembri lo aveva incontrato poco dopo l'agguato che ha denunciato di aver subito a novembre. Mario diventa un simbolo del giornalismo anticamorra. Il 4 maggio sembra subire un altro attentato, con spari rivolti contro la sua abitazione. “Io ho paura, sono una persona normale”, ci aveva detto. Evidentemente però con tante ombre, perché solo due settimane dopo escono le notizie sulle indagini a carico del giornalista. A questo punto il nostro Silvio Schembri torna da Mario De Michele con una domanda: “Che minchia hai combinato?”. 

Caserta, il giornalista Mario De Michele indagato per "simulazione di reato". Il direttore del sito on line, Campania Notizie, si è sparato da solo i colpi di pistola presso la propria abitazione la notte del 4 maggio scorso. Gli verrà revocata la scorta. Raffaele Sardo su La Repubblica il 18 maggio 2020. Mario De Michele, il direttore del giornale online, “Campania Notizie”, è indagato  per aver simulato i due attentati subiti il 14 novembre 2019 ed il 4 maggio 2020. La Direzione distrettuale Antimafia di Napoli che segue le indagini su De Michele, scortato da uomini delle forze, ha scoperto che quei colpi di pistola contro la sua casa li aveva sparati da solo. Come pure l’attentato del 14 novembre dove denunciò di essere stato inseguito da uomini armati che gli avevano sparato contro, mentre era in auto nelle campagne di Gricignano di Aversa. Nella sua auto furono trovati almeno 10 colpi di arma da fuoco. De Michele ha ricevuto un avviso di garanzia venerdì 15 maggio e una perquisizione presso la sua abitazione a Cesa, dove furono sparati i tre colpi di pistola nel corso della nottata. I reati contestati dalla Dda di Napoli son quelli di calunnia e detenzione di armi da fuoco in concorso con un Pasquale Ragozzino, avvocato di Orta di Atella che avrebbe fornito una delle armi usate nell’occasione. L’indagine, assegnata al sostituto procuratore Fabrizio Vanorio del pool anticamorra, è stata seguita anche in prima persona dal Procuratore Gianni Melillo e dal suo aggiunto Luigi Frunzio. Ma sono stati i carabinieri di Aversa, al servizio del Colonnello Donato D’amato a  seguire passo passo l’evoluzione degli avvenimenti.  Ora l’indagine comparerà i colpi di pistola per capire se è stata la stessa arma a sparare nelle due occasioni. Intanto sabato scorso si è riunito il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica e ha già stabilito di proporre all’Ucis di togliere la scorta a Mario De Michele, assegnata in occasione del  primo attentato. Dopo quell’episodio De Michele fu ospitato in numerose trasmissioni televisive, raccontando la sua vita di “giornalista anticamorra e sotto scorta”.  De Michele, ieri ha pubblicato un articolo, sul suo sito, annunciando “un passo di lato”, parlando di “stanchezza fisica e mentale”. Ha poi chiesto scusa “a magistratura, carabinieri, prefettura” e ha annunciato di volersi dedicare alla famiglia. “Per me è l’ora di cambiare – ha scritto -  lo devo a mio figlio, a mia moglie, a mio padre e a mia madre. E a me stesso. Non getto la spugna. Spengo solo l’interruttore per evitare il corto circuito. Vi ho spiegato in gran parte perché. So già che in tanti non mi crederanno. Fa nulla. Vi saluto col biglietto d’addio di uno scrittore italiano sottovalutato: “Non fate troppi pettegolezzi”.

Giornalista denunciò attentati della camorra, ora è indagato per simulazione di reato. Mario De Michele, giornalista campano che tempo fa ha denunciato attentati da parte della camorra, è indagato per simulazione di reato e gli verrà tolta la scorta. In una lunga lettera la sua ammissione e le sue scuse. Francesca Galici, Martedì 19/05/2020 su Il Giornale.  La vicenda del giornalista Mario De Michele ha riempito alcune pagine della cronaca tra i mesi di novembre e dicembre. Tutto è iniziato prima di Natale, quando il direttore di Campania Notizie ha deciso di denunciare due attentati nei suoi confronti. La magistratura aveva aperto un'inchiesta per ricostruire la dinamica dei fatti e, soprattutto, il movente alla base delle aggressioni dichiarate. Mario De Michele era stato spesso ospite anche in tv per raccontare la sua storia, l'ultima volta pochi giorni fa, quando a Le Iene ha raccontato di un nuovo attentato subito per mano di ignoti che, nella notte, avevano sparato contro la sua abitazione. Tutti racconti verosimili quelli di Mario De Michele, che adesso è però indagato per simulazione di reato. Da novembre, Mario De Michele viveva sotto scorta per paura che gli attentati contro la sua persona fossero per mano della criminalità organizzata. Nel secondo episodio di novembre, il giornalista aveva raccontato di essere stato raggiunto da una scarica di 6-7 proiettili sparati contro la sua macchina. Due di questi avrebbero raggiunto il parabrezza dell'auto e non lo avrebbero colpito per pochissimi centimetri. Per coprirsi la fuga, i presunti malviventi avrebbero poi sparato altri colpi contro il lunotto posteriore della vettura, mandandolo in frantumi. L'ultimo attentato dichiarato risalirebbe a maggio, quando ignoti avrebbero sparato contro la sua abitazione, in un momento in cui in casa erano presenti anche sua moglie e suo figlio. Gravissimi atti intimidatori, per i quali il giornalista aveva ricevuto la solidarietà di Federstampa e dei suoi colleghi. Nelle ultime ore c'è stata una svolta. Mario De Michele risulta ora indagato per simulazione di reato per i fatti denunciati lo scorso novembre e per l'ultimo di maggio. La Direzione Distrettuale Antimafia ha scoperto che i colpi di pistola contro l'automobile del giornalista e contro la sua abitazione risulterebbero essere stati sparati dallo stesso Mario De Michele. L'avviso di garanzia per il giornalista campano è stato notificato lo scorso 15 maggio, giorno nel quale è stata effettuata anche una perquisizione nella sua casa di Cesa. La DDA di Napoli contesta a Mario De Michele i reati di calunnia e detenzione di armi da fuoco, il tutto il concorso con Pasquale Ragozzino, un avvocato di Orta di Atella che avrebbe fornito le armi per uno degli episodi. A questo punto gli inquirenti dovranno analizzare e comparare i proiettili per verificare che siano stati sparati dalla stessa arma in entrambe le occasioni denunciate dal giornalista. Intanto è già al vaglio la proposta di eliminare la scorta per Mario De Michele. Intanto il giornalista ha pubblicato la sua lettera di addio al quotidiano Campania Notizie con un intervento di suo pugno in cui annuncia di voler fare "un passo di lato per un crollo fisico e mentale". Un ammissione di colpe ma anche un atto di discolpa, in qualche modo. Ammette di aver perso la bussola delle priorità e il senso della realtà. "L'ho compreso oggi per ragioni che non starò qui a raccontare. Oggi posso solo dire che a volte il 17 porta bene. Da quest'anno il 17 maggio sarà il mio 25 aprile", ha scritto Mario De Michele nel suo lungo saluto ai lettori. Parla di un crollo, di uno tsunami dal quale è stato travolto, delle etichette di giornalista anticamorra che gli sono state affibbiate ma che non ha mai amato. Almeno fino a un certo punto, quando "in quegli abiti mi trovavo sempre più a mio agio. E a causa di quel vestito da supereroe ho commesso qualche errore. Alcuni gravi. Imperdonabili."

La spazzacorrotti è uno schifo, una sfida a Falcone e a chi combatte la mafia. Piero Sansonetti de Il Riformista il 12 Febbraio 2020. La spazzacorrotti, come l’hanno chiamata con un linguaggio da trivio, è una delle leggi peggiori e più reazionarie mai approvate dal Parlamento della Repubblica. In due parole spieghiamo cos’è. Una norma che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia. Dal punto di vista di principio, questa legge ha stabilito che Roberto Formigoni – per esempio – deve essere trattato non come tutti gli altri condannati per reati vari (rapina, stupro, omicidio o cose così) ma come un mafioso: come Riina, o Provenzano, o Bagarella. Non solo in linea di principio, ma anche in linea pratica. Formigoni non può godere dei benefici penitenziari riservati a un assassino qualunque, perché lui – anche se non ci sono le prove – ha commesso un reato molto, molto più grave di quello commesso da chi – in un momento di confusione – ha – mettiamo – massacrato la moglie o sgozzato una figliola: Formigoni si è fatto ospitare in barca da un amico col quale – forse – aveva avuto rapporti politico-professionali nel suo ruolo di amministratore. Abuso: al rogo. Perché la spazzacorrotti è una pessima legge? Per tre ragioni.

La prima è abbastanza evidente. Equiparare un reato, anche piccolo, di corruzione, a un reato di mafia, è un atto evidente di insolenza e di sfida a tanta gente che ha dedicato la vita a capire e a combattere la mafia. Penso sempre a Falcone e a tanti che lavorarono con lui, e impiegarono anni, e tanta della loro credibilità, per spiegarci cosa fosse la mafia, come funzionasse, quanto e perché fosse pericolosa. Poi sono arrivati questi ragazzi a 5 Stelle e hanno deciso che mafia o traffico di influenze sono la stessa cosa.

Seconda ragione. Proclamare una nuova gerarchia di reati nella quale abuso d’ufficio è molto più grave di stupro è qualcosa di orribile, di atroce, che può provocare – anzi, che provoca – una ferita difficile da rimarginare nel senso comune.

Terza ragione, ma questa è più complessa e non riguarda i 5 Stelle ma chi ha governato prima di loro e ha aperto loro la strada: la giustizia, in un vero Stato di diritto, è uguale per tutti. Ci sono i reati più gravi e quelli meno gravi, ma ci dovrebbe essere un solo binario della giustizia. Il doppio binario è uno sgarro anche alla ragionevolezza. Sia il doppio binario nelle procedure e nei metodi di indagine, sia il doppio binario nelle punizioni. Riusciremo mai ad abolire questa anomalia? Intanto noi proviamo a chiederlo. E facciamo scandalo.

Dissequestrati beni dell'editore Mario Ciancio, ma la Procura può sempre opporsi. Il Corriere del Giorno il 24 Marzo 2020. La Corte d’appello afferma però qualcosa di poco piacevole per Ciancio e cioè come tra “Cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di “vicinanza/cordialità”. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo che era stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra i beni dissequestrati anche le società che controllano i quotidiani La Sicilia e  La Gazzetta del Mezzogiorno,  e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. Secondo la Corte d’appello il decreto impugnato “va conseguentemente annullato” come scrivono i giudici nelle 113 pagine delle motivazione della sentenza d’appello, “non può ritenersi provata l’esistenza di alcuni attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese”. Inoltre secondo il collegio giudicante della Corte di Appello di Catania “non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale” né “è risultata accertata e provata alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto il suo nucleo familiare potevano disporre la liquidità utilizzate nel corso del tempo“. Il decreto della Corte d’appello di Catania che dispone il dissequestro totale dei beni, entra nel merito delle vicende legate alla realizzazione di centri commerciali, del Pua e di vari investimenti sottolineando che in tutti i casi «non è emerso alcun rapporto tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra». E che lo «“schema trilatero” ipotizzato tra “politica-mafia-imprenditoria” resta una mera ipotesi investigativa priva di idonei contenuti probatori» e, inoltre, “in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore» della mafia. La Corte d’appello afferma però qualcosa di poco piacevole per Ciancio e cioè come tra «Cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di “vicinanza/cordialità”» dopo che la mafia ha «imposto un «rapporto di protezione» con «il pagamento da parte della vittima del “pizzo”» per «garantire al “protetto” la possibilità di continuare a svolgere la propria attività senza “rischi” e senza il pericolo di subire “atti ostili” nei confronti di un imprenditore che «viene poi considerato “amico”». Il sequestro finalizzato alla confisca per beni stimati in complessivi 150 milioni di euro era stato chiesto dalla Procura Distrettuale Antimafia di Catania ed eseguito il 24 settembre del 2018 dai Carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania nell’ambito del processo per concorso esterno all’associazione mafiosa in cui l’imprenditore è imputato, a seguito di una prima archiviazione del Gip successivamente annullata dalla Corte di Cassazione. La Procura Generale di Catania  può presentare reclamo in Cassazione contro il decreto della Corte d’appello, iniziativa che secondo fonti del palazzo di giustizia catanese viene data per scontata e sicura e chiedere quindi ad un altro collegio giudicante, il “congelamento” dell’esecutività del dissequestro, che di fatto farebbe tornare tutto sotto sequestro.  

Dissequestrati i beni di Ciancio Sanfilippo: «Non c’è prova che abbia aiutato la mafia». Il Dubbio il 25 marzo 2020. Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado vi è la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore siciliano. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo che era stato deciso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado vi è la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore e imprenditore. Tra i beni dissequestrati anche le società che controllano i quotidiani La Sicilia e Gazzetta del Mezzogiorno e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. «Mario Ciancio Sanfilippo non è pericoloso e il suo patrimonio è proporzionato alle entrate quindi la Corte annulla la confisca», ha commentato l’avvocato Carmelo Peluso, difensore dell’editore catanese. Le aziende del gruppo – un patrimonio dal valore di oltre 150 milioni – fino ad oggi sotto amministrazione giudiziaria, tornano dunque nelle mani dell’imprenditore. Un patrimonio lo ricordiamo di oltre 150 milioni di valore.Secondo la Corte d’appello di Catania, presieduta da Dorotea Quartararo, il decreto impugnato deve essere annullato in quanto «non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa nostra catanese». Secondo il Tribunale di primo grado, invece, ci sarebbe stato uno stabile «contributo» alla famiglia mafiosa catanese. Secondo i giudici di prevenzione di secondo grado, invece, «non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale», in quanto non è risultata accertata e provata «alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto e il suo nucleo familiare potevano disporre di liquidità utilizzate nel corso del tempo». Con l’articolato provvedimento di quasi 120 pagine, la Corte catanese ha affrontato tutti i temi del processo Ciancio, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle compravendite dei terreni sui quali sono sorti o sarebbero dovuti sorgere alcuni centri commerciali.«Con il provvedimento adottato oggi – affermano gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti – la Corte di Appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive da sempre sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso. Con la pronuncia sulla inesistenza di una sperequazione tra i redditi conseguiti e il patrimonio della famiglia Ciancio – sottolineano i legali – la Corte ha censurato anche il presupposto su cui il Tribunale aveva fondato la confisca dei beni, confermando la validità della minuziosa opera di ricostruzione reddituale e le puntuali osservazioni contenute nella consulenza tecnica del dottor Giuseppe Giuffrida, validamente collaborato dal dottore Fabio Franchina». Si chiude così il lungo periodo di amministrazione giudiziaria, cominciato il 24 settembre 2018, periodo, che, secondo Fnsi e le Associazioni regionali di Stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata «ha acuito i problemi delle testate producendo gravi ripercussioni sull’organizzazione delle redazioni, sugli organici e sulle retribuzioni di giornalisti e maestranze. Adesso è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale» concludono le organizzazioni sindacali.

Catania, restituiti beni a editore Ciancio: dissequestrata anche la Gazzetta del Mezzogiorno. Cdr: «Fine incubo di 18 mesi». Tra le motivazioni dei giudici di secondo grado anche la «mancanza di pericolosità sociale» dell’editore e imprenditore. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Marzo 2020. La Corte d’appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo e dei suoi familiari che era stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Secondo i giudici di secondo grado il decreto impugnato dai legali dell’editore e imprenditore «va annullato» perché, scrivono nelle 119 pagine della decisione motivata, «non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo arrecato in favore di Cosa nostra catanese». Inoltre "non può ritenersi provata alcuna forma di pericolosità sociale" né «alcuna sproporzione tra i redditi legittimi di cui Mario Ciancio Sanfilippo e il suo nucleo familiare potevano disporre e beni mobili e immobili a loro riferibili». Tra i beni interessati dal provvedimento, oltre a conti correnti e immobili, vi sono il quotidiano 'La Sicilia', la maggioranza delle quote della 'Gazzetta del Mezzogiorno' di Bari, due emittenti televisive regionali, 'Antenna Sicilia' e 'Telecolor' e la società che stampa quotidiani Etis. Per la Fnsi e le associazioni della stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata «si chiude un lungo periodo di amministrazione giudiziaria» e «adesso è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale».

Un atto di giustizia, un fattore di serenità. «Con il provvedimento adottato oggi - sottolinea il collegio di difesa - la Corte di appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun "contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso"».

NESSUN RAPPORTO CON COSA NOSTRA - Il decreto della Corte d’appello di Catania che dispone il dissequestro totale dei beni, entra nel merito delle vicende legate alla realizzazione di centri commerciali, del Pua e di vari investimenti sottolineando che in tutti i casi «non è emerso alcun rapporto tra Mario Ciancio Sanfilippo e Cosa nostra». E che lo «schema trilatero ipotizzato tra "politica-mafia-imprenditoria" resta una mera ipotesi investigativa priva di idonei contenuti probatori» e, inoltre, "in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore» della mafia. La Corte d’appello sottolinea come tra «cosa nostra catanese e l’imprenditore si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di vicinanza/cordialità» dopo che la mafia ha "imposto un rapporto di protezione» con «il pagamento da parte della vittima del pizzo» per «garantire al protetto la possibilità di continuare a svolgere la propria attività senza rischi e senza il pericolo di subire atti ostili nei confronti di un imprenditore che «viene poi considerato amico». Pagamenti che l’editore ha sempre smentito.

IPOTESI CASSAZIONE E CONGELAMENTO DISSEQUESTRO - Il sequestro finalizzato alla confisca per beni stimati in complessivi 150 milioni di euro era stato chiesto dalla Procura Distrettuale ed eseguito il 24 settembre del 2018 dai carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania nell’ambito del processo per concorso esterno all’associazione mafiosa in cui l’imprenditore è imputato, dopo una prima archiviazione del Gip poi annullata dalla Corte di Cassazione. Contro il decreto della Corte d’appello di Catania la Procura generale può presentare reclamo in Cassazione e chiedere, ad un altro collegio giudicante, il congelamento dell’esecutività del dissequestro.

COMITATO DI REDAZIONE: SPERIAMO SIA FINE DI UN INCUBO - Il comitato di redazione, nell’apprendere la decisione della Corte d’Appello di Catania, oltre a compiacersi per la positiva soluzione della vicenda che ha riguardato il dott. Mario Ciancio Sanfilippo, editore della Gazzetta del Mezzogiorno, esprime l’auspicio che la decisione di dissequestro dei giudici siciliani ponga una volta per tutte la parola fine a un incubo durato ben diciotto mesi. Tanti ne sono passati dal sequestro disposto dalle Misure di prevenzione del Tribunale di Catania, nelle cui maglie, com’è ormai noto, è finita anche la Gazzetta, la cui unica colpa era di appartenere a un imprenditore che oggi torna legittimamente a disporre dei propri beni. Diciotto mesi nei quali tutti i dipendenti della Gazzetta del Mezzogiorno hanno lottato tra mille difficoltà, lavorando anche senza retribuzione, pur di non mancare al quotidiano appuntamento in edicola con i Lettori di Puglia e Basilicata. Diciotto mesi nei quali il Comitato di redazione, supportato dalle Associazioni della stampa di Puglia e Basilicata e dalla Federazione nazionale della stampa italiana, oltre che da una eccezionale squadra di professionisti, ha incontrato tutti i possibili interlocutori istituzionali e imprenditoriali, pur di garantire la sopravvivenza di un quotidiano forte di 133 anni di vita. Un lavoro di trattative lunghe, estenuanti e a momenti anche demoralizzanti, aggravato dalla lentezza dei tempi burocratici dettati dalla gestione commissariale voluta dal Tribunale di Catania. Duole constatare che questa vicenda si risolva positivamente solo oggi, in un momento drammatico non solo per la vita del Paese, ma in una condizione di emergenza planetaria che, se da un lato rende ancor più prezioso e necessario il ruolo dell’Informazione, dall’altro rende difficoltoso il lavoro dei giornalisti e la diffusione della carta stampata. La Gazzetta del Mezzogiorno torna nel patrimonio e nella disponibilità di Mario Ciancio Sanfilippo con un accordo di drastici tagli del costo del lavoro già sottoscritto tra le parti sociali e la gestione commissariale e un piano di concordato già predisposto, presentato al Tribunale di Bari e poi ritirato per mancanza di garanzie finanziarie dalla Denver di Walter Mainetti, socio di minoranza della Edisud SpA. Alla luce di tutto ciò che è accaduto dal momento del sequestro ad oggi, i giornalisti della Gazzetta si augurano adesso di poter continuare a fare il proprio lavoro con maggiore serenità, confidando nella presenza di un editore vero, col quale poter dialogare e confrontarsi non solo sulla salvaguardia dei livelli occupazionali, ma anche e soprattutto sul futuro di una delle testate più antiche e prestigiose dell’Italia meridionale.

IL COMMENTO DEGLI AVVOCATI -  Con l’articolato provvedimento di quasi 120 pagine, la Corte catanese ha affrontato tutti i temi del 'processo Cianciò, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle compravendite dei terreni sui quali sono sorti o sarebbero dovuti sorgere alcuni centri commerciali. La Corte ha affrontato punto per punto tutti i temi trattati nel decreto del Tribunale e i relativi motivi di impugnazione proposti dai difensori, concludendo che "non può ritenersi provata l'esistenza di alcun fattivo e consapevole contributo arrecato da Ciancio Sanfilippo in favore di Cosa Nostra catanese"». Lo scrivono in una nota i legali dell’imprenditore ed editore, gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti. «Conseguentemente - aggiungono i penalisti - i giudici di appello hanno affermato che non sussiste alcuna forma di pericolosità sociale che possa consentire l’applicazione di una misura di prevenzione, né personale, né patrimoniale». «Con il provvedimento adottato oggi - osserva il collegio di difesa - la Corte di Appello chiude il lungo e doloroso calvario della misura di prevenzione nei confronti di uno dei più noti imprenditori siciliani, confermando la validità di tutte le argomentazioni difensive da sempre sostenute dagli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti, soprattutto nella parte in cui è stato escluso che Mario Ciancio abbia dato alcun 'contributo fattivo alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso'. Con la pronuncia sulla inesistenza di una sperequazione tra i redditi conseguiti e il patrimonio della famiglia Ciancio - sottolineano i legali - la Corte ha censurato anche il presupposto su cui il Tribunale aveva fondato la confisca dei beni, confermando la validità della minuziosa opera di ricostruzione reddituale e le puntuali osservazioni contenute nella consulenza tecnica del dottor Giuseppe Giuffrida, validamente collaborato dal dottore Fabio Franchina».

LE PAROLE DI FNSI - «Il dissequestro dei beni di Mario Ciancio Sanfilippo, fra cui rientrano anche i quotidiani La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari e La Sicilia di Catania e le emittenti Telecolor e Antenna Sicilia, disposto dal tribunale di Catania, restituisce la gestione delle testate al loro editore». Lo afferma il sindacato dei giornalisti, in una nota congiunta della Fnsi e delle Associazioni regionali della Stampa di Sicilia, Puglia e Basilicata. «Si chiude così il lungo periodo di amministrazione giudiziaria, cominciato il 24 settembre 2018 - spiega il sindacato - che ha acuito i problemi delle testate producendo gravi ripercussioni sull'organizzazione delle redazioni, sugli organici e sulle retribuzioni di giornalisti e maestranze. Adesso - conclude - è necessario che l’editore riprenda in prima persona le redini delle aziende, avviando una politica di rilancio all’insegna di una profonda discontinuità gestionale e manageriale».

L'AUSPICIO DI LONGO VICE PRES. CONSIGLIO REGIONALE - “Nel quotidiano bollettino di notizie tragiche e drammatiche, una speranza di ripartenza - per i giornalisti, i poligrafici, i lavoratori tutti e le intere comunità pugliese e lucana - arriva dal dissequestro della Gazzetta del Mezzogiorno. Temo sia presto per cantare vittoria, ma uno dei più importanti quotidiani del Sud finalmente, dopo mesi di Purgatorio, può vedere una luce in fondo al tunnel. Paragonare la carta stampata, se di qualità, a quell’ingorgo di notizie che, soprattutto in questo drammatico momento, è ampiamente rappresentato in Rete, non solo è controproducente per la formazione del pensiero dei lettori-fruitori, ma è assolutamente dannoso. Da qui la necessità e il dovere per una Puglia che vuole guardare al futuro, di difendere con le unghie e senza remore, le migliaia di copie quotidiane che la Gazzetta del Mezzogiorno ci consegna regolarmente anche in questo momento complesso. La Gazzetta in quest’ambito deve restare baluardo della verità e sostegno a quella nuova ed essenziale visione di modernità, e tutti i pugliesi e i lucani hanno il diritto dovere di lottare affinché, anche in seguito alle notizie giunte da Catania, questo patrimonio comune possa ripartire verso ambiziosi traguardi”.

LA NOTA DI LOSACCO (PD) - “Mi auguro che il dissequestro della Gazzetta del Mezzogiorno e degli altri beni dell’editore Ciancio disposta dalla Corte d’Appello di Catania possa consentire allo storico quotidiano pugliese di allontanare definitivamente il rischio di chiusura e di riprendere pienamente il proprio ruolo di guida dell’informazione regionale. Come non ci siamo mai stancati di ripetere in questi mesi, è impensabile un panorama informativo della Puglia e del Mezzogiorno senza la Gazzetta. Speriamo quindi che da qui possa ripartire, per continuare a scrivere nuove pagine della sua storia, sempre al servizio del territorio e della buona e libera informazione.” Lo scrive in una nota il deputato barese del Pd, Alberto Losacco.

Settantenne al 41 bis, dopo tre anni è finita l’ingiusta detenzione. Damiano Aliprandi il 29 genaio 2020 su Il Dubbio. Il Guardasigilli ha revocato il 41 bis per Nicola Simonetta, dopo che due sentenze hanno accertato la sua non partecipazione all’associazione mafiosa. Finalmente è finita l’ingiusta detenzione al 41 bis – durata ben tre anni – del calabrese settantenne Nicola Antonio Simonetta, nonostante la presenza di due sentenze che escludevano la partecipazione al sodalizio mafioso. Una storia denunciata sulle pagine de Il Dubbio e che finalmente, grazie all’interessamento di Rita Bernardini del Partito Radicale che ha sollecitato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ad occuparsi del caso, è andata a buon fine. Il guardasigilli con decreto del 14 gennaio, ha revocato lo speciale regime penitenziario e indicato di trasferirlo in un’altra Casa circondariale dotata dei presidi sanitari necessari alla salvaguardia della salute di Simonetta, vista la sua particolare patologia. L’avvocata difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha appreso che lunedì scorso è stato finalmente trasferito dal carcere di Parma dove era recluso in regime duro al centro clinico del carcere di Secondigliano. Finisce così l’incubo per Simonetta di vivere recluso nella frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato senza essere né un mafioso né un terrorista come risulta da ben due sentenze. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn e non curabile in regime duro. Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41 bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italoamericano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto. Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20 aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. «Tant’è che nell’inerzia delle parti – sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014». In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe – pur non comparendo mai – occultamente coordinato il traffico che altri ( Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Ora, per Simonetta, è almeno finito l’incubo del 41 bis.

Suicidio di un boss al 41 bis, o forse era solo un pasticciere chissà. Gioacchino Criaco il 24 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nelle esistenze che si spengono si soffre di più per le vite brevi, quando a morire sono i bambini. Eppure più si è piccoli, minore è la comprensione del concetto di morte, più si è giovani meno si ha paura di morire. Da grandi è diverso, la si percepisce in pieno l’ombra nera che arriva, e quando uno la vita se la toglie sa di portare dolore. Giuseppe Gregoraci si è impiccato nella cella del carcere di Voghera: ammazzarsi in una prigione è una cosa complessa, ti devi sottrarre ai tuoi guardiani, ai compagni di pena. Muori in modo ragionato, i perché te li lasci dietro perché non siano risolti, la tua vita finisce in cronaca, poche righe veloci e per chi non ti ha conosciuto resterai quello. Giuseppe era di Siderno, nella Locride, finito in una delle tante retate che si annunciano nelle albe radiose della Calabria, la sua aveva un nome imponente: Canadian Ndrangheta Connection, con essa, per la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, sono stati messi in luce i rapporti e i traffici fra le ‘ndrine calabresi e le loro corrispondenze criminali di Toronto. Dentro ci è finito a luglio quando in Calabria domina l’Oriente e gelsomini e oleandri fanno a gara per profumare la notte, oltre la libertà ha perso la sua terra e si ritrovato a respirare l’aria Padana di Voghera, che in estate sa delle vite giovani di granturco e riso e del letame delle stalle. Ed è stata la mancanza a segnare la gran parte dei suoi 51anni di esistenza: nessuno lo sa, ma da giovane Giuseppe è stato solo Pino, è entrato in una delle migliori pasticcerie del suo paese per imparare un mestiere. E lo ha fatto il pasticcere. Un incidente stradale gli ha portato via un piede. A Voghera ci è arrivato con una protesi, dopo un po’ ha rinunciato a utilizzarla perché le condizioni igieniche in promiscuità non sono facili da trovare. Si è arreso a una sedia a rotelle. E Pino era un uomo, era un uomo con una disabilità, con una giovinezza segnata da quel dramma, era un marito, un padre. Da detenuti si perde tutto, se si è accusati di mafia si diventa solo quello, un ‘ndranghetista. Lo si diventa prima di qualunque condanna. E forse anche quando ci siano le responsabilità, magari dopo che siano state dimostrate, il fatto di essere imputati non dovrebbe travolgere tutto. Le manette non lo hanno un angolo buono a contenere il cuore, non c’è una società buona a fabbricarglielo. E chissà se Pino è stato solo un pasticcere mancato o il boss “di rilievo” riportato in cronaca. Stava a 1.300 chilometri da casa, nel regime duro delle sezioni riservate ai mafiosi, la sua protesi nascosta da qualche parte e la sua umanità accantonata. Si è impiccato e ha lasciato i suoi perché, perché non si capiscano, o perché si capiscono fin troppo bene.

Il Comitato europeo all’Italia: «Il 41 bis è tortura». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti chiede che venga rivisto l’isolamento diurno dei detenuti. Presunte violenze al 41 bis come la vicenda di una ispettrice femminile del carcere di Viterbo che avrebbe bruciato le dita dei piedi con un accendino per accertare se il detenuto stesse fingendo uno stato catatonico. È questo uno dei casi segnalati da CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) Non solo. Il 26 gennaio 2019, un gruppo di sette ufficiali del GOM era entrato nella sua cella e, dotati di equipaggiamento, l’avrebbero pestato. Sempre a Viterbo, un detenuto ha affermato che il 30 dicembre 2018 – dopo un alterco verbale con un agente il quale lo avrebbe fatto inciampare – lo stesso agente gli avrebbe inferto dei colpi in faccia con una chiave di metallo della porta e lo avrebbe preso a calci. Questo è altro ancora è stato pubblicato nella relazione da parte del comitato europeo per la prevenzione della tortura. Ma le violenze non sarebbero state commesse solamente al carcere di Viterbo. Secondo quanto riportato dal comitato europeo, diversi maltrattamenti sarebbero avvenuti al carcere di Biella e a quello di Salluzzo dove un detenuto con problemi psichiatrici si è ritrovato con le dita schiacciate a causa del blindo chiuso con forza dagli agenti. In un certo numero di casi la delegazione del CPT ha trovato i referti negli archivi medici che erano compatibili con le accuse di maltrattamenti che i detenuti avrebbero ricevuto. 

41 bis disumano, va cambiato: così è come tortura. Stefano Anastasia su Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Intraprendere una seria riflessione sulla realtà del 41bis, abolire l’isolamento diurno e assumere tutte le misure necessarie per prevenire e accertare abusi e maltrattamenti in danno dei detenuti. Queste le raccomandazioni più rilevanti del Rapporto reso pubblico ieri dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) a seguito della visita ispettiva svoltasi nel marzo scorso, che aveva come focus proprio le misure e le condizioni di isolamento nel nostro sistema penitenziario. Con questo intento, il Cpt aveva visitato le carceri di Saluzzo, Biella, Opera e Viterbo, rilevando – come sempre – problemi specifici e criticità di ordine generale. Chi conosce il sistema penitenziario sa bene che le criticità sono molte, amplificate dal sovraffollamento ormai al livello di guardia (e il Cpt, seppure incidentalmente, lo rileva nelle premesse del suo Rapporto). E spesso le criticità dei singoli istituti evocano problemi di carattere generale. Talvolta, invece, sono tipiche della realtà locale e il Cpt non può che rilevarle. Così è stato per il carcere viterbese, dove il Cpt registra un numero di denunce di abusi e maltrattamenti significativamente più rilevante che negli altri istituti visitati e che sembra evidenziare peculiarità di quell’istituto, non a caso oggetto di ripetute segnalazioni all’autorità giudiziaria, anche da parte di chi scrive e del Garante nazionale delle persone private della libertà. Viceversa, di carattere generale sono i rilievi e le raccomandazioni del Comitato sui regimi di isolamento e, specificamente, sul 41bis. Senza mezzi termini, il Comitato raccomanda all’Italia l’abolizione dell’isolamento diurno ancora previsto dal codice penale come pena accessoria dell’ergastolo e che costringe immotivatamente detenuti già lungamente provati a un’afflizione ulteriore e priva di alcun significato che non sia meramente vessatorio. Ma anche l’isolamento indotto dal regime di sorveglianza particolare, adottato ripetutamente anche per lunghi periodi di tempo, appare ingiustificato rispetto alle sue motivazioni, e il Comitato chiede che chi vi sia sottoposto possa godere di almeno due ore al giorno di contatti umani significativi. Nell’uno come nell’altro caso, l’isolamento assoluto può comportare gravi danni alla salute psico-fisica dei detenuti che contrastano con le norme nazionali e internazionali che vietano i trattamenti e le pene inumani o degradanti. Inevitabilmente, all’esito di una visita ad hoc dedicata al monitoraggio delle forme di isolamento dei detenuti, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura dedica una parte del suo Rapporto ancora al regime di massima sicurezza del 41bis. Non dimentichiamo, infatti, che la minima socialità che ora il 41bis prevede (due ore d’aria o in saletta) è il frutto di specifiche raccomandazioni rivolte in passato al regime del 41bis, quando si presentava come una forma di isolamento totale e assoluto. Riprendendo i rilievi del Garante nazionale delle persone private della libertà, il Comitato europeo sollecita una riflessione sul regime del 41bis. Non sulla sua legittimità in astratto, ma sulla sua applicazione in concreto. Come si sa, il 41bis è misura estrema volta a interrompere le relazioni di comando di pericolosi capi nei confronti delle organizzazioni criminali di appartenenza. Si tratta indubbiamente di un regime che può pregiudicare fondamentali della persona, a partire da quello alla salute. Conseguentemente, dice il Cpt, va usato nelle strette necessità, per il tempo strettamente necessario e nella misura strettamente necessaria. Recentemente c’è voluta la Corte costituzionale per rimuovere il divieto di cottura dei cibi in 41bis, previsione priva di alcuna ragione di sicurezza e dunque esclusivamente afflittiva. Così ora il Cpt mette in dubbio che il rinnovo dei provvedimenti ministeriali di sottoposizione al 41bis (dopo i primi quattro, ogni due anni) siano sempre rigorosamente motivati, e anzi sembrano automatici nelle loro formulazioni standardizzate. Si arriva così ai casi limite di due detenuti con evidenti problemi di salute mentale su cui il Cpt chiede al Governo come possano essere considerati ancora capaci di comandare le organizzazioni criminali di originaria appartenenza. C’è poi l’annoso problema del 41bis nel 41bis, le cosiddette “aree riservate”, cui sono destinati i capi più capi degli altri, in cui le condizioni di vita e di socialità sono ancora più gravi (stanze prive di adeguata luce naturale, socialità ridotta all’aria con una sola persona) e che tradiscono un uso evidentemente eccessivo del 41bis, al punto da dover prefigurare un regime ulteriormente speciale per i pericolosissimi, in un crescendo di superlativi e di privazioni che sembra non avere fine. Ma anche i 41bis ordinari soffrono di limitazioni giudicate eccessive dagli ispettori europei, come le telefonate (dieci minuti) alternate ai colloqui (un’ora al mese) o la socialità alternata all’aria. Al contrario il Cpt raccomanda che ciascun detenuto al 41bis possa avere almeno quattro ore, all’aria o all’interno della sezione, per svolgere attività significative con il suo gruppo di socialità. Non sono cose nuove: le aveva già scritte il Cpt in precedenti rapporti, le ha scritte il Garante nazionale e, nella passata legislatura, la Commissione per i diritti umani del Senato. Oggi, il Cpt ci dice che così non va: serve una seria riflessione sulla realtà del 41bis, sulla sua finalità e, dunque, sui suoi limiti.

Torture al 41 bis: dai pestaggi alle bruciature dei piedi. Damiano Aliprandi isu Il Dubbio il 22 gennaio 2020. Quattro istituti nel mirino del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Nel rapporto si evidenzia il caso di Biella dove gli internati sono senza una occupazione e tenuti in condizioni pessime. Un quadro sconvolgente quello dipinto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Cpt) nel rapporto pubblicato ieri relativamente alle visite effettuate dal 12 al 22 marzo dell’anno scorso. Lo scopo della visita ad hoc del Cpt era di riesaminare la situazione dei detenuti collocati nei regimi di alta sicurezza, il regime speciale ‘ 41 bis’ e prigionieri sottoposti a varie misure di isolamento e segregazione come l’isolamento ( definito “anacronistico” dal comitato) imposto dal tribunale ai detenuti condannati all’ergastolo. Quattro sono gli istituti penitenziari visitati e in tutti sono stati riscontrati problemi di maltrattamento da parte degli agenti penitenziari. Non solo quello di Viterbo quindi, ma anche il carcere Opera di Milano, quello di Biella e quello di Saluzzo. All’inizio della visita, la delegazione era stata informata dalle autorità e da altri interlocutori come il Garante Nazionale e l’associazione Antigone riguardo alle preoccupazioni dell’aumento del numero di eventi critici, in particolare il numero di aggressioni contro il personale carcerario da parte di detenuti, episodi di autolesionismo e violenza tra detenuti. Questa tendenza è stata attribuita dalle autorità all’aumento del numero di detenuti con problemi di salute mentale causati, tra l’altro, dalla chiusura degli Opg e il limitato numero di posti disponibili nelle residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, nonché dalle tensioni interetniche. Ma dalle visite, la delegazione del Cpt ha riscontrato anche gravi episodi di violenza da parte di alcuni agenti. Violenze che sarebbero avvenute al 41 bis come la vicenda di una ispettrice femminile del carcere di Viterbo che avrebbe bruciato le dita dei piedi con un accendino per accertare se il detenuto stesse fingendo uno stato catatonico. Non solo. Il 26 gennaio 2019, un gruppo di sette ufficiali del Gom sarebbe entrato nella cella del medesimo detenuto e, dotati di equipaggiamento, l’avrebbero pestato. Sempre a Viterbo, un detenuto ha affermato che il 30 dicembre 2018 – dopo un alterco verbale con un agente che lo avrebbe fatto inciampare – lo stesso funzionario di polizia gli avrebbe inferto dei colpi in faccia con una chiave di metallo della porta e lo avrebbe preso a calci. Ma le violenze non sarebbero state commesse solamente al carcere di Viterbo. Secondo quanto riportato dal Comitato europeo, diversi maltrattamenti sarebbero avvenuti anche alle altre carceri visitate. C’è l’esempio di Saluzzo dove un detenuto con problemi psichiatrici si è ritrovato con le dita schiacciate a causa del blindo chiuso con forza dagli agenti. Oppure al carcere Opera di Milano dove un detenuto avrebbe ricevuto diversi schiaffi in faccia da un ispettore della polizia penitenziaria dopo averlo sorpreso con della droga. Gli schiaffi avrebbero danneggiato la sua protesi dentale. Al carcere di Biella ( dove viene sottolineata la presenza di decine di internati tenuti senza una occupazione e tenuti in condizioni pessime come già denunciato da Il Dubbio), invece, un detenuto ha denunciato che dopo aver colpito un ufficiale del carcere con una scarpa nel corso di un alterco, sei membri del personale della polizia lo avrebbero trattenuto e gli avrebbero consegnato diversi pugni alla schiena e ai fianchi. In un certo numero di casi la delegazione del Cpt ha trovato i referti negli archivi medici che erano compatibili con le accuse di maltrattamenti che i detenuti avrebbero ricevuto. Dopo aver denunciato anche il considerevole sovraffollamento, il Cpt ha chiesto di riformare il 41 bis. Nel rapporto si evidenzia che ‘ ha incontrato almeno due detenuti al 41 bis affetti da seri disordini mentali’ e si chiede come le autorità ‘ abbiano valutato la loro capacità di provare che non sono più in grado di controllare le organizzazioni criminali che capeggiavano e se sia necessario tenerli ancora sotto il regime del 41 bis’. Inoltre stigmatizza l’utilizzo delle cosiddette aree riservate ( un super 41 bis), dove il collocamento del detenuto dovrebbe essere limitato nel tempo e soggetto a revisione mensile.

41 bis, non solo mafiosi: 10mila disgraziati in condizioni disumane. Piero Sansonetti il 18 Gennaio 2020 su Il Riformista. In Italia ci sono un po’ più di 60 mila detenuti. Diecimila più di quelli che il sistema carcerario è in grado di ospitare. Quindi l’indice di sovraffollamento è molto alto. Sta crescendo. Sebbene negli ultimi anni è crollato il numero dei reati. Non è crollato solo il numero dei reati: è diminuito anche il numero degli ingressi in carcere, nonostante una legislazione sempre più severa, spinta dal vento torrido del giustizialismo politico. Come è possibile che meno persone entrino in carcere e però il sovraffollamento aumenti? Succede che dal carcere è sempre più difficile uscire. Le cifre sono impressionanti. Le ha fornite ieri alla stampa il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il dato forse più clamoroso è questo: ci sono circa 23mila persone che devono scontare pene inferiori ai tre anni, o perché hanno ricevuto una condanna leggera, per reati molto piccoli, o perché hanno già scontato grande parte della pena. Queste persone, a norma di legge, potrebbero uscire e subìre le famose misure alternative. E invece restano in prigione. O perché i giudici non danno il benestare o, molto più spesso, perché non esistono strutture esterne al carcere in grado di realizzare le misure alternative. Poi ci sono altri 10 mila detenuti in attesa di giudizio (e le statistiche dicono che più della metà di loro sarà assolto, nei tre gradi di giudizio, o sarà condannato a pene molto contenute) e la stragrande maggioranza di loro non è in carcere perché costituisce un pericolo per la società, ma per ragioni relative al funzionamento delle indagini, cioè alla necessità di esercitare su di loro pressioni psicologiche perché confessino, visto che altrimenti mancano le prove per condannarli.  Di solito queste persone sono in cella in violazione della legge che prevede che  il carcere preventivo possa essere deciso solo per ragioni straordinarie e per tempi brevi. Diciamo che di questi 10 mila detenuti che la Costituzione considera innocenti, almeno 7000 non dovrebbero stare in cella. Poi sommiamo questi 7000 ai 23.000 con breve periodo residuo di pena e arriviamo a 30 mila detenuti che potrebbero essere scarcerati senza violare le leggi – anzi rispettandole pienamente – e senza mettere in discussione la sicurezza. 30.000 vuol dire la metà. Cioè potremmo dimezzare il numero dei detenuti senza compiere nessuna rivoluzione. Non vi sembrano cifre e considerazioni sconvolgenti? Perché non succede, cioè non succede che si svuotino le carceri e si ristabilisca un discreto livello di civiltà? Un po’ per la pigrizia della burocrazia e per il poco coraggio di alcuni magistrati. Un po’ perché l’impeto del senso comune giustizialista rende difficilissima una ragionevole politica carceraria. E su questo c’entrano molto la politica e soprattutto i giornalisti. La nostra categoria professionale, forse, è la più pericolosa: vive nella ricerca di chi si può mettere in prigione, nella speranza che più gente possibile sia ingabbiata, e nella corsa spasmodica a trovare casi clamorosi da raccontare sui giornali, di persone che avrebbero potuto stare in carcere e invece -maledizione – non ci stavano. Pensate allo scandalo sollevato nei giorni scorsi per un permesso premio concesso dopo un quarto di secolo a quelli della “Uno Bianca”. Poi c’è un secondo dato molto inquietante. Quello del 41 bis. Sapete che il 41 bis è un regime carcerario speciale, che anche i magistrati chiamano “carcere duro”. Siamo nel 2020, non siamo nel Settecento. Eppure in Italia esiste ancora il carcere duro, dove le condizioni di vita violano ogni principio costituzionale e si fanno beffe della dichiarazione dei diritti universali dell’uomo. Beh, ci sono più di diecimila persone che vivono al carcere duro. 10 mila, evidentemente, vuol dire che non sono solo boss mafiosi o terroristi. Ci sono tra loro, inevitabilmente, anche condannati (o sospettati) per reati minori. Manovalanza. Probabilmente anche una discreta percentuale di innocenti. Perché li hanno messi al carcere duro? Per puro sadismo? Forse in parte è così. In parte invece il motivo è un altro: farli parlare, confessare, accusare i complici. Non tutti sono in grado di reggere il 41 bis. E non tutti, tra quelli che parlano, dicono la verità. E comunque, è legittimo, in un paese democratico davvero, usare il carcere duro come strumento di indagine? Non è un metodo molto, molto vicino al metodo della tortura?

Stato-mafia, 336 al 41 bis ma solo 18 erano di “Cosa nostra”. Damiano Aliprandi il 16 gennaio 2020 su Il Dubbio. Lo scrivono I giudici nella motivazione della sentenza Mannino. La mancata proroga del carcere duro è l’elemento principale su cui si basa l’accusa del processo sulla trattativa. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Lo disse a dicembre del 2018 anche il dottore Sebastiano Ardita intervenendo a un dibattito sul tema, svoltosi a Roma al club del golf dell’Olgiata. «L’unico fatto concreto provato è il ritiro, nel novembre 1993, del 41 bis a 336 mafiosi detenuti», aveva detto con estrema chiarezza. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa dove hanno condannato gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ’ 92 e ’ 94, non c’è ombra di dubbio: l’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato ( Dap), ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti ( con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa. Il 41 bis è il fulcro del teorema della trattativa. L’iniziativa dei due ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sarebbe stata, a differenza di quanto da loro sostenuto, non autonoma e non eminentemente volta a catturare i latitanti mafiosi, bensì indotta dall’allora ministro per gli Interventi straordinari per il mezzogiorno Calogero Mannino. Detta trattativa sarebbe sfociata nella presentazione da parte di Totò Riina del cosiddetto “papello’, che, come è noto, è stato fornito materialmente da Massimo, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, in copia ai Pm nell’ottobre del 2009, e in cui si riassumevano in dodici punti le richieste di benefici per Cosa nostra. Riina non avrebbe offerto null’altro in cambio dell’accoglimento delle sue istanze che l’abbandono del piano stragista. Tale papello sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino ai Ros, i quali, in concorso con Calogero Mannino, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, che puntasse all’approvazione di provvedimenti validi a soddisfare siffatte pretese di Riina. Quale obiettivo sarebbe stato raggiunto? Quello, appunto, relativo alla mancata proroga del 41 bis per centinaia di mafiosi. Quindi la sentenza di condanna si basa principalmente su questa tesi. Se viene meno crolla l’intero impianto della trattativa Stato- mafia. Nel frattempo però è stata depositata una sentenza che confermando l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, il quale scelse di essere processato con un rito abbreviato – smonta tale ricostruzione. Le motivazioni di assoluzione fanno una ulteriore chiarezza sulla questione del mancato rinnovo del 41 bis ai 336 detenuti in scadenza a decorrere dal primo novembre del 1993. La vicenda – chiarisce il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini – è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire – dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso – un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Nelle motivazioni di assoluzione si evidenziano diversi dati oggettivi che smentiscono la tesi basata sul fatto che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi del 41 bis sia stato effetto della cosiddetta trattativa. Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dall’ex ministro della giustizia Giovanni Conso, il quale giustamente non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente”. I giudici sottolineano che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia ( a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro». Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere «a tratti – scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità». Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, «che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano». Dunque l’ex ministro Calogero Mannino non fece alcuna pressione per la revoca del regime duro. Quindi cade in via definitiva la tesi accusatoria che vuole l’ex ministro come input, garante, e veicolatore alle autorità statali (a Di Maggio, in particolare) della minaccia contenuta nella presunta trattativa. Così come decade l’intero impianto accusatorio e quindi il teorema giudiziario sulla trattativa Stato- mafia. Nel frattempo è in corso il processo d’appello sul troncone principale e i giudici della corte non potranno non tenerne conto.

Due anni al 41 bis: non è mafioso, il ministro tace e il giudice anche. Damiano Aliprandi il 15 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il suo avvocato ha fatto istanza il 2 gennaio al tribunale di sorveglianza di Roma. Il 28 ottobre 2019 la corte di appello di Reggio Calabria ha ridotto la pena da 27 a 13 anni, riqualificando il reato, escludendo l’aggravante mafiosa. Dopo la risposta inevasa da parte del ministero della Giustizia sulla richiesta di revoca del 41 bis, ancora tarda ad arrivare quella della magistratura di sorveglianza. Da quasi due anni si trova ininterrottamente recluso al regime duro, nonostante che nel frattempo i giudici hanno non solo escluso la sua posizione di promotore dell’ipotizzata associazione semplice ( e non mafiosa), ma gli è stata esclusa la circostanza di aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 7, L. 203/ 91. Parliamo della vicenda, recentemente già trattata da Il Dubbio, di un calabrese settantenne, Nicola Antonio Simonetta, che rimane ancora al 41 bis nel carcere di Parma, nonostante la presenza di due sentenze che escludono la partecipazione al sodalizio mafioso. Il suo avvocato difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, aveva fatto istanza direttamente al ministro della Giustizia per chiedere l’immediata revoca del regime del carcere duro visto che non ci sono più i presupposti. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn. Se trasferito nel centro clinico di altro regime, infatti, potrà con maggiore facilità essere curato. Ma il guardasigilli non solo non ha disposto la revoca ( come è invece accaduto con Massimo Carminati quando gli era stata decaduta l’associazione mafiosa), ma non ha dato alcuna risposta in merito. Passati oramai due mesi, l’avvocata Lombardo ha quindi fatto istanza il 2 gennaio scorso al tribunale di sorveglianza di Roma che ha la competenza per il 41 bis. La richiesta di revoca si basa quindi alla luce delle sopraggiunte pronunce che ne fanno venire meno i presupposti giuridici. Il 28 ottobre del 2019 la sentenza dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, Simonetta ha visto più che dimezzata l’originaria condanna che è stata ridotta da 27 a 13 anni, previa riqualificazione del reato, non più promotore dell’ipotizzata associazione semplice. Nella medesima pronuncia è stata esclusa l’aggravante mafiosa. Prima ancora, il 26 luglio scorso. è stata emessa altra sentenza dal Tribunale Penale di Locri, nel quale il Collegio ha assolto Simonetta dall’ipotesi di reato associativo di stampo mafioso ed ha disposto l’inefficacia della misura cautelare con immediata scarcerazione. Alla luce delle pronunce sopraggiunte, coerenti fra loro, nelle quali si esclude il coinvolgimento di Simonetta a contesti mafiosi e anche il solo utilizzo del metodo mafioso, appare quindi evidente che sono venuti meno tanto i presupposti quanto le motivazioni che hanno animato l’originaria richiesta applicativa del 41 bis. Di tutto ciò, da ribadire, è stato edotto anche il ministro della giustizia a fine ottobre. Ma, ad oggi, nessuna risposta. Come se non bastasse, il recluso versa in condizioni precarie di salute tanto da essere collocato nel Centro Clinico del carcere di Parma: il trasferimento presso altro centro clinico di altro regime, gli potrebbe consentire maggiore facilità nelle cure nonché maggiore sostentamento da parte della famiglia. Intanto si è in attesa, oramai da quasi due settimane, di una risposta da parte della magistratura di sorveglianza. Resta da domandarsi se tutto ciò risulti rispettoso dei principi dello Stato di Diritto, quando un uomo, nonostante non ci siano i presupposti, rimanga recluso nella frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato.

L'inchiesta di Gratteri "Imponimento". L’assurda vicenda di Marco Galati, sbattuto in cella da Gratteri ma non c’è il reato…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Più che da infiltrato pare essersi comportato da agente provocatore l’Uomo Ombra che per quattro anni ha vissuto quasi in simbiosi con Marco Galati, cinquantenne calabrese di Filadelfia emigrato in Svizzera da ragazzo, dove ha fatto un po’ di tutto, dal bodyguard alla guardia giurata fino a diventare ricco con l’apertura di un ristorante, il Bellavista, nella cittadina di Muri, nella Svizzera di lingua tedesca. Naturalmente è molto sospettoso sulla provenienza di quella ricchezza il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che nel luglio scorso ha ridato linfa all’inchiesta Rinascita Scott con l’operazione “Imponimento”. Marco Galati viene arrestato insieme ad altre 74 persone nel luglio scorso e buttato nel carcere di Vibo Valentia con l’imputazione di associazione di stampo mafioso, il famoso articolo 416 bis del codice penale. Nessun reato-fine accompagna e sostiene quello associativo. Ma si scopre allora che l’indagato calabro-svizzero avrebbe vissuto per quattro anni in compagnia dell’Uomo Ombra, con cui ha fatto vacanze e cene, con cui è andato in palestra e con cui ha parlato di macchine e motori, di viaggi e di progetti per il futuro. E anche di armi, vere o finte, come quella scacciacani che l’infiltrato comprerà da un amico di Galati, con cui si lamenterà di esser stato imbrogliato. L’Uomo Ombra svolgerà con scrupolo il suo compito. C’è un accordo stipulato tra l’Italia e la Svizzera e un gruppo di lavoro per indagini comuni che riguardano il mondo dei cittadini calabresi emigrati in terra elvetica. Ne individuano tre, e Galati è uno di questi. Si cerca quella cosca della ‘ndrangheta che si rivelerà, a detta degli stessi inquirenti, inesistente. L’infiltrato prova a proporgli di fare affari con opere d’arte o diamanti, ma senza successo. Il suo amico pare più interessato a cambiare franchi in euro possibilmente attraverso agenzie private e un po’ borderline per fare arrivare i soldi in Italia per comprarsi una bella casa in Calabria. Magari cercando di non pagare troppe tasse. Ma reati veri e propri non se ne trovano. Marco Galati viene sottoposto a “tentazioni” non solo dall’infiltrato. Con la sua terra d’origine ha mantenuto rapporti di amicizia, e sono relazioni ”pesanti”, come quella con la famiglia Anello, il cui capostipite Rocco è considerato un boss di un certo peso a tutti gli effetti. Sarà proprio lui a proporgli di entrare in affari insieme, ma la risposta sarà no. E questo suo rifiuto sarà considerato dai giudici del riesame, che hanno respinto la richiesta del suo avvocato Antonio Zoccali di scarcerazione o arresti domiciliari, un’”astuzia”, una sorta di copertura del partecipante all’associazione mafiosa che preferisce lavorare sott’acqua per i suoi compari. Una specie di “concorso esterno”. Resta il fatto che nessun “pentito”, nelle inchieste sulla ‘ndrangheta che partono addirittura dal 2004, ha mai fatto il suo nome, né lui mai appare in alcuna intercettazione. È solo amico di Rocco Anello e quando va in Calabria i due si vedono sotto gli occhi di tutti. Il suo avvocato è sconcertato soprattutto per le tante anomalie procedurali di questa inchiesta e di questo modo di fare degli inquirenti, ma anche dei giudici. Il tribunale del riesame sembra giustificare tutto, anche certe sciatterie del copia-incolla ad opera dei gip che la stessa Suprema Corte giustifica, così come il fatto di usare il reato associativo per fare la pesca a strascico e fare di tutt’erba un fascio. Ora si aspetta la cassazione. L’avvocato Zoccali è da sempre un penalista e conosce bene la filosofia dei maxiprocessi («mi sono formato su quello di Palermo»), anche se negli ultimi anni si è impegnato più in organismi di vigilanza e controllo, oltre che nell’Agenzia dei beni confiscati. Ha accettato la difesa di Galati perché è un compaesano di Filadelfia, ma soprattutto perché ha intuito che dietro le “anomalie” procedurali si stava rischiando violare lo stesso principio del costituzionale del giusto processo. Perché l’Uomo Ombra non ha mai registrato nulla dei suoi incontri con la sua “vittima”, ha solo preso appunti, poi riversati in una relazione, che finirà in Svizzera negli uffici di una società privata, e in Italia nelle mani della Dda di Catanzaro. Ma è tutto qui, e non è sufficiente per dimostrare l’appartenenza a una cosca mafiosa. «Il processo – dice il legale – deve verificare se una persona ha rubato o ucciso, non serve a combattere la criminalità organizzata. Inoltre, con tanti imputati, può capitare che vengano coinvolte persone su cui i giudici non riescono neppure a valutare la posizione. E non vorrei che Marco Galati finisse per pagare qualche comportamento personale che non c’entra niente con l’associazione mafiosa».

Scarcerato Luigi Incarnato, era finito nella maxiretata di Gratteri. Francesca Spasiano il 3 gennaio 2020  su Il Dubbio. Accusato di voto di scambio, ma il tribunale della libertà ha revocato la misura. Soddisfatto l’avvocato: «come abbiamo sempre detto abbiamo fiducia nella magistratura giudicante che ha fatto giustizia di una misura abnorme». Il sogno di «smontare la Calabria come un trenino Lego» evocato dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha subito un primo, inaspettato, risveglio. Nella giornata di ieri il Tribunale delle Libertà di Catanzaro ha infatti annullato la misura cautelare nei confronti di Luigi Incarnato, il politico coinvolto nella maxi operazione “Rinascita- Scott” della Dda, guidata da Gratteri, che ha portato a oltre 300 arresti il 20 dicembre scorso. Incarnato, ex assessore regionale e attuale segretario del Psi, si trovava agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione elettorale per un episodio risalente alle elezioni politiche del 2018. Candidato nel collegio uninominale Paola-Castrovillari con il Partito Democratico, il politico avrebbe offerto la propria collaborazione in cambio di voti a Pietro Giamborino, ex consigliere regionale del Pd ritenuto legato a cosche del vibonese, e a Pino Cuomo, imprenditore attivo a Lamezia Terme. Secondo l’ufficio requirente della Dda di Catanzaro, l’ex assessore avrebbe favorito «gli interessi economico/ imprenditoriali di questi ultimi» organizzando un incontro, avvenuto a ridosso delle elezioni del 2018, con il sindaco di Paola Roberto Perrotta per la realizzazione di un centro di accoglienza straordinario per migranti richiedenti asilo. Si attendono ora le motivazioni del Tribunale del riesame, ma la mancata applicazione di misure cautelari nei confronti di Incarnato, lasciato a piede libero, lascerebbe supporre che l’impianto accusatorio potrebbe non reggere. A darne notizia è il legale di Incarcanato, Franz Caruso, che ha espresso la propria soddisfazione per la decisione. «Come abbiamo sempre detto abbiamo fiducia nella magistratura giudicante che ha fatto giustizia di una misura particolarmente afflittiva e, a nostro avviso, abnorme e particolarmente ingiusta», ha commentato Caruso. «In questi 15 giorni non ho mai smesso di rispettare ed avere fiducia nella magistratura. Si è uomini delle istituzioni sempre, anche quando sei direttamente toccato e coinvolto. La mia esperienza politica è stata sempre improntata al servizio della collettività nel rispetto delle istituzioni». Sono le parole di Incarnato appena tornato in libertà. «Mai come in questo momento – aggiunge – sono fortemente convinto che bisogna evitare la delegittimazione tra i poteri. La politica e la magistratura hanno ruoli distinti e autonomi, nella loro azione devono essere guidati da un forte spirito di collaborazione volto a sconfiggere la malavita e affermare la legalità». La super inchiesta guidata da Nicola Gratteri aveva generato numerose critiche nell’ambito della magistratura, aprendo a un vero e proprio scontro tra toghe. Con 334 arresti e oltre 400 indagati, tra i quali nomi altisonanti della società civile e politica calabrese. Commentando gli arresti, Gratteri aveva sostenuto che si trattasse della più grande operazione dai tempi del maxi-processo di Falcone: «È una giornata storica, non solo per la Calabria. Questa indagine è nata il 16 maggio 2016, giorno in cui mi sono insediato. Per me era importante avere una strategia, un sogno, una rivoluzione». Sempre secondo Gratteri, le indagini avevano infatti svelato una fitta rete di legami tra clan, politica e massoneria, facendo luce su gerarchie e affari della ‘ ndrangheta. Una «inchiesta evanescente» secondo il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, che durante un’intervista a Tgcom aveva lanciato parole al vetriolo contro il capo della Dda. «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale. I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare». Una accusa di «spettacolarizzazione» che ha riaperto antichi dissapori tra i due magistrati. Dopo le parole di Lupacchini, i togati di Area, l’associazione dei magistrati progressisti, hanno immediatamente richiesto al Csm l’apertura di un fascicolo. Parole dure anche da Magistratura Indipendente che ha chiesto maggiore tutela per i magistrati della procura catanzarese. Netta anche la posizione espressa dall’Anm che ha bollato le dichiarazioni del pg Lupacchini come «sconcertanti». «La magistratura non ne sarà influenzata e saprà operare con serenità ed indipendenza in un territorio purtroppo interessato da una delle forme più aggressive di criminalità organizzata». Ma dalla parte di Lupacchini si era schierata Magistratura democratica: «Le dichiarazioni rilasciate dal Procuratore di Catanzaro in merito all’indagine Rinascita- Scott seppur mosse dall’avvertita necessità di ribaltare la percezione pubblica di inviolabilità di santuari criminali, hanno trasmodato, purtroppo, in eccessi dialettici che rischiano di mettere in crisi il senso dell’azione giudiziaria e il ruolo della magistratura».

Smontata l’inchiesta show di Gratteri, altri 50 scarcerati. Ilario Ammendolia il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Fino ad oggi il Tribunale della Libertà e gli uffici del GIP hanno riformato 80 misure cautelari richieste dalla procura di Catanzaro nell’ambito della maxi inchiesta “Rinascita scott” con 336 arrestati, scarcerando una cinquantina di persone. I nomi degli scarcerati non li leggerete sui giornali, e le loro storie di persone ingiustamente incarcerate non vi scuoteranno: nessuno si curerà di rimuovere il marchio di ‘ndrangheta che è stato impresso sulla loro pelle. Nel 1964 l’Italia democratica si mobilitò per la libertà di un solo uomo, Aldo Braibanti, arrestato e successivamente processato e condannato per plagio, aggravato da presunta omosessualità. Si perse nell’immediato (Braibanti fu condannato a 9 anni di carcere) ma si gettarono le basi per cancellare il reato di plagio dal codice penale, per vincere il referendum sul divorzio, per togliere gli omosessuali dalla loro condizione di clandestinità. Nessuno in quell’occasione si limitò ad esprimere “illimitata fiducia nella magistratura.” L’arresto d’un uomo mobilitò semplici cittadini e gran parte dell’intellettualità, dal più piccolo paese alla più grande città d’Italia. Cose che non succedono più. Ora poniamo il caso che su cinquanta scarcerati a Catanzaro uno soltanto sia assolutamente estraneo ad ogni sodalizio criminale, completamente innocente. È poca cosa rovinare la vita d’una sola persona? È poca cosa distruggere la dignità e l’onore d’una sola famiglia? Oppure ci sono uomini e donne la cui vita vale “zero”? Si parla spesso di crisi della “Sinistra” e del pensiero liberale. Se volete capire il perché venite a vedere da vicino la manifestazione che si terrà giorno 18 a Catanzaro, a sostegno del “Capo” di quella procura: “destra”, “sinistra”, Lega e “5 stelle” finalmente tutti uniti. Pippo Callipo e Jole Santelli – i due principali candidati alla presidenza della regione dopo che alcuni avvisi di garanzia hanno tagliato le gambe al presidente uscente Mario Oliverio – marceranno l’uno a fianco all’altro. Andrà in scena, un esorcismo di massa. Voi pensate che qualcuno si avvicinerà al microfono per esprimere umana solidarietà agli innocenti finiti in carcere? I marciatori delle prime file ed i registi della manifestazione si ritaglieranno la parte dei “buoni” collocando i “cattivi” all’esterno del loro mondo. “Tutti uniti” rimuovendo così ed almeno per un giorno, la mediocre commediola delle elezioni regionali.  Ma dove si collocherà la ‘ndrangheta? Parlo della ‘ndrangheta “pesante”, di quella che conta oggi più che mai e che cammina fianco a fianco con la borghesia parassitaria e scroccona contrapponendosi nei fatti alla “plebe” che vive nelle periferie.  Ve lo dico io, e non per provocazione: marcerà insieme a coloro che detengono il potere perché la ndrangheta non è “osso, mastrosso e carcagnosso” né i santini bruciati, né altre simili amenità: la ‘ndrangheta è il potere di stritolare arbitrariamente una vita umana senza rendere conto ad alcuno; è sistematica impostura per rimuovere le proprie responsabilità; è l’esercizio di quell’arte che i mafiosi chiamano “falsa politica” cioè adattare il linguaggio ed i tratti del viso alle circostanze. È il mantenimento di un ordine politico-sociale che ai marciatori di Catanzaro non dà nessun fastidio. Quell’ordine che regna da secoli in Calabria e che è fondato sull’assoluta disuguaglianza degli uomini. E così, mentre qualcuno continuerà a raccontare l’epopea degli eroi anti-’ndrangheta, ci saranno famiglie che, in silenzio, continueranno a piangere le vittime di mafia ed altre che piangeranno per le loro vite rovinate da un errore giudiziario.

Dopo il blitz di Gratteri iniziano le scarcerazioni, ma le elezioni sono compromesse. Ilario Ammendolia il 3 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il Tribunale della Libertà ha revocato gli arresti domiciliari a Luigi Incarnato, già assessore regionale ai Lavori Pubblici della Regione Calabria, attuale amministratore della SORICA (l’azienda dell’acqua), coordinatore dell’aggregazione politica che sosteneva Mario Oliverio come presidente della regione. Si tratta certamente del “politico” più importante tra quanti sono stati coinvolti nel blitz “Rinascita Scott” del procuratore Gratteri. A questo punto la situazione è la seguente: una decina gli arrestati rimessi in libertà tra i provvedimenti emessi dal gip e quelli del TdL mentre tre persone sono state fatte uscire dalle carceri per i domiciliari. Si aspettano nei prossimi giorni le decisioni del Tdl per diversi altri arrestati. L’ultimo degli arrestati rimessi in libertà si chiama Palamara. Era accusato di avere estorto a uno che lavorava nella pasticceria del fratello una torta, una bottiglia di spumante e alcuni pasticcini. E’ ancora presto per trarre delle conclusioni ma sembra profilarsi all’orizzonte la possibilità che ad essere smontata come un “lego”, più che la Calabria per come dichiarato da Gratteri, sia l’inchiesta con 340 arresti, condotta dalla DDA di Catanzaro. A questo punto è evidente che le elezioni regionali calabresi somigliano ad una partita di tressette. Ricordiamo che il presidente Oliverio, già pesantemente colpito da una misura di origine fascista qual è l’obbligo di dimora per quattro mesi tra i monti della Sila, è stato messo fuori causa anche se il provvedimento cautelare che lo riguardava è stato poi annullato dalla Cassazione perché viziato da palese “pregiudizio”. L’on. Nicola Adamo, altro sostenitore di Oliverio, si trova “confinato” lontano dalla Calabria perché coinvolto nel blitz. Ovviamente su ogni politico coinvolto ognuno di noi è libero di esprimere il giudizio che più ritiene opportuno: l’anomalia sta nel fatto che non sia la “politica” a togliere dalla scena personaggi che potrebbero essere inadeguati al loro ruolo bensì le procure e prima ancora che sia stato celebrato un regolare processo. E non c’è alcun dubbio che la procura di Catanzaro abbia giocato un ruolo di primo piano nelle imminenti elezioni regionali. Anche perché opera alacremente nell’ombra la figura del “suggeritore occulto” che si fa portavoce degli umori delle procure e che mette veti su candidati vittime della malagiustizia anche se completamente scagionati da ogni accusa dai tribunali che li hanno giudicati. Una specie di invisibile segno di Caino impresso sulla fronte di ogni indiziato e che fa prendere corpo alla tesi di Davigo secondo cui una persona assolta altro non è che un colpevole che l’ha fatta franca.

Rinascita Scott, nella retata di Gratteri per una tangente di 80 euro. Francesca Spasiano il 7 gennaio 2020 su Il Dubbio. Impresario di pompe funebri nei guai per un loculo. Filippo Polistena è finito ai domiciliari perché, nell’operazione di tumulazione, secondo I pm, avrebbe utilizzato mattoni forati anzichè pieni. Frode alla pubblica amministrazione per aver realizzato un loculo «con mattoni forati anziché pieni» nel cimitero di Bivona, frazione di Vibo Valentia. Il tutto del valore di 80 euro. È l’accusa contro Filippo Polistena, titolare di un’impresa di pompe funebri di Mirandola, nella provincia di Modena, indagato per aver procurato un danno erariale di 80 euro, appunto, al Comune di Vibo. Il suo nome si accompagna ai nomi illustri di politici e imprenditori coinvolti nella maxi operazione “Rinascita Scott” guidata dal capo della Dda Nicola Gratteri che lo scorso 19 dicembre ha portato all’arresto di oltre 300 persone. Un’operazione che ha coinvolto più di tremila uomini e che, secondo Gratteri, avrebbe disarticolato una rete di potere estesa in tutto il paese: avvocati, politici ed esponenti della società civile calabrese che avrebbero favorito gli affari della ’ ndrangheta, e del clan Mancuso, il cui presunto boss, Luigi Mancuso, è finito in carcere. Per quel che riguarda l’imprenditore originario di Vibo Valentia, balzato alla cronaca negli ultimi mesi in quanto concessionario dell’unico centro specializzato in crioconservazione dei defunti, la misura si è “limitata” agli arresti domiciliari. E scorrendo le quasi 1300 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Catanzaro, il nome di Polistena risulta associato soltanto al reato di frode, perpetrato, secondo gli inquirenti, insieme al custode del cimitero di Bivona. I due «in concorso tra loro, mediante artifizi e raggiri – si legge nell’ordinanza – consistiti nel simulare l’avvenuta tumulazione delle salme nel loculo comunale H22 del cimitero di Bivona nel rispetto delle normative vigenti in materia, in realtà eseguita in violazione del Regolamento di Polizia Mortuaria, poiché la tumulazione veniva realizzata in mattoni forati anziché in mattoni pieni, inducevano in errore il Comune di Vibo Valentia sulla regolarità dell’espletamento della commessa e quindi sulla legittimità della corresponsione del previsto corrispettivo, e procuravano un ingiusto profitto in favore della agenzia funebre di Polistena Filippo». Nella richiesta di misure cautelari della Procura di Catanzaro il nome di Polistena compare anche all’interno delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che riferisce di presunti legami tra l’imprenditore e personaggi noti della massoneria di Vibo, che avrebbero «rapporti con la ‘ndrangheta, nel senso che gli chiedevano dei favori e loro si mettono a disposizione». Ad ogni modo, nell’ordinanza di convalida del Gip non ve ne è riscontro, e l’uomo risulta estraneo all’accusa di associazione mafiosa imputata ad altri indagati. Intanto è attesa per oggi l’udienza presso il Tribunale del riesame che potrebbe revocare la misura dei domiciliari. Ne è convinto il suo avvocato, Luigi Assisi, il quale, contattato dal Dubbio, racconta che alla base del procedimento ci sarebbe addirittura un caso di omonimia: l’agenzia funebre che ha eseguito i lavori di tumulazione non sarebbe la stessa di cui è titolare il suo assistito. «Ritengo che in ogni caso la misura nei confronti dell’indagato non dovesse rientrare nella maxi operazione Rinascita Scott», commenta Assisi.

Rinascita Scott, marca da bollo record: 39mila euro per tutti gli atti. Simona Musco il 7 gennaio 2020 su Il Dubbio. Colletta tra avvocati per I costi del diritto alla difesa. Sono circa 490mila le pagine che compongono il fascicolo degli atti dell’inchiesta, di cui 13mila solo per la richiesta avanzata dalla procura nei confronti di 416 indagati. Quasi 40mila euro per acquisire la gigantesca mole di atti dell’inchiesta “Rinascita- Scott”. È questo l’enorme costo che si ritrovano a dover affrontare i legali impegnati nella difesa degli indagati della maxi indagine anti ‘ ndrangheta portata avanti dalla Dda di Catanzaro, che nei giorni scorsi ha fatto finire 260 persone in carcere e 70 agli arresti domiciliari, mentre per quattro persone sono stati emessi divieti di dimora, per un totale di 416 indagati. Per entrare in possesso dell’intero fascicolo che racchiude tutti gli atti d’indagine, come riporta il sito “LaC news”, è necessaria dunque una marca da bollo di 31mila euro, ai quali aggiungere altri ottomila euro nel caso in cui si decida di acquisire anche i filmati e gli audio delle intercettazioni. Il tutto per un quantità di file pari a quasi mille gigabyte. E l’enorme spesa, ora, mette in difficoltà gli uffici legali, alcuni dei quali hanno deciso di unirsi per affrontare insieme il costo e condividere, poi, il fascicolo. Sono circa 490.000, infatti, i fogli che compongono il fascicolo di indagine, tra informative, verbali, interrogatori e intercettazioni, ai quali si aggiungono circa 13mila pagine di richiesta di misure cautelari avanzata dai sostituti procuratori Antonio De Bernardo, Andrea Mancuso e Annamaria Frustaci. Complessivamente, dunque, sono stati stampati oltre cinque milioni di fogli, necessari per comporre i provvedimenti da notificare agli indagati. E tutto è avvenuto in località segreta, fuori dalla Calabria, dal momento che la fuga di notizia ha rischiato di compromettere il blitz, scattato con 24 ore di anticipo e con alcuni degli indagati già in fuga. Se la difesa dell’indagato, dunque, ritiene necessario acquisire tutti gli atti, il costo finale risulta esorbitante. L’alternativa – più semplice per gli indagati con posizioni avulse dal contesto associativo – è, dunque, richiedere soltanto gli atti strettamente connessi al capo d’accusa specifico. Ma per chi volesse analizzare tutto il materiale prodotto in tre anni d’indagine, l’unico metodo è sborsare l’intero ammontare dei costi di cancelleria. L’indagine, come evidenziato dal giudice per le indagini preliminari, «conferma l’unitarietà della ‘ndrangheta» e svela un universo di reati fine che vanno dall’omicidio al tentato omicidio, passando per estorsioni, violenza e minacce. E ha coinvolto nomi altisonanti della società civile e politica calabrese: dall’ex senatore di Forza Italia e noto penalista Giancarlo Pittelli a Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo e volto giovane della politica calabrese, passando per il legale Francesco Stilo, noto per essere il difensore dell’uomo beccato alla frontiera con un assegno da 100 milioni, finendo con Giorgio Naselli, il comandante provinciale dei carabinieri di Teramo. L’indagine ha consentito, dunque, di ricostruire assetti, gerarchie e affari di dieci locali di ‘ndrangheta, facendo luce su quattro omicidi consumati e tre tentati, arrivando fino alle commistioni tra clan, politica e massoneria. «È una giornata storica, non solo per la Calabria – aveva affermato il procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, in conferenza stampa -. Questa indagine è nata il 16 maggio 2016, giorno in cui mi sono insediato. Per me era importante avere una strategia, un sogno, una rivoluzione. Questo è quello che ho pensato il giorno del mio insediamento: smontare la Calabria come un trenino Lego e rimontarla pian piano». Un’indagine record, dunque, non solo per il numero di indagati – tanto da spingere Gratteri a paragonare l’operazione a quella che ha portato al maxi processo in Sicilia e se stesso a Giovanni Falcone – ma anche per i costi connessi al diritto alla difesa. Nei giorni scorsi, intanto, sono state decise le prime modifiche in relazione alle misure cautelari: il gip ha sostituito il carcere con i domiciliari per otto persone, revocando gli arresti per 11 indagati e convertendo i domiciliari in obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per due persone, mentre il Riesame ha annullato gli arresti per tre indagati, tra le quali il politico Luigi Incarnato, finito ai domiciliari e ora di nuovo in libertà.

Maxi-inchiesta a Catanzaro, per conoscere le accuse bisogna pagare 40.000 euro. Piero Sansonetti il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. L’imputato, che adesso è in carcere, ha chiesto all’avvocato se aveva avuto modo di vedere gli atti depositati dal Pm e che dovrebbero contenere le accuse contro di lui e gli indizi a suo carico. Vorrebbe iniziare a preparare una linea di difesa. L’avvocato ha fatto una faccia imbarazzata. “No, mi spiace – ha risposto – ancora non ho potuto”. L’imputato ci è rimasto male, ha balbettato una protesta, anche se in questi casi l’imputato si sente sempre in una condizione di debolezza, e dunque di inferiorità, nei confronti dell’avvocato, del Pm, del Gip, del Gup, della guardia carceraria…“Come mai”, ha chiesto, timido. L’avvocato ha spiegato che ci vogliono i “picci” per avere gli atti, i “picci”, cioè i soldi. Bisogna pagare. L’imputato ha risposto, serafico: “Paghiamo”. Cosa bisogna pagare? I bolli sulle carte, e anche sui dischetti digitali. “Vabbè – ha detto l’imputato – non sarà questa gran cifra, due lire ce l’ho”. “È che costano molto questi bolli”, ha detto l’avvocato. “E quanto costeranno: cento, duecento, trecento? Chiedi a mia moglie, non c’è problema…”. No, ha risposto l’avvocato, costano 39 mila, che è una cifra un po’ più alta del tuo reddito annuo”. L’imputato è impallidito. L’imputato non ha 39 mila euro e non ha idea di come potrebbe farseli prestare. E poi, anche se trova chi glieli presta, come potrà fare mai per restituirglieli? Non è mica una storia inventata, eh. È quello che sta succedendo in varie prigioni italiane dove sono stati rinchiusi circa 350 indagati nell’inchiesta Rinascita-Scott, quella coordinata dal dottor Gratteri. Qual è il problema? È che gli atti sono racchiusi in un volumetto di 450 mila pagine più alcuni allegati, con registrazioni audio e video. E la legge prevede che su ciascuna pagina degli atti, o su ciascun dischetto allegato bisogna pagare un tot. Stavolta, siccome si tratta di una maxi retata che ha coinvolto più di 450 persone, anche le pagine e i dischetti sono in un numero da record. E dunque anche le spese di bollo. Dicono che gruppi di imputati un po’ più benestanti si stanno organizzando per comprare questi atti facendo una colletta. Tipo che si mettono insieme in dieci o venti imputati che si conoscono (stando attenti a non costituire per questo una associazione a delinquere…) e così se la cavano con due o tremila euro a testa e poi chiedono a qualcuno, pagando, di moltiplicare gli atti con le fotocopie o con i dischetti. Dicono che complessivamente gli atti siano concentrati in una memoria di circa un terabyte. Io non ho mai capito bene cosa sia un terabyte. Mi dicono che una terabyte sia l’equivalente di un milione di megabyte, e che può essere agevolmente contenuto in 1400 Cd rom (o ancora più agevolmente in 212 Dvd da circa cinque giga ciascuno). 1400 Cd Rome non c’entrano in macchina ma 212 Dvd sì. Adesso non voglio occuparmi della domanda maliziosa su quali possibilità esistano che i giudici del maxiprocesso (che tra qualche anno dovrà celebrarsi contro questi 450 presunti esponenti delle cosche di Vibo Valentia) leggano in tempo le 450 mila pagine. Vorrei porre solo un problema di giustizia, che peraltro non riguarda questo processo, ma tutti i processi. Poniamo che io sia innocente (come statisticamente è molto probabile, visto che circa il 75 per cento delle persone che finiscono indagate, in Italia, vengono poi prosciolte o assolte), ma le cose non cambiano molto se sono colpevole: mi trovo a dover fronteggiare una pubblica accusa che sostiene che sono colpevole, e non solo ricevo subito la mia porzione di pena-subito che deriva dal carcere preventivo, o dalla gogna mediatica, o dal disprezzo sociale, o dalla perdita del lavoro, o dalla fine della mia carriera, o da tensioni familiari, etc…, ma devo pagare una bella cifretta per conoscere l’accusa che mi viene rivolta. In questo caso di Catanzaro l’ingiustizia è macroscopica e grida vendetta al cielo. Ma anche quando è più contenuta, quando cioè devo pagare solo poche centinaia di euro, capite bene che è sempre un’ingiustizia insopportabile, che mi dice subito, con arroganza e spocchia: “Io sono lo Stato, io comando, io giudico, io decido e io, per cominciare, di punisco con una ingiustizia palese”. Chissà se c’è in giro qualche legislatore che ha voglia di correggere questo obbrobrio…

Inchiesta Rinascita Scott cade a pezzi, ma Gratteri raddoppia: nuovo maxi blitz con 75 arresti. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 22 Luglio 2020. La Cassazione ha stabilito, senza rinvio, che Gianluca Callipo, già sindaco di Pizzo Calabro e presidente dell’Anci Calabria, e Giancarlo Naselli, colonnello dei carabinieri in servizio, siano subito rimessi in libertà dopo otto mesi di dura reclusione. Entrambi sono stati arrestati – anzi fermati – nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita scott” su richiesta della procura di Catanzaro retta dal dottor Nicola Gratteri. Arrestati in quanto ritenuti anelli fondamentali di un tessuto criminale tra i “colletti bianchi” e la ndrangheta vibonese. Architravi di una struttura criminale. E invece, semplicemente, secondo la suprema corte, non andavano arrestati. Vedremo se l’inchiesta reggerà al processo ma, quantomeno dal punto di vista dei provvedimenti cautelativi, quella che secondo il dottor Gratteri avrebbe dovuto essere “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo” cade a pezzi. I numeri sono impietosi e infatti dei 334 ordini di arresto spiccati la notte del 19 dicembre scorso ben 203 sono stati annullati e riformati: 51 dal Gip, 123 dal Tribunale della Libertà, 13 dalla Cassazione senza alcun rinvio e 9 con rinvio. Il Riformista, nel momento in cui altri giornali uscivano con titoli trionfali, ha definito l’inchiesta uno “show” che ha distratto 3000 carabinieri dalla lotta al crimine e ha gravato il contribuente di costi economici non trascurabili. I fatti ci hanno dato ragione, ma è avvilente dover constatare come questi, pur nella loro oggettività, non fanno notizia anche quando sono costati “lacrime e sangue” di innocenti. Gratteri, ancora una volta, ha dimostrato di essere un autentico genio della comunicazione di massa. Conoscendo i suoi polli, sa che i “grandi” giornali, i parlamentari, il ministro non hanno il coraggio di muovere un solo dito in difesa dello stato di diritto. Qualunque cosa faccia resteranno in silenzio. E così fa lievitare il numero degli indagati portandoli a 479 e pretende una struttura faraonica per celebrare il “suo” processo. Si muove il Ministero, la Regione Calabria, l’onorevole Morra ed il dottor Gratteri viene subito accontentato: la maxi struttura è già in fase di allestimento. E possiamo immaginare (e più di noi immagina l’interessato) che spettacolo pirotecnico verrà allestito con qualche centinaio di imputati ammanettati o comunque sul banco degli imputati, qualche migliaio di avvocati, un’infinità di mezzi militari con sirene spiegate e lampeggianti accesi. Numerosi operatori della televisione e gli inviati speciali? Ieri il colpo di genio: la nuova maxi operazione “Imponimento” con 158 indagati di cui ben 75 condotti in carcere. Ben 700 gli uomini della guardia di finanza impegnati. Il “fermo” che di fatto abolisce la figura del Gip sembra essere la specialità della casa, ma non deve mai mancare il politico “importante”, a costo di cercare nella soffitta di nonna Speranza. Può essere un ex parlamentare in disuso come l’avvocato Pittelli nell’operazione “Rinascita scott” oppure un ex consigliere regionale dimessosi nel 2013. Qualcuno bisogna pur darlo in pasto dell’opinione pubblica assetata di manette e di sangue e il “politico” è la ciliegina sulla torta. E se un giorno lontano le sentenze dimostrassero che sono stati arrestati degli innocenti come è successo mille volte nelle operazioni di Gratteri? Nessun problema. Tutti (o quasi) faranno finta di non accorgersi o di non ricordare, esattamente come hanno fatto sino a questo momento. Probabilmente se ne ricorderanno (eccome) i bambini di Gianluca Callipo e di tanti innocenti che hanno avuto la vita distrutta.

Giancarlo Pittelli, perseguitato e annientato dall’inchiesta simbolo di Gratteri Rinascita-Scott. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Giancarlo Pittelli è un avvocato calabrese e anche un ex assessore, ex deputato, ex senatore. Ha iniziato a far politica con la Dc, poi è passato in Forza Italia, poi si è staccato ed è restato in Parlamento come indipendente. Ha 68 anni e se ho capito bene non sta benissimo in salute. Oggi è in fondo a una cella in una prigione sarda. Ora vi racconto la storia della sua persecuzione da parte dello Stato. Uso la parola persecuzione non con finalità polemiche ma semplicemente descrittive. Se le cose stanno come ora scriverò, e mi pare che non sia possibile smentirle, i termini della persecuzione ci sono tutti. Il problema, adesso, è come porre fine a questa persecuzione. Il racconto inizia il 19 dicembre dell’anno scorso. Giorni di Natale. Alle 3 e mezza del mattino alcuni agenti bussano a casa di Pittelli, a Catanzaro. Lo tirano giù dal letto, c’è un ordine di arresto. Lo portano nel suo studio di avvocato e inizia una perquisizione che dura fino alle 17,30. Alle 21 Pittelli entra in carcere, non ha mai mangiato né bevuto in queste circa 18 ore. Viene sistemato in una cella dove c’è solo una branda. Il giorno seguente, alle 9, 30, senza conoscere gli atti (circa 30 volumi) che contengono le accuse contro di lui, viene chiamato a rispondere all’interrogatorio di garanzia. In condizioni fisiche e psicologiche da film dell’orrore. L’avvocato Pittelli si avvale della facoltà di non rispondere, perché non è informato su nulla. Non sa cosa vogliono da lui. Alle ore 15 dello stesso giorno con un volo militare è portato a Nuoro, più possibile lontano da Catanzaro e in un luogo difficilmente raggiungibile, il carcere di Badu ‘e Carros. È un carcere famoso soprattutto perché furono chiusi lì, in regime speciale, negli anni ottanta, molti terroristi. Pittelli si augura comunque di poter essere al più presto interrogato e poi scarcerato. Ma il tempo passa, non succede niente. Propone istanza al tribunale del riesame. Viene portato a Sassari alle 9 del mattino e resta in attesa di essere interrogato fino circa alle 21 della sera. A quel punto il Presidente lo fa entrare nell’ufficio e lo informa che se ha qualcosa da dire a sua difesa ha dieci minuti di tempo per dirla. Pittelli riesce a dire pochissime cose che peraltro non saranno prese in considerazione. L’interrogatorio al riesame è del 9 gennaio. Ora siamo a fine luglio. Pittelli aspetta ancora di essere interrogato dal Pm che lo accusa. Non è mai stato ascoltato. Avete capito bene: mai ascoltato. Chiede ripetutamente di essere interrogato. Giorni fa viene convocato da un Pm di Nuoro che non conosce nulla dell’inchiesta che ha portato Pittelli in carcere. Si tratta dell’inchiesta famosa di Nicola Gratteri (forse il Pm più famoso d’Italia per via della permanenza in Tv, e anche il candidato ministro della giustizia), la Rinascita Scott celebrata da tutti i giornali e presentata dallo stesso Gratteri come la più grande inchiesta antimafia dopo quelle di Falcone. Pittelli si rifiuta di rispondere al Pm di Sassari e insiste per essere interrogato dai Pm che hanno chiesto il suo arresto. Niente. Intanto della vicenda che lo riguarda si occupa la Cassazione. Pittelli al momento dell’arresto è accusato del reato gravissimo di associazione mafiosa e di altri due reati specifici (i cosiddetti reati-fine) commessi, secondo l’accusa, in concorso con il colonnello dei carabinieri Naselli. Abuso d’ufficio e violazione di segreti d’ufficio. C’è un ricorso al tribunale della libertà che ottiene un primo risultato: l’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa viene derubricata in concorso esterno, però con una specifica: concorso esterno come “capo promotore”. E’ un nuovo reato. Però dura poco. Qualche mese. Poi il 25 giugno si pronuncia la Cassazione. Annulla senza rinvio, cioè in modo assoluto e definitivo, le accuse contro il colonnello Naselli e di conseguenza anche quelle di concorso con Naselli rivolte a Pittelli. Cioè nega che esistono i due reati-fine, come li abbiamo definiti. Naselli è immediatamente scarcerato. Ha scontato inutilmente sei mesi di prigione dura, la sua figura pubblica è stata annientata, sono state fatte a pezzi le sue relazioni, i suoi affetti, la sua dignità di uomo e anche di militare. Ora respira: è innocente. Le accuse di Gratteri non stavano né in cielo né in terra. Però l’errore di Gratteri lo ha pagato tutto lui. Caro, molto caro. la legge è così: se un Pm commette degli errori clamorosi il conto lo salda l’imputato. Per Pittelli anche i due reati scompaiono, non scompare però il concorso esterno (viene cancellato solo il reato accessorio di capo-promotore perché nel codice penale non si trova nulla di nulla che giustifichi questa formula). Gli avvocati di Pittelli hanno presentato un nuovo ricorso, tra qualche riga vedremo come e perché. Proviamo intanto a capire quali erano le accuse specifiche. Primo reato, violazione del segreto. Pittelli avrebbe avuto (da Naselli) la notizia segreta di una interdittiva antimafia in arrivo ai danni di un certo Rocco Delfino, e avrebbe dato la notizia a Rocco Delfino. Si è però saputo che la notizia era pubblica. Piccola distrazione degli inquirenti. Secondo reato, abuso d’ufficio. Sarebbe stato commesso in un momento successivo al primo. E nel frattempo Pittelli era diventato avvocato di Delfino. In quanto avvocato di Delfino, avrebbe chiesto un favore di nuovo a Naselli. C’è una intercettazione che lo accusa. Il colonnello Naselli risponde a una domanda di Pittelli sulla situazione di Delfino. Spiega che è complicata e poi dice: “Eventualmente lasciamo decantare la pratica”. Da questo si deduce che Naselli promette a Pittelli un rinvio sine die del provvedimento. E quindi il reato. Nessuno però verifica se poi effettivamente il provvedimento fu rinviato. Beh, fu eseguito esattamente sei giorni dopo la telefonata. La Cassazione, di conseguenza, in mancanza evidentissima di reati e di verifiche sulle accuse da parte della Procura, annulla tutto e scarcera il colonnello. Per Pittelli resta il concorso esterno. La prova sarebbe sempre in una intercettazione telefonica. Dalla quale risulterebbe che Pittelli sarebbe la talpa che fornì i verbali dell’interrogatorio di un pentito – segretissimi – a un esponente della mafia di Vibo. Li avrebbe ottenuti attraverso la confidenza di un agente segreto. L’intercettazione prova che Pittelli disse a un suo amico che il pentito – si tratta di Andrea Mantella – ha scritto alla madre: “Vi vergognerete di me”. Se ha detto questo al suo amico vuol dire che conosce il verbale delle dichiarazioni di Mantella e dunque è lui la talpa. C’è poi però una seconda intercettazione, della quale gli inquirenti non tengono conto. È sempre di una telefonata tra Pittelli e quello stesso amico, e Pittelli dice: «È inutile che mi chiedete i verbali di Mantella perché io non ne so niente». Questa intercettazione dovrebbe scagionarlo, no? Ma si può obiettare: e allora come sapeva della lettera alla madre? Semplice: la notizia della lettera alla mamma era uscita su tutti i giornali calabresi e sul Fatto Quotidiano un mese prima della prima intercettazione. L’on. Pittelli è sempre lì in cella. Solo. Lontanissimo dalla sua città. Abbandonato. I Pm non lo interrogano. I giornali seguono la corrente: Gratteri, Gratteri, Gratteri. Vi pare che ho esagerato nel parlare di persecuzione? Vi pare che mi intrometto in cose che non mi riguardano se chiedo ai partiti politici che siedono in Parlamento di intervenire, di chiedere spiegazioni, di fare qualcosa per restituite a un cittadino della Repubblica i suoi diritti di essere umano? State attenti, cari amici. Non alzate le spalle. Non fingete che la cosa non vi riguardi. State attenti: quello che è successo all’onorevole Pittelli può succedere a chiunque di noi. Se lasciamo che la magistratura resti l’unico potere incontrastato, se lasciamo che un Pm o un Gip possa sbattere in prigione chi vuole lui, senza doverne mai rispondere a nessuno, a nessuno, a nessuno, se…

Caso Pittelli, Sgarbi denuncia Gratteri al Csm per abuso di potere. Il Dubbio il 26 agosto 2020. Ispezione a sorpresa di Vittorio Sgarbi nel carcere di massima sicurezza di Nuoro, dove ha incontrato l’ex senatore Giancarlo Pittelli in galera da 9 mesi. Ispezione a sorpresa del deputato Vittorio Sgarbi, ieri pomeriggio, nel carcere di massima sicurezza di Badu ‘e Carros, a Nuoro, dove ha incontrato l’ex senatore Giancarlo Pittelli, avvocato di 68 anni arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa il 19 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Catanzaro denominata “Scott Rinascita”, e attualmente detenuto in regime di isolamento. “La carcerazione di Pittelli – spiega Sgarbi – viola la Costituzione e lo stato di diritto perché viene tenuto in carcere senza che sia stato mai interrogato e senza che sia stato celebrato un processo. Nei suoi confronti accuse fumose, frutto di ipotesi senza prove, in spregio a ogni principio di civiltà giuridica”. Nel mirino del deputato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, titolare di un’inchiesta che, denuncia Sgarbi “nota per l’inconsistenza dei capi d’accusa e abuso della carcerazione preventiva. Per questa ragione – annuncia – ho deciso di presentare un esposto al Csm, per abuso di potere e violazione dei diritti umani, contro Gratteri e le sue indagini costruite su teoremi accusatori caratterizzati notoriamente da superficialità. E’ lungo l’elenco di persone fatte arrestare da Gratteri e poi scagionate o assolte”. Le condizioni dell’ex parlamentare vengono definite dal deputato “preoccupanti”. “E’ visibilmente gonfio – riferisce – in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato: condizioni di salute oggettivamente incompatibili con la detenzione».

Ho visto Pittelli, denuncio Gratteri per tortura! Vittorio Sgarbi su Il Riformista il 29 Agosto 2020. Interrompo il mio viaggio per chiese romaniche in Sardegna. Ho visto Nostra Signora di Su Regno ad Ardara, Sant’Antico di Bisarcia a Orzieri, San Nicola a Ottana, San Pietro di Torres a Borutta, Nostra Signora di Tergu, Santa Trinità di Saccargia, Santa Giusta a Oristano, Santa Maria di Sibiola a Serdiana. Farebbe bene a molti meditare su queste architetture semplici e cariche di spirito, ma per alcuni è più importante inseguire teoremi e fantasmi. Io cerco anime e luoghi. Così interrompo il mio itinerario e vado al carcere di Bad ‘e Carros a Nuoro. Lì mi aspetta, anche se non sa del mio arrivo, Giancarlo Pittelli. Mio coetaneo, avvocato cassazionista che è stato membro del consiglio direttivo e segretario della Camera Penale di Catanzaro, con incarichi in importanti processi e centinaia di articoli su temi giudiziari, deputato e senatore della Repubblica per due legislature, uomo asciutto, appassionato, da ultimo iscritto a Fratelli d’Italia. Già vittima di Luigi de Magistris, uno di quei magistrati che preferiscono i teoremi agli uomini, testimone dello squilibrio della giustizia, come dimostra l’archiviazione della sua posizione per l’insussistenza della notizia di reato, dopo le indagini svolte da due diversi Pm, più attenti agli uomini che ai teoremi, Salvatore Curcio e Salvatore Borrelli. Improvvisamente, il 19 dicembre del 2019, non è solo indagato, ma arrestato nel blitz “Rinascita-Scott”, che ha portato a 334 arresti tra le organizzazioni di ‘ndrangheta di Vibo Valentia facenti capo alla cosca Mancuso. L’accusa per Pittelli è di aver messo in contatto ‘ndrine e istituzioni. Su questo giornale Piero Sansonetti aveva raccontato il travaglio giudiziario cui era stato sottoposto Pittelli, e anche i capi d’imputazione che si sono dimostrati infondati. E le scarcerazioni stabilite dal Tribunale di Sorveglianza e dalla Cassazione che hanno provato la superficialità delle richieste del Procuratore Gratteri. Incredibilmente, già alla data del 21 gennaio, 120 misure cautelari sono state modificate. Anche nel caso di Pittelli, dopo l’annullamento senza rinvio per tre capi d’imputazione relativi all’abuso d’ufficio aggravato dal metodo mafioso, l’innocente resta in carcere per l’impalpabile e illegittimo reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Cioè le peregrine deduzioni di Gratteri sulla base di improbabili intercettazioni. Quando mancano le prove s’invoca il concorso. Ma torniamo all’uomo. Da 9 mesi Pittelli sta in una cella di un carcere di massima sicurezza, in poco più di 3 metri per 4. Ha avuto un interrogatorio al Riesame, con tortura, il 9 gennaio. Infatti, trascurando ogni elementare rispetto per la persona, Pittelli viene portato a Sassari alle 9 del mattino e resta in attesa di essere interrogato fino circa alle 21 della sera. A quel punto il Presidente lo fa entrare nell’ufficio e lo informa che se ha qualcosa da dire a sua difesa ha dieci minuti di tempo per dirla. Civile, no? Umano, no? Da allora (siamo in agosto) aspetta ancora di esser interrogato dal Pm che lo accusa. Convocato da un Pm di Sassari, che non conosce l’inchiesta, Pittelli si rifiuta di rispondere e insiste per essere interrogato dai Pm che hanno chiesto il suo arresto. Niente. Quando la Cassazione annulla i reati contestati da Gratteri, che ha coinvolto anche un colonnello dei carabinieri,Giorgio Naselli, immediatamente scarcerato, Pittelli rimane appeso al grottesco concorso. Come scrive Sansonetti «le accuse di Gratteri non stavano né in cielo né in terra. Però l’errore di Gratteri lo ha pagato tutto lui. Caro, molto caro. la legge è così: se un Pm commette degli errori clamorosi il conto lo salda l’imputato». Manca il corpo del reato. E il corpo di Pittelli è sempre in carcere. Nell’indifferenza assoluta di un altro uomo, che usa il suo potere, Gratteri. Gratteri non deve rispondere a nessuno, e neanche alla sua coscienza. Io ho visto Pittelli. Sono certo che è innocente. Sono certo che non ha concorso in nulla. Sono certo che sarà assolto. Mi chiedo. Come pagherà Gratteri il suo errore? Intanto io lo denuncio per tortura. Perché il Pittelli che ho visto non è quello che conosco. Spento, umiliato, con lo sguardo fisso. Nessuno, come sta accadendo all’avvocato Pittelli, può essere detenuto per un così lungo tempo, peraltro in isolamento, per accuse che sono tutte da dimostrare. Solo in un Paese totalitario si può umiliare così una persona, un uomo. Le sue condizioni sono preoccupanti. E’ visibilmente gonfio, in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato: situazione di salute oggettivamente incompatibile con la detenzione. Intanto Gratteri parla, rilascia interviste. Perfino Palamara è arrivato a dichiarare: “Gratteri è matto, va fermato. Non può continuare così”. Lo dice un suo collega, ad uso a proteggere magistrati. Io so soltanto che Gratteri, colpevole, è libero, e Pittelli, innocente, è in carcere. Vorrà occuparsene il Csm? Vorrà guardare in faccia, un uomo distrutto il Presidente Mattarella? O il Cristianesimo è rimasto soltanto una parola? Non c’è più il «prossimo»? E magari qualcuno cercherà d’impedirmi di parlare?

Caso Pittelli, da 9 mesi in cella senza un perché: “Bonafede chiarisca”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 25 Agosto 2020. La politica si muove per accendere i riflettori sulle anomalie del caso Pittelli. Perché quel che capita a Giancarlo Pittelli, e che è successo ad altri nel passato, rivela qualcosa di più di una vicenda di malagiustizia. E racconta di quell’insieme di umiliazioni, vessazioni e angherie che lambiscono la tortura psicologica e stracciano lo stato di diritto. Pittelli, avvocato cassazionista prestato alla politica, con Forza Italia per due volte alla Camera e una al Senato, lo scorso 19 dicembre alle 3:30 del mattino viene raggiunto nella sua casa di Catanzaro da un ordine di arresto nell’ambito della spettacolosa inchiesta Rinascita-Scott, coordinata dal procuratore anti-mafia Nicola Gratteri. Mezzo migliaio di agenti armati, autoblindo nelle strade, elicotteri in volo. L’alto numero degli arresti rende impossibile, in un primo tempo, l’analisi puntuale di quanto accade. Oggi sappiamo che dopo una perquisizione nel suo studio di avvocato, iniziata all’alba e durata fino alle 17:30, e dopo 18 ore durante le quali non gli viene consentito di bere né di mangiare (chissà perché) l’ex parlamentare viene tradotto in carcere. La mattina successiva viene disposto l’interrogatorio di garanzia al quale Pittelli arriva prostrato, stravolto e senza avere minimamente contezza degli atti e degli addebiti a suo carico; si avvale dunque della facoltà di non rispondere. È allora che lo caricano in ceppi su un aereo militare che solca il mare – come nell’Argentina di Videla – e lo stesso 20 dicembre è trasferito nel carcere sardo di Badu ‘e Carros, a Nuoro, dove è attualmente recluso. Una operazione tanto spettacolosa quanto kafkiana: l’indagato è finito in un buco nero, inizialmente non riesce a parlare con i suoi avvocati. Vive un incubo senza fine. E benché siano trascorsi ormai 8 mesi dall’arresto e pur avendone fatto più volte richiesta, l’ex parlamentare non è mai stato ascoltato dal Pm di Catanzaro titolare dell’inchiesta. Pittelli al momento dell’arresto è accusato di associazione mafiosa e di altri due reati specifici, l’abuso d’ufficio e la rivelazione di segreti d’ufficio commessi, secondo l’accusa, in concorso con il colonnello dei carabinieri Naselli; ma le accuse contro quest’ultimo sono decadute e di conseguenza cadono anche quelle di abuso d’ufficio e di rivelazione del segreto d’ufficio rivolte a Pittelli in concorso con Naselli che, infatti, è stato prontamente scarcerato. Pittelli resta in carcere con la sola accusa di concorso esterno. Mentre scriviamo non risulta che sia stato disposto il rinvio a giudizio e neppure che sia stata fissata l’udienza preliminare. E qui interviene l’onorevole Roberto Giachetti, Italia Viva, con la sua storia di militanza radicale che lo porta a proseguire la battaglia per una giustizia giusta che Marco Pannella incarnò per tutta la vita. Il parlamentare renziano ha presentato una interrogazione a risposta scritta al ministro della Giustizia, Bonafede. «Secondo quanto riferiscono gli avvocati di Pittelli, le sue condizioni psichiche ed emotive destano particolare preoccupazione in ragione anche dell’isolamento totale a cui è costretto in carcere e dal fatto che sia in cura con pesanti psicofarmaci; si richiede se il ministro interrogato sia già a conoscenza della vicenda esposta in premessa; se il ministro non ritenga di dover procedere, nell’ambito delle sue prerogative e competenze, ad acquisire ulteriori elementi in riferimento alla vicenda in esame ed eventualmente ad attivare i propri poteri ispettivi al fine di verificare se vi siano state irregolarità o anomalie nell’iter dell’intero procedimento; quali iniziative, per quanto di competenza, intenda porre in essere al fine di tutelare i diritti dell’indagato e in particolare per assicurare la pienezza dell’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito». Si muovono anche in Azione, la formazione guidata da Calenda, dove il deputato Enrico Costa – responsabile della Giustizia – plaude all’iniziativa di Giachetti. «La vicenda Pittelli merita grande attenzione, e più in generale va rimesso in discussione l’istituto della carcerazione preventiva, che solo in Italia può durare così a lungo senza garanzie per la difesa». «Non entro nel merito delle contestazioni: ci sarà un processo – aggiunge Costa – e saranno vagliate da un giudice. Detto questo, il diritto di difesa e la presunzione di innocenza implicano per chiunque il diritto di esporre la propria versione dei fatti davanti al Pm che ha chiesto la custodia cautelare, ed il dovere di chi indaga di ascoltare e verificare». Anche nel Pd c’è chi vuole vederci chiaro, come l’ex parlamentare socialista Giacomo Mancini, un nome che in Calabria ha un peso storico. «Ha fatto bene Giachetti a presentare questa interrogazione», dichiara Mancini al Riformista. «Mi auguro possa raccogliere tante adesioni ad iniziare dai parlamentari di centrosinistra. Le battaglie per una giustizia giusta devono tornare patrimonio della nostra parte. La carcerazione preventiva deve essere un’eccezione comminata soltanto in presenza di specifici requisiti. Nel nostro ordinamento è diventata, purtroppo, la regola. Non conosco in profondità la vicenda giudiziaria ma ho conosciuto Giancarlo Pittelli come un parlamentare serio e competente e come avvocato capace e preparato. Come una brava persona. Mi auguro possa difendersi dalle accuse mosse contro di lui da cittadino libero e in uno stato di serenità tale da consentirgli di battersi al meglio per tutelare la sua onorabilità». Pittelli ha intanto chiesto di essere giudicato con il giudizio immediato, decisione motivata dalle preoccupanti condizioni di salute del detenuto in attesa di giudizio. L’11 settembre prossimo, nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, si svolgerà l’udienza preliminare che interessa 456 imputati. Un secondo troncone dell’inchiesta – che ha portato il numero degli indagati complessivi a 479 di cui 23 posizioni sono state stralciate – è scattato il 18 giugno scorso all’atto della conclusione delle indagini preliminari. Sui troppi eccessi di questa operazione si attendono ora le risposte di Alfonso Bonafede, nero su bianco.

La tortura di Stato contro Pittelli, da sette mesi in una cella senza potersi difendere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Agosto 2020. Giancarlo Pittelli, ex parlamentare, ex assessore, prestigioso avvocato calabrese, sta molto male. Da otto mesi è chiuso in una cella di una delle più famigerate carceri italiane, Badu ‘e Carros, vicino a Nuoro. È in isolamento totale. Non vede nessuno. Non sente nessuno. Anche l’ora d’aria deve farla da solo come un cane in un cortiletto. Persino le rare visite consentite ai familiari non ci sono, per via del Covid e del fatto che comunque Badu ‘e Carros è più lontana di Parigi o di Mosca da Catanzaro. Giancarlo Pittelli non è stato in questi otto mesi mai interrogato dal suo Pm. Mai. Come in un famoso romanzo successe a un certo Joseph K. Una volta, una sola volta, gli hanno chiesto se volesse parlare con un giovane Pm di Nuoro, del tutto all’oscuro dell’inchiesta giudiziaria che lo riguarda. Anche questo successe a Joseph K. L’inchiesta che riguarda Pittelli è una delle famose inchieste del dottor Gratteri. Lui ha detto di no, che non voleva essere interrogato da un estraneo. Voleva il suo accusatore, voleva poter parlare con lui e a lui spiegare perché è innocente. Penso che chiunque di noi avrebbe fatto lo stesso. Beh, cominciate a capire come funzionano le cose: parlare col vostro accusatore non è un vostro diritto. L’atteggiamento della Procura di Catanzaro, il rifiuto di occuparsi del caso Pittelli (e probabilmente di decine e decine di casi analoghi) è perfettamente e formalmente legale. Tra i poteri della pubblica accusa c’è quello di far sbattere un cristiano in prigione, di metterlo in isolamento, e di tenerlo lì senza permettergli di difendersi, di spiegare, di capire, per molti e molti mesi. Anche di spingerlo al suicidio. I suicidi in carcere sono in aumento. Succedeva così anche a Joseph K., più o meno nel 1925. Voi magari potreste chiedere: ma una situazione di questo genere non è equiparabile alla tortura? Sì, sicuramente è equiparabile. Però esistono due tipi di torture: quelle illegali, che possono essere punite, e quelle legali che sono guardate con rispetto anche da gran parte dell’opinione pubblica. La tortura fu abolita in Francia un po’ più di due secoli fa, per una ragione di dottrina: si stabilì che siccome la tortura era contemporaneamente un metodo di indagine – perché serviva a far confessare l’imputato – e una punizione in atto, non era legittima. Dal momento che il diritto ha sempre immaginato che tra indagini e pena non ci possa essere confusione. Perché tenere un signore di 68 anni in prigione per otto mesi, isolato, in attesa di rinvio a giudizio e udienza preliminare, se non per indurlo a confessare e risolvere così i tanti problemi di una inchiesta che sta marciando a giornali unificati ma a prove scarsissime? Nessuno immagina che Pittelli possa fuggire, nessuno immagina che possa inquinare le prove (non ci sono prove, fin qui, tranne alcune intercettazioni piuttosto prive di valore e che comunque non possono certo essere manipolate), nessuno immagina che possa reiterare i reati. Dunque? Resta solo l’ipotesi dell’induzione a confessare. E allora più è duro il carcere meglio è. Giusto, i reati. Quali sono i reati? In origine erano tre. Rivelazioni di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio, associazione mafiosa. Poi, piano piano si sono ridotti. È caduto il reato di rivelazioni, per il quale la Cassazione ha ordinato la scarcerazione, è caduto il reato d’abuso, è caduta anche l’associazione mafiosa che si è trasformata nella mitica accusa di concorso esterno, accusa, come sapete, che si basa sulle congetture, non sulle prove. Per questo viene usata con grande frequenza. E può resistere – dal punto di vista della sua legittimità formale, non certo della logica – anche se cadono tutti i cosiddetti reati fine. Che vuol dire reato fine? Per esempio, truffa. O omicidio. O corruzione. O sequestro di persona. Ti dicono: tu partecipavi, seppur dall’esterno, a una associazione che organizzava furti, o omicidi, o truffe. In questo caso no, il reato fine non c’è: tu hai partecipato a una associazione che non aveva in programma reati, o comunque non ne aveva commessi. È probabile, anche se nel romanzo non viene mai detto (perché l’ipotesi di un reato così fantasioso, nel 1925, sfuggiva persino alla mente molto aperta del suo autore) che l’accusa a Joseph K. fosse appunto associazione esterna. Per tutte le pagine del romanzo, e per tutta la durata del processo, a Joseph K. non viene mai detto qual è il reato. Vediamo meglio nello specifico i reati imputati a Pittelli. Rivelazione di segreti d’ufficio grazie alla soffiata di un ufficiale dei carabinieri amico. Ma poi si è scoperto che il segreto era pubblico da molto tempo. Abuso d’ufficio: avrebbe ottenuto sempre da questo carabiniere l’insabbiamento di un provvedimento contro un suo cliente. Ma poi si è scoperto che questo provvedimento fu eseguito immediatamente. E infatti sia l’ufficiale dei carabinieri sia il suo cliente sono stati scagionati e scarcerati dopo sei mesi di prigione inutile. Infine concorso esterno per aver rivelato a un amico una frase pronunciata agli inquirenti da un pentito. Secondo l’accusa, Pittelli avrebbe saputo di questo pentito da un agente dei servizi segreti. In realtà questa frase, molto prima che Pittelli la pronunciasse in una telefonata intercettata, era stata pubblicata da diversi quotidiani, tra i quali Il Fatto. In questi giorni gli avvocati di Pittelli sono andati a trovarlo nel carcere di Nuoro. Dicono di averlo trovato in condizioni penose. Sta malissimo. Barcolla. È imbottito di psicofarmaci. È disperato, rassegnato alla feroce persecuzione alla quale è sottoposto in base alla legge. Parla a fatica. Dicono gli avvocati che in due ore di colloquio sono riusciti a farlo parlare davvero per non più di dieci minuti. L’unico strumento di comunicazione con l’esterno che Pittelli possiede è il telegramma. A me ne ha mandato due recentemente. Tre parole: «Aiutami, ti prego». Noi ci conosciamo appena di vista. Ci saremo visti un paio di volte quando lavoravo in Calabria. Si rivolge a me, Pittelli, perché è stato lasciato solo da tutti… Abbandonato. I suoi avvocati ora tentano una mossa che forse è l’unica possibile. Hanno chiesto il rito abbreviato. Rinunciano a molte garanzie che spettano alla difesa ma almeno, finalmente, potranno portarlo davanti a un giudice, e lui potrà riottenere il diritto di parola. È indegna questa situazione. Mi rivolgo ai capi dei partiti democratici. Tutti: di destra e di sinistra. Berlusconi, Renzi, Zingaretti, Speranza, Salvini, Meloni: voi pensate che la civiltà possa guadagnarne dalla decisione delle forze politiche di abbandonare nella mani dei Pm un proprio esponente e di permettere che sia torturato, e forse spinto alla morte? Non mi rivolgo al vostro senso di umanità, semplicemente a un ragionamento freddo: se permettete che questo succeda, sappiate che avete lasciato la porta spalancata allo sterminio della politica. E del Diritto.

Da Tortora a Pittelli, il giustizialismo italiano che ricorda la Russia degli anni Trenta…Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Agosto 2020. «Uccidete questi cani rabbiosi. Morte a questa banda che nasconde al popolo i suoi denti feroci, i suoi artigli d’aquila! Abbasso questi animali immondi! Mettiamo fine per sempre a questi ibridi miserabili di volpi e porci, a questi cadaveri puzzolenti!». È la conclusione della requisitoria di un grande magistrato del Novecento. Si chiamava Andrey Vysinskij ed era il Procuratore generale della Russia negli anni 30. Il passaggio che ho trascritto, in cui Vysinskij offre un saggio della sua prosa, fa parte dell’arringa finale nella quale il Procuratore chiese la condanna a morte di due alti dirigenti del partito comunista russo, anzi, di due dei leader della rivoluzione leninista del 1917: Kamenev e Zinoviev, vicinissimi durante la rivoluzione a Lenin, poi vicini anche a Stalin ma poi caduti in disgrazia e accusati di trotzkismo. Accusa estrema. Eravamo nell’estate del 1937, la richiesta di Vysinskij è del 19 agosto, fu accolta subito e la settimana successiva la sentenza fu eseguita. Vysinskij era uno di quei magistrati sempre a metà strada tra Procura e politica, un po’ come molti magistrati italiani di oggi. Finì la sua carriera di giurista come ministro degli Esteri. Da Pm era specialista nell’ottenere le confessioni dell’imputato. Con metodi vari, di solito non molto gentili. Anche Kamenev e Zinoviev confessarono il loro tradimento trotzkista. E così confessò l’anno dopo Nikolaj Bucharin, il teorico, il pupillo di Lenin: era famoso come il ragazzo più amato della rivoluzione bolscevica. Fucilato anche lui. Anche lui metà volpe e metà porco, anche se certo non era trotzkista. Da noi no. Per fortuna non siamo a questo punto. Non si fucila nessuno. Il peggio che ti può capitare, se cadi in disgrazia e se un Pm bravino posa su di te il suo sguardo e le sue attenzioni, è quello che sta succedendo in questi giorni, per esempio, a Giancarlo Pittelli, avvocato calabrese, ex parlamentare, catturato in dicembre e spedito al carcere duro di Badu ‘e Carros, quello dei mafiosi e dei terroristi. Sta lì, Pittelli, in fondo a una cella, da otto mesi: le accuse stanno cadendo tutte, una ad una, lui vorrebbe parlare con il Pm che lo ha imputato per spiegare le sue ragioni, dire perché è innocente. Non gli concedono questo colloquio. Non è suo diritto. È in prigione da quasi un anno e non ha potuto parlare mai con il magistrato che lo accusa. La politica lo ha abbandonato, perché la politica, quando vede che uno dei suoi è stato preso, preferisce battersela ed evitare guai. Lo mollano subito. I giornali, di solito, dipendono dalle Procure e quindi, anche se volessero, non potrebbero mai difendere un imputato. Voi forse ricordate qualche campagna giornalistica a favore di un imputato? Ci fu quella per Tortora, sì, che unì tutti, anche Travaglio: però iniziò dopo l’assoluzione. Prima erano tutti lì a fare il tifo per dei Pm incapaci che avevano perseguitato Tortora e lo avevano mandato al macello. Comunque Pittelli non rischia di essere fucilato. Perché sta lì in un buco di cella, isolato e senza che si degnino di interrogarlo? Beh, in questo la somiglianza con la Russia c’è. Vogliono che confessi e possibilmente che accusi qualche altro politico. La chiave per ottenere la libertà, quando ti sbattono dentro senza prove, non è quella di dimostrare la tua innocenza: è la confessione. Per fortuna qui da noi, se confessi – vera o falsa che sia la confessione – ti liberano. Perché a Mosca la beffa era che prima ti facevano confessare e poi ti fucilavano. Però Pittelli non vuole confessare. C’è qualche altra similitudine tra la requisitoria di Vysinskij e noi? Sì, la carica d’odio e la ricerca spasmodica di colpevoli da colpire e da annientare. Fatte tutte le proporzioni tra il loro regime sanguinario e il nostro traballante ma ancora ampio stato di diritto, la mobilitazione politica è molto simile. È scattato quell’equilibrio tra strategia politica dell’establishment e ricerca della perfidia del nemico, che è il cemento di tutte le dittature ma che ha – per quel che riguarda la nostra cultura politica – radici molto robuste soprattutto nello stalinismo. Sono i toni della nuova campagna moralizzatrice – aperta dalla corazzata Inps più 5 Stelle più Lega – che fanno impressione e che ricordano la Russia degli anni Trenta. La ricerca della parola più odiosa, dell’oltraggio, dell’umiliazione del sospetto o del colpevole. L’idea che solo trovando una filiera di colpevoli infami, non ha importanza colpevoli di cosa, si possa garantire la nostra propria onestà e la stabilità di un potere molto fragile. È esattamente da qui che nasce il partito “della caccia”. Che poi sbanda senza problemi da sinistra a destra, e che qui da noi ha origini indiscutibili: nella vecchia tradizione fascista della destra e nello stalinismo che non è mai morto. Lo stalinismo è stata la grande tara che ha frenato le capacità riformatrici della sinistra italiana. La sinistra italiana, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, aveva una potenzialità di pensiero e di progettazione sociale mostruosa. Ma aveva il piombo nelle ali, perché non riusciva a rompere con lo stalinismo. Poi ci fu l’89 e lo stalinismo scivolò rapidissimamente in giustizialismo. Ci mise pochi mesi a camuffarsi. Non è mai morto lo stalinismo della sinistra italiana, anzi si è rafforzato perché ha perduto il freno che gli veniva dal pensiero di sinistra e si è facilmente fuso col populismo post fascista e reazionario. È nata questa ideologia del colpevolismo e dell’infamismo. In queste ore è al diapason. Lo abbiamo già detto ieri, ricorda maledettamente i mesi bui del ‘93, costellati di sopraffazioni di Stato e di suicidi. Ora forse è peggio. Perché è un giustizialismo di governo. Più forte, più sicuro di sé, più arrogante. Proprio come fu lo stalinismo. Ed è sostenuto da una magistratura che ha superato in bellezza lo scandalo Palamara, protetta dall’azione potente e magistrale della stampa. E ora sta per tornare in tutta la sua grandiosità e spietatezza. Cosa vuole? Ve lo dico io: “Metter fine per sempre a questi ibridi tra volpi e maiali…”

Il caso. Giancarlo Pittelli difendeva un boss, per questo l’hanno lapidato. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 29 Agosto 2020. La drammatica vicenda giudiziaria dell’avvocato calabrese Giancarlo Pittelli, arrestato e da otto mesi in isolamento nel carcere nuorese di Badu ‘e Carros, è gravissima ed allarmante per almeno due ordini di ragioni.

La prima è che Giancarlo Pittelli è un avvocato. Non c’entra nulla la solidarietà di categoria. Egli non è accusato di aver molestato una donna, o di aver rapinato una banca, per la qual cosa la sua qualifica professionale non meriterebbe la benché minima considerazione. Egli è stato arrestato per reati asseritamente commessi in ragione dell’esercizio del suo magistero difensivo. Difendendo soggetti accusati di appartenere a cosche ‘ndranghetistiche, egli avrebbe finito per concorrere nei reati dei propri stessi assistiti. Spero comprendiate la straordinaria delicatezza della questione. Siamo dentro quella zona grigia che accompagna da sempre il nostro mestiere di difensori, e dentro la quale si annida, certamente insieme al possibile illecito almeno deontologico quando non penale del difensore, il cuore pulsante della più spregevole cultura giustizialista, quella che nutre istintivamente l’idea che il difensore sia un sodàle del proprio assistito. Idea, questa, che segna in realtà la negazione –per i cittadini, non per gli avvocati- del diritto stesso di essere pienamente, compiutamente e liberamente difesi. Ora, la Corte di Cassazione ha già demolito molta parte di quelle gravissime accuse. Ha annullato senza rinvio, come si fa con la carta straccia, le ipotesi di rivelazione di segreti di ufficio e di abuso in atti di ufficio; e ha derubricato l’accusa di associazione mafiosa nel leggendario, magmatico, imponderabile “concorso esterno”. L’esperienza ci insegna che quando un’accusa così grave nasce prendendo dal giudice di legittimità simili ceffoni già nella culla, è destinata a una assai tormentata sopravvivenza. Dunque è almeno legittimo il nostro allarme: e cioè che le accuse siano figlie, piuttosto che di concreti, gravi e concordanti indizi di reità, di quella cultura poliziesca deteriore che vede nell’avvocato difensore un intralcio alla giustizia, un sodàle, appunto, dei propri assistiti. Si vedrà, naturalmente, e non sta a noi giudicare: ma le premesse queste sono, e non si può più oltre tacerle.

La seconda ragione di allarme è che, a prescindere da ogni considerazione di merito, la vicenda testimonia il grave livello di degrado processuale che ha ormai raggiunto l’istituto della custodia cautelare nel nostro Paese, rispetto ai principi normativi e costituzionali che pure lo regolano. Secondo legge e Costituzione, la privazione della libertà personale prima di una sentenza di condanna è una soluzione estrema, eccezionale, temporalmente da limitarsi quanto più possibile, giustificata non solo da una imponente consistenza indiziaria, ma soprattutto da “concrete ed attuali” esigenze di cautela rispetto alla indagine. Pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato, pericolo di inquinamento delle prove. Concrete ed attuali significa che nessuno può essere incarcerato “altrimenti fugge”, o “altrimenti reitera il reato o inquina le prove”. Occorre che tali pericoli siano sorretti da elementi sintomatici concreti, attuali, tangibili. Giancarlo Pittelli è stato arrestato otto mesi fa, buttato in isolamento assoluto in una delle peggiori carceri italiane dove rischia di perdere il senno, pressoché irraggiungibile dai suoi cari e dai suoi stessi avvocati, nonostante il drastico ridimensionamento del quadro accusatorio e il lunghissimo, interminabile, assurdo arco di tempo trascorso. Le persone non sono sacchi di patate, che prendi e butti in uno scantinato, e poi si vedrà. Siamo ormai assuefatti a questa idea barbara ed incivile di custodia cautelare, e la prevalente coscienza civile del Paese -o ciò che di essa è rimasto- ha smarrito il senso di quanto sia grave, e fonte di inaudite ed ingiustificabili sofferenze, una simile mostruosità. L’avvocato Pitelli è a tal punto pericoloso da non poter essere detenuto nemmeno agli arresti domiciliari, dopo otto mesi di carcere durissimo e di massacro della propria dignità e credibilità professionale? Ed in qual modo egli potrebbe oggi inquinare le prove, o reiterare i reati, o fuggire se almeno detenuto in casa, con divieto di comunicare con altri che con i più stretti familiari? Qualcosa non quadra, in questa vicenda, ed è giunto il momento di dirlo con chiarezza. In questo Paese non ci sono solo i leoni da tastiera, o i forcaioli che organizzano invereconde manifestazioni di plauso per arresti annullati poi a centinaia già nelle settimane e nei mesi successivi. Esiste anche una coscienza civile che orripila di fronte a simili aberrazioni; una coscienza civile che deve riacquistare coraggio, risollevare la testa e far sentire nitida e forte la propria voce, in nome della difesa strenua ed incondizionata della libertà e della dignità di persone che la Costituzione presume innocenti fino a definitiva sentenza di condanna, e con esse della libertà e della dignità di ciascuno di noi.

SIGNOR DETENUTO, LEI NON HA PIÙ DIRITTO ALLA DIFESA. Il legale Roberto Lassini ha tentato invano per due giorni di incontrare il suo neoassistito Francesco Stilo, indagato, che sta rischiando la vita in cella. Tiziana Maiolo su Il Riformista, 27 agosto 2020. È in atto una vera sospensione del diritto di difesa. Per due giorni di seguito l'avvocato Roberto Lassini ha tentato di incontrare il suo neo-assistito Francesco Stilo, indagato nella maxi-inchiesta calabrese detta Rinascita-Scott, nel carcere di Opera. Niente da fare, il legale milanese dovrà accontentarsi di una fotografia, se vorrà conoscere la persona che dovrà difendere nel processo. Ammesso che processo mai ci sarà, per lui, visto che sta rischiando la vita. La direzione dell'istituto di pena ha alzato un muro davanti alla richiesta di incontro da parte del legale, prima dicendo che l'avvocato Stilo (che è in carcere da otto mesi) era a colloquio con lo psichiatra, poi che era in isolamento in quanto il suo compagno di cella era risultato positivo al test sul Covid-19, infine che comunque era in corso il suo trasferimento a Bologna. Sospensione del diritto di difesa è dire poco. Anche lo psichiatra nominato dal gip come consulente di parte aveva trovato ostacoli all'ingresso del carcere. Era addirittura risultato, dal cervellone della polizia, una sorta di suo precedente per "falso" (inesistente), tanto che il luminare aveva deciso di querelare la pm che si era permessa di addurre a una propria "benevolenza" il fatto che alla fine gli fosse stato consentito di incontrare e di esaminare il proprio paziente. Ora qualcuno deve spiegare all'opinione pubblica, prima ancora che all'avvocato Stilo, ai suoi familiari e ai suoi difensori, se lo Stato (nelle vesti del procuratore Gratteri o di qualche suo sostituto o di qualche gip) ha deciso di condannare a morte un cittadino innocente secondo la Costituzione, incarcerato e in attesa di giudizio da otto mesi. Un quadro clinico devastante, prima di tutto: un ematoma all'aorta toracica, gravi patologie cardiache, due tentativi di suicidio, attacchi continui di panico e di claustrofobia su un uomo di 47 anni che pesa 147 chili, con tutto quello che ne consegue. E ora, mentre in tutta Italia è in corso un nuovo allarme per il "risveglio" del Coronavirus, e una delle nuove persone colpite è stato giorno e notte a contatto con il compagno di cella già gravemente malato, non c'è uno straccio di magistrato che abbia la sensibilità e il coraggio di porsi il problema, per lo meno, della custodia cautelare al domicilio dell'avvocato Francesco Stilo. A Milano nel mese di marzo alcuni giudici lo avevano fatto, di propria iniziativa e senza aspettare le decisioni del governo, proprio nei confronti di detenuti in custodia cautelare. Ma ci vogliono appunto sensibilità e coraggio. E invece che cosa fanno i magistrati calabresi (o gli uomini del Dap, non sappiamo)? Decidono di mandare il malato a Bologna, dove nel carcere Dozza già in aprile c'erano stati un morto e diversi contagiati tra i detenuti, e dove proprio in questi giorni è stata segnalata la presenza di un detenuto positivo al tampone anticovid. E dove il segretario generale del sindacato degli agenti penitenziari Aldo Di Giacomo si è già dichiarato molto preoccupato "per un eventuale propagarsi del virus in considerazione dell'imminente riapertura dei processi e delle relative traduzioni, ma soprattutto dai colloqui con i familiari". Il luogo ideale dove mandare una persona già affetta da gravissime patologie. Questo dello spostamento da un carcere all'altro pare quasi un gioco delle tre carte. Prima mandano Francesco Stilo a Voghera (tra l'altro uno degli istituti dove con maggior virulenza si svilupperà il Covid-19), poi, non appena i suoi legali cominciano ad avanzare richieste di detenzione domiciliare, il detenuto viene spostato a Opera, al centro clinico con la giustificazione della possibilità di maggiore attenzione alla sua salute. Tralasciando il fatto che proprio lì il malato da curare ha trovato un topo sotto il materasso (fatto su cui attendiamo una smentita dalla direzione del carcere), resta oggi il problema della possibilità di contagio da covid-19. Che per Stilo potrebbe essere fatale. Quindi che si fa? Si prendono i 147 chili d'uomo e li si spedisce a Bologna? C'è un documento, l'ordinanza con cui il Gup di Catanzaro Paola Ciriaco il 22 scorso ha rigettato la richiesta di misura cautelare alternativa al carcere, che è significativo anche per quello che viene detto tra le righe. Non viene nascosta la gravità delle condizioni di salute di Francesco Stilo, tanto che le diverse patologie vengono puntigliosamente elencate, ma si cita all'improvviso, e prima che si avesse notizia del compagno di cella positivo al tampone, il "rischio di contagio da covid-19". Preveggenza del gip o consapevolezza della gravità di una situazione che ai difensori doveva esser tenuta nascosta? E ancora si parla di "rischio epidemiologico", sostenendo che "lo Stilo è stato trasferito presso altro istituto penitenziario (Bologna)", così non potrà più lamentarsi di esser stato collocato in un luogo inidoneo per le sue condizioni di salute. Ma non è vero: né il 22 né nei giorni seguenti, cioè fino all'ultimo tentativo di incontrarlo da parte di uno dei suoi legali, cioè il giorno 25, c'era stato alcun trasferimento. E speriamo che non sia accaduto ieri, visto il rischio denunciato dallo stesso sindacato degli agenti di polizia penitenziaria su Bologna. Non ci sono alternative. Le leggi, i decreti e le circolari, dal famoso "Salva vita" in poi, e anche la normativa precedente e non emergenziale, ci sono e dicono che Francesco Stilo non può stare in carcere.

Magistrati con licenza di tortura. Nicola Gratteri, il Pm che "giocando coi lego" ha sequestrato e torturato gli avvocati Pittelli e Stilo. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 2 Settembre 2020. Siamo ormai arrivati alla tortura. Quella dei Paesi totalitari che umilia, poi annienta, poi uccide. Due avvocati, Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo, sono in carcere da nove mesi senza processo e senza la consistenza di accuse che non siano quelle evanescenti del reato che non c’è, quello cui si ricorre quando non ci sono prove, il concorso esterno in associazione mafiosa. I due detenuti sono sicuramente innocenti, e non solo perché lo dice la Costituzione, ma sono anche colpevoli. Colpevoli di essere calabresi, prima di tutto. E poi di indossare la toga sbagliata, quella di chi difende, non quella di chi accusa. La toga “giusta” la indossa il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, colui che vuole smontare la Calabria come un lego, per poi ricostruirla a modo suo. Colui che fa le retate che poi i suoi colleghi provano a smontare, causa inconsistenza, superficialità e improvvisazione nella ricerca delle prove. Colui che è riuscito persino a far trasferire e degradare dal Csm in modo fulmineo il suo superiore di grado, il procuratore generale Otello Lupacchini, che si era permesso di criticare le modalità con cui era stato tenuto all’oscuro delle retate. Via, a Torino a fare il vice di un altro. I due avvocati calabresi con la loro toga sbagliata sono invece stati spediti uno in Sardegna e l’altro in Lombardia, sbattuti come sacchi di patate lontano dalle famiglie e dai difensori. Così imparano una volta per tutte quel che vuol dire nascere e crescere in una regione come la Calabria, che non solo è la più povera d’Italia, non solo ha la mafia più potente di tutte, la ‘ndrangheta, ma ostenta anche una magistratura squassata da risse e faide interne, spesso protagonista di denunce e controdenunce. Apparentemente forte, ma debolissima. E la propria fragilità la fa pagare sempre a chi finisce nelle sue ragnatele. L’episodio Lupacchini è solo l’ultimo, e non è detto che segni il capitolo conclusivo. Certo è che Nicola Gratteri è un uomo potente. Vuol passare alla storia per questo maxiprocesso dal nome Rinascita Scott, con cui vuol far concorrenza alla storia di Giovanni Falcone. Il quale non era potente per niente, e fu invece combattuto persino dai suoi stessi colleghi, fino a dover cambiare strada. E quando fu indebolito, la mafia lo azzannò. Chissà se si farà mai, questo maxiprocesso calabrese. Per ora si attende l’udienza preliminare per 456 indagati, di cui moltissimi a piede libero dopo le decimazioni degli arresti da parte di gip, riesame e Cassazione, mentre 23 posizioni sono state già stralciate prima ancora dell’udienza. Ci sono ben 224 parti offese, comprese le massime istituzioni, tra cui la Regione Calabria, la cui giunta il 14 luglio scorso ha sorprendentemente deliberato di mettere a disposizione un’area di tremila metri quadri per l’aula, in vista del processo che ancora non c’è. Cioè dando per scontato che centinaia di indagati, ancora innocenti secondo la Costituzione, saranno rinviati a giudizio. Dando per scontato che se il dottor Gratteri fa una retata di mafiosi, gli arrestati siano tutti mafiosi, quindi vadano tutti processati. E condannati, va da sé. Ma il procuratore di Catanzaro ha anche un’altra ambizione, quella di cercare il famoso terzo livello su cui Giovanni Falcone ebbe tanti dubbi. Ha bisogno di passare alla storia come quello che ha sconfitto la ‘ndrangheta “dei colletti bianchi”. Ma non ci sono altro che picciotti, purtroppo, nell’inchiesta Rinascita-Scott. Ecco perché è importante tenere sequestrati in carcere i due avvocati. Ecco perché i corpi martoriati di Pittelli e Stilo devono essere torturati fino all’annientamento. Il primo è in isolamento nel tremendo carcere di Badu ‘e Carros, e ai suoi legali, ma anche al deputato Vittorio Sgarbi che è andato a visitarlo proprio per controllare le sue condizioni di salute, è parso irriconoscibile, “in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato”. Sarà giudicato con il rito abbreviato, su sua richiesta. E vedremo se ci sarà un giudice in grado di comportarsi come quello di Berlino. Quanto a Francesco Stilo, detenuto a Opera, ha un quadro clinico raccapricciante: in seguito a un incidente, ha un ematoma all’aorta toracica con rischio dissecazione, e difficilmente può essere operato perché pesa circa 150 chili. Inoltre è cardiopatico, iperteso, con continue crisi di panico e due tentativi di suicidio del passato. A Opera è capitato in cella con un detenuto positivo al Covid-19. Ne è stato quindi disposto il trasferimento a Bologna. Sentite che cosa scrivono gli uomini del Dap di lui alla direzione del nuovo carcere: «Si segnala che trattasi di soggetto appartenente all’associazione per delinquere di tipo mafioso denominata NDR». Si raccomanda quindi, «in considerazione dell’elevata pericolosità del soggetto», di stare all’erta per «impedire tentativi di evasione, anche mediante complicità esterne» nel corso del trasporto da Opera a Bologna. Chiaro, dottor Gratteri? Concorso esterno, eh? L’equazione, anche nella testa dei burocrati del Dap, è chiara: il difensore è colpevole degli stessi reati di cui è indagato il suo assistito. Non più solo un intralcio (ogni pm sogna di avere tra le mani un uomo solo al mondo e senza avvocato, per poterselo manovrare a piacere), è ormai l’avvocato, ma un colpevole. In questi casi, addirittura un mafioso. Ma gli uomini della criminalità organizzata non sono mai soli. Gli avvocati Pittelli e Stilo invece sì. Il presidente della Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, su questo giornale ha detto parole molto chiare, soprattutto sull’uso della custodia cautelare, le sue regole sempre disattese, il degrado e la superficialità con cui l’istituto viene applicato. La parola “tortura” la pronunciamo noi, senza timore di esagerare. Giancarlo Pittelli è anche stato deputato, i suoi ex colleghi non hanno niente da dire? In Parlamento esiste ancora qualcuno che abbia un minimo senso di giustizia, qualcuno che vada a visitare i detenuti (anche se è un’attività che non porta voti), come è prerogativa di deputati e senatori (e non del solo Sgarbi) per verificarne le condizioni di salute? Nelle due commissioni giustizia e all’antimafia esiste ancora qualcuno che ricorda quali siano le condizioni necessarie per restare così a lungo in custodia cautelare? Cari (ex) colleghi, non siate conigli, fate interrogazioni, fate casino. Un bel question time al ministro Bonafede. Non vi si chiede di giurare sull’innocenza di persone che non conoscete. Ma di non consentire che una volta di più nel nostro Paese si celebri l’ingiustizia sulla pelle di qualcuno nel silenzio generale. Dimostrate che questo Parlamento conta ancora qualcosa, che sa alzare la propria voce anche a rischio di andare contro un potere più forte di lui.

'Ndrangheta, Gratteri a Roma per il processo Rinascita Scott: «Per anni si è ignorato tutto». L'11 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Questa indagine è una pietra angolare nella conoscenza della ‘ndrangheta e di questa nuova frontiera» del crimine di matrice calabrese che si serve dei “colletti bianchi” per gestire il potere. Lo ha detto il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, questa mattina arrivando nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, dove si tiene la prima udienza preliminare dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, con 456 imputati, fra i principali esponenti dei clan di Vibo Valentia e di altre “locali” della Calabria. Ma il procuratore si è anche soffermato sul modo in cui è stata affrontata la lotta alla ‘ndrangheta: «La colpa è di tutti noi uomini delle istituzioni che non abbiamo preso con la dovuta serietà e rigore quello che è accaduto sotto i nostri occhi per decenni». Il calendario delle udienze prevede almeno 10 appuntamenti nell’aula bunker del penitenziario romano in attesa che venga ultimata una struttura simile a Lamezia Terme, nell’ex area industriale. Il procuratore capo di Catanzaro, parlando con la stampa, ha sottolineato come «in questo processo c’è un’altissima percentuale di colletti bianchi e di quella che si definisce “zona grigia”, fatta di molti professionisti e uomini dello Stato infedeli che hanno consentito a questa mafia di pastori, caproni e gente rozza, con la forza della violenza e dei soldi della droga, di entrare mani e piedi nella pubblica amministrazione e nella gestione della cosa pubblica». Per numeri e imputati, e per la sua valenza, l’indagine, Rinascita-Scott è stata associata al primo maxi-processo della storia delle inchieste di mafia, celebrato all’Ucciardone di Palermo: «Non mi accosto a quei grandi uomini che sono stati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ha affermato Gratteri – ma questo è uno step di un disegno nato il 16 maggio del 2016, quando mi sono insediato alla procura di Catanzaro. Da quel giorno, insieme ai miei collaboratori, abbiamo pensato di costruire questa tipologia di indagine, non con pochi indagati, ma che abbia l’intento di spiegare il disegno unitario di questa ‘ndrangheta asfissiante, che davvero toglie il respiro e il battito cardiaco alla gente». Gratteri ha anche fatto riferimento all’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Salerno nei confronti dell’ex presidente della Corte di assise di Catanzaro, Marco Petrini, magistrato sott’inchiesta per corruzione in atti giudiziari: «Ho visto quello che fa la procura di Salerno: è un segnale che si innesta col processo di oggi e con gli altri già celebrati», ha sottolineato Gratteri, visto che Rinascita-Scott è il processo di ‘ndrangheta con «la più alta percentuale di colletti bianchi e uomini dello Stato infedeli». Il procuratore di Catanzaro ha anche rigettato le accuse di “manettaro” che qualcuno gli ha fatto: «E’ perfettamente chiara questa campagna di delegittimazione nei confronti della procura di Catanzaro, perché hanno capito perfettamente che io sono solo la punta avanzata di una grande squadra che ha spalle larghe e nervi d’acciaio e che sicuramente non farà falli di reazione».

Flop al via per il maxi processo di Gratteri, il reuccio di Calabria che sogna di diventare più famoso di Falcone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Settembre 2020. Protestano i difensori e anche gli avvocati di parte civile, a partire dal Presidente dell’Ordine di Vibo Valentia, e sono centinaia. Chiedono la sospensione dell’udienza per motivi sanitari. Brandiscono, più che il codice, un’ordinanza della Regione Lazio in materia della prevenzione anti-Covid. Il procuratore Nicola Gratteri fa lo spiritoso. E quando l’avvocato Armando Veneto protesta perché non ha neppure la possibilità di bere un goccio d’acqua, proprio lui, che evidentemente è più rifornito, si alza e gliene porta un bicchiere. Benvenuti al maxiprocesso della ‘ndrangheta. La prima puntata della scenografia non pare proprio riuscita. Appuntamento delle grandi occasioni, sirene, lampeggianti, tanta gente e soprattutto tante telecamere. Ecco a noi il reuccio di Calabria, il procuratore Nicola Gratteri: «In questo processo c’è un’altissima percentuale di quella che convenzionalmente viene definita zona grigia, colletti bianchi. Ci sono molti professionisti, molti uomini dello Stato infedeli che hanno consentito anche a questa mafia di pastori, con la forza della violenza e con i soldi della droga, di essere oggi mani e piedi nella pubblica amministrazione e nella gestione della cosa pubblica». Dovrebbe essere il giorno del suo trionfo, anzi il primo di tanti giorni. Invece no. Perché l’aula bunker del carcere romano di Rebibbia scelta per la prima di dieci udienze davanti a un giudice che dovrà decidere se accogliere le richieste di rinvio a giudizio per 452 indagati (altri quattro, tra cui l’avvocato Pittelli, hanno scelto il rito immediato), non consente che siano rispettate le norme anti-Covid. Aria che non circola a causa della rottura dei condizionatori e impossibilità di mantenere il distanziamento tra le centinaia di avvocati presenti. Inoltre viene contestato, come era prevedibile, il fatto di celebrare la prima udienza preliminare, davanti al gup di Catanzaro Claudio Paris, nella città di Roma, lontano dal luogo del giudice naturale, cioè la Calabria, dove si attende la costruzione di un’aula bunker costruita apposta per Gratteri. Si può dire che oggi si celebra il fallimento dei maxiprocessi. Per il procuratore Gratteri contano molto i numeri. Forse ha letto Marx (o ne ha sentito parlare) e pensa che la quantità a un certo punto diventerà qualità. Cioè, che se lui riesce a farne arrestare tanti, o quanto meno a portarne tanti a giudizio, il suo processo sarà più importante. Per questo, dopo che il suo Rinascita-Scott con 334 ordini di cattura richiesti dopo il blitz del 19 dicembre 2019, era stato decimato dal gip, poi dal tribunale del riesame e infine dalla Cassazione, fino a vedersene sottratti 203, lui aveva provveduto con una seconda operazione. Il nuovo nome è ”Imponimento”, con nuovi 158 indagati, di cui 75 messi subito in manette. Ma i numeri vengono giocati anche sulla risonanza. Già il fatto che ieri mattina ci siano volute circa tre ore solo per dare lettura ai nomi degli indagati, che siano stati individuati dall’accusa 224 possibili soggetti offesi, cittadini che avrebbero subito estorsioni o minacce, e poi Comuni del Vibonese, la stessa Regione Calabria e addirittura il Ministero di giustizia, tutto pare convergere su un solo concetto, maxi. Cioè concretizzare il sogno di Nicola Gratteri: uguagliare, o forse superare, il maxiprocesso di Palermo, e poi diventare il Falcone di Calabria. Cosa non facile, visto che gli imputati di Falcone si chiamavano Riina e Provenzano, che erano, tra l’altro, quasi tutti ancora latitanti. Ed erano tempi delle guerre di mafia, con decine e decine di morti uccisi sul selciato. Il blitz di Rinascita-Scott invece è andato a colpire una serie di famiglie di narcotrafficanti del Vibonese. Persone note, ma non di altissimo calibro. Ecco perché il procuratore di Catanzaro insiste tanto sulla presenza dei “colletti bianchi” e di qualche politico nell’inchiesta. “La pietra angolare nella conoscenza della ‘ndrangheta e di questa nuova frontiera del crimine di matrice calabrese che si serve dei colletti bianchi per gestire il potere” ha esordito ieri entrando nell’aula. Ma con i politici finora gli è andata maluccio. La scorsa estate la Cassazione ha infatti scarcerato dopo otto mesi l’ex sindaco di Pizzo e presidente di Anci in Calabria, Gianluca Callipo. E dopo che l’inchiesta del procuratore aveva ricevuto un vero schiaffo, sempre dalla Cassazione, che aveva bollato le sue indagini nei confronti dell’ex presidente della Regione e importante esponente del Pd Mario Oliverio come sospette di “mancanza di gravità indiziaria” e con “grave pregiudizio accusatorio”. Modesto poi il tentativo, con l’inchiesta “Imponimento” , di coinvolgere un senatore, nominato ma non indagato, e un altro personaggio, fuori dal mondo politico da sette anni, per vecchie campagne elettorali. Non resta dunque che riuscire a mettere un po’ di piombo sulle ali di qualche avvocato, come Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo.

Il procuratore che si sente un oracolo. Gratteri come Savonarola: “I politici siano come i monaci buddhisti”. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Nicola Gratteri è stato ospite alla trasmissione Di Martedì. Più che un’intervista è stato un monologo di una persona che ha perso il senso della realtà e che non è certo aiutato da quei giornalisti che si accostano a Lui come fosse un oracolo. E come oracolo s’è comportato parlando soprattutto di se stesso. Ad ogni domanda, una risposta da scuola elementare:

D) … perché molti magistrati parlano male dei suoi metodi?

R) l’invidia è una gran brutta cosa!

D) … perché molti indagati vengono scarcerati dal Tribunale della Libertà o dalla Cassazione?

R)… spesso si scopre che quando una persona viene liberata, il magistrato che ha disposto la scarcerazione è stato avvicinato.

Poche parole per demolire l’intero ordine giudiziario fatto da invidiosi e corrotti. Salvo pochi buoni tra cui ovviamente Lui che rinuncia alle ferie, è incorruttibile e quelle volte che ha incontrato Palamara lo ha fatto per supremi fini di giustizia. Il procuratore di Catanzaro, a suo dire, si muove come un fulmine e ottiene risultati strabilianti che elenca puntualmente: la costruzione in poco tempo della più grande aula bunker del mondo; i nuovi locali per la procura di Catanzaro e poi… nientemeno che un garage blindato per soli cinque milioni di euro (in una regione dove ci sono ospedali che non fanno tamponi e neanche un ecografia perché mancano i fondi). E noi sciocchi pensavamo che i risultati di un procuratore dovessero concretizzarsi nel vincere la lotta alla ‘ndrangheta (che invece cresce in potenza e ricchezza), trovare gli autori di efferati crimini (che rimangono quasi sempre sconosciuti), e soprattutto di veder confermato l’impianto accusatorio della procura dalle sentenze dei giudici (cosa che nel caso di Gratteri non avviene quasi mai). La perla arriva alla fine: i politici, a detta di Gratteri, si dovrebbero comportare come monaci buddisti. Qui addirittura il procuratore di Catanzaro diventa un moderno Catone o meglio un nuovo Savonarola che dal pulpito non si limita a dire ai politici come dovrebbero amministrare, governare o legiferare (e già questo ci sembra sia una cosa molto grave, anche se i “politici” restano in perfetto silenzio) ma addirittura come dovrebbero vivere. Di questo passo tra poco si sentirà autorizzato a dire come e con chi accoppiarsi, come crescere i figli, come comportarsi a tavola, ogni quanto tempo prendere la Comunione. E se qualcuno ricordasse agli smemorati che appena lo scorso gennaio il dottor Gratteri ha partecipato a una cena insieme a politici di primissimo ordine – e che monaci non sono – tra cui Matteo Salvini e Gianni Letta, Maria Elena Boschi, e poi il presidente di Confindustria, quindi Briatore, e ancora esponenti della finanza, giornalisti… insomma con la crème de la crème dell’Italia che conta? E se poi si sapesse che in detta cena, i commensali hanno pagato per un piatto di risotto e pesce 600 euro a testa? Pazienza! Anche i monaci buddisti hanno le loro debolezze.

Caso Stilo e Pittelli. I giudici che sbagliano pagheranno mai? Astolfo Di Amato su Il Riformista il 5 Settembre 2020. Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo, tutti e due avvocati, sono in carcere da oltre otto mesi. Ristretti in luoghi molto lontani da dove risiedono le loro famiglie, da dove si svolge il procedimento che li riguarda, che è anche il luogo ove di regola si trovano i difensori. Perciò non solo in carcere, ma anche posti in una drammatica difficoltà di ricevere anche un minimo di sostegno affettivo e di poter avere un ruolo nel preparare la propria difesa. Come si giustifica tutto questo? Semplicemente con il fatto che pende la fumosa accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Esistono le esigenze cautelari e, cioè, le condizioni di concreto pericolo di alterazione delle prove o di reiterazione del fatto, che secondo la legge giustificano la custodia cautelare in carcere? A leggere i provvedimenti giudiziari sinora emessi consistono nel fatto che chi è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa è, per ciò stesso, pericoloso. Di fatto, non esistono. Diventa, allora, inevitabile chiedersi se la carcerazione preventiva non sia funzionale, in realtà, ad impedire un pieno esercizio del diritto di difesa. Di fronte ad una così discutibile applicazione della legge occorre domandarsi se anche questa volta non ci si trovi di fronte al frutto avvelenato della mancata soluzione di due nodi fondamentali della giustizia: la responsabilità dei giudici e la separazione delle carriere. Per quello che concerne il primo aspetto, vale la pena ricordare che chi ha incontrato Giancarlo Pittelli in carcere ha incontrato un uomo distrutto, nello spirito e nel fisico. E la distruzione di un uomo è anche la distruzione della sua famiglia e del suo mondo professionale. E se è innocente, come oggi bisogna presumere a tenore di dettato costituzionale, chi risponderà mai del male fatto? Il potere di distruggere una persona e il piccolo mondo che intorno ad essa ruota può essere disgiunto da qualsiasi forma di responsabilità? Non è così per i medici, non è così per gli avvocati, non è così per qualsiasi persona. Può essere così solo per i magistrati? Si dirà che, in questo caso, è intervenuto il vaglio di più magistrati, sino a quello della Suprema Corte. Ma qui interviene il carico di problemi che porta con sé il secondo dei nodi irrisolti, quello della separazione delle carriere. Vi è una recente sentenza della Cassazione che meglio di ogni altro argomento esprime l’atmosfera determinata dalla mancata separazione delle carriere: tra il consulente della difesa e quello dell’accusa, quest’ultimo è per principio più credibile (cass. 16458/2020). Una palese assurdità, che, siccome detta dal supremo organo di giustizia, certifica quanto sia urgente intervenire su questo punto. Da ultimo, non si deve tacere la brutta sensazione che Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo subiscano questo trattamento perché avvocati. Se fosse così, il significato sarebbe “attenti a chi difendete”! E quelli che sono con la bocca sempre piena della parola antifascismo perché stanno zitti?

Operazione Rinascita Scott, Pittelli denuncia l'ex giudice Petrini e l'avvocato Saraco. Il Quotidiano del Sud il 18 settembre 2020. Scoppia la guerra tra imputati eccellenti di due tra i più attesi processi degli ultimi mesi: Rinascita Scott e Genesi.

L’avvocato Giancarlo Pittelli, imputato con l’accusa di concorso esterno nel processo “Rinascita Scott” e attualmente detenuto nel carcere di Nuoro, infatti, ha dato mandato ai propri legali, Guido Contestabile ed Enzo Galeota, di denunciare per diffamazione il giudice sospeso della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro Marco Petrini e l’avvocato Francesco Saraco, entrambi imputati davanti al Tribunale di Salerno con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, per le dichiarazioni rese nei confronti dello stesso avvocato Pittelli e inserite agli atti del processo “Rinascita Scott”. Nell’ambito del processo Rinascita Scott Petrini ha dichiarato di essere stato avvicinato da Pittelli, nel 2016, e di avere ricevuto da lui la proposta corruttiva di 2.500 euro per ribaltare la sentenza nei confronti di un proprio assistito, Nicholas Sia, reo confesso di avere accoltellato un coetaneo. L’ex giudice ha affermato (per poi ritrattare le dichiarazioni due mesi dopo) «che all’imputato la Corte ridusse su mia proposta la pena da 18 a 12 anni. Ribadisco che io ero il relatore. La somma promessami da Pitelli non mi fu poi mai consegnata». Secondo i legali di Pittelli, invece, le dichiarazioni di Petrini sono una «menzogna palese» perché Sia è stato condannato in primo grado a 17 anni e sei mesi di reclusione, con rito abbreviato. La corte d’Appello (presieduta dalla giudice Reillo), esclusa l’aggravante dei motivi futili e abbietti, ridusse la pena a 16 anni e la Corte di Cassazione annullò successivamente con rinvio la sentenza per difetto di motivazione riguardo alla mancata concessione dell’attenuante dello stato d’ira ed erroneo calcolo della pena da infliggere. Nell’appello bis, la Corte, presieduta da Petrini) la condanna fu rifomulata a 12 anni. Quindi nell’appello bis la sentenza è frutto esclusivo – sostengono i legali di Pittelli – del pronunciamento della Corte di Cassazione e non di «un inesistente accordo collusivo». Un altro motivo di querela nei confronti di Petrini è l’affermazione secondo la qual il giudice sarebbe affiliato a una loggia massonica «coperta da Pittelli». Ma Pittelli nella propria querela afferma: «non ho mai dato vita, né partecipato a logge «coperte» o «spurie». Diffamatorie sono ritenute anche le dichiarazioni dell’avvocato Francesco Saraco il quale ha detto ai magistrati di Salerno di avere appreso «voci» secondo le quali «Pittelli era uno degli avvocati attraverso i quali era possibile accedere al sistema corruttivo dei magistrati». Saraco ha inoltre affermato che Pittelli, in passato parlamentare di Forza Italia, gli è stato descritto «come un soggetto che ha iniziato l’attività politica grazie ai voti della ‘ndrangheta». Secondo la difesa di Pittelli, Saraco «omette ogni indicazione su fonti e fatti, con ciò sperando di infangare, calunniare, e nello stesso tempo farla franca».

Pittelli torna a casa, dopo 10 mesi di carcere duro cadono tutte le accuse di Gratteri. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Ottobre 2020. L’avvocato Giancarlo Pittelli è stato scarcerato. Torna a casa, ai domiciliari, col braccialetto. Dopo dieci mesi nei quali era stato messo alla tortura, nella prigione di Nuoro in regime di carcere duro. Le accuse, una dopo l’altra, si erano sgretolate. Era rimasta solo quella, vaga come sempre, di concorso esterno in associazione mafiosa. Però erano spariti i reati che questa associazione avrebbe commesso. Si può – a rigor di logica – partecipare, seppure esternamente, ad una associazione a delinquere che non commette né progetta delitti di alcun tipo? E la logica può o deve avere a che fare con il diritto e la legge? Sono domande difficili. Finora nessuno ha risposto. Siamo a Catanzaro, procura di Catanzaro, regno di Gratteri, potere di Gratteri, logica e diritto di Gratteri. Non cercate di capire, è impossibile… Ieri comunque il tribunale del riesame ha preso in considerazione l’ennesimo ricorso degli avvocati di Pittelli e ha ordinato che fosse liberato dai ceppi. Comunque è una notizia molto positiva, soprattutto perché Pittelli stava parecchio male, era allo stremo. Il nostro giornale nei mesi scorsi ne ha parlato spesso, senza riuscire a farsi ascoltare da nessuno, però. Giancarlo Pittelli è un ex parlamentare di centrodestra e un avvocato molto conosciuto in Calabria. È stato arrestato pochi giorni prima dello scorso Natale nell’ambito della famosa inchiesta Rinascita Scott. Insieme ad altre centinaia di persone. Fu una delle retate più massicce della storia della Repubblica. E il Procuratore di Catanzaro se ne vantò a lungo, accennò a un paragone tra se stesso a Falcone. È ragionevole questo paragone? Beh, lasciamo stare i giudizi soggettivi, proviamo a guardare qualche dato di fatto: Falcone in una decina d’anni di lavoro diede a Cosa Nostra dei colpi micidiali. Cosa nostra all’inizio degli anni 80 era l’organizzazione criminale più potente del mondo, e dominava la politica italiana. Quando Falcone morì, nel 1992, Cosa Nostra era alle corde, sfibrata dal lavoro giudiziario di Falcone, e negli anni successivi fu definitivamente annientata. Gratteri invece ha iniziato a lavorare in Calabria quando la ‘ndrangheta era un gruppo di piccole bande che vivevano nelle campagne del reggino. Oggi la ‘ndrangheta, dopo una quindicina d’anni di lavoro faticoso delle Procure con le quali era impegnato Gratteri, è diventata l’organizzazione criminale più potente del mondo. Però l’avvocato Pittelli è stato sbattuto in galera. La ‘ndrangheta spadroneggia, sì, ma almeno adesso c’è un avvocato fuorigioco. Pittelli è stato accusato di tre reati. Il primo è rivelazioni di segreti. Avrebbe informato un suo assistito di una interdittiva in arrivo, notizia ottenuta da un colonnello dei carabinieri. La Cassazione però ha accertato – abbastanza agevolmente – che la notizia di quella interdittiva era pubblica. Niente segreto: il reato è caduto. Secondo reato: abuso d’ufficio. Pittelli avrebbe convinto sempre il solito colonnello a “lasciare decantare” un provvedimento a carico di nuovo del suo assistito. C’è una intercettazione che è la base dell’accusa. Il provvedimento fu insabbiato? No, eseguito a tempo di record sei giorni dopo la telefonata. Ma la Procura non lo sapeva. La Cassazione ha fatto decadere anche questo reato. Resta il reato per tutte le stagioni: concorso esterno. Perché? Perché in una intercettazione risulta che Pittelli conosceva una frase pronunciata da un mafioso nel suo interrogatorio. Chi gliela aveva detta? La mafia? No: era uscita sui giornali…Ci sarebbe il reato di concorso esterno in lettura dei giornali…  Comunque dieci mesi in cella di massima sicurezza li ha fatti. Credo che abbia pensato al suicidio. È stato abbandonato quasi da tutti, tranne che da Sgarbi. Ora è libero. Molto probabilmente verrà assolto anche in primo grado. Auguri. E auguri a tutti noi perché non ci capiti qualcosa di simile. I Pm hanno il potere per far passare a chiunque i guai che ha passato Pittelli. C’è da aver paura? Direi di sì. Ne sa qualcosa l’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, che espresse qualche dubbio sulla retata di Gratteri e nel giro di poche settimane fu degradato sul campo e spedito in punizione a 1000 chilometri da casa sua a Torino.

Inchiesta “Rinascita-Scott”, la Cassazione smonta le accuse a Gianluca Callipo ex sindaco di Pizzo: “Nessun indizio su patto con la ‘ndrangheta”. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da La Repubblica.it. "In relazione al materiale utilizzato e alla cornice della contestazione, risulta esclusa la gravità indiziaria non solo con riguardo ad ipotesi strumentali di abuso, ma anche con riferimento alla concreta ricostruzione di un'ipotesi di concorso esterno". Lo scrivono i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, nella sentenza con la quale lo scorso 16 luglio hanno rimesso in libertà Gianluca Callipo, l'ex sindaco di Pizzo (Vibo Valentia) arrestato il 19 dicembre scorso nell'ambito dell'inchiesta dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri "Rinascita-Scott", con le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e abuso d'ufficio aggravato dalle modalità mafiose. Callipo è accusato in particolare di aver favorito le cosche di Pizzo e San Gregorio d'Ippona, nel Vibonese, ricevendone in cambio sostegno elettorale. Per i giudici di piazza Cavour però, il gip di Catanzaro "non ha, se non apoditticamente, individuato gli effettivi contenuti del patto e soprattutto non ha indicato in che modo gli stessi potessero risultare di per sé idonei alla conservazione e al rafforzamento del sodalizio, in rapporto a dinamiche operative specificatamente riconducibili alla 'ndrina in quanto tale, piuttosto che agli interessi di singoli soggetti, seppur ad essa contigui.

Callipo: "Mie dimissioni irrevocabili". "Intendo rivolgere un sentito ringraziamento alle tantissime persone che, anche in quest'ultimo periodo, mi hanno manifestato stima e vicinanza. Ringrazio sinceramente i consiglieri regionali che hanno votato per respingere le mie dimissioni, apprezzo il loro gesto, ma confermo la decisione di lasciare il Consiglio regionale della Calabria". A dirlo in una nota, confermando da decisione di dimettersi dalla carica di Consigliere regionale calabrese, è Pippo Callipo, capogruppo di "Io resto in Calabria" e sfidante di Jole Santelli alle elezioni regionali del gennaio scorso. "Come avevo preannunciato - aggiunge Callipo - quella di dimettermi è una decisione irrevocabile che ho assunto dopo una profonda riflessione, alla luce della quale ho provveduto a reiterare la mia lettera di dimissioni al presidente del Consiglio regionale. Capisco le ragioni di chi non condivide politicamente questa scelta e le rispetto, apprezzo anche le parole dei tanti che mi hanno invitato a ripensarci ma, alla luce delle motivazioni che ho già espresso in maniera approfondita, credo che la mia decisione vada ugualmente rispettata". Callipo poi ringrazia "per la vicinanza e l'impegno i consiglieri regionali di "Io resto in Calabria" Graziano Di Natale e Marcello Anastasi, nella certezza che proseguiranno nel migliore dei modi il loro percorso politico-istituzionale". Capisco, spiega ancora, "la delusione delle migliaia di calabresi che hanno creduto in me, a partire dai candidati e dai tanti sostenitori di "Io resto in Calabria", me ne dispiaccio enormemente ma non posso negare a me stesso e ai calabresi che le convinzioni maturate durante il breve periodo trascorso in Consiglio regionale restano immutate". Infine, la conclusione: "Spero che le mie dimissioni servano ad aprire una riflessione seria che vada oltre le lotte di potere e le beghe di partito perché i calabresi hanno necessità di riconquistare la fiducia nello Stato e nelle Istituzioni che, purtroppo, hanno comprensibilmente perduto".

Inchiesta “Rinascita-Scott”, la Cassazione smonta le accuse a Gianluca Callipo ex sindaco di Pizzo: “Nessun indizio su patto con la ‘ndrangheta”. La difesa su Facebook: "Non basta essere onesti. Contro  di me accuse ingiuste". La Repubblica il 29 luglio 2020. "In relazione al materiale utilizzato e alla cornice della contestazione, risulta esclusa la gravità indiziaria non solo con riguardo ad ipotesi strumentali di abuso, ma anche con riferimento alla concreta ricostruzione di un'ipotesi di concorso esterno". Lo scrivono i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, nella sentenza con la quale lo scorso 16 luglio hanno rimesso in libertà Gianluca Callipo, l'ex sindaco di Pizzo (Vibo Valentia) arrestato il 19 dicembre scorso nell'ambito dell'inchiesta dalla Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri "Rinascita-Scott", con le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e abuso d'ufficio aggravato dalle modalità mafiose. Callipo è accusato in particolare di aver favorito le cosche di Pizzo e San Gregorio d'Ippona, nel Vibonese, ricevendone in cambio sostegno elettorale. Per i giudici di piazza Cavour però, il gip di Catanzaro "non ha, se non apoditticamente, individuato gli effettivi contenuti del patto e soprattutto non ha indicato in che modo gli stessi potessero risultare di per sé idonei alla conservazione e al rafforzamento del sodalizio, in rapporto a dinamiche operative specificatamente riconducibili alla 'ndrina in quanto tale, piuttosto che agli interessi di singoli soggetti, seppur ad essa contigui. "Sono tornato. Ho atteso qualche giorno prima di scrivere questo post, sebbene sin dall'inizio avrei voluto ringraziare pubblicamente tutti coloro, davvero tanti, che non hanno mai perso la fiducia in me e che mi sono stati vicini anche solo con il pensiero in uno dei momenti più brutti della mia vita. Ma non il più buio. La vita è fatta di drammi ben più gravi di un'accusa ingiusta e chi conosce la mia storia sa che ho dovuto affrontarne di altri immensamente maggiori". Ad affermarlo, con un lungo post su Facebook, è l'ex sindaco di Pizzo (Vv) Gianluca Callipo, arrestato il 19 dicembre scorso nell'ambito dell'inchiesta Rinascita-Scott e tornato in libertà il 17 luglio sulla base del pronunciamento della Cassazione che ha annullato senza rinvio l'ordinanza di custodia cautelare in carcere. "In questi lunghissimi 7 mesi - scrive Callipo - ho imparato tante cose e ho rivisto radicalmente le mie priorità. Ho imparato che non basta essere onesti e rispettosi della legge per essere sempre considerati tali. Ho imparato che ogni azione, anche la più rigorosa e ligia al dovere, può essere travisata e diventare una "colpa" da dover spiegare. Ho imparato che c'è un'umanità struggente nei luoghi di sofferenza, e solidarietà, comprensione, professionalità. Ho imparato che la Giustizia è piena di contraddizioni sulle quali non ci fermiamo mai a riflettere, interessati più che altro ad esaltare ciò che coincide con le nostre convinzioni politiche e con i nostri pregiudizi". Poi Callipo prosegue: "Eppure, se oggi sono qui, di nuovo con la mia famiglia, con mia moglie e i miei figli, è perché quella stessa Giustizia che mi aveva separato da loro ha poi riconosciuto la totale mancanza non solo di prove ma anche di concreti indizi a mio carico. A dirlo è stata la Corte di Cassazione, il massimo organo giudiziario del nostro sistema. Ma ci sono voluti 7 mesi di detenzione prima che potessi recuperare la mia vita e sollevare il cuore di chi mi ama. Nel frattempo, la mia amatissima città, Pizzo, ha dovuto subire l'onta di un sindaco in carcere e ha perso un'amministrazione democraticamente eletta in seguito al precipitoso commissariamento del Comune, senza che neppure fosse disposto un accesso agli atti". Per l'ex sindaco di Pizzo, "anche questo è un vulnus insopportabile, forse anche più grave della mia vicenda personale, perché riguarda un'intera comunità. Come se questa esperienza fosse stata una sorta di bilancia esistenziale, mi ha però consentito di "pesare" la mia vita e le mie relazioni, scoprendo con commozione che sono circondato da tantissimi amici veri, che non hanno mai esitato nel loro giudizio nei miei confronti. Allo stesso modo, centinaia, migliaia di persone, magari semplici conoscenti o cittadini che avevo solamente incrociato durante la mia esperienza amministrativa, mi hanno espresso una solidarietà e un affetto che non credevo possibile nei confronti di un "politico" finito suo malgrado nel tritacarne mediatico".  E "a loro, a voi - evidenzia ancora Callipo -, voglio rivolgere il mio ringraziamento più sentito e sincero, perché il metro di misura con il quale mi avete giudicato non è nella parentela o nell'amicizia di una vita, ma solo nel riconoscimento del lavoro che ho svolto come sindaco, senza mai assecondare, neppure per un momento, l'illegalità". Poi la conclusione: "Nonostante la felicità di questi giorni per l'esito del ricorso in Cassazione, potrebbe non essere ancora finita. Se dovrò affrontare il processo, lo farò a testa alta, sicuro della mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati e forte del pronunciamento della Suprema Corte. Ma lo farò anche grazie al vostro sostegno e alla vostra fiducia, nella volontà di dimostrarvi che non avevate torto nel credere in me".

«Sette mesi in cella, zero indizi. Torno libero ma non è finita». Il Dubbio il 26 luglio 2020. Il diario di Callipo, l’ex sindaco accusato da Gratteri. Nel lungo post pubblicato poco fa su facebook, l’ex primo cittadino di Pizzo Calabro accusato di concorso esterno ringrazia le «migliaia di persone che mi hanno espresso solidarietà». E dice: «Contro di me né prove né indizi, ma ci sono voluti 7 mesi di detenzione prima che potessi recuperare la mia vita». Riportiamo di seguito il post pubblicato poco fa su facebook da Gianluca Callipo, l’ex sindaco di Pizzo Calabro scarcerato lo scorzo 17 luglio da un’ordinanza della Cassazione. Callipo era stato arrestato lo scorso 19 dicembre, con accuse di concorso esterno e abuso d’ufficio, nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, condotta dalla Procura di Catanzaro, l’ufficio guidato da Nicola Gratteri. La Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati Armando e Clara Veneto e Domenico Tringale.

"Sono tornato. Ho atteso qualche giorno prima di scrivere questo post, sebbene sin dall’inizio avrei voluto ringraziare pubblicamente tutti coloro, davvero tanti, che non hanno mai perso la fiducia in me e che mi sono stati vicini anche solo con il pensiero in uno dei momenti più brutti della mia vita. Ma non il più buio. La vita è fatta di drammi ben più gravi di un’accusa ingiusta e chi conosce la mia storia sa che ho dovuto affrontarne di altri immensamente maggiori. In questi lunghissimi 7 mesi ho imparato tante cose e ho rivisto radicalmente le mie priorità. Ho imparato che non basta essere onesti e rispettosi della legge per essere sempre considerati tali. Ho imparato che ogni azione, anche la più rigorosa e ligia al dovere, può essere travisata e diventare una “colpa” da dover spiegare. Ho imparato che c’è un’umanità struggente nei luoghi di sofferenza, e solidarietà, comprensione, professionalità. Ho imparato che la Giustizia è piena di contraddizioni sulle quali non ci fermiamo mai a riflettere, interessati più che altro ad esaltare ciò che coincide con le nostre convinzioni politiche e con i nostri pregiudizi. Eppure, se oggi sono qui, di nuovo con la mia famiglia, con mia moglie e i miei figli, è perché quella stessa Giustizia che mi aveva separato da loro ha poi riconosciuto la totale mancanza non solo di prove ma anche di concreti indizi a mio carico. A dirlo è stata la Corte di Cassazione, il massimo organo giudiziario del nostro sistema. Ma ci sono voluti 7 mesi di detenzione prima che potessi recuperare la mia vita e sollevare il cuore di chi mi ama. Nel frattempo, la mia amatissima città, Pizzo, ha dovuto subire l’onta di un sindaco in carcere e ha perso un’amministrazione democraticamente eletta in seguito al precipitoso commissariamento del Comune, senza che neppure fosse disposto un accesso agli atti. Anche questo è un vulnus insopportabile, forse anche più grave della mia vicenda personale, perché riguarda un’intera comunità. Come se questa esperienza fosse stata una sorta di bilancia esistenziale, mi ha però consentito di “pesare” la mia vita e le mie relazioni, scoprendo con commozione che sono circondato da tantissimi amici veri, che non hanno mai esitato nel loro giudizio nei miei confronti. Allo stesso modo, centinaia, migliaia di persone, magari semplici conoscenti o cittadini che avevo solamente incrociato durante la mia esperienza amministrativa, mi hanno espresso una solidarietà e un affetto che non credevo possibile nei confronti di un “politico” finito suo malgrado nel tritacarne mediatico. A Loro, a Voi, voglio rivolgere il mio ringraziamento più sentito e sincero, perché il metro di misura con il quale mi avete giudicato non è nella parentela o nell’amicizia di una vita, ma solo nel riconoscimento del lavoro che ho svolto come sindaco, senza mai assecondare, neppure per un momento, l’illegalità. Nonostante la felicità di questi giorni per l’esito del ricorso in Cassazione, potrebbe non essere ancora finita. Se dovrò affrontare il processo, lo farò a testa alta, sicuro della mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati e forte del pronunciamento della Suprema corte. Ma lo farò anche grazie al vostro sostegno e alla vostra fiducia, nella volontà di dimostrarvi che non avevate torto nel credere in me. Gianluca Callipo"

Inchiesta "Wind Farm", ennesimo flop di Gratteri: 24 innocenti. Redazione de Il Riformista il 24 Gennaio 2020. Si è chiuso dopo tre anni con 13 prescrizioni e 11 assoluzioni il processo nato dall’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro sul parco eolico “Wind Farm” di Isola Capo Rizzuto, considerato tra i più grandi d’Europa con i suoi 48 aerogeneratori. Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri aveva spiegato nella conferenza stampa del marzo 2017, convocata per illustrare l’operazione, che dietro parco eolico più grande d’Europa “ci sono i soldi e i beni accumulati in anni e anni di comportamenti mafiosi” dalla cosca Arena.

LE ACCUSE E LA SENTENZA – Agli imputati veniva contestato l’abuso di ufficio e falsità ideologica perché, nella loro qualità di pubblici ufficiali quali componenti del Nucleo di Valutazione d’impatto ambientale (Via) della Regione, avevano emesso parere favorevole riguardo la compatibilità ambientale del progetto in assenza di alcuna istruttoria a riguardo. Tra gli assolti  perchè il fatto non costituisce reato l’ex consigliere regionale Giuseppe Graziano (candidato alle prossime Regionali con l’Udc), oltre a Salvatore Curcio, Antonino Genovese, Vincenzo Iacovino, Giovanni Misasi, Vittoria Imeneo, Egidio Michele Pastore, Luciano Pelle, Annamaria Ranieri, Domenico Vasta, Massimo Zicarelli, tutti i componenti del Nucleo Via. La prescrizione è invece intervenuta per l’insussistenza dell’aggravante mafiosa per Pasquale Arena, Nicola Arena (73enne), Nicola Arena (56enne), Carmine Megna, Roberto Gobbi, Giovanni Maiolo, Fabiola Valeria Ventura, Massimiliano Gobbi, Martin Zwichy, Salvatore Nicoscia, Giuseppe Ferraro, Carmelo Misiti e Stefano Colosimo. Roberto Gobbi, Massimiliano Gobbi e Martin Zwichy, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa per aver consentito alla cosca Arena di partecipare alla realizzazione del parco eolico, sono stati assolti per insussistenza del fatto. LE RICHIESTE – Il pm della Dda di Catanzaro Domenico Guarascio aveva chiesto al gup di assolvere i componenti del nucleo Via, così come sentenziato dal giudice, mentre per Pasquale Arena aveva invocato, 4 anni e sei mesi; Nicola Arena (73 anni ) 4 anni; Nicola Arena (56 anni), 4 anni di reclusione; Carmine Megna, 4 anni; Roberto Gobbi 4 anni e 6 mesi di reclusione; Giovanni Maiolo, 2 anni e 8 mesi; Fabiola Valeria Ventura, 2 anni e 8 mesi di reclusione; Massimiliano Gobbi, 3 anni; Martin Zwichy, 2 anni; Salvatore Nicoscia, 1 anno e 8 mesi di reclusione; Giuseppe Ferraro 2 anni; Carmelo Misiti, 2 anni; Stefano Colosimo 2 anni di reclusione.

Gratteri perde un altro processo: 13 assoluzioni fanno crollare l’inchiesta Borderland. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Novembre 2020. Ha perso ancora il processo, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Di nuovo un tribunale boccia clamorosamente un’inchiesta “antimafia” e smonta la tesi della Dda. Dopo “Nemea” (quindici imputati, otto assolti) è la volta di “Borderland”, con venti rinviati a giudizio di cui ben tredici giudicati innocenti. Tra questi ultimi il caso più clamoroso, l’ex vicesindaco di Cropani, Francesco Greco, messo ai domiciliari nel 2016 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e per il quale la procura aveva chiesto la condanna a dodici anni di carcere, assolto ieri “perché il fatto non sussiste”, la formula più ampia. Il fatto, quello che non esiste, sarebbe stato un suo comportamento di disponibilità nei confronti delle cosche. E un qualche giorno, prima o poi, questi magistrati dell’accusa e questi giudici delle indagini preliminari che rinviano a giudizio dovranno spiegare in che cosa consisterebbero questi atteggiamenti di “disponibilità” dei rappresentanti delle istituzioni, in assenza di fatti-reato. Forse quando incontrano un boss per strada, in cittadine di poche migliaia di abitanti come Cropani, gli sorridono, fanno l’occhiolino, ammiccano? O magari addirittura lo salutano, in un luogo dove tutti si conoscono? Fatto sta che poi, quando si va a processo, davanti a un tribunale, tutte queste inchieste che partono con conferenze stampa roboanti e conquistano titoloni di giornale, ne escono con le ossa rotte. Per almeno due motivi. Perché si basano, oltre che su intercettazioni telefoniche e ambientali, sulle deposizioni dei “pentiti”, i quali ( l’esperienza delle inchieste sulla mafia siciliana ce lo insegnano) spesso raccolgono solo vociferazioni o addirittura colgono l’occasione per piccole vendette personali. È così che si costruisce una vera catena di S. Antonio, la pesca a strascico della casualità. Il secondo motivo è la vera ossessione che i magistrati (e il procuratore Gratteri in particolare) hanno nel cercare quel famoso “terzo livello” che Giovanni Falcone ha sempre contestato. Quasi paresse loro che un’inchiesta per fatti di mafia, o anche di criminalità comune non abbia credibilità se non si mettono le manette ad almeno un politico. Un terreno scivoloso su cui spesso si rischia di cadere. Quando, nel novembre del 2016, in una conferenza stampa in cui il procuratore di Catanzaro era affiancato dai suoi due vice ma anche dal questore e dal prefetto, il dottor Gratteri aveva detto con solennità «abbiamo ridato libertà alla gente», non ha tenuto in conto della fragilità delle prove. È vero che un primo gruppetto di imputati è stato poi condannato dal gup nel processo immediato, ma è ancor più significativo il fatto che se l’accusa arriva davanti a un tribunale chiedendo 200 anni di condanne complessive e non ne porta a casa neppure 80, questo si chiama fallimento. Della Giustizia? No, della scenografia mediatico-giudiziaria. Perché nel processo “Borderland” non solo il politico chiamato in causa è stato assolto perché non esisteva alcun indizio di una sua “simpatia” nei confronti della cosca che avrebbe esercitato il controllo su una serie di villaggi turistici nelle zone a cavallo tra le province di Catanzaro e Crotone, ma sono stati considerati innocenti anche imprenditori per cui il pm aveva chiesto 20 anni di galera. E che nel frattempo il carcere lo avevano già assaggiato in custodia cautelare. Val sempre la pena di ricordare quel che era stato detto nelle conferenze stampa e che spesso vengono dimenticate dopo qualche anno (sempre troppi), quando arrivano le sentenze. E qui siamo soltanto al primo grado di giudizio, quello in cui in genere si sente ancora forte l’eco mediatica dei blitz e delle dichiarazioni fatte a voce alta. Sentiamo il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto nel novembre del 2016: «La cosca Trapasso ha avuto il controllo del battito cardiaco del territorio, con il controllo totale sui villaggi turistici, ma anche attraverso il condizionamento mafioso alle elezioni amministrative del 2014». Questo “ma anche” era proprio indispensabile? Non era sufficiente aver portato a giudizio persone sospettate di gravi reati quali estorsione, illecita concorrenza con uso di violenza o minaccia, esercizio abusivo del credito, intestazione fittizia di beni, il tutto aggravato dal metodo mafioso? Evidentemente no, perché gettare l’ombra del sospetto anche su un politico fa anche il titolone del quotidiano locale e, se c’è il nome di Gratteri, anche su quelli nazionali. I quali si sono ben guardati, in questi giorni, dal dare la notizia delle tredici assoluzioni di oggi al processo “Borderland” così come una settimana fa di quelle del processo “Nemea”. Ma siamo agli antipasti. In attesa del processone, il maxi che si dovrebbe celebrare, ammesso che ci siano tanti rinvii a giudizio, sul terreno di tremila metri quadri che la Regione Calabria ha messo a disposizione per “Rinascita Scott”, con 456 indagati che sono oggi davanti al giudice dell’udienza preliminare. Nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, stanno sfilando da due mesi accusati e difensori. Il gup aveva programmato un calendario fino al 31 ottobre, data ormai ampiamente superata e che fa sperare in una seria attenzione da parte del giudice nell’esaminare ogni singola posizione.

Il fallimento della pesca a strascico. Ennesimo fallimento di Gratteri: si sgonfia l’inchiesta Nemea (costola di Rinascita Scott). Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Ottobre 2020. Primo stop a Nicola Gratteri dal tribunale di Vibo Valentia. È solo un ramo cadetto del fratello maggiore “Rinascita Scott”, ma se l’accusa porta a giudizio quindici imputati e di questi otto vengono assolti, è una sconfitta per il procuratore che sogna di diventare il nuovo Giovanni Falcone. Parliamo del processo “Nemea”, quello sulla mafia del Vibonese, che ha inglobato in sé anche il primo troncone del processo principale mandato in aula con il rito immediato. Quello la cui udienza preliminare si sta trascinando da due mesi nell’aula bunker di Rebibbia, e la fine delle udienze, inizialmente programmata per il 31 ottobre, è già stata prorogata all’infinito, a data da destinarsi. E intanto si prolungano le custodie cautelari degli arrestati nel blitz del 19 dicembre di un anno fa, con la sola eccezione del caso dell’avvocato Giancarlo Pittelli, mandato agli arresti domiciliari nei giorni scorsi, ma con braccialetto elettronico. Quasi come se fosse persona sospettata di voler scappare in qualche paese lontano. L’inchiesta “Nemea” era iniziata con un blitz del marzo 2019, che aveva preceduto di pochi mesi l’operazione “Rinascita Scott”, con i suoi 334 arresti spiccati la notte del 19 dicembre, di cui in seguito 203 erano stati annullati e riformati sia dal giudice delle indagini preliminari che dal tribunale del riesame e dalla cassazione, alcuni con rinvio ad altro giudice e altri senza rinvio. Le due inchieste si sono poi incrociate per la concomitante presenza di alcuni indagati. Così ai carabinieri del nucleo investigativo di Vibo Valentia si erano affiancati gli uomini dell’antimafia di Catanzaro coordinati dalla Dda. Il tiro era partito alto, in ambedue le inchieste, con la contestazione dell’associazione mafiosa. E con la consueta politica della pesca a strascico, che raramente porta poi, nelle sentenze, a risultati soddisfacenti per l’accusa. È accaduto a mezzanotte in punto di lunedì, quando il tribunale di Vibo presieduto dalla dottoressa Tiziana Macrì ha letto la sentenza del processo “Nemea” dopo una lunghissima camera di consiglio. Prima di tutto otto imputati su quindici possono andare a casa assolti. E i sette condannati, responsabili di reati gravi come il traffico di stupefacenti, ma anche le minacce e l’estorsione, hanno comunque avuto le pene dimezzate. E stiamo parlando della sentenza di primo grado, in genere la più severa, che spesso risente del clamore mediatico che sempre accompagna le inchieste di mafia nella fase delle indagini preliminari. C’è il rischio per l’accusa, che appello e cassazione possano riservare sorprese ancora maggiori. Una possibilità che aleggia anche sul processo Rinascita Scott. Il cui primo fallimento è quello di esser partito come «la pietra angolare nella conoscenza della ‘ndrangheta e di questa nuova frontiera del crimine di matrice calabrese che si serve dei colletti bianchi per gestire il potere» e di non aver poi saputo rastrellare nessun vero uomo di potere nella pesca a strascico, se si eccettua qualche avvocato che pare corpo estraneo al contesto. Il secondo limite si è appalesato quando ci si è resi conto che le manie di grandezza del dottor Gratteri, anche con l’uso del reato associativo, lo fanno insistere a tener insieme le mele con le pere, per poter passare alla storia come quello che ha istruito per la prima volta il maxiprocesso alla ‘ndrangheta. Di qui l’affannosa ricerca di tremila metri quadri che la giunta regionale calabrese gli ha trovato in un terreno vicino a Lamezia per poter celebrare il “suo maxi”. E le lamentele nei confronti del ministro Bonafede, ritenuto poco collaborativo perché non ha messo a disposizione le proprie strutture per questo evento. La gara con Falcone è aperta: il maxiprocesso di Palermo ha portato alla sbarra 474 imputati, il vertice di Cosa Nostra, con il limite che i boss, da Riina a Provenzano, erano latitanti. Il rinvio a giudizio di Catanzaro, con l’inchiesta decimata dai diversi gradi di giudizio, ne porta a processo 456. Ma è già in affanno nell’udienza preliminare, perché qui non si tratta di processare i corleonesi e le loro attività sanguinarie con morti e feriti sul campo. Qui in un certo senso si cerca di processare sulla base di un concetto, e cioè che, se pure gli uomini della ‘ndrangheta commettono meno delitti di sangue, basta seguire il flusso dei soldi per trovare quelli che sono davvero i loro vertici, seduti davanti al computer in qualche ufficio finanziario. Interessante teoria, che però non ha trovato finora nessuna concretizzazione, perlomeno nell’inchiesta Rinascita Scott. E nemmeno nel blitz successivo, che ha preso il nome di “Imponimento” e che è scattato nel luglio scorso. Diciamo la verità, questa seconda operazione sembrava fatta apposta per far numero, per aggiungere altri centocinquanta imputati a quelli del blitz precedente, arrestandone 75 e impegnando 700 uomini della guardia di finanza per l’operazione. Uomini che si sommano ai tremila carabinieri già impegnati nella prima azione. Si fa tutto in grande e con molte interviste. Ma dei famosi “colletti bianchi”, le menti raffinatissime che starebbero al vertice ordinando di volta in volta narcotraffico ed estorsioni in questa inchiesta non c’è traccia. C’è invece traccia di un imbarazzante capitolo magistratura. Nicola Gratteri è abituato a lavorare da solo. Del resto ritiene che l’Italia sia piena di magistrati corrotti, anche se bisogna ricordare che l’inizio dei suoi contrasti con il procuratore generale Otello Lupacchini aveva riguardato proprio il fatto che l’alto magistrato gli rimproverasse di aver trattenuto presso di sé indebitamente inchieste su giudici di Catanzaro che avrebbe dovuto esser inquisiti, a norma di legge, nel distretto di Salerno. Il conflitto era terminato con la fulminea cacciata, da parte di un Csm la cui reputazione ultimamente non è proprio al massimo, del dottor Lupacchini dalla Calabria. A Roma intanto, dopo le prime lamentele per un’aula insufficiente a contenere quasi cinquecento imputati e il doppio degli avvocati difensori oltre alle parte civili e alla richiesta di remissione ad altro giudice perché in Calabria vi sono troppe tensioni, le udienze davanti al gup procedono stancamente e con difficoltà dovute anche al fatto che non è facile separare il grano dal loglio, e le mele dalle pere. E quando ci saranno i rinvii a giudizio, che teoricamente potrebbero non esserci, o essere molti meno di quel che spera il procuratore Gratteri, quanto tempo sarà passato? Quanti innocenti avranno scontato anticipatamente una pena non dovuta? Se facciamo le proporzioni sulla sentenza Nemea, più della metà degli imputati di oggi potrebbe andare a casa. E domani avviare una bella causa per ingiusta detenzione. Un bel risultato. E il dottor Gratteri potrà raccontare un giorno ai nipotini di quando aveva sognato di far celebrare un maxiprocesso più importante di quello di Falcone.

Tutti i flop di Gratteri, il pm-condottiero che si prepara al maxi-processo senza imputati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Agosto 2020. La grancassa del maxiprocesso con mille partecipanti su un territorio di tremila metri quadri è sempre più roboante e viene annunciata ogni settimana con almeno un’intervista al procuratore Nicola Gratteri, che non soffre certo di crisi di astinenza. Una sguaiataggine continuata che pare non turbare i sonni di quel Consiglio superiore della magistratura che dovrebbe rinnovarsi dopo lo scandalo di Luca Palamara e dei suoi (tanti) amici, e invece si comporta come se avesse avuto solo una varicella dell’infanzia. Perché non è tollerabile che un’inchiesta come “Rinascita Scott” (un titolo che sembra il programma di Licio Gelli), che è solo nella fase iniziale di chiusura delle indagini e non è ancora nelle mani di un Gip/Gup, venga “venduta” ogni settimana un tanto al chilo come il processo del secolo. Già pronto con 500 imputati, più qualche centinaio di difensori e di parti civili per partecipare al grande circo del maxiprocesso contro la ‘ndrangheta. Naturalmente con grande enfasi sul “nuovo volto” della criminalità organizzata calabrese, che consisterebbe nell’aver messo le mani “sull’area grigia dei colletti bianchi” e la massoneria deviata, che non manca mai in un’indagine destinata alle prime pagine. Questa volta l’onore dell’intervista è toccato a un cronista della Stampa e alla sensibilità particolare del suo nuovo direttore. Ai quali evidentemente manca l’alfabeto delle regole processuali. Del resto se ne è privo, come dimostra la sua passività, anche il Csm! Come può un pubblico accusatore, prima che la sua ipotesi sia stata vagliata da un giudice, sapere se ed eventualmente quanti indagati diventeranno imputati? L’inchiesta “Rinascita Scott” del resto è già stata abbondantemente sfrondata nei suoi primi passaggi processuali, con la revoca, da parte sia del gip che del tribunale del riesame che della cassazione, dei due terzi degli arresti della famosa retata del 19 dicembre 2019. Il che significa, prima di tutto, che le manette non erano necessarie. E se non erano necessari, quei fermi furono dei soprusi. Inoltre, dove sono la famosa “area grigia” dei colletti bianchi e la massoneria deviata? Sia l’avvocato Giancarlo Pittelli che il suo collega Francesco Stilo (di cui riparleremo, perché per le sue condizioni di salute la detenzione in carcere è uno scandalo) hanno già visto la derubricazione del reato di associazione mafiosa in “concorso esterno”. Cioè aria fritta, in un Paese normale. Ma è impressionante il fatto che Nicola Gratteri non parli mai come un magistrato, ma piuttosto come un condottiero. Inizia l’intervista con un “Abbiamo alzato il tiro” e conclude con “andiamo avanti”. In mezzo, oltre a disquisizioni che stanno tra il sociologico e lo psicologico, c’è la solita lamentela un po’ intinta nella vanagloria di chi si sente accerchiato perché con la sua inchiesta è andato a toccare i “piani alti”. Ora, con tutto il rispetto per qualche avvocato o assessore fuori dalla politica da una quindicina d’anni, di quali centri di potere stiamo parlando? E il Csm, che ha liquidato in dieci minuti l’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, non ha niente da ridire sul fatto che si prepari un maxiprocesso (che dovrebbe essere vietato in quanto incompatibile con il sistema accusatorio) senza neppure un solo rinvio a giudizio? Eppure la carriera del dottor Gratteri parla chiaro, e soprattutto parlano chiaro certe sue frettolosità procedurali. Tanto che nel 1997, quando forse il Csm era più attento di oggi, e quando il procuratore era un semplice sostituto a Locri, gli fu inflitta un’ammonizione per il fermo, non motivato da un concreto pericolo di fuga, di un poliziotto. Una violazione di legge “macroscopica – diceva il provvedimento del Csm – perché dimostrativa di una insufficiente e confusa conoscenza di norme fondamentali del codice di rito”. Appunto. Del resto, il florilegio è abbondante. Possiamo partire dalla retata in diretta dell’inchiesta chiamata “Marine”, quando migliaia di agenti accerchiarono l’intero paese di Platì e ci furono 125 arrestati, di cui, al termine dei processi, solo 8 condannati, dei quali 5 per lievi reati. Per passare poi al processo “Circolo formato”, quando fu arrestata l’intera classe politica di Gioiosa jonica e la città fu commissariata. Anche in questo caso i fermati furono poi tutti assolti. E vogliamo parlare della brillante operazione “Metropolis” contro la mafia della Locride, con decine e decine di arrestati tre condannati? Si potrebbero poi elencare tutti gli imprenditori, oltre ai politici, finiti in manette per reati collegati ad ambienti mafiosi e poi scarcerati, come gli amministratori della “Dafne srl”, la cui condotta è stata considerata dal tribunale dei riesame come “integerrima e legittima”. Ora, che una persona digiuna di diritto (nonostante la laurea in giurisprudenza) come Matteo Renzi volesse Nicola Gratteri come ministro, può non stupire, anche in considerazione del fatto che qualcuno ha poi collocato a quel ruolo Alfonso Bonafede. Ma che tutti i giornalisti italiani continuino a intervistare il procuratore e a dare fiducia a inchieste di cui si sa già che saranno fallimentari, e che il Csm dopo l’ammonizione del 1997 non abbia ancora notato che nonostante la progressione in carriera i metodi sono sempre gli stessi, beh, questo è veramente stupefacente. Per non parlare dl fatto che se un pubblico ministero chiede tremila metri quadri per celebrare un processo fantasma in un’inchiesta in cui non ci sono ancora neppure dei rinvii a giudizio, qualcuno glieli abbia anche già trovati, beh, questo è addirittura preoccupante.

·         Invece…è Mafia.

L’ex ministro Scajola e Chiara Rizzo “contribuirono alla latitanza del condannato per mafia Matacena”. Le motivazioni della sentenza. Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2020. L’analisi finale dei giudici è che “dal punto di vista oggettivo la condotta di Scajola e della Rizzo è certamente strumentale a consentire a Matacena di protrarre la sottrazione all’esecuzione della pena che gli è stata inflitta a seguito di processo svoltosi con tutte le garanzie previste dall’ordinamento democratico per uno dei reati di massima offensività”. Nelle 1500 pagine di motivazioni della sentenza viene escluso alcun dubbio legittimo che l’aiuto, apprestato da Scajola e dalla Rizzo, in concorso con Speziali, consistette “nell’attuare lo spostamento da Dubai in Libano si legasse funzionalmente all’intenzione dello stesso Matacena di sottrarsi alla cattura poiché attraverso quell’aiuto egli avrebbe potuto assicurarsi condizioni di vita o di sicurezza certamente maggiori di quelle di cui godeva a Dubai mentre, senza quell’aiuto, egli avrebbe dovuto procurarsele diversamente”. Dopo 120 udienze svoltesi nei cinque anni di dibattimento, per la presidente del collegio giudicante del Tribunale di Reggio Calabria Natina Pratticò e per i giudici Stefania Rachele e Mariarosa Barbieri “la vicenda dello spostamento di Matacena dagli Emirati Arabi in Libano si inserisce in un piano più articolato di protezione del latitante attraverso un reticolo di rapporti che ha origini precedenti alla stessa decisione di trasferimento del latitante”. Sono parole pesanti quelle espresse dal collegio giudicante, nei confronti dell’ex ministro degli Interni e dello Sviluppo Economico, attuale sindaco di Imperia, Claudio Scajola. che lo scorso gennaio è stato condannato a 2 anni di carcere (pena sospesa) per procurata inosservanza della pena in favore dell’ex parlamentare  Amedeo Matacena (eletto nelle liste di Forza Italia), attualmente latitante a Dubai dopo la condanna definitiva subita a 3 anni di reclusione per “concorso esterno in associazione mafiosa“. Il Tribunale di Reggio Calabra ha condiviso l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia che, nel 2014, aveva arrestato l’ex ministro Scajola con l’accusa di aver favorito la latitanza di Matacena. Nella sentenza vengono ricostruiti i rapporti tra Matacena e l’ex ministro Scajola a partire dalla “comune militanza politica” in Forza Italia, ma anche successivamente. I giudici motivano che che Scajola “si mette a disposizione dell’ex armatore Matacena, introducendolo in nuovi ambienti imprenditoriali, spesso affini a quelli operanti nei settori in cui si era svolta la sua attività di Ministro dello Sviluppo economico, prima, e delle Attività produttive, dopo, e che, quindi, meglio gli consentivano di indirizzarne le iniziative o mettendolo in contatto con personaggi che ne avrebbero potuto agevolare altre, introducendolo in ambienti diplomatici nei quali a Matacena preme accreditarsi come un perseguitato dalla Giustizia italiana e si sono, quindi, mantenuti inalterati durante la latitanza di Matacena”. Nelle 1500 pagine di motivazioni di sentenza, viene evidenziato “un ruolo di direzione” assunto da Scajola per il tentativo di fuga in Libano. La vicenda che è stata minuziosamente ricostruita nel corso del processo istruito dal Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che aveva chiesto una condanna a quattro anni e sei mesi bei confronti di Claudio Scajola, mentre per Chiara Rizzo l’ex moglie di Matacena, condannata ad un anno, aveva chiesto undici anni e sei mesi. Per entrambi è stata esclusa l’aggravante mafiosa, e la Rizzo è stata assolta dall’accusa di essere stata complice di Matacena nella gestione dei suoi beni e delle sue imprese. Secondo il Collegio giudicante “non vi sono dubbi sul contributo causale di Scajola nel piano di spostamento del latitante”. Scajola ha sempre dichiarato in questi anni di essere innocente e di aver aiutato la Rizzo in maniera lecita, accreditando la tesi di essere stato mosso da “trasporti” e “sentimenti”, alimentato dalla “fragilità in cui la Rizzo si trovava durante la latitanza del marito, assillata da problemi economici, ma anche provata in ragione della solitudine che provava nel seguire i problemi dei figli senza alcun aiuto”. Per il Collegio “se, per un verso è evidente che i sentimenti di Scajola potrebbero avere rilievo al più sul piano dei motivi dell’agire e non certo scriminarne la condotta non si è esaurita in un aiuto lecito al latitante; per altro verso le risultanze dibattimentali hanno dimostrato l’esistenza di indubbi e consolidati rapporti tra Claudio Scajola e Amedeo Matacena, che andavano ben al di là del legame confinato alla sfera emotiva e sentimentale di due persone adulte, sorto in epoca successiva e del tutto irrilevante nella valutazione dei fatti”. Matacena, in realtà da latitante, “veniva informato pedissequamente dalla moglie delle iniziative assunte da Scajola in termini di aiuto e assistenza alla donna per farla lavorare o farle riprendere iniziative imprenditoriali interrotte dalla latitanza del marito, ma, soprattutto in termini funzionali a consentire a quest’ultimo di sottrarsi all’ordine di carcerazione, tant’è che la prima persona che Matacena si premura che venga avvisata, tramite la moglie, del proprio arresto è proprio Claudio Scajola.Claudio Scajola. "Avverti per primo Claudio, perché Claudio ci è stato molto vicino", per come Scajola stesso ricorda alla Rizzo durante una conversazione telefonica”. Secondo il collegio giudicante del Tribunale è stato provato nel processo che Chiara Rizzo  il giorno stesso dell’arresto di suo marito, avvisò per primo proprio l’ex ministro degli Interni, ed i due che fissarono un incontro “clandestino” a Place du Moulin a Montecarlo. Una circostanza questa come si legge nelle carte che “rende fin troppo evidente che a Scajola vengano rappresentati i problemi che il latitante aveva restando a Dubai, evidentemente non risolvibili dai legali di Matacena e di cui non si poteva parlare telefonicamente”. Infatti “è quella la prima occasione in cui a Scajola è dato mandato di ricercare una soluzione che consentisse al marito di continuare a trascorrere la propria latitanza al riparo dalle ricerche dell’autorità giudiziaria italiana, o comunque, di sottrarsi all’ordine di carcerazione di questa”. Scajola che all’epoca dei fatti era Ministro della Repubblica, anziché rifiutarsi di fornire il proprio contributo e collaborazione alla fuga, entra in azione mettendo in campo quelle che erano le proprie conoscenze. “È certamente inoppugnabile che Scajola si appalti la questione dello spostamento di Matacena – scrivono in sentenza i giudici – trovando un valido interlocutore in Speziali”, il quale, consulente catanzarese, ha rapporti di parentela con il leader delle falangi libanesi, Amin Gemayel, anch’egli imputato in un altro troncone giudiziario del procedimento. Speziali dopo un periodo di irreperibilità, chiese ed ottenne di chiudere il procedimento penale a suo carico, con un patteggiamento ed una pena ad un anno di carcere, così ammettendo di aver provato ad aiutare l’ex parlamentare Matacena a sfuggire all’espiazione della condanna definitiva subita da quest’ultimo per “concorso esterno in associazione mafiosa“. Il programma illegale prevedeva “lo spostamento da Dubai in Libano ed il piano prevedeva, solo in un secondo momento, la richiesta di asilo politico in Libano”. Per un buon fine di questa operazione vi fu anche la partecipazione di soggetti “di elevato rango costituzionale”. Durante il corso del processo è stato ricostruito e provato dall’ accusa, come entrambi si adoperano per organizzare il trasferimento di Matacena a Beirut, dove l’armatore siciliana, “avrebbe avuto la garanzia, grazie all’interessamento dell’ex presidente del Libano Gemayel e di un alto funzionario governativo avv. Firas di ottenere asilo politico”. Il faccendiere Speziali secondo quanto emerso dalle evidenze processuali, aveva “la capacità di mettere in contatto Scajola e Matacena con Gemayel, laddove da questo contatto entrambi ricavavano un vantaggio: Gemayel quello di ottenere l’appoggio politico di Scajola e Berlusconi per il suo rientro in politica e Matacena quello di ottenere l’asilo politico in Libano”. Nella sentenza si legge anche dell’ altro, perché nel corso del processo è stato affrontato anche l’argomento della tentata fuga dell’ex senatore Marcello Dell’Utri fondatore di Forza Italia , arrestato proprio a Beirut, anche lui condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Due vicende che manifestano “dei parallelismi”. come affermano i giudici nella sentenza sostenendo che “le due latitanze sono maturate nello stesso contesto” delle cosiddette “cene romane”, organizzate dall’ex segretario della Democrazia Cristiana Pino Pizza nel 2013, cene alle quali partecipano sempre Speziali e Gemayel. Ed insieme a loro a tavola anche Emo Danesi, Marcello Dell’Utri e Sergio Billè, l’ex presidente della Confcommercio. Sempre nella sentenza è scritto ed evidenziato che “L’analisi di quei tabulati consegnava agli investigatori la prova dell’esistenza di rapporti tra Billè Sergio ed il senatore Dell’Utri Marcello, oltre che di Billè con Speziali Vincenzo e di Billè con Scajola Claudio”. Il collegio così prosegue: “Se pure i commensali interrogati hanno affermato che, per lo più, le cene hanno avuto ad oggetto argomenti di natura politica italiana ed internazionale ed evidentemente nessuno ha confermato la tesi investigativa secondo cui in quelle cene si organizzò anche la latitanza di Dell’Utri, non sfugge al Tribunale sia la circostanza che Pizza Giuseppe abbia riferito che, durante la cena del Giugno 2013 Dell’Utri e Gemayel si appartarono per parlare di qualcosa sia la coincidenza temporale che è dato registrare tra la cena dell’ottobre 2013 a casa Piazza, a cui partecipo Speziali e Gemayel e Dell’Utri e la proposta fatta da Scajola alla Rizzo il 17-10-2013 di spostamento del latitante Matacena da Dubai in Libano”. Quindi secondo in giudici siciliani, “si intende dire che è assai verosimile che l’organizzazione della latitanza di Dell’Utri possa essere avvenuta in una di quelle cene, nelle quali non era neppure necessaria l’intermediazione di Billè, atteso che Dell’Utri viene a diretto contatto con Gemayel e con Speziali”. Per i giudicanti “appare evidente che anche il piano di spostamento di Matacena da Dubai e il Libano sia maturato nell’ambito di questi rapporti vischiosi tra personaggi appartenenti al mondo della politica, del commercio, della finanza, dell’imprenditoria, della massoneria (Danesi risulta essere stato affiliato alla loggia P2), che sposso trovano convergenza di interessi nell’aiuto di personaggi che pure sono stati giudicati e condannati per gravi reati di mafia in esito a processi svolti con tutte le garanzie riservate agli imputati in uno Stato democratico”. Una vicenda rimasta a margine del processo venendo ritenuta soltanto di “colore” rispetto alle condotte illegali degli imputati, “poiché pur non essendo rimasto accertato che a quelle cene ha preso parte anche Scajola (ed anzi con riferimento ad una di esse vi è un riscontro negativo integrato dalla circostanza che Scajola all’epoca di quella cena era fuori Roma) è pur vero che i punti di contatto tra Scajola, Speziali, Billè, Dell’Utri, Gemayel sono tutti rimasti accertati”. Contatti questi che “fanno ritenere, rifuggendo da una lettura frammentaria di tutti gli elementi, altamente verosimile che le due latitanze siano maturate nell’ambito dello stesso contesto con un trade d’union che è stato di certo Speziali Vincenzo, naif quanto pare, ma certamente in grado di intessere legami e relazioni in cui tutti i protagonisti non disdegnavano di essere coinvolti”. Per portare avanti “l’affaire” da parte di Scajola e Rizzo vi fu un atteggiamento di “estrema cautela” che, secondo la Corte si scontra platealmente con l’impostazione difensiva che rappresentava l’esistenza di un “progetto lecito”. Il Collegio del Tribunale ha messo in evidenza come questa “alla luce del tenore complessivo dei colloqui intercettati e, più in generale, delle condotte poste in essere dai protagonisti della vicenda, si traduce in nulla più che in un espediente”. Pertanto in “transfert” di Matacena passava attraverso altri canali. Un fatto che viene riscontrato dall’atteggiamento della stessa Rizzo, “non vuole esporsi intuendo l’illiceità del piano e voglia fare esporre solo Scajola”. I giudici, comunque, non mettono in dubbio che Scajola possa aver nutrito un trasporto per l’ex moglie di Matacena, tutt’altro. Però si evidenzia anche che lo stesso “non è interamente contraccambiato da quest’ultima”. Ed è anche in questo contesto che ha avuto inizio una sorta di tira e molla negli incontri. Sottolineano i giudici che “da una parte vi è la donna che evidentemente ha mentito a Scajola allorquando ha inventato un pretesto per non incontrare Speziali e che, tuttavia, lungi dal far chiarezza in ordine alle ragioni del proprio comportamento, continua a rassicurare Scajola, allo scopo evidente di non perdere l’opportunità di realizzare un progetto favorevole al marito latitante, che tutti insieme stavano coltivando; d’altra parte, vi è un uomo che, ancorché decisamente invaghito della signora, non ha perso la capacità di coglierne la freddezza e che, a cagione di questo percepito distacco, si rammarica, tanto più per essersi esposto al punto tale da intraprendere un’iniziativa illecita, dopo averne a lungo parlato con la donna in passato”. L’analisi finale dei giudici è che “dal punto di vista oggettivo la condotta di Scajola e della Rizzo è certamente strumentale a consentire a Matacena di protrarre la sottrazione all’esecuzione della pena che gli è stata inflitta a seguito di processo svoltosi con tutte le garanzie previste dall’ordinamento democratico per uno dei reati di massima offensività”. Chiara Rizzo, quasi 6 anni dopo l’arresto, può tirare un sospiro di sollievo e ringraziare il suo difensore, avvocato Bonny Candido, il quale lo scorso 20 gennaio con un’arringa durata 4 ore, aveva dimostrato che la Rizzo non meritava l’accanimento dell’accusa, con una sentenza che esclude anche la schermatura del patrimonio e, quindi, ottenuto la restituzione delle società e dei conti correnti. L’avvocato Candido ha così commentato la sentenza di primo grado: “Il Tribunale di Reggio Calabria ha definitivamente escluso ogni collegamento tra Chiara Rizzo e la ‘ndrangheta. Ha inoltre confermato che la mia cliente non ha goduto di fittizie intestazioni del patrimonio di Matacena e per questo, oltre ad essere stata assolta, ha ottenuto la revoca dei sequestri. La condanna ad un anno di reclusione, a fronte di una richiesta di oltre 11 anni, è relativa alla procurata inosservanza della pena e sarà certamente oggetto di impugnazione. Da questa sentenza discende che Chiara Rizzo ha subito una ingiusta detenzione di sei mesi. In questi termini l’odierno verdetto è da considerarsi già un notevole successo che sarà totale nel secondo grado di giudizio”. I giudici hanno anche disposto la prescrizione per la segretaria di Scajola Mariagrazia Fioredilisi, e l’assoluzione di Martini Politi, collaboratore dell’ex ministro.

Attilio Bolzoni per “la Repubblica” il 29 gennaio 2020. Ci sono "verità" che si tramandano di generazione in generazione e che possono far nascere equivoci antipatici. Dare per scontato qualcosa senza controllare - e soprattutto ricordare - può giocare brutti scherzi. Come per esempio trasformare un capo mafia in una vittima di mafia e sistemare il suo nome accanto a quelli di Boris Giuliano e Ninni Cassarà, di Rosario Livatino e Pippo Fava. Cose che succedono quando una vecchia velina viene mal interpretata con l' aguzzino che si ritrova eroe, nonostante un passato molto significativo (criminalmente parlando) nella sua comunità. Cose che succedono a Trabia, paese del Palermitano dove uno dei suoi boss, Nunzio Passafiume, che per la sua fluente chioma vermiglia era chiamato "pilu russu", si è ritrovato suo e nostro malgrado nella scalinata di una scuola dedicata a uomini e a donne uccisi da Cosa Nostra. Incolpevoli i dirigenti scolastici che si sono fidati di ciò che è immortalato sui libri di storia, incolpevoli i giornalisti che per decenni l'hanno citato come esempio di virtù, incolpevoli (ma fino a un certo punto) alcuni testi che avevano deposto in Commissione parlamentare Antimafia nel 1963 indicando quel Passafiume come bersaglio delle cosche invece di descriverlo per quel che era. L'istituto che ospita la scalinata è la scuola media "Giovanni XXIII", la scoperta dell'"errore" l' hanno fatta un gruppo di sindacalisti che si sono accorti di un Passafiume nella loro Cgil in un' epoca in cui la Cgil a Trabia ancora non c' era. Poi è venuto a galla tutto il resto. A supportarli nella ricerca Francesco Tornatore, fratello del regista Peppuccio, saggista e autore di testi proprio su quell'infuocato dopoguerra siciliano, ultimo lavoro una monumentale bibliografia (Ecco perché...) sugli scritti di Pio La Torre. L' esplorazione nei trascorsi di Passafiume - a cura dei sindacalisti Andrea Bondì, Francesco e Giovanni Cancilla, Franco Chiarini, Sandro Di Vittorio, Giuseppina Greco, Giuseppe La Russa, Pino Lo Bello e Rosa Piazza - ha permesso di accertarne l' identità al di là di ogni ragionevole dubbio grazie alla memoria di un paio di sopravvissuti di quel tempo. Tutto l' inghippo ha origine con Francesco Renda, storico di grande valore che, in un passaggio del terzo volume della sua Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 , segnala Passafiume come «vittima di mafia» citando un' informativa dei carabinieri proprio sull' uccisione del boss, avvenuta il 1 giugno 1946. Una nota molto vaga dove, in effetti, si avanzava l' ipotesi di un «movente politico». Da qui, probabilmente, il malinteso. Erano gli anni delle esecuzioni dei sindacalisti e degli assalti alle Camere del Lavoro, qualcuno ha fatto uno più uno e Passafiume si è ritrovato dall' altra parte. In realtà i dirigenti della Cgil hanno raccolto decine di testimonianze che smentiscono la verità ufficiale e descrivono un altro contesto. La politica c' entra ma al contrario. In quell'epoca, in concomitanza con le prime elezioni libere d' Italia, la famiglia mafiosa di Trabia aveva dato ordine di vietare ogni comizio che non fosse del Movimento indipendentista siciliano guidato da Andrea Finocchiaro Aprile. Non tutti obbedirono. Ci furono alcuni omicidi, fra cui quello di Giuseppe Galioto. E qualche giorno dopo l' assassinio di Passafiume, "noto capomafia", come risposta. «A Trabia non sono stati mai uccisi sindacalisti della Cgil e nel 1946 non c' era ancora la Lega dei braccianti, solo intorno al '60 sono cominciate le occupazioni dei feudi, qualcuno ha perfino promosso Passafiume leader del nostro sindacato quando tutti sapevano in paese chi fosse in realtà», spiega Francesco Cancilla, uno di quelli che ha portato alla luce l'"equivoco". La dirigente scolastica Giusy Conti è serena: «In una scuola la verità è importante, se fosse accertato definitivamente che quel nome non è al posto giusto provvederemo a toglierlo ». Piccolo suggerimento. Cancellatelo e mettete un nome che manca, adatto anche a quel periodo: Pio La Torre.

·         Quelle vittime lasciate sole…

La deputata grillina Aiello paragona testimoni di giustizia agli ebrei di Auschwitz: “Loro fortunati a essere uccisi”. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Testimoni e collaboratori di giustizia? Vivono “come se fossero in un campo di concentramento. Per questo motivo io sento molto vicina a me la giornata della memoria. Anche noi abbiamo il codice identificativo. Solo che gli ebrei deportati ad Auschwitz avevano la fortuna di morire. Noi invece moriamo giorno dopo giorno”. Sono le dichiarazioni della deputata del Movimento 5 Stelle Piera Aiello, espresse durante un convegno che si è tenuto sabato 11 luglio a Ottaviano, in provincia di Napoli. La notizia è stata riportata ieri, con tanto di video, dal giornale web siciliano Tp24, scatenando un vespaio di polemiche. La Aiello è stata eletta nel collegio di Marsala e Trapani alle ultime elezioni politiche ed è diventata nota al pubblico e ai giornali come la “candidata senza volto”, perché per ragioni di sicurezza ha condotto la campagna elettorale senza mai farsi. Nel 1991 suo marito Nicolò Atria, figlio del boss mafioso Vito, venne ucciso davanti ai suoi occhi e Aiello divenne testimone di giustizia. La deputata grillina, dopo le polemiche sorte sul web, si è scusata con un post su Facebook: “Ho usato una metafora molto infelice – spiega la parlamentare originaria di Partanna –, mossa da un pathos provocato da un percorso esistenziale di profondo dolore, seppur certamente non paragonabile. L’Olocausto merita un rispetto assoluto per la memoria dell’umanità. La sofferenza dei testimoni e collaboratori di giustizia non è in alcun modo comparabile a cotanto orrore, il male assoluto di un incomprensibile delirio collettivo”.

L'agguato al giornalista anti camorra e quell'appalto sospetto: nuove indagini. Le Iene News il 07 febbraio 2020. Mario De Michele era stato minacciato dalla camorra che aveva cercato pure di ucciderlo. L’agguato potrebbe essere collegato a un strano appalto pubblico in un comune casertano che lui aveva denunciato. Abbiamo incontrato il giornalista con Silvio Schembri in novembre, ora in quel comune arrivano i carabinieri. Anche i carabinieri indagano sull’appalto per la ristrutturazione dello stadio comunale di Succivo nel Casertano. Noi de Le Iene vi abbiamo parlato di questo caso e dei possibili collegamenti con l’agguato a un giornalista nel mirino della camorra il 26 novembre scorso nel servizio di Silvio Schembri che potete rivedere qui sopra. “Hanno tentato di uccidermi”, denuncia il giornalista, Mario De Michele. “Un uomo ha estratto la pistola e ha iniziato a sparare frontalmente, ad altezza uomo, sul parabrezza. Non mi ha colpito per venti centimetri. Uno dei proiettili ha sfondato il lunotto posteriore dell’auto, conficcandosi nel poggiatesta del passeggero: se ci fosse stato qualcuno con me, quel giorno, sarebbe morto”. In queste ore una ventina di carabinieri si sono recati negli uffici del comune casertano per acquisire documentazione e informazioni sull’appalto del valore di 1,2 milioni di euro che sarebbe finito nelle mani di un familiare di un ex assessore di Succivo, Anna Russo. “Non nego di avere avuto paura ma, come diceva Giovanni Falcone, “con la paura bisogna convivere ma non bisogna farsi condizionare”” dice De Michele alla Iena. Il giornalista campano appena tre giorni prima dell’agguato era stato aggredito a schiaffi e colpi di spranga, un’intimidazione che aveva collegato alla vicenda dell’appalto allo stadio di cui aveva scritto. Oggi è sotto scorta. Anche Silvio Schembri era andato proprio negli uffici comunali di Succivo e aveva cercato invano di organizzare un incontro tra il sindaco e l’assessore Anna Russo, che si era difesa dalle accuse di aver in qualche modo pilotato l’appalto verso la sua famiglia.

Rovinato dalla mafia e abbandonato dallo Stato: la storia di Mario. Le Iene News il 28 febbraio 2020. Mario Cavallaro è un imprenditore rovinato perché si è ribellato alla mafia. Senza un lavoro, soldi e soprattutto senza serenità, la sua vita è diventata impossibile. Silvio Schembri è andato a trovarlo per farsi raccontare la sua storia di coraggio, cercando anche di fargli avere quello che gli spetta dallo Stato, che l’ha tradito. Mario Cavallaro è uno degli imprenditori che ha resistito alle intimidazioni di Cosa Nostra e ha contribuito a far arrestare alcuni mafiosi. E ora si trova abbandonato anche dallo Stato, senza un lavoro. “Io non riesco a entrare qua da solo, è un colpo al cuore”, dice parlando da un capannone vuoto, quanto è rimasto della sua impresa. La mafia l’aveva messo nel mirino tra intimidazioni, ultimatum e minacce: “Mi hanno bloccato e mi hanno puntato una pistola dicendomi che se fossi passato un’altra volta, mi avrebbero sparato una gamba”. L’azienda di Mario andava alla grande: 40 dipendenti, tanti macchinari, lavori per milioni di euro anche per la pubblica amministrazione. Musica per le orecchie dei clan della zona. “Qua se stai, devi pagare e devi far parte del sistema. Se non fai parte del sistema, qua non puoi stare”, dice Cavallaro. Ma la famiglia del giovane imprenditore in quel “sistema” non ci vuole entrare. Per la mafia è una sfida, una sfida che non risparmia nemmeno i più piccoli. “Eravamo in macchina, avevo forse sei anni e ho visto passare un signore che ha fatto il segno della pistola”, racconta la figlia dell’imprenditore a soli 10 anni. “Io gli chiedevo, la mia parte quando me la dai? La risposta era che venivano i mafiosi a dirmi che non dovevo chiedere nulla”. Mario racconta cosa succedeva quando faceva domande a Tomasello Sant, il suo ex-socio che sembrerebbe legato ad ambienti ambigui. Silvio Schembri va a parlare con l’ex socio di Mario che ci dice: “Ti sembro di avere la faccia di uno che fa estorsione?”. L’incubo di Cavallaro non finisce qua: un giorno il boss Angelo Monaco viene a bussargli alla porta. Da quel momento segue una serie di incontri e telefonate. Uno di questi incontri viene pure registrato: “Mi dai i soldi: sì o no? Non c’è nessuno né a Catania, né a Palermo né a Milano che può venire a dirmi di no”. Quando Mario decide di affrontarlo, il boss dei clan gli lancia un ultimatum: “O mi porti 80mila euro o ti sparo in testa”. Il 29 agosto 2019 scatta la trappola: mentre Cavallaro incontra il boss per consegnargli i soldi, Angelo Monaco viene arrestato in fragranza di reato. Partono le chiarissime nuove minacce di Cosa Nostra tra finestre e serrature forzate, cani uccisi e marchiati con un segno della croce. Per questa famiglia non c’è pace. Nemmeno lo Stato si prende le sue responsabilità: “Ho fatto arrestare tanti mafiosi, il mio l’ho fatto e ora mi trovo senza nulla”. Una legge per tutelare le persone che hanno subito attività estorsive c’è, per queste persone viene “elargita una somma di denaro a titolo di contributo al ristoro del danno patrimoniale…”. Ma in che modo viene applicata? “Non ho percepito una lira e le mie pratiche sono ferme”, dice Mario. Così andiamo a chiedere spiegazioni alla Prefettura di Catania, il nostro incontro viene però non tanto accolto poiché il prefetto ha “una riunione di comitato di sicurezza”. Poco dopo però veniamo convocati dalla sua vice che ci dice: “Le assicuro che sarà fatto il massimo, rimedieremmo quanto prima”. E arriva una buona notizia: dopo tantissimi anni, Mario è stato convocato in prefettura. Sarà la volta buona?

·         Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo.

Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo. Tiziana Maiolo il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. Sarà più difficile d’ora in avanti per i magistrati torinesi contestare a Roberto Rosso, l’ex assessore della Regione Piemonte arrestato lo scorso 20 dicembre per voto di scambio (si è dimesso ieri anche dai consigli regionale e comunale di Torino), l’aggravante mafiosa. Lo stesso per l’imprenditore Daniele D’Alfonso, arrestato a Milano il 7 maggio all’interno dell’inchiesta chiamata “Mensa dei poveri”. E per molti altri indagati cui sia contestata l’aggravante di aver favorito con il loro comportamento un’associazione mafiosa. La decisione numero 28 delle Sezioni unite penali della Cassazione parla chiaro: quell’aggravante ha rilevanza soggettiva. Quindi, perché possa essere contestata, occorre dimostrare che l’indagato aveva piena consapevolezza del fatto che con la propria condotta stava agevolando un’associazione mafiosa. D’ora in avanti, se si osserverà la decisione delle sezioni unite, al pubblico ministero non basterà più rilevare che il comportamento di Rosso piuttosto che di D’Alfonso abbiano “oggettivamente” favorito le cosche. Occorre il dolo, da parte loro, occorre che sappiano con certezza di aver a che fare con mafiosi. Una bella botta, anche d’immagine, per inchieste come quella del maggio scorso a Milano, dove nelle intenzioni della procura si prepara una sorta di maxiprocesso con le 71 richieste di rinvio a giudizio già avanzate dall’ufficio del pubblico ministero. Un colpo all’accusa, prima di tutto perché l’inchiesta era stata avviata proprio dalla Direzione distrettuale antimafia e presentata in gran pompa dal procuratore capo in persona, Francesco Greco, come una prova dell’esistenza in Lombardia di un forte legame tra la politica, l’imprenditoria e la ‘ndrangheta. Finita la conferenza stampa e spente le telecamere si era scoperto che in realtà l’aggravante mafiosa riguardava una sola persona, l’imprenditore Daniele D’Alfonso, accusato anche di aver messo in scena una finta consulenza in favore di un consigliere comunale di Forza Italia, Pietro Tatarella, in cambio di agevolazioni in gare d’appalto. Proprio all’interno di queste attività l’imprenditore avrebbe dato del lavoro a operai che, secondo l’accusa, sarebbero stati legati a una ‘ndrina di Buccinasco. Ora il problema è: Daniele D’Alfonso sapeva che quegli uomini erano mafiosi e che, offrendo loro un lavoro, lui stava aiutando la ‘ndrangheta? Secondo la decisione delle sezioni unite sarà la procura a doverlo dimostrare con una piena attività probatoria che rilevi il dolo nel comportamento dell’indagato. E non basteranno certo le ricostruzioni storico-sociologiche sulle famiglie che furono insediate con i provvedimenti di confino negli anni Cinquanta-Sessanta nel sudovest di Milano per dimostrare che lì (a Corsico, cittadina di D’Alfonso, come alla contigua Buccinasco) tutto è mafia. Lo stesso vale per la vicenda torinese che ha visto coinvolto Roberto Rosso. In questo caso l’accusa è di voto di scambio, che sarebbe avvenuto nel corso dell’ultima campagna elettorale per le regionali, in cui l’ex esponente di Forza Italia era candidato con Fratelli d’Italia e poi eletto e portato in trionfo per il significativo numero di voti elargito in dote al partito di Giorgia Meloni. La quale non ha ricambiato il favore, in occasione dell’arresto di Rosso (che pure era stato premiato con l’assessorato), dicendo che addirittura le era venuto “il voltastomaco”, sapendolo “mafioso”. L’accusa all’ex assessore è fondata su intercettazioni della Guardia di Finanza tra due presunti “emissari” di Onofrio Garcea, considerato vicino al clan Bonavota della Liguria. Gli emissari avrebbero promesso all’esponente di Fratelli d’Italia un pacchetto di voti in cambio di 15.000 euro. I soldi versati si sarebbero poi ridotti a 7.900, forse perché i voti non erano arrivati. Ma perché contestare l’aggravante mafiosa anche al politico? È chiaro che sia stato usato il criterio dell’oggettività, rispetto al quale era sufficiente una sorta di ignoranza colposa da parte della persona indagata sui complici e sulla loro appartenenza alle cosche. Ma è stato anche sottolineato un particolare episodio, da parte della Guardia di Finanza. E dei giornali, subito da qualcuno informati. Nel 2012, quando era in Parlamento, Rosso avrebbe firmato un’interpellanza del deputato del Pd Vinicio Peluffo contro il prefetto di Lodi, il quale avrebbe fatto parte di un’associazione di calabresi emigrati in Liguria e sospettati di avere rapporti con ambienti malavitosi. Tra questi figurava anche il nome di Onofrio Garcea. Può bastare per dimostrare che Roberto Rosso, sette anni dopo aver dato la propria firma (come spesso capita) all’interpellanza di un altro, sapeva bene con chi aveva a che fare quanto trattava con i famosi “emissari”, tra cui un’imprenditrice? Le decisione delle Sezioni unite, vista anche la rilevanza che sempre di più si attribuisce alla giurisprudenza (come dimostrato dal serrato dibattitto in seguito alla presa di posizione, negli stessi giorni, sulla marijuana), è per ora passata inosservata alla grande stampa, ma non, si suppone, al mondo del diritto. E il mal di stomaco d’ora in avanti forse verrà a qualche ufficio del pubblico ministero, che prima di organizzare conferenze stampa sulla mafia, dovrà rimboccarsi le maniche e cercare il dolo nei comportamenti, cioè le prove. Quando e se ci sono.

·         Il Business del Proibizionismo.

DAGONEWS il 15 gennaio 2020. Un secolo dopo che gli Stati Uniti hanno inaugurato l'era del proibizionismo, gli Speakeasy stanno spuntando come funghi, nascondendosi dietro porte nascoste e riportando gli avventori all’atmosfera degli anni '20. A pochi isolati dalla Casa Bianca, nel centro di Washington, un flusso costante di avvocati, diplomatici e lobbisti camminano sui marciapiedi di K Street, ignari del fatto che mentre i loro uffici chiudono per la notte, un seminterrato invisibile dalla strada sta iniziando a riempirsi. The Mirror è un locale che si nasconde dietro alcuni gradini che sembrano condurre a un negozio vuoto. Il posto odora vagamente di urina e le pareti sono nude, a parte alcuni graffiti e un cartello con su scritto "in affitto". Ricreando un luogo difficile da trovare i proprietari volevano rendere omaggio ai cocktail bar del passato. Gli Speakeasy originali sorsero dopo che il Congresso approvò il 18° emendamento, che nel 1920 vietò la produzione, la vendita e il trasporto di alcol. Rimasero aperti fino all'abrogazione della legge nel 1933. Conosciuti solo da coloro che avevano contatti all'interno, questi luoghi dove le persone si incontravano per bere erano allestiti negli scantinati o in stanze nascoste. Il nome derivava dall’esigenza della gente di parlare piano per evitare di attirare l’attenzione della polizia o dei vicini.

I ruggenti anni Venti. All'inizio degli anni 2000, alcuni bar di New York hanno riportato in auge la tradizione di password o codici per entrare, ma la tendenza dei nuovi Speakeasy è decollata solo negli ultimi dieci anni. A parte una propensione per porte difficili da trovare, condividono un gusto per l'arredamento ispirato ai ruggenti anni Venti, nonché una vasta gamma di cocktail, la bevanda preferita degli americani dell'Età del Jazz. «Volevamo fare qualcosa di diverso - ha dichiarato il co-proprietario del Mirror Jeff Coles - Molte persone sono alla ricerca di un'atmosfera intima. Finché sei nell'ombra, nessuno sa davvero che ci sei. Siamo la meta di molti primi appuntamenti».

Passaparola. Al Capo, altro locale nella capitale degli Stati Uniti, l'ingresso è ancora più difficile da trovare. La maggior parte dei passanti pensa sia una salumeria italiana, ma molti non sanno che basta aprire l’anta di una cella frigorifera per accedere al bar nascosto. Come la maggior parte dei locali, il Capo ha aumentato il numero di clienti grazie al passaparola, anche se ha dovuto fare i conti con gli Instagrammer affascinati dalla sua entrata a effetto.

Giuseppe Culicchia per la Stampa il 26 ottobre 2020. Quando scoprii Allen Ginsberg avevo 17 anni. Era il 1982 e i Clash avevano appena pubblicato Combat Rock, dove in un brano intitolato Ghetto Defendant alla voce di Joe Strummer si univa, a tratti sovrapponendosi, quella del più grande poeta della Beat Generation. Incuriosito, corsi a comprarmi Jukebox all'idrogeno, l'antologia di poesie tradotta da Fernanda Pivano, e me ne innamorai. William Burroughs invece mi venne consigliato da un amico: «Leggiti Pasto nudo. Non te ne pentirai». Era vero. Pochi anni dopo, scoprii che anche Burroughs aveva collaborato con una delle band che amavo, i Nirvana di Kurt Cobain, in un brano intitolato The Priest they called him. Burroughs veniva chiamato il Prete per il modo di vestire austero: apparteneva del resto alla generazione precedente rispetto a quella dei beat, e aveva un'aura maledetta non solo per via dell'omicidio della moglie Joan avvenuto il 6 settembre 1951 (i due volevano riprodurre la scena per cui era diventato famoso Guglielmo Tell, evidentemente senza riuscirci; lui fu condannato per omicidio colposo ad appena due anni) ma anche a causa di quella faccia da tossico capace di spingersi in territori preclusi ai più. Oggi che Silvia Albesano ha tradotto per il Saggiatore Non nascondermi la tua pazzia, i due Mostri Sacri della controcultura americana della seconda metà del Novecento tornano a parlarci grazie a questo incredibile volume che raccoglie le loro conversazioni registrate su undici nastri da 90 minuti suddivisi in lato A e lato B. Nastri che in origine erano il materiale dell'intervista con Burroughs commissionata a Ginsberg dall'Observer Magazine di Londra, in occasione dell'uscita nel 1991 del film di David Cronenberg tratto proprio da Pasto nudo: pellicola girata a Tangeri - dove Burroughs si era rifugiato dopo aver ucciso la moglie - che richiese ben cinque stesure della sceneggiatura prima che l'autore del libro si ritenesse soddisfatto. I due si ritrovano a Lawrence, nel Kansas, dove nel 1981 Burroughs si è trasferito da New York, diventata troppo cara per le sue tasche. Da allora sono passati undici anni, e quando Ginsberg mette piede in casa dell'amico non sa esattamente che cosa ne uscirà fuori. Al suo arrivo, scopre che Burroughs è alle prese con un rito di esorcismo: uno sciamano navajo deve liberarlo dallo Spirito del Male che si sarebbe insediato in lui fin dall'infanzia, influenzando in modo negativo tutte le sue azioni, dall'omicidio della moglie ai deliri letterari e non. In teoria, trattandosi di un articolo per una rivista, Ginsberg dovrebbe osservare il limite di battute indicatogli dal direttore. Ma lui e Burroughs non si vedono da un po'. Risultato: l'intervista dura per ben tre giorni, e oggi noi abbiamo la possibilità di godere di un dialogo un po' più interessante di quello che sta andando in scena tra Trump e Biden, pur imbattendoci qua e là nei medesimi argomenti. Vedi le pagine in cui i due discutono della violenza che da sempre caratterizza l'America, e della diffusione delle armi tra gli abitanti: «Hanno lasciato che la situazione degenerasse sempre più», fa Burroughs, riferendosi al fatto che già all'epoca negli Usa ci sono più armi che persone, «e ora strillano che devono fare qualcosa. E invece non fanno altro che aggravare ulteriormente il problema». Poi però, visto che da parte sua è un noto collezionista e ha discreti trascorsi nel settore, spiega all'amico: «Beh, un fucile da caccia o una carabina possono essere trasformati facilmente in una pistola. Non devi far altro che scorciare il calcio e la canna, e hai un'arma magari un po' bizzarra ma decisamente letale». Ginsberg fa notare che le droghe oggi illegali non lo erano prima del 1914: «La ricetta originale della Coca-Cola conteneva cocaina. Gli americani non avevano grossi problemi con cocaina, oppio, eroina o marijuana. Le droghe erano a buon mercato, c'era poca criminalità... le prime leggi che proibirono l'uso delle droghe erano razziste, finalizzate a impedire che gli operai cinesi usassero l'oppio e i neri e gli ispanici consumassero marijuana e cocaina». I due discorrono dei demoni presenti nei dipinti di Burroughs e della fatwa che invoca l'assassinio di Rushdie, interagiscono con lo sciamano Mel che evoca Crazy Horse e ricordano i tempi del Greenwich Village e di Jack Kerouac, con Ginsberg che rammenta come Gregory Corso vivesse di espedienti vendendo bottigliette di liquore. Quando Ginsberg insinua che Burroughs si è fatto influenzare più da Céline che da Henry Miller, l'altro ammette che Céline era in effetti «grandioso». Poi però sostiene che per lui l'influenza maggiore è stata quella di Denton Welch. A un tratto scatta una sessione di tiro a segno con le numerose pistole possedute da Burroughs, che però confessa di amare soprattutto i suoi gatti. Ciò che colpisce è che i due non hanno mai paura di dire quello che pensano, e non solo perché la situazione è rilassata e si vogliono bene. Del resto, quando l'editore Lawrence Ferlinghetti pubblicò Urlo di Ginsberg fu processato per oscenità: salvo poi venire assolto da un giudice che riconobbe come censurare il poema avrebbe comportato una limitazione anticostituzionale della libertà d'espressione. Chissà cosa accadrebbe oggi che i giudici stanno su Twitter.

Usa: l'Oregon è il primo Stato a depenalizzare il consumo di droghe pesanti. Da affaritaliani.it Mercoledì, 4 novembre 2020. L'Oregon è il primo Stato degli Usa a depenalizzare il consumo personale di piccole dosi di droghe pesanti: cocaina, eroina e metanfetamina. L'Oregon è divenuto il primo Stato Usa a depenalizzare il consumo personale di piccole dosi di droghe pesanti, incluse cocaina, eroina e metanfetamina. La decisione è stata assunta dagli elettori di quello Stato, che hanno preso parte ad un referendum in occasione delle elezioni generali statunitensi. La cosiddetta "Misura 109" legalizza anche l'uso della psilocibina, una sostanza psichedelica contenuta in alcuni funghi allucinogeni del genere Psilocybe e Stropharia, il cui consumo resterà però limitato all'ambito terapeutico. Ieri, 3 novembre, i cittadini di New Jersey e Arizona si sono invece espressi a favore della legalizzazione dell'uso ricreativo della marijuana nei loro Stati. Nel South Dakota, gli elettori hanno approvato il solo impiego terapeutico di tale droga leggera. Infine, nel Mississippi gli elettori hanno approvato una iniziativa tesa a stabilire un programma medico per la somministrazione di marijuana a pazienti affetti da malattie degenerative e debilitanti. 

Cannabis light, la Cassazione conferma: “Serve una regolamentazione”. Giacomo Andreoli su Il Riformista l'1 Novembre 2020. In assenza di una regolamentazione chiara al livello nazionale sulle infiorescenze della canapa (la cosiddetta cannabis light) la palla deve tornare al Tribunale ordinario. La terza sezione penale della Corte di Cassazione “dà ragione” all’azienda Cannabidiol Distribution, tra le prime in Italia a lanciare sul mercato la cannabis light, che un anno fa aveva subito il sequestro di questi prodotti in un suo negozio a Torino, impugnando subito dopo quel provvedimento. Le motivazioni della sentenza, uscite ieri, sono chiare: in Italia non ci sono norme precise che valgono per tutti e questo fa sì che ogni volta i Tribunali debbano decidere se i vari sequestri che avvengono in giro per l’Italia sono giusti o sbagliati in base alla pericolosità e all’efficacia drogante dei prodotti commerciati. L’unica legge che norma il settore, la n.242 del 2016, fissa infatti dei limiti sul thc, la sostanza psicotropa per eccellenza della canapa. Tuttavia la stessa Corte di Cassazione, a luglio dello scorso anno, aveva sancito l’illegalità di tutti i derivati della cannabis sativa L, anche con thc nelle soglie previste dalla normativa vigente. Nel 2018, inoltre, il Consiglio Superiore di Sanità, con il parere del 10 aprile 2018, ha sottolineato la possibile pericolosità, almeno per alcune categorie di persone (come minori e donne incinte) di foglie, infiorescenze e resine, qualunque sia il contenuto percentuale di delta-tetracannabinolo. «Questa sentenza ci dice che abbiamo ragione – commenta a Il Riformista il titolare della società Luca Fiorentino – aggiungo che, come spiega la scienza internazionale, i prodotti che vendiamo non hanno effetto drogante. Sul Cbd, anche grazie alla nostra protesta, il ministro Speranza e il governo sembrano averlo capito e questo ci permette da ora di tornare a vendere gli oli. Rimane da combattere la battaglia sugli altri prodotti, per esempio contro la direttiva del Direttore generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli Marcello Minenna che ha bloccato la vendita delle infiorescenze nelle tabaccherie. Abbiamo fatto un’istanza di annullamento e attendiamo un riscontro in settimana». Intanto, dopo il dietrofront del ministro Speranza, incalzato dal collega di partito Nicola Fratoianni e da un’interpellanza parlamentare dello scorso 21 ottobre che citava questo giornale, l’apertura a una legislazione nazionale sulla cannabis light arriva proprio da LeU. Il capogruppo alla Camera Federico Fornaro ci dice: «Quella del ministro è una decisione corretta, adesso è necessario prendere la via di una definitiva regolamentazione della commercializzazione dei prodotti derivati dalla cannabis». Il Cbd rappresenta il 40-50% del fatturato di un settore che vale 150 milioni di euro all’anno, con oltre 15mila operatori, di cui l’80% sotto i 32 anni. Finché il Parlamento non interverrà con una normativa complessiva e definitiva imprenditori, agricoltori e giudici rimarranno nell’incertezza. Intanto, come ricorda Fiorentino: «al momento ci sono più di 2mila indagati e alcuni condannati per spaccio. Sono ragazzi come me che hanno aperto un negozio e commercializzato fiori di canapa. Io stesso ho diversi procedimenti aperti, ma il 90% dei sequestri viene definito illegittimo dai riesami».

Alessandro Nidi per "ilsussidiario.net" il 10 agosto 2020. La marijuana può nuocere gravemente alla salute: ad affermarlo è l’American Heart Association, che, per bocca della dottoressa Rose Marie Robertson, vicedirettore scientifico del sodalizio, “raccomanda alle persone di non fumare alcuna sostanza, compresi i prodotti della cannabis, a causa dei potenziali danni al cuore, ai polmoni e ai vasi sanguigni”. Secondo lo studio pubblicato sulla rivista “AHA Circulation”, infatti, vi è una connessione tra il nostro cuore e la cannabis, con quest’ultima che ha “il potenziale di interferire con i farmaci prescritti” e di “scatenare condizioni o eventi cardiovascolari, come infarti e ictus”, come dichiarato dal farmacologo clinico Robert Page II. Pertanto, “chiunque abbia intenzione di fare uso di marijuana dovrebbe prima discutere i possibili rischi con il proprio professionista della salute“, ha asserito l’esperto, professore presso il dipartimento di Farmacia Clinica e Medicina/Riabilitazione Fisica presso la University of Colorado Skaggs School of Pharmacy and Pharmaceutical Sciences di Aurora. Come riferito dalla CNN, alcuni degli studi eseguiti hanno rilevato anomalie del ritmo cardiaco, come la tachicardia e la fibrillazione atriale, che potrebbero verificarsi entro un’ora dal consumo di marijuana. Il THC, o tetraidrocannabinolo, sostanza psicoattiva contenuta all’interno di quest’ultima, può causare un ritmo cardiaco più veloce, aumentare il bisogno di ossigeno del cuore, danneggiare le pareti delle arterie e contribuire ad aumentare la pressione sanguigna. “Il fumo di cannabis contiene componenti simili al fumo di tabacco”, ha affermato il professor Page, e le ricerche mostrano parametri simili a quelli generati dal monossido di carbonio e catrame nel sangue di un fumatore. Inoltre, per chiunque abbia una malattia cardiaca esistente, i rischi aumentano. “C’è un urgente bisogno di studi prospettici a breve e lungo termine, attentamente progettati e prospettici, riguardanti l’uso di cannabis e la sicurezza cardiovascolare”, ha chiosato Page, sottolineando come sia di fondamentale importanza fare ulteriore luce sulla connessione fra marijuana e cuore.

Francesco Pacifico per “il Messaggero” il 23 luglio 2020. Sui forum e sui social è tutto un proliferare di chat per spiegare come sballarsi la notte con gli antidepressivi rubati ai genitori: l'importante è abbinare un alcolico leggero che valorizzi la spinta dell'eccitante. Con l'apertura delle frontiere, poi, si trovano anche dal pusher sotto casa droghe pericolosissime un tempo da provare solo all'estero come la salvia divinorum e l'ayahuasca. La marijuana si fuma come il tabacco, la cocaina è sempre più diffusa, il richiamo dell'eroina (da fumare però) cresce. È boom a Roma nel consumo degli stupefacenti per gli under 18. Lo si comprende chiaramente leggendo l'ultima Relazione sul fenomeno delle dipendenze nel Lazio, curato dal Dep (Dipartimento di epidemiologia) della Regione. Infatti, tra il 2018 e il 2019, è salito del 50 per cento il numero dei minorenni presi in carico dai Serd, gli ex Sert, i servizi sanitari che si occupano della cura alle dipendenza. Tra questi gli under18 solo il 2 per cento dei 13mila tossicomani seguiti dalle autorità. Ed è questo forse il dato più preoccupante. Spiega Massimo Barra, già presidente della Croce rossa e medico che con Villa Maraini ha creato un baluardo nella Capitale nella lotta alla tossicodipendenza: «I ragazzini che consumano droghe non si fanno aiutare, dicono smetto quando voglio, e noi non li sappiamo aiutare. Ed è questa la cosa più grave. Le strutture pubbliche sono sclerotiche, senza fantasia, aspettano ancora l'eroinomane che si presenta da loro e non vanno a cercare i loro nuovi clienti: i giovanissimi che prendono di tutto. Non a caso il terzo settore si affida a ex tossicomani, gli unici che conoscono modi fare e luoghi». Per la cronaca, nei Serd romani sono stati seguiti 164 minori nel 2019 e 109 nel 2018, numeri che rispettivamente salgono a 183 e a 130 in tutta la Regione Lazio. Una quantità risibile se si pensa che nella sola Capitale ci sarebbero oltre 30mila minori tossicomani. Dalla relazione fatta dal Dep, pur con un campione tanto risicato, si evincono però importanti tendenze per capire il fenomeno. Più maschi (il 75 per cento del totale) che femmine, un quinto del totale dei tossicomani complessivi. Il 5,9 per cento ha avuto le prime esperienze sotto i 14 anni, il 25,5 è diventato abituale tra i 14 e 18 anni. Il 90 per cento di chi è stato mandato al Serd l'ha fatto per problemi con la marijuana, oltre l'8 perché sniffava coca. Il buco, l'uso di eroina per endovena è imitato. «Perché preferiscono fumarla», spiega Beatrice, volontaria sul camper di Villa Mariani in giro per la città. Tutto questo in un realtà, quella romana, dove il 35 per cento dei ragazzi ha anche problemi di alcool. Fabrizio Fanella, direttore del Centro La Promessa, nota «la crescita esponenziale della cocaina in parallelo con l'abuso di alcol soprattutto nei post-adolescenti». Ma per capire meglio la situazione bisogna passare per i racconti diretti Giovanna, da poco 18enne, ha iniziato a 14 «con le canne e le pasticche con il fidanzato dell'epoca. Poi ho continuato con tutto quello che avevo a portata di meno. I miei se ne sono accorti soltanto lo scorso Natale, quando stavo già seguendo un percorso riabilitativo». Non tutte le storie hanno il lieto fine. Dal suo osservatorio particolare, Beatrice ricorda di «aver conosciuto ragazze picchiate dai fidanzati sotto l'effetto degli acidi e altre ancora costrette ad andare con gli spacciatori per procurarsi la roba. C'è chi viene da famiglie problematiche chi da altre dove non si fumano sigarette. Puoi comprare nelle piazze della movida di notte come nei locali dove fanno i pomeriggi danzanti. C'è chi usa la paghetta, chi vende l'oro della comunione. Sono similari le dinamiche: la prima canna a 11 anni, la coca come un pezzo del divertimento, l'inseguimento delle mode: la chetamina perde fascino e il divertirsi a mischiare gli psicofarmaci rubati dai genitori. Il grosso di quelli che ho conosciuto, quando provano la prima volta, poi hanno continuato».

Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 27 maggio 2020. Che sia associato a una moltitudine di problemi di salute ormai lo sanno tutti, ma il fumo non perde il suo appeal. Le nuove generazioni sono sempre più attratte dalla sigaretta, in parte anche a causa delle attività di marketing e social media dei produttori. Per questo il tema scelto quest'anno dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per la Giornata mondiale senza tabacco che si celebra sabato prossimo, è The secret's out Il segreto è svelato. L'obiettivo è informare soprattutto i più giovani sulle strategie messe in atto dall'industria del tabacco per attrarre nuovi consumatori. Una battaglia sposata anche dalla Fondazione Airc per la ricerca sul cancro, consapevole che il fumo è una brutta abitudine che riguarda molti italiani giovani e giovanissimi. In particolare nel nostro Paese già fra i 13 e i 15 anni un ragazzo su cinque fuma quotidianamente sigarette tradizionali, mentre il 18% utilizza quelle elettroniche. Il consumo inizia generalmente durante l'adolescenza, spesso anche prima: nel 2018 quasi 100 mila ragazzi hanno provato a fumare prima dei 12 anni. Con conseguenze gravi sul lungo periodo, specialmente sul rischio di ammalarsi di cancro. «Dico sempre che se non ci fosse il fumo curerei una patologia rara», afferma Marina Chiara Garassino, ricercatrice Airc e responsabile della Struttura semplice di Oncologia Medica Toraco-Polmonare della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Solo il 10% dei pazienti affetti da tumore del polmone non ha mai fumato. Chi inizia a fumare da ragazzo - continua - è molto probabile che prosegua da adulto. I ragazzi rischiano di diventare dipendenti oggi e futuri pazienti domani. Un dato che preoccupa ancora di più se parliamo di giovani donne che si avvicinano al fumo in una percentuale superiore del 24% rispetto al passato». Per fronteggiare questa emergenza, Airc continua a puntare su chi sceglie di opporsi, smontando l'aura cool e l'immagine che il marketing ha costruito attorno all'uso delle sigarette. E lo fa proponendo una campagna ancora più cool. Il volto dell'iniziativa è quello di Gianmarco Tamberi, campione mondiale di salto in alto e ambasciatore della Fondazione dal 2017, che lancerà una challenge su Instagram invitando altri sportivi, influencer e tutto il pubblico a cimentarsi con una sfida a prova di fiato. «Da atleta so bene quanto sia importante seguire degli stili di vita corretti - dice Tamberi - per essere sempre al top. Il nostro corpo resta in salute se noi ce ne prendiamo cura: fare un'attività fisica regolare e seguire un'alimentazione sana ci aiuta a stare in forma. La cosa che di sicuro non ci aiuta e fa sempre male è il fumo, anche una sola sigaretta al giorno è rischiosa perché cancerogena. Le sigarette contengono sostanze chimiche che hanno ripercussioni sull'elasticità della pelle, sulla salute dei denti, sulla caduta dei capelli... E poi ragazzi sarò sincero con voi, fumare non fa neanche così figo come vi vogliono far credere, anzi con quel cattivo odore che rimane incollato ai vestiti, vi giocate una bella fetta di ragazze e ragazzi che non lo sopportano». Confermano il loro impegno anche i Creators4Airc, alcune fra le voci più amate e seguite del web, guidate da Camilla Boniardi (Camihawke), che già nel 2019 avevano dato il via insieme ad Airc a una campagna destinata in particolare alle giovani donne. L'importanza dell'impegno degli influencer e l'invito a mobilitarsi è sottolineato quest'anno dalla stessa Oms, consapevole della loro capacità di spingere i giovani verso stili di vita sani e consapevoli. Anche la Fondazione Umberto Veronesi sposa appieno la necessità di contrastare l'abitudine al fumo e rinnova con forza l'appello alla necessità urgente di alzare il prezzo delle sigarette e di tutti i prodotti del tabacco. «Le misure economiche per il controllo del tabagismo, a cui i giovani sono particolarmente sensibili, sono ritenute dalla comunità scientifica e dalle istituzioni sanitarie e scientifiche fra le più efficaci per ridurre i consumi e rafforzare le risorse per la prevenzione e la cura delle malattie fumo-correlate», spiegano alla Fondazione.

La cortina di fumo. Report Rai. PUNTATA DEL 25/05/2020 di Giulio Valesini. Dopo anni di lotta al fumo e diminuzione dei fatturati da sigarette tradizionali, le grandi aziende del settore hanno lanciato prodotti alternativi, tra cui quelli a tabacco riscaldato: gli HTP. Si assume nicotina ma senza combustione. All'apparenza gli HTP dovrebbero essere meno rischiosi per la salute, ma una relazione dell'Istituto Superiore di Sanità di cui Report è in possesso lo smentisce. Eppure l'Iqos di Philip Morris e gli HTP delle altre aziende sono sottoposti a una tassazione molto più favorevole delle sigarette tradizionali. Chi lo ha deciso? Perché?  Report, insieme ad altri dodici media internazionali coordinati dal Consorzio di giornalismo investigativo OCCRP nel progetto “Blowing Unsmoke”, lo racconterà, anche chiedendo conto a quei centri di ricerca che dicono di combattere il fumo ma sono finanziati dalle industrie del tabacco.

- Philip Morris Italia non ha voluto rilasciare una videointervista a Report: queste le loro risposte scritte

RISPOSTE PMI. 

Buongiorno Laura, di seguito puoi trovare tutte le risposte alle vostre domande che speriamo servano a darvi elementi utili per un’informazione quanto più completa possibile.

Prima di rispondere puntualmente alle vostre domande, in maniera anche più esaustiva di una intervista, ci preme sottolineare un aspetto relativamente al tema della puntata. Prendiamo atto che questa sia esclusivamente focalizzata su un prodotto, il tabacco riscaldato, che per quanto in crescita, rappresenta una quota di mercato pari al 3,94%, contro una quota per le sigarette di oltre l’85%, (dato relativo al periodo 1 gennaio 2019 — 30 settembre 2019 - fonte: Relazione Tecnica Legge di Bilancio 2020).

Sebbene i prodotti a tabacco riscaldato non siano prodotti privi di rischio, rappresentano sicuramente delle alternative valide rispetto alle sigarette per tutti quei fumatori adulti che continuerebbero a fumare. Secondo quanto riportato dall’ Istituto Superiore di Sanità, “in Italia i fumatori sono 11,6 milioni e rappresentano 1122% della popolazione, con una prevalenza uguale a quella riscontrata undici anni fa (2008), a riprova del fatto che ci troviamo da oltre dieci anni in una situazione di stagnazione”(Istituto Superiore di Sanità, 3 1/05/2019).

Come abbiamo avuto modo di scrivervi siamo l’unica azienda del settore ad aver dichiarato pubblicamente di voler completamente sostituire le sigarette con prodotti senza combustione, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, nel più breve tempo possibile. Crediamo infatti che incentivare il passaggio a prodotti senza combustione per i fumatori adulti che altrimenti continuerebbero a fumare, unitamente al persistere delle politiche di cessazione e disassuefazione dal fumo, potrebbe contribuire ad accelerare il trend verso la completa eliminazione delle sigarette, obiettivo che — ci teniamo a ribadire — solo Philip Morris si è impegnata pubblicamente a perseguire.

È utile portare alla vostra attenzione che sono stati recentemente presentati alcuni emendamenti parlamentari che propongono esclusivamente di aumentare le tasse sui prodotti a tabacco riscaldato, che ricordiamo rappresentano una quota molto marginale, senza però fate altrettanto con le tasse sulle sigarette. Ci domandiamo quindi se queste proposte rappresentino un reale interesse pubblico o siano semplicemente spinte da meri interessi competitivi per bloccare la crescita di un prodotto che sta erodendo il mercato delle sigarette.

Auspichiamo dunque che il servizio possa rappresentare la complessità dei temi trattati, da quelli relativi alla tassazione dei diversi prodotti a quelli scientifici, dando inoltre piena evidenza delle differenze tra le pratiche delle diverse aziende per non generare confusione.

Analizzeremo in maniera approfondita il rapporto scritto nel 2018 dall’Istituto Superiore di Sanità che ha risposto con un giudizio non favorevole alla vostra richiesta di riconoscimento di riduzione del rischio e riduzione delle sostanze tossiche negli EHTP, rispetto ai prodotti da combustione, a parità di condizioni di utilizzo.

Come già precisato, Philip Morris Italia ha volontariamente presentato al Ministero della Salute una prima parte di studi ed evidenze scientifiche sul nostro prodotto senza combustione IQOS nel 2018. Ci teniamo a precisare che le autorità italiane, diversamente da quanto da voi riportato, hanno ritenuto che tali studi, “allo stato attuale e sulla base della documentazione fornita”, non fossero sufficienti per etichettare il prodotto come “a ridotta tossicità” o “a rischio ridotto” rispetto ai prodotti a combustione.

Come abbiamo avuto modo di scrivervi, diversamente da quanto sostenuto dell’istituto Superiore di Sanità, ad oggi, più di dieci enti terzi governativi internazionali hanno preso una posizione netta nel riconoscere come il sistema 1005 sia in grado di ridurre significativamente le sostanze tossiche presenti nel fumo di sigarette. Tra questi:

il “German Federal Institute for Risk Assessment (BfR)” in Germania;

il “Public Health England” nel Regno Unito;

il “National Institute of Public Health (Japan)” in Giappone;

il “National Institute for Public Health and the Environment fRIVM)” in Olanda.

È importante inoltre precisare come la valutazione dell’istituto Superiore di Sanità si basi su studi precedenti al 2017. In Italia infatti, per motivi legati a come è strutturato il processo di sottomissione volontaria delle evidenze scientifiche, nei pochi mesi previsti per la revisione, non è stato possibile integrare il dossier con studi più recenti, né con informazioni o studi complementari forniti da terze parti, né rispondere durante il processo ai comprensibili dubbi posti dall’ISS nel suo rapporto.

Solo a titolo esemplificativo riportiamo invece il caso US, dove l’iter legislativo previsto dalla Food and Drug Administration — ovvero l’ente che si occupa anche della regolamentazione dei prodotti del tabacco — rende possibile una interazione e una continua integrazione della documentazione scientifica da parte dell’industria, lasciando anche la possibilità di integrazioni/commenti da parte di esperti e di aprire consultazioni pubbliche, in un processo di dialogo costante tra le parti. Tale iter, durato oltre 2 anni, ha fatto sì che lo scorso 30 aprile 2019 1005 sia stato autorizzato alla commercializzazione nel Paese in quanto ritenuto “uno strumento idoneo alla tutela della salute pubblica”. Per vostra maggiore informazione potete consultare a questo link a mero titolo d’esempio - le differenze emerse dalle analisi della Food and Drug Administration.

Nonostante questo rapporto, sappiamo che ad inizio del 2019, avete chiesto, tramite la società Solving Bfm un incontro ad alcuni medici dell’lspro della Regione Toscana per chiedere di raccomandare lqos come strumento utile ai propri pazienti che non riescono a smettere di fumare per ridurre il danno da tabacco.

Confermiamo l’appuntamento con alcuni medici dell’Ispro della Regione Toscana e rappresentanti dell’Assessorato alla Sanità.

L’informazione secondo cui avremmo chiesto questo appuntamento per “chiedere di raccomandate lqos come strumento utile ai propri pazienti che non riescono a smettere di fumare per ridurre il danno da tabacco”, invece, è fuorviante rispetto alla nostra richiesta, e non rappresenta in alcun modo quanto discusso durante l’incontro con Regione Toscana.

La legislazione esistente della Regione Toscana, attraverso l”integrazione alle Linee guida di prevenzione Oncologica Tabagismo” del 2014 già include indicazioni per gli operatori sanitari con riferimento alla sigaretta elettronica.

Alla luce della legislazione esistente la quale, tra le altre cose, prevede che “dovrebbe essere incrementata la ricerca sulla sigaretta elettronica per valutarne il reale impatto in termini di sicurezza per la salute, di cessazione del fumo di tabacco, e di riduzione del danno nel fumatore tradizionale che non riesce a smettere”, abbiamo chiesto quali azioni la Regione stesse considerando, a cinque anni dall’approvazione della legge stessa.

Nella riunione non si è parlato di singoli prodotti. Con i Rappresentanti Istituzionali presenti abbiamo discusso di una potenziale applicazione del principio della riduzione del danno al settore del tabacco, che comprende qualsiasi prodotto privo di combustione, e di una sua possibile integrazione al fianco delle politiche di prevenzione e di controllo che rimangono le strategie chiave nella lotta al fumo.

Secondo quanto riportato dai fonti di stampa a fine 2019, Philip Morris risulta essere cliente della Casaleggio Associati. Ci confermate questo rapporto commerciale? Che tipo di consulenza avete richiesto? A quanto ammonta il contratto stipulato? È tuttora in essere?

I rapporti con Fornitori e Consulenti sono informazioni di carattere riservato. Se la domanda sottintende un eventuale legame con realtà legate ci teniamo a precisare che Philip Morris Italia non finanzia partiti o movimenti politici in Italia.

Monitorando i sodal network abbiamo notato in passato, soprattutto su lnstagram, macro e micro influencer fumare lqos. Questa tipologia di post è stata da voi gestita e contrattualizzata? Qual è oggi la vostra linea?

In Italia, a differenza di altri operatori del settore, Philip Morris non ha mai contrattualizzato alcun digital influencer per la promozione dei suoi prodotti senza fumo sui social media.

Che tipo di politica seguite per evitare che un minore possa acquistare lqos direttamente dal vostro sito internet?

I minorenni non devono utilizzare nessun prodotto contente nicotina, e adottiamo procedure specifiche per garantire il più alto livello possibile di aderenza a questo obiettivo su tutti i nostri canali commerciali.

Per quanto riguarda l’acquisto online, chi accede al sito web iqos.com deve dichiarare di essere un fumatore e di essere maggiorenne. Inoltre, chiunque intende procedere all’acquisto di IQOS sul sito web iqos.com deve fornire la propria data di nascita e, qualora sia un minorenne, l’acquisto di IQOS non potrà essere finalizzato.

In aggiunta, Philip Morris Italia ha volontariamente imposto un obbligo al corriere che al momento della consegna deve chiedere il documento di identità del ricevente e verificare e accertare che chi riceve il bene è l’acquirente e che sia un maggiorenne. Se chi Io riceve è un minorenne o si rifiuta di mostrare il proprio documento di identità, il corriere ha l’obbligo di rifiutare la consegna.

Si tratta di un servizio supplementare richiesto volontariamente dall’azienda al fornitore del servizio, per il quale è prevista la corresponsione di una fee aggiuntiva di circa 100.000 euro l’anno.

La garanzia dell’attuazione della verifica dell’età rappresenta una condizione necessaria per la sottoscrizione dei contratti di fornitura stipulati da Philip Morris Italia, che ha deciso volontariamente di non essere presente con i propri prodotti su altri canali di vendita e-commerce in assenza ditali garanzie.

Avete mai effettuato sponsorizzazioni o partnership con movimenti e fondazioni politiche?

No. A differenza di altre aziende del settore, Philip Morris Italia non finanzia partiti, fondazioni o movimenti politici in Italia come tra l’altro avete già correttamente riportato durante un vostro servizio dedicato proprio a questo tema, a seguito di una vostra approfondita inchiesta, andato in onda Io scorso 4 dicembre 2017. (servizio: “Il lobbista che è in noi” di G. Mottola: minuto 06.00 al minuto 06.35).

Nel restare a vostra disposizione vi porgiamo cordiali saluti. Philip Morris Italia.

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Buonasera Michele, nel corso della prossima puntata di Report dedicata alla legislazione e tassazione dei prodotti a tabacco riscaldato, parleremo di alcuni documenti che abbiamo potuto visionare:

Analizzeremo in maniera approfondita il rapporto scritto nel 2018 dall’Istituto Superiore di Sanità che ha risposto con un giudizio non favorevole alla vostra richiesta di riconoscimento di riduzione del rischio e riduzione delle sostanze tossiche negli EHTP, rispetto ai prodotti da combustione, a parità di condizioni di utilizzo.

Nonostante questo rapporto, sappiamo che ad inizio del 2019, avete chiesto, tramite la società Solving Bfm un incontro ad alcuni medici dell’Ispro della regione Toscana per chiedere di raccomandare Iqos come strumento utile ai propri pazienti che non riescono a smettere di fumare per ridurre il danno da tabacco.

Secondo quanto riportato dai fonti di stampa a fine 2019, Philip Morrìs risulta essere cliente della Casaleggio Associati. Ci confermate questo rapporto commerciale? Che tipo di consulenza avete richiesto? A quanto ammonta il contratto stipulato? E tuttora in essere?

Monitorando i social network abbiamo notato in passato, soprattutto su Instagram, macro e micro influencer fumare Iqos. Questa tipologia di post è stata da voi gestita e contrattualizzata? Qual è oggi la vostra linea?

Che tipo di politica seguite per evitare che un minore possa acquistare Iqos direttamente dal vostro sito internet?

Avete mai effettuato sponsorizzazioni o partnership con movimenti e fondazioni politiche?

Dato che di tutto questo renderemo conto ai nostri telespettatori, penso sia di reciproco interesse la vostra presenza all’interno della puntata. Per motivi legati alla produzione ti chiedo una risposta entro e non oltre giovedì 21 maggio h 11:59 am. Ti ringrazio come sempre per la disponibilità. Cordialmente, Laura Nesi Redazione Report

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Buonasera Laura, ti ringrazio per la tua email. Come ti dicevo allo stato attuale è impossibile, per via del lockdown e dei divieti di spostamento, darti una risposta per l’intervista. Per rispetto ai telespettatori, ci teniamo però a fornirvi tutto il materiale che ci auguriamo possa esservi utile per approfondire i temi di interesse e fornire un’informazione quanto più completa.

Di seguito e in allegato puoi trovare le informazioni richieste. Restiamo a disposizione qualora aveste bisogno di altro.

Le prospettive di Philip Morris rispetto al suo prodotto a tabacco riscaldato, Iqos.

Come è noto, l’obiettivo dell’azienda è convertire ai prodotti senza fumo, nel più breve tempo possibile, tutti i fumatori adulti che diversamente continuerebbero a fumare sigarette. Secondo le stime dell’OMS, infatti, al 2025 saranno oltre i miliardo i fumatori nel mondo, lo stesso numero di quelli attuali. Nel medio termine, entro il 2025, l’obiettivo è quello di far passare dalle sigarette ai prodotti senza fumo almeno 40 milioni di fumatori adulti che altrimenti continuerebbero a fumare. Secondo le proiezioni dell’OMS, nel 2025 i fumatori dei nostri prodotti sarebbero circa 130 milioni (in decrescita rispetto agli attuali 145 milioni grazie alla cessazione e disassuefazione dal fumo). Se a questa decrescita, invece, si sommasse anche l’obiettivo di Philip Morris di convertire almeno 40 milioni dei propri consumatori, il numero di fumatori di sigarette PMI diminuirebbe a 90 milioni, incidendo dunque significativamente sul totale dei fumatori nel mondo. Tutto questo è riassunto anche nella tabella in allegato (tabella 1).

Se pensate, o meno, che questi prodotti possano sostituire sul lungo periodo le sigarette tradizionali.

Siamo l’unica azienda del settore ad aver dichiarato pubblicamente di voler completamente sostituire le sigarette con prodotti senza combustione, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. Come potrai leggere dal nostro sito, la nostra missione è costruire un mondo senza fumo, ossia un mondo dove le sigarette vengano sostituite da prodotti di nuova generazione, validati scientificamente, per tutti quei fumatori che altrimenti continuerebbero a fumare.

Siamo convinti che i prodotti senza combustione — sigarette elettroniche, prodotti a tabacco riscaldato — sostituiranno le sigarette e il nostro obiettivo è concretizzare questa transizione nel più breve tempo possibile. Ad oggi, oltre 10 milioni di persone in tutto il mondo hanno già abbandonato le sigarette.

Studi e analisi indipendenti dimostrano che l’introduzione dei prodotti innovativi può avere un impatto significativo sul calo delle vendite di sigarette, come avvenuto in Giappone.

Lo studio è quello condotto da ricercatori dell’American Cancer Society che hanno valutato l’impatto dell’introduzione di lQOS nel mercato giapponese sulla vendita delle sigarette (in allegato troverai la sintesi e lo studio completo pubblicato sulla rivista Tobacco Control).

Come commentate e giudicate la tassazione agevolata di cui godono questi prodotti in Italia.

La Direttiva 2014/40/UE sui prodotti del tabacco ha introdotto nell’ordinamento Europeo due nuove categorie di prodotti, distinti dalle sigarette tradizionali: le “sigarette elettroniche” e i “prodotti del tabacco di nuova generazione”.

In linea con le Direttive europee, in Italia ciascun prodotto ha un proprio regime fiscale, diverso a seconda della categoria, con livelli fiscali diversi tra loro, come negli altri paesi europei: i sigari e sigaretti, le sigarette, il tabacco trinciato, etc. Non esiste quindi una tassazione agevolata per il tabacco riscaldato, ma una tassazione differenziata come per tutti gli altri prodotti.

Coerentemente, anche i prodotti senza combustione (i prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, per le sigarette elettroniche, e i tabacchi da inalazione senza combustione) hanno una classificazione e un trattamento fiscale specifico e distinto. Ciò deriva dalle rispettive caratteristiche, tra le quali l’assenza di combustione, e degli usi cui sono destinati — che li rendono non assimilabili, nel quadro fiscale e regolamentare, ai prodotti tradizionali da fumo.

Anche a livello istituzionale, europeo ed internazionale, è riconosciuto come i prodotti di nuova generazione, quali sigarette elettroniche e prodotti del tabacco riscaldato, così come gli altri prodotti emergenti, non siano equiparabili ai prodotti tradizionali da fumo stante il modo in cui quest’ultimi sono definiti dal complessivo quadro legale e regolamentare esistente in Europa e a livello internazionale. In questo contesto normativo, dal 2014 in poi, oltre metà dei Paesi dell’Unione Europea, tra cui l’italia, hanno classificato i prodotti di nuova generazione in modo chiaramente differenziato rispetto a quelli tradizionali da fumo. Fino al 2012, l’Italia risultava essere tra i Paesi con la tassazione più alta in UE sui prodotti di nuova generazione senza combustione, rispetto a quella applicata alle sigarette. Nel 2018, la tassazione su tutti i prodotti di nuova generazione senza combustione (sia i prodotti da inalazione senza combustione per le sigarette elettroniche, sia i tabacchi da inalazione senza combustione) è stata modificata dal Parlamento italiano, definendone livelli in linea a quelli medi applicati negli altri Paesi dell’Unione Europea.

Se esistono evidenze scientifiche che dimostrano la minore tossicità dei prodotti a tabacco riscaldato e una riduzione del danno.

Ad oggi, più di dieci enti terzi governativi internazionali hanno preso una posizione netta nel riconoscere come il sistema IQOS sia in grado di ridurre significativamente le sostanze tossiche presenti nel fumo di sigarette. Tra questi:

il “German Federal Institute for Risk Assessment (BfR)” in Germania;

il “Public Health England” nel Regno Unito;

il “National Institute of Public Health (Japan)” in Giappone;

il “National institute for Public Health and the Environment (RIVM)” in Olanda.

Come avvenuto con molti altri enti regolamentari e sanitari in tutto il mondo, oltre alla FDA negli Stati Uniti, abbiamo volontariamente sottoposto anche alle autorità sanitarie italiane (Ministero della Salute e Istituto Superiore della Sanità) una prima parte di studi ed evidenze scientifiche sul nostro prodotto senza combustione IQOS. Le autorità italiane hanno ritenuto che tali studi, allo stato attuale e sulla base delle evidenze fornite, non fossero sufficienti per etichettare il prodotto come “a ridotta tossicità” o “a rischio ridotto” rispetto ai prodotti a combustione. Stiamo lavorando alfine di sottoporre al più presto un nuovo dossier, in modo da chiarire le questioni emerse durante la prima revisione ed integrare la nostra prima richiesta con tutte le evidenze ulteriori che abbiamo prodotto in questi anni.

Siamo pronti a collaborare con il Ministero della Salute e con tutti gli Istituti competenti per rispondere a qualsiasi dubbio e aggiornarli sugli sviluppi dei nostri studi fornendo qualsiasi ulteriore evidenza sia necessaria.

Per altre informazioni, ti prego di far riferimento aitanti studi e report di autorità sanitarie indipendenti e centri di ricerca che ho avuto modo di inviarti in precedenza e che ti allego di nuovo per comodità. In particolare:

1. Comunicato stampa e il documento completo deIl’FDA circa l’autorizzazione alla commercializzazione negli Stati Uniti d’America di IQOS — ottenuta da Philip Morris Internationai (PMI) lo scorso 30 aprile 2019 a seguito di un processo di revisione durato oltre 2 anni che ha portato l’agenzia del farmaco statunitense a decretare che IQOS — primo prodotto della sua categoria a ottenere tale riconoscimento - “è uno strumento idoneo alla tutela della salute pubblica”. Nel suo comunicato, I’FDA ha inoltre dichiarato che “attraverso la valutazione scientifica condotta dalla FDA della documentazione presentata dall’azienda, l’analisi della letteratura peer-reviewed pubblicata e altre fonti, l’agenzia ha avuto evidenza delfatto che l’aerosol prodotto dal sistema di riscaldamento del tabacco IQOS contiene meno sostanze chimiche tossiche rispetto alfumo di sigaretta, e molte delle tossine identificate sono presenti a livelli inferiori rispetto alfumo di sigaretta. Ad esempio, l’esposizione al mon ossido di carbonio dall’aerosol di lQOS è paragonabile all’esposizione ambientale, e i livelli di acroleina e formaldeide sono inferiori rispettivamente tra l’89% e il 95% e tra il 66% e 1191% rispetto alle sigarette combustibili.”

Mentre a questo link e in allegato puoi trovare i contenuti del webinar della Food and Drug Administration statunitense su “Perché la FDA ha autorizzato la commercializzazione del prodotto a tabacco riscaldato”.

2. Una raccolta delle dichiarazioni di alcune delle principali autorità governative che hanno analizzato o rivisto la letteratura scientifica disponibile su IQOS.

3. Il link al sito di PMI Science dove, oltre a tutta la nostra attività di ricerca scientifica, potrai trovare una sezione dedicata agli studi indipendenti.

4. L’ultima edizione del fact-sheet dell’OMS sul tabacco riscaldato. Come vedrai, nell’ambito di un approccio cautelativo, che raccomanda studi indipendenti per determinare gli effetti di questi prodotti sul lungo periodo, si riporta, tra le altre cose, che “[...] in addition to tobacco industry funded studies, there ore some independent studies showing that there ore significant reductions in the formation of and exposure to some harmful and potentially harmful constituents (HpHcs) relative to standard cigarettes and independent reviews of industry data have concluded the same. However, the relationship between exposure and health effect is complex and reduced exposure to these harmful chemicals does not mean that they are harmless, nor does it translate to reduced risk in humans”.

A quanto ammonta la voce di bilancio destinata a Ricerca e Sviluppo ogni anno in Italia.

L’attività di R&D di Philip Morris International è svolta presso i nostri due centri di ricerca in Svizzera e Singapore. Philip Morris International ha dedicato, a partire dal nuovo millennio, oltre 7 miliardi di dollari alla ricerca e sviluppo di alternative senza combustione al fine di eliminare le sigarette, sostituendole per i fumatori adulti che altrimenti continuerebbero a fumare. In allegato trovi una scheda riassuntiva di tutta la nostra attività di R&D (Scheda 3.SCIENCE), consultabile anche sul sito pmiscience.com.

Philip Morris è presente in Italia con due affiliate: Philip Morris Italia S.r.l. e Philip Morris Manufacturing & Technology Bologna S.p.A. (PMMTB).

L’italia è il centro di eccellenza a livello mondiale per la prototipazione, la produzione su larga scala e la formazione del personale dei prodotti alternativi e di filtri ad alto contenuto tecnologico di Philip Morris.

Attiva a Zola Predosa (Bologna) dal 1963 con uno stabilimento per la produzione di filtri ad alto contenuto tecnologico, l’azienda è stata ampliata a partire daI 2014 grazie a un investimento di i miliardo per la costruzione, l’avviamento e la messa a regime dei primo impianto produttivo al mondo per la produzione su larga scala di prodotti del tabacco senza fumo. Lo stabilimento bolognese è il Lead site per i 44 stabilimenti PMI presenti in 32 paesi e rappresenta il centro di eccellenza mondiale per l’innovazione nelle tecnologie produttive per la manifattura di filtri e prodotti a potenziale rischio ridotto.

In qualità di primo stabilimento del suo tipo nel mondo, PMMTB è oggi il centro in cui vengono definiti i processi industriali per la produzione dei prodotti innovativi. Il know-how sviluppato al suo interno viene esportato all’estero nella fase di riconversione delle altre affiliate produttive del gruppo, estendendo così oltre i confini del territorio nazionale il perimetro potenziale di attivazione di filiera dell’attività manifatturiera svolta in Italia.

Tra il 2017 e il 2018, PMMTB ha investito oltre 336 milioni di euro in R&D, innovazione tecnologica e ottimizzazione dei processi.

Oltre 1600 persone sono attualmente impiegate a Bologna a pieno regime (grazie al nuovo investimento sono stati creati oltre 1200 nuovi posti di lavoro, che si sommano alle circa 400 persone già operative prima dell’avvio dell’investimento nel 2014).

Il numero di occupati complessivi in Italia, tra le due affiliate, è pari a 2.460 persone, rispetto agli 864 del 2014.

Quanto spendete annualmente in marketing e promozione del prodotto (Iqos).

Nel 2019 i prodotti senza fumo hanno rappresentato il 71% delle spese commerciali e il 98% delle spese in ricerca e sviluppo (“PMI Annual Report 2019”). Solo tre anni fa, queste cifre erano il 15% e 72% a testimonianza di quanto l’azienda sia completamente focalizzata sui prodotti senza fumo.

Il crescente trasferimento di risorse dalle sigarette ai prodotti senza combustione è in linea con la visione e l’obiettivo finale di una completa sostituzione.

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Report Buongiorno Michele, di seguito ti fornisco una lista di risposte alle tue domande, nella speranza siano sufficientemente esaustive da poterci concedere un’intervista:

1) Il nostro servizio racconterà la recente evoluzione del mercato del tabacco in Italia, con un focus sui nuovi prodotti a tabacco riscaldato e sul regime di tassazione a cui sono sottoposti. Nello specifico saremmo interessati a conoscere:

- Le prospettive di Philip Morris rispetto al suo prodotto a tabacco riscaldato, Iqos

- Se pensate, o meno, che questi prodotti possano sostituire sul lungo periodo le sigarette tradizionali

- Come commentate e giudicate la tassazione agevolata di cui godono questi prodotti in Italia

- Se esistono evidenze scientifiche che dimostrano la minore tossicità dei prodotti a tabacco riscaldato e una riduzione del danno

- A quanto ammonta la voce di bilancio destinata a Ricerca e Sviluppo ogni anno in Italia

- A quanto ammonta la percentuale di fatturato di Iqos rispetto alle sigarette tradizionali. Da qui a 5 anni che tipo di evoluzione vi aspettate?

- Quanto spendete annualmente in marketing e promozione del prodotto (Iqos)

2) Saremmo interessati a svolgere l’intervista - dalla durata di circa 45 minuti

- nella sede italiana di Philip Morris a Crespellano (Bo). La puntata andrà in onda nella seconda metà di maggio.

3) Abbiamo già richiesto interviste a società scientifiche nazionali e internazionali, e ad altre aziende del settore come British American Tobacco; inoltre ci è stata garantita una presenza da parte delle autorità sanitarie italiane (Ministero della Salute e/o Istituto Superiore Sanità) e saranno intervistati numerosi decisori italiani.

Visto l’interesse pubblico della materia e il fatto che analizzeremo il ruolo dei principali player del settore e i loro prodotti riteniamo di reciproco interesse la presenza di Philip Morris all’interno della puntata. In caso non foste disponibili, ne dovremo dare conto ai nostri telespettatori.

Per motivi legati alla produzione ti chiedo cortesemente una risposta entro la giornata di venerdì 24 aprile. Un saluto, Laura Nesi Redazione Report

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Buongiorno Giulio (Valesini), come anticipato al telefono a te e alla tua collega Lauta, avremmo bisogno di sapere quali saranno i temi che vorreste approfondite e quali saranno, se ve ne sono, le altre voci rappresentate. Durante la nostra ultima telefonata mi dicevi, infatti, che avresti sentito anche altri attori, tra cui altre aziende del settore. Rispetto ai documenti che ti ho mandato in data 19 marzo u.s., volevo sapere se era quello che ti serviva o se avessi bisogno di altro. Resto a tua disposizione. Grazie, a presto

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Buonasera Michele, ho provato a chiamarti ma purtroppo senza successo. Come avevamo ampiamente chiarito telefonicamente, l’intervista che vi abbiamo chiesto, come del resto è ovvio vista la natura del programma Report, è video e non scritta. Fammi sapere come è possibile organizzarci. Come se pre da parte nostra avrete la massima disponibilità come nello spirito di servzio pubblico che ci contraddistingue. Cordiali saluti Giulio Valesini

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Ciao Giulio, rispetto ad un possibile intervento di Philip Morris, ti chiederei di mandarmi le domande in modo da poterti inviare le risposte. Rispetto al materiale che ti ho mandato, resto a tua disposizione qualora avessi bisogno di altro. Grazie, a presto

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Buongiorno Giulio, come d’accordo, ti allego quanto segue:

1) Comunicato stampa e il documento completo dell’FDA circa l’autorizzazione alla commercializzazione negli Stati Uniti d’America di IQOS — ottenuta da Philip Morris International (PMI) lo scorso 30 aprile 2019 a seguito di un processo di revisione durato oltre 2 anni che ha portato l’agenzia del farmaco statunitense a decretare che IQOS — primo prodotto della sua categoria a ottenere tale riconoscimento - “è uno strumento idoneo alla tutela della salute pubblica”; Mentre a questo link e in allegato puoi trovare i contenuti del webinar della Food and Drug Administration statunitense su “Perché la FDA ha autorizzato la commercializzazione del prodotto a tabacco riscaldato”

2) Lo studio Exposure Response Study (ERS), primo studio clinico di PMI di media-lunga durata atto a valutare in maniera diretta il potenziale di riduzione del danno del prodotto a tabacco riscaldato IQOS nei fumatori che passano al suo utilizzo.

3) Una raccolta delle dichiarazioni di alcune delle principali autorità governative che hanno analizzato o rivisto la letteratura scientifica disponibile su IQOS.

4) Uno studio pubblicato su Tobacco Control e condotto da ricercatori dell’American Cancer Society volto a determinare se l’introduzione di IQOS abbia effettivamente avuto un impatto sulle vendite di sigarette in un’economia di grandi dimensioni come il Giappone. Lo studio conferma che le vendite di sigarette hanno iniziato un calo sostanziale in seguito all’introduzione di lQOS in ognuna delle 11 regioni analizzate in Giappone.

5) lI link al sito di PMI Science dove, oltre a tutta la nostra attività di ricerca scientifica, potrai trovare una sezione dedicata agli studi indipendenti.

6) La strategia contro il tabagismo del governo UK denominata “Towards a Smoke Free Generation”;

7) La Convenzione Quadro per il Controllo del Tabacco (FCTC), istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui all’articolo i si menziona come “tobacco control’ means a range ofsupply, demand and harm reduction strategies that aim to Improve the health of a population by eliminating or reducing their consumption of tabacco products and exposure to tabacco smoke”; Nel ringraziarti, resto a disposizione per qualsiasi ulteriore informazione di cui dovessi avere bisogno. A presto Michele

 “LA CORTINA DI FUMO” di Giulio Valesini collaborazione Elisa Bruno Laura Nesi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo del tabacco riscaldato. Sta sostituendo, prendendo sempre più piede, sostituendo la sigaretta tradizionale, il problema è che sta prendendo piede anche tra i giovanissimi, ma su questo indaga l’antitrust. Perché?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A febbraio di quest’anno, l’Università di Stanford ha pubblicato un dossier di oltre 300 pagine sulla massiccia strategia di marketing portata avanti da Philip Morris negli ultimi anni per rendere popolare il suo prodotto a tabacco riscaldato. Tra boutique, design accattivanti, party, festival e vip, il dossier si concentra soprattutto sull’uso dei social network, e in particolare di Instagram, quello più usato dai giovani. Otto account ufficiali, oltre 400mila hashtag #Iqos, post studiati per rendere il prodotto desiderabile, uso di giovani influencer, forse anche troppo. A maggio 2019 un’indagine di Reuters accusa Philip Morris di utilizzare per la sua campagna social influencer sotto i 25 anni, contravvenendo alla sua stessa policy, tanto che la multinazionale fa mea culpa e la sospende.

ROBERT JACKLER – GRUPPO DI RICERCA IMPATTO PUBBLICITA‘ TABACCO UNIVERSITÀ STANFORD I giovani vivono su Instagram, Tik tok, Facebook, Twitter. Quindi queste aziende usano musicisti, modelle, gli attori - per far vedere i loro prodotti.

GIULIO VALESINI In che misura questa strategia di comunicazione di Philip Morris su Iqos ha successo tra i giovani?

ROBERT JACKLER – GRUPPO DI RICERCA IMPATTO PUBBLICITA‘ TABACCO UNIVERSITÀ STANFORD I dati mostrano che fra tutte le nazioni del mondo, l'Italia sembra avere un numero molto alto di non fumatori che usano l'Iqos. E questo è preoccupante perché Iqos e Vaping possano diventare una rampa per la dipendenza da nicotina, soprattutto per gli adolescenti.

GIULIO VALESINI Cosa sono le Iqos?

SILVANO GALLUS - ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Come nella sigaretta elettronica c'è un dispositivo elettrico che scalda un prodotto per generare un aerosol che contenga nicotina: un tabacco, è tabacco vero e proprio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Chi è stata molto attiva a promuovere i prodotti a tabacco riscaldato di Philip Morris e British American Tobacco è la nota influencer Chiara Biasi: 2 milioni e mezzo di follower, molti giovanissimi e guadagni alle stelle, come disse l’anno scorso alle Iene.

CHIARA BIASI – LE IENE 1 DICEMBRE 2019 Ok. Accetto di andare su un assorbente! Ma per 80 mila euro? Io per 80 mila euro manco mi alzo al mattino e mi pettino i capelli!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sul suo profilo Instagram ci sono le foto del 2018 che la ritraggono con Iqos. Su Facebook regalava i codici per comprare i kit a prezzi scontati. Per British American Tobacco è stata protagonista di un grande evento organizzato a Ibiza per promuovere Glo.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Laddove c'è un influencer viene evidenziato in maniera cospicua che è sponsorizzato e pagato dalla nostra azienda. Gli influencer devono avere almeno 25 anni di età, di secondo che devono essere iniziatori di prodotti di nicotina, e il terzo è che i follower che hanno, devono essere per l'85% maggiorenni.

GIULIO VALESINI Voi come fate a essere sicuri che quel prodotto poi, quella promozione non finisca per essere visualizzata ed essere attraente anche per un minorenne?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Ci siamo dati come regola che possiamo usare canali che abbiano almeno il 75% di utenti registrati adulti.

MASSIMILIANO DONA – PRESIDENTE UNIONE NAZIONALE CONSUMATORI Resta il nodo centrare della questione, cioè se è vietato fare pubblicità dei prodotti del tabacco e noi riteniamo che questi siano prodotti del tabacco. Anche un post correttamente etichettato sarebbe illegale.

GIULIO VALESINI E allora perché, scusi eh, questa ricerca l’avete fatta voi e queste sono tutte foto di influencer più o meno famose, attori, attrici, cantanti, chi più ne ha più ne metta, che hanno l’Iqos in bocca. Quindi questa è una pubblicità?

MASSIMILIANO DONA – PRESIDENTE UNIONE NAZIONALE CONSUMATORI Questa non è una ricerca: questi sono gli allegati che noi abbiamo depositato all’autorità Antitrust denunciando, con nomi e cognomi, tutte queste pratiche scorrette.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Philip Morris dichiara di avere rigidi controlli per impedire che un minore possa acquistare un Iqos sia tramite rivenditore che attraverso il suo sito ufficiale dove, per entrare, basta autodichiarare la maggiore età e poi c’è la verifica dell’identità al momento della consegna del pacco. Per capire se tutto questo è sufficiente, abbiamo verificato con Simone, 16 anni e una carta prepagata Junior di Poste Italiane per minorenni intestata a lui. L’acquisto è andato a buon fine, nonostante la carta per minori usata per pagare. Il pacco è arrivato puntuale dopo una settimana consegnato dal corriere senza domande, nelle mani del minorenne Simone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cari amici della Philip Morris, eccolo il pacchetto con l’Iqos dentro, come è finito in mano ad un minore. Probabilmente a vostra insaputa, quello che è certo è che i meccanismi che avrebbero dovuto impedire che un minore acquisti del tabacco seppur da riscaldare online sono meccanismi che non funzionano ed è anche probabile che sia figlio però anche, la conseguenza di una strategia, se uno divulga un prodotto sui social media che sono il mezzo più utilizzato, più consultato da giovanissimi e minori, e se questo prodotto viene usato con disinvoltura dagli influencer più celebrati, è facile che qualche giovanissimo possa cadere nella tentazione di usarlo e di comprarlo. Philip Morris ci scrive che in Italia non ha mai contrattualizzato influencer. Invece per quello che riguarda una delle più note, Chiara Biasi, quella che ha confessato che per meno di 80 mila euro neppure si alza dal letto per pettinarsi i capelli, il suo avvocato ci scrive che ha sì fatto pubblicità per l’Iqos ma non ha preso neppure un euro per Philip Morris ha ottenuto solo il prodotto in omaggio. Insomma è stata generosa la Chiara visto le tariffe che applica alle altre aziende. Ma non è questo il problema. La domanda è perché il nostro paese rinuncia ad incassare di tasse dai produttori di tabacco da riscaldare 1 miliardo e 200 milioni di euro per i prossimi tre anni? E poi, questo prodotto è veramente meno, più sicuro rispetto alle sigarette tradizionali? Questa inchiesta che vedrete questa sera è il frutto di una collaborazione con 10 media internazionali coordinati dal consorzio di giornalismo investigativo OCCRP e appartiene al progetto “Blowing Unsmoke”. E il nostro Giulio Valesini è entrato in possesso di una relazione del Ministero della Salute che è rimasta a lungo nascosta in un cassetto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 23 gennaio. Il segretario del partito democratico, Nicola Zingaretti sostiene la campagna elettorale del candidato presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. E fa tappa a Crespellano, vicino Bologna, nello stabilimento industriale di Philip Morris, la multinazionale del tabacco.

NICOLA ZINGARETTI – SEGRETARIO PARTITO DEMOCRATICO Oggi intanto siamo in una delle eccellenze industriali italiane e dell’Emilia-Romagna, perché questa è una terra che si è ricostruita grazie all’innovazione, e incontrare coloro che pensano all’innovazione è un segno di quello che serve a questo paese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Crespellano, il colosso del tabacco ha messo in piedi uno stabilimento su un’area di 300mila metri quadrati. È da sempre meta di pellegrinaggi dei nostri politici. Matteo Renzi ci è stato perfino due volte: nel 2014 a posare la prima pietra dei lavori e nel 2016 al taglio del nastro. È qui che Philip Morris ha scelto di produrre per il mercato occidentale, i componenti del suo nuovo prodotto di punta a tabacco riscaldato: l’Iqos.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 – 2018 Philip Morris in Italia ha fatto un discorso particolare. Ha aperto uno stabilimento che si occupa del confezionamento di tutto il prodotto per il mercato europeo. GIULIO VALESINI E gli abbiamo restituito un favore, questo mi sta dicendo?

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 No, però…

GIULIO VALESINI Un pochino sì.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 No, insomma, quando ci sono dei fenomeni, ci sono vari interessi contrapposti, naturalmente. C’era il Presidente del Consiglio il giorno che si inaugurò quello stabilimento a Bologna…

GIULIO VALESINI Philip Morris ha scelto l'Italia come punto di attacco all'Europa.

SILVANO GALLUS – ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Ha trovato un ambiente favorevole per garantire per esempio che ci fosse una agevolazione fiscale dei nuovi prodotti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2014 fu proprio il governo Renzi a dare il benvenuto in Italia ai prodotti a tabacco riscaldato. I pacchetti di heats da fumare con l’Iqos hanno goduto subito di uno sconto sulle accise del 50% rispetto alle sigarette tradizionali. In questi anni sono spuntati ovunque i negozi che vendono i prodotti a tabacco riscaldato. Gli affari vanno a gonfie vele: Philip Morris è di fatto il monopolista in Italia del mercato con il 90% di vendita. Un design accattivante e i negozi di Iqos sembrano vere e proprie boutique del lusso.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Allora, quale vuole assaggiare? Poi, volendo, possiamo assaggiare anche altri gusti.

GIULIO VALESINI Mah, una cosa, una cosa media, dai.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI La mentolata, quindi la scartiamo?

GIULIO VALESINI No, proviamo la mentolata, dai.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI La vuole provare?

GIULIO VALESINI Sì. GIULIO VALESINI Ma fa meno male?

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Allora, c’è una riduzione di circa il 90% di quelli che sono i livelli tossicologici delle sostanze nocive e/o potenzialmente nocive che vengono fuori dalla combustione.

GULIO VALESINI Fa meno male della sigaretta?

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI È presente la nicotina, che è la molecola che dà la dipendenza. Quindi, se Lei mi dice: “Io sono intenzionato a smettere di fumare”, io non gliela consiglio. Ma Lei lo vuole vedere, il funzionamento? Lo vuole utilizzare?

GIULIO VALESINI Sì, però voglio pensarci. Perché io pensavo fosse uno strumento meno...

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Eh, non è un problema, questo. Noi possiamo anche fare una dimostrazione e poi non la compra...

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A questi prodotti il legislatore non ha mai applicato la legge Sirchia. E dunque il tabacco riscaldato si può fumare anche all’interno dei luoghi pubblici.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Potrebbe dare fastidio al proprietario del locale. Può dire: nel mio locale non piace, non voglio che la utilizza.

GIULIO VALESINI Però non c’è una norma specifica?

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI No, non è multabile.

GIULIO VALESINI Eppure, l’ex ministro alla Salute Giulia Grillo aveva tentato di far applicare la legge Sirchia anche al tabacco riscaldato. Ma non c’è riuscita.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Volevamo estendere anche il divieto di fumo nei luoghi chiusi aperti al pubblico però insomma quella maggioranza in quel momento non ha voluto.

GIULIO VALESINI Perché?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Perché ci vuole una volontà politica per farlo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È finisce così che qualcuno fumi l’Iqos in una stanza di ospedale, e anche questo diventa marketing.

HOSTESS IQOS LOUNGE - STAZIONE CENTRALE DI MILANO Sono venuti clienti che mi hanno detto: sai, avevo la pressione bassa e l'infermiera mi ha chiesto se fumavo. Io le ho detto che fumavo Iqos e quindi lei mi ha detto di fumarmene una perché almeno mi si alzava la pressione.

GIULIO VALESINI In ospedale?

HOSTESS IQOS LOUNGE - STAZIONE CENTRALE DI MILANO E gliel’ha fatta utilizzare nella camera di ospedale, quindi...

GIULIO VALESINI Ammazza, oh…

HOSTESS IQOS LOUNGE - STAZIONE CENTRALE DI MILANO E ovviamente non suonano i cosini perché non è fumo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nelle grandi città ci sono anche le lounge dove puoi prenotare la prova tabacco con un coach. Nel marketing dell’Iqos nulla è lasciato al caso. A partire dall’esposizione dei modelli che hanno un design curatissimo. E alcuni negozi si presentano come gallerie d’arte.

STEWARD IQOS EMBASSY - VIA MARGUTTA ROMA Ogni cosa che vedete fa parte di un artista.

GIULIO VALESINI Ah, quindi è una galleria.

STEWARD IQOS EMBASSY - VIA MARGUTTA ROMA Sì, sì… La struttura rappresenta un po’ la molecola della nicotina. Considera che è stato fatto con materiale riciclato: tappi di bottiglia e magliettine. La struttura rappresenta un po’ la molecola della nicotina.

GIULIO VALESINI Immagino che i giovani impazziscano…

STEWARD IQOS EMBASSY - VIA MARGUTTA ROMA Ma proprio perché ci puoi giocare tantissimo pure con gli accessori, quindi…

GULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Italia negli anni ha aderito a numerosi trattati internazionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, finalizzati a limitare i danni dal tabacco. Nel 2018 l’OMS ha raccomandato che il tabacco riscaldato deve essere equiparato dal punto di vista fiscale, e normativo alle sigarette tradizionali. Tuttavia nella prima finanziaria l’allora governo Lega - 5 Stelle decide di aumentare lo sconto concesso inizialmente da Renzi: Philip Morris passa così dal 50 al 75% in meno di tasse rispetto alle sigarette tradizionali.

GIULIO VALESINI Qual è il motivo per cui un prodotto a tabacco ha un’agevolazione, un vantaggio fiscale non del 5, del 10, del 20… del 75 per cento rispetto a una sigaretta tradizionale.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Tenga presente che negli Stati Uniti il vantaggio è zero. Sono tassate nello stesso modo. In Kazakistan non sono tassate. Forse fra gli Stati Uniti e il Kazakistan avremmo potuto scegliere una via di mezzo ragionevole. Noi italiani siamo sempre generosi e ospitali con le multinazionali che vengono da fuori…

GIULIO VALESINI Ci piacciono.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Però in Sudafrica lo sconto è al 25 e il Ceo di Philip Morris ha fatto una dichiarazione pubblica dicendo “Grazie Sudafrica che ci dai questo sconto del 25”.

GIULIO VALESINI Pensi quanto ci ringraziano a noi.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Quindi potevamo anche fare noi uno sconto al 25, come il Sudafrica.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche perché alla Philip Morris gli affari vanno a gonfie vele. Da Gennaio 2019 a Marzo 2020 sono state vendute in Italia circa 4 miliardi di heatsticks. Significa: 400 milioni di ricavi in più realizzati da Philip Morris. Un gruppo di parlamentari, tra cui Nannicini voleva tassarli e destinare le entrate fiscali ai malati cronici e portatori di handicap più a rischio per il Covid-19. Ma l’emendamento al Cura Italia non è passato.

GIULIO VALESINI Quindi lei diceva: anziché uno sconto del 75% gli facciamo lo stesso lo sconto ma lo portiamo al 20%.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Questo era il nostro emendamento.

GIULIO VALESINI Perché è stato bocciato l'emendamento?

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Quello che francamente mi è dispiaciuto - che non sia stato mai preso in discussione – è stato come sbattere con un muro di gomma. GIULIO VALESINI Le hanno fatto una bella lavata di capo? Onestamente.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Mi hanno fatto sapere che non era il caso per la tenuta occupazionale. Dal mio punto di vista era una scusa.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo Nannicini la relazione tecnica che giustificò l’aumento dello sconto alle multinazionali del tabacco si basava su presupposti inverosimili.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Dal mio punto di vista inverosimile. Ovviamente è molto curioso di fronte a un settore in crescita esponenziale, stava crescendo del 200 per cento in quella fase iniziale, far finta che poi questa crescita si arresta magicamente per avere minori perdite di gettito da un beneficio fiscale che sto introducendo, mi sembra una relazione un po' curiosa.

GIULIO VALESINI Ma lo Stato per giustificare l'ulteriore vantaggio fiscale dato a Philip Morris dice vabbè ma tanto lo Stato non ci perderà tanto perché il settore non crescerà, invece non è così.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO E non è stato così.

GIULIO VALESINI Come mai in Italia siamo così generosi verso questi prodotti e rinunciamo a decine e decine di milioni tassazione?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Dato 100 il volume a livello mondiale di tabacco riscaldato, il 60 per cento è venduto a oggi in Giappone e in Corea del Sud. Questi due paesi che rappresentano il 60% del volume la fiscalità è rispettivamente in Giappone dell'80% rispetto alle sigarette tradizionali da combustione e in Corea l'89.

GIULIO VALESINI Secondo voi sono ingiustificati questi sconti fiscali così generosi al momento? ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Persino chi ne beneficia ammette che lo sconto fiscale è troppo generoso, non il nostro governo. Anche negli Stati Uniti non c’è differenza fiscale tra le sigarette anche dopo l’autorizzazione al commercio dell’Fda. Perché in Italia sì?

GIULIO VALESINI Lo Stato italiano sta permettendo una tassazione agevolata.

SILVANO GALLUS - ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Esatto.

GIULIO VALESINI Ma giustificata in qualche modo?

SILVANO GALLUS - ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Loro sostengono dal fatto che questi prodotti fanno meno male.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Si ispira a questa logica che è il principio, ripeto, sempre di riduzione del danno, lo so che la sua domanda successiva è: “Ma chi gliel’ha detto a lei che riduce il danno?”

GIULIO VALESINI Esatto. PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Lo dovrebbe dire qualcuno che ha le competenze scientifiche.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tuttavia anche in mancanza di una certezza scientifica, Paolo Tancredi in qualità di relatore della legge di delegazione europea nel 2016 offre all'industria del tabacco in Italia la possibilità di dimostrare i minori danni dei nuovi prodotti rispetto alle sigarette tradizionali, e di poter anche informare i consumatori scrivendolo sui pacchetti. Un’offerta molto generosa, perché la legge europea non prevede questa possibilità.

GIULIO VALESINI Siccome l’avete combinata voi la cosa, allora ho detto: ma cosa, ma chi vi ha convinto a farla?!

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Non me ne sono accorto però, voglio dire…

GIULIO VALESINI Lo sa che grazie a questa normativa, adesso, appunto l’Italia rischia anche una procedura?

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Dal Ministero della Sanità le fonti informali che io ho consultato mi hanno paventato anche questa possibilità di rischio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma il rischio di farci beccare una procedura di infrazione Paolo Tancredi l’ha corso, dice, solo per inconsapevolezza ma lui ha subito pressioni. Il suo nome è nella lista depositata alla Camera tra i parlamentari incontrati dai lobbisti di Philip Morris.

GIULIO VALESINI Cosa le raccontava a lei Philip Morris? La venivano a trovare per dirle ‘faccia questo su Iqos’, Iqos che proprietà ha? Che cosa le raccontavano?

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Sì, adesso diciamoci la verità…Philip Morris si butta sul prodotto da tabacco senza combustione nel momento in cui deve reagire all’emorragia causata dalle sigarette elettroniche. Comunque, insomma, loro facevano un’attività di lobby fortissima.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un’attività di lobby fortissima, lo dice chi l’ha testata sulla propria pelle. E il risultato quale è? Che se da una parte lo Stato incassa circa il 76% di tasse sulle sigarette tradizionali, dai produttori di tabacco da riscaldare incassa solo il 33%. Cioè stiamo parlando comunque di un settore in continua crescita e anche sotto emergenza Covid ha registrato a marzo il +7%. Secondo il centro studi Competere: “Portando lo sconto fiscale di cui godono dal 75% al 20% lo stato italiano potrebbe recuperare un gettito di 1,2 miliardi di euro solo in un triennio, dal 2020 al 2022. Evidentemente ci fanno schifo. Ma quale è la strategia delle multinazionali del tabacco. Se da una parte nei mercati più poveri continuano a promuovere la sigaretta tradizionale, su quelli occidentali che sono un po’ più saturi dove è cominciata anche una campagna di sensibilizzazione contro il fumo, cercano di acquistare quote di mercato divulgando il tabacco da riscaldare. Ecco e lo fanno approfittando anche un po’ dell’incertezza dei governi sul rischio della salute che può rappresentare questo nuovo prodotto. Sta di fatto che nell’aprile del 2018 Philip Morris, presenta una relazione di 8mila pagine al nostro ministero della Salute, e gli chiede sostanzialmente di valutarle una minore tossicità del prodotto rispetto alle sigarette tradizionali e anche di certificare un rischio minore per la salute rispetto alle sigarette tradizionali. L’ Istituto superiore di sanità si studia bene le carte, alla fine fa una relazione che però rimane misteriosamente chiusa in un cassetto. Il nostro Giulio Valesini però è riuscita a recuperarla.

FABRIZIO FAGGIANO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA DI EPIDEMIOLOGIA È stato chiesto. L’Istituto Superiore di Sanità ha costruito, sulla base dei dati forniti dalla Philip Morris, ha elaborato un rapporto… non è mai stato reso pubblico.

GIULIO VALESINI Quindi nessuno ha potuto leggere la valutazione dell’Istituto Superiore di Sanità su questo argomento.

FABRIZIO FAGGIANO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA DI EPIDEMIOLOGIA Noi come gruppo del Tobacco Endgame abbiamo fatto richiesta al Governo di pubblicarlo, questo alcuni mesi fa, e non abbiamo avuto risposta.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nelle 93 pagine della sua relazione, l’Istituto Superiore di Sanità avanza più di una critica di metodo sulle qualità degli studi sottoposti da Philip Morris. E mette in dubbio la validità di alcuni risultati. Ma soprattutto l’Istituto manifesta le sue preoccupazioni per la salute di chi usa il tabacco riscaldato: sottolinea la presenza di sostanze cancerogene e di alcune sostanze potenzialmente genotossiche. Critica anche la presenza del mentolo che oltre a impattare sulla salute pubblica, potrebbe incentivare i giovanissimi al fumo. E infine lancia un alert per i danni del fumo passivo dell’Iqos.

SILVANO GALLUS – ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Ci sono alcune sostanze che sono effettivamente in minore concentrazione rispetto alle sostanze presenti nelle sigarette tradizionali, però sono state trovate decine di sostanze che o non sono presenti nelle sigarette tradizionali o sono presenti con concentrazioni inferiori. E, per questo motivo insomma, questi…

GIULIO VALESINI Ci sono anche sostanze cancerogene tra queste?

SILVANO GALLUS – ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Ci sono anche sostanze cancerogene tra queste, sì. E poi ci sono, appunto, ci sono sostanze di cui non sappiamo ancora niente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Istituto Superiore della Sanità conclude che Philip Morris non è riuscita a dimostrare che Iqos a parità di utilizzo riduca le sostanze tossiche e sia potenzialmente meno a rischio per la salute rispetto alle sigarette tradizionali. La relazione viene consegnata come da prassi al direttore della prevenzione del ministero della Salute. Claudio D’Amario, che oggi ci dice che l’avrebbe girata al gabinetto del ministro Grillo. Ma qui c’è un mistero.

GIULIO VALESINI Lei questo rapporto l’ha mai visto?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 No.

GIULIO VALESINI Non gliel’hanno mai fatto vedere...

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 No.

GIULIO VALESINI Come mai a Lei non glielo hanno fatto vedere?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Ma, non lo so, perché in quel momento… di solito, diciamo, a me arriva tutto…

GIULIO VALESINI Questo è stato comunicato a Gennaio 2019 a Philip Morris.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Sì, però la richiesta, se non erro…

GIULIO VALESINI La richiesta è stata fatta ad Aprile 2018.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Prima, quando c’era ancora l’altro Ministro.

GIULIO VALESINI E però la risposta è arrivata quando Lei era ministro…

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Sì sì ma è arrivata successivamente, sì sì, questo lo so…

GIULIO VALESINI Mi chiedo come mai non gliel’hanno fatto vedere.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Ma, non lo so… GIULIO VALESINI Voi date il parere a Philip Morris a fine 2018 inizi 2019, dicendo ‘Voi non siete in grado di dimostrare una riduzione del danno, eccetera, e contemporaneamente il governo gli abbassava la tassazione, allora delle due l’una.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Io di Philip Morris non so nulla. Non credo che il Movimento 5 Stelle abbia avuto a che fare con Philip Morris, direttamente. GIULIO VALESINI Lei si è trovata sola anche dentro al suo partito rispetto al tabacco riscaldato?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Sola, sì mi sono trovata sola sì. Non è che è la prima volta, dico, è successo anche con altri argomenti, quindi...

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo una ricostruzione del Fatto Quotidiano, nel 2017 la Philip Morris avrebbe ingaggiato gli esperti di Casaleggio per una consulenza sulla comunicazione digitale in Italia che è coincisa con l’apertura del canale Twitter della multinazionale.

GIULIO VALESINI Può avere influito, secondo Lei, il fatto che Casaleggio avesse rapporti commerciali, secondo lei sulla scelta del partito.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Non credo proprio. Spero proprio di no e comunque di tutte queste cose io, ovviamente, ero all’oscuro, non avevo alcun tipo di informazione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche British American Tobacco, l’altro colosso internazionale ha creato il suo prodotto per il tabacco riscaldato. Si chiama Glo. E anche loro hanno chiesto al ministero della Salute che gli venga riconosciuta la minore tossicità e riduzione del rischio alla salute per il loro prodotto. E anche a loro è andata male.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Non abbiamo avuto una valutazione di riconoscimento del rischio ridotto.

GIULIO VALESINI Quindi voi non potete dire che il vostro prodotto ha un rischio ridotto e un potenziale danno minore per la salute di chi lo consuma. Non lo potete dire.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Non si può dire in Italia che i prodotti sono a rischio ridotto per la salute.

GIULIO VALESINI Io mi chiedo perché in Italia il ministero della Salute non ha pubblicato risultati di questo tipo di analisi?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Indubbiamente anomalo ma, dottore, lo deve veramente chiedere al ministero della Salute.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nonostante l’Istituto Superiore di Sanità avesse bocciato i suoi test, l’attività di Philip Morris non si arrende. Si rivolge alla società di lobbying Solving, coinvolge il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, lo scopo, è quello di spingere gli epidemiologi della Regione che si occupano di prevenzione oncologica, a raccomandare l’Iqos ai pazienti che non riescono a liberarsi dal fumo. E a febbraio ottengono l’incontro.

GIULIO VALESINI In 20 anni non le era mai capitato una roba del genere?

GIUSEPPE GORINI – EPIDEMIOLOGO ISTITUTO STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA La realtà è andata oltre le mie fantasie più diciamo paranoiche, in qualche modo. Gli chiedono un incontro con la Regione, e quindi poi anche con noi, al fine di raccomandare, di suggerire agli operatori sanitari di raccomandare ai propri pazienti l’uso di questi prodotti a tabacco riscaldato, al fine di procedere a questa riduzione del danno.

GIULIO VALESINI Voi medici?

GIUSEPPE GORINI – EPIDEMIOLOGO ISTITUTO STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Noi come Regione Toscana raccomandassimo al personale sanitario toscano, che opera nelle ASL e negli ospedali, di suggerire questo ai pazienti.

GIULIO VALESINI Perché io ho ricostruito le date. Voi, l’incontro, l’avete fatto a febbraio...

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Mi sembra, sì.

GIULIO VALESINI Okay. Da quello che risulta dalla risposta del Ministero, il Ministero aveva comunicato a Philip Morris il risultato, l’esito negativo rispetto all’utilizzo dei claim meno tossicità e riduzione del danno a gennaio.

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Sì.

GIULIO VALESINI Quindi Philip Morris, quando vi incontra, era a conoscenza del fatto che il Ministero gli aveva detto: “Attenzione, voi, questo, non lo potete affermare...”

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Questo è un problema di Philip Morris. Non è un problema mio.

GIULIO VALESINI Per capire l’approccio, ma i lobbisti e i rappresentanti di Philip Morris hanno fatto menzione del fatto che c’era una relazione negativa dell’Istituto Superiore?

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Non mi sembra.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma di chi è la società di lobby Solving BFM che aveva chiesto l’incontro tra il governatore Rossi e Philip Morris? Il presidente è Wladimiro Boccali ex sindaco di Perugia, membro della direzione nazionale del Partito Democratico. All’incontro con i medici toscani ci va Andrea Mazzoni, che è socio e consigliere della Solving, candidato nel 2018 alla Camera con Articolo 1, lo stesso partito da cui proviene il governatore Enrico Rossi oggi ritornato nel partito democratico. Legittima attività di relazione pubblica, si direbbe, eppure Andrea Mazzoni con noi non vuole parlare. GIULIO VALESINI “Raccomandare Iqos come strumento valido e efficace per operatori sanitari”, richiesta mandata al presidente Rossi. Lei è Articolo 1 come il presidente Rossi, ma ha sfruttato questo fatto?

ANDREA MAZZONI – RELAZIONI ISTITUZIONALI SOLVING BFM Guardi io non sono iscritto a nessun partito.

GIULIO VALESINI Come no.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Enrico Rossi girò la richiesta della Philip Morris al suo assessore alla Salute, Stefania Saccardi, che facilitò l’incontro con i medici dell’Ispro.

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Io nemmeno li ho ricevuti, per la verità.

GIULIO VALESINI No, mi stupisce proprio il fatto che si arrivi a chiedere un incontro…

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Beh… Questo mi stupisce fino a un certo punto perché…

GIULIO VALESINI Nelle segrete stanze della Regione…

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Nelle segrete stanze, insomma…

GIULIO VALESINI Questo incontro non sarebbe stato mai reso pubblico, immagino…

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Ma, non ce n’era motivo, non se n’è fatto niente alla fine…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono arrivati al punto di incontrare i medici perché questi consigliassero ai loro pazienti che non riuscivano a smettere, il prodotto Iqos. Hanno dovuto percorrere la strada della lobby, della politica perché quella sanitaria era stata sbarrata dalla bocciatura dell’Istituto Superiore di Sanità. Con noi invece hanno preferito la strada del silenzio hanno preferito scriverci. E hanno giustificato la bocciatura dei loro test perché l‘Istituto Superiore di sanità secondo loro avrebbe concesso poco tempo per integrare i documenti successivi al 2017. Ecco, tre mesi secondo loro non sarebbero stati ritenuti sufficienti per integrare e raccogliere il materiale richiesto. Non solo, Philip Morris aveva anche effettuato dei test sui topi per 18 mesi. Ma la relazione che avrebbe presentato riguarderebbe solo 10 mesi. Mancherebbe la relazione finale, fatto che è stato stigmatizzato anche con una certa ironia dall‘Istituto Superiore di Sanità. Però Philip Morris sottolinea anche il fatto che a differenza del nostro Istituto Superiore di Sanità altri prestigiosi enti come quello della Germania, del Giappone, hanno riconosciuto un minore rischio della salute di Iqos rispetto alle sigarette tradizionali. Citano anche la l’FDA Ma l’FDA ha concesso solo un permesso alla commercializzazione motivato da un generico interesse per la salute pubblica. Non è entrata mai scientificamente a certificare i minori rischi per la salute del tabacco riscaldato. L’intera risposta della Philip Morris la potete trovate sul nostro sito. Ma mentre registravamo gli studi è arrivata la diffida di Philip Morris ad andare in onda a pubblicare la relazione dell’Istituto Superiore di Sanità perché violeremmo secondo loro segreti d’ufficio, perché ci sarebbero dei segreti industriali. Ora noi dei segreti industriali di Philip Morris non ci interessa nulla, ci interessa la salute dei cittadini. Ecco non vorremmo che poi dopo la vostra attività di lobby che già comporta il fatto che dobbiamo rinunciare probabilmente per i prossimi tre anni a un miliardo e 200 milioni di welfare che ci avrebbero fatto comodo e dopo la vostra attività di lobbying presso quei medici per sponsorizzare un prodotto ai pazienti che non riescono a smettere di fumare, dopo che c’è stato un alt dell’Istituto Superiore di Sanità, ecco non vorrei che alla fine il problema siamo noi di Report che abbiamo avuto a cuore la salute dei cittadini italiani. Ricordiamo anche che l’attività di lobbying che è stata fatta attraverso delle persone che sono vicine o fanno parte di Articolo 1, che è il partito dell’attuale ministro della salute Roberto Speranza, spetterebbe a lui pubblicare questa relazione oggi che riguarda l’alt dell’Istituto Superiore di sanità al prodotto della Philip Morris. E poi per quello che riguarda invece i contatti tra Philip Morris e Casaleggio, Casaleggio ci ha scritto che lui non rivela i nomi dei suoi clienti. Philip Morris non rivela quelli dei suoi fornitori. Ecco insomma hanno alzato una bella cortina di fumo quando invece andrebbe diradato per eliminare i sospetti di conflitti di interesse. Così come anche dovrebbero farlo tutti i ricercatori sul tema, nel campo del fumo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2017 un ex dirigente dell’OMS, Derek Yach, tra gli autori della Convenzione quadro per la lotta al tabagismo, crea la fondazione per “Un mondo senza fumo”. Dicono di essere indipendenti. Ma a leggere il bilancio si scopre che ha un unico finanziatore: Philip Morris, che si è impegnata a dare un miliardo di dollari nei prossimi anni. Sulla dichiarazione fiscale del 2019 c’è scritto che la fondazione ha ricevuto 80 milioni di dollari in un anno e solo da Philip Morris.

SILVIO GARATTINI – PRESIDENTE ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI È una specie di presa in giro dell’umanità perché per avere un mondo privo di fumo basterebbe che loro smettessero di fare il mestiere che fanno. Alle aziende che producono il tabacco, a loro interessa fondamentalmente che la gente rimanga dipendente dalla nicotina, perché poi che utilizzino una cosa o l’altra alla fine poco cambia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma proprio dalla fondazione “Un mondo senza fumo” dell’ex dirigente dell’OMS, Derek Yach, supportata da Philip Morris, sono partiti nell’ultimo anno 8 milioni di dollari verso il centro di ricerca per la riduzione del danno da fumo che si trova presso l’università di Catania. E in previsione arriveranno 23 milioni. Il centro è stato fondato dal professor Riccardo Polosa.

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Un crociato contro il fumo. Ti sorprende?

GIULIO VALESINI Ma la fondazione è una fondazione indipendente?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO È assolutamente indipendente.

GIULIO VALESINI Ma lei ci crede?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Ci credo fermamente anche perché il presidente della fondazione è un pezzo grosso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità…

GIULIO VALESINI …infatti, è diabolica…

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO …che ha addirittura creato il meccanismo del controllo del tabacco mondiale. Il famoso FCTC.

GIULIO VALESINI Però le viene da ridere. Le viene un po’ da ridere.

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Mi viene da ridere per la sua domanda che mi sembra un po’ tendenziosa.

GIULIO VALESINI Tendenziosa. Scusi, ma come fa a essere tendenziosa una domanda che le chiede: ma, una fondazione per un futuro, per un mondo senza fumo, finanziata da Philip Morris sembra una roba molto ipocrita. Glielo posso dire? RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Non è ipocrita perché ormai la Philip Morris l’ha detto pubblicamente più di una volta, sta investendo miliardi di dollari per prodotti senza fumo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma al centro del professor Polosa i soldi della fondazione dell’ex dirigente dell’OMS non arrivano direttamente, passano attraverso uno spin off dell’università: la società Eclat srl. Tra gli obbiettivi di Polosa c’è quello di ridurre il danno provocato dal tabacco, e mettere a confronto i prodotti del tabacco riscaldato e la sigaretta elettronica.

GIULIO VALESINI Philip Morris ha iniziato a vendere l’Iqos perché ha visto che vendeva meno sigarette?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Le multinazionali del tabacco per evitare di farsi sorpassare dall’industria indipendente delle sigarette elettroniche si sono dovute mettere al passo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, anche se Eclat è uno spin-off universitario, ha tra i suoi soci Md Tech, che a sua volta possiede Eurovape, cioè un'azienda che vende sigarette elettroniche e articoli per fumatori con sede a Torino. Non ne limita l’indipendenza? Leggendo lo statuto della società, che dovrebbe fare ricerca sui potenziali rischi delle sostanze per sigarette elettroniche, si vede che può fare anche campagne promozionali sulla sicurezza di tutti gli strumenti da "fumo alternativo". Un’altra contraddizione.

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Noi, quello che noi facciamo è: venire incontro al fumatore e dirgli “Guardate, questo è il nostro package, queste sono le opzioni: vuoi un farmaco per smettere? Qua c’è il farmaco. Vuoi una pipa di plastica per smettere? Qua c’è. C’è una sigaretta elettronica o vuoi scegliere un liquido? Vedi se ti va bene. C’è il tabacco riscaldato se non ti piace la sigaretta. Vuoi il tabacco masticabile? Vuoi la gommina alla nicotina?”. Scegli quello che secondo te è la cosa giusta per te per smettere di fumare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E di certo Polosa gestisce un centro che dovrebbe limitare i danni provocati dal fumo, però poi è anche socio della Eclat, una società che è uno spin off dell’università di Catania. Che ha sua volta è finanziata dalla Philip Morris, in maniera indiretta attraverso la fondazione dell’ex dirigente dell’Oms. Dentro la Eclat però c’è chi vende le sigarette elettroniche, chi ha il mandato per fare la ricerca sui danni sulle sigarette elettroniche e ha anche il mandato di fare promozione per queste sigarette elettroniche. Insomma è uno e trino. Poi c’è il professor Polosa che è anche membro della Liaf, Lega antifumo italiana, con lui ci sono anche due soci, quelli dello spin off che lo finanziano. Ecco insomma ma alla fine la Liaf, la lega antifumo, è un’associazione che vuole promuovere la salute o è lo strumento condizionato in mano alle multinazionali del tabacco, che vogliono governare il passaggio delle perdite di quote di mercato delle sigarette tradizionali in quello da ampliare del mercato del tabacco riscaldato? Insomma ecco, capire chi sono i santi e chi sono i peccatori è fondamentale perché in mezzo c’è la salute delle persone. Poi non vorrei che alla fine gli unici peccatori certificati siamo noi di Report che questa storia l’abbiamo raccontata.

Sigaretta elettronica, l'Oms: “Danneggia il cervello degli adolescenti”. Le Iene News il 23 gennaio 2020. L'Organizzazione mondiale della sanità lancia l’allarme sulla sigaretta elettronica: rischi soprattutto per gli adolescenti. Con Alessandro Politi vi abbiamo parlato di fake news e pericoli delle e-cig. “Le sigarette elettroniche sono dannose per la salute e non sono sicure". L’Organizzazione mondiale della sanità lancia l’allarme e consiglia: "Laddove non siano vietate, devono essere regolamentate". "Possono danneggiare il feto in crescita”, prosegue l’Oms, “e sono particolarmente rischiose se usate dagli adolescenti perché creano dipendenza nel cervello in via di sviluppo”. L’allarme è contenuto in un documento di domande e risposte pubblicato sul sito e rilanciato su Twitter. "Le e-cig aumentano il rischio di malattie cardiache e disturbi polmonari”, recita l’analisi dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’allarme sulle sigarette elettroniche è partito dall’America con i casi di alcune malattie e vittime che sarebbero collegabili all’uso di e-cig. Con Alessandro Politi, nel servizio che vedete qui sopra, siamo volati negli Stati Uniti per indagare e per capire se “svapare” sia davvero pericoloso per i polmoni. La Iena ha raccolto la testimonianza della madre di uno di questi pazienti, ricoverato in un ospedale in coma. “Mio figlio non ha mai avuto nulla sin da ragazzino, neanche l’asma, è sempre stato in salute”, racconta la donna ad Alessandro Politi. La sua è una bruttissima infezione polmonare che sarebbe legata all’utilizzo della sigaretta elettronica. E non è solo l’idea della madre. “I medici dicono che è stata la sigaretta elettronica e il fumo a distruggere i polmoni di mio figlio", racconta la donna a Politi. "Il Centro per il controllo delle malattie di Atlanta mi ha contattato, stanno esaminando il nostro caso. Hanno chiamato anche i medici e gli infermieri di questo ospedale”. Con Alessandro Politi ci siamo occupati in particolare anche dei possibili rischi per la salute legati allo svapo da parte degli adolescenti che usano la sigaretta elettronica (clicca qui per il secondo servizio). Uno di loro, di 14 anni, ci racconta di aver iniziato a svapare a 12 anni. “Tutti iniziano a fumare per farsi fighi”, ci ha detto una 14enne. “La sigaretta elettronica è molto carina anche dal punto di vista estetico”, spiega. “Ho iniziato con l’elettronica perché non volevo fumare le sigarette normali”, ci dice un altro adolescente. “L’odore del fumo, il sapore mi danno fastidio”, gli fa eco un’altra 14enne.

Michele Ainis per “il Venerdì - la Repubblica”l'11 febbraio 2020. Fumus persecutionis è un brocardo che risale al Medioevo. Indica un sospetto di persecuzione, ed è l' ombrello con cui i parlamentari si proteggono dalle inchieste giudiziarie. Invece la persecuzione dei fumatori non è un sospetto, bensì piuttosto una certezza. Che dura almeno dal Seicento, quando il fumo era considerato un rito demoniaco, e dunque per i fumatori in Russia c' erano scudisciate sulla schiena, in India tagliavano loro le labbra, in Cina finivano con la testa mozzata, in Iran gli si versava piombo fuso in gola. Non siamo ancora a questo (e meno male); ma a quanto pare ci avviamo sulla stessa strada. Multe, divieti, immagini horror sui pacchetti di sigarette, castighi della più varia risma. Perfino Erdogan, nel dicembre 2018, ha firmato una legge che introduce la tolleranza zero; dunque nemmeno i turchi possono più fumare come un turco. Alle nostre latitudini, in questa crociata si è recentemente distinto il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Con un annuncio perentorio: a marzo scatterà la proibizione d' accendersi una "bionda" alla fermata dell' autobus o del tram. Dopodiché sarà la volta dello stadio, degli altri spazi pubblici, fino al cortile di casa (entro il 2030). Causa giustificativa dell' editto: l' inquinamento. Non tanto i danni da fumo passivo, non tanto il tappeto di mozziconi spenti che copre i marciapiedi, no: la guerra al fumo è un capitolo della lotta contro le polveri sottili, tant' è che s' iscrive nel nuovo regolamento comunale "Aria-clima". Argomento forse vincente, ma non del tutto convincente. S' espone all' obiezione di Paolo Del Debbio (Libero, 22 gennaio): se è per questo, inquinano di più le flatulenze. Dati alla mano (quelli offerti dall' Human Gastrointestinal Physiology and Nutrition Department di Sheffield), ogni peto contiene il 59 per cento d' azoto, oltre a metano, ossido di carbonio, idrogeno e varie altre sostanze. A Milano, significa 2 milioni di litri di gas al giorno, un' emergenza atmosferica. Insomma, toni incarogniti, da una parte e dall' altra. I fumatori, tuttavia, possono accampare una scusante: ogni limite ha una pazienza, direbbe il buon Totò. E loro sono stati provocati, vessati, bersagliati con rinnovata lena fin dagli anni Novanta, quando prende corpo il nuovo pensiero igienico globale. Una raffica di misure normative che immediatamente si diffonde in lungo e in largo: con le leggi del 1991 e del 1992 in Francia; con il Protection from Tobacco Act del 1991 e con il Libro bianco del 1998 in Gran Bretagna; con la legge generale sul tabacco del 1995 in Austria; con l' Executive Order 13058 del 1997 negli Stati Uniti; con la risoluzione approvata nel 1997 dal Parlamento europeo; con la legge del 1998 in Germania; con il Real Decreto 1293 del 1999 in Spagna; o infine con i 15 provvedimenti normativi, via via più rigidi e severi, approvati in Canada fra il 1986 e il 1999. E in Italia? Ha fatto da battistrada l' ex ministro Girolamo Sirchia, con la legge antifumo del 2003: divieto assoluto in tutti i luoghi chiusi, ad eccezione dei locali riservati ai fumatori. Che peraltro devono poggiare su una superficie minore, più angusta e circoscritta; chissà mai perché, chissà quale ragione superiore impedisca d' aprire un ristorante per soli fumatori. Lui, del resto, avrebbe fatto anche di peggio, chiudendo per sempre i distributori automatici di sigarette, dettando moniti e censure nei film, accompagnando con un sottotitolo le vecchie pellicole di Humphrey Bogart, dove il fumo creava un' atmosfera irripetibile. Proposte estreme, come quella formulata - sempre nel 2003 - da Lancet, autorevolissima rivista medica inglese: mettere il tabacco fuorilegge, trasformando il possesso di sigari e sigarette in un vero e proprio reato. Sarà stato per questo, sarà per le colpe dell' accanimento salutista, che i fumatori hanno smesso d' arrendersi ai propri sensi di colpa. Sicché si ribellano, a partire dai più illustri. In un' intervista del 2006 al Corriere della sera, Andrea Camilleri e Alda Merini risposero all' unisono: «Adesso basta, non ne possiamo più. L' alcol fa più danni del fumo, però nessuno va alla gogna per aver bevuto una grappa dopo cena». Numeri alla mano, avevano ragione: una ricerca Enpam-Eurispes (ottobre 2018) stima 435 mila vittime dell' alcol in un decennio, ben più di quante in Italia ne abbia procurato il consumo di tabacco e droghe. Senza contare la pigrizia: secondo l' Organizzazione mondiale della sanità, uccide quanto il fumo. O tutte le altre abitudini insalubri, come la pastasciutta, che a lungo andare provoca il colesterolo. Dovremmo mettere all' indice anche quella? Per scongiurare questi paradossi non resta che chiedere soccorso alla Costituzione, la regola più alta. Perché il fumo fa male, su questo non ci piove. Tuttavia la nostra Carta (articolo 32) declina la salute come un diritto, non già come un dovere. Significa che ciascuno ha la libertà di farsi male, purché non rechi danno agli altri. Proibire di fumare dentro casa, pena l' obbligo di vendere il proprio appartamento (come stabilì, nel 2002, il consiglio d' amministrazione di un lussuoso condominio di Manhattan), non è solo crudele, è pure incostituzionale. Quanto al fumo all' aria aperta, il dibattito è per l' appunto aperto. Ricordiamoci, però, che tocca oltre dieci milioni di italiani, avranno anche loro dei diritti. E ricordiamo quanto incassa lo Stato italiano dalle accise sulle sigarette: 11 miliardi l' anno, la finanziaria del vizio. Ma è un vizio pure l' ipocrisia di Stato, di chi con una mano ti bastona mentre con l' altra ti incoraggia, giacché altrimenti farebbe bancarotta. E allora, in tempi di proibizionismo forsennato, non c' è che una soluzione: vietiamo di fumare anche allo Stato.

Marco Morello per ''La Verità'' il 15 febbraio 2020. L'autorevolezza si misura anche con la capacità di ammettere di essersi sbagliati, di dare al proprio errore la medesima visibilità riservata al contenuto originale. Il che sarebbe due volte auspicabile quando si maneggiano argomenti delicati che riguardano la salute pubblica. E invece, nel caso dell' Oms, pare non essere la regola. I fatti: lo scorso 20 gennaio l' Organizzazione mondiale della sanità lancia sul suo sito una serie di domande e risposte sul tema delle sigarette elettroniche. Lo scopo è spiegare una volta per tutte se e quanto siano davvero pericolose. Il documento scorre tagliente e assertivo su diversi aspetti, suona come una condanna con rari spiragli, viene rilanciato attraverso una lunga catena di cinguettii sull' account Twitter ufficiale (@who, oltre 5 milioni di follower). Peccato contenga inesattezze e leggerezze contestate con veemenza dal mondo scientifico, talmente evidenti da rendere inevitabile una marcia indietro: una nuova versione corretta, mandata online il 29 gennaio. Senza clamore. Senza sequenze di tweet o infografiche. Solo con un cambio della data di pubblicazione e scordiamoci il passato. Un colpo di spugna che non è sfuggito ai più attenti, a chi aveva conservato la vecchia versione (consultata dalla Verità e ancora leggibile da chiunque tramite strumenti come web.archive.org, che hanno memorizzato 410 miliardi di pagine obsolete o fatte sparire dal Web). Operando un confronto, alcune inesattezze e omissioni risultano palesi anche ai non addetti ai lavori: a proposito delle sostanze tossiche contenute nell' aerosol delle ecigarette, l' Oms citava genericamente il glicole, che è presente nei prodotti antigelo ed è tossico. Però ne esistono due tipi: quello etilenico, che effettivamente è nocivo; quello propilenico, un ingrediente che si usa nell' industria alimentare e negli inalatori per gli asmatici. L' esatto contrario di un veleno, a meno che non s' ipotizzi un complotto per sbarazzarsi di chi non respira bene. Ecco, nelle sigarette elettroniche c' è il secondo. Come la risolve allora l' Oms? Cancella ogni riferimento al glicole. Punta l'indice contro generiche sostanze tossiche, tanto la vaghezza spaventa lo stesso se non di più. Al quesito se le sigarette elettroniche possano causare danni polmonari, ribatteva con poche ossute righe, citando i 2.409 casi ospedalieri e le 52 morti confermate dal Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie americano. Peccato che l' ente stesso abbia chiarito che quei decessi dipendevano soprattutto dai liquidi illegali (come il Thc, uno dei composti della cannabis) usati dai consumatori per ricaricare i dispositivi. Non erano sostanze lecite, venivano spesso rimediate da spacciatori. L' Oms, nella revisione del 29 gennaio, propende dunque per lunghe perifrasi e affastellamenti di dati, in cui non può evitare di citare che su oltre 2.000 casi presi in considerazione Oltreoceano, l' 82 per cento dei pazienti usavano un qualche prodotto contenente Thc.  Dettaglio sostanziale, prima del tutto taciuto. Ancora, prima lancia il sasso, poi nasconde la mano: alla domanda se le ecigarette sono più pericolose di quelle tradizionali, il 20 gennaio parlava di chiari rischi per la salute e decretava che non sono per niente sicure («by no means safe», si leggeva). Nella nuova versione, quell' espressione tanto definitiva scompare, le due righe di risposta diventano 12, l' Oms sottolinea che i fattori sono molteplici, dalle caratteristiche del prodotto alla sua frequenza d' uso. Afferma che è difficile generalizzare sul tema. Cioè l' opposto di quello che aveva fatto nemmeno dieci giorni prima. Quando si dice la coerenza.

Il governo moralizzatore toglie la libertà del fumo. La maggioranza giallorossa imita Sala e adesso vuole bloccare le sigarette in tutti gli spazi aperti da Nord a Sud: cosa cambia. Ignazio Stagno, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. I giallorossi non perdono tempo e cavalcano subito la folle idea di Beppe Sala che vuole vietare ai fumatori di godersi una bionda negli spazi aperti e alle fermate dei bus. E così i Cinque Stelle insieme ai renziani hanno già presentato un disegno di legge per estendere il divieto in tutta Italia. E occhio: il divieto riguarda parecchi spazi pubblici. Ecco qui un esempio: vietato fumare negli spazi esterni di bar, pub, ristoranti, spiagge, lidi, parchi, aree di gioco, giardini pubblici, stadi, campi sportivi. Vietato fumare nelle piazze dove si tengono manifestazioni e concerti, nelle banchine di attesa dei treni e alle fermate degli autobus, nei pressi di monumenti pubblici di valore storico ed artistico. Praticamente ovunque. Il disegno di legge è a prima firma del senatore pentastellato Auddino e sottoscritto da quasi l’intero gruppo M5s e da diversi esponenti della maggioranza come i renziani Parente e Nannicini, il senatore Laus e l’ex grillino Buccarella, punta ad anticipare le misure che il sindaco di Milano. Insomma chi fuma verrà ghettizzato e potrà godersi il suo sacrosanto vizio solo (e forse nemmeno lì) tra le mura di casa. Il tutto nel nome della sfrenata rincorsa al buonismo ambientale in salsa "gretina". Una misura simile è già presente in diverse zone d'Italia: Veneto (Bibbione), Lazio (Anzio, Ladispoli, Ponza), Abruzzo (Alba Adriatica), Marche (Pesaro, San Benedetto del Tronto, Sirolo), Sardegna (Olbia, Sassari, Stintino), Liguria (Lerici, Sanremo, Savona), Emilia Romagna (Ravenna e Rimini), Puglia (Manduria e Porto Cesareo), Sicilia (Capaci, Lampedusa, Linosa). E nel disegno di legge viene anche data una descrizione piuttosto forte del fumatore di questi tempi, colpevole di inquinare l'aria. Leggete qui: "È risaputo - si legge nel testo del ddl - come nelle stazioni italiane, all’interno delle quali è già da tempo vietato fumare, molti viaggiatori fumatori approfittino degli spazi esterni, in particolare dei marciapiedi lungo i binari, per accendersi una sigaretta, sia prima di salire che appena scesi dai convogli. Questo comporta indubbiamente una diminuzione della qualità dell’aria, data l’elevata concentrazione di fumatori in uno spazio ristretto seppur all’aperto. Inoltre, la maggior parte dei mozziconi finisce sui binari comportando un evidente stato di degrado e sporcizia delle stazioni". Insomma i moralizzatori al governo adesso hanno trovato un nuovo nemico: il fumatore. Con questo disegno di legge cade l'ultimo baluardo probabilmente della libertà individuale davanti ad uno Stato che adesso posa gli occhi non solo sulle tasche e sui conti correnti, ma anche nel posacenere...

Cosa ci insegna il fallimento del proibizionismo. Nicola Porro, Il Giornale 12 gennaio 2020. L’idea di regolare o tassare differentemente certi consumi che creano dipendenza ha affascinato gli economisti all’inizio del Novecento. E non solo, ovviamente. Il gioco d’azzardo nasce in Italia almeno trecento anni prima, e principi e duchi intendevano regolarlo con la tassazione, se non bandirlo. Ma solo nel Novecento il proibizionismo si diffonde. Si estende alle droghe, che fino a quel momento non erano considerate tali, all’alcol e al fumo. Chi scrive, come gran parte degli economisti, è convinto che gli effetti di queste politiche proibizionistiche sono stati pessimi. Bisogna subito chiarire che l’approccio che si tiene non è politico e neanche sociale. È matematico, economico, si regge su un principio di domanda e di offerta. La politica valuterà con criteri suoi che, come spesso insegna la storia, non necessariamente debbono essere economici. Il proibizionismo, e quello americano sull’alcol ne fu il caso più eclatante, ruppe un principio aureo dell’economia moderna, su cui si basano le economie di mercato. E cioè che gli individui siano i migliori giudici del proprio benessere.

Su questo assunto si fonda la microeconomia e financo la teoria degli scambi internazionali. D’altronde, se così non fosse chi è davvero giudice del nostro benessere? Il proibizionismo nega questo principio; lo Stato, o meglio i politici che votano questa norma, decidono, in un certo campo, cosa sia giusto per i consumatori. Lo possono fare in termini di quantità consumate o addirittura in modo censorio, come nel caso del proibizionismo americano. La prima questione è dunque attinente alla Libertà, e al suo contenuto economico. Dal punto di vista pratico occorre infine capire come il consumatore si sposti dal mercato tassato o proibito (sull’alcol parliamo di questa seconda ipotesi) a quello illegale che inevitabilmente nasce per soddisfare una domanda che nessuna proibizione può cancellare. Due studiosi, Miron e Zwiebel, hanno studiato il mercato dell’alcol in America durante gli anni del proibizionismo tra il 1900 e il 1950. Dopo un’iniziale riduzione del consumo tra il 60% e l’80%, il consumo ritornò prima al 60-70% del valore iniziale e, nel periodo più lungo, riprese i livelli precedenti all’imposizione delle misure di restrizione dell’offerta. Le misure proibizionistiche, inoltre, causarono un aumento dei prezzi di tre volte i valori iniziali. Su questi numeri converge praticamente tutta la letteratura scientifica. Un altro studioso, Thornton, ha preso in esame il divieto di vendita dell’alcool negli Stati Uniti tra il 1920 e il 1933. L’autore non solo dimostra la scarsa qualità dell’alcol venduto nel mercato nero, ma sottolinea anche l’aumento delle malattie che ne conseguì. Si potrebbe continuare a lungo, mettendo in evidenza i costi pubblici per mantenere l’apparato repressivo. Ciò che gli economisti sostengono è banalmente che la proibizione totale del consumo di alcol imposta negli Stati Uniti non ne ha ridotto il consumo, ne ha aumentato il prezzo e peggiorato la qualità. Nicola Porro, Il Giornale 12 gennaio 2020

Attilio Barbieri per “Libero Quotidiano” il 19 febbraio 2020. Al Senato arriva una proposta di legge destinata a sanare una vecchia controversia, con la depenalizzazione della grappa fai da te. Produrre in casa acquavite e distillati in genere è infatti un reato punibile, in base al Testo unico sulle accise, con la reclusione da sei mesi a tre anni. Oltre a una multa che può andare dal doppio al decuplo dell' imposta evasa e comunque non è inferiore a 7.746 euro. Una bella mazzata. Già, perché la questione è di natura fiscale e visto che fra Iva e accisa un litro di distillato paga quasi il 45% d' imposte, lo Stato punisce l' evasione fiscale anche nella fabbricazione domestica di grappe. Le sanzioni possono scattare anche qualora il presunto «evasore» venga trovato in possesso delle attrezzature per la distillazione. Dunque in assenza del prodotto finito. Il solo possesso di un distillatore è ritenuto illegale. Il progetto di legge firmato dal senatore della Lega Enrico Montani punta a depenalizzare proprio la produzione di acquavite a casa. Il testo è stato presentato nei giorni scorsi assieme a un gruppo di colleghi del Carroccio. Farsi la grappa in casa è un' usanza diffusa in molte zone montane, anche se è illegale. La proposta dei senatori leghisti, intitolata «Disposizioni concernenti la produzione artigianale e senza fini di lucro di grappe e di acquaviti di frutta», prevede che la liberalizzazione dei distillati domestici si applichi solo ai titolari di aziende agricole che producono, di risulta, grappe ottenute da uve e frutta proprie. Una pratica piuttosto diffusa proprio tra viticoltori e frutticoltori, che così verrebbe regolamentata. La produzione, con un limite annuo, sarebbe destinata esclusivamente all' autoconsumo o alla degustazione gratuita e prevede una serie di norme igienico-sanitarie e adempimenti. «Grappe e acquaviti - commenta Montani - prodotte nel rispetto delle norme di sicurezza che ne garantiscano la qualità e la genuinità rappresentano un patrimonio del sistema agroalimentare del nostro Paese ed è per questo che la loro produzione va regolamentata a tutti i livelli». Per il senatore leghista quella per la legalizzazione della grappa fatta in casa è un battaglia «storica»; insieme ad altri parlamentari provò a depenalizzarla già nel 2009. La proposta superò diversi passaggi ma non fu mai approvata definitivamente dal Parlamento. Fra l' altro, nel momento in cui da alcune componenti politiche vengono rilanciate periodicamente proposte sulla liberalizzazione di alcune droghe come la cannabis, è paradossale che a farsi in casa la grappa si rischino fino a tre anni di galera. Soltanto per una presunta evasione fiscale. Molto presunta, visto che se il distillato non viene venduto non si matura alcun lucro e dunque non si evade alcuna imposta. Fra l' altro il processo di fabbricazione della grappa fuori legge inizia inevitabilmente con l' acquisto delle attrezzature per la distillazione, a cominciare dall' alambicco che si trova in vendita perfino su internet, pure sulle grandi piattaforme di commercio elettronico, come Ebay e Amazon. I prezzi vanno da poche decine di euro alle attrezzature da professionisti che costano dieci volte tanto. Pure la vendita dei distillatori a soggetti non autorizzati è illegale. Ma visto che si paga l' Iva il Fisco chiude un occhio. Anzi, tutti e due. Riservandosi però il diritto di sanzionare gli utilizzatori. Il progetto di legge presentato da Montani dovrebbe essere incardinato alla Commissione Agricoltura di Palazzo Madama e prevede comunque un tetto massimo di produzione annua di 50 litri per ogni azienda agricola, rigorosamente destinati all' autoconsumo. Dalla nuova norma sarebbero esclusi però gli agriturismi, nei quali avviene un' attività di ristorazione con somministrazione di bevande alcoliche.

Erin Brodwin per "it.businessinsider.com" il 4 ottobre 2020. Che cosa ci fa più male: erba o whisky? È una domanda difficile, ma secondo la scienza sembra esserci un vincitore. Ci sono decine di fattori di cui tenere conto, inclusi come le sostanze influenzino il cuore, il cervello e il comportamento e quanto sia probabile sviluppare una dipendenza. Anche il tempo è importante: mentre alcuni effetti sono immediatamente evidenti, altri iniziano a manifestarsi solo dopo mesi o anni di consumo. Il confronto è leggermente sbilanciato anche per un altro motivo: mentre gli scienziati hanno studiato gli effetti dell’alcool per decenni, la scienza della cannabis è molto più oscura a causa del suo status di illegalità (quasi ovunque). Ma analizziamo il confronto per punti.

30.722 americani sono morti per cause legate all’alcol nel 2014. Non ci sono morti documentate per il solo uso di marijuana. L’anno scorso più di 30.000 persone sono morte per cause legate all’alcol negli Stati Uniti – e ciò senza contare gli incidenti o gli omicidi legati all’abuso. Se queste morti fossero state incluse, il numero sarebbe più vicino a 90.000, secondo il CDC (Center for Disease Control and Prevention). Al contrario, non è stato riportato alcun decesso da sovradosaggi di marijuana, secondo la DEA (Drug Enforcement Administration). Uno studio durato oltre 16 anni su più di 65.000 americani pubblicato sull’American Journal of Public Health ha scoperto che gli utilizzatori sani di marijuana non hanno più probabilità di morire precocemente rispetto agli uomini e alle donne sani che non hanno fumato cannabis.

La marijuana sembra creare significativamente meno dipendenza dell’alcol. Circa la metà di tutti gli adulti hanno provato almeno una volta la marijuana, rendendola una delle droghe illegali più utilizzate. Eppure la ricerca suggerisce che una percentuale relativamente piccola delle persone ne diventi dipendente. Per un esteso sondaggio del 1994, gli epidemiologi presso l’Istituto Nazionale per l’abuso di droga hanno intervistato più di 8.000 persone tra i 15 e i 64 anni sul loro rapporto con la droga. Di coloro che avevano provato la marijuana almeno una volta, “solo” il 9% ha ricevuto una diagnosi di dipendenza. Per l’alcol, la cifra era di circa il 15%. Per metterlo in confronto con altre sostanze, il tasso di dipendenza per la cocaina era del 17%, mentre per l’eroina era del 23% e per la nicotina era del 32%.

La marijuana può essere più dannosa per il cuore, mentre bere alcol moderatamente potrebbe avere benefici. A differenza dell’alcol, che rallenta la frequenza cardiaca, la marijuana la aumenta, il che potrebbe avere effetti negativi a breve termine sul cuore. Tuttavia, la più grande relazione sulla cannabis delle Accademie Nazionali delle Scienze, pubblicata a gennaio, non ha trovato sufficienti prove per sostenere o confutare l’idea che la cannabis potrebbe aumentare il rischio complessivo di un attacco di cuore. Inoltre, bere poco o moderatamente – circa un bicchiere al giorno – è stato collegato ad un minore rischio di infarto e ictus rispetto all’astensione completa. James Nicholls, direttore di Alcohol Research UK, ha detto al Guardian che questi risultati dovrebbero essere presi con le pinze poiché “tutti gli effetti protettivi tendono ad essere annullati da periodi occasionali in cui si beve più pesantemente”.

L’alcool è fortemente collegato a diversi tipi di cancro. La marijuana non lo è. Lo scorso novembre un gruppo di oncologi americani ha pubblicato un articolo nel quale chiedono alle persone di bere meno. Citavano prove forti che l’uso di alcol – meno di un bicchiere di vino o di birra al giorno – aumenta il rischio di sviluppare sia il cancro al seno pre-menopausa che post-menopausa. Il Dipartimento di Sanità americano elenca l’alcol come sostanza notoriamente cancerogena per l’uomo. La ricerca evidenziata dall’Istituto Nazionale del Cancro suggerisce che più alcool bevete – in particolare più regolarmente – maggiore è il rischio di sviluppare il cancro. Per la marijuana alcune prove inizialmente suggerivano un legame tra il fumo e il cancro ai polmoni, ma è stato smentito. Il rapporto di gennaio ha scoperto che la cannabis non è collegata ad un aumento del rischio dei tumori polmonari o dei tumori della testa e del collo, che sono invece legati al fumo di sigarette.

Entrambe le sostanze possono essere collegate a rischi per chi si mette alla guida, ma l’alcol è peggiore. Una nota di ricerca pubblicata dalla National Highway Traffic Safety Administration ha concluso che avere una quantità rilevabile di THC (principale ingrediente psicoattivo della cannabis) nel sangue non aumenta il rischio di incidenti stradali. Avere un livello di alcol nel sangue dello 0,05% o superiore aumenta le probabilità di causare un incidente del 575%. Tuttavia, la combinazione dei due sembra dare i risultati peggiori. “Il rischio di guidare sotto l’influenza di alcol e di cannabis è maggiore del rischio di guidare sotto l’influenza delle singole sostanze”, hanno scritto gli autori di una relazione del 2009 nell’American Journal of Addiction.

Alcuni studi collegano l’alcol alla violenza, in particolare quella domestica. La stessa cosa non è stata riscontrata per la cannabis. È impossibile dire che bere alcol o consumare marijuana causi violenza, ma diversi studi suggeriscono un legame tra l’alcol e il comportamento violento. Secondo il Consiglio Nazionale sull’alcolismo e la dipendenza da droghe, l’alcol è un fattore nel 40% di tutti i crimini violenti e uno studio fatto da studenti universitari ha rilevato che i tassi di violenza mentale e fisica erano più alti nei giorni in cui le coppie bevevano. Invece non sembra esistere tale correlazione per la cannabis. Uno studio recente ha esaminato l’uso della cannabis e la violenza intima del partner nel primo decennio del matrimonio e ha scoperto che i consumatori di marijuana avevano significativamente meno probabilità di commettere violenze contro un partner di coloro che non ne facevano uso. Entrambe le sostanze influenzano negativamente la vostra memoria, ma in modi diversi. Questi effetti sono più comuni nei consumatori più assidui. Sia l’erba che l’alcol riducono temporaneamente la memoria quando vengono assunti e l’alcol può causare blackout rendendo il cervello incapace di trattenere i ricordi. In termini di effetti a lungo termine, gli impatti più gravi si riscontrano nei consumatori cronici che iniziano a farne uso da adolescenti. Per la marijuana gli studi hanno dimostrato che questi effetti possono persistere per diverse settimane dopo aver terminato il consumo. Può anche esserci un collegamento tra l’uso quotidiano di erba e una memoria verbale più povera in adulti che iniziano a fumare da giovani. I bevitori cronici mostrano riduzioni della memoria, dell’attenzione e della capacità di pianificazione, nonché processi emozionali e cognizione sociale compromessi – e questi effetti possono persistere anche dopo anni di astinenza. Entrambe le sostanze sono collegate ad un aumento del rischio di malattie psichiatriche.

Per gli utilizzatori di erba la psicosi e la schizofrenia sono la principale preoccupazione; per l’alcol, sono depressione e ansia. La più grande ricerca esistente di studi sulla marijuana ha riscontrato tra i consumatori assidui di marijuana un notevole aumento del rischio di schizofrenia. L’erba può anche innescare sentimenti temporanei di paranoia e di ostilità, ma non è ancora chiaro se questi sintomi siano legati ad un aumento del rischio di psicosi a lungo termine. D’altra parte, autolesionismo e suicidio sono molto più comuni tra le persone che bevono in maniera compulsiva o troppo spesso. Ma gli scienziati hanno avuto difficoltà a decifrare se l’eccessivo consumo di alcol causi depressione e ansia o se persone con depressione e ansia bevono nel tentativo di alleviare questi sintomi.

L’alcol sembra essere legato più strettamente all’aumento di peso rispetto alla marijuana, nonostante la tendenza dell’erba a generare fame chimica. L’erba dà fame chimica. Ci induce fame, riduce i segnali naturali che ci dicono di esseri pieni e può anche far sì che temporaneamente il cibo abbia un gusto migliore. Ma pur mangiando oltre 600 calorie extra dopo aver fumato, i consumatori di marijuana non hanno – in generale – indici di massa corporea più elevati. Infatti, gli studi suggeriscono che i fumatori regolari sono in realtà a rischio leggermente ridotto di obesità. L’alcol, invece, sembra essere collegato all’aumento del peso. Uno studio pubblicato nell’American Journal of Preventative Medicine ha scoperto che le persone che hanno bevuto pesantemente hanno un rischio maggiore di diventare obesi. Inoltre, l’alcol è calorico: una pinta di birra equivale a circa 150 calorie; un bicchiere di vino a circa 120.

Tirando le somme, gli effetti dell’alcol sembrano notevolmente più rischiosi rispetto a quelli della marijuana. In conclusione quando si parla di profilo di dipendenza e rischio di morte o sovradosaggio combinato con i legami con il cancro, gli incidenti automobilistici, la violenza e l’obesità, la ricerca suggerisce che la marijuana può essere meno rischiosa dal punto di vista medico rispetto all’alcol. Tuttavia a causa dell’illegalità della marijuana, gli studi a lungo termine su tutti i suoi effetti sono limitati, il che significa che sono necessarie ulteriori ricerche.

Maddalena Guiotto per "La Verità" il 24 giugno 2020. La cannabis non è una sostanza per uso ricreativo, ma è all'origine della tossicodipendenza. Oltre ad essere la prima droga, quella che apre il cancello alle altre e ne sostiene l'uso, è anche la più difficile da abbandonare. È questa un'istantanea scattata dall'Osservatorio sulle tossicodipendenze di San Patrignano 2020. Attivo da oltre quarant' anni, è una delle banche dati più autorevoli al mondo e la più attendibile per descrivere l'evoluzione del consumo delle droghe in Italia. L'attuale indagine è relativa alle 460 persone con cui la comunità è entrata in contatto nel 2019, fra gli ingressi nella struttura di preaccoglienza di Botticella e nella comunità stessa che ha sede a Coriano, nel riminese. La richiesta di aiuto arriva, nell'80,2% da ragazzi e nel 17,8% dei casi da ragazze con età intorno ai trent' anni. Come ormai si registra da tempo, la cocaina è la droga più usata e l'eroina quella più fumata da chi entra in comunità, ma l'85% dei nuovi arrivati fa uso di più sostanze contemporaneamente (poliassuntori) e la cannabis è praticamente in ogni percorso di tossicodipendenza. «È sempre la prima sostanza utilizzata, verso i 15 anni», spiega Antonio Boschini, vice presidente e responsabile terapeutico di San Patrignano. «Dopo la cannabis, dai 16 ai 18 anni, si passa alle droghe sintetiche, ecstasy e allucinogeni; quindi alla cocaina e all'eroina». I dati dell'osservatorio registrano infatti che la sostanza più utilizzata, in crescita rispetto all'anno precedente e che attiva la richiesta di aiuto, è la cocaina (92,8% vs 88,5% del 2018), seguita a ruota dalla cannabis (85,6%). L'uso di eroina, in calo, è al terzo posto (40,6% contro il 47% dell'anno prima e il 57% di due anni fa), quindi ci sono ecstasy (34,1%), ketamina (27,8%), allucinogeni (20,9%) e anfetamine (19,6%). Preoccupa l'uso dell'alcol, il cui consumo è superato nel 40% dei casi, ma non è percepito come un problema. «Di solito, chi usa la cocaina, assume l'alcol per sedarsi, dopo l'effetto della droga», ricorda Boschini. «Il mondo scientifico tratta la dipendenza principalmente su base organica, come una patologia neurologica e psichiatrica», osserva il responsabile terapeutico di San Patrignano. «I nostri dati mostrano come le basi della dipendenza siano nell'infanzia, in traumi pre-adolescenziali». A turbare l'età infantile di chi poi si rifugia a 15 anni nella droga, erroneamente considerata leggera o ricreativa, ci sono genitori già dipendenti da sostanze o con patologie psichiatriche, ma anche molestie, bullismo, abusi sessuali. «Quando andiamo a rivangare nel passato, troviamo degli eventi traumatici che hanno reso la persona più vulnerabile», continua l'esperto. Questo spiega perché il percorso di recupero non sia non tanto sulla sostanza (cannabis o cocaina), ma per la persona. L'età media del primo contatto con le sostanze stupefacenti infatti resta a 15 anni e per l'87% delle persone è avvenuto entro i 20 anni. Il primo contatto però si abbassa a 14 anni quando si parla di cannabis, per alzarsi a 18-19 per iniziare a sniffare cocaina ed eroina. «Quando andiamo a fare prevenzione nelle scuole», dice Boschini, «non parliamo di cocaina, ma di cannabis. Fare prevenzione sulla cannabis significa fare prevenzione sulla droga». Se da un lato cala l'uso della somministrazione di droga con la siringa (26% del totale), preoccupa l'incremento registrato nelle minorenni che, rispetto ai maschi, sono più precoci anche nel consumo di cannabis e cocaina. L'emergenza Covid-19, con la convivenza forzata in famiglia, ha fatto lievitare le richieste d'aiuto, ma le restrizioni sanitarie hanno ridotto la possibilità di accoglienza della comunità. «Temiamo che il problema delle dipendenze possa crescere ulteriormente in questo momento e pesare sempre più sulle famiglie», spiega il presidente della comunità Alessandro Rodino Dal Pozzo. «Ad oggi la spesa media familiare per le sostanze è pari a 586 euro, (calcolato sulla base dei 15,3 miliardi annui spesi in Italia in sostanze illegali - dati Relazione al Parlamento - suddivisi fra le 26.081.199 famiglie italiane - dati Istat 2018), una cifra spropositata che, se confermata anche in questo anno, diventerà un ulteriore macigno sulle casse delle famiglie». Anche nelle comunità di recupero, praticamente dimenticate come beneficiarie di aiuto da parte del governo nel post Covid-19, le casse sono in difficoltà. Sono invece in piena espansione i traffici di narcotrafficanti e terroristi jihadisti in Medio Oriente e Nord Africa. Come si legge in uno studio presentato ieri dalla Fondazione Icsa, tra le conseguenze della pandemia in corso, è plausibile, nel breve e medio periodo, che ci saranno alcuni cambiamenti delle rotte e delle modalità di conduzione del narcotraffico da parte dei jihadisti, mentre, dal lato dei consumatori occidentali, si registrano già significative modifiche degli stili di consumo e delle modalità di acquisto degli stupefacenti. Del resto, in pieno lockdown da Covid-19, la droga ha viaggiato dentro cartoni della pizza o tra finti-runner e i social sono da tempo anche luogo di spaccio.

FRANCESCA PACI per la Stampa il 17 giugno 2020. «È tempo di legalizzare la cannabis»: a riaprire il dibattito sul tema che forse più di ogni altro divide il Paese e le forze politiche è una lettera inviata da cento parlamentari, in buona parte del Movimento 5 Stelle, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, impegnato negli Stati generali dell'economia. La riflessione parte dal fatto che «tutte le politiche repressive in materia si sono dimostrare inefficaci» e che in molti Paesi, dagli Stati Uniti alla Spagna, l'emersione ha già dato frutti significativi. Per contro, si stima, «la regolamentazione genererebbe un beneficio per le casse dello Stato di 10 miliardi di euro, 2 miliardi derivanti dai risparmi dall'applicazione della normativa di repressione e 8 miliardi di nuovo gettito fiscale». Una battaglia frontale, di quelle portate avanti finora quasi in solitudine dai radicali della vecchia e nuova scuola. Appena un anno fa, l'allora ministro dell'interno Matteo Salvini diede fuoco alle polveri annunciando un giro di vite sui negozi della cosiddetta «cannabis light» e giurando di chiudere a uno a uno gli esercizi dove, sulla carta, sono autorizzati prodotti a scopi «tecnici» o «collezionistici». L'obiettivo del leader della Lega era rimettere mano alla legge del 2016 che autorizza il business esploso nel 2017 con il moltiplicarsi di aziende come EasyJoint. Poi, a dicembre, arrivò la pronuncia della Cassazione e mise un punto e virgola, stabilendo che non c'è reato nel coltivare cannabis in minime quantità e per solo uso personale. Citando uno studio firmato dal professor Marco Rossi per l'Università La Sapienza, i firmatari della missiva invitano a considerare «i risparmi legati alla diminuzione dei reati, con il conseguente alleggerimento del lavoro dei tribunali e un generale miglioramento del sistema penitenziario, sia per gli operatori che per i detenuti». In più, oltre ad assestare un colpo alla criminalità organizzata, un aumento di produzione «garantirebbe ai pazienti il pieno godimento di un diritto costituzionale fondamentale come il diritto alla salute». Secondo un sondaggio realizzato dall'istituto Izi l'estate scorsa, nei giorni dell'affondo salviniano, due italiani su tre sono favorevoli alla vendita dell'erba leggera, con basso principio attivo, mentre il 55% optano per la legalizzazione vera o propria. L'unica fascia di età in cui prevale il no su tutta la linea è gli over 55.

Quando la droga di Stato non sconfigge i narcos. La libera vendita di cannabis ha ridotto le entrate dei boss, che però puntano su altri stupefacenti. Roberto Pellegrino, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Nell'aprile del 2014, un anno prima di lasciare la presidenza, José Pepe Mujica, l'unico ex guerrigliero Tupamaros, eletto capo di Stato, firmò una rivoluzionaria legge che liberalizzava tutte le droghe leggere. L'Uruguay era il primo Paese sudamericano ad approvare una legge controversa in un continente che è il più grande produttore al mondo di stupefacenti. Sei anni dopo, Il Giornale è andato a controllare se l'idea di Pepe e del suo governo progressista ha eroso i profitti illeciti dei narcos. La legalizzazione della marijuana fu l'apice di un lungo dibattito parlamentare. Sull'esecutivo di Pepe piovvero critiche pesanti dai partiti d'opposizione, dai Governi di Brasile, Colombia, e Messico, con la protesta dell'Incb, l'Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti, un ente indipendente dell'Onu. E la cannabis di stato, prima di arrivare nelle farmacie, impiegò oltre un anno, a causa della complessità della legge, composta di centinaia di articoli e dal modo su come affiancare medicine e cannabis e soprattutto, per il rischio che lo Stato pagasse il medesimo coltivatore di marijuana già assoldato dai narcotrafficanti. Quando le produzioni statali entrarono a regime, con la filiera di prodotti tracciabili, erano passati, tra burocrazia e problemi di sicurezza, due anni dal voto al Congresso. Oggi, semplificando la corposa legge, sappiamo che esistono tre modi legali per fare shopping di cannabis evitando la galera: si può coltivare in casa, fino a un massimo di sei piantine, i consigli per un buon raccolto si trovano su YouTube. Ma, nota negativa, non esistono controlli nelle abitazioni, ci vuole un mandato del giudice, quindi quelle sei piantine, pensando a un'agricoltura casalinga semi intensiva e finalizzata allo spaccio (illegale) tra amici, diventano una serra industriale. Il secondo modo per fumare legalmente è aprire o farsi socio di un «cannabis club», come avviene in Spagna. Il club è un'associazione ludica che coltiva un massimo di 99 piante di marijuana, ma nessuno controlla, poi vende ai soci maggiorenni e anche ai turisti. Però, a differenza delle leggi spagnole, quella uruguayana non vieta di tesserare non residenti e turisti, mentre in Spagna, non essendo la marijuana liberalizzata, ma soltanto tollerata in modiche quantità, bisogna essere soci e residenti nella città in cui esercita il club. Se trasgredisci e vendi ai clienti stranieri, non soci e non residenti, vai in galera. Così a Montevideo senza nessun divieto, a parte l'età, in un cannabis club si comprano 60 grammi di cannabis (15 grammi a settimana) per 400 pesos (meno di 13 euro). E questo attira migliaia di giovani da tutto il Cono Sur. Un bel viaggio «fuma e fuggi» di 24 ore per sballarsi e ripartire. Poi, è un attimo: si fa una comune di fumo, in cui ognuno aggiunge i suoi 15 grammi e si compone un bel panetto da riportare in Brasile o Argentina, magari spedendolo e sfidando le dogane, per rivenderlo a prezzo maggiorato. Questo traffico di «turistas del porro» è aumentato del 40% dal 2016, tanto che Montevideo è diventata «l'Amsterdam sudamericana». Infatti, a differenza dei clienti uruguayani, i turisti non hanno l'obbligo d'iscriversi a un registro nazionale di fumatori di sostanze psicotrope e comprano, quasi sempre tentati dallo sconto dei gestori dei club, in nero l'erba. Grazie a questi introiti non tracciabili, i soci si possono pagare le pesanti tasse sul club. Un altro buco della legge di Pepe. Il terzo modo, invece, è la vendita in farmacia: pacchetti da cinque grammi di marijuana a 180 pesos (5,4 euro), fino a un massimo di 40 grammi al mese. Le farmacie sono più economiche, ma molto meno fornite con tempi d'attesa lunghissimi rispetto ai club. Anche le farmacie, comunque, non chiedono la residenza e la potenza psicotropa è molto diluita, rispetto alla cannabis spacciata in strada. Le due varietà di cannabis permesse in Uruguay sono la cannabis indiana e la sativa, entrambe contengono tra il 7 e il 9 per cento di THC, il principio attivo alla base dell'effetto stupefacente. Nella marijuana spacciata illegalmente e proveniente da Brasile e Argentina la percentuale è il triplo. Questo spiega le presenza di zone grigie di spaccio. Secondo i dati dell'Instituto de Regulación y Control del Cannabis, a marzo 2020 i consumatori di marijuana legale erano 48.023: di questi, 35.112 acquistano la marijuana in farmacia; 8.012 la coltivavano in casa e 4.899 sono soci dei 137 cannabis club. I risultati nel combattere il traffico di droghe leggere sono stati, invece, quasi del tutto positivi, anche se con qualche illegalità. Dal 2016 quasi 23 milioni di dollari di fatturato sono stati tolti ai narcos locali, ma il mercato di stupefacenti è rimasto ben radicato in Uruguay e si è adeguato all'offerta delle droghe di Stato, puntando sull'effetto più leggero della marijuana di Pepe. Un altro effetto collaterale della legge uruguayana è che la maggior parte delle banche sudamericane e mondiali non accettano il denaro proveniente dalla vendita di droga, anche se leggera. Lo considerano un reato e, quindi, rifiutano farmacie e cannabis club e li aggiungono alla black list degli enti internazionali di controllo finanziario. Un ulteriore problema sono le eccedenze del raccolto legale che finiscono nelle mani dei narcos, disposti a pagare il doppio di Montevideo.

Da “la Stampa” il 20 febbraio 2020. Stop alla vendita di droga e via la prostituzione dal centro, meglio allestire una struttura fuori mano, per ripulire le zone più belle della città dal turismo a luci rosse e tutelare maggiormente le lavoratrici del settore, spesso infastidite da orde di ubriachi. La lotta della sindaca di Amsterdam, Femke Halsema, ha l' obiettivo di cambiare il volto alla capitale dei Paesi Bassi. Il Comune ha annunciato che dal 1 aprile saranno vietati i tour sessuali collettivi nel quartiere di Wallen e spariranno le vetrine a luci rosse, dirottate in altre parti della città. Le visite di gruppo potranno coinvolgere al massimo 15 persone, che non potranno fermarsi davanti a luoghi affollati o di fronte a case private, a ristoranti e hotel, o ancora transitare sui ponti stretti. Chi infrange le regole, paga 190 euro di multa. E poi la strategia sulla droga. Con un sondaggio condotto su un campione di 100 persone tra i 18 e i 35 anni, l' amministrazione prevede che, se verranno ridotti i punti vendita della cannabis, un terzo dei turisti stranieri, di cui quasi la metà dei britannici che oggi visitano Amsterdam non andranno più. La città ha 1,1 milioni di abitanti, attira più di 17 milioni di visitatori l' anno. Troppi, tanto che non fa nemmeno più pubblicità per sponsorizzarsi. La sindaca vuole andare avanti sul divieto della vendita della droga per dissuadere gli stranieri. Il sondaggio dell' ufficio di ricerca, informazione e statistica ha scoperto che il 34% di coloro che visitano i quartieri a luci rosse di Wallen e Singel, ricchi di coffee shop, tornerebbe meno spesso senza la possibilità di comprare droga e fumare. L'11% non andrebbe mai più. Tra i visitatori britannici, il 42% andrebbe ad Amsterdam meno spesso, se non trovasse la droga a disposizione. Tornando ai turisti di tutte le nazionalità, c' è uno zoccolo duro del 18% che afferma che troverebbe un altro modo per acquistare la cannabis. Per più di metà degli intervistati, comunque, i coffee shop hanno un ruolo importante nella scelta di recarsi ad Amsterdam. Halsema vorrebbe trasformare la città sull' acqua in una meta di turismo «normale». Anche se ammette: «Il lavoro del sesso è una professione come un' altra, non vogliamo cacciare il lavoro sessuale». Primo step, liberare Wallen e i suoi vicoli medioevali dagli spettacoli erotici. Nell' area si trova il più antico edificio della città, la Oude Kerke (vecchia chiesa), risalente a 700 anni fa. Il progetto dell' albergo erotico fuori porta cita esplicitamente come esempio quello realizzato a Colonia negli anni Settanta.

Luca Gallesi per “il Giornale” il 22 febbraio 2020. Se è vero che, nelle democrazie parlamentari, «il potere logora chi non ce l' ha» (copyright Giulio Andreotti), questo non accade dove chi ha il potere deve comandare sul serio, come avviene nelle dittature e nelle repubbliche presidenziali. Sarà perché, come dimostra la gerontocrazia al potere in Italia, nei regimi parlamentari si tira spesso a campare, badando soprattutto a non logorarsi, la musica cambia quando, sia per senso di responsabilità sia per interessi personali, bisogna governare davvero, e allora il governante viene logorato, eccome! Questa, almeno, è la conclusione a cui si arriva leggendo l' avvincente saggio di Tania Crasnianski Il potere tossico. I drogati che hanno fatto la storia, appena pubblicato da Mimesis (pagg. 240, euro 18), che svela la smodata passione per le droghe comune a molti statisti del secolo scorso, che nutrivano, inoltre, un' incondizionata fiducia nel proprio medico personale. Scopriamo, infatti, che tutti i capi di Stato più importanti del Novecento hanno avuto al loro fianco un' ombra potente, il loro terapeuta, che aveva l' obbligo di farli resistere alle enormi pressioni imposte dal loro ruolo. Il problema è che, molto spesso, il medico oltrepassava il suo ruolo per diventare il confidente più fidato e il collaboratore più prezioso del Principe; in alcuni casi, come in quello di Adolf Hitler e soprattutto di J.F. Kennedy, lo specialista era disposto, addirittura, a diventare uno spacciatore di sostanze stupefacenti, oppure, come nel caso di Mao, si trasformava in procacciatore di giovani vergini da sacrificare all' insaziabile lussuria del grande Timoniere. Nei vari capitoli scorrono i nomi di Lord Moran, Georg Zachariae, Theo Morell, Max Jacobson, Vladimir Vinogradov, Li Zhisui, personaggi che non dicono nulla neppure al lettore colto e appassionato di storia, pur essendo coloro che hanno incoraggiato, protetto o nascosto il lato debole, anzi oscuro, di Churchill, Mussolini, Hitler, Kennedy, Stalin e Mao, che in questo libro appaiono come dei deboli dipendenti da droghe, alcol e sesso, offuscati dall' ineludibile servilismo del loro cerchio magico. Capitati per caso nelle stanze dei bottoni, quasi tutti i medici dei potenti non hanno resistito a scrivere un diario, che, sepolti i loro illustri pazienti, hanno impudicamente pubblicato. Hitler, dopo Stalingrado, sprofonda nella tossicodipendenza da anfetamine. Peggio di lui è J.F.Kennedy, tanto che il suo spacciatore pardon, medico- Max Jacobson, alla fine verrà radiato dall' albo. Di Winston Churchill viene confermata la dipendenza dall' alcol, a cui affianca spesso e volentieri abbondanti dosi di antidolorifici e sedativi che ne aumentano il disturbo bipolare. Mussolini, invece, per il suo medico, affiancatogli dal Fuehrer per controllarlo meglio, anche nei tragici giorni della disfatta rimane, «un uomo straordinario», al quale è bastato cambiare regime alimentare per tornare in forma. Stalin è l' incarnazione del dispotismo orientale, sanguinario e propenso a sbalzi di umore che l' abbondanza di vodka rende letali per chi gli si trovava intorno. Pétain è, ancora in età avanzata, dipendente dalle belle donne, mentre Franco non sa resistere ai peccati di gola, e, malato di Parkinsion, eccede in dopamina. Indifferente, infine, a qualsiasi moderazione è Mao, la cui totale noncuranza verso le più elementari regole di igiene si unisce a un irrefrenabile appetito sessuale, sostenuto da un abbondante uso di afrodisiaci e sostanze psicotrope. I figli dei fiori, con la rivoluzione psichedelica, insomma, non hanno inventato nulla; l' immaginazione, o meglio, l' allucinazione, al potere c' era già stata: sesso, droga e Demerol!

Cannabis light, il fondatore di EasyJoint: “Chiudo e richiedo le tasse allo Stato”. Le Iene News il 14 febbraio 2020. Nella prima puntata di “Iene.it: aspettando Le Iene”, il nuovo format digital condotto da Giulia Innocenzi, il fondatore di EasyJoint Luca Marola ci racconta la sua idea per contrastare la guerra alla cannabis light: “Chiamerò lo Stato come correo nel processo per spaccio a mio carico, è stato mio complice accettando le tasse sui miei prodotti”. “Chiudo EasyJoint e chiedo indietro allo Stato i soldi delle tasse”. Luca Marola non molla nella sua battaglia contro la criminalizzazione della cannabis light. Il fondatore di EasyJoint è stato ospite della prima puntata di “Iene.it: aspettando Le Iene”, la nuova fascia digital condotta da Giulia Innocenzi e trasmessa su Mediaset Play, sul nostro sito e sulla pagina Facebook del programma prima di ogni puntata de Le Iene. Ci ha raccontato cosa è successo negli ultimi anni, com’è la situazione oggi e la sua idea per tenere accesi i riflettori sul destino della cannabis light. La storia di EasyJoint inizia il 14 gennaio 2017, quando entra in vigore la legge che regola la commercializzazione della canapa industriale: una pianta con meno dello 0,2% di thc. Nella legge non si parla del fiore, e quindi Marola ne approfitta e nasce la cannabis light. In poco tempo l’idea ha successo e la sua azienda ha un successo strepitoso: in un anno arriva a fatturare un milione e mezzo di euro. La favola però dura poco: tra “guerra alla droga” di Salvini e tribunali, la cannabis light finisce nell’occhio del ciclone. Via ai sequestri e ai processi, tantissime persone finiscono alla sbarra con le accuse di spaccio. Tra queste c’è anche Luca, che rischia dai 6 ai 20 anni di carcere. Un settore che in poco tempo era arrivato a dare lavoro a circa 12mila persone all’improvviso finisce in ginocchio. Luca però non demorde e ha un’idea, che racconta a Giulia Innocenzi: “Ho messo in liquidazione EasyJoint, perché l’oggetto sociale ad oggi sembra illecito: non è possibile commercializzare le infiorescenze della canapa. In ogni grado di giudizio del processo per spaccio chiamerò lo Stato come correo, perché è stato mio complice accettando le mie tasse e in particolare l’Iva”. E “chiederò indietro l’Iva”. Non sappiamo come andrà a finire la battaglia di Luca Marola, ma quello che sappiamo per certo è che questa è solo la prima di tante puntate di “Iene.it: aspettando Le Iene”. La nuova fascia digital è condotta da Giulia Innocenzi e trasmessa su Mediaset Play, sul nostro sito e sulla pagina Facebook del programma prima di ogni puntata de Le Iene. In questa nuova striscia vengono presentati contenuti inediti pensati e realizzati dalla redazione digital de Le Iene, anteprime di quanto sarà mostrato durante le puntate del programma su Italia1, approfondimenti originali e interviste agli ospiti presenti in studio.

L’idea di Lamorgese: “Arrestiamo i piccoli spacciatori per non demotivare la polizia”. de Il Dubbio il 20 febbraio 2020. La proposta del ministro dell’interno e quello della Giustizia. Della Vedova: “In galera per qualche canna? Che ideona”. “Ho predisposto una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga”. E’ l’ultima idea del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese dopo aver presieduto il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza in Prefettura ad Ancona. “Abbiamo fatto un tavolo di lavoro con il ministero della giustizia – ha spiegato – e abbiamo trovato una soluzione che convince sia noi che la giustizia, dando la possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato”. Sulle segnalazioni ricevute da vari Comitati per l’ordine e sicurezza, Lamorgese ha osservato: “E’ stato rilevato il fatto che arrestare, senza custodia in carcere, e il giorno dopo vedere nello stesso angolo di strada lo spacciatore preso il giorno prima, incide anche sulla demotivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività essere posta nel nulla quando il giorno dopo li ritroviamo nello stesso posto”.

LE REAZIONI. “Aspettiamo di leggere il testo che i ministri Lamorgese e Bonafede confezioneranno, ma dalle anticipazioni di stampa sembra che la grande idea dell’esecutivo rischierà di mandare in galera decine di migliaia di giovani e meno giovani anche solo per qualche canna in tasca”. Lo scrive su Facebook il segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova. “Manco Salvini e il governo Conte uno erano arrivati a proporre una cosa così. Quanto invece alla necessità di aggravare le pene contro il ‘micro-spaccio’, che sembra essere la giustificazione di questa operazione politico-pubblicitaria, decenni di applicazione di una legge sulla Droga iper-proibizionista dimostrano che la possibilità di fronteggiare la diffusione delle droghe, mandando in galera migliaia di persone in più, rende più insicure le carceri, ma non rende più sicure le strade e non toglie un solo grammo di Droga dal mercato”, conclude Della Vedova.

Proibizionismo e criminalizzazione sulle droghe hanno fallito. Ma la ministra Lamorgese non se n’è accorta. Damiano Aliprandi de Il Dubbio il 20 febbraio 2020. Anche Md contrararia alla nuova stretta carceraria: “Passare dalla repressione alla prevenzione”. Nonostante l’evidenza, ovvero che il proibizionismo per legge è fallito e l’unico risultato vero ottenuto è stato quello della patologizzazione e criminalizzazione dell’uso e dell’aumento della popolazione carceraria, la ministra dell’interno Luciana Lamorgese propone l’arresto immediato con custodia cautelare in carcere anche per chi spaccia piccole quantità di sostanze stupefacenti. Lei stessa ha spiegato che la soluzione è stata trovata all’interno di «un tavolo di lavoro con il ministero della Giustizia» e «convince» entrambi i dicasteri. Eppure, come è stato ampiamente dimostrato, l’approccio repressivo dell’attuale legislazione sulle droghe, la guerra alla droga, fondata sull’obiettivo irrealistico di un mondo libero dalle sostanze, è un fallimento, tanto più di fronte alle profonde trasformazioni del fenomeno: nuove sostanze, nuovi consumatori, nuovi stili di vita e di consumo. Sono le conclusioni alla quale sono giunte le organizzazioni promotori della Conferenza nazionale sulle droghe che si terrà a Milano il 28 e 29 febbraio. Tante sono le organizzazioni a sostegno dell’evento, tra cui la Cgil che nella Conferenza si è sempre impegnata. Tra gli altri troviamo A Buon Diritto, Arci, Associazione Antigone, Associazione Freeweed, Associazione Luca Coscioni, Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà e molti altri. L’iniziativa è stata presentata lunedì scorso a Roma, in una conferenza stampa alla Camera. A illustrare il senso della Conferenza di Milano è stata Denise Amerini, responsabile per le Dipendenze nell’area welfare della Cgil nazionale. «La legge compie trent’anni, oggi sono evidenti gli effetti che ha avuto – ha esordito -: la patologizzazione e lo stigma lanciato addosso alle persone, che è poi ricaduto su tutti coloro che lavorano nel settore. Si tratta di un approccio repressivo che ha portato a una grave regressione culturale. Basti guardare in questi giorni al caso di Verona: c’è una scuola che ha imposto i cani antidroga e perfino l’esame dell’urina per gli studenti». Nel nostro Paese la percezione delle sostanze stupefacenti sconta una serie di stereotipi, indotti dalla politica e dai media, tanto che la cosiddetta  guerra alla droga è tra le espressioni preferite dei giornali. «Siamo davanti a un progressivo indebolimento dei servizi – ha continuato Amerini -,che è dovuto proprio a come si ragiona rispetto alle sostanze: non si investe e non si valorizzano mai gli operatori. Alla mancanza di risorse si aggiunge poi il blocco delle assunzioni, negli ultimi anni i nuovi ingressi sono pochi e tutti precari». Alla base c’è un problema culturale: «Molte opinioni diffuse sono profondamente sbagliate: spesso si attribuisce a una sostanza un effetto che non ha, invece bisogna studiare prima di intervenire». La Conferenza nazionale sulle droghe per legge è prevista ogni tre anni,eppure non si svolge dal 2009. «Per questo l’autoconvocazione è particolarmente importante – ha sottolineato sempre la responsabile welfare della Cgil Amerini -, chiediamo alla politica di assumere il ruolo che le spetta: affrontare il tema non in modo emergenziale, ma con strumenti seri. Vogliamo subito la riforma della legge 309. Bisogna poi legalizzare la cannabis, per favorire l’accesso alle cure per le persone,ma anche per migliorare l’economia e colpire la criminalità. Occorre capire che esiste un utilizzo controllato e molti usi della cannabis si sono normalizzati nella società attuale. Tutto questo – infine – aiuterebbe a combattere il sovraffollamento nelle carceri». Tra i promotori, c’è pure Franco Corleone, già garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana e da sempre impegnato in prima linea sul tema delle droghe e delle dipendenze. «A Milano dobbiamo lanciare una mobilitazione di tutti i soggetti interessati perché abbiamo dei rischi tremendi – ha spiegato Corleone -. Nella commissione Giustizia della Camera è incardinata la proposta Salvini per abolire la previsione dei fatti di lieve entità per quanto riguarda il cosiddetto piccolo spaccio. Significa che da 60 mila detenuti in carcere rischiamo di arrivare a 70 mila presenze di persone che non hanno alcuna ragione di essere incarcerate. Questo sarà uno dei temi della conferenza».

LE REAZIONI. Critiche arrivano anche dall’esecutivo nazionale di Magistratura democratica. ” Per risolvere il problema è necessario un cambio di paradigma – scrive Md – passare dalla repressione alla prevenzione e alla cura della salute. Prevedere la custodia in cautelare per tali reati – in non meglio precisate ipotesi di recidiva – significa ancora una volta ignorare l’inutilità della risposta carceraria a questo problema.

Siamo nel Paese del Consiglio d’Europa con il più alto numero di ristretti per violazione della legge sulla droga (circa il 30% della popolazione detenuta) e con un tasso elevatissimo di detenuti tossicodipendenti (pari circa al 25% dei detenuti complessivi). Eppure non abbiamo fatto passi in avanti nella lotta ai danni della droga sulla salute e lo spaccio continua a proliferare nelle strade.Non intendiamo sottovalutare gli allarmi delle forze delle ordine e le preoccupazioni degli abitanti di quei luoghi più incisi dalla piaga dello spaccio.Crediamo, tuttavia, che per risolvere questo problema sia necessario un cambio di paradigma: passare dalla repressione alla prevenzione e alla cura della salute”.

Lamorgese supera a destra Salvini: “In carcere anche i piccoli spacciatori”. Redazione de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Arresto immediato e custodia cautelare in carcere per chi spaccia abitualmente sostanze stupefacenti anche in modica quantità. È la stretta annunciata ieri dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese a margine del Comitato per l’ordine e la sicurezza che ha presieduto in prefettura ad Ancona. L’obiettivo è colpire in modo più efficace chi si macchia di recidiva.  «Ho predisposto una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga», ha spiegato Lamorgese che ha lavorato al provvedimento insieme al Guardasigilli Alfonso Bonafede. «Abbiamo fatto un tavolo di lavoro con il ministero della giustizia e abbiamo trovato una soluzione che convince sia noi che la giustizia, dando la possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato». In merito alle segnalazioni ricevute da vari Comitati per l’ordine e sicurezza, Lamorgese ha osservato: «È stato rilevato il fatto che arrestare, senza custodia in carcere, e il giorno dopo vedere nello stesso angolo di strada lo spacciatore preso il giorno prima, incide anche sulla demotivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività essere posta nel nulla quando il giorno dopo li ritroviamo nello stesso posto». Ad accogliere l’annuncio con un plauso è infatti l’Associazione nazionale funzionari polizia. «Le attività di spaccio al minuto – dice il portavoce Girolamo Lacquaniti – sono ormai caratterizzate da venditori di morte che, approfittando dell’attuale normativa, sono in possesso di quantitativi ridotti proprio per evitare il carcere. Da sempre – prosegue – insistiamo sulla necessità di avere un sistema che garantisca l’effettività della sanzione e nel caso specifico dello spaccio questa necessità si è oggi trasformata in una urgenza assoluta». Soddisfatto anche il sindacato di polizia Sap. Critiche arrivano invece dai radicali di +Europa. «Aspettiamo di leggere il testo ma dalle anticipazioni di stampa sembra che la grande idea dell’esecutivo rischierà di mandare in galera decine di migliaia di giovani e meno giovani anche solo per qualche canna in tasca», attacca il segretario di +Europa Benedetto Della Vedova. Il deputato Riccardo Magi, tra i promotori dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, ricorda che proprio due giorni fa in commissione Giustizia alla Camera è arrivata la proposta la proposta di modifica del Testo unico sugli stupefacenti, di cui è primo firmatario, sottoscritta da parlamentari di tutti i gruppi di maggioranza. Una proposta «che riporta il trattamento sanzionatorio in un alveo di proporzionalità, in linea con i principi costituzionali e infine differenzia il regime sanzionatorio in funzione della diversa natura della sostanza, al fine di graduare il trattamento punitivo in relazione alla gravità delle condotte». «Dal Libro bianco sulle droghe del giugno 2019 emerge che il 30 per cento degli ingressi in carcere nel 2018 è stato causato da imputazioni o da condanne per spaccio», conclude.

Lamorgese dà il via a politiche imbecilli, irresponsabili e criminogene. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 22 Febbraio 2020. La giustificazione è anche più grave del fatto in sé: ti becco un paio di volte con un paio di canne e ti sbatto in galera. E perché? Perché altrimenti le forze dell’ordine sono “demotivate”. Lo ha detto l’altro giorno il ministro dell’Interno, la già prefetta Lamorgese, annunciando la novella di queste politiche imbecilli, irresponsabili, criminogene, di presunto contrasto al consumo di stupefacenti. La ministrona ha detto proprio così: che i poliziotti le hanno spiegato che c’è tanta droga in giro, e loro sono stufi di arrestare gli spacciatori per poi ritrovarli in strada il giorno dopo. Questo andazzo (testuale) “incide anche sulla motivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività finire nel nulla”: e quindi alè con il carcere. Dimentichiamoci pure del fatto che l’apparato proibizionista e criminalizzante in materia di droga ha dimostrato tutta la propria incapacità di risolvere il problema. Ma che questo sistema si perfezioni in un ulteriore trionfo di manette perché ce lo chiedono le forze dell’ordine è un supplemento insopportabile nella degenerazione civile cui stiamo assistendo. Ma perdio! Assumiamo provvedimenti di legge in campo criminale secondo le istanze della polizia? E il prossimo qual è? Magari a qualche colonnello non piace poi tanto questa roba della democrazia rappresentativa, e sai quant’è demotivato davanti all’impiccio delle libere elezioni e a questa noia dei diritti individuali: che facciamo, se chiede un bel giro di vite militaresco non gli diamo ascolto? Probabilmente, e tragicamente, tutto questo è la semplice riprova che le acquisizioni civili e democratiche non sono mai acquisite per sempre e trovano banalissimi motivi di revoca: per esempio, nell’azione di una pericolosa schiatta di analfabeti issata al potere da un Paese indolente.

Ecco come ci si rovina in Italia. Droghe, alcool, fumo, gioco d’azzardo: i nostri figli sono a rischio. Francesco Storace mercoledì 15 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Morire per sballo e lo Stato non c’è. Milioni di persone – in Italia e non chissà dove – sono a rischio ma non sembra un problema di chi governa. Siamo nelle mani di chi tollera il precipizio verso i primati peggiori, e sta fermo. Leggeteli i dati, diamine, che sono a disposizione dei parlamentari. Lo ha fatto la deputata Maria Teresa Bellucci di Fratelli d’Italia e il quadro che ne esce – sono relazioni arrivate dal dipartimento antidroga della presidenza del Consiglio alla Camera – per il danno alla salute di troppi è spaventoso.

Sei morti per overdose ogni sette giorni. Siamo terzi in Europa per l’uso della cannabis, quarti per la cocaina. Circolano da noi novantadue tipi di droghe sintetiche. Accompagniamo ai funerali sei morti per overdose ogni sette giorni. Qualcuno ne ha notizia? Peggio ancora: qualcuno ne dà notizia? Niente, ormai siamo all’assuefazione, è proprio cultura dello sballo. E mancando qualunque monitoraggio capillare è evidentemente un bilancio drammaticamente sottostimato. Non solo droghe. Nei dati diffusi dalla Bellucci, fa impressione quello sull’alcool: si comincia a bere – pesantemente – a 11 anni. Nove milioni di consumatori sono a rischio, due e mezzo di costoro sono anziani e addirittura un milione e mezzo adolescenti. Ragazzi, figli nostri. Chiamate lo Stato. No, non c’è, è impegnato in riunione a litigare con i suoi ministri. Maledette sigarette. Scrive l’organizzazione mondiale della sanità che il fumo a livello mondiale rappresenta la seconda causa di morte ed è anche la prima causa di morte evitabile; 6 milioni di persone perdono la vita ogni anno per i danni da tabagismo e, fra le vittime, oltre 600.000 sono non fumatori esposti al fumo passivo. Sapete quanti sono i dipendenti da nicotina in Italia? Circa il 20 per cento della popolazione ultraquattordicenne. Com’era quella storia che prevenire è meglio che curare?

Dalle droghe all’alcool, dal fumo al gioco d’azzardo. L’altra tragedia è il gioco d’azzardo. In Italia spendiamo la bellezza di oltre 96 miliardi di euro annui: lo Stato ci “guadagna” 11 miliardi. E’ questo il motivo per cui si sta paralizzati? I dati della prima indagine epidemiologica in materia dell’Istituto superiore di sanità (ISS), pubblicata nel mese di ottobre 2018, tracciano un quadro agghiacciante sul gioco d’azzardo in Italia: sono 18 milioni gli italiani adulti che giocano e un milione e mezzo sono giocatori problematici; inoltre, anche i minorenni giocano d’azzardo, nonostante sia vietato dalla legge. Nella medesima indagine, infatti, si rileva che sono quasi 700.000 gli adolescenti tra i 14 e i 17 anni che giocano d’azzardo e questo, evidentemente, denota un problema di carattere educativo e culturale. In quali sedi politiche si discute questa tragedia nazionale? E’ il motivo di fondo che ha portato l’on. Bellucci a proporre, assieme ai deputati di Fdi, il 20 marzo come giornata nazionale sulle dipendenze patologiche. Ma i nostri eroi di governo sono troppo impegnati a restare aggrappati al potere che ad occuparsi dei problemi che rappresentano un autentico dramma. I numeri sono spaventosi. E non sono accompagnati da cifre consistenti che andrebbero stanziate per evitare le conseguenze della dipendenza di milioni di italiani da tutto quello che fa loro male. Ai signori della cannabis che stazionano a palazzo Chigi non interessa. 

Scoperta in Israele: gli ebrei facevano uso di cannabis già 2700 anni fa durante le cerimonie rituali. Pubblicato mercoledì, 03 giugno 2020 da Sharon Nizza su La Repubblica.it Un'équipe di ricercatori ha trovato residui su due altari del santuario di Tel Arad, uno dei siti archeologici più importanti del Paese, a sud del Mar Morto. Gli ebrei facevano uso di cannabis durante le cerimonie rituali all'epoca del Primo Tempio di Gerusalemme, 2700 anni fa. È la curiosa scoperta di uno studio pubblicato venerdì sulla rivista dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Tel Aviv da Eran Arie, curatore dell'area archeologica del Museo d'Israele e da Dvory Namdar, chimica e archeologa dell'Istituto Volcani, specializzato nella ricerca agricola e botanica. I ricercatori hanno esaminato dei residui trovati su due altari del santuario di Tel Arad, uno dei siti archeologici più importanti di Israele, a sud del Mar Morto, risalente intorno al 750 a.C. e rinvenuto negli anni '60 nel corso degli scavi condotti dall’archeologo Yohanan Aharoni. Usando la gascromatografia e la spettrometria di massa, i ricercatori hanno potuto identificare oggi ciò che non era riuscito ai loro predecessori nel 1963: i residui trovati sull'altare minore presentano tracce di THC, cannabidiolo e cannabinolo, i principi attivi della cannabis. E insieme a essi anche residui di letame, che i ricercatori riconducono al combustibile che permetteva alla cannabis di bruciare alla temperatura necessaria per attivare i composti psicoattivi della sostanza. Questo a differenza dei residui rinvenuti sull'altare maggiore: franchincenso, un incenso pregiato proveniente dalla penisola arabica, e grasso, che porta la materia a raggiungere temperature più elevate necessarie affinché rilasci il suo aroma. "Per portare a uno "stato di alterazione" con la cannabis è necessaria una temperatura non troppo alta, per non rischiare di bruciarla, e la differenza tra i combustibili utilizzati dimostra una certa competenza in materia", spiega Dvory Namdar in un'intervista al quotidiano Haaretz. Altro elemento significativo della ricerca è che, siccome entrambe le sostanze erano importate con costi molto elevati, e dal momento che il santuario di Tel Arad era costruito sul modello del grande Tempio di Gerusalemme – distrutto nel 586 a.C. con la conquista babilonese – gli archeologi ipotizzano che se il rituale era utilizzato in una zona periferica del Regno di Giudea, probabilmente era una pratica di culto istituzionalizzata dal governo centrale che ne sovvenzionava i costi e certificava la legittimità. "L'utilizzo di sostanze allucinogene per ragioni di culto è attestato nelle culture umane dal Neolitico", dice Arie. "Ma questa è al momento la più antica evidenza dell’uso di cannabis nel Medio Oriente antico". Gli abitanti del Regno di Giudea nell’VIII secolo a.C. entrano ora a far parte di questo club. A differenza di allora, quando la cannabis veniva importata probabilmente dal lontano Oriente, oggi Israele è uno dei leader al mondo per la produzione di marijuana, legalizzata già negli anni '90 a fini terapeutici, tanto che anche l'ex premier Ehud Barak ha negli ultimi anni fatto grandi e redditizi investimenti nel settore. Resta ancora penale il consumo personale. Oren Leibovich, leader della campagna pro-legalizzazione, ha fatto notare che nel nuovo governo Netanyhau-Gantz 19 su 34 ministri hanno posizioni favorevoli alla legalizzazione e questa "deve essere l'occasione per portare avanti innanzitutto la battaglia per la decriminalizzazione, come primo passo necessario sulla via della regolamentazione del consumo e del mercato".

Cannabis light: “Mi hanno sequestrato anche il pupazzo di Bob Marley". Monica Skripka su Le Iene News il 28 gennaio 2020. Continua l’odissea sulla legalizzazione della cannabis light. Archiviata la posizione di 56 indagati dopo un maxi-sequestro della Guardia di Finanza, per la procura “la legge non è chiara”. Noi di Iene.it abbiamo sentito la storia di chi ha perso tutto per questo. La procura di Taranto ha chiesto e ottenuto l’archiviazione dei 56 indagati per spaccio coinvolti nella maxi-inchiesta “Affari in fumo” della Guardia di Finanza, partita nel 2018: secondo i magistrati “la legge sul thc non è chiara”. Sotto sequestro erano finiti oltre una tonnellata di infiorescenze di canapa sativa, 120 litri di bevande a basso contenuto di thc, 2.600 caramelle e lecca-lecca derivanti da canapa sativa e 4.500 strumenti utilizzati per il confezionamento e l’ingestione della canapa. Noi di Iene.it abbiamo raccolta la testimonianza di due degli indagati nella maxi inchiesta, che denunciano di aver perso tutto a causa dei sequestri e dell’assenza di una normativa chiara in materia. “Mi hanno sequestrato tutto senza fare alcun controllo, avrei potuto vendere anche polistirolo. Tutto perché, secondo loro, la cannabis light è un incentivo alla droga”. Così inizia l’incredibile storia di Marta, proprietaria di un negozio di canapa a Taranto. Il 5 dicembre del 2018 riceve una visita da agenti della Guardia di Finanza che sequestrano tutta la merce, dalla cannabis light a tutto ciò che riguarda il consumo dei derivati della canapa: filtri, cartine e perfino pupazzi di Bob Marley. Al momento dell’arrivo dei finanzieri, la donna sostiene di aver voluto presentare le analisi di ogni prodotto per dimostrare il rispetto del limite del thc: i finanzieri però avrebbero sostenuto che “qualsiasi livello di thc presente nella cannabis light viene considerato droga”. Il materiale sequestrato sarebbe poi stato messo nei depositi e “dopo l’archiviazione tutta la merce è stata distrutta”, racconta Marta. La merce valeva circa 25mila euro. L’accusa a carico degli indagati era gravissima: spaccio. In Italia, infatti, la legge 242 del 2016, quella che ha dato il via libera alla coltivazione di cannabis light, consente la piantagione di piante di canapa che abbiano una percentuale di thc compresa tra lo 0,2 e lo 0,6 per la produzione di fibre e altri prodotti. La linea “dura” della magistratura è invece dettata da un altro provvedimento legislativo del 1990, il cosiddetto “Testo unico sugli stupefacenti”, che punisce le condotte di chi “vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia le sostanze stupefacenti o psicotrope” indicate in due tabelle indicate nell’articolo 14 del decreto. Nel 2019 la Cassazione ha confermato questa linea in una sentenza che ha chiarito come la vendita di cannabis light rimane proibita, in sintonia con la linea dura dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini. Anche Giuseppe è rimasto coinvolto nel maxi sequestro. Aveva deciso di aprire a Taranto un negozio in cui si vendevano prodotti a base di canapa: magliette, occhiali da sole, zaini, tutto lavorato a mano con la canapa. “Abbiamo deciso di aprire nell’ottobre del 2018 e neanche dopo due mesi, ci siamo trovati con 6 finanzieri nel negozio rimasti per 8 ore e che hanno deciso di sequestrare tutto: resine, materiale pubblicitario, accendini, tutto. Perché li ritenevano incentivi alla droga”, dice Giuseppe a Iene.it. Per Giuseppe il business della cannabis light era perfetto per le sue idee di vendita, tanto che aveva deciso di affittare un locale con dentro tre macchinette self-service h24 con l’intento di vendere tutti i prodotti presenti nel negozio. Questo progetto avrebbe dovuto partire nel gennaio 2019, ma all’arrivo dei finanzieri il 5 dicembre 2018 tutto va in fumo. Gli inquirenti avrebbero deciso di sequestrare in maniera preventiva anche quei locali che “erano vuoti e mi hanno costretto a pagare l’affitto per almeno 8 mesi, pur non avendo nulla dentro”, sostiene l’imprenditore. “Ci hanno voluto fare proprio male e abbiamo perso circa 65mila euro inclusi la merce, affitto e avvocati. E ora che ho subito il danno, nessuno ci garantisce un risarcimento”, dice Giuseppe. Nonostante la delusione e la rabbia verso l’ingiustizia e la mancanza di una normativa valida, Giuseppe non ha perso il suo spirito imprenditoriale: “Cerco di ripristinare quel danno economico e faccio una specie di "mercatino dell’usato". Ogni persona porta le sue cose che vuole vendere e io faccio da agente.”. Le storie di Marta e Giuseppe dimostrano come la mancanza di una legge chiara e un sistema ancora miope causa ai cittadini danni economici e di immagine. E rendono ancora più urgente la legalizzazione del settore della cannabis light, che finora ha dato lavoro a oltre 10mila persone e ora è in ginocchio per la gioia di tante attività criminali che lucrano sulla vendita illegale di marijuana. 

Cannabis light, continua la lotta per la legalizzazione: “Non siamo narcos”. Le Iene News il 22 gennaio 2020. È stato presentato un nuovo emendamento per la legalizzazione della cannabis light, che però ha poche possibile di essere ammesso. “Teniamo accesa la luce su questa battaglia”, ha detto a Iene.it Luca Marola. La maggioranza tiene viva l’attenzione sulla legalizzazione della cannabis light: dopo il fallimento di dicembre, è stato presentato un emendamento al decreto Milleproroghe. “Non ci sono grandissime probabilità che venga ammesso, ma serve a tenere accesa la luce su questa battaglia”, ha detto a Iene.it il fondatore di Easyjoint, Luca Marola. “È un tentativo in un certo senso estremo, ma che noi apprezziamo”.  “È la prima volta che la maggioranza presenta questo tema in modo unito e compatto”, ci spiega Marola. “Ci sono oltre trenta firmatari. Adesso l’obiettivo è riuscire ad arrivare a una proposta di legge condivisa”. “Prima o poi sono convinto che il buon senso prevarrà sulla mistificazione su questo tema”, ha continuato Marola. “Bisogna far capire a tutti che stiamo parlando di fiore della canapa industriale, qualcosa molto più simile al carciofo o al radicchio che alla cocaina e l’eroina. Non è il cartello dei narcos che prende posizione su questo tema, ma la Coldiretti”. Non esattamente dei rivoluzionari. Mentre le discussioni continuano, intanto, il settore che dà lavoro a oltre 12mila persone è sempre più in difficoltà: “Da quello che posso vedere sono molte purtroppo le aziende che hanno già chiuso”. E per adesso sembra che la situazione sia destina a non migliorare. La proposta in discussione mira a legalizzare la vendita di prodotti con un contenuto di thc (il principio attivo della cannabis) inferiore allo 0,5%. La decisione dei gruppi di maggioranza, che era nell’aria già da qualche settimana, sarebbe maturata a seguito della sentenza della Cassazione dello scorso dicembre: i giudici del Palazzaccio hanno infatti deciso che l’autocoltivazione di una piccola quantità di cannabis per uso strettamente personale non è da considerarsi reato. Ma come detto sembra probabile che questo emendamento non sia accettato. Il primo tentativo di legalizzare la cannabis light, come vi abbiamo detto, era stato fatto a dicembre durante la discussione della manovra: il testo, che tra le altre cose prevedeva che la canapa industriale con un contenuto di thc non superiore allo 0,5% non venisse più considerata come una sostanza stupefacente, era però stato giudicato “inammissibile” dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati perché estraneo alla materia della legge di bilancio in discussione in Aula. La decisione di Elisabetta Casellati aveva causato una dura reazione da parte della maggioranza. Alberto Airola del M5s aveva accusato la presidente di aver preso una “decisione politica”. Esultanza invece per Matteo Salvini: “Ringrazio la presidente a nome di tutte le comunità di recupero d'Italia. Evitata la vergogna dello Stato spacciatore”. E mentre la partita si riapre Salvini, reduce dalla scenata fatta sotto casa di un cittadino tunisino da lui accusato di essere uno spacciatore, è tornato all’attacco dichiarando una “vergogna” la scelta della maggioranza.

Da ansa.it  il 22 gennaio 2020. La Regione siciliana si farà carico delle spese sostenute dai pazienti che ricorrono alla cannabis per uso terapeutico. Lo prevede un decreto firmato dall'assessore alla sanità, Ruggero Razza. Il farmaco sarà gratuito per i pazienti affetti da dolore cronico e neuropatico e da spasticità da sclerosi multipla, e che si rivolgeranno alle strutture sanitarie pubbliche. Spetta ai medici delle Aziende sanitarie pubbliche regionali, specialisti di anestesia e rianimazione, neurologia e dei centri di terapia del dolore prescrivere ai pazienti la terapia con la cannabis per una durata massima di sei mesi; il preparato potrà essere richiesto dal paziente nelle farmacie ospedaliere. Al momento, però, in Sicilia queste farmacie non producono il farmaco, per cui il decreto prevede che la Regione firmi convenzioni con i privati. Sono cinque le farmacie private che producono il farmaco, si trovano ad Agrigento, Catania, Palermo, Ragusa e Siracusa. Il decreto della Regione siciliana è il punto di arrivo di un lavoro portato avanti, per oltre un anno, da un tavolo tecnico istituito dall'assessore alla Sanità e richiesto da alcune associazioni, tra cui Bister di Catania ed "Esistono i diritti" di Palermo. "Ringraziamo l'assessore Razza per la sensibilità dimostrata e per il decreto appena firmato - dice Giuseppe Brancatelli di Bister - E' un risultato importante, come associazioni continueremo la nostra azione affinché sia allargata la platea di patologie per la somministrazione gratuita del farmaco".

Terapia gratis con cannabis in Sicilia: firmato il decreto. Le Iene News il 21 gennaio 2020. Via libera dalla Regione siciliana alla cannabis terapeutica. Per i pazienti affetti da tre patologie specifiche, il farmaco sarà gratuito. L’assessore della salute, Ruggero Razza, ha firmato il decreto. Sì alla terapia con cannabis in Sicilia. Il decreto che prevede l’uso del farmaco in modo gratuito è stato firmato dall’assessore della salute Ruggero Razza. Spetterà alla Regione farsi carico delle spese sostenute dai pazienti affetti da dolore cronico, neuropatico e da spasticità da sclerosi multipla. Il documento che prevede l’uso della cannabis terapeutica contiene tutte le regole per la prescrizione, allestimento ed erogazione. Inoltre viene riportata la rimborsabilità dei farmaci preparati nei laboratori o anche di origine industriale a base di cannabis per uso medico. La durata della cura non deve superare i sei mesi e potrà essere eventualmente rinnovata. Per ottenere l’erba medicinale, bisogna avere una prescrizione emessa solo dai medici dipendenti delle Aziende sanitarie pubbliche regionali, specialisti di Anestesia e rianimazione, Neurologia e dei centri di terapia del dolore. Sono tre le modalità di assunzione del farmaco: cartine per uso orale, cartine e capsule per uso inalatorio e olio per uso orale. La cannabis medicinale è disponibile in solo cinque farmacie private che sono anche produttrici: Agrigento, Catania, Palermo, Ragusa e Siracusa. "Un grande passo avanti è stato fatto, anche se non siamo pienamente soddisfatti perché molte patologie sono rimaste fuori e c'è ancora parecchio da lavorare per avere garantito il diritto di cura per tutti”, ha detto un rappresentante del Comitato Pazienti Cannabis Medica. Un passo avanti dunque anche nello sdoganare l’utilizzo della cannabis light, in attesa del nuovo emendamento che il Movimento 5 Stelle vuole presentare per dare il via libera alla vendita dei prodotti con un contenuto di thc inferiore allo 0,5%. 

Arriva la cannabis a tavola, dai biscotti all'olio. La Coldiretti: via libera in Gazzetta ai limiti massimi di Thc. La Repubblica il 16 gennaio 2020. VIA libera alla cannabis a tavola. E' stato infatti pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che fissa i limiti massimi di Thc negli alimenti. Lo annuncia la Coldiretti. Chiarezza, dunque, sulle nostre tavole per biscotti, taralli, pane, farina, olio, che hanno registrato un boom negli ultimi tempi. Ma c'è anche chi la usa per produrre ricotta, tofu e una gustosa bevanda vegana, oltre che la birra. Basti pensare  - prosegue - che i terreni coltivati in Italia in cinque anni sono aumentati di dieci volte, passando dai 400 ettari del 2013 a quasi 4000 nel 2018". Il decreto del ministero della Salute stabilisce, in particolare, che il limite massimo di Thc per i semi di cannabis sativa, la farina ottenuta da semi e gli integratori contenenti alimenti derivati, è di 2 milligrammi per chilo, mentre per l'olio ottenuto da semi è di 5 milligrammi per chilo. "L'attesa pubblicazione in Gazzetta fa chiarezza su un settore che negli ultimi anni, rileva Coldiretti, ha visto un vero e proprio boom. Un tipo di coltivazione  - conclude - che si estende in tutta Italia, un vero e proprio ritorno visto che fino agli anni 40 gli ettari dedicati erano quasi 100 mila".

La cannabis arriva a tavola: ecco in quali cibi. Le Iene News il 16 gennaio 2020.  Sì all’uso della cannabis negli alimenti: si potrà utilizzare per realizzare biscotti, taralli, pane, farina e olio. Stabilito anche il limite massimo di thc che potrà essere contenuto nei prodotti. Continua intanto la battaglia per la legalizzazione della cannabis light, che noi de Le Iene vi stiamo raccontando da tempo. Via libera alla cannabis a tavola. Il decreto che autorizza la realizzazione di prodotti culinari a base di marijuana è stato pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale. Sarà così possibile consumare biscotti, taralli, pane, farina e olio contenenti cannabis. La legge, come riporta Coldiretti citata da Repubblica, prevede limiti piuttosto stringenti per la realizzazione di questi prodotti: per esempio la farina ottenuta dai semi di cannabis sativa potrà contenere al massimo 2 milligrammi di thc – il principio attivo – per chilo. Il limite sale 5 milligrammi per l’olio. Non saranno però solamente questi i prodotti che adesso potranno arrivare sulle nostre tavole: via libera, infatti, anche ai biscotti, ai taralli, al pane e – rispettando determinati criteri – anche alla ricotta, al tofu e perfino alla birra. Una buona notizia insomma per tutti quegli agricoltori e produttori che attendevano una risposta chiara dalle istituzioni. Il settore infatti è in costante crescita: i dati riportati da Coldiretti parlano di terreni coltivati che nel giro di cinque anni sono aumentati di dieci volte dai 400 ettari del 2013 a quasi 4000 nel 2018. Un passo avanti dunque nello sdoganare l’utilizzo della cannabis, mentre si sta ancora lottando per avere il via libera per la cannabis light. Lo scorso dicembre è fallito il tentativo della maggioranza di liberalizzare questi prodotti tramite un emendamento inserito nella legge di Bilancio: la presidente del Senato Elisabetta Casellati, infatti, aveva bloccato la proposta non ammettendo il testo alla discussione dell’Aula. La battaglia, che sembrava quasi vinta, non è però finita: sembra infatti che il Movimento 5 Stelle sia intenzionato a presentare un nuovo emendamento per dare il via libera alla vendita dei prodotti con un contenuto di thc inferiore allo 0,5%. Potrebbe essere la volta buona per salvare un settore che dava lavoro a diecimila persone e che adesso è finito in ginocchio a causa dei continui contrasti e rinvii alla legalizzazione.

Da "ansa.it" il 27 febbraio 2020. Ai baby boomer piace la marijuana. Secondo un nuovo studio pubblicato su Jama Internal Medicine in quattro anni il consumo di marijuana è salito del 75% tra gli over 65. Gli aumenti maggiori tra le donne, la fascia più istruita e più ad alto reddito. Tuttavia se l'industria gioisce, gli esperti esprimono preoccupazione per la mancanza di informazioni e ricerche sugli effetti che il consumo di marijuana può avere sugli over 65. Ad oggi undici stati americani e District of Columbia con la capitale Washington hanno legalizzato la marijuana per uso ricreativo mentre 33 hanno legalizzato quella medica.

Cannabis terapeutica. Il nonno ora si fa una canna: è boom di marijuana tra gli anziani. Cliniche specializzate, club di pensionati-consumatori e ricerche sugli effetti curativi nelle malattie senili. La nuova frontiera dell’erba negli Stati Uniti sono gli over 65. Che in questo modo combattono dolori di ogni tipo. Anna Volpicelli il 15 gennaio 2020 su L'espresso. Più di un milione e mezzo di over 65, negli Stati Uniti, hanno fatto uso di marijuana nell’ultimo anno. Ed è un fenomeno in crescita progressiva, come documenta un recente studio della New York University. Non è così strano: gli effetti terapeutici dei cannabinoidi sono ormai evidenti per una grande quantità di patologie tipiche proprie della terza età, dalla lombosciatalgia al glaucoma, dalle alterazioni del sonno all’artrite, dal Parkinson alla demenza - e molto altro. È quindi ancora meno strano che, con l’invecchiamento della popolazione in Occidente, il rapporto prevalente con la marijuana stia cambiando: non più “droga trasgressiva” dei ragazzi ma strumento di miglioramento della qualità della vita degli anziani, quindi da incentivare o quanto meno accettare. Di qui i cambiamenti anche nelle legislazioni: dagli Stati americani in cui la marijuana è stata legalizzata (ormai una ventina, tra uso ricreativo e terapeutico) fino al nostro Paese, dove prosperano i negozi di erba light e poche settimane fa la Cassazione ha depenalizzato la coltivazione in casa o in giardino per uso personale. Laguna Woods è una soleggiata località della contea di Orange, in California, dove da decenni si trasferiscono, una volta pensionati, molti anziani americani di ceto medio e medioalto. Non a caso questa è stata la prima città americana - nel 2008 - a offrire marijuana medica e qui è nato anche il Laguna Woods Medical Cannabis Club, un’associazione fondata da Lonnie Painter, 74 anni, pensionato ed esperto del settore “spinelli per anziani”. Pizzetto bianco e camicie aperte sul petto, Painter rivendica il suo lungo attivismo a favore della diffusione della marijuana per i “senior citizens”, obiettivo per il quale ha coinvolto anche medici, botanici e biologi. «Come collettivo abbiamo cominciato a offrire ai nostri membri Cbd, la parte più pura della pianta, già sette anni fa. Oggi posso dire di aver lavorato con centinaia e centinaia di anziani», spiega Painter, specificando che «il nostro iscritto più vecchio ha 103 anni» e l’ingresso nel collettivo è riservato a chi ne ha compiuti almeno 55. «Io la uso da quando ne avevo più o meno sessanta e ho cominciato a studiarne scientificamente gli effetti nel 2010», continua. «Quando sei vecchio, la cannabis ti può aiutare in molti modi. Io per esempio soffro di osteoporosi e artrite. Ho avuto anche un’operazione a una mano e grazie alla marijuana medica non ho mai avuto dolori. E, soprattutto, la mia condizione generale è ottima per la mia età». Ogni mese Lonnie organizza per il suo club una conferenza dove vengono invitati a parlare diversi dottori, scienziati ed esperti del settore che affrontano tematiche specifiche relative ai trattamenti a base di marijuana specifici per gli anziani. Il presidente del Lw Medical Cannabis Collective considera la sua una missione sociale non così diversa da quando tanti anni fa, proprietario di un bar a Laguna Beach, assumeva senzatetto e disperati per insegnare loro un mestiere. Quello che però Painter dice di temere, adesso, è l’eccessivo successo industriale della cannabis, che sta portando sul mercato «prodotti di varie marche sui cui ingredienti noi non abbiamo alcun controllo», mentre finora i suoi anziani hanno «sempre consumato la marijuana locale, da noi coltivata e testata», insomma roba buona. Dopo l’approvazione della Proposition 64, conosciuta come The Adult Use of Marijuana Act, che in California ha legalizzato l’erba, molte compagnie farmaceutiche ne stanno sperimentando l’utilizzo per prodotti riservati agli anziani, di cui Painter tuttavia diffida. Il fatto è che la marijuana può aiutare i vecchi, è vero, ma non è un gioco: «Per chi ha più di 60 anni e vuole consumare cannabinoidi è fondamentale rivolgersi a persone specializzate», ci dice Eloise Theisen, oncologa e cofondatrice di Radical Health, studio medico specializzato nella terapia a base di marijuana con sede a Walnut Creek, sempre in California. «Ci sono sempre tanti fattori di rischio da considerare negli anziani, in particolar modo l’interazione con gli altri farmaci che i senior spesso devono prendere». Anche la dottoressa Theisen ormai è un’esperta: in sei anni - dal lancio della sua clinica - ha lavorato con circa 6.000 pazienti con un’età media di 75 anni. «Di solito», spiega, «la terapia a base di marijuana è un po’ l’ultima spiaggia a cui i malati si rivolgono. Cercano la cannabis dopo aver sperimentato varie cure contro il dolore, l’insonnia e l’ansia o per alleviare alcuni sintomi legati al Parkinson e all’Alzheimer». In molti casi, assicura la dottoressa, il tremore e la rigidità fisica di chi ha il Parkinson diminuiscono con una buona terapia a base di cannabinoidi mentre «per quanto riguarda l’Alzheimer il problema è il dosaggio: ogni corpo risponde in modo diverso in base ai geni, al genere e all’interazione con altre medicine assunte regolarmente. Gli uomini, per esempio, reagiscono in modo più veloce rispetto alle donne. La buona notizia comunque è che quasi sempre bastano due milligrammi per stare meglio e fra gli effetti più immediati vediamo una migliore gestione dell’ansia, dell’agitazione e il miglioramento della comunicazione con i familiari». Intanto i programmi terapeutici per anziani a base di cannabis medica destinati ad anziani si diffondono in diverse città americane e non solo in California, dalla costa est al Colorado. Con le relative statistiche: l’American Academy of Neurology per esempio ha condotto uno studio su 204 pazienti attorno agli 80 anni di età iscritti al programma di cannabis medica di New York e ha riscontrato che dopo 4 mesi di assunzione di gocce di THC e CBD il 69 per cento dei partecipanti ha dichiarato la diminuzione o sparizione dei loro dolori, il 49 per cento ha detto di dormire meglio, il 18 per cento non dava più alcun segno di problemi neurologici e il 15 per cento ha dichiarato di non soffrire più di attacchi d’ansia. Un altro recente paradiso della marijuana per anziani è Israele, dove la Ben Gurion University ha appena pubblicato uno studio secondo il quale l’uso terapeutico della cannabis può essere molto più sicuro ed efficace nelle cure per un’ampia gamma di sintomi cronici legati a varie malattie neurologiche nei pazienti più anziani. Inoltre, può ridurre in modo drastico l’uso di altri farmaci, fra cui gli antidolorifici. Proprio in Israele tre anni fa è stata fondata NiaMedic, una clinica che fornisce terapie basate sulla marijuana per la cura esclusiva di anziani, con un «approccio olistico», come ci dice Alon Blatt, direttore dello sviluppo del business della clinica. Ai vertici della quale c’è la cofondatrice Inbal Sikorin, che si è avvicinata alla cannabis terapia lavorando con gli anziani di un kibbutz dove era a capo del reparto di infermeria, per poi avviare una ricerca sull’effetto della marijuana medica sulla demenza senile e i vari disturbi che affliggono le persone anziane. Così è nata la prima clinica NiaMedic in Israele e un anno dopo ha fatto seguito l’apertura di due filiali negli Stati Uniti, una in California, a Beverly Hills e una in Orange County, a Laguna Hills. «Il nostro obiettivo è quello di integrare la terapia a base di marijuana all’interno di una cura più completa, che include anche metodi classici», spiegano i responsabili. «Abbiamo anche un team di farmacisti che studiano l’interazione fra le medicine tradizionali e la marijuana. Così la somministrazione varia da paziente a paziente, ma ciò che accomuna ogni programma è il micro-dosaggio, fondamentale per comprendere come rispondono alla cura i ricettori presenti nel sistema endocannabinoide, uno dei più importanti per lo sviluppo e mantenimento dell’omeostasi nel nostro organismo. Noi cominciamo sempre con una dose di dieci milligrammi che poi viene a mano a mano aumentata in base alla risposta dei pazienti».Più rare ma non dissimili sono le sperimentazioni in Europa: a Ginevra per esempio c’è una casa di riposo che da due anni somministra olio di marijuana agli anziani, sulla base di un programma dell’Ufficio Federale di Sanità Pubblica in collaborazione con gli Ospedali Universitari della città elvetica. E in Italia? Per adesso non esiste nulla di simile, anche per la legislazione più severa. Un pugno di farmaci a base di marijuana può essere acquistato in farmacia con ricetta medica, come l’Fm2, basato sull’erba coltivata dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze: è consigliata per la terapia del dolore in caso di sclerosi multipla, lesione del midollo spinale o per placare i sintomi dovuti a chemioterapia, radioterapia o terapie per Hiv, come il vomito e la nausea. Finora tuttavia la diffusione in Italia di questo farmaco e di altri simili è stata ridotta, anche perché pochissimi medici li prescrivono (c’è ancora un forte ostacolo culturale, nel nostro Paese) e non tutte le Regioni li rimborsano. In compenso crescono i clienti over 60 nei negozi di marijuana light (scarsi gli effetti terapeutici, ma aiuta a rilassarsi, a fugare le ansie e a prendere sonno). Ed è presumibile, dopo la sentenza della Cassazione, che sui balconi dei bilocali dei pensionati, accanto ai gerani d’ordinanza, inizino presto a vedersi anche delle belle foglie verdi a punta con inflorescenze appena più chiare, il cui profumo avvolgerà serenamente tutto il cortile.

“Fermate il Fentanyl”: la Camera contro la nuova droga killer . Le Iene News il 5 febbraio 2020. Allarme Fentanyl: la Camera chiede all'unanimità al governo di fermare la diffusione di questa farmaco-droga. È cento volte più forte dell’eroina, negli Usa ha già ucciso migliaia di persone. Noi de Le Iene siamo stati tra i primi a lanciare l’allarme per il suo arrivo in Italia. Anche il Parlamento si muove per bloccare la vendita illegale, sempre più diffusa, di un farmaco-droga molto pericoloso: l’oppioide Fentanyl, un antidolorifico cento volte più potente dell’eroina che ha causato migliaia di morti in America e che sta arrivando anche in Italia. La Camera ha approvato all'unanimità (484 voti a favore, un astenuto e nessun voto contrario) una mozione che impegna il governo a combatterne la diffusione. “Sono felice di questo risultato, ora Parlamento e Governo faranno il possibile affinché il consumo improprio del Fentanyl non diventi come è già negli Stati Uniti”, dichiara la deputata M5S Angela Ianaro, prima firmataria della mozione. I numeri dall’America infatti sono molto allarmanti: sono stati registrati 90mila casi collegati a overdose di Fentanyl. Noi de Le Iene nel 2016 siamo stati tra i primi a lanciare l’allarme per l’arrivo di questa temibile droga. Come potete vedere nel video qui sopra, siamo stati in Estonia con Marco Maisano incontrando alcune giovani vittime. “È molto poca, ma funziona, io la inietto”, dice un ragazzo in un parco. L’effetto dura mezz’ora e c’è chi si fa la dose anche cinque o sei volte al giorno. Colpisce tutte le fasce sociali, anche ragazzi e famiglie benestanti. “Mia madre un giorno stava dormendo e io le ho sfilato un anello d’oro dal dito per venderlo e comprarmi la dose”, racconta Ka, 27 anni.

La “droga degli sciamani” arriva in Italia: sequestro di ayahuasca a Fiuggi. Le Iene News il 10 febbraio 2020. Sequestrate in un appartamento delle capsule contenenti polvere di ayahuasca, una sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani in Amazzonia e poi sbarcata in Europa. Una sostanza di cui noi de Le Iene vi abbiamo parlato con Veronica Ruggeri. La “droga degli sciamani” arriva (di nuovo) in Italia: una partita di ayahuasca è stata infatti sequestrata venerdì a Fiuggi. I carabinieri hanno intercettato in un appartamento delle capsule contenenti polvere di ayahuasca, una potente sostanza allucinogena. Quattro persone sono state denunciate a piede libero per “produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti”. Si tratta di uno dei primi casi in Italia. “Ayahuasca” è una parola quechua. Arriva dalle Ande boliviane e peruviane e sta a indicare un infuso estratto da varie piante originarie dell’Amazzonia che ha un potete effetto psichedelico. Contiene infatti un allucinogeno, il DMT, che se assunto in dosi sbagliate può anche essere letale. L’ayahuasca è viene utilizzata dagli sciamani in riti religiosi per, a loro dire, mettersi in contatto con le divinità. Questo potente allucinogeno porta con sé gravi rischi: sono già molte infatti le persone che hanno perso la vita nel mondo compiendo gesti folli sotto gli effetti di questo stupefacente. Nonostante questo, l’ayahuasca ha goduto negli ultimi anni di una notorietà e apprezzamento planetario: perfino alcuni divi di Hollywood ne professano il valore “salvifico”, ed è diventata una moda partecipare a veri e propri riti di gruppo in cui si assume questo allucinogeno. Dopo aver conquistato le celebrità americane l’ayahuasca è arrivata anche in Italia, e noi de Le Iene qualche anno fa siamo andati con Veronica Ruggeri a uno di questi incontri, come potete vedere nel servizio qui sopra. Il meeting è in un casolare disperso in un bosco tra le montagne lombarde. Al costo di qualche centinaio di euro viene fornita la bevanda con l’ayahuasca e la possibilità di rimanere lì un giorno e partecipare al rito. Le persone presenti sono di ogni tipo, dal consumatore abituale di stupefacenti all’operaio fino a donne con bambini molto piccoli. A una di queste bambine è perfino stata somministrata la bevanda a base di piante dell’Amazzonia. Tra urla, vomito e odori nauseabondi il raduno arrivano alla mattina successiva. Per fortuna nessuno si è sentito male. L’infuso di piante in questione non è espressamente illegale in Italia, nonostante il Dmt.

Andrea Galli per corriere.it il 4 febbraio 2020. Strano, stranissimo personaggio, il 73enne ex commerciante (E.J.A. le sue iniziali). Nato in Libia, da una vita a Milano, vedovo, padre di tre figli che abitano altrove, proprietario di oltre centocinquanta metri quadrati in via Vincenzo Monti, a breve distanza da Citylife, era soprattutto un rifornitore di droga per i ragazzini di mezza città. Venivano anche da quartieri lontani, i minorenni usciti da scuola e in cerca di hashish e di marijuana di buona qualità. Lui era una garanzia, come conferma la sua fedina penale (era stato arrestato nel 2017 sempre per spaccio, gli sequestrarono un chilo e mezzo di marijuana) e come conferma la rigorosa organizzazione nell’elegante abitazione: bilancini di precisione, cellulari e sim, tablet, diversi barattoli di vetro che contenevano differenti tipologie di droga, denaro liquido, e strumenti per il confezionamento come coltelli e forbici di piccole dimensioni. Il 73enne, da quell’appartamento, non usciva mai. Una presenza impalpabile, nel palazzo. Non fosse per il sempre più frequente pellegrinaggio di adolescenti. Il commissariato Sempione diretto da Anna Laruccia ha operato indagini e arresto. Il 73enne è finito dritto in carcere, a San Vittore. Una delle caratteristiche delle direzioni di Laruccia è l’esortazione al lavoro di strada, con la centralità delle squadre investigative. L’attività vera degli sbirri del resto è questa, altrimenti senza informatori, sopralluoghi e pedinamenti puoi anche pregare ma i risultati non arrivano. La cattura di E.J.A. rientra in una due giorni, tra venerdì e sabato, che ha visto il commissariato Sempione impegnato in altre zone nella caccia a spacciatori. Ma il colpo grosso rimane l’ex commerciante. L’indagine è ancora in pieno svolgimento. L’analisi dei suoi apparecchi elettronici fornirà elementi interessanti. Davanti agli investigatori, E.J.A ha taciuto. Per reale stanchezza oppure, più probabile (il soggetto è furbo e smaliziato) per prendere in giro chi lo interrogava. Forse conta sull’età per uscire tra poche settimane di galera e magari finire ai domiciliari. Non sembra versi in drammatiche condizioni economiche che hanno potuto «obbligarlo» allo spaccio. È stata una sua scelta, come era successo in occasione del precedente arresto. I barattoli trovati dagli agenti non erano stati occultati. Stavano in bella mostra su un tavolo. Erano sedici, ognuno con una lettera incollata al vetro a designare le specificità della singola droga. Ulteriori «notizie» raccolte sul territorio hanno consentito alla squadra investigativa del commissariato di accertare la fama a Milano del 73enne, perché giovani e giovanissimi lo conoscono. Del libico si parla in corridoi di licei e scuole medie, tanto da renderlo comunemente noto come «nonno droga» oppure «nonno pusher». All’incalzare degli inquirenti che gli hanno messo davanti l’oggettività dei dati, per appunto vendere stupefacenti a minorenni, non ha aperto bocca né, racconta chi ha potuto assistere all’incontro, ha concesso una qualsiasi espressione facciale, anche minima, a documentare una sorta di dispiacere, un minimo pentimento, magari pure recitato. Nessuna commedia. Un navigato soggetto che fa il duro e che non concede sconti, dietro vestiti costosi, occhialini da intellettuale e modi cortesi. Sembra che lo stupefacente gli venisse consegnato a domicilio. Il suo passato, del quale abbiamo già detto, invita a non considerarlo il solito insospettabile che si presta a smazzare per conto dei veri spacciatori. Dunque un semplice figurante. Niente di tutto questo. Il vero giro è più ampio e articolato, e forse il reiterato silenzio è (anche) una protezione verso altri importanti pusher del quartiere.

Le droghe da adolescenti. «Con l’eroina si inizia a 15 anni». Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. «Il percorso, fino a qualche anno fa, nella maggioranza dei casi, era più graduale, dilatato, distribuito su un periodo più lungo, di qualche anno, almeno quattro o cinque. Ora s’è appiattito. Ha tempi strettissimi». E non è quasi neppure più un percorso, spesso è un solo passaggio, un salto: canne, cocaina; canne, eroina. Come la ragazzina (nella storia in questa pagina) che ha fumato cannabis alle scuole medie e in prima superiore, su proposta di una compagna, un giorno ha iniziato con l’eroina. A 15 anni era già una «tossica». A San Patrignano la casa verniciata di color mattone, con le tegole sulle tettoie, sta adagiata tra gli alberi di ulivo. Ora gli operai stanno lavorando. Sarà divisa, ingrandita. È la casa dei ragazzi giovani. I minorenni. Oggi sono in dodici. Entro l’estate raddoppieranno i posti: questa è l’esigenza, e se accade nella comunità di recupero più grande d’Europa vuol dire che là fuori, nelle strade, qualcosa sta cambiando. Cosa? «Un uso precocissimo delle sostanze più “pesanti”», riflette Antonio Boschini, responsabile terapeutico della comunità. Dalle 1.596 overdose mortali del 1996, i morti per droga in Italia erano scesi di anno in anno, un calo costante, fino ai 268 del 2016. Poi hanno ripreso a salire: 294 nel 2017, 334 nel 2018 (i dati sul 2019 saranno disponibili tra qualche settimana). L’aumento è collegato alla ripresa del consumo di eroina. La più recente ricerca dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr stima che 28 mila studenti abbiano consumato eroina almeno una volta nel 2018. Ma le statistiche raccontano solo una parte di un disastro sociale in incubazione. Per capire dove siamo oggi, bisogna guardare al passato. Antonio Boschini la storia la conosce fin dall’inizio: «Da metà anni Settanta e per tutti gli Ottanta c’era una sorta di “Rogoredo diffusa” in ogni parte d’Italia; una generazione è stata decimata dalle overdose e dalle malattie collegate all’uso di eroina. L’effetto della droga si vedeva nella trasformazione fisica dei ragazzi in strada; esistevano il bianco e il nero, il drogato e il normale, mille morti all’anno d’eroina per quasi un decennio, negli anni Novanta». In quell’epoca, a San Patrignano, entravano solo ragazzi con dipendenza da eroina. Poi lentamente il consumo di droga è cambiato e quasi per una ventina d’anni i percorsi si sono in qualche modo stabilizzati, storie sempre uguali nella loro scansione, anche se si dividevano «a metà tra dipendenze da eroina e cocaina», riflette Boschini. «Grosso modo tutti i ragazzi entrati a San Patrignano in quel periodo avevano usato cannabis fin quasi ai 15 anni, poi facevano qualche anno con le droghe sintetiche, nei rave o nelle discoteche, a seconda delle tendenze sociali, e l’approccio con le droghe più pesanti avveniva intorno ai 18-19 anni: in media arrivavano da noi a 27-28 anni, con dipendenze da eroina e cocaina strutturate su un percorso piuttosto dilatato». Solo se si tiene presente questo quadro si riesce a comprendere il «passaggio successivo, molto recente: abbiamo ingressi di ragazzi molto giovani, per decreto di un giudice più che per una loro decisione; raccontano, e vediamo, che quel percorso graduale è scomparso, si è appiattito, il passaggio cannabis-eroina avviene molto rapidamente, prima dei 15 anni; anche chi entra ora a San Patrignano per scelta, dopo i vent’anni, riferisce esperienze analoghe. Sembra di essere tornati un po’ indietro, ragazzini giovanissimi che non hanno anticorpi e non hanno paure, non vedono il pericolo Hiv, si catapultano subito in una condizione ad alto rischio di dipendenza gravissima, prostituzione, overdose». Una forte vulnerabilità al dolore psicologico, allo stress emotivo, «nel momento critico dei 12-14 anni». Anche le ragazze minorenni ospitate a San Patrignano oggi sono in dodici. Prima o poi serviranno più spazi anche per le giovani donne. 

Le droghe pesanti da adolescenti «Per tanti anni niente scuola, pensavo solo a bere e a farmi». Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. La famiglia: «Con mia madre ci siamo dette tutto. Abbiamo creato un rapporto». La scuola: «Ho finito la terza media. Prenderò la maturità all’alberghiero». A San Patrignano dicono che i ragazzi debbano scoprire chi sono senza le sostanze. Per i più giovani è ancora più complesso. Questa ragazza, cresciuta in Alto Adige, ora ha una consapevolezza: «Sono certa che non mi accadrà più. Quando stai male, ti butti sulla prima cosa che sai fare, “torno a drogarmi”. Qui dentro ti fanno sentire che quando vedi il nero, non è il nero quello che vuoi veramente».(Leggi qui l’intera inchiesta sulle droghe pesanti assunte dagli adolescenti e il racconto degli ragazzi in cura a San Patrignano). Il valore di questa coscienza si può comprendere solo ascoltando cosa sia stato quel nero, la sua vita con le sostanze cominciata quando era ancora quasi una bambina: «A 12 anni ho iniziato a bere e fumare canne, a 13 anni qualche rave, e ho usato ketamina, speed, Md, ecstasy. Spacciavo un po’, così a 14 anni sono entrata nella prima comunità, ma scappavo sempre, a 15 anni ho cominciato con le siringhe di ketamina, di eroina, di cocaina. Mi hanno mandato in una comunità in Germania, a 16 anni mi hanno cambiato il decreto e fatto tornare a vivere da mia mamma, un percorso con assistenti sociali, scuola, Sert. Ci sono stati vari passaggi, ma ho ricominciato con l’eroina, con le siringhe di metadone e cocaina. Pensavo solo a bere e farmi. Niente scuola. A 17 anni mi hanno messo in psichiatria e poi portato a San Patrignano, non avevo nessuna voglia, pensavo “a 18 anni me ne vado, torno a drogarmi, che è quello che so fare, poi forse a 30 anni ci penserò”. Se penso a come ero, non riesco neppure a realizzarlo». Ha trovato ascolto, fiducia: «Ci penso spesso, ma fuori di qui non dirò chi sono stata, voglio andare avanti».

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 3 febbraio 2020. «Il percorso, fino a qualche anno fa, nella maggioranza dei casi, era più graduale, dilatato, distribuito su un periodo più lungo, di qualche anno, almeno quattro o cinque. Ora s' è appiattito. Ha tempi strettissimi». E non è quasi neppure più un percorso, spesso è un solo passaggio, un salto: canne, cocaina; canne, eroina. Come la ragazzina (nella storia in questa pagina) che ha fumato cannabis alle scuole medie e in prima superiore, su proposta di una compagna, un giorno ha iniziato con l' eroina. A 15 anni era già una «tossica». A San Patrignano la casa verniciata di color mattone, con le tegole sulle tettoie, sta adagiata tra gli alberi di ulivo. Ora gli operai stanno lavorando. Sarà divisa, ingrandita. È la casa dei ragazzi giovani. I minorenni. Oggi sono in dodici. Entro l' estate raddoppieranno i posti: questa è l' esigenza, e se accade nella comunità di recupero più grande d' Europa vuol dire che là fuori, nelle strade, qualcosa sta cambiando. Cosa? «Un uso precocissimo delle sostanze più "pesanti"», riflette Antonio Boschini, responsabile terapeutico della comunità. Dalle 1.596 overdose mortali del 1996, i morti per droga in Italia erano scesi di anno in anno, un calo costante, fino ai 268 del 2016. Poi hanno ripreso a salire: 294 nel 2017, 334 nel 2018 (i dati sul 2019 saranno disponibili tra qualche settimana). L' aumento è collegato alla ripresa del consumo di eroina. La più recente ricerca dell' Istituto di fisiologia clinica del Cnr stima che 28 mila studenti abbiano consumato eroina almeno una volta nel 2018. Ma le statistiche raccontano solo una parte di un disastro sociale in incubazione. Per capire dove siamo oggi, bisogna guardare al passato. Antonio Boschini la storia la conosce fin dall' inizio: «Da metà anni Settanta e per tutti gli Ottanta c' era una sorta di "Rogoredo diffusa" in ogni parte d' Italia; una generazione è stata decimata dalle overdose e dalle malattie collegate all' uso di eroina. L' effetto della droga si vedeva nella trasformazione fisica dei ragazzi in strada; esistevano il bianco e il nero, il drogato e il normale, mille morti all' anno d' eroina per quasi un decennio, negli anni Novanta». In quell' epoca, a San Patrignano, entravano solo ragazzi con dipendenza da eroina. Poi lentamente il consumo di droga è cambiato e quasi per una ventina d' anni i percorsi si sono in qualche modo stabilizzati, storie sempre uguali nella loro scansione, anche se si dividevano «a metà tra dipendenze da eroina e cocaina», riflette Boschini. «Grosso modo tutti i ragazzi entrati a San Patrignano in quel periodo avevano usato cannabis fin quasi ai 15 anni, poi facevano qualche anno con le droghe sintetiche, nei rave o nelle discoteche, a seconda delle tendenze sociali, e l' approccio con le droghe più pesanti avveniva intorno ai 18-19 anni: in media arrivavano da noi a 27-28 anni, con dipendenze da eroina e cocaina strutturate su un percorso piuttosto dilatato». Solo se si tiene presente questo quadro si riesce a comprendere il «passaggio successivo, molto recente: abbiamo ingressi di ragazzi molto giovani, per decreto di un giudice più che per una loro decisione; raccontano, e vediamo, che quel percorso graduale è scomparso, si è appiattito, il passaggio cannabis-eroina avviene molto rapidamente, prima dei 15 anni; anche chi entra ora a San Patrignano per scelta, dopo i vent' anni, riferisce esperienze analoghe. Sembra di essere tornati un po' indietro, ragazzini giovanissimi che non hanno anticorpi e non hanno paure, non vedono il pericolo Hiv, si catapultano subito in una condizione ad alto rischio di dipendenza gravissima, prostituzione, overdose». Una forte vulnerabilità al dolore psicologico, allo stress emotivo, «nel momento critico dei 12-14 anni». Anche le ragazze minorenni ospitate a San Patrignano oggi sono in dodici. Prima o poi serviranno più spazi anche per le giovani donne.

Cocaina, milioni e segreti: una morte sospetta riapre il giallo sulla droga di Stato. Centinaia di chili di stupefacenti rubati a Milano e a Padova nei caveau blindati dei laboratori di tossicologia. Colpi da professionisti rimasti impuniti da anni. E lo strano "suicidio" di un chimico che sapeva troppo. Paolo Biondani e Andrea Tornago il 06 febbraio 2020 su L'Espresso. Eroina, cocaina, hashish con il marchio dello Stato. Carichi di droga imponenti, per milioni di euro, che vengono sottratti dai depositi blindati delle autorità pubbliche. Senza forzare porte o finestre, senza lasciare impronte e nessun’altra traccia. Colpi spettacolari, con bottini ricchissimi, rimasti totalmente impuniti. Con una scia di interrogativi irrisolti da anni. A cui ora si aggiungono nuovi misteri. Atti giudiziari scomparsi dai tribunali. Lettere anonime che insinuano complicità eccellenti. E una morte collegata, molto strana. Archiviata come un suicidio anomalo. Un giallo che i familiari ora chiedono di riaprire. Per svelare i retroscena di quella tragedia. E cercare finalmente.

Corbetta, la comandante  dei vigili urbani  con la cocaina nell’auto. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. La via Merano è una piccola traversa che incrocia via Milano, nel Comune di Baranzate, a poche centinaia di metri dall’ospedale «Sacco»: ci sono una parrocchia, un campo sportivo, un piccolo parco, qualche capannone, un paio di ristoranti, alcune abitazioni; ma nelle prime ore della notte è una via abbastanza buia e poco trafficata. I carabinieri della tenenza di Bollate erano di pattuglia e hanno notato una donna, 31 anni, capelli lunghi, che stava salendo sulla sua auto, una Daihatsu «Terios», parcheggiata proprio vicino al campo da calcio. Hanno deciso di controllarla. L’hanno invitata a scendere, le hanno chiesto di mostrare i documenti, le hanno detto che avrebbero dato un’occhiata alla macchina. Era l’una e mezza della notte tra venerdì e sabato. Non c’è stato bisogno di una perquisizione accurata, anzi è stata più che altro una di quelle verifiche di routine che le forze dell’ordine fanno regolarmente sulle auto che fermano. E infatti un carabiniere ha alzato il tappetino davanti al sedile del conducente: e la cocaina era lì, divisa in dosi. La quantità non è particolarmente rilevante, si tratta di poco più di 3 grammi. L’elemento chiave di questa storia non sta dunque nel sequestro di droga, ma nell’identità di quella donna e soprattutto nella sua carica pubblica: Lia Vismara, comandante dei vigili di Corbetta. Proprio qualche giorno fa il Corriere ha dedicato un articolo al «caso Corbetta», il paese «da cui i vigili scappano». Quel comando ha infatti una particolarità: su 18 vigili che dovrebbero essere in organico al Comune (uno ogni mille abitanti secondo il parametro suggerito dalla Regione), oggi in servizio ce ne sono soltanto 10. E fino a qui nulla di particolare, perché molti altri piccoli Comuni dell’hinterland milanese hanno pesanti carenze di organico. A Corbetta però, da quando è stato eletto il sindaco Marco Ballarini (estate 2016), sono andati via 17 vigili, tra agenti e ufficiali, quasi il doppio di quelli in servizio, un anomalo caso di turn over accelerato. In questo stesso periodo, al vertice della Polizia locale di Corbetta si sono avvicendati quattro comandanti e la Vismara era l’ultimo. In questo contesto, ciò che è avvenuto a Bollate l’altra notte si inquadra come il fatto più critico. I carabinieri hanno infatti portato la comandante in caserma per compilare tutti gli atti, hanno avvertito il pubblico ministero di turno in Procura e dopo qualche ora hanno infine chiuso i verbali denunciando la donna per spaccio (ipotesi contro la quale il pubblico ufficiale potrebbe difendersi in Tribunale parlando di consumo personale). L’arresto non è scattato sia perché la quantità di droga, poi sequestrata, era piuttosto ridotta, sia perché la donna non aveva alcun precedente, come appunto ci si aspetta da un comandante di Polizia locale. Come provvedimento cautelare, i carabinieri hanno anche ritirato la pistola d’ordinanza dell’ufficiale, una Glock. Nei giorni scorsi il sindaco di Corbetta, che si è sempre scagliato contro gli agenti «fannulloni» o che non avevano comportamenti «adeguati» all’interno del comando, ha raccontato di aver depositato un esposto che conteneva alcune ipotesi di reato anche a carico di dipendenti comunali. Di quell’esposto non sono stati diffusi particolari, ma è presumibile che non contenga ipotesi di spaccio di droga (o anche di consumo).

Gianni Santucci per corriere.it il 7 gennaio 2020. Baranzate, a poche centinaia di metri dall’ospedale «Sacco»: ci sono una parrocchia, un campo sportivo, un piccolo parco, qualche capannone, un paio di ristoranti, alcune abitazioni; ma nelle prime ore della notte è una via abbastanza buia e poco trafficata. I carabinieri della tenenza di Bollate erano di pattuglia e hanno notato una donna, 31 anni, capelli lunghi, che stava salendo sulla sua auto, una Daihatsu «Terios», parcheggiata proprio vicino al campo da calcio. Hanno deciso di controllarla. L’hanno invitata a scendere, le hanno chiesto di mostrare i documenti, le hanno detto che avrebbero dato un’occhiata alla macchina. Era l’una e mezza della notte tra venerdì e sabato. Non c’è stato bisogno di una perquisizione accurata, anzi è stata più che altro una di quelle verifiche di routine che le forze dell’ordine fanno regolarmente sulle auto che fermano. E infatti un carabiniere ha alzato il tappetino davanti al sedile del conducente: e la cocaina era lì, divisa in dosi. La quantità non è particolarmente rilevante, si tratta di poco più di 3 grammi. L’elemento chiave di questa storia non sta dunque nel sequestro di droga, ma nell’identità di quella donna e soprattutto nella sua carica pubblica: Lia Vismara, comandante dei vigili di Corbetta. Proprio qualche giorno fa il Corriere ha dedicato un articolo al «caso Corbetta», il paese «da cui i vigili scappano». Quel comando ha infatti una particolarità: su 18 vigili che dovrebbero essere in organico al Comune (uno ogni mille abitanti secondo il parametro suggerito dalla Regione), oggi in servizio ce ne sono soltanto 10. E fino a qui nulla di particolare, perché molti altri piccoli Comuni dell’hinterland milanese hanno pesanti carenze di organico. A Corbetta però, da quando è stato eletto il sindaco Marco Ballarini (estate 2016), sono andati via 17 vigili, tra agenti e ufficiali, quasi il doppio di quelli in servizio, un anomalo caso di turn over accelerato. In questo stesso periodo, al vertice della Polizia locale di Corbetta si sono avvicendati quattro comandanti e la Vismara era l’ultimo. In questo contesto, ciò che è avvenuto a Bollate l’altra notte si inquadra come il fatto più critico. I carabinieri hanno infatti portato la comandante in caserma per compilare tutti gli atti, hanno avvertito il pubblico ministero di turno in Procura e dopo qualche ora hanno infine chiuso i verbali denunciando la donna per spaccio (ipotesi contro la quale il pubblico ufficiale potrebbe difendersi in Tribunale parlando di consumo personale). L’arresto non è scattato sia perché la quantità di droga, poi sequestrata, era piuttosto ridotta, sia perché la donna non aveva alcun precedente, come appunto ci si aspetta da un comandante di Polizia locale. Come provvedimento cautelare, i carabinieri hanno anche ritirato la pistola d’ordinanza dell’ufficiale, una Glock. Nei giorni scorsi il sindaco di Corbetta, che si è sempre scagliato contro gli agenti «fannulloni» o che non avevano comportamenti «adeguati» all’interno del comando, ha raccontato di aver depositato un esposto che conteneva alcune ipotesi di reato anche a carico di dipendenti comunali. Di quell’esposto non sono stati diffusi particolari, ma è presumibile che non contenga ipotesi di spaccio di droga (o anche di consumo).

Ivan Albarelli per ilgiorno.it il 7 gennaio 2020. La paletta, gli abbaglianti, l’invito spiccio a fermarsi. Scene da film americano quelle che venerdì notte, fuori da una palestra di Baranzate, hanno caratterizzato il fermo di Lia Gaia Vismara, la comandante trentunenne dei vigili urbani di Corbetta trovata in possesso di tre grammi di cocaina nascosti sotto un sedile dell’auto. Scene che il sindaco della città del Magentino, Marco Ballarini (Forza Italia), carabiniere in congedo, ha scomposto e ricomposto più volte nel fine settimana. Fino a sintetizzarle in un’immagine, quella del complotto. «È stata una trappola – afferma – costruita ad arte per danneggiare sia lei sia il sottoscritto. Non ho alcun dubbio". Cinque involucri di carta stagnola sotto il sedile lato passeggero confezionati alla buona. All’interno lo stupefacente. Quando i militari intervengono a colpo sicuro – è mezzanotte e la donna ha appena finito di giocare una partita di pallavolo nel team che raggruppa gli agenti delle polizie locali del Milanese – Vismara è appena salita in macchina per rientrare a casa ad Arluno. Passerà invece il resto della nottata nella caserma di Bollate, sottoposta a interrogatorio. La pistola d’ordinanza requisita. Ed è qui che si precipita il suo avvocato, Roberto Grittini, che otterrà nell’immediatezza dei fatti una perquisizione domiciliare, "dalla quale non è emersa una sola prova: non è stata trovata altra droga, non sono stati trovati bilancini o contante. Nulla. Ma poi le pare logico che una consumatrice, o peggio, una spacciatrice di cocaina parte da Arluno alle nove di sera portandosi dietro delle dosi e lascia la macchina parcheggiata fuori da un centro sportivo per più di tre ore con all’interno lo stupefacente? Chi commetterebbe una leggerezza del genere? Qualcuno gliel’ha introdotto a sua insaputa". Magari approfittando della partita di pallavolo. Le chiavi della Dahiatsu nel borsone lasciato incustodito nello spogliatoio. È un’ipotesi. "Che si tratti di tre grammi, non uno di più, è rivelatore – sottolinea il legale –: non troppa per generare serie conseguenze penali, ma neanche “poca” per evitarle un iter giudiziario di due o tre anni". Il terremoto che ha coinvolto la comandante – in carica dal giugno 2018 – si abbatte su un corpo già sconquassato da esposti, licenziamenti e segnalazioni di condotte inappropriate da parte dei ghisa. "Io e Vismara abbiamo riportato ordine intervenendo su situazioni anche indecorose – sottolinea Ballarini –. Accessi a siti porno, pause pranzo dilatate, furbetti del cartellino, agenti che stavano in ufficio anziché in strada. Ecco con cosa ci siamo dovuti confrontare". Nel maggio 2019 un ufficiale in arrivo dalla polizia locale di Milano, in prova per tre mesi e che ambisce a diventare vicecomandante, non viene confermato ed è lasciato a casa. E anche questo episodio genera un nuovo strascico di polemiche. Già domani Vismara potrebbe essere sottoposta al test del capello, che rivela il consumo di stupefacenti negli ultimi tre mesi. Il resto della giornata gliel’ha già programmato Ballarini. "Poi l’aspetto alla sua scrivania in municipio, perché il suo posto è qui".

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2020. Questa storia inizia e finisce con un numero di telefono. Un numero ogni volta diverso, ma sempre attivo. Un cellulare con una rubrica telefonica che vale centinaia di migliaia di euro. Nel 2017, il «Nokietto» con i numeri dei clienti della banda della Comasina al quale rispondeva il centralinista «Frank» è stato venduto a un altro gruppo di narcos per 200 mila euro. Un numero di telefono, un centralinista che smista le chiamate, una rete di «cavallini» già in strada, ciascuno con una zona di competenza e con in tasca 15 dosi di cocaina da vendere a 30 euro ciascuna. Il compenso di ogni cavallo incaricato delle consegne porta a porta è prestabilito: 3 dosi ogni 15 consegnate. Al pusher restano 90 euro, oppure può tenersi le 3 dosi e pipparsele per conto suo. Così si risolve il problema della cresta sulle consegne, della droga che sparisce. Eccola qui la Milano coca delivery. La più grande, redditizia e invisibile industria criminale del capoluogo lombardo. Un sistema che ha cancellato lo spaccio in strada, riservato ad alcune zone della movida e sempre a pusher stranieri. E che, come per miracolo, ha fatto sparire la cocaina dagli occhi dei milanesi. Perché in quella che dieci anni fa era «Coca city», oggi la bamba è un'emergenza inesistente: se ne parla pochissimo, la diffusione è aumentata e grazie a un' enorme operazione di marketing criminale l'acquisto di coca non passa più dai fortini della mala, ma da un semplice numero memorizzato nella rubrica. Gianni, Frank o Natalino. Ogni gruppo di narcos ha il suo, ogni cliente può passarlo a un altro, ogni contatto è rigorosamente anonimo: niente fronzoli, solo la quantità e un indirizzo per la consegna. «La vera piazza di spaccio a Milano non è al bosco di Rogoredo . Ma è nella rubrica dei cellulari di qualcuno» , sostiene il procuratore aggiunto Laura Pedio che coordina le inchieste sulla droga. E nelle sue parole c' è l' evoluzione di un mondo criminale. A tenere le fila sono le storiche famiglie di malavita, quelle calabresi e siciliane, la piazza di spaccio è un mondo virtuale e indefinito saldamente nelle loro mani. Senza allarmi per la sicurezza, senza attenzione da parte della politica.

Quartiere Isola, le 18.16 di giovedì 5 aprile 2018. Al cellulare la voce di una donna di 42 anni, lavora all' Agenzia delle Entrate. Dall' altro capo del telefono c' è lui, Gianni. Accento meridionale, 46 anni, precedenti per narcotraffico e legami con i clan calabresi: «Questo è il numero nuovo, l' altro lascialo stare». Gianni ha cambiato scheda. Ogni volta che accade, per precauzione o per necessità, avverte i clienti. Uno a uno. Lo ha fatto anche alle 3 di notte del 17 settembre 2018, un sms identico inviato a tutta la rubrica: «Ciao ragazzi, sono Gianni. Sono tornato per voi. Preparate gli occhiali da sole, solito menù, lunedì dalle 17 in poi. A presto». Lo riceve una ragazza di 18 anni, origini comasche, studi scientifici e famiglia in Svizzera: «Dal 2017 a fine aprile 2018 ho contattato Gianni per acquistare dosi di cocaina. Ogni volta che cambiava mi scriveva un sms dicendomi che era la sua nuova utenza». Il 6 aprile, in una delle conversazioni intercettate dai carabinieri del Nucleo investigativo nell' inchiesta coordinata dal pm Francesca Crupi (13 arresti), la ragazza chiede a Gianni di mandare qualcuno a «salutarla» in viale Premuda, vicino a piazza Cinque Giornate: «Mi sapresti dire più o meno che macchina ha? Perché se no ogni macchina che passa, che si ferma... vado lì come una cogliona». L' sms con il nuovo numero di Gianni arriva anche a un ragazzo di 31 anni che abita a Porta Venezia: imprenditore, studi di lingue, istruttore di volo. «Ritengo che il riferimento agli occhiali da sole sia relativo allo stato di alterazione post assunzione di cocaina». Il «pediatra» ha invece 42 anni, chirurgo con 11 pagine di curriculum, un incarico di prestigio in un ospedale milanese, abita vicino all' Arco della Pace: «Non conosco Gianni di persona. Dopo la separazione con la mia ex moglie ho avuto importanti manifestazioni dolorose che mi hanno portato ad assumere farmaci che mi provocavano una forte sonnolenza. Per tali ragioni ho deciso in alcune e sporadiche occasioni di assumere cocaina per cercare di stare meglio e lenire il dolore». Nella rubrica c' è anche un ragazzo di 31 anni, casa in Porta Romana: «Il costo era di 30 euro a dose. Ricordo che in più circostanze mi era stato proposto uno sconto: una dose omaggio ogni 5 acquistate». Tra lui e Gianni ci sono 260 contatti solo nel mese di marzo 2018. Poi c' è una donna di 40 anni, giornalista con un lavoro nell' ufficio stampa di una casa di moda. Dice di aver avuto il numero di Gianni «attraverso conoscenze personali» e di «averlo contattato con cadenza settimanale». Ce n'è un' altra di 41 anni che ha avuto il contatto tramite «un vecchio amico di Roma» e inizialmente solo per comprare «hashish a 70 euro al pezzo». C' è l' imprenditore, l'agente di commercio, lo studente, il barista. Tutti con l' identica versione della storia. La banda di piazza Prealpi aveva invece «Natalino». I suoi uomini coprivano due zone della città: da piazzale Zavattari a piazzale Maciachini e da piazza Roserio a corso Sempione. Le consegne avvenivano in orari quasi da ufficio. Identico portafoglio dei clienti. Come la manager di una multinazionale di 48 anni, casa vicino a corso Sempione: «Compro da lui da un anno, due dosi a settimana. L' ultima l' ho presa ieri», mette a verbale una volta interrogata dai carabinieri. Da Natalino si riforniva anche uno studente pugliese, oggi 39enne rampante e stimato avvocato e una informatrice scientifica di 53 anni, casa in zona Portello: «Faccio uso saltuario di coca da vent' anni, da quattro compro solo da Natalino». Non esistono statistiche in grado di quantificare l' enormità del fenomeno. Nel 2018 la sola polizia ha sequestrato a Milano 265 chili di cocaina. Tra gli investigatori si ipotizza che si riesca a intercettare solo il dieci per cento dei carichi. Le proporzioni sono presto fatte. È come se a Milano, su 1 milione e 400 mila abitanti compresi anziani e bambini, si consumasse una media di 2 grammi di polvere bianca a testa. Il tutto senza evidenti conseguenze sul fisico, sulla capacità di lavorare, e soprattutto sulle reti relazionali. Non è più lo status symbol degli anni Novanta, la «botta» di coca è percepita come un doping lavorativo, un «volano» per amicizie, affari e relazioni. L' ultima relazione della Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa) dice che in Lombardia si è concentrato il 16% delle operazioni contro il narcotraffico: 4.098 indagini nel 2018, con un incremento del 13,5%. Più di una su due riguarda Milano (2.426). L' attività antidroga della Procura è affidata al coordinamento tra la Dda di Alessandra Dolci e il dipartimento guidato dall' aggiunto Laura Pedio: «Rogoredo è un discount, abbiamo una qualità di bassissimo livello e anche prezzi da svendita - ha spiegato il magistrato lo scorso 22 ottobre davanti alla commissione antimafia guidata da David Gentili -. Basta un telefonino per avere una piazza di droga, in un telefono ci sono contatti che equivalgono a una piazza di spaccio». Una volta il sistema della consegna a domicilio o del pusher di fiducia era riservato ad ambienti di un certo livello. Oggi il coca delivery è su larga scala, è diventato un' enorme piazza di spaccio virtuale. Il capo, un personaggio di alto livello criminale spesso rifornito da trafficanti calabresi legati alla 'ndrangheta, risponde al telefono-centralino. Il meccanismo è spiegato dall' ex trafficante e oggi collaboratore di giustizia Laurence Rossi, 42 anni: «Costoro gestivano i cavallini i quali svolgevano turni h-24 di 8 ore ciascuno al termine dei quali si passavano tra loro il Nokietto con il nominativo e il numero dei clienti». Sono almeno dieci le organizzazioni che in questo momento «coprono» con una suddivisione rigorosa tutto il territorio di Milano. Il cavallo spesso è incensurato, si muove in auto o in motorino. I clienti ne descrivono a decine: abiti casual, capelli curati, modi garbati. A volte arriva con la fidanzata al seguito. La droga viene consegnata in bustine ricavate dai sacchetti gelo e «saldati» con un accendino. Il cavallo arriva, saluta, prende i soldi, passa il pacchetto e riparte. In alcuni casi la coca viene lasciata dietro a una cabina o a una cassetta postale. Senza neppure bisogno di uno scambio a mano. Questo aspetto è rilevante anche da un punto di vista sociologico perché ha eliminato la commistione tra i due mondi: quello dei consumatori e quello criminale. Tra il mondo di sopra e quello di sotto.

Sigarette elettroniche, Trump vieta i liquidi dolci e alla frutta. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Vera Martinella. Dopo le morti iniziate nell’estate 2019 e le numerose polemiche che ne sono scaturite, alla fine il presidente degli Stati Uniti ha deciso: l’amministrazione Trump proibirà la vendita degli aromi per sigarette elettroniche più popolari fra gli adolescenti. Niente più liquidi al sapore di frutta, menta, dolciumi o sapori caramellati vari nelle cartucce di piccole dimensioni, maggiormente diffuse tra i giovani. Il divieto, però, prevede ampie eccezioni: non riguarda i dispositivi di dimensioni più grandi, tipicamente vendute nei negozi di fumo elettronico a un pubblico adulto, e prevede che continuino a essere disponibili sul mercato per tutte le età sia gli aromi al tabacco che quelli al mentolo. La Food and Drug Administration (Fda, il corrispettivo americano della nostra Aifa, Agenzia Italiana del Farmaco) ha infatti annunciato che i produttori hanno 30 giorni a disposizione per porre fine alla produzione e vendita delle cartucce con le fragranze vietate. Il divieto, in sostanza, riguarda le cartucce «pre-confezionate», quelle in vendita «monodose» già riempite e maggiormente in uso fra studenti e ragazzi, non i liquidi utilizzati per ricaricare i dispositivi elettronici con serbatoio di maggiori dimensioni (in vendita in negozi che non ammettono clienti con meno di 21 anni). Le due eccezioni previste dalla normativa rappresentano quindi un significativo passo indietro rispetto all’annuncio fatto dal presidente Usa lo scorso settembre 2019, quando sulla scorta dei numerosi decessi per malattie polmonari collegate al fumo elettronico verificatisi dal mese di agosto negli Stati Uniti, Trump aveva dichiarato che avrebbe vietato tutti gli aromi (incluso il mentolo) da tutti i tipi di e-cigarettes. La nuova normativa preserva così una parte importante del mercato multi-milionario legato al fumo elettronico, collegato sia alla manifattura che ai rivenditori dei diversi prodotti. All’ultimo bollettino di gennaio 2020, le autorità statunitensi (gli U.S. Centers for Disease Control and Prevention) riportano la morte di 55 persone e oltre 2.500 ricoveri in ospedale per patologie collegate al fumo elettronico: i soggetti in questione erano infatti tutti svapatori, in molti casi giovani e in gran parte avevano utilizzato prodotti contenenti vitamina E acetato e tetraidrocannabinolo (Thc, sostanza psicoattiva nella cannabis). Diversi gruppi industriali avevano lanciato nei mesi scorsi un’aggressiva campagna attraverso i social media (#IVapeIVote, che tradotto significa #IoSvapoIoVoto), sottolineando che il piano presidenziale avrebbe significato la perdita di posti di lavoro dovuta alla chiusura di rami d’azienda e dei negozi dedicati al fumo elettronico. E insinuando che il divieto avrebbe rispedito gli svapatori nella spirale del tabacco tradizionale. Sull’altro fronte, molte sono state le pressioni a difesa della salute soprattutto dei giovanissimi, perché sono ormai molte le ricerche che indicano come le e-cig possano essere un primo passo «attraente» verso il tabagismo e quanto gli adolescenti trovino gradevoli i sapori fruttati e dolci delle e-cig. Secondo le ultime statistiche, in Italia gli utilizzatori abituali e occasionali di e-cig sono circa 900mila. Di questi ultimi l’80 per cento sono consumatori duali, usano cioè sia le sigarette elettroniche che quelle tradizionali. E il 5 per cento degli svapatori abituali o occasionali prima di utilizzare l’e-cig non aveva mai fumato. «Come hanno sottolineato l’American Medical Association e molti autorevoli sostenitori delle politiche antifumo, questo “mezzo divieto” è una mossa politica che dà un colpo alla botte e uno cerchio – sottolinea Roberto Boffi, medico pneumologo, responsabile della Pneumologia e del Centro antifumo dell’IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. È una manovra che tenta di accontentare tutti, ma non sposta né risolve il problema. Semplicemente lo aggira, proibendo prodotti più diffusi fra i ragazzi, ma non del tutto. Lasciare in commercio, anche per gli adolescenti, i liquidi al tabacco e al mentolo non impedisce che quelli che iniziano svapando le e-cig finiscano poi per passare alle più dannose sigarette tradizionali. E non dimentichiamo che il mentolo è stato proibito in Europa, sia nei liquidi per dispositivi elettronici che nelle sigarette “classiche”, perché è stato dimostrato che aumenta la capacità delle nicotina di creare dipendenza. Quindi escluderlo dal divieto non è una mossa da poco. Insomma, se il principio è quello di tutelare la salute dei consumatori, specie giovani, quest’ultima decisione dell’amministrazione Trump non colpisce nel segno». Le sigarette elettroniche sono state salutate come una buona alternativa alla sigaretta tradizionale rispetto alla quale comportano diversi rischi in meno. Alcuni studi, tuttavia, indicano che, al contrario, potrebbero essere la porta d’ingresso all’abitudine al fumo «vero».«E-cig e tabacco riscaldato sembrano essere meno nocivi (almeno per ora) delle sigarette tradizionali, ma non possono essere definiti innocui né privi di rischi per la nostra salute – dice Sergio Harari, direttore dell’Unità Operativa di Pneumologia, dell’U.O di Medicina Interna e del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Ospedale San Giuseppe MultiMedica di Milano - «Gli esiti raggiunti finora mostrano effetti negativi misurabili sulla salute e sulle cellule dei polmoni, nelle persone, negli animali e sui campioni di tessuto analizzati in laboratorio. Diversi studi scientifici hanno evidenziato un aumento di disturbi respiratori negli adolescenti che svapano, quali bronchiti, asma, affanno, infiammazioni. E poi sono tanti gli indizi raccolti in merito ai danni sui polmoni di giovani e adulti, compresa una certa casistica di polmonite lipoidea, che si può verificare per l’inalazione di sostanze oleose». 

Usa, al bando le e-cigarette aromatizzate tranne quelle a mentolo e tabacco. Il provvedimento della Fda per frenare la diffusione soprattutto tra gli adolescenti di una pratica sospettata di aver causato l'epidemia di malattie polmonari. Un compromesso rispetto alla linea promessa a settembre. La Repubblica il 02 gennaio 2020. L'amministrazione americana ha annunciato che vieterà la gran parte delle cartucce aromatizzate delle sigarette elettroniche, in pratica tutte (per esempio quelle al gusto di caramella o alla frutta) ad eccezione di quelle al tabacco e al mentolo. Il provvedimento è stato annunciato oggi dalla Food and drug administration (Fda), l'agenzia statale competente per le questioni inerenti farmaci e salute, e segue una serie di decisioni in tal senso prese a livello locale in città come New York e Filadelfia. La portata della decisione però non è quella promessa a settembre, quando l'amministrazione Trump aveva dato come imminente un divieto totale delle sigarette elettroniche. Anche se dovrebbe comunque contribuire a limitare il consumo delle e-cigarette presso gli adolescenti, il bando parziale è una soluzione di compromesso che l'Amministrazione Trump ha adottato per non andare allo scontro frontale con le aziende del settore e gli enormi interessi di cui sono portatrici. Secondo le autorità sanitarie, infatti, le sigarette aromatizzate sarebbero la causa della 'epidemia' di malattie polmonari che in Usa ha fatto registrare una quarantina di morti. In base ai dati contenuti in un recente studio sul tabacco tra i giovani, in Usa sono oltre 5 milioni gli studenti di scuole medie e superiori che hanno riferito di usare sigarette elettroniche, mentre ricerche anche recenti hanno confermato la pericolosità delle e-cigarette oer i polmoni. Il Dipartimento di Stato per la salute (Department of Health and Human Services -HHS) ha avvisato che le aziende che non fermeranno la produzione, la distribuzione e la vendita delle cartucce aromatizzate, ad eccezione di quelle al tabacco o al mentolo, entro trenta giorni rischiano sanzioni pesanti da parte della Fda. "Il nostro paese - ha detto il segretario di Stato alla Salute, Alex Azar - non aveva mai conosciuto una diffusione epidemica di sostanze così rapida come quella attualmente causata tra i giovani dalle sigarette elettroniche". Per questo, ha aggiunto Azar, il Dipartimento ha deciso per la strategia aggressiva di mettere gran parte delle e-cigarette fuorilegge.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'1 gennaio 2020. È stato presentato come un approccio innovativo ai problemi di salute mentale, in particolare a quelli della cosiddetta "depressione testarda", cioè resistente ai classici trattamenti farmacologici. È un prodotto naturale in grado di provocare immediata euforia nei pazienti depressi, con capovolgimento dello stato d' animo, senza la comparsa di effetti negativi sul funzionamento cognitivo ed emotivo. Funziona come una vera e propria droga stupefacente - in realtà lo è a tutti gli effetti - ed è stata usata a scopo terapeutico. Al King' s College di Londra, un team di psichiatri dell' Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience ha presentato quella che è stata denominata «la nuova frontiera» della lotta alla depressione, ovvero una sostanza derivata da funghi allucinogeni somministrata a 89 pazienti depressi considerati intrattabili con la terapia convenzionale, pubblicando i risultati di tale studio ed evidenziando che coloro che hanno assunto questo metabolita hanno avuto esperienze psichedeliche, allucinazioni, stati euforici e umore alterato in meglio, con notevole calo depressivo senza manifestare disturbi in negativo della capacità di elaborazione del pensiero, della conoscenza e dell' emotività. La sostanza al centro della ricerca clinica è il principio attivo di alcuni funghi allucinogeni del genere Psilocybe e Stropharia, si chiama "psilocibina", è stata prodotta in pillole dalla Compass Pathways, start up che si occupa di innovazione nei problemi di salute psichiatrica. I dati di questo test sono stati presentati il mese scorso alla riunione dell' American College of Neuropsychopharmacology e accolti con entusiasmo dagli specialisti internazionali. Il fatto che sia stata usata, con una sperimentazione clinica autorizzata, una droga psichedelica come la psilocibina, dichiarata illegale in quasi tutti i Paesi del mondo, non ha preoccupato i ricercatori, i quali hanno fatto presente di aver messo in atto, con scienza e coscienza, tutti i requisiti pratici di sicurezza per ogni singolo paziente. Il risultato su ognuno di loro, giudicato più che soddisfacente, li ha addirittura spinti a richiedere una licenza Home Office, per replicare la sperimentazione su altri 216 pazienti in Europa e Nord America. La psilocibina veniva in passato usata dalle civiltà dell' America Latina nei riti sciamani sotto forma di bevande rituali, ma divenne nota al grande pubblico solo negli anni Sessanta, quando acquisì notevole popolarità come sostanza altamente stupefacente, per cui fu messa al bando in quasi tutti gli Stati del mondo. Negli ultimi anni però, diversi studi ne hanno mostrato le proprietà terapeutiche in alcune patologie psichiatriche, in particolare nell' ansia ingovernabile, nella depressione incoercibile e nei disturbi della personalità, per cui è stata utilizzata, sotto supervisione medica, in alcune delle sindromi neuro-psichiatriche resistenti ai classici farmaci.

Gli effetti. La psilocibina assunta per bocca inizia a manifestare i suoi effetti dopo 10-30 minuti, i quali persistono tra le due e le sei ore, a seconda del dosaggio e della sensibilità individuale, ed in microdosi agisce sull' umore senza dare esperienze psichedeliche, ma, avendo tale sostanza effetti analoghi all' Lsd, non è stata ancora validata in nessun ambito scientifico ufficiale. Uno studio del 2014 della Johns Hopkins University di Baltimora, pubblicato sul Journal of Psychopharmacology ha mostrato che la psilocibina provoca apertura mentale e creativa, rafforza la memoria, l' immaginazione, i sentimenti, le idee astratte, è un valido aiuto nel superamento di traumi psicologici e addirittura avrebbe una percentuale di successo dell' 80% come cura per la dipendenza da nicotina. La psilocibina è il componente essenziale dei funghi allucinogeni, che crescono allo stato selvatico e che nei secoli erano usati come rimedi curativi al dolore o come sostanze inebrianti, e che, una volta mangiati o bevuti in infuso, se assunti a dosi non controllate, possono provocare effetti fortemente allucinogeni e psichedelici, euforizzanti, esilaranti e stimolanti, con alterazione della percezione del tempo e dello spazio, facendo percepire l' ambiente circostante come in un sogno, con immersioni visionarie, profonda introspezione e forte senso di unione con la natura. Questo succede perché la psilocibina induce uno stato di "iperconnessione", una particolare condizione cerebrale che genera nuovi percorsi neuronali, permettendo a diverse parti del cervello, normalmente non collegate tra loro, di entrare in connessione, e quando gli effetti svaniscono, anche i collegamenti neurali ritornano alla normalità. I volontari che l' hanno provata hanno descritto questa esperienza come un episodio dalle importanti sensazioni personali e significati spirituali, sostenendo che la psilocibina riusciva a mettere in discussione anche i loro concetti più mistici. Attualmente in Italia la psilocibina è inserita nella tabella1 delle sostanze stupefacenti, per cui è illegale sia la detenzione che la vendita, mentre ad Amsterdam, in Olanda, viene venduta sotto forma di funghi freschi o secchi, noti come "magic truffles" (tartufi magici), oppure in versione sintetica pura, sotto forma di polvere bianca in vari dosaggi, sia a scopo terapeutico che ricreativo.

Connessione emotiva. La curiosità scientifica che fa riflettere i ricercatori di tutto il mondo è che la psilocibina agirebbe in modo opposto agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), che sono i componenti più comuni dei farmaci antidepressivi, cioè tale sostanza aumenterebbe la connessione emotiva nei pazienti, anziché sedarla come fanno oggi le terapie tradizionali, per cui l' ipotesi è che possa funzionare proprio perché accresce e rivitalizza la risposta del cervello alle emozioni, anche quelle negative, migliorandone l' accettabilità, e questa potrebbe essere la chiave dell' efficacia riferita dai pazienti che l' hanno testata. Lo studio delle proprietà psicofarmacologiche e terapeutiche di sostanze comunemente usate come "ricreative" è ormai molto diffuso nel mondo accademico, soprattutto laddove la ricerca non riesce a sintetizzare nuovi farmaci per malattie che sono ancora orfane di terapie mirate, e la psilocibina potrebbe essere destinata a diventare un farmaco rivoluzionario in Psichiatria. Certo è che rivalutare le droghe allucinogene o prendere esempio dagli antichi sciamani non è proprio un passo avanti dal punto di vista scientifico, e rendere un paziente depresso dipendente da una sostanza stupefacente non è il massimo, non conoscendo se questo trattamento sia esente da effetti collaterali a lungo termine. D' altra parte oggi non esiste un farmaco in Psichiatria che, per esercitare i suoi effetti positivi, non necessiti di un certo periodo di tempo, spesso di molte settimane, mentre questa sostanza agisce immediatamente, ma gli specialisti sono ottimisti sul fatto che la psilocibina potrebbe avere "positivi cambiamenti" nella personalità degli assuntori, con ripercussioni non solo sui sintomi della malattia, ma anche sulla revisione creativa della propria esistenza.

·         Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

Confische preventive, un “mostro giuridico” dalle molte vittime innocenti: ma per gli errori non paga nessuno. Baldassarre Lauria su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. La misura di prevenzione patrimoniale della confisca è un efficace strumento di aggressione alla ricchezza illecita accumulata dalle organizzazioni criminali, ma ha anche un prezzo elevato. Fa molte vittime innocenti. Nella sua massima espressione, la confisca di prevenzione riguarda i presunti “appartenenti alle associazioni mafiose” e non già i membri di esse che, se scoperti, sono fulminati dal 416 bis e, ove condannati, subiscono la confisca – cosiddetta allargata – dei beni di cui non è dimostrata la genesi lecita.  Per gli “appartenenti” – mai imputati o addirittura assolti del reato di associazione di stampo mafioso – è prevista una forma di confisca ben più insidiosa, che prescinde dalla condanna e richiede soltanto l’accertamento dell’enigmatica condizione di “appartenenza” all’associazione mafiosa. Sono i nuovi dannati, difficilmente collocabili in alcuno dei gironi dell’Inferno di Dante. Il principio di legalità “nessuna pena senza legge” non vale per il “diritto di prevenzione”, in ragione della ritenuta estraneità di esso alla cosiddetta materia penale. Il testo di legge non consente di fissare con sufficiente chiarezza i connotati fattuali e giuridici dell’appartenenza, diversa dalla partecipazione. In siffatto quadro di incertezza il giudice della prevenzione, nell’indagare gli elementi di pericolosità, fa ricorso a dati empirici piuttosto che a dati oggettivi. Spesso è sufficiente rilevare un mero rapporto di contiguità del proposto (anche culturale) con un’associazione mafiosa o una episodica interessenza affaristica, per ritenere raggiunta la soglia della “appartenenza”, nella supposizione di una indefinita traslazione del “potere” mafioso all’impresa con ipotetico rafforzamento di essa nel mercato. Addirittura, il giudice non deve nemmeno accertare l’appartenenza alla criminalità mafiosa del proposto, piuttosto deve limitarsi all’apprezzamento di semplici indizi di appartenenza, indizi che non sono quelli di cui all’art. 192 del codice di procedura penale – gravi, precisi e concordanti – ma semplici sospetti derivanti dallo stile di vita, dalle frequentazioni personali, dall’attività svolta dal proposto. Il soggettivismo del giudice non incontra nemmeno il vincolo della logica del suo provvedimento, tant’è che in sede di ricorso per cassazione non è ammesso alcun sindacato sulla motivazione. Il procedimento di prevenzione, a differenza del processo penale, non deve accertare l’esistenza o meno di un fatto ma semplicemente se un soggetto possa ritenersi pericoloso sulla base del suo stile di vita: pur dovendo presupporre determinati reati, che si assumono essere stati commessi dal proposto, il giudice è esentato dall’obbligo della prova. Si tratta di un vero e proprio “mostro giuridico” che si nutre del pregiudizio ambientale, di dati empirici affermatisi su un malinteso senso di lotta alla mafia. In un caso all’esame del Tribunale di Trapani si affermava la probabilità della contiguità mafiosa dell’imprenditore che aveva costruito un hotel in Castelvetrano, territorio controllato dal noto latitante Messina Denaro Matteo che difficilmente avrebbe consentito questa costruzione senza un suo interesse. Una follia giuridica, ma tant’è. Fino ad oggi, lo Stato ha vinto sempre, ha vinto anche quando ha perso. Si gioca, in effetti, una “partita truccata” perché, anche quando l’azione di prevenzione è stata respinta, il proposto si è visto restituire le proprie aziende ormai compromesse da scelte imprenditoriali degli amministratori giudiziari – quando non predatorie – quasi mai adeguate ai particolari business amministrati. Risarcimento? Nemmeno a parlarne. Il codice antimafia non prevede alcuna forma di riparazione per i danni provocati dall’errore giudiziario. Fa parte del gioco, in guerra muoiono i soldati e gli innocenti, e la lotta alla mafia è una guerra. Questa è la “terra” che non appartiene al Diritto, è la terra di nessuno, la nuova frontiera del diritto penale. Il diritto di prevenzione, fondato non già sulla responsabilità personale per determinati reati ma sulle categorie criminologiche di pericolosità previste dall’articolo 4 del codice antimafia, ha generato ormai un vero e proprio sistema alternativo a quello disegnato dal codice penale e processuale. Soltanto recentemente, con la sentenza numero 24 del 2019 e limitatamente all’articolo 1 del codice antimafia (pericolosità cosiddetta generica), la Corte Costituzionale ha preso atto della natura afflittiva delle conseguenze personali e patrimoniali derivanti dall’applicazione delle misure di prevenzione, affermando timidamente il vincolo del diritto di prevenzione al principio di legalità. Intanto il danno è fatto. Procedura snella, poche garanzie per il proposto, risultati certi e immediati, nessun risarcimento dell’errore. Un sistema degno della peggiore inquisizione di antica memoria, poco importa se ha fatto una “strage di diritti”. Benvenuti nel nuovo sistema penale italiano del presunto colpevole.

C'è tanto da fare. Beni confiscati, trovare altra via al sequestro e demolizione. Gianni Pittella su Il Riformista il 9 Ottobre 2020.  Il professor Minenna, attuale direttore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, studioso e pubblicista intelligente, qualche giorno addietro, solleva il tema di un uso più intelligente dell’ingente patrimonio confiscato alle mafie, sia dal punto di vista dell’efficienza economica sia da quello della sostenibilità sociale. Ci si trova in effetti di fronte a una straordinaria opportunità per il tessuto economico, e a volte non ne sembriamo consapevoli. Tutta la legislazione che regola il sequestro e la confisca dei beni alle organizzazioni criminali appare chiaramente orientata, come direbbero i filosofi, alla pars destruens, nel caso di specie alla sottrazione e di frequente alla demolizione delle attività economiche e di impresa riconosciute in capo a soggetti e sodalizi criminali e non a una loro possibile valorizzazione nel tessuto economico sano e di mercato. L’intento punitivo sembra spostarsi dal soggetto criminale all’attività economica in sé, tendenzialmente da cancellare dall’universo economico e ne consegue che, in virtù di questo generale indirizzo, il profilo dei poteri attribuiti all’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità risulti per lo più sprovvisto di competenze manageriali, capaci di costruire e guidare holding economiche assimilate per settori produttivi. Siamo certi che questa sia l’unica strada? Se ne interroga Minenna e anch’io da lungo tempo. Dei 18.300 immobili e delle 2.866 aziende in capo all’ANBSC, il grosso degli immobili viene destinato a enti locali per finalità sociali e, accanto a straordinari esempi di recupero e funzione sociale, ve ne sono altrettanti, data a volte la precarietà economica di molti enti locali, di depauperamento ed abbandono; la quasi totalità delle aziende viene liquidata anche quando, disinquinate dalla contaminazione criminale, potrebbero generare profitto e occupazione. La Commissione europea anche più recentemente ha invitato i sistemi di EuroPol ed EuroJust a giocare un ruolo di coordinamento fra gli uffici nazionali per il recupero dei beni proventi di corruzione o legati a criminalità mafiosa o terrorismo, di fatto segnando la rotta di un’attività di ‘asset recovery’, fortemente specialistica ma che richiede nuovi strumenti normativi di gestione manageriale e per holding di imprese con difficoltà produttive, finanziarie o legali, già sottoposte a sequestro o confisca dall’autorità giudiziaria. Per fare ciò, due sono le condizioni ineludibili che ci sentiamo di sposare con Minenna: l’articolazione di veicoli di proprietà pubblica che possano rappresentare una leva finanziaria anche di fronte al mercato privato e la funzionalizzazione sociale, la necessità cioè che le finalità di impiego siano stabilite dalla holding pubblica. Sul primo punto in particolare, Minenna suggerisce diverse modalità di ingegneria finanziaria ma, prima di tutto, è il legislatore a dover decidere se mutare parzialmente orientamento rispetto all’attuale normazione che regola l’amministrazione di beni mafiosi. La discussione è aperta.

I guasti del sistema di prevenzione. Innocenti ma rovinati dall’antimafia, la rivolta degli imprenditori onesti. Giorgio Mannino su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Gli obiettivi, chiari e netti, li fissa Rita Bernardini, membro del consiglio generale del Partito Radicale ed ex deputata: «Dobbiamo informare i cittadini, magari fare qualche sciopero della fame per farci sentire. E poi organizzare in Parlamento una conferenza, con l’associazione Nessuno tocchi Caino, per raccontare le storie di chi ha subito sulla propria pelle misure di prevenzione ingiuste. Persone la cui vita è stata distrutta. Perché c’è una fetta della politica ignara del fatto che parte dell’antimafia è occasione di guadagno, di affari. Con le misure di prevenzione si favoriscono le imprese che si vogliono, si distrugge l’economia del territorio. Serve più trasparenza nel settore troppo opaco della giustizia». Un intervento che suona come una vera e propria chiamata alle armi, quello che domenica scorsa, ha concluso il convegno tenutosi a Palermo dal titolo “La difesa nel processo di prevenzione – la vita del diritto per il diritto alla vita delle imprese”, organizzato dall’associazione Nessuno tocchi Caino rappresentata, nel capoluogo siciliano, da Pietro Cavallotti, uno dei figli degli imprenditori edili di Belmonte Mezzagno il cui patrimonio è stato ingiustamente sottoposto a sequestro in una lunga vicenda giudiziaria legata a doppio filo col sistema messo in piedi da Silvana Saguto. Durante la lunga mattina che si è snodata tra i limoneti di un luogo simbolico – lo Spazio Lab di via Faraone, tenuto sotto sequestro per cinque anni e poi dissequestrato – sono state tante le storie raccontate dalla viva voce di quegli imprenditori vessati dalle misure di prevenzione che hanno distrutto le loro vite personali e professionali: da Massimo Niceta, Simona Amodeo, Ester Fedeghini, passando a Francesco Bombolino, Francesco Lena, Pasquale Saraco, Andrea Cuzzocrea, Gaetano Virga e Giuseppe Monaco. Nomi più o meno sconosciuti all’opinione pubblica «ma il cui calvario – ha detto Elisabetta Zamparutti, tra i fondatori di Nessuno tocchi Caino – è l’espressione plastica di uno Stato che usa armi non convenzionali. E noi dobbiamo andare oltre questo uso violento di armi. Queste storie drammatiche mettono in scena il verosimile della lotta alla mafia i cui strumenti di contrasto sono inadeguati». Da qui nasce l’esigenza, promossa da Zamparutti, «di realizzare un libro che racconti queste storie e un altro docu-film, proprio come Spes contra spem. Pensando anche a una grande marcia che manifesti visivamente il problema di una drammatica tragedia». Perché il passepartout della lotta alla mafia, in molti casi, garantisce carriere e affari. Lo raccontano i casi di molte interdittive sospette, di scioglimenti di Comuni pieni di dubbi che sfociano in inquietanti grumi d’interessi: «Nella lotta alla mafia c’è una vetrina e un retrobottega pericoloso», ha detto Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino e coordinatore della presidenza del Partito Radicale, domenica nella veste di moderatore del convegno. «Siamo impegnati – aggiunge – a scongiurare il pericolo concreto che nel nome della lotta alla mafia si compiano mali altrettanto distruttivi per le persone e le imprese. Di solito c’è una colpa, un reato che provocherà una sentenza e semmai una condanna. Con le misure di prevenzione ci troviamo davanti a un’inversione per la quale prima c’è la pena e poi, forse, si dimostra l’innocenza. Le misure di prevenzione sono afflittive. È il futuro che decide sul presente. Credo molto nel ruolo dell’opinione pubblica, dell’informazione. Ed è fondamentale che Il Riformista stia raccontando le storie di questi imprenditori». Uomini e donne assistiti da avvocati – molti dei quali presenti al convegno – che, però, in materia di misure di prevenzione hanno le armi spuntate. «Ecco perché lanciamo un appello a tutti gli avvocati per rivoluzionare il modo di difendere», ha detto Cavallotti. «Dobbiamo sollevare – ha proseguito – eccezioni di costituzionalità che metteremo a disposizione degli avvocati. Dobbiamo fare più ricorsi possibile alle alte giurisdizioni e quindi alla Corte Europea, creando un team di avvocati e professori. Ottenere sentenze di condanna dello Stato Italiano. Il problema non è più eludibile. Prepareremo un dossier da sottoporre alla Corte Europea per fare capire qual è lo stato dell’arte delle misure di prevenzione in Italia. In tal senso faccio un appello agli avvocati che vogliono impegnarsi per sollevare queste questioni. Il rischio è che gli avvocati continueranno a vedere ‘morire’, sotto il peso di leggi inadeguate, i loro clienti».

Italia, il Paese della confisca senza reato. Michele Gelardi su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Se i lettori di questo giornale hanno avuto la pazienza di annotare ogni settimana le numerose storie di confische, nominalmente antimafia, ma in verità eseguite a danno di persone colpevoli di nulla, certamente si sono posti una domanda: si tratta di errori giudiziari occasionali, in qualche modo comprensibili, o si tratta invece di anomalie sistemiche, non tollerabili in un ordinamento democratico? Purtroppo la risposta giusta mi pare la seconda. Poiché la parola “antimafia” è circondata da un’aura di sacralità e la critica dei suoi strumenti, se non costituisce reato di lesa maestà, espone comunque al ludibrio pubblico, è necessario fare tante premesse e precisazioni. Per comprendere bene i termini della questione, è necessario preliminarmente superare un equivoco di fondo: il comune cittadino non può non pensare che la confisca abbia natura sanzionatoria, sia dunque giustificata da un reato commesso e sia inflitta a chi ha commesso quel reato. È così in tutto il mondo, è sempre andata così dalla notte dei secoli, sicché l’ignaro cittadino non può che associare mentalmente la confisca al reato presupposto e alla colpevolezza presupposta; non può che pensare tra sé e sé: “ben fatto! Costui ha tratto profitto dalle sue malefatte e ora ne paga le conseguenze”. Ebbene. Questa inevitabile associazione mentale tra il presente della sanzione ablativa e il passato del reato commesso non ha alcuna ragion d’essere nel caso della confisca di prevenzione, in funzione antimafia, la quale suppone invece la connessione tra il presente (ablazione patrimoniale) e il futuro (pericolo di reati futuri). In sintesi: con siffatta confisca antimafia, si vuole prevenire un pericolo futuro, non già sanzionare un fatto illecito già accaduto. Allora, per rispondere alla nostra domanda, non sussistendo il nesso presente/passato, bisogna capire se e quando sussista realmente il nesso presente/futuro. Tale nesso giustificativo non può che consistere, per necessità logica, nel pericolo inerente o alla persona o alla cosa. Ci sono cose pericolose in sé, la cui confisca ha ragion d’essere a prescindere da chi ne abbia il possesso o la detenzione. Un’arma è sempre un’arma: è una cosa pericolosa in sé, a prescindere dalla persona del portatore. La sostanza stupefacente è pericolosa in sé, ancorché il detentore non abbia commesso alcun reato. Al di fuori di questi casi, il pericolo non può che inerire alla persona, sicché, in mancanza di un soggetto socialmente pericoloso, la confisca (di prevenzione) diventa una palese ingiustizia, essendo giustificata da niente e dovendo prevenire niente. Suppongo che in linea di principio nessuno possa negare che una confisca di prevenzione, in assenza di alcun pericolo, sia contraria ai principi universali di giustizia oltre che alle norme costituzionali (principio di colpevolezza, diritto di proprietà etc.). Si tratta allora di vedere se nell’ordinamento italiano sia ammissibile siffatta confisca. Ebbene, il lettore sarà sorpreso, ma la risposta è positiva: perfino nel pieno vigore della “costituzione più bella del mondo”, è possibile e pienamente conforme alla legge confiscare, in funzione preventiva, i beni di persone colpevoli di nulla e non pericolose, dunque – a nostro giudizio – in assenza di qualsivoglia pericolo. La spiegazione è semplice e sta sotto gli occhi di tutti, sebbene ben coperta da una spessa coltre di silenzio: il c.d. codice antimafia (d. lgs. n. 159/2011) ha introdotto il principio della disgiunzione tra le misure di prevenzione personali (sorveglianza speciale etc.) e quelle reali (sequestro e confisca). Tradotto significa che si può procedere alla confisca, ancorché il soggetto ablato non sia stato dichiarato socialmente pericoloso. Il principio di disgiunzione è noto a tutti gli addetti ai lavori, seppure ignoto alla generalità dei cittadini. L’opinione pubblica disinformata continua a giustificare la confisca sulla base della falsa associazione mentale presente/passato, gli operatori del diritto devono invece giustificarla sulla base di un nesso presente/futuro e ovviamente si trovano in grande difficoltà logica, in assenza di un soggetto socialmente pericoloso. Si deve far quadrare il cerchio, ma la quadratura è difficile. Percorrendo una strada molto impervia, il fondamento giustificativo di siffatta confisca di prevenzione, a danno di un soggetto non pericoloso (e meno che mai colpevole di reato), si fa consistere nel fatto che il soggetto inciso non riesca a fornire le prove di aver accumulato lecitamente il suo patrimonio. Dunque la sospetta provenienza illecita della cosa confiscata sarebbe la vera ragione della confisca. Ma la (presunta) provenienza illecita si riferisce al passato, non già al futuro e ciò che si riferisce al passato è sanzione, non prevenzione. Come dunque si può quadrare il cerchio innanzi a una “sanzione” senza reato e una “prevenzione” senza pericolo? La quadratura si ottiene con il seguente ragionamento: la sospetta provenienza illecita, dedotta dalla sproporzione tra il patrimonio e il reddito dichiarato, induce a pensare che la cosa (oggetto di confisca) possa essere destinata a finalità illecita. È evidente che ci si arrampica sugli specchi, basta una sola considerazione: la metà degli italiani, pur non delinquendo, non potrebbe fornire la prova documentale di tutti i passaggi economici che hanno condotto all’accumulazione di capitale. In conclusione, la confisca di prevenzione vigente in Italia – e solo in Italia – appare come una specie di ircocervo, dalla doppia natura: sanzionatoria e preventiva. La sua natura sanzionatoria non è giustificata da un pregresso reato e da una colpevolezza presupposta, la sua natura preventiva non è giustificata dalla presenza di un pericolo reale. In questa grande anomalia proliferano i tanti “errori” giudiziari, che non sono errori in senso stretto, ma sistematiche applicazioni della legge, particolarmente inique.

Confische preventive contro le mafie spazzano via la presunzione di innocenza. Francesco Morelli su Il Riformista il 10 Agosto 2020. Lo strumento delle confische preventive, da qualche anno, viene spesso indicato quale strumento privilegiato dallo Stato per il contrasto alle organizzazioni criminali, soprattutto di tipo mafioso. Sottraendo a tali consorterie le sostanze economiche che le rendono forti ed efficienti sui mercati criminali ma, soprattutto, nel sistema economico lecito, si raggiungerebbe l’obiettivo del loro indebolimento in modo molto più rapido ed efficace di quanto non sia possibile fare con i processi penali, i quali riguardano le condotte dei soggetti imputati, e non la provenienza delle loro ricchezze. Questo ragionamento, fatto fluttuare nel discorso pubblico senza ulteriori approfondimenti, è indiscutibilmente affascinante e fa presa sull’opinione pubblica per l’immagine semplice che trasmette: ci si figura un membro di una potente organizzazione criminale, spropositatamente ricco, al quale lo Stato improvvisamente sottrae le copiose sostanze illecitamente percepite ottenendo il duplice obiettivo di punirlo per le sue condotte, colpendo il suo portafoglio, e di restituire alla comunità quei beni che il crimine organizzato le ha ingiustamente sottratto. Per rendersi conto di come le cose non stiano affatto così, ci sono due modi: uno empirico ed uno scientifico, entrambi legati a doppio filo tra loro, al contrario di quanto voglia far credere l’irritante alibi della scissione manichea tra “teoria” e “pratica”, che avvelena da anni ogni discorso in materia giuridica nel nostro Paese. Il metodo empirico si può ridurre anche alla mera osservazione delle storie delle persone e delle imprese colpite dalla confisca preventiva. Nessuno Tocchi Caino, con il suo Consiglio direttivo del 27 giugno scorso, ha dato voce a queste storie e si è potuto vedere in cosa consista, per davvero, la realtà delle misure patrimoniali preventive. Ciò che emerge è, sostanzialmente, l’assenza di ricostruzioni fattuali concrete a sostegno di misure che inginocchiano persone ed aziende; a volte, persino, queste misure si reggono su delle ipotesi di fatto in aperto contrasto con decisioni giurisdizionali definitive, come nei casi in cui la confisca colpisce persone assolte nei processi penali. Quelle storie, che farebbero rabbrividire chiunque abbia una vaga percezione di come funzioni una democrazia, rimandano alle numerose osservazioni di tipo scientifico che tolgono alle misure preventive ogni possibilità di essere legittimamente annoverate tra gli strumenti fruibili in uno Stato costituzionale. Le confische preventive, infatti, sono pensate per funzionare esclusivamente in uno Stato autoritario. Basti qui una sola considerazione: esse si reggono strutturalmente sulla violazione del più alto principio posto a fondamento dell’attività giurisdizionale democratica, ossia la presunzione di innocenza. Ogni confisca, pur colpendo diritti patrimoniali, muove inequivocabilmente da un presupposto chiaro, ossia il sospetto che i beni sottratti dallo Stato siano frutto di attività illecite. Non esistono, infatti, case, denari, attrezzature pericolosi in sé: essi sono pericolosi perché frutto di condotte delittuose. Nel contesto della prevenzione, l’esistenza di queste attività illecite, ovvero reati, è affermata sulla base di elementi ottenuti tramite oscure attività investigative di polizia, ma nessun giudice ne ha mai accertato la sussistenza, né una sentenza penale ha mai potuto concludere che condotte precise potessero essere attribuite a persone precise. Talvolta, persino, la confisca viene disposta nonostante le sentenze assolutorie assunte all’esito di processi penali abbiano smentito la fondatezza delle medesime ipotesi criminose che stanno alla base dell’azione preventiva. L’intervento sui diritti patrimoniali è qui reso possibile solo da uno spasmo autoritario, che mette da parte con violenza i principi su cui lo Stato fonda la sua stessa legittimazione democratica, ossia la protezione dei diritti fondamentali della persona. Quando lo Stato sottrae sostanze a gli individui senza accertare i fatti illeciti che giustificano quella misura con un processo penale, la legge che trova applicazione è solo la legge del più forte, poiché, l’altra legge, la presunzione d’innocenza, pretende che le conseguenze negative che scaturiscono dalla commissione di reati seguano all’accertamento di quei fatti con sentenza definitiva di condanna emessa all’esito di un processo penale. Occorre superare questa obiezione alla legittimità delle confische preventive prima di addentrarsi nell’esame di questo strumento ed esaminarlo in tutte le sue sfaccettature. Non è scientificamente accettabile che di esso si parli senza prima uscire da questo vicolo cieco. È una questione di ordine del discorso, ma anche di rispetto per la vita democratica della Repubblica. E tuttavia, preme qui un’ulteriore considerazione. È lecito dubitare, in radice, non solo della legittimità ma anche della funzionalità e dell’efficienza di interventi punitivi patrimoniali preventivi che non nascano da accertamenti definitivi in merito alla commissione dei reati. Concentrandosi sull’azione preventiva e mettendo in secondo piano la necessità di sentenze definitive, in uno Stato con la nostra Costituzione e aderente al sistema CEDU, come possiamo sperare di raggiungere progressivamente risultati solidi nell’intervento contro le grandi organizzazioni criminali? Interventi instabili, alla lunga, creeranno ostacoli instabili, ossia superabili, per le organizzazioni che si mira a colpire. Nella prospettiva di lungo periodo a cosa è davvero servito confiscare terre, case, aziende a colui del quale non possiamo ancora dire davvero che abbia commesso alcun reato e che sia affiliato all’organizzazione mafiosa? Le regole costituzionali intendono garantire accertamenti stabili e attendibili, che daranno risultati qualificabili con i medesimi aggettivi, certo più lentamente di quelli subito ottenibili con le confische preventive. Agendo come ora intendiamo agire, si innesterà un pericoloso modo di pensare che inevitabilmente induce a credere che quando occorra davvero ottenere risultati, bisognerà mettere da parte i principi che qualificano il diritto e la giurisdizione penale democratica (presunzione di innocenza, giudice precostituito, diritto penale del fatto, principio della pena rieducativa, contraddittorio e metodo adversarial). E si finirà così per pensare che le regole e i canoni del diritto e del processo penale democratico siano i maggiori ostacoli all’applicazione del diritto penale attraverso il processo. Ma forse ciò è già successo, e questa perversione fonda l’intervento dello Stato ancor più di quanto facciano i principi della Costituzione repubblicana. E ci sembra, oggi, che a tutto questo non sia ancora lecito rassegnarsi.

Cooperativa "29 giugno". Antimafia Capitale, così hanno regalato 3 milioni ai commissari per distruggere la mia azienda. Salvatore Buzzi su Il Riformista il 17 Ottobre 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la nona di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Quella fredda mattina dei primi di dicembre 2014 non sono stato arrestato solo io quale “capo della mafia” nella capitale del mondo, è stato arrestato anche un progetto di inclusione sociale che aveva tolto dalle strade e dalle carceri di Roma quasi duemila disgraziati, ex ladri e rapinatori, tossicodipendenti, immigrati e altri emarginati dalla vita economica e sociale. Non credo sia mai successo. Nello stesso giorno, si arrestano i capi della mafia e si sequestrano cinque cooperative sociali. Tutto mi appare irreale e ancora oggi non riesco a comprendere come la Procura della Repubblica possa aver creato un teorema così strampalato che ha distrutto la vita mia e quella di centinaia di famiglie a cui avevo dato un lavoro e l’occasione di un riscatto sociale. La Cooperativa “29 giugno” era nata nel 1985 nel carcere di Rebibbia e si era subito affermata come una impresa tra le più solide a Roma e nel Lazio che occupava 1.276 persone con quattordici mensilità oltre alle due aggiuntive distribuite dalla cooperativa grazie agli utili. Oltre ai soci lavoratori vi erano anche i soci sovventori che avevano investito i loro risparmi in cooperativa con una remunerazione del capitale sociale più vantaggiosa dei titoli di stato, garantita da un patrimonio reale di oltre 30 milioni. Le commesse di lavoro erano 110, i mezzi impiegati per eseguirle oltre 250 con una sede centrale e varie sedi distaccate dove operava personale altamente qualificato. Tanto per intenderci: le commesse di lavoro in partecipazione con Massimo Carminati – il “mostro da prima pagina” che con la sua “riserva di violenza” avrebbe connotato di mafiosità la cooperativa sociale e la stessa capitale d’Italia – erano solo 2 su 110, rispetto alle quali la Procura non ha riscontrato reati. Dopo il sequestro più veloce della storia, il Presidente del Tribunale delle misure di prevenzione di Roma, Guglielmo Muntoni, nomina tre amministratori giudiziari. Ero detenuto nel carcere di Tolmezzo quando apprendo di una gestione disastrosa delle cooperative, della riconsegna ai soci nel marzo 2018 in condizioni economiche pessime che hanno determinato lo stato di liquidazione nel 2019 per le eccessive passività accumulate durante la gestione commissariale. A giugno 2020, in coincidenza col mio ritorno in libertà dopo la sentenza della Cassazione che ha buttato giù il castello di carta dell’associazione di stampo mafioso, mi è stato notificato dal Tribunale delle misure di prevenzione il rendiconto di gestione delle cooperative. Lo riporto per sommi capi e senza commenti. È la cronistoria dei danni che si possono arrecare nel nome della lotta alla mafia. I tre amministratori giudiziari nominati da Muntoni sono avviati commercialisti con studio in Roma. I loro compensi sono a me tuttora ignoti. Li posso però immaginare se considero che i tre commissari si fanno subito autorizzare dal Tribunale l’assunzione di otto coadiutori – che altri non sono che impiegati dei loro studi professionali – al costo di 67.200 euro a testa. Inoltre, sono autorizzati ad assumere molti consulenti con un compenso mensile dai 1.500 ai 2.000 euro a presidio delle tante società partecipate dalla Cooperativa. Vengono assunti come dirigenti altre cinque persone. Viene nominato un nuovo commercialista e un nuovo consulente del personale, senza indicazione dei compensi. Ancora, pochi giorni dopo, viene conferito incarico ad altri due commercialisti per analizzare e verificare la organizzazione delle società sequestrate. Compenso non pervenuto. Siccome – come è emerso anche dalle cronache siciliane del sistema Saguto – dei collaboratori nella gestione di imprese a rischio di infiltrazione mafiosa bisogna fidarsi, ecco la richiesta, subito accolta da Muntoni, di essere autorizzati ad assumere “familiari e conviventi dei preposti”. Non servono solo commercialisti, all’inizio del 2015, gli amministratori giudiziari si fanno autorizzare l’assunzione di legali. Anche qui compensi non pervenuti. I nuovi amministratori cambiano quasi tutti i vecchi fornitori, senza liquidarli e dando incarico ad altri senza indicare il vantaggio economico ottenuto. Nel contempo sono chiusi alcuni centri di accoglienza e iniziano costosi lavori di ristrutturazione nella sede. Tutti noi arrestati siamo stati sospesi e non licenziati, in tal modo impedendoci di accedere alla indennità mensile di disoccupazione in danno delle nostre famiglie. Invece, a luglio 2015, a quattro alti dirigenti sono aumentati i compensi. Aumenti non pervenuti. A fine anno, nonostante questa infornata di dirigenti, i tre amministratori giudiziari assumono un direttore operativo a cui viene corrisposto un compenso annuo di 50.000 euro. Ad inizio 2016, viene cambiato il consiglio d’amministrazione della ABC che si occupava di servizi alle persone. Dei tre massimi operativi del nuovo gruppo dirigente non conosciamo i compensi. Vengono nominati ancora altri tre consulenti. Compensi non pervenuti. Ho letto i curricula dei tre massimi dirigenti e principali responsabili di questo disastro e ho scoperto che sono senza traccia di incarichi operativi nel campo dei servizi. I nodi della gestione giudiziaria cominciano ad arrivare al pettine. Nel maggio 2017, viene sciolta l’ATI Sial – Eriches, la prima proprietaria del terreno sul quale insiste parte del campo nomadi Castel Romano. Non sappiamo se siano stati incassati i relativi canoni di locazione. Sempre nel corso del 2017 i bilanci delle cooperative chiudono con una significativa riduzione del volume di affari e con perdite ingenti. Il fatturato complessivo delle cinque cooperative, pari a 46 milioni di euro al dicembre 2017, ha una perdita di quasi 15 milioni di euro: è il 31% del fatturato con una punta significativa per Formula Sociale che ha una perdita dell’86%. La Cooperativa “29 giugno” e imprese collegate partecipano alla nuova gara indetta da AMA per la raccolta differenziata effettuando un ribasso del 25%, così perdono in media un milione di euro al mese, tanto che per contenere la perdita gli amministratori giudiziari modificano il contratto di lavoro degli operatori passando da una retribuzione di 1.400 a 900 euro al mese. Nel gennaio 2019, quando già le cooperative sono in agonia e stanno per essere poste in liquidazione, il Tribunale delle misure di prevenzione riconosce ai tre amministratori giudiziari un compenso di un milione di euro cadauno a titolo di acconto del compenso reale che ancora non sappiamo a quanto ammonta, come pure non conosciamo le retribuzioni dei tre massimi dirigenti. Dopo un disastro di questa natura, i soci lavoratori che fine hanno fatto? La gran parte è rimasta precaria, assunta in altre aziende e degradata nelle mansioni. Altra parte, la più significativa, è rimasta senza lavoro e con minime indennità di disoccupazione. Solo una piccola parte, in prevalenza impiegati degli uffici, ha trovato la strada di una ricollocazione. Questa è la fine della storia della Cooperativa “29 giugno”, l’impresa della “mafia” che dava lavoro ai disgraziati di Roma e che doveva essere salvata dall’antimafia che quei derelitti ha ributtato in mezzo a una strada. È una storia comune a centinaia di imprese affidate all’amministrazione giudiziaria. Una storia di fallimenti e di danni che gli “onesti”, nel nome della lotta ai “disonesti”, arrecano alla vita, alla libertà e al lavoro delle persone e delle imprese. Sono i “costi della legalità”, così vengono definiti, i danni collaterali della “guerra alla mafia”, nella quale – come in tutte le guerre – va messa nel conto la strage di diritti, di beni e persone innocenti. Dopo aver letto le prime carte a disposizione, credo ci sia lo spazio, con il patrocinio di Nessuno tocchi Caino, per una concreta azione di responsabilità e invito gli ex soci della cooperativa che hanno perso il lavoro e la retribuzione, il capitale sociale e la liquidazione, per non parlare della dignità, ad associarsi in questa azione risarcitoria. Non serve più indignarsi. È arrivato il tempo di agire legalmente. Se non ora, quando?

Le vittime della prevenzione antimafia. Assolto in vita, processato da morto: l’incredibile caso di Antonio che non si potrà difendere… Pietro Cavallotti su Il Riformista il 13 Settembre 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la settima di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Paura, vergogna e altre pene accessorie che si aggiungono a quelle dirette inflitte dal regime di prevenzione antimafia portano molti imprenditori a vivere nel silenzio e nella rassegnazione l’ingiustizia che gli ha distrutto la vita e la reputazione sociale. Userò, quindi, un nome di fantasia per raccontare fatti realmente accaduti. Siamo negli anni Sessanta, in pieno boom economico. Antonio, dopo 25 anni di lavoro come operaio, decide di mettersi in proprio creando una piccola impresa edile. L’esperienza ce l’ha, il mercato è pieno di opportunità e le banche non si fanno tanti problemi per un prestito. Antonio comincia a crescere: costruisce una piccola casa, poi una villetta, poi un palazzo e così via. Arrivano gli anni Ottanta. Antonio, dopo tanta gavetta, è un imprenditore affermato. Sono gli anni delle stragi di mafia. Non passa un giorno senza un morto ammazzato. I mafiosi si scannano tra di loro per il controllo del territorio. Antonio, come tutti gli imprenditori a Palermo, non può sfuggire al pizzo. Appena piazza un cantiere, viene assalito da 10 cani con richieste di vario genere: soldi, forniture, assunzioni. È il periodo storico in cui, se un imprenditore di Partinico vuole costruire una bettola in Corso Calatafimi, deve prima ottenere il “permesso” della famiglia mafiosa di Corso Calatafimi per il tramite della famiglia mafiosa di Partinico. “Permesso” significa pagare il pizzo ai mafiosi del posto. È questa la trafila da seguire per aprire una pasticceria, un bar, un’edicola o qualsiasi altra attività. Nella logica di Cosa Nostra, i mafiosi sono i “padroni” del territorio e tutti quelli che vi vogliono operare devono ottenere il loro benestare. Si entra in casa di altri solo con il permesso del proprietario. Antonio prova a dire di no e allora arrivano le prime intimidazioni, i primi avvertimenti, le prime bombe nei cantieri, le prime betoniere incendiate, i primi attentati. Sono gli anni in cui lo Stato non è capace di proteggere neppure i suoi uomini migliori i quali vengono crivellati di colpi o fatti esplodere. Antonio si guarda intorno e vede che pagano tutti: dal grande costruttore del nord fino all’ultimo venditore di panelle. Le forze dell’ordine lo sanno. La politica lo sa. Lo sanno tutti. Antonio ha moglie, bambini e la responsabilità di portare avanti un’impresa con decine di operai e milioni di debiti da onorare. Quella è gente che non scherza; sono assassini spietati che non si fanno scrupoli a uccidere magistrati, carabinieri, prefetti e a squagliare nell’acido bambini. Così, dopo l’ennesima denuncia di furti, danneggiamenti e attentati, decide di pagare. Siamo arrivati agli Novanta. Sono stati da poco trucidati Falcone e Borsellino. Il loro sterminio ha suscitato una grande indignazione nella società. Lo Stato italiano deve dare al mondo un segnale di reazione per riaffermare la propria supremazia. Il segnale passa attraverso arresti di massa e sequestri a tappeto. L’obiettivo è uno solo: sconfiggere con ogni mezzo il cancro mafioso, anche al costo di sospendere, come si fa in tempo di guerra, le garanzie costituzionali dei cittadini. Ogni guerra comporta il sacrificio di vittime innocenti. Così, in questo contesto, Antonio viene arrestato con l’accusa di aver fatto affari con la mafia. Tutto il suo patrimonio viene sequestrato. Quel “permesso”, considerato estorsione dal codice penale, viene interpretato come una forma di “agevolazione” da parte della mafia. Il ragionamento perverso è pressappoco questo: se Antonio non avesse pagato il pizzo, non avrebbe ottenuto il permesso; senza il permesso non avrebbe potuto costruire né vendere. La morale della favola è che Antonio è stato favorito dalla mafia, e versando la tangente, ha rafforzato la mafia stessa. Il pagamento del pizzo, d’altra parte, non era affatto ineludibile, perché nessuno obbligava Antonio a non cambiare mestiere oppure a non lasciare Palermo e la Sicilia. Contro di lui le dichiarazioni di alcuni pentiti che nel frattempo si sono, per l’appunto, pentiti. Raccontano fatti risalenti anche a 15 anni prima. Comincia il processo. Antonio si difende, porta documenti a sua discolpa e riesce a smontare, punto per punto, tutte le accuse. 10 anni più tardi, dopo qualche anno di carcere e di isolamento, dopo perizie, controperizie, annullamenti, rinvii e poi ancora rinvii, arriva l’assoluzione: il suo patrimonio è frutto del suo lavoro e non dei favori della mafia che anzi lo ha vessato. Nel frattempo, i figli di Antonio sono cresciuti. Dopo avere studiato, entrano nel mondo del lavoro e avviano autonomamente altre imprese, nella convinzione di essere persone libere e di avere un padre definitivamente riconosciuto innocente dallo Stato italiano. Passano gli anni, Antonio è un vecchio con tanti nipoti, anch’essi impegnati nelle imprese dei figli. Antonio muore, logorato da una vita di duro lavoro e segnato nel profondo dell’anima dal periodo dell’ingiusta detenzione subita. Qualche anno dopo il decesso, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sequestra tutto il patrimonio dei figli e dei nipoti perché ritenuto riconducibile al nonno e alle sue “attività illecite”. Non conta la precedente assoluzione e non conta neppure che il capostipite sia passato a miglior vita. Si fa il “processo al morto” per confiscare i beni dei vivi. Non interessano i mafiosi. Interessano i beni. I figli e i nipoti devono ora dimostrare come il nonno sessant’anni prima ha fondato la sua prima azienda. Viene chiesto loro di produrre documentazione risalente a mezzo secolo prima (documentazione non più esistente). Chiedono alle banche gli estratti conti del 1970 ma non li ottengono. Cercano le fatture del 1963 ma non le trovano. Devono spiegare quali erano i consumi familiari del nonno, cosa mangiava a cena, che vestiti indossava, dove e se andava in vacanza, quanto spendeva. Ma non lo possono sapere perché Antonio e sua moglie sono morti. Gli viene chiesto di smentire il racconto di persone che riferiscono di essersi incontrate, non si sa bene quando e perché, con il nonno negli anni Ottanta. Cioè quando i nipoti non erano nati e i figli erano appena adolescenti. In genere, più passa il tempo più sbiadisce il ricordo. Non così per i pentiti che hanno il dono il recuperare dettagli con trascorrere degli anni. Il processo finisce con la confisca di tutto. Non c’è la prova che i beni sono il frutto di un qualche reato (del resto Antonio era stato assolto). Tutto si basa su una presunzione: siccome gli eredi non sono riusciti a ricostruire l’evoluzione del patrimonio, i beni sono del nonno “mafioso” (anche se non è mai stato condannato). Forse Antonio aveva fatto un poco di evasione fiscale, quella tipica a cui i costruttori in quegli anni erano costretti a ricorrere non tanto per eludere il fisco ma per avere denaro contante da versare a titolo di estorsione alla mafia. Nulla comunque a che vedere con riciclaggio, reinvestimento di capitali illeciti o altri reati. Ma tutto questo non conta.

Nella spirale delle misure di prevenzione. Così il Tribunale di Palermo ha distrutto la mia vita e fatto fallire la mia azienda. Francesco Bombolino su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, l’ottava di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Ho passato dieci anni di inferno e non è ancora finita. Dieci anni in cui sono stato costretto a lavorare per pagare avvocati e consulenti in un processo folle che non doveva mai iniziare. Sono stato sequestrato, cioè punito e umiliato senza un motivo. Il sequestro è una mannaia che può cadere in qualsiasi momento sulla testa di chiunque. Vieni letteralmente decapitato senza avere la possibilità di difenderti. Si potrebbe dire che mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel posto sbagliato perché a Palermo, insieme ad un’altra persona (rimasta estranea al procedimento), avevo appena costituito una società attiva nel settore degli asfalti. Al momento sbagliato perché lo avevo fatto nel periodo storico in cui la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo era governata dalla dottoressa Saguto. I pretesti che portarono al sequestro della mia quota erano essenzialmente due: avevo lavorato alle dipendenze di Bordonaro, destinatario della misura di prevenzione; una presunta sproporzione tra i miei redditi e il mio investimento di appena 12 mila euro (l’equivalente di un’utilitaria). Tanto è bastato perché venissi investito da uno tsunami che mi ha tolto il respiro, ma non la forza di reagire. In questo processo, avviato formalmente contro il “proposto”, ossia Bordonaro, io sono stato catapultato nella veste di “interveniente”. L’interveniente non è un soggetto considerato pericoloso. È semplicemente qualcuno i cui beni vengono presuntivamente ritenuti nella disponibilità di altri soggetti, considerati – sempre presuntivamente – non mafiosi ma “vicini ad ambienti mafiosi”. È un processo al contrario in cui per i giudici i tuoi beni appartengono agli altri e tu devi dimostrare che sono tuoi. Iniziava così un vero e proprio calvario e si apriva davanti a me uno scenario sconvolgente in cui ho visto cose che fino a quel momento non credevo possibili. Ho visto periti incompetenti giocare con la vita delle persone tirando fuori a casaccio dei numeri con la stessa disinvoltura con cui si pescano i numeri a tombola. Ho visto amministratori giudiziari senza alcuna esperienza atteggiarsi a padroni delle cose degli altri, con un’arroganza propria di chi sa che non deve rendere conto a nessuno. Eppure dovrebbero mantenere i livelli occupazionali, garantire la continuità aziendale e conservare il patrimonio; eppure dicono di essere mossi da uno spirito di servizio per la collettività e non dal proprio tornaconto personale. Ho visto travasi di costi, personale e risorse da un’azienda all’altra, complesse partite di giro, vietati per qualunque imprenditore ma consentite agli amministratori giudiziari che giustificano tutto con la bella espressione di “economie di scala”, che altro non è che un modo per fare fallire alcune aziende a favore di altre. Per dimostrare che non c’era alcuna sperequazione, ho dovuto lottare per ben 6 anni contro un perito nominato dal Tribunale. Per raccontare l’arcano delle perizie, ci vorrebbe un intero capitolo. Sono state usate contro di me delle tabelle secondo le quali un dipendente, per sopravvivere, ha bisogno di 4 mila euro al mese. Se fossero adottati questi parametri, tutti i lavoratori subordinati risulterebbero sperequati! Quella perizia è stata rifatta cinque volte. Era come lottare contro un mulino a vento. I miei consulenti inviavano PEC e il perito non rispondeva. Mi venivano attribuiti costi che io non avevo mai sostenuto. Ho fatto “il giro delle sette chiese” per reperire la documentazione a mia discolpa: Banca d’Italia, INPS, ISTAT, per citare solo alcuni degli enti a cui mi sono dovuto rivolgere. Ancora non mi è chiaro come vengono fatti questi calcoli. I periti dovrebbero accertare le spese realmente sostenute e, invece, fanno valutazioni ipotetiche sulla base di indici presuntivi. Si attribuiscono all’accusato dei costi che non ha mai sostenuto. Viaggi che non hai mai fatto, costi per l’acquisto delle sigarette anche se non fumi, abiti che non hai mai comprato, canoni di locazione nonostante hai casa di proprietà. Partendo da questa presunta sproporzione, attraverso una seconda presunzione, si arriva alla conclusione che il tuo patrimonio è illecito e te lo confiscano. E tu non puoi fare niente. Non sapevo a chi rivolgermi per fare valere le mie ragioni. Scrivevo al giudice che aveva già sequestrato la mia azienda ritenendomi prestanome del proposto. Mi lamentavo del perito davanti allo stesso giudice che lo aveva nominato. Uno stillicidio. Fortunatamente, a seguito dello scandalo Saguto, sono arrivati altri giudici che, quasi dieci anni dopo il sequestro, hanno riconosciuto che un semplice rapporto di lavoro non è sufficiente per una misura di prevenzione. Ovviamente non c’era neppure la sperequazione. Rimane tanta amarezza e delusione. Un battito di ciglio per sequestrare una vita, un decennio per dissequestrare il nulla. Già, perché, come tutte le aziende in amministrazione giudiziaria, anche la mia è stata messa in liquidazione. La mia società era stata affidata all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, anche lui sotto processo a Caltanissetta insieme alla Saguto. Quest’ultimo, nel pieno “rispetto della legalità”, mi ha fatto lavorare in nero per tre mesi senza neanche pagarmi. Solo a seguito di reiterate istanze dei miei avvocati, sono stato regolarizzato. In pratica, ero io a gestire l’azienda ma senza i poteri di firma. Dovevo chiedere i vari permessi e rendicontare quello che facevo a persone che non avevano alcuna idea di che cosa stessimo parlando. Fino a che c’ero io la società è andata avanti, producendo persino utili. Circa tre anni fa è stato nominato un altro amministratore giudiziario con esperienza nel settore fallimentare. Infatti, la prima cosa che ha fatto è stata chiudere l’azienda. Nonostante il dissequestro, non ho ancora avuto gran parte delle carte in mano e non so il motivo per cui è stata presa una decisione per me inaccettabile. Non mi do pace perché il sequestro non doveva essere fatto. Oggi, dopo tante sofferenze, non so nei confronti di chi mi devo rivalere per i danni subiti. I responsabili della mia tragedia sono legalmente protetti. L’amministratore unico è stato nominato dall’amministratore giudiziario. Quest’ultimo ha agito con l’avallo del giudice. I giudici in Italia non pagano mai per i propri errori. Non è facile nemmeno trovare un avvocato che riesca a fare valere le tue ragioni con un’eventuale azione di responsabilità civile. La mia esperienza dimostra che l’unico modo per evitare la distruzione delle aziende e la vita delle persone che vi lavorano è attuare la proposta di legge fatta dal Partito Radicale, ossia affiancare e non sostituire l’imprenditore per tutta la durata degli accertamenti. Questo mi avrebbe permesso di ritornare a gestire una società che con me aveva continuato a crescere anche durante l’amministrazione giudiziaria.

Accusato di mafia assolto dopo 12 anni, “Ci hanno preso tutto”. Davide Faraone su Il Riformista il 4 Settembre 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la sesta di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Luglio 2008, ho 15 anni. Apprendo da un quotidiano acquistato all’edicola che mio padre è un mafioso, vedo la sua faccia stampata su quella pagina di giornale. Mi faccio prendere dal panico e gli telefono: lui mi rassicura, mi dice che è tutto falso e di stare tranquillo perché si tratta soltanto di un errore. In quegli stessi giorni, i giornali in Umbria titolavano: «Arrestato Paolo Faraone, Ministro della mafia in Umbria. Sequestrati beni per 2.500.000 euro». Anche qualche telegiornale diede la notizia. Secondo l’accusa, il boss di Palermo Lo Piccolo aveva fornito le referenze di mio padre alla famiglia mafiosa dei Madonia per riciclare capitali illeciti nel sito umbro. In realtà mio padre a Terni aveva rilevato un ristorante con il ricavato della vendita di alcune proprietà e con i prestiti bancari. Insomma, tutto tracciabile, nulla a che vedere con ipotesi di intestazioni fittizie. Tant’è che lo stesso Tribunale di Terni ritenne che le indagini erano a tal punto sommarie da non poter formulare alcun capo d’accusa. Ai tempi ci sembrò che fosse tutto finito, ma ci sbagliammo. I magistrati di Palermo, per gli stessi fatti, avviarono un altro processo penale e sequestrarono tutti i beni della mia famiglia. Il sequestro fu poi revocato dal Tribunale del Riesame che lo ritenne di origine lecita. Anche questa volta, ci illudemmo che tutto fosse finito, ma ci sbagliammo nuovamente. Lo stesso patrimonio appena dissequestrato venne risequestrato dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, la stessa che qualche anno dopo sarebbe stata radiata dalla Magistratura perché accusata di reati gravissimi che vanno dall’associazione a delinquere alla truffa, passando per il peculato e l’abuso d’ufficio. Dalle “motivazioni” di quel provvedimento emergeva che mio padre, da ministro della mafia in Umbria, era stato “declassato” a prestanome di un certo Lo Cricchio. A questo punto mio padre viene stretto nella morsa micidiale di due processi: il processo penale e quello delle misure di prevenzione. Il primo si è concluso con un nulla di fatto perché i giudici, dopo anni e anni, si sono accorti che i fatti erano avvenuti in un distretto diverso da quello di Palermo. Il secondo si è definito con l’applicazione della confisca di tutto il patrimonio e della sorveglianza speciale per due anni. Il tutto da innocente. Da quando è cominciata questa maledetta vicenda, la vita della mia famiglia è cambiata bruscamente e irrimediabilmente. Il sequestro ha reso impossibile a mio padre anche pagare per un buon avvocato. Si è ritrovato senza reddito, senza lavoro, senza casa. Un padre che, nonostante la distanza geografica che lo separava dai suoi due primi figli, me e mia sorella Flavia, riusciva a tornare giù a Palermo ogni fine settimana o quasi; un padre che garantiva economicamente per i suoi tre figli, ora non più in grado di poter garantire nemmeno sé stesso. Mia sorella è stata costretta ad abbandonare la sua passione, la danza; abbiamo perso la casa; le volte in cui io e mia sorella riuscivamo a spendere del tempo con nostro padre e nostro fratello più piccolo Gabriele si ridusse prepotentemente. La sensazione di essere vittima dello Stato – o meglio, di chi dice di rappresentarlo – è difficile da descrivere. Ci si sente traditi, perché ci si vede attaccati da chi dovrebbe difendere te, i tuoi diritti; ci si sente schiacciati, perché non è possibile difendersi dal sospetto. A lungo mi sono chiesto se la valanga che ci ha travolto fosse stata innescata da un errore giudiziario, uno di quelli che in una democrazia, seppur atrocemente, possono capitare perché l’uomo non è infallibile. La cattiva sorte che ci è capitata è la stessa di quella che ha colpito tanti imprenditori per bene le cui aziende sono state abbattute sotto i colpi di un sistema criminale para-legale che ha distrutto il tessuto economico siciliano. Persino tra i miei amici, ce ne sono alcuni che sono stati costretti a emigrare negli Usa per lavorare e vivere. Ma si può davvero spiegare un esproprio su così vasta scala col cattivo operato di qualche giudice che avrebbe creato un’associazione a delinquere per arricchirsi sulle spalle della gente? Le reali cause vanno ricercate più a monte, esattamente in una legge radicalmente incostituzionale che permette di distruggere la vita di intere famiglie sulla base di semplici sospetti. Mi è stato spiegato che nella maggioranza dei casi a subire le misure di prevenzione sono persone che non hanno commesso alcun reato. Anche se un cittadino riesce a smentire le accuse più infamanti subirà comunque la confisca. Devo ammettere che all’inizio non riuscivo a credere che nella “civilissima” Italia potessero esistere leggi tipiche dell’inquisizione ma alla fine la forza dei fatti mi ha costretto a ricredermi. Siamo di fronte alla negazione stessa dello Stato di Diritto! Il paradosso è che, all’ombra dell’antimafia, si è radicata una sorta di “dirigismo giudiziario dell’economia” che contende a ciò che resta della mafia vera il monopolio dell’oppressione del popolo siciliano. Una macchina infernale che garantisce vere e proprie posizioni di rendita a tutti coloro che gravitano attorno al mondo delle amministrazioni giudiziarie. Non occorre essere giuristi per capire che alla base delle diverse opinioni riguardo alle misure di prevenzione vi è una scelta di campo di tipo culturale. Da un lato c’è chi ritiene che una persona che non ha mai subito una condanna sia un innocente; dall’altro c’è chi l’accusa di essere un colpevole sfuggito alle maglie troppo larghe della giustizia penale. La seconda opzione, purtroppo, raccoglie molto consenso nella popolazione, in alcuni settori della Magistratura e sui media. È per questo che le misure di prevenzione sono considerate uno strumento “efficiente” e “indispensabile” nella lotta alla mafia: un congegno raffinato per rimediare ai processi penali troppo garantisti e agli errori dei giudici che non hanno condannato. Mio padre non è mai stato condannato per mafia, in compenso è stato punito e distrutto da una misura di prevenzione antimafia. Prevenire è stato peggio che reprimere. Oggi, dopo dodici lunghi anni, la mia famiglia è ancora sommersa nella palude delle conseguenze dell’infame attacco giudiziario che abbiamo subito. Nonostante i danni economici, esistenziali e sociali, non ci siamo arresi e stiamo cercando di ottenere giustizia. A fianco di Nessuno tocchi Caino ci battiamo affinché la lotta alla mafia non sia un pretesto per sopraffare gli inermi cittadini. Colpire degli innocenti, semplicemente, non è lotta alla mafia e una legge che lo consente non è una buona legge. Bisogna reagire a questa deriva autoritaria chiamata impropriamente “prevenzione antimafia” per difendere la dignità inviolabile dell’uomo, il diritto al lavoro e la libertà di impresa.

Lo Stato ci ha distrutto. “Sei siciliano allora sei mafioso”, storia della famiglia Virga: sempre assolti ma lasciati in mutande dalla Saguto. Gaetano Virga su Il Riformista il 14 Agosto 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la quarta di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Negli anni sessanta mio padre e i miei zii cominciano la loro attività d’impresa nel settore edile e delle infrastrutture. Il fatto che degli operai siciliani, dopo anni di lavoro alle dipendenze di altri, si mettessero in proprio, riuscendo ad affermarsi come una solida realtà imprenditoriale dando lavoro nel periodo di massimo sviluppo a 200 persone, aveva suscitato il sospetto dell’Autorità Giudiziaria. Tutto ciò evidentemente si poteva spiegare solo con l’appoggio della mafia. In Sicilia chi nasce operaio deve morire operaio. Non è prevista la possibilità di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche con il duro lavoro. I miei familiari, senza saperlo, portavano addosso un’altra colpa: quella di essere originari di Marineo, piccolo paese vicino a Corleone. Questo faceva di loro dei soggetti posti sotto l’egida dei potenti boss corleonesi. In Sicilia il luogo d’origine e il nome di famiglia possono segnare il tuo destino. Luoghi e nomi si traducono spesso in indizi gravi e concordanti per condanne preventive – come di fatto sono sequestri e confische dei patrimoni – anche per fatti di nessuna rilevanza penale. In un caso, visto che in Toscana si era registrata una partecipazione importante di imprese siciliane agli appalti pubblici, si ipotizzò un interessamento della mafia ai lavori in quella regione. Furono indagate più di duecento persone, tra cui i miei familiari, non per comprovati legami con la mafia, ma per essere semplicemente imprenditori siciliani. Tutto si risolse con un decreto di archiviazione. In un’altra occasione mio zio era stato accusato di favoreggiamento per non avere denunciato furti, danneggiamenti, richieste di pizzo nel periodo in cui opporsi alla mafia significava sottoscrivere la propria condanna a morte. La vicenda si concluse con una sentenza di assoluzione che riconobbe mio zio vittima e non complice della mafia. Le imprese della mia famiglia nel corso degli anni hanno subito furti, attentanti ed estorsioni. Lo stesso Brusca, parlando dei Virga, li definiva come degli imprenditori che non volevano accettare le condizioni della mafia, persone che non volevano pagare e che per questo subivano spesso danneggiamenti. Un giorno mio padre, dopo essersi per l’ennesima volta opposto a richieste di pizzo, fu vittima di un tentato omicidio che, solo per miracolo, non si concretizzò in una vera e propria tragedia. L’episodio fu subito denunciato alle forze dell’ordine, con le quali cominciò un percorso di collaborazione fatto di denunce che portarono all’arresto di pericolosi esponenti della criminalità organizzata. Un percorso che fu coronato anche dagli encomi pubblici dei dirigenti della D.I.A. Tutto questo però non è stato sufficiente per far sì che la mia famiglia venisse riconosciuta estranea alla logica mafiosa. Mio padre negli anni duemila fu destinatario di una prima proposta di applicazione delle misure di prevenzione. La proposta fu rigettata. Qualche anno dopo, la nostra famiglia fu oggetto di un’indagine per intestazione fittizia. Lo stesso dottor Di Matteo, titolare dell’accusa in quel procedimento, riconobbe che non c’erano i presupposti per andare a giudizio e neppure i sospetti per una misura di prevenzione. Il G.I.P., la dottoressa Saguto, archiviò tutto, accogliendo la richiesta dei Pubblici Ministeri. A questo punto, la vicenda ha dell’incredibile. Nel 2015, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta proprio dalla Saguto, su proposta della D.I.A., sequestrò tutto il nostro patrimonio, sulla base degli stessi identici indizi. I Virga furono considerati espressione degli interessi della mafia nel settore dei pubblici appalti. Il decreto era un acritico copia-incolla della proposta della D.I.A. Quest’ultima era a sua volta un collage di alcune dichiarazioni (assolutamente prive di riscontro) rese da vari pentiti nell’arco di oltre trent’anni nell’ambito di processi in cui i miei familiari non erano neppure parte. Sono state usate contro di noi persino le dichiarazioni di un pentito che affermava che i Virga erano vittime di mafia. In un processo di prevenzione non si applica il principio del ne bis in idem, per cui ciascuno di noi, sulla base degli stessi indizi, può essere proposto per una misura di prevenzione all’infinito. Si dice che il giudicato di prevenzione opera “rebus sic stantibus”, un modo elegante per dire che tutto è a discrezione dei Giudici i quali possono fare un po’ come gli pare. La certezza del diritto è solo una pia illusione, proprio come il diritto di difesa. Il nostro sequestro fu pubblicizzato dai media come uno dei più importanti in Italia. La D.I.A. lo rivendicò come uno dei più grandi successi dello Stato nella lotta ai patrimoni mafiosi. Non si sa come, ma al nostro patrimonio fu attribuito un valore di un miliardo e mezzo di euro. Eravamo ricchissimi e non sapevamo di esserlo! Qualche anno dopo, l’amministratore giudiziario avrebbe stimato un valore non superiore a 25 milioni di euro. Oggi il Giudice che ha disposto il sequestro e l’ufficiale della D.I.A. che lo aveva richiesto sono sotto processo a Caltanissetta per reati gravissimi e noi ci siamo costituiti parte civile. Dalle intercettazioni, scopriamo che i Giudici avevano applicato il sequestro senza avere letto le carte. Per giunta, l’ufficiale della D.I.A. aveva proposto alla Saguto di fare lavorare in maniera occulta all’interno delle nostre aziende il marito di quest’ultima. Le nostre aziende oggi versano in stato di abbandono. Il primo amministratore giudiziario è stato revocato per gravi inadempienze dai giudici che hanno preso il posto della Saguto. Erano stati piazzati nelle nostre aziende decine di coadiutori che hanno aggravato i conti in maniera significativa. Per fare il sequestro è bastato un attimo, per decidere il merito del processo non bastano anni. Ad oggi non si è ancora concluso il primo grado di giudizio. Siamo costretti ad assistere impotenti alla distruzione di quanto abbiamo creato con sacrifici nell’arco di due generazioni. Viviamo con grande difficoltà il presente. Guardiamo con estrema incertezza al futuro. Nonostante tutto, lottiamo per difendere la nostra dignità e i nostri diritti. E nel fare questo, ci sentiamo meno soli grazie a Nessuno tocchi Caino che rappresenta per noi una nave sicura in un mare in tempesta.

Comprò due appartamenti: sfrattato e immobili confiscati. Giorgio Mannino su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Dovrebbero essere il fiore all’occhiello di uno Stato presente sul territorio contro le mafie. In realtà la maggior parte dei beni confiscati alla criminalità organizzata sono miseramente abbandonati, occupati abusivamente o in alcuni paradossali casi, attraverso prestanome, ritornano nelle mani dei boss. Basta recarsi a Palermo, nel quartiere popolare Borgo Vecchio a pochi passi dal porto, in via Domenico Scinà 73-77, per scattare una fotografia aggiornatissima di un bene confiscato a Cosa Nostra la cui storia – tra le indolenze dell’amministrazione comunale e di alcuni magistrati – potrebbe essere degna di un soggetto pirandelliano. Anche perché l’immobile tolto ai boss non è solo un affare di Stato: in mezzo, infatti, c’è la famiglia di un professore in pensione che, per ragioni di sicurezza, preferisce rimanere anonimo. Ma andiamo con ordine. È il 2002. Il grande immobile risalente al Novecento viene confiscato alla mafia. Secondo i magistrati, dietro un prestanome, si nasconde Pietro Vernengo, pezzo da novanta del mandamento mafioso di Santa Maria di Gesù. Dal provvedimento di confisca rimane escluso il 3 per cento, l’equivalente di due mini appartamenti, che vengono acquistati, nel 2003, da privati. Ad occuparsi realmente del palazzo, chiavi in mano, sono l’imprenditore Giuseppe Migliore – deceduto l’anno scorso durante un’immersione subacquea – e la moglie, avvocato, Carmela Pecoraro. Nel dicembre 2011 scatta l’operazione “Pedro”, un blitz antimafia che colpisce la cosca di Porta Nuova-Borgo Vecchio. Durante il processo spunta anche il nome di Migliore: le cronache riportano una fotografia che lo immortala seduto allo stesso tavolo col gotha della cosca di Porta Nuova. Il boss Tommaso Di Giovanni lo presenta dicendo: «Migliore è persona mia. Ci propone di acquistare questo palazzo dallo Stato (in via Scinà, ndr) lui ha concordato il prezzo per 1 milione e 250 mila euro». Il blitz, però, fa saltare i piani a Di Giovanni e soci. Migliore viene condannato definitivamente per tentata intestazione fittizia di beni. La moglie rimane in carica come amministratore condominiale. Nel 2015 al Comune di Palermo vengono assegnati dall’Agenzia nazionale dei Beni confiscati diciotto appartamenti. Due tra questi appartengono alla famiglia del professore, che quando viene a conoscenza dell’assegnazione al Comune, resta sorpreso: «Avevo chiesto all’amministrazione – racconta – di permutare i miei due appartamenti, più volte svaligiati e occupati abusivamente, ma la richiesta non è stata accettata. Così ne rimango proprietario ma non posso più disporne, sono beni di difficile gestione». Da anni sta cercando, a suon di lettere, mail e telefonate, di trovare un accordo con l’amministrazione comunale per liberarsi degli appartamenti. Ma finora niente è cambiato. Anzi, la situazione all’interno di quell’immobile in degrado – che dovrebbe essere presidio di legalità – continua a essere incandescente. Lo scorso novembre il professore ha denunciato due occupazioni abusive e un’intimidazione subita: «Sono preoccupato per me e per la mia famiglia. Questa situazione va avanti da troppo tempo e pare non interessi a nessuno», dice. Ansia che cresce quando, poche settimane fa, l’inquilino di uno dei suoi appartamenti viene brutalmente aggredito da alcuni soggetti che volevano occupare abusivamente la casa. E lo Stato che fa? Il docente, ormai da anni, combatte la sua personalissima guerra contro un’antimafia di facciata. Ha più volte chiesto all’amministrazione comunale un confronto, ma le sue richieste non hanno ricevuto risposta. Inoltre ha presentato diversi esposti alla magistratura per denunciare quanto avviene nell’immobile di via Scinà. Ma lo scorso novembre il fascicolo è stato archiviato dal pm Francesca Mazzocco. Dopo l’opposizione alla richiesta d’archiviazione, le carte – già da mesi – sono sul tavolo del gip Fabio Pilato. Intanto nei giorni scorsi il curatore dell’Agenzia dei Beni Confiscati, Fabrizio Abbate, ha fatto sapere “di non poter esprimere alcuna delibera in quanto non è pervenuto alcun esito di deleghe”. Tradotto: l’agenzia non ha fatto sapere nulla ad Abbate. Che promette, nelle prossime settimane, di prendere contatti con l’Agenzia, col prefetto di Palermo e col Comune di Palermo. Per ripristinare la legalità in una vera e propria zona franca “che allo Stato non sembra interessare”, conclude amaro il professore.

Il clan Spada e quella concessionaria: una confisca “per errore”? Le Iene News il 16 giugno 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci raccontano la vicenda di un concessionario d’auto di Ostia, feudo del clan mafioso degli Spada, che per un presunto errore di trascrizione sarebbe stato ritenuto prestanome dei boss. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti incontrano Piergiorgio Capra, un imprenditore romano nel settore della vendita di auto, che da un anno e mezzo sta vivendo un vero e proprio incubo. “Il giorno del sequestro non vi nascondo che ho pianto tutto il giorno. La sera tornavo a casa e piangevo dalla disperazione”, racconta alla Iena l’imprenditore. Ma facciamo un passo indietro. Piergiorgio, 18 mesi fa, viene coinvolto in quella che sarà ricordata come “Operazione Apogeo”, un colpo eclatante al clan Spada di Ostia, con la Guardia di Finanza che ha eseguito sequestri di beni per un valore complessivo di 19 milioni di euro. Un’operazione che tocca anche Piergiorgio Capra, il suo socio Gianni de Turres e la loro concessionaria “Gamma Auto”. L’accusa per loro è quella di essere prestanome del clan, con cui però negano categoricamente di avere mai avuto a che fare. L’ipotesi inquietante è che si possa essere trattato di un banale ma tragico scambio di indirizzi. A scriverlo, per primo, è il quotidiano “La Repubblica”, il giornale dove scrive la coraggiosa Federica Angeli, nata e cresciuta a Ostia, dal 2013 sotto scorta per le sue testimonianze sulla mafia romana e su Carmine Spada, il capoclan conosciuto come “Romoletto”. Degli Spada vi abbiamo parlato più volte, dei loro crimini odiosi compiuti con l’aggravante mafiosa, come quello di chiedere il pizzo ai negozianti del posto, dietro forti pressioni e violenze. Vi abbiamo anche raccontato la spietata guerra per il controllo del territorio che portò alla gambizzazione fuori da un supermercato di Massimo Cardoni, appartenente a un clan rivale. E poi c’è il famoso episodio della testata al cronista tv Daniele Piervincenzi. Roberto Spada, dopo l’aggressione al giornalista Piervincenzi e al suo cameraman fu arrestato e nel settembre scorso sono arrivate le condanne per 24 imputati legati alla sua famiglia che è stata considerata a tutti gli effetti un’associazione a delinquere di stampo mafioso. Di un possibile errore giudiziario legato a quella concessionaria di Ostia ci parla proprio Federica Angeli, che il territorio di Ostia lo conosce bene, insieme a tutti i suoi protagonisti: “Sembra esserci stato un errore, e l’errore riguarda il sequestro e poi confisca di un’autoconcessionaria”. L’accusa, come dicevamo, è pesantissima e ce la racconta lo stesso imprenditore Piergiorgio Capra: ”Noi saremmo i due prestanome di Carmine Spada detto Romoletto. Tengo a precisare una cosa, che qui dentro non s’è mai vista la presenza di questi personaggi, tant’è vero che la squadra mobile per 7 anni ha fatto le indagini sugli Spada, li ha seguiti, ha messo le cimici, ha messo i telefoni sotto controllo, quindi sarebbe stato facile trovare un’intercettazione telefonica, se fossi stato un prestanome degli Spada”. Ma com’è possibile allora che il loro autosalone venga additato come concessionaria risalente al clan? Tutto ha inizio nel 2011 con il doppio omicidio di Francesco Antonini detto “Sorcanera” e di Giovanni Galleoni detto “Baficchio”, il cugino di Massimo, quello poi gambizzato nel 2016, anno in cui arriva la collaborazione del rumeno Dociu Paul. Spiega ancora Federica Angeli: “Quando lui indica le attività del clan Spada indica panetterie, bar, pizzerie, palestre e nella lista c’è anche un concessionario di auto che è un’attività diciamo un po’ tipica dei clan delle mafie. Il pentito non solo fornisce un numero civico che è il 147/151 di via dei Romagnoli, che è una strada diciamo che si trova nella parte di Ostia bene, "poco prima di un cavalcavia", e "poco dopo un albergo". Il problema è che 100 metri prima c’è un altro concessionario”. La “Gamma Auto”, appunto, mentre l’altra sarebbe la Rosa Car, che “non esiste più”, prosegue la cronista, “al suo posto da anni ormai, c’è il negozio di parrucchiere”. Nel 2012 il concessionario “Rosa car” va in liquidazione e viene sostituito appunto dal negozio di  parrucchiere dove andiamo a indagare. Antonino Monteleone chiede: “Da lei negli ultimi tre anni non è mai venuta la Guardia di finanza a dire: scusate...”. “Finanza sì, penso che era la finanza, so’ venuti quando hanno sequestrato, quattro anni fa, quando è successo tutto questo casino che era dopo che avevo aperto. Una mattina mi dissero: "Ma lei conosce questa gente?" Ho detto per fama purtroppo sì, dopo che l’ho comprato mi dissero che c’era un autosalone...’” Insomma anche le parrucchiere confermano che prima, al posto loro, c’era un autosalone pur avendo paura a farne il nome e riferiscono che fosse frequentato da persone conosciute per la loro fama. Una storia, questa dello scambio di indirizzo, che sarebbe a conoscenza anche di un altro autosalone di Ostia. Un autosalone che sul collega Capra dice: “Noi li abbiamo visti nascere, crescere, nessuna sensazione di movimenti strani”. Possibile che sia davvero avvenuto una scambio di indirizzi e quindi di attività? Il legale della concessionaria finita nel tritacarne giudiziario avanza un’ipotesi: “Tre anni dopo, arriva la Guardia di finanza, legge le dichiarazioni del pentito, non l’integrale cioè la trascrizione dell’interrogatorio ma il verbale riassuntivo scritto dal cancelliere al computer…”. E così, sostiene l’avvocato, “quello che era "prima del cavalcavia accanto l’albergo" diventa "nei pressi del cavalcavia prima del piazzale della posta", quindi si allarga la zona e ci rientra questa Gamma auto”. Secondo l’avvocato Rossi gli inquirenti subentrati nelle indagini, cioè la Guardia di finanza, potrebbero forse avere fatto confusione leggendo la sintesi delle dichiarazioni del pentito. A quanto pare invece la polizia leggendo l’integrale non aveva avuto alcun dubbio nell’affermare che la concessionaria riconducibile agli Spada fosse come dice l’informativa dello Sco “l’autosalone Rosa car ubicato in viale dei Romagnoli 147/151”. Insomma: potrebbe esserci stato un errore, ma se fosse vero perché il sequestro è diventato una confisca a tutti gli effetti? Spiega ancora Capra: “Il pentito dice un’altra cosa fondamentale, che l’autosalone è chiuso da tempo, mentre noi invece siamo ancora in attività. Quindi è chiaro che non possiamo essere noi”. L’avvocato Rossi aggiunge un elemento: “Non c’è una riga che dimostra che i soldi arrivino dagli Spada”. Nel frattempo è scattata la confisca definitiva del bene e ora agli ex proprietari della “Gamma auto” non rimane altro che presentare Appello. La cronista Federica Angeli aggiunge: “Permettimi di dire che per come conosco la serietà degli inquirenti, non appena andranno in appello in questa vicenda, secondo me qualcosa succederà”. Le Iene hanno chiesto un’intervista sia alla Guardia di Finanza che alla procura di Roma che però preferiscono non rilasciare dichiarazioni su questa vicenda. “Io la sera mi addormento con l’incubo di questa figlia di 24 anni che è la Gamma Auto che mi dice: papà, ti prego salvami perché sto morendo”, conclude disperato il titolare dell’autosalone. 

Scandalo dei beni sequestrati alla mafia: ex-giudice Silvana Saguto condannata a 8 anni e 6 mesi. Il Corriere del Giorno il 29 Ottobre 2020. Caduta l’accusa di associazione a delinquere. Pesanti condanne anche per il “cerchio magico” dei suoi amministratori giudiziari: 7 anni e 6 mesi all’avvocato Cappellano Seminara, 6 anni e 10 mesi al professore Provenzano, 3 anni per l’ex prefetto di Palermo Cannizzo. Assolto il giudice Chiaramonte. Confiscata l’abitazione della Saguto. “Saguto Silvana colpevole dei reati a lei ascritti”, ha letto ieri il presidente del Tribunale di Caltanissetta Andrea Catalano: 8 anni e 6 mesi di carcere per l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. L’accusa aveva chiesto 15 anni e 4 mesi, ma per alcuni capi d’imputazione l’ex giudice è stata assolta: è caduta l’associazione a delinquere e secondo la difesa anche un’ipotesi di corruzione per una mazzetta da 20 mila euro, la procura ritiene diversamente. Fra 90 giorni le motivazioni della sentenza faranno chiarezza. Il tribunale ha condannato anche il marito dell’ex giudice, : l’ingegnere Lorenzo Caramma a 6 anni 2 mesi e 10 giorni, che era stato ricoperto di incarichi da Cappellano Seminara. Condannato a un anno e 10 mesi Walter Virga, giovane figlio di un giudice (Tommaso Virga, assolto nel rito abbreviato), messo a guidare s l’impero sequestrato agli imprenditori Rappa, senza alcuna esperienza! Sono stati quindici gli imputati di questo processo che ha segnato l’antimafia, tutti “fedelissimi” di una corte che aveva sede nell’ufficio a piano terra di Silvana Saguto, nel nuovo palazzo di giustizia, dove i finanzieri dell’allora nucleo di polizia tributaria guidato dal colonnello Francesco Mazzotta su ordine della Procura di Caltanissetta piazzarono una cimice. Restano altre accuse di corruzione per Saguto e Cappellano. Seguono le condanne ai risarcimenti delle parti civili: l’ex giudice dovrà pagare 500 mila euro alla presidenza del Consiglio, 50 mila alla Regione e 30 mila al Comune. Confiscati “per equivalente” alcuni beni, fra cui la sua abitazione. Sette anni e 6 mesi all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ritenuto in Sicilia il “re” degli amministratori giudiziari. 6 anni e 10 mesi per l’ex professore della Kore Carmelo Provenzano. 3 anni per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Condanne pesanti per il “cerchio magico” che ruotava attorno a Silvana Saguto, la giudice più potente dell’antimafia fino a cinque anni fa. Contesa dai convegni antimafia, dall’università e persino dal Parlamento quando c’era da fare la legge sul sequestro dei beni. La Sagunto non è più un magistrato, a seguito della radiazione del Consiglio superiore della magistratura che l’ha radiata ancora prima della sentenza di condanna. E il suo “sistema” di gestione dei beni sequestrati è stato spazzato via. Con tutto il “cerchio” magico. “Un sistema perverso e tentacolare”, lo hanno definito nel corso della requisitoria i pubblici ministeri Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti . Il Tribunale ha assolto uno dei giudici a latere della Saguto, Lorenzo Chiaramonte , assistito dall’avvocato Fabio Lanfranca, che veniva accusato di aver dato un incarico a un amico, per lui era stata sollecitata una condanna a 2 anni e 6 mesi. “Il fatto non sussiste“, ha deciso il collegio.

Era a capo di un sistema clientelare. Scandalo dei beni confiscati alla mafia, per l’ex giudice Silvana Saguto condanna a 8 anni e mezzo. Redazione su Il Riformista il 28 Ottobre 2020. Otto anni e sei mesi di reclusione. È la condanna inflitta dal tribunale di Caltanissetta all’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto. Nel corso del processo la Saguto, accusata di aver gestito in modo clientelare, in cambio di favori e denaro, le nomine degli amministratori giudiziari dei patrimoni sequestrati e confiscati alla mafia, era stata già radiata dalla magistratura con una decisione del Csm. La Procura nissena aveva chiesto per l’ex presidente della sezione misure di prevenzione la condanna a 15 anni e 4 mesi di carcere. La Saguto inoltre dovrà risarcire la somma di mezzo milioni di euro la presidenza del Consiglio dei ministri. Per l’ex giudice è caduto il reato associazione per delinquere, così come alcuni capi di imputazione sulla ipotesi di corruzione: la Saguto era accusata di associazione per delinquere, corruzione e abuso d’ufficio. Il processo ha visto anche altre condanne: per l’ex amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara, facente parte del “cerchio magico” della Saguto, è arrivata una condanna a 7 anni e sei mesi; per il marito della Saguto, Lorenzo Caramma, sei anni e 2 mesi per aver ricevuto consulenze illegittime da Cappellano; per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo una condanna a 3 anni; sei anni e 10 mesi per il docente universitario Carmelo Provenzano; per l’amministratore giudiziario e avvocato Walter Virga un anno e 10 mesi; sei mesi a Emanuele Caramma, figlio di Saguto. Assolti invece il padre dell’ex giudice, Vittorio Pietro Saguto (accusato di riciclaggio), così come l’amministratore giudiziario Gabriele Aulo Gigante e Lorenzo Chiaramonte, per anni giudice a latere nel collegio della Saguto che rispondeva di abuso d’ufficio.

Smascherato il clan dell’antimafia, 8 anni a Saguto perché gestiva “sistema tentacolare”. Giorgio Mannino su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. È stata definita la “mafia dell’antimafia”. Ieri pomeriggio si è concluso – davanti alla corte del tribunale di Caltanissetta presieduta dal presidente Andrea Catalano, a latere Valentina Balbo e Salvatore Palmeri – il primo atto del terremoto giudiziario che ha sconvolto l’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo e il mondo dell’antimafia. Una rete di potere che a colpi di parentele, amicizie e incarichi offerti sempre agli stessi professionisti, gestiva «in un sistema perverso e tentacolare» i beni sequestrati ai mafiosi e agli imprenditori sospettati di essere stati favoriti dai boss. A tirare le fila di un meccanismo ben oleato c’era la presidente dell’ufficio Silvana Saguto, condannata ieri pomeriggio in primo grado – dopo diverse ore di camera di consiglio – a otto anni e sei mesi per avere gestito in modo clientelare, in cambio di denaro e favori, le nomine degli amministratori giudiziari dei patrimoni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. È venuto meno, invece, il reato di associazione a delinquere. Saguto, inoltre dovrà risarcire, per 500 mila euro, la presidenza del Consiglio dei ministri. Durante il processo, durato tre anni, era stata radiata dalla magistratura. La condanna è arrivata anche per il marito dell’ex magistrato, Lorenzo Caramma (sei anni e due mesi), e per il figlio Emanuele (sei mesi). Sette anni e sei mesi per il cosiddetto ‘re’ degli amministratori giudiziari Gaetano Cappellano Seminara. L’ex prefetta di Palermo, Francesca Cannizzo, è stata condannata a tre anni nell’ambito del processo per corruzione nei confronti dell’ex giudice. Le altre condanne hanno riguardato il docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano (sei anni e dieci mesi), Roberto Nicola Santangelo, amministratore giudiziario (sei anni e due mesi), Walter Virga, avvocato ed ex amministratore giudiziario (un anno e dieci mesi) del patrimonio milionario degli imprenditori Rappa, Roberto Di Maria, preside della facoltà di giurisprudenza di Enna (due anni e otto mesi), Maria Ingrao, moglie di Provenzano (quattro anni e due mesi), Calogera Manta, cognata di Provenzano (quattro anni e due mesi) e infine il colonnello della Dia Rosolino Nasca (quattro anni). Ha retto, dunque, l’impianto accusatorio – rappresentato dai pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti – della procura nissena ora diretta da Gabriele Paci dopo il pensionamento di Amedeo Bertone. Anche nelle richieste di assoluzione confermate dai giudici per Vittorio Pietro Saguto, padre dell’ex magistrato accusato di riciclaggio Aulo Gabriele Gigante, un altro amministratore giudiziario e Lorenzo Chiaramonte, ex giudice della sezione misure di prevenzione che rispondeva di abuso d’ufficio. Il caso Saguto è deflagrato cinque anni fa mettendo in ginocchio tantissimi imprenditori contro i quali il “cerchio magico” si è scagliato etichettandoli come mafiosi. Un escamotage per sequestrare i loro beni e le loro aziende per un ammontare di milioni di euro che venivano gestiti dai membri del sistema Saguto. Dopo la sua destituzione dall’incarico sono stati molti gli imprenditori che si sono visti riconsegnare i loro beni ormai svuotati di ogni cosa. Famiglie distrutte in nome di un’antimafia affaristica e di facciata. “Non c’è nulla da esultare per questa condanna”, fanno sapere Sergio d’Elia, segretario di ‘Nessuno tocchi Caino’ e Pietro Cavallotti, membro del Consiglio direttivo della associazione e vittima delle misure di prevenzione adottate dalla sezione di misure di prevenzione gestita dalla Saguto. «La condanna – aggiungono – non restituirà il patrimonio alle persone alle quali è stato ingiustamente confiscato. Né le persone che hanno ottenute le proprie aziende otterranno un giusto indennizzo. La condanna non allevierà le sofferenze di tutte le persone che la Saguto ha rovinato. Il suo dolore, la sua sofferenza non possono essere motivi di gioia e neppure di soddisfazione. Il processo Saguto sarà una grande occasione persa – proseguono – se lo Stato non metterà mano al sistema delle misure di prevenzione. Il problema delle misure di prevenzione non era e non è la Saguto ma il regime normativo inquisitorio delle stesse misure di prevenzione dettato da logiche emergenziali che elevano il sospetto a prova e sono contrarie ai principi del giusto processo. Se riforme in questo senso non vi saranno continueremo a perseguire le vie dei ricorsi alle Alte Giurisdizioni, dalla Corte Costituzionale italiana alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo».

La gestione dei beni sequestrati alla mafia, l’ex giudice Saguto condannata a 8 anni e mezzo. L’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo era accusata di avere gestito in modo clientelare, in cambio di denaro e favori, le nomine degli amministratori giudiziari dei patrimoni sequestrati e confiscati a Cosa nostra. Al marito Lorenzo Caramma 6 anni e 2 mesi, all'ex amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara 7 anni e 6 mesi. Manuela Modica su Il Fatto Quotidiano il 28 ottobre 2020. Condanna a 8 anni e sei mesi di carcere per la ex numero uno della confisca dei beni alla mafia. È la sentenza sulla ex presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Una condanna in primo grado pesante ma inferiore alle richieste per quello che era un vero e proprio simbolo dell’antimafia. A cinque anni di distanza dal primo avviso di garanzia, dopo tre anni di processo, è stata letta dal presidente del tribunale di Caltanissettta, Andrea Catalano, la sentenza che chiude il dibattimento sugli affari illeciti nella gestione dei beni confiscati alle cosche, definito dall’accusa come “un sistema perverso e tentacolare” di cui la giudice, radiata dalla magistratura nel 2019, era a capo. Si chiude oggi il primo capitolo nel processo che ha di fatto sconvolto il fronte antimafia. Per la ex presidente però cadono molti capi di imputazione, l’accusa aveva infatti chiesto 15 anni e 4 mesi per associazione a delinquere, corruzione e abuso d’ufficio. Il tribunale di Caltanissetta non ha confermato l’accusa di associazione a delinquere. Condotte singole, dunque, per la prima sentenza che porta alla condanna della sola presidente della sezione Misure di prevenzione, mentre i giudici a latere sono stati assolti: Lorenzo Chiaramonte, assolto oggi perché “il fatto non sussiste” e Fabio Licata assolto in abbreviato per abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio (quest’ultimo nel rito abbreviato è stato però condannato per avere apposto una firma falsa). Il tribunale di Caltanissetta ha di fatto accolto solo una parte dell’impianto accusatorio della procura. L’ex giudice era accusata assieme ad altri 14 tra magistrati, avvocati, pure un’ex prefetta. Tra gli imputati anche i parenti: il padre, il marito e il figlio. L’indagine prese inizio 5 anni fa, quando i finanzieri del nucleo di polizia tributaria su ordine della procura di Caltanissetta, misero una cimice negli uffici della giudice.

Del cosiddetto “cerchio” di Saguto, faceva parte secondo l’accusa soprattutto l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, principale suo collaboratore, amministrato giudiziario, condannato oggi a Caltanissetta. Cappellano Seminara era accusato di avere dato soldi alla giudice per risolvere i suoi problemi di debiti, per lui erano stati chiesti dai pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti 12 anni e tre mesi. Noto è ormai l’episodio del trolley trovato con 20 mila euro all’interno che l’amministratore giudiziario avrebbe portato alla giudice per sistemare i suoi debiti, in cambio della sua nomina che lui a sua volta ricambiava scegliendo il marito di Saguto nella gestione dei beni. Il tribunale di Caltanissetta ha però disposto la trasmissione degli atti alla procura per 9 testimoni, per falsa testimonianza, tra questi anche il nome di Giuseppe Caronia, il teste che ha riferito l’episodio del trolley. Particolare sottolineato dal legale della giudice, Ninni Reina: “Ho motivo di ritenere che anche questa accusa infamante sia caduta. Ovvero quell’episodio che se si fosse fatto un trailer del processo sarebbe stata l’immagine principale”.

Condanna di sei anni e 10 mesi per l’ex professore della Kore Carmelo Provenzano, per lui i pm avevano chiesto 11 anni e 8 mesi: nella ricostruzione fatta dall’accusa Provenzano sarebbe stato indicato da Saguto come designato a sostituire Cappellano Seminara nella gestione giudiziaria dei beni sequestrati, dopo le polemiche sorte per l’eccessivo ruolo dell’avvocato. Tre anni per l’ex prefetta di Palermo Francesca Cannizzo (la procura ne aveva chiesti 8). Condannato a 6 anni, 2 mesi e 10 giorni di reclusione il marito di Saguto, Lorenzo Caramma. Mentre il figlio Emanuele è stato condannato a 6 mesi, pena sospesa. Assolto, invece, il padre della ex presidente, Vittorio Saguto. Tra gli imputati anche Walter Virga, il figlio del giudice Tommaso Virga assolto con rito abbreviato, mentre il figlio messo a gestire i beni dei Rappa è stato condannato ad un anno e 10 mesi pena sospesa. Se anni 2 mesi e 10 giorni, per l’amministratore giudiziario Roberto Santangelo. Quattro anni per il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca. Per il professore Roberto Di Maria 2 anni, 8 mesi e 20 giorni. Maria Ingarao, la moglie di Provenzano (4 anni e 2 mesi); Calogera Manta, la cognata (4 anni e 2 mesi).

Lorenzo Chiaramonte, giudice a latere di Saguto, è stato, invece assolto perché il “fatto non sussiste”: “È stata restituita dignità e serenità a un magistrato serio, onesto che si trovavo soltanto nel posto sbagliato al momento sbagliato”, ha commentato il suo avvocato, Fabio Lanfranca. Assolto anche l’amministratore giudiziario Aulo Gigante. “C’è una sentenza, finalmente. Parla la sentenza”, così ha commentato il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci prima di lasciare il bunker dopo la lettura del dispositivo.

“È stata assolta per almeno 24 capi d’imputazione – sottolinea, invece, l’avvocato di Saguto -. Una condanna di quasi la metà rispetto alla richiesta fatta dall’accusa, una riduzione importante anche rispetto agli altri imputati che hanno avuto pure decurtate le condanne rispetto alle richieste dell’accusa ma non avevano lo steso numero di accuse: si consideri che alla sola Saguto venivano contestati ben 74 capi d’accusa. Di fronte a una condanna non si è mai soddisfatti, registro semplicemente il fatto ma già penso a domani, quando inizierò ad impostare la richiesta d’appello”. “L’ipotesi accusatoria ha retto solo in parte e vi sono state assoluzioni rispetto a diversi capi di imputazione. C’è stata l’assoluzione in relazione al reato associativo. Comunque leggeremo le motivazioni”, ha detto, invece, l’avvocato Sergio Monaco, legale dell’ex amministratore giudiziario Cappellano Seminara.

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2020. Aveva provato a sfoderare l' agendina delle raccomandazioni spiegando che pure politici con alte cariche istituzionali, magistrati e prefetti le chiedevano incarichi per mettere le mani sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Un modo per distribuire e annacquare le responsabilità, sperava. Giurando di non avere commesso reati. Ma i giudici di Caltanissetta dopo cinque anni di inchiesta e processo non hanno creduto alla loro ex collega, già radiata dal Csm, Silvana Saguto, la madrina di un odioso cerchio magico condannata ieri a 8 anni e 6 mesi di carcere e a mezzo milione di euro da risarcire alla presidenza del Consiglio dei ministri (con confisca della sua abitazione di Palermo). Per l' ormai ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo la Procura di Caltanissetta aveva chiesto 15 anni e 4 mesi. Con i pm Claudia Pasciuti e Maurizio Bonaccorso certi di avere scoperchiato una pentola maleodorante. Anche se con la pena ridotta alla metà reggono le accuse di corruzione, falso e abuso d' ufficio, ma cade quella di associazione a delinquere. E questo basta all' avvocato Giuseppe Reina per dire che «in primo grado il quadro indiziario si è fortemente ridimensionato». Il Tribunale presieduto da Andrea Catalano, a latere Valentina Balbo e Salvatore Palmeri, ha comunque sancito l' esistenza del cosiddetto «sistema Saguto». Una sorta di cricca gestita, come una spregiudicata manager, dalla magistrata per affidare incarichi e ricevere benefici. Per sé e per la sua famiglia, sostengono i giudici. È infatti robusto l' elenco delle condanne inflitte. A cominciare da quella a sei anni, due mesi e 10 giorni per il marito, l' ingegnere Lorenzo Caramma. Destinatario di una montagna di incarichi elargiti dall' avvocato pigliatutto, Gaetano Cappellano Seminara, pure lui condannato ieri a 7 anni e mezzo. A conferma dell' appellativo di «re» degli amministratori. Sospettato di avere anche sganciato due mazzette da 20 mila euro ciascuna alla giudice che lo nominava. Soldi mai rintracciati. E forse per questo se l' è cavata con una assoluzione il padre della principale imputata. Assolti anche un avvocato, Aulo Gigante, e il giudice Lorenzo Chiaramonte. Al contrario di altri protagonisti di questa sconvolgente caduta di presunti falsi eroi vicini alla Saguto. È il caso di una sua amica «eccellente» alla quale faceva arrivare la spesa da botteghe sequestrate, l' ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, condannata a 3 anni. Ovvero di chi ha tentato di difendersi fino alla fine con dichiarazioni spontanee, come il colonnello della Finanza Rosolino Nasca, all' epoca in servizio alla Dia, adesso condannato a 4 anni. Altri amministratori giudiziari ai quali sono stati inflitti 6 anni sono Roberto Nicola Santangelo e il professore Carmelo Provenzano dell' università di Enna dove avrebbe scritto la tesi di laurea al figlio della Saguto, Emanuele Caramma, l' unico che se l' è cavata con 6 mesi. Provenzano ha sempre negato, ma i giudici hanno condannato a 4 anni anche la moglie Maria Ingrao e la cognata Calogera Manta. Favoritismi sfociati infine nella condanna a due anni e otto mesi di un preside della stessa università che ha sempre rivendicato la sua estraneità, Roberto Di Maria. C' è chi si prepara all' appello. E chi esulta. A differenza di Nessuno tocchi Caino, l' associazione decisa a battersi per cambiare la norma che ha consentito alla cricca di sequestrare aziende usate per spolparle, poi restituite senza indennizzo a imprenditori frattanto annientati.

Caso Saguto, la stangata dei risarcimenti per istituzioni e imprenditori. Confiscata la casa dell'ex giudice.  Salvo Palazzolo il 29 ottobre 2020 su La Repubblica. Ecco quanto dovranno pagare l'ex giudice e il suo cerchio magico per lo scandalo dei beni sequestrati. "Danni patrimoniali e non patrimoniali" per i Rappa e altri titolari di aziende che avevano subito provvedimenti. Confiscati un immobile e quote societarie a Cappellano Seminara. Più delle condanne sono i risarcimenti alle parti civili a raccontare il buco creato da Silvana Saguto e dal suo “cerchio magico” nel sistema dei beni confiscati. Il tribunale ha deciso già delle confische per alcuni imputati, in modo da blindare una parte dei risarcimenti. A Silvana Saguto è stata confiscata la casa di via De Cosmi, dove abita con la famiglia: “per un valore di 328 mila euro”, dice la sentenza. A Cappellano è stato confiscato un immobile in via Roma, «per un valore di 100 mila euro», stesso provvedimento per 11 quote della “Legal gest consulting srl” con sede in via Mariano Stabile 43 (valore 256 mila euro). Il tribunale presieduto da Andrea Catalano ha disposto risarcimenti per 2,1 milioni di euro in favore della Presidenza del Consiglio. Per “danni non patrimoniali”. La cifra più alta deve pagarla Silvana Saguto, 500 mila euro, ma anche gli altri imputati condannati dovranno sborsare cifre consistenti. L’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, 400 mila; l’ex professore della Kore Carmelo Provenzano, 250 mila; il marito della Saguto, Lorenzo Caramma, e l’amministratore giudiziario Roberto Santangelo, 200 mila euro ciascuno; l’ex prefetto Francesca Cannizzo e il colonnello Rosolino Nasca, 150 mila euro ciascuno; la moglie di Provenzano, Maria Ingrao, e la cognata, Calogera Manta, 100 mila euro ciascuna; l’avvocato Walter Virga e il professore Roberto Di Maria, 50 mila euro ciascuno. Risarcimenti anche per la Regione Siciliana. Saguto (50 mila euro), Cappellano (40 mila), Provenzano (25 mila), Caramma e Santangelo (15 mila ciascuno), Cannizzo e Nasca (10 mila ciascuno), Manta e Ingrao (5 mila ciascuna), Virga e Di Maria (2.500 euro ciascuno). Risarcimenti per il Comune di Palermo. Saguto (30 mila euro), Cappellano (20 mila), Provenzano (15 mila), Caramma e Santangelo (10 mila ciascuno), Cannizzo e Nasca (7.500 euro ciascuno), Manta e Ingrao (2.500 euro ciascuna), Virga e Di Maria (1.500 euro ciascuno). Si era costituita parte civile pure l’università Kore di Enna, per la tesi di laurea del figlio di Silvana Saguto, scritta da Provenzano. L’ex giudice dovrà risarcire 30 mila euro; stessa cifra, l’ex professore; cinquemila euro, Emanuele Caramma. “Danni non patrimoniali” da risarcire agli imprenditori Filippo, Gabriele e Vincenzo Rappa, il provvedimento di sequestro che subirono (poi concluso con la restituzione dei beni) era partito con una firma falsa. Per la Saguto, firmò l’allora giudice a latere Fabio Licata, condannato col rito abbreviato a 2 anni e 4 mesi. Silvana Saguto dovrà pagare 25 mila euro a ciascuna delle tre parti civili, che al processo erano rappresentate dall’avvocato Raffaele Bonsignore. La stangata non è finita. Ci sono i “danni patrimonali da liquidarsi in separata sede”, dice il dispositivo della sentenza. Risarcimenti per ministero della Giustizia, Agenzia nazionale beni confiscati, amministrazioni giudiziarie Buttitta, Acanto, Ingrassia e Vetrano. Sono i buchi creati da gestioni spregiudicate dei beni. Altri risarcimenti riguardano altre società: per quelle del gruppo Rappa (sono sette, fra cui Telemed e Pubblimed), è prevista una provvisionale, ovvero un’anticipazione su risarcimenti da quantificare in sede civile, di 30 mila euro per ciascuna società. Stessa cifra per i titolari della Elgas srl, dell’impresa individuale Anna Rita Pedone, dell’impresa Raspanti, di Rebuc srl, di Motoroil srl. Gli imputati dovranno pagare anche le spese sostenute dalle parti civili per il processo. Circa 6800 euro per ogni ente o soggetto costituito.

L’ex giudice Saguto condannata a 8 anni e 6 mesi di carcere. Danilo Daquino su Telejato.it il 28 ottobre 2020.

LA SENTENZA DEI GIUDICI DI CALTANISSETTA DOPO UNA LUNGA CAMERA DI CONSIGLIO. Otto anni e sei mesi di carcere. È questa la condanna che il tribunale di Caltanissetta ha deciso di infliggere a Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, accusata di aver gestito in modo clientelare, in cambio di denaro e favori, le nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati. Il caso Saguto, venuto alla luce dopo l’inchiesta di Telejato “La mafia dell’antimafia”, è scoppiato cinque anni fa con le indagini della procura di Caltanissetta, sfociate poi in un processo che va avanti da tre anni. Dopo centinaia di udienze e altrettanti testimoni, oggi i giudici hanno raccolto le ultime repliche e dopo una lunga camera di consiglio hanno emesso la sentenza. Su Silvana Saguto, che il Csm aveva già radiato dalla magistratura, pendevano oltre 70 capi di imputazione. “Rivendichiamo con orgoglio – si legge in un editoriale di Salvo Vitale, collaboratore di Telejato – di avere scoperchiato questo pentolone al quale si abbuffavano senza ritegno giudici, avvocati, cancellieri, amministratori giudiziari, periti, collaboratori, parenti, amici vari, docenti universitari, commercialisti, prefetti, generali e militari vari, e un indistinto altro numero di persone sempre attente a dividersi briciole e piatti succulenti di imprenditori ai quali si faceva presto ad affibbiare l’etichetta di mafiosi per procedere al sequestro dei loro beni”. Non sempre, difatti, come Telejato ha ampiamente documentato, i patrimoni sequestrati appartenevano a mafiosi: in molti casi gli imprenditori colpiti dai provvedimenti delle misure di prevenzione erano incensurati e bastava anche solo il sospetto che fossero stati favoriti in qualche modo dalla mafia per far scattare i sigilli. Oltre alla signora Saguto, il tribunale ha condannato anche gli altri membri di quello che i giornalisti di Telejato hanno chiamato, sin dagli inizi, il “cerchio magico” dell’ex giudice, ovvero quel “sistema perverso e tentacolare” descritto nei minimi particolari dai pm Bonaccorso e Pasciuti nel corso della loro requisitoria. L’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il “re degli amministratori giudiziari”, è stato condannato a sette anni e sei mesi di carcere. Sei anni e dieci mesi per il docente dell’università Kore di Enna, Carmelo Provenzano; sei anni e due mesi per l’ingegner Lorenzo Caramma, marito della Saguto; sei anni e due mesi anche per Roberto Nicola Santangelo, amministratore giudiziario; un anno e dieci mesi per l’avvocato ed ex amministratore giudiziario Walter Virga; sei mesi per Emanuele Caramma, figlio della Saguto; due anni e otto mesi per Roberto Di Maria, preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna; quattro anni e due mesi per Maria Ingrao, moglie di Provenzano; quattro anni e due mesi per Calogera Manta, cognata di Provenzano; quattro anni per il colonnello della Dia Rosolino Nasca e ancora tre anni per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Mentre sono stati assolti il padre dell’ex giudice Vittorio Saguto, Aulo Gabriele Gigante e Lorenzo Chiaramonte. Per Silvana Saguto i pm avevano chiesto 15 anni e quattro mesi. “Giustizia è fatta”, scrive Pino Maniaci sulla sua pagina Facebook, ricordando come tutto sia partito dalle denunce di Telejato. Era il 2013 quando la piccola emittente televisiva, che ha sede a Partinico, cominciò a denunciare con testimonianze e documenti quanto accadeva dietro le quinte delle misure di prevenzione. “Abbiamo pagato lo scotto del nostro coraggio con denunce e condanne per diffamazione – si legge ancora nell’editoriale di Salvo Vitale – per non parlare del caso Maniaci, scientificamente montato ad arte, dai colleghi della Saguto, per chiudere la bocca al giornalista e ai suoi collaboratori e per infangarne l’immagine con una serie di illazioni e diffusione di notizie sulla cui attendibilità e sulla cui reità si aspetta ancora la sentenza che dovrebbe anch’essa arrivare entro l’anno”. Pubblicato su isiciliani.it

Caso Saguto: e venne il giorno del giudizio. Salvo Vitale su Telejato.it il 28 ottobre 2020.

OGGI LA SENTENZA PER SILVANA SAGUTO E IL SUO CERCHIO MAGICO. Il caso è scoppiato cinque anni fa. Ci sono voluti tre anni di processo, sono stati ascoltati quasi un centinaio di testimoni in un centinaio di udienze e alla fine oggi dovrebbe arrivare la sentenza nei confronti di Silvana Saguto e di tutta la sua cricca che nel passato decennio, e anche prima è stata la signora assoluta dell’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dando vita a quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito “un sistema perverso e tentacolare” e che da questa emittente, sin dall’inizio avevamo definito “il cerchio magico”, definizione poi ripresa da tutti i giornali e i media che si sono occupati dell’argomento. Rivendichiamo con orgoglio di avere scoperchiato questo pentolone al quale si abbuffavano senza ritegno giudici, avvocati, cancellieri, amministratori giudiziari, periti, collaboratori, parenti, amici vari, docenti universitari, commercialisti, prefetti, generali e militari vari, e un indistinto altro numero di persone sempre attente a dividersi briciole e piatti succulenti di imprenditori ai quali si faceva presto ad affibbiare l’etichetta di mafiosi per procedere al sequestro dei loro beni. Abbiamo nel tempo denunciato e individuato un centinaio di casi in gran parte assolti e prosciolti penalmente, ma ritenuti invece colpevoli senza processo dalle decisioni del collegio che decideva le misure di prevenzione. Dopo la destituzione della Saguto e la sua sostituzione, prima con il giudice Montalbano, poi con il giudice Raffaele Malizia, qualcosa è cambiato e sono stati molti gli imprenditori che si sono visti riconsegnare i loro beni, dei quali, purtroppo, non era rimasto più niente. La rovina di questi imprenditori ha segnato anche forti momenti di crisi nell’imprenditoria siciliana, già da sempre sotto il mirino delle indagini antimafia, oltre che sotto quello delle estorsioni mafiose. In parecchi casi le vittime del pizzo sono state ritenute complici e finanziatori dei loro estorsori, in altri casi la loro collaborazione è stata ritenuta un espediente per evitare il sequestro e sono state utilizzate tutte le informazioni di chi aveva deciso di collaborare, come elemento di accusa per procedere ugualmente ai sequestri nei confronti degli stessi collaboratori. Avevamo sin dall’inizio individuato come il punto debole di tutta la legge, “ispirata” dalla Rognoni-La Torre, ma con origini e casistiche più lontane e sovente diverse, ovvero la divaricazione tra il procedimento penale e quello preventivo, ritenendo che sulla base di sospetti e indizi non si può procedere a preventive condanne e che, per contro le condanne penali avrebbero essere il punto di  riferimento. Da  allora è partita una campagna per rivedere alcuni punti di una​ legge, dalla quale è stato possibile l’espandersi di un sistema perverso, come quello messo in atto dalla Saguto e dei suoi complici, sono stati fatti diversi convegni, ma la battaglia sembra essere ancora all’inizio, dal momento che si tratta di ridimensionare un’arma che, nelle mani dei giudici, può essere micidiale. Non è mancato il solito talebano imbecille che ci ha accusati di volere cancellare la legge Rognoni La Torre, o, addirittura di lavorare per agevolare la mafia: si tratta di giornalisti a senso unico, che non hanno vissuto il dramma delle persone vittime di questo sistema e si trincerano dietro una concezione superficiale e scorretta del fare antimafia. In attesa della sentenza Saguto è questo il segnale e il senso della nostra battaglia, ovvero gettare le basi di una giustizia antimafia equa e che adegui le norme in atto alla legislazione europea: non è il caso di ricordare che proprio la Corte Europea di Strasburgo ha condannato più volte l’Italia per una serie di norme che mettono in discussione il diritto costituzionale di ogni cittadino di essere ritenuto colpevole dopo una sentenza e di avere tutelato il diritto di proprietà. Ma torniamo al processo. Dopo la lunga requisitoria dei pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti, alla presenza dell’allora Procuratore Amedeo Bertone, ora in pensione, sono stati chiesti per  l’ex giudice 15 anni e 4 mesi di carcere, oltre che l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici, poiché la Saguto è stata ritenuta “la figura centrale di un vincolo associativo stabile” e avrebbe “sfruttato e mortificato il suo ruolo di magistrato” in “un quadro desolante” in cui “ci sono pubblici ufficiali e magistrati che hanno tradito la loro funzione per interessi privati”. Per contro l’avvocato della difesa Ninni Reina nella sua arringa difensiva, ha respinto ogni accusa parlando di un “processo anomalo, sia per quantità che per qualità”. La Procura ha chiesto anche la condanna a 9 anni e 10 mesi per Lorenzo Caramma, marito dell’ex magistrato Silvana Saguto, la condanna a 12 anni e sei mesi per l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ex re degli amministratori giudiziari, quella a 11 anni e 10 mesi per l’ex docente della Kore di Enna Carmelo Provenzano, e ancora, per Nicola Santangelo, amministratore giudiziario, 10 anni e 11 mesi di reclusione, per Walter Virga, figlio del magistrato Vincenzo, anche lui amministratore giudiziario, 2 anni, per Emanuele Caramma, figlio della Saguto, sei mesi, per Roberto Di Maria, 4 anni  e 4 mesi, per Maria Ingrao 5 anni, per Calogera Manta 4 anni e sei mesi, per Rosolino Nasca, colonnello della Dia, 8 anni, per l’ex Prefetto Francesca Cannizzo sei anni,  per Lorenzo Chiaramonte 2 anni e sei mesi; per Aulo Gabriele Gigante “assoluzione per  non aver commesso il fatto” e così dicasi per Vittorio Saguto, padre dell’ex magistrato.​ Il Pm Maurizio Bonaccorso aveva anche chiesto la trasmissione degli atti per il reato di falsa testimonianza nei confronti di 14 testi che hanno deposto tra i quali l’ex prefetto Stefano Scammacca, i magistrati Giuseppe Barone e Daniela Galazzi, l’amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo, gli avvocati Vera Sciarrino, Alessio Cordova e Dario Majuri. Gli altri testi per i quali il Pm ha chiesto la trasmissione degli atti sono i commercialisti Roberto Nicitra e Gianfranco Scimone, gli impiegati della Motor Oil Dario e Giuseppe Trapani, e tre collaboratori del professore universitario Giuseppe Provenzano, che è imputato: Laura Greca, Marta Alessandra e Alessandro  Bonanno. Il giudice Bonaccorso ha detto fra l’altro: “Non so come finirà, magari Nicola Santangelo e Carmelo Provenzano verranno assolti, ma per questa vicenda dovranno vergognarsi a vita”, ed ha aggiunto: “Questo processo è stato definito, con una espressione alquanto infelice, il ‘processo all’antimafia’. Niente di più sbagliato. Questo è un processo a carico di pubblici ufficiali, magistrati, amministratori giudiziari, avvocati, che hanno strumentalizzato il loro ruolo importante e hanno tradito la loro funzione per interessi privati….Hanno fatto un danno incalcolabile all’immagine dell’amministrazione della giustizia……Il problema è quello di ipotizzare che avendo fatto antimafia hanno una sorta di ‘licenza di uccidere’, una ‘licenza di  delinquere’ per quello che viene dopo. E il nostro processo riguarda proprio le condotte successive che si sono concretizzate in gravi reati perché non si può  consentire di mortificare l’azione di un magistrato e svolgere un’attività predatoria”. Durante questo lungo processo la Saguto si è difesa sbandierando la sua agenda, nella quale, a suo dire, erano scritti i nomi e le segnalazioni fatte dai suoi colleghi, per ottenere favori. Il giudice Bonaccorso ha commentato: “Avrei preferito che l’agenda oggi venisse depositata al ricordo ma così non è stato. Sarebbe stato più  elegante che agitarla…”. Tra le tante considerazioni della requisitoria del pm si nota come “L’ufficio della sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo è stato trasformato in un ufficio di collocamento e gli amministratori giudiziario hanno avuto un comportamento predatorio”. Nulla di nuovo rispetto a quanto, a partire dal 2013, da questa emittente abbiamo denunciato e ripetuto, quasi giornalmente, pagando anche lo scotto del nostro coraggio con denunce e condanne per diffamazione, per non parlare del “caso Maniaci“, scientificamente montato ad arte, dai colleghi della Saguto, per chiudere la bocca al giornalista e ai suoi collaboratori e per infangarne l’immagine con una serie di illazioni e diffusione di notizie sulla cui attendibilità e sulla cui reità si aspetta ancora la sentenza che dovrebbe anch’essa arrivare entro l’anno.

Da I Nuovi Vespri il 22 aprile 2016. In una intervista dell’anno scorso, il direttore di Telejato, spiegava il contesto che si era venuto a creare dopo le sue denunce sull’allegra gestione dei beni confiscati alla mafia. Ed era consapevole del fatto che con il suo lavoro aveva dato fastidio a molti, tanto che giravano voci di un suo arresto…Alla luce delle notizie di oggi sull’indagine per estorsione a carico di Pino Maniaci, – (qui vi diamo la notizia e i dettagli) – il direttore di Telejato, la piccola televisione che ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’allegra gestione dei beni confiscati alla mafia, ci sembra opportuno farvi rileggere una intervista che il collega ci ha rilasciato lo scorso Novembre (e che abbiamo pubblicato su lavocedinewyork.com) e che trovate qui sotto. Va da sé che è giusto attendere le evoluzioni investigative e va da sé che l’apertura di un fascicolo, dinnanzi ad una denuncia è un atto dovuto che, ovviamente, non è sinonimo di colpevolezza (è stato denunciato per stalking da Gaetano Cappellano Seminara, il re delle amministrazioni giudiziarie finito sotto inchiesta insieme con l’ex presidente della sezione Misure preventive del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, proprio grazie alle denunce di Telejato. Da qui le intercettazioni). Ma in attesa dei risvolti giudiziari- e in attesa che gli venga recapitato un avviso di garanzia- è giusto ricordare a tutti di chi stiamo parlando. In questa intervista, ripetiamo, siamo a Novembre dell’anno scorso, commentiamo con lui le voci – già ricorrenti in quel periodo- di una inchiesta a suo carico e, addirittura, di un suo arresto. Rileggiamola:

"Caso" Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci? Sicilitudine di Giulio Ambrosetti su lavocedinewyork.com il 13 Novembre 2015. A raccontarci quest’incredibile storia è lo stesso Pino Maniaci, direttore di TeleJato. La convocazione del procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi, presso l’Antimafia nazionale di Rosy Bindi. Le domande di Claudio Fava. L’incredibile storia dei Cavallotti e dell’Italgas. E adesso occhi puntati sulla Sezione Fallimentare del Tribunale di Palermo

Vista la rilevanza del tema e l’incredibile portata delle novità che sembrano profilarsi all’orizzonte, pubblichiamo questa intervista a Pino Maniaci, contemporaneamente qui e su nientedipersonale.com.

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

Gira voce che vogliono arrestarla…. 

Maniaci: “Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto "notizie" su di lei…

Maniaci:“La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

Maniaci:“Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non ‘entusiasmante’, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

Maniaci:“Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

Maniaci:“Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

Maniaci:“E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: ‘Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pi no Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

Maniaci:“Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per ‘raccontare vent’anni di antimafia’, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi – con riferimento anche al mio operato – sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

Maniaci:“Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

Maniaci:“Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

Maniaci:“Mi denunciano per stalking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

Maniaci:“Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

Maniaci:“Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

Maniaci:“Pagavano il "pizzo". Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

Maniaci:“No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

Maniaci:“Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

Maniaci:“Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

Maniaci:“Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono "artisti". Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

Maniaci:“Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

Maniaci:“Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato ‘promosso’: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

Maniaci:“Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent’anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

Maniaci:“Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

Silvana Saguto assolta anche in appello dall'accusa di abuso d'ufficio. Le Iene News il 24 giugno 2020. L’ex giudice è stata assolta anche in appello dall’accusa di abuso d’ufficio: per la procura di Caltanissetta aveva imposto l’amministratore giudiziario per un hotel. La sentenza del processo principale, quello in cui la Saguto è imputata insieme ad altri, è invece attesa a settembre. Di questo caso noi de Le Iene ci siamo occupati con Matteo Viviani. Silvana Saguto è stata assolta anche in appello dall’accusa di abuso d’ufficio: l’ex giudice era imputata davanti alla corte d’Appello di Caltanissetta. Era accusata di aver imposto nel 2012 l’amministratore giudiziario di un hotel nel Palermitano. Si trattava di uno stralcio del processo principale, che vede Silvana Saguto insieme ad altri imputata per la presunta mala gestione dei beni sequestrati alla mafia, quando l’ex giudice era presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. La sentenza nel troncone principale è attesa a settembre. In questo processo principale la procura ha chiesto per Silvana Saguto una condanna a 15 anni e 10 mesi, e anche l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. La procura ha definito “tentacolare e perverso” il presunto sistema che sarebbe gravitato intorno alla Saguto. Il pm ha detto: “Emerge un quadro desolante con pubblici ufficiali che hanno tradito la loro funzione. E tra loro ci sono magistrati, colonnelli, il tutto per il perseguimento di interessi privati”. La procura ha chiesto anche pesanti condanne per altri imputati, come potete leggere qui, mentre ha chiesto l’assoluzione per Vittorio Pietro Saguto - padre dell'ex magistrato - e per l'amministratore giudiziario Gabriele Aulo Gigante. Nel mirino della procura infatti non è finita solo Silvana Saguto, ma anche il presunto cerchio magico che sarebbe ruotato intorno a lei. Precisiamo comunque che si parla di richieste dell'accusa e non di condanne a carico degli imputati. Noi de Le Iene ci siamo occupati di questa storia nei servizi di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli. A dicembre la Iena era riuscito a parlare con la Saguto: “Quando il tribunale mi condannerà lei avrà modo di dispiacersi, se non mi dovesse condannare lei dovrebbe solo pensare a scusarsi”, ci aveva detto. Nell’ultimo servizio abbiamo tentato di ricostruire quelli che sembrano essere i “tentacoli” del cerchio magico che, secondo la procura nissena, sarebbe gravitato intorno alla ex giudice. “È crollato un intero sistema”, ci ha detto la giornalista dell'AdnKronos Elvira Terranova. “Questo famoso “cerchio magico” faceva parte di un sistema molto più grande, perché riguardava moltissimi magistrati e persone a loro legate”. Una rete fittissima che per anni, secondo la procura, si sarebbe scambiata favori traendo presunti vantaggi più o meno consistenti dagli incarichi assegnati nei sequestri di prevenzione che arrivavano dal tribunale guidato dalla Saguto. 

Lo scandalo dell'Antimafia: metà degli immobili sequestrati è abbandonato. Le Iene News il 21 gennaio 2020. Dopo lo scandalo mediatico che ha travolto Silvana Saguto nulla sembra essere cambiato. Solo un’azienda su dieci sopravvive al sequestro, e la trasparenza sulle amministrazioni giudiziarie è lontana. Noi de Le Iene stiamo seguendo da tempo i problemi che inceppano la macchina dell’Antimafia a Palermo. Un immobile su due sequestrato alla mafia è abbandonato, nove aziende su dieci falliscono e manca la trasparenza su come siano gestite le attività sottoposte ad amministrazione giudiziaria. È questo un triste spaccato sull’efficienza delle attività di contrasto alla mafia in Sicilia, riportato dal quotidiano La Repubblica. Parliamo di un patrimonio del valore di miliardi di euro, sottratto dallo Stato alle associazioni criminali e poi lasciato apparentemente al suo destino. Dopo lo scandalo che ha travolto l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto (attualmente sotto processo e, lo ricordiamo, innocente fino a prova contraria), la gestione dei beni sottratti alla mafia rimane sotto la lente d’ingrandimento. E così si scopre che attualmente, in Sicilia, i beni confiscati e sequestrati alla mafia supererebbero i 10 miliardi di euro di valore. Una vera e propria miniera d’oro per una Regione afflitta da molti problemi, ma che apparentemente lo Stato non è in grado di sfruttare. Solo un’azienda su dieci tra quelle sequestrate o confiscate rimarrebbe in attività ad anni dal provvedimento del Tribunale, e la gestione di queste attività continua a peccare di trasparenza da parte dello Stato: non esiste infatti un elenco pubblico delle aziende sotto sequestro con a fianco il nome di chi le sta amministrando. Gli immobili inoltre verrebbero spesso lasciati andare in malora, sia perché i bandi di assegnazione degli stessi vanno deserti, sia perché le amministrazioni pubbliche incaricate di gestirli non hanno i soldi necessari alla manutenzione. Noi de Le Iene ci siamo occupati più volte dello scandalo mediatico che ha colpito l’Antimafia e del presunto “cerchio magico” che sarebbe ruotato intorno all’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto. Nel servizio di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli, che potete vedere qui sopra, abbiamo ricostruito i passi che hanno portato una parte dell’Antimafia alla sbarra. Oltre a raccontare della vicenda di Silvana Saguto, abbiamo anche raccontato la storia della famiglia Cavallotti: due generazioni che denunciano di aver perso tutto a causa di decisioni sbagliate dell’Antimafia.

Criminalità, sequestrati e confiscati 65mila beni in 8 anni. E nessuno sa il valore. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Adele Grossi. Fra confisca e comunicazione all’Agenzia nazionale possono passare anche 15 anni: 17 mila immobili ancora da assegnare. Dal 1982 – cioè da quando è stata emanata la legge Rognoni-La Torre, che per la prima volta ha previsto il reato di associazione mafiosa e la necessità di aggredire i beni degli appartenenti alle cosche – al 31 ottobre 2018, i beni immobili tornati alla collettività sono stati 15.037. Di questi, e al netto degli immobili andati distrutti o demoliti o di cui è stata revocata la destinazione, 2.208 sono stati mantenuti al patrimonio dello Stato, 757 sono stati venduti, 12.056 sono stati trasferiti agli enti. Restano invece ancora in mano all’Agenzia 17.318 immobili, perché la confisca non è definitiva o perché non è riuscita ancora a dargli una destinazione. Per le aziende: dal 1982 ne sono state destinate 944, mentre 3.023 risultano ancora in gestione. Per agevolarne i meccanismi, dal 2016, i beni vengono proposti agli enti interessati, mediante delle conferenze dei servizi telematiche, su una piattaforma ad hoc: «Open ReGIO». Ad oggi sono state indette 28 conferenze dei servizi che hanno interessato in particolare Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Emilia Romagna, Lazio, Toscana, Lombardia, Veneto. Una volta assegnato, l’Ente deve attivarsi affinché il bene sottratto alla criminalità torni concretamente alla collettività. Succede spesso che l’immobile, disabitato da anni, richieda interventi di ristrutturazione, o i capannoni siano ormai fatiscenti, e che i Comuni di piccole dimensioni non abbiano le risorse per metterli a posto e riutilizzarli. In sostanza, sebbene la destinazione sia l’ultimo atto di un processo che toglie al mafioso per restituire ricchezza allo Stato e ai cittadini, talvolta finisce con il rappresentare un costo insostenibile. Cominciando dalle aziende, il destino di quelle restituite alla collettività, nel 93% dei casi, è la loro messa in liquidazione. Nel 2018 l’Agenzia ha fatto il punto sugli immobili destinati: 11.948 risultavano assegnati agli enti territoriali che, contattati per conoscere lo stato del bene, hanno risposto solo in 1.800. Risultato: 609, ossia il 34%, giacevano inutilizzati. «La percentuale è destinata ad aumentare», scriverà la stessa Agenzia nella sua relazione poiché, se per gli altri 10.148 beni non è stata nemmeno data una risposta, forse è perché non sarebbe stata positiva. In realtà, stando al Codice Antimafia , il destino dei beni dovrebbe essere facilmente monitorabile sia dall’Agenzia che dai cittadini poiché gli enti sono tenuti a pubblicare in un’apposita sezione dei propri siti istituzionali, aggiornata con cadenza mensile), tutte le informazioni sui beni acquisiti: consistenza, utilizzo e, in caso di assegnazione a terzi, i dati identificativi del concessionario e gli estremi, l’oggetto e la durata dell’atto di concessione. La mancata pubblicazione è addirittura sanzionata, eppure sono pochissimi gli enti che rispettano queste regole. A Palermo, l’Agenzia conta 1991 immobili destinati, ma sul sito istituzionale ne risultano 846, di cui 177 dichiarati inutilizzati e 83 occupati abusivamente. A Caltanissetta su 270 immobili destinati, sul sito del Comune se ne contano appena 39 e per 24 di questi non appare alcun dato sull’utilizzazione. A Monreale pare siano stati destinati 130 immobili, ma sul sito se ne riportano zero. Comune di Motta Sant’Anastasia (Catania) 230 immobili destinati, recensiti sul sito istituzionale zero. Comune di Lamezia Terme 212, recensiti sul sito 21, dichiarati inutilizzati 6. Ultimo aggiornamento tre anni fa. Comune di Rosarno: su 113 destinati, sul sito dell’ente se ne comunicano 51, di cui 33 inutilizzati. Il Comune di Bologna teoricamente ne gestisce 13, ma sul sito ne risultano 2, di cui uno non ancora assegnato. Per i 9 immobili destinati al Comune di Trieste, la pagina corrispondente all’elenco è in bianco. In Veneto, il Comune di Bussolengo (Verona), risulta destinatario di 26 immobili, ma nessuna informazione risulta sul sito. Ma l’Agenzia e il Ministero dell’Interno lo sanno? Quando il bene è stato assegnato all’ente pubblico, l’Agenzia ne dovrebbe monitorare il destino per due anni, e nel caso in cui il bene non venisse destinato all’uso per il quale era stato affidato, l’Agenzia dovrebbe riprenderselo. Di fatto, però, rarissimi sono i casi di revoca e il motivo è che anche la revoca ha un costo, e l’Agenzia ha già un mare di problemi nella gestione di tutta la ricchezza che maneggia a causa di croniche difficoltà nello stesso scambio di informazioni. Stando agli ultimi dati elaborati nel 2016 dalla Corte dei Conti, fra la confisca di un bene e la sola comunicazione all’Agenzia Nazionale trascorrono in media 470 giorni, fino a punte di 5.400 giorni, vale a dire 15 anni. A correggere il tiro, fin dal 2011, avrebbe dovuto provvedere un sistema informatico per la gestione dei dati. «Appare inspiegabile – scrive la Corte dei Conti nel 2016 – che, nonostante i notevoli finanziamenti erogati per la realizzazione dei sistemi e applicativi informatici, siano ancora limitate a meno del 10 per cento le comunicazioni per via telematica tra gli uffici giudiziari e l’Agenzia». Eppure la relazione parlamentare che accompagnava il provvedimento di istituzione dell’Agenzia era chiara: «Se non compressi drasticamente i tempi intercorrenti tra l’iniziale sequestro e la definitiva destinazione dei beni, si rischia di provocare una crisi irreversibile nel sistema di contrasto alle mafie, con patrimoni rilevanti destinati all’abbandono e riflessi negativi per la credibilità delle istituzioni». Del resto pure l’entità di questo «patrimonio rilevante» è abbastanza ignota. Quanto valgano in denaro tutti gli immobili in capo all’Agenzia nessuno lo sa. Il dato mancava nel 2016 e manca oggi. La spiegazione: gli amministratori giudiziari spesso non stimano il valore dei beni perché fra il sequestro, la confisca e la destinazione possono passare anche dieci anni, e pertanto la stima iniziale non corrisponderebbe più a quella finale. In pratica se ne lavano le mani. I dati nel 2016 erano stati richiesti dalla Corte dei Conti al Ministero dell’Interno che, solo per il periodo 2009-2015, aveva comunicato un valore di oltre 5.306.000 euro per un totale di 14.913 immobili confiscati.

Caso Saguto, l’accusa: «Processo a magistrati infedeli, non all’antimafia». Il Dubbio il 15 gennaio 2020. Nel corso delle dichiarazioni spontanee, Saguto ha mostrato ancora una volta l’agenda che contiene, a suo dire, i nomi degli amministratori giudiziari che sarebbero stati segnalati da colleghi magistrati. Si chiude due anni dopo la prima udienza il dibattimento del processo a Silvana Saguto, l’ex Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo accusata di corruzione assieme ad altre 14 persone. La requisitoria dei pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti proseguirà fino al 28 gennaio, quando saranno presentate richieste che saranno «molto pesanti», come ha affermato Bonaccorso, «adeguate alla gravità dei reati contestati». L’ufficio della sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ha detto il pm, «è stato trasformato in un ufficio di collocamento», con un comportamento «predatorio» da parte degli amministratori giudiziari, recando «un danno irreparabile e incalcolabile all’immagine dell’amministrazione della giustizia». Nel corso delle dichiarazioni spontanee, Saguto ha mostrato ancora una volta l’agenda che contiene, a suo dire, i nomi degli amministratori giudiziari che sarebbero stati segnalati da colleghi magistrati della ex giudice. «Questo processo è stato definito, con una espressione infelice, il processo all’antimafia – ha poi sottolineato il pm -. Niente di più sbagliato. Questo è un processo a carico di pubblici ufficiali, magistrati, amministratori giudiziari, avvocati, che hanno strumentalizzato il loro ruolo importante». Citando l’intercettazione di un «magistrato calabrese che dice “se rinasco voglio fare il mafioso”», il magistrato ha puntato il dito contro i colleghi: «dobbiamo dire grazie a questi magistrati se oggi la magistratura italiana non ha più la credibilità che aveva venti anni fa. Non si può consentire di mortificare la funzione di magistrato con attività predatorie», ha aggiunto il pm, «non credano alcuni indiziati di mafia che hanno avuto i beni confiscati di rifarsi una verginità con questo processo, non ci sarà alcuna riabilitazione per loro». E così Bonaccorso ha annunciato la trasmissione degli atti alla procura per una serie di magistrati, avvocati, amministratori giudiziari, coadiutori e alcuni di coloro «che hanno fatto da testimoni in questo processo», ipotizzando per loro «la falsa testimonianza».

Caso Saguto, il Csm punisce Chiaramonte. «Gravi e reiterati ritardi». Simona Musco il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio. Le decisioni della commissione disciplinare. A rischio trasferimento anche il magistrato della dna Sirignano, coinvolto nello scandalo toghe. Audizione a porte chiuse per il pg Lupacchini. Perdita di 3 mesi di anzianità. È questa la sanzione inflitta ieri dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura al giudice del tribunale di Marsala Lorenzo Chiaramonte, coinvolto nello scandalo che nel 2015 investì la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, all’epoca guidata da Silvana Saguto, poi radiata dall’ordine giudiziario. Chiaramonte è ritenuto parte del “cerchio magico” dell’ex presidente Saguto, a processo perché secondo la procura avrebbe gestito illecitamente, con la complicità di magistrati e professionisti, i beni sequestrati alla mafia. Chiaramonte – ex giudice del tribunale di Palermo delegato alle procedure di prevenzione – si è visto infliggere, dunque, una sanzione più severa rispetto alla censura che gli era stata comminata con una prima sentenza disciplinare, poi annullata con rinvio dalla Cassazione. La disciplinare, presieduta dal laico Filippo Donati, lo ha condannato per una delle incolpazioni, assolvendolo dalle altre accuse. Per lui il sostituto pg della Cassazione Mario Fresa aveva chiesto la perdita di anzianità di 6 mesi, in relazione a cinque illeciti disciplinari contestati. Il capo di incolpazione formulato a suo carico fa riferimento a «reiterati gravi e ingiustificati ritardi nel compimento di atti relativi all’esercizio delle funzioni» tali da pregiudicare «il diritto delle parti a ottenere la definizione in tempi ragionevoli del procedimento». Rischia, invece, un trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale il pm della Direzione nazionale antimafia Cesare Sirignano. All’esame della Prima Commissione del Csm, che ieri ha definito la pratica aperta nei suoi confronti, i contenuti di alcune conversazioni intrattenute con il pm di Roma, ora sospeso, Luca Palamara, relative alla nomina del nuovo capo della procura di Perugia. Conversazioni emerse dalle indagini della procura umbra che hanno portato alla bufera tra toghe. A favore del trasferimento di Sirignano si sono espressi il togato di A& I Sebastiano Ardita ( presidente della Commissione), il laico della Lega Emanuele Basile e il togato di Area, Giovanni Zaccaro, mentre ha votato contro la togata di Unicost Concetta Grillo. Astenuti Antonio D’Amato, togato di Magistratura Indipendente, e Filippo Donati, laico eletto in quota M5s. Le proposte verranno ora portate in plenum, che si esprimerà in via definitiva. E ieri davanti al Csm è comparso anche il procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, anche lui a rischio trasferimento per incompatibilità ambientale dopo le aspre critiche espresse nei confronti del capo della Dda del capoluogo calabrese, Nicola Gratteri, a seguito del blitz “Rinascita- Scott”, che ha portato ad oltre 300 misure cautelari e a un totale di 416 indagati. L’audizione si è svolta a porte chiuse, nonostante la richiesta avanzata dal legale di Lupacchini, Ivano Iai, di renderla pubblica per evitare «di notizie distorte». Una scelta motivata da esigenze di segretezza degli atti e per la delicatezza della vicenda. A chiedere la pratica a tutela del procuratore della Dda erano stati i consiglieri di Area e Magistratura Indipendente, preoccupati per l’intervista rilasciata da Lupacchini a TgCom, durante la quale il pg aveva ripreso i fili della polemica ingaggiata ormai da mesi con Gratteri, lamentando il «mancato rispetto delle regole di coordinamento con altri uffici giudiziari». «I nomi degli arrestati – aveva dichiarato – e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa». Per il Csm, Lupacchini avrebbe così delegittimato pubblicamente l’operato del procuratore Gratteri, tenendo tutta una serie di comportamenti che macchierebbero l’immagine del magistrato.

Il pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio 2016, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che si deve fare sempre così". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

“L’associazione Libera? Mafia dell’antimafia”. Catello Maresca, magistrato della Direzione Nazionale Antimafia, ha accusato, in un'intervista a Panorama, l'associazione Libera di Don Ciotti di gestire i beni sequestrati alla mafia in regime di monopolio. E ritornano alla mente le parole di Sciascia sul "professionismo antimafioso" mentre l'Italia imputridisce grazie alle organizzazioni criminali. L'Intellettuale Dissidente il 19 Gennaio 2016. E’ proprio vero ciò che scriveva Leonardo Sciascia: con la mafia si fa carriera. E non solo affiliandosi, ma soprattutto sventolando il vessillo dell’antimafia. Ad oggi, però, a denunciare il fenomeno del “professionismo antimafioso” ci pensa paradossalmente un giudice: Catello Maresca,  pm della Direzione Nazionale Antimafia, nonché magistrato che fece arrestare il boss dei Casalesi Michele Zagaria. Maresca, in un’intervista rilasciata a Panorama lo scorso 14 gennaio, ha attaccato con parole forti l’Associazione “Libera contro le Mafie” di Don Ciotti, definendola come l’organizzazione che attualmente in Italia detiene “il monopolio della gestione dei beni sequestrati alla mafia”.  Inoltre, sempre nella stessa intervista, il pm ha affermato che: “Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse”. Insomma, il pm non ha usato mezzi termini per esprimere il proprio parere su Libera e sull’associazionismo che dovrebbe combattere la mafia. E Don Ciotti non è stato a guardare, anzi ha minacciato di querelare lo stesso Maresca, affermando in un comunicato stampa che ad “oggi è in atto una semplificazione che mira a demolire con la menzogna il percorso fatto da Libera.” E nell’avvincente dibattito si è inserita anche Rosi Bindi, esprimendo la propria solidarietà nei confronti del sacerdote veneto che ha spesso e volentieri alternato la pratica religiosa e l’attivismo socio-politico. Infatti Don Ciotti è noto non solo per la fondazione di “Libera contro le Mafie”, ma anche per la istituzione nel 1995 della onlus: il “Gruppo Abele”, impegnata in numerose attività sociali.  Un sacerdote sui generis, dunque, che non ha mai disdegnato spogliarsi della tunica per indossare la toga del tribuno. Inoltre, c’è da dire che le associazioni fondate da Don Ciotti di certo non muoiono di fame. L’attivo di Libera, solo nel 2014, ( si legge nel bilancio pubblicato sul sito web) è di 2.426.322 euro. Ancora meglio è andato il “Gruppo Abele” che sempre nel 2014  ha potuto vantare profitti per  6.291.776 euro. Quindi Libera, ad oggi resta, al netto degli “attacchi per demolirla”, un’associazione ricca, potente, che coordina circa 1600 realtà (tra cooperative, enti, gruppi) che a loro volta gestiscono direttamente decine di migliaia di beni sequestrati alla mafia. In che modo? Sicuramente le parole di Maresca non saranno del tutto infondate.

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica. Antonio Amorosi Domenica, 15 luglio 2012 su Affari italiani. Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza?

«Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”».

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine…No.

«E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico.  A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana.  Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che da a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”».

Non sono solo casi isolati!? Libera è un associazione grandissima per dimensioni…

«Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!»

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta.

E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia?

«Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce».

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia.

«A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va».

Ai nostri microfoni anche  Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo.

«Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti».

La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica  quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E ”Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

Volano gli stracci nell'antimafia. L’Inkiesta il 29 gennaio 2016. La gestione dei beni confiscati alle mafie mette tutti contro tutti nel mondo dell'antimafia. Libera nel mirino per i rapporti con le cooperative dai fatturati milionari. Volano gli stracci nella grande casa dell’italica antimafia. Prima o poi doveva succedere, questione di tempo e di rodaggio di meccanismi e trust più o meno economici del settore. Perché oggi l’antimafia è anche un settore economico. La guerra è stata fino a oggi a bassa intensità: la “supercosa” dell’antimafia rappresentata da Libera di tanto in tanto veniva attaccata da associazioni più piccole sparse sui territori e che quei territori probabilmente meglio conoscevano. Poi sono scesi in campo negli ultimi mesi anche nomi di peso, come il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, e uno dei magistrati di punta della direzione distrettuale Antimafia di Napoli Catello Maresca. Così l’intensità dello scontro si è alzata, a tal punto che la commissione parlamentare antimafia ha deciso di dedicare un ciclo di audizioni per ascoltare i diretti interessati. Il fronte antimafia non è mai stato un capolavoro di compattezza, e per molto tempo non si è voluto guardare al tema, che lentamente ha risalito la china ed è esploso definitivamente il giorno in cui Franco La Torre, figlio di Pio, viene «cacciato con un sms» da don Ciotti, fondatore dell’associazione antimafia. Il casus belli sarebbe stato l’intervento di La Torre all’assemblea di Libera nel novembre 2015. In quella sede il figlio dell’ex parlamentare del Pci Pio La Torre, ucciso dalla mafia nel 1982, aveva toccato questioni sull’assenza dell’associazione su temi come Mafia Capitale e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, e del magistrato Silvana Saguto che a Palermo guidava la sezione per la gestione dei beni confiscati. La Torre spiegava all’Huffington Post: «Poiché non sono ancora riuscito a parlare direttamente con don Luigi – racconta La Torre – posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all’assemblea di Libera. Ma ho 60 anni e pretendo un minimo di educazione. Se don Luigi non la pensa come me, allora dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Da lì in poi è stata tutta salita. Poche settimane fa il pm di Napoli Catello Maresca in una intervista rilasciata a Panorama ha parlato di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non l’ha presa bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti. È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finite a cooperative affiliate alla stessa Libera. Posso supporre che la ragione del mio brusco allontanamento sia dovuta proprio alle mie parole all’assemblea di Libera. Don Ciotti e i suoi si sono poi difesi anche davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia nell’audizione dello scorso 13 gennaio: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, di un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a una inchiesta proprio della dda partenopea. Sempre davanti all’antimafia lo stesso don Ciotti ammette: «il tentativo di infiltrazione c’è, dalla Calabria alla Puglia, dalla Sicilia al Lazio. Che sia ben chiaro: è trasversale in tutte queste nostre realtà. Questi tentativi, questi ammiccamenti a volte, ci sono stati e noi abbiamo chiesto conto all’associazione». Eppure i tentativi di segnalazione spesso si sono tradotti in reprimende e allontanamenti come successo nel caso di Franco La Torre o di Enzo Guidotto in Veneto. E lo stesso Maresca ha sottolineato la non linearità di queste cooperative e che questa gestione «ha tradito lo spirito dell'antimafia iniziale».

Tuttavia, sempre su Panorama è stato Raffaele Cantone a condividere le preoccupazioni di Maresca spostandosi poi sul tema delle carriere politiche costruite prima dentro Libera e poi in parlamento o nelle istituzioni locali: «è cresciuta tantissimo - ha detto Cantone - ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventata anche un brand di cui, a volte, qualche speculatore potrebbe volersi appropriare». Un fatto che non coinvolge in questo senso solo Libera, ma anche una serie di altre associazioni antimafia che negli anni hanno preparato il terreno a politici locali e nazionali. Negli anni non è stata solo questione di “monopolio materiale”, che la commissione parlamentare antimafia sicuramente avrà l’ardire di stabilire se sia più o meno reale, ma anche “morale”. Noto nell’ambiente è il caso di Libera e della Casa della Legalità di Genova, fondata da Christian Abbondanza. Abbondanza da anni presidia un territorio ad alta permeabilità mafiosa come la Liguria, e spesso in solitudine, facendosi carico anche delle denunce dei cittadini, si è trovato a denunciare (con atti e fatti nelle procure) la ‘ndrangheta, e non solo, nei settori economici liguri. Più volte il fondatore e presidente della Casa della Legalità ha evidenziato come sul palco e alle manifestazioni con Libera si fossero trovati sindaci di comuni poi sciolti per mafia (Bordighera e Ventimiglia) e politici con vicinanze e strabismi di vario genere. Risultato? Una querela e il bollo di “cattivi”.

«Uno Stato può, anzi deve, riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un'idea di impotenza» Insomma, se la mafia si organizza e riorganizza, nell’antimafia volano invece gli stracci. Se le frizioni sono all'ordine del giorno nell'antimafia delle toghe, figurarsi in quella “civile” di associazioni e tanti galoppini della politica. La prossima partita? La legge sulla vendita dei beni confiscati alla criminalità organizzata: anche qui le visioni si dividono. E se c’è chi parla di «vendere, vendere, vendere», dall’altra parte c’è ancora Libera, che a questa ipotesi si è sempre opposta, perché così «il bene torna ai mafiosi». lo stesso Maresca ha risposto anche a questa sollecitazione: «uno Stato può, anzi deve, riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni - ha concluso il magistrato - non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un'idea di impotenza».

Libera, da gestione beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio". Nando Dalla Chiesa: "Non è vero". Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su Il Fatto Quotidiano. L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia. Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica. Gli uomini d’oro – Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss. Una holding da 5 milioni – In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca. “Non so a che titolo Maresca abbia detto queste cose: holding dell’antimafia? Non esiste. Da anni si dice che l’antimafia si spacca ma invece il movimento antimafia scoppia di salute. Anche il dato che Libera occupi militarmente uno spazio in monopolio non corrisponde al vero”, dice Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera. “Si fa un gran parlare di finanziamenti che in certi casi sono davvero ridicoli, si parla di grandi numeri ma quanti dipendenti fissi ha davvero Libera?- continua il sociologo –  La verità è che mentre il movimento antimafia continua  a crescere nelle scuole è scoppiata questa ‘moda’ di sparare sul mondo dell’antimafia, su Libera negli ultimi tempi, un copione già ampiamente visto negli anni ’80, purtroppo”. L’Antimafia indaga sull’antimafia – “Libera per la gestione dei beni confiscati non riceve contributi pubblici. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”, ha invece spiegato lo stesso Don Ciotti alla commissione Antimafia. Il nodo fondamentale, manco a dirlo, è rappresentato dai beni confiscati a Cosa nostra, quel tesoro da trenta miliardi che Libera, in effetti, non gestisce direttamente (se non in qualche caso): è un fatto, però, che una grossa fetta della ricchezza sottratta ai boss mafiosi è assegnata a cooperative e associazioni che fanno tutte parte della galassia di don Ciotti. E sono le stesse associazioni e coop che quindi vincono i bandi, presentano progetti e ricevono finanziamenti per gestire quei beni. L’ultimo esempio? Il Pon Sicurezza da 1,4 milioni di euro per migliorare la gestione dei beni vinto dal Consorzio Sviluppo e legalità, che raggruppa alcune cooperative antimafia della provincia di Palermo. È a questo che riferiva Maresca nel suo j’accuse? E non sarebbe stato a questo punto il caso di sentire anche il pm a Palazzo San Macuto? Da dicembre, infatti, i parlamentari dell’Antimafia sono impegnati in un’indagine quasi paradossale: approfondire limiti e contraddizioni del vasto insieme che negli ultimi anni si è auto posizionato in prima fila nella lotta per la legalità. Come dire che se il 2015 passerà alla storia come l’annus horribilis dell’antimafia il 2016 potrebbe essere invece l’anno zero di quello stesso mondo che negli ultimi dodici mesi è finito divorato da indagini, veleni e polemiche al vetriolo.

·         La Mafia delle interdittive prefettizie.

Giuseppe Legato per “la Stampa” il 23 ottobre 2020. È l' 8 settembre 2015. A Torino, a casa dell' ex senatore del Pd Stefano Esposito, già membro della commissione parlamentare antimafia durante il governo Renzi, c' è anche Raffaele Cantone, all' epoca capo dell' Anac (Autorità nazionale anticorruzione) e l' allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Poco dopo dovranno recarsi a un incontro pubblico organizzato dal Pd in piazza d' Armi in occasione della feste dell' Unità in cui sono entrambi relatori. Titolo: «Liberarsi dalla corruzione per cambiare il paese». Per corruzione verrà però indagato Esposito anche per aver organizzato quell' incontro che nel teorema dell' inchiesta della procura di Torino che ha travolto il re dei concerti dei big internazionali Giulio Muttoni, ex patron della società SetupLive, serviva a smontare un' interdittiva antimafia emessa contro quella ditta da poco più di un mese. Perché Setup ha subìto un' estorsione dalle 'ndrine (biglietti gratis poi rivenduti per mantenere i carcerati) cui non seguì denuncia e annovera nel parco dipendenti un pluripregiudicato in contatto coi boss. Esposito - si legge negli atti dell' inchiesta che vede indagato anche il candidato alle primarie del Pd per le comunali di Torino Enzo Lavolta - si attiva presso i vertici Anac procurando un incontro tra l' avvocato Alberto Mittone (legale di Muttoni) e Raffaele Cantone (estranei alle contestazioni penali) - «per acquisire informazioni volte a individuare strategie e consigli utili a ottenere il provvedimento di revoca dell' interdittiva». Quella sera è l' occasione giusta. Esposito è indemoniato su questo argomento («Stefano non si da pace») perché conosce Muttoni da tempo, ne è amico fraterno e - secondo la procura - ha usufruito di prestiti per circa 200 mila euro in gran parte restituiti a interessi irrisori. È convinto «che dietro l' interdittiva ci sia una manovra». Dice: «Lì, c' è lo zampino di qualcuno». E mette a disposizione una serie incredibile di rapporti di alto profilo professionale e istituzionale «perchè questa è una pazzia». Che Cantone quella sera avrebbe incontrato il legale di Muttoni, lo dice lo stesso imprenditore al socio Roberto De Luca, patron di Livenation: «Stasera Alberto si incontra con quella persona che tu sai». Terminato il rinfresco il legale e Muttoni vengono intercettati: «Aveva letto tutto (Cantone ndr), sapeva tutto». Nel merito poi: «Le indicazioni che ho ricevuto sono quelle di chiedere la revoca dell' interdittiva prima della sospensiva e bisogna farlo prima del 17 (settembre) perché chi ha emesso il provvedimento gli ha detto che è il 17 (la discussione del caso Setup) offrendo come merce di scambio la rinuncia alla sospensiva e mettendo a punto il cambiamento della governance (della società facendo fuori il socio di minoranza che ha subìto l' estorsione dai boss ndr)». L' avvocato e Cantone avrebbero parlato del merito della questione: «Lui - spiega Mittone al telefono - dice che è borderline, che solo nella smania di fare interdittive è rientrata nel sacco ma che nella normalità non sarebbe entrata». Il giorno successivo Esposito, convinto dell' ingiustizia subìta dall' amico, chiama Muttoni e ,«facendo riferimento all' incontro con Cantone del giorno precedente», dice: «Abbiamo messo in campo tutto quello che era possibile mettere». Segue replica: «Ah beh, di più non si poteva fare». Due settimane dopo è il generale della Guardia di Finanza Giuseppe Gerli (non indagato) ad aggiornare Muttoni di un ulteriore incontro con Cantone: «Lui aveva ben presente la situazione, dice che il provvedimento della Prefettura era formalmente fatto bene, c' era questa cosa dell' applicazione un po' formale della legge». Cantone non è indagato, è stato sentito in procura dal pm titolare dell' inchiesta Gianfranco Colace il 25 ottobre 2017. Al magistrato ha spiegato: «Premetto che in caso di interdittiva antimafia non c' è un potere di proposta di commissariamento da parte di Anac che viene solo sentita». Detto ciò «questa vicenda mi fu segnalata dal senatore Esposito che avevo conosciuto come persona rigorosa anche quando era assessore a Roma, e - ancorché non mi occupassi delle singole interdittive - posi particolare attenzione a questa vicenda perché mi fu detto che riguardava un soggetto che Esposito riteneva vittima della 'ndrangheta. Lessi gli atti e giunsi alla conclusione che a mio parere l' interdittiva era assolutamente legittima e solida». E alla domanda se conoscesse l' avvocato Mittone ha risposto: «Non lo conosco, mai sentito nominare, non ritengo di averlo mai incontrato». L' interdittiva a carico di Setup è stata confermata in tutti i gradi di appello della giustizia amministrativa.

Un'altra interdittiva antimafia da horror. “Sei innocente ma tuo fratello no”, l’antimafia distrugge azienda sana. Giorgio Mannino su Il Riformista il 4 Ottobre 2020. «Meno male che in Sicilia molto spesso abbiamo giudici amministrativi coraggiosi e imparziali in grado di fare giustizia. Perché purtroppo, in gran parte del Paese, i tribunali amministrativi non sempre maturano queste posizioni di fermezza. Piuttosto tendono a dare ragione al ministero dell’Interno penalizzando così onesti cittadini». Il commento, senza troppi fronzoli, lo fa l’avvocato Girolamo Rubino, esperto di cause legali in cui le interdittive antimafia, talvolta, colpiscono le aziende di imprenditori onesti. Che con le consorterie mafiose non hanno nulla a che vedere. Solo un esempio, forse il più emblematico: «Una volta mi sono occupato della vicenda di un avvocato – racconta Rubino – nominato curatore fallimentare di una società di Porto Empedocle al quale la prefettura di Agrigento contestò di avere rapporti con le famiglie mafiose della città. Ma l’avvocato era stato nominato dall’autorità giudiziaria, aveva dunque rapporti professionali. Una storia paradossale». L’ultimo caso, in ordine temporale – per il quale, secondo quanto stabilito dai giudici del Tar, non è possibile divulgare i nomi dei soggetti coinvolti – ha riguardato un’impresa di Favara, in provincia di Agrigento, che si occupa di estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti. La prefettura della città dei Templi, nell’aprile del 2019, aveva negato l’iscrizione dell’impresa nella cosiddetta “white list” emettendo un’interdittiva antimafia, in quanto il genitore e il fratello dell’amministratore unico dell’azienda, nella quale non ricoprono alcun incarico, sono stati condannati in primo grado dal tribunale di Caltanissetta per concorso in turbata libertà degli incanti. E cioè per uno dei reati spia valutati dal legislatore come indicativi del rischio di condizionamento mafioso. Anche l’imprenditrice è stata indagata per lo stesso reato ma la sua posizione, nel marzo 2017, è stata archiviata. Eppure due anni dopo l’archiviazione la prefettura d’Agrigento emette l’interdittiva antimafia. La società deve sospendere i lavori che stava portando avanti a Enna ed è esclusa dalla gara dei lavori di manutenzione ordinaria, viabilità interne esterna e rurale indetta dal Comune di Alcamo. Ma perché un’impresa con a capo un soggetto incensurato e senza alcun rapporto con la mafia subisce le difficoltà e l’onta che comportano un’interdittiva antimafia? Per la prefettura agrigentina il rapporto di parentela con i due soggetti condannati, tra l’altro non per fatti di mafia, motiva il provvedimento interdittivo. Inevitabile il ricorso contro il ministero dell’Interno, il Libero consorzio comunale di Enna e il Comune di Alcamo da parte dell’azienda, assistita dai legali Girolamo Rubino e Lucia Alfieri, alla quale la prima sezione del Tar per la Sicilia – presidente Calogero Ferlisi, consigliere Roberto Valenti, consigliere estensore Sebastiano Zafarana – ha dato ragione. «Il ricorso – scrivono i giudici – è fondato. Il provvedimento interdittivo impugnato – spiegano – non reca alcuna motivazione idonea a far ritenere che la turbata libertà degli incanti sia effettivamente un indice spia dell’affiliazione o della contiguità a consorterie mafiose, essendosi la prefettura limitata a recepire acriticamente la comunicazione dell’intervenuta condanna resa a carico dei parenti della ricorrente che non ricoprono alcuna carica all’interno della società, ed omettendo del tutto di farsi carico di verificare se fosse emersa realmente una contiguità dell’impresa ricorrente con ambienti malavitosi».

«In sostanza – conclude il Tar – gli elementi presi in considerazione dalla prefettura sono unicamente costituiti dalla sentenza penale di condanna resa nei confronti dei parenti dei soci della società ricorrente, e sul mero rapporto parentale, senza che venga però indicato alcun elemento concreto che possa far presumere che ci sia quantomeno un potenziale pericolo di un’infiltrazione da parte della criminalità organizzata». La prefettura agrigentina con questo provvedimento, annullato dal Tar, sembra aver dimenticato che la responsabilità penale è personale, «non si possono piangere le conseguenze delle azioni di un congiunto», specifica Rubino. «La mia assistita – dice – ha vissuto con ansia questa vicenda. Il fatto che la giustizia sia arrivata tempestivamente ci fa molto piacere e soprattutto ci dà grande fiducia nelle istituzioni». Almeno stavolta.

Scagionato dalle accuse di mafia, ma per il Tar ha parentele rischiose. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 6 agosto 2020. L’odissea del titolare di una farmacia di Milano, fatto fuori dal sistema pubblico con un’interdittiva per “calabresità”. L’interdittiva antimafia continua a far discutere. È ciò anche se tale provvedimento amministrativo, come noto emesso dal prefetto in assenza di un giudicato penale ma solo sulla base del “sospetto”, sia stato recentemente dichiarato esente da profili di illegittimità costituzionale. Con la sentenza 57 dello scorso 26 marzo, la Consulta ha infatti stabilito che l’interdittiva antimafia “non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio, essendo giustificato dall’estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana”. Non è stato sufficiente, allora, al titolare di una farmacia essere assolto da tutte le imputazioni per poter riprendere la propria attività. L’ostacolo, al momento insormontabile, è rappresentato proprio dall’interdittiva antimafia.

Un caso esemplare. Questi i fatti. Il dottore G.G. rileva agli inizi degli anni 2000 la farmacia di piazza Caiazzo a Milano. La farmacia, aperta nel lontano 1907, è una delle più antiche in città ed è rifornita di farmaci anche difficilmente reperibili altrove. Per la sua vicinanza alla Stazione centrale è poi un punto di riferimento per le numerose comunità straniere presenti. A marzo del 2018 G.G., originario della provincia di Reggio Calabria ma ormai da tanti anni residente a Milano, viene arrestato con l’accusa di essere legato alla criminalità organizzata. Seconda la Procura di Milano, in particolare, la farmacia subirebbe il condizionamento del boss calabrese Giuseppe Strangio, che avrebbe infiltrato proprio personale al suo interno e impiegato anche soldi provento dallo spaccio di stupefacenti. G.G. è dunque accusato poi di non avere le autorizzazioni necessarie e di truffare con i rimborsi il servizio sanitario nazionale. Oltre al titolare, vengono arresti tutti i dipendenti. In totale sono undici. La farmacia viene posta sotto sequestro e i magistrati nominano al riguardo un curatore. L’Asl, informata dell’indagine, revoca immediatamente tutti i permessi. Le indagini vengono condotte con ampio utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali. A fine 2018 il gip scagiona Strangio dall’accusa di riciclaggio perché “il fatto non sussicste”. Passa qualche mese e fa lo stesso anche per tutte le altre imputazioni. La farmacia viene quindi dissequestrata, nonostante il parere contrario del Nas carabinieri di Milano che aveva condotto le indagini. La prima sorpresa di G.G, rientrato in possesso della struttura, è che molti farmaci sono stati mal conservati e lasciati scadere con conseguente danno economico ingente. Nonostante tutto, però, G.G., vuole ripartire.

La trafila davanti al Tar. Inizia allora a presentare una serie di istanze alla Prefettura di Milano affinché riveda l’interdittiva antimafia, emessa subito dopo il suo arresto, alla luce dell’assoluzione. Alle istanze, però, nessuno risponde. G.G decide quindi di rivolgersi al Tribunale amministrativo regionale. La doccia fredda arriva nelle scorse settimane. “Le sopravvenute sentenze di assoluzione non sono idonee a modificare il quadro indiziario”, scrivono i giudici amministrativi. Perché nonostante la decisione dei giudici in ambito processuale, il collegio del Tar ritiene comunque che il titolare sia legato da rapporti parentali ad esponenti di spicco della criminalità calabrese. E che dunque perduri il pericolo di condizionamento mafioso dell’attività della farmacia. L’esercizio del servizio farmaceutico esporrebbe a rischi concreti l’ordine pubblico rendendo “recessive” le pur rilevanti ragioni imprenditoriali. Come se non bastasse, il Tar condanna G.G anche al pagamento di 2000 euro di spese. Ad assistere G.G. l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm), i cui vertici hanno già dichiarato che presenteranno appello alla decisione del Tar.

Impresa solida in Sicilia? Allora dietro c’è la mafia…Massimo Niceta su Il Rifomista il 2 Agosto 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la terza di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. A distanza di sette anni, non sono riuscito a capire perché lo Stato si sia impegnato così tanto per distruggere una realtà produttiva come quella della mia famiglia. Ci sono voluti due Tribunali, due ricorsi in appello, due perizie e fiumi di denaro per riconoscere quello che era evidente sin dall’inizio, cioè che i Niceta non hanno mai fatto affari con la mafia. Già nel 2010 il Gip aveva archiviato un procedimento nel quale, insieme a mio fratello, venivo sospettato di intestazione fittizia. Già allora un giudice riconobbe che non vi erano neppure gli elementi per andare a giudizio. Il pieno riconoscimento della nostra estraneità a fatti di mafia non bastava alla Sezione Misure di Prevenzione che, per gli stessi identici fatti, ha sequestrato il nostro patrimonio. La crescita imprenditoriale dei fratelli Niceta non poteva che spiegarsi con il sostegno della mafia. Del resto, in quel momento, avevamo 15 punti vendita di abbigliamento, di cui uno nel centro commerciale di Castelvetrano, feudo del famigerato Messina Denaro. Se sei siciliano è un indizio, se operi a Castelvetrano è una prova. Questo faceva di noi degli imprenditori collusi con la mafia. La regola – che non ammette eccezioni – è che tutti coloro che operano in Sicilia sono collusi con la mafia. Nel giro di qualche ora ci siamo ritrovati fuori dalla nostra azienda, dalla nostra casa, dalla nostra vita. Nessuno te lo spiega: non c’è un’accusa specifica, sei semplicemente un sospettato, un proposto che, nonostante non abbia commesso alcun reato, viene trattato come il peggiore dei criminali. Non te ne accorgi ma sei già diventato una persona senza diritti, un numero da bruciare per alimentare il fuoco perpetuo della propaganda mafiosa dei sequestri e delle confische. In un processo di prevenzione, la presunzione d’innocenza sparisce. Qui sei colpevole fino a quando non riesci a dimostrare la liceità del tuo patrimonio, anche se questo si è formato 20 o 30 anni prima, anche se a crearlo è stato tuo padre o tuo nonno. La chiamano inversione dell’onere della prova. Tra un rinvio e l’altro, aspettando la perizia (cioè aspettando Godot) il tuo nome viene dato in pasto all’opinione pubblica e vieni macchiato in maniera indelebile, a prescindere da quale sarà l’esito del processo. Come si dice in Sicilia, “u carvuni s’un tingi mascarìa” (il carbone se non colora sporca). Cominci a fare i conti con la tua nuova vita: non sai come provvedere ai bisogni dei tuoi tre figli minorenni; non sai da dove reperire le risorse per pagare i tuoi avvocati; l’azienda per la quale hai vissuto e per la quale hai sacrificato tanto, alle volte troppo, viene affidata ad un amministratore giudiziario (un commercialista senza arte né parte) che non ha idea di che cosa sta amministrando. Un professionista calato dal cielo, scelto non per le sue competenze specifiche ma per la “fiducia” che riesce a ispirare nel collegio che lo ha nominato. Si circonda presto di una corte di collaboratori, coadiutori, professionisti o semplici impiegati, scelti sempre “a fiducia”, senza una logica di utilità aziendale, i quali mensilmente succhiano migliaia di euro dalle casse della tua azienda. Al tuo avvocato chiedi di fare valere i tuoi diritti, ricevendo come risposta che non ci si può difendere dal sospetto. A decidere poi sono sempre i giudici, cioè quelli che hanno già sequestrato la tua azienda ritenendoti un soggetto vicino alla mafia. Depositi motivate istanze, manifesti preoccupazione per le sorti della tua azienda e speri di essere ascoltato dai giudici, cioè da quelli che hanno già autorizzato l’amministratore giudiziario a smantellare il tuo patrimonio. Le tue istanze vengono puntualmente rigettate. È lì che capisci di non contare niente. Stai recitando, tuo malgrado, una parte in una grande farsa, il cui esito è già scritto in partenza: distruzione dell’azienda e confisca! Passano gli anni e le udienze. I punti vendita vengono chiusi uno dopo l’altro, i dipendenti sono licenziati e i fornitori non vengono pagati. Le forze e le speranze ti stanno abbandonando. Nel frattempo, uno spiraglio di luce: il Tribunale di Trapani ti dà parzialmente ragione e ritorni a sperare. In appello ottieni pure il pieno riconoscimento delle tue ragioni: arriva la restituzione dell’azienda o, meglio, di ciò che ne rimane. Peccato, però, che strada facendo, quell’azienda è stata sequestrata dal Tribunale di Palermo. Ricomincia la giostra infernale. Passa ancora un anno, scoppia lo scandalo Saguto: il giudice che, con un tratto di penna, ha cancellato per sempre la nostra vita è adesso accusato di oltre 70 capi d’imputazione, insieme all’amministratore giudiziario che ha usato le nostre aziende come un bancomat e come ufficio di collocamento. È passato un altro anno. Finalmente, il collegio giudicante, in altra composizione fisica, ci dà ragione. Ma non è finita. La Procura fa ricorso e siamo costretti a ritornare in aula: altro girone dell’inferno. In tutti questi anni ho provato a dare un senso alla mia vita. Ho cercato di trasformare un dramma personale in un’occasione di crescita per la collettività, affinché quanto ha subito la mia famiglia non capiti ad altri. Ho trovato tante porte chiuse e ho ricevuto tante pacche sulle spalle. Gli unici che si sono concretamente impegnati in una sacrosanta battaglia di civiltà, gli unici che mi hanno ascoltato mentre tutti gli altri prendevano le distanze sono stati il Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino. Sono migliaia le persone che hanno vissuto la mia stessa tragedia. Ho conosciuto storie più incredibili della mia e ho toccato con mano la paura di chi non le vuole raccontare, temendo ritorsioni di carattere giudiziario. L’antimafia è una questione di fede. Persino quando commette degli errori madornali, l’antimafia non può essere messa in discussione. Tutte le decisioni a noi favorevoli affermano che l’archiviazione del 2010 aveva già esaurito tutta la materia del contendere. Allora mi chiedo che senso aveva fare ben due processi di prevenzione. Poi un giorno ti svegli e leggi sul giornale di una parcella da 120 milioni di euro presentata da quattro amministratori giudiziari per un anno di lavoro e capisci.

L’azienda è mafiosa, DIA "distrugge" imprenditore per aver assunto due ex detenuti. Agostino Federghini su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la seconda di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. La nostra era un’azienda a conduzione familiare. Mio nonno la fondò nel 1932; oggi, con mia figlia Ester, siamo arrivati alla quarta generazione. Ci occupavamo di riciclaggio di rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata e dalle industrie, con un moderno impianto di selezione. Davamo lavoro a 25 persone. Già, parlo al passato perché oggi la nostra attività non esiste più. Il nostro dramma comincia nel 2017, quando veniamo coinvolti, insieme ad altre cinquanta persone, in una maxi indagine della Direzione Investigativa Antimafia di Firenze. Venivo accusato di traffico illecito di rifiuti per un presunto “giro bolla”, sarebbe a dire la declassificazione (fittizia) del rifiuto che in realtà non c’è mai stata. Diffusasi la notizia del procedimento, vengono risolti i contratti con le discariche e i consorzi pubblici, perdiamo le commesse che avevamo ottenuto. È solo l’inizio della catastrofe. Mentre ancora, a distanza di anni dall’inizio del procedimento, non sono stato neppure rinviato a giudizio, si abbatte sulla mia famiglia la calamità dell’interdittiva prefettizia antimafia, di cui fino ad allora ignoravo persino l’esistenza. In pratica, venivo accusato di avere tra i miei dipendenti due persone con dei precedenti penali. Secondo gli inquirenti, erano stati inviati dalla camorra per impadronirsi della nostra azienda. L’accusa ha dell’incredibile perché le persone in questione le avevo assunte proprio su segnalazione di un carabiniere del nucleo investigativo che mi aveva chiesto di aiutare un uomo in cerca di lavoro, da poco trasferitosi in Italia dalla Germania. Si trattava un uomo che per tutti gli anni di lavoro, aveva tenuto un comportamento davvero esemplare. Qualche anno più tardi, assunsi anche il figlio, che in quel momento era ristretto in carcere. L’assunzione avvenne dopo la stipula di una convenzione con la casa circondariale della Spezia, ratificata dal magistrato di sorveglianza che ritenne il ragazzo un detenuto meritevole di reinserimento nel mondo del lavoro. Comunque, sia il padre che il figlio, al momento dell’interdittiva non facevano più parte del nostro organico. Vi è quindi da chiedersi in che modo avrebbero potuto condizionare la nostra attività. A nulla sono valsi i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato per i motivi difficilmente comprensibili per i quali – stento ancora a crederci – non si può sindacare la discrezionalità dell’atto del Prefetto. Come a dire che si può distruggere la vita di una persona senza un motivo, senza un presupposto certo, senza che ci si possa difendere effettivamente davanti a un giudice. Mi fa veramente rabbrividire leggere nella sentenza del giudice amministrativo che «assicurare un posto di lavoro retribuito a una persona coinvolta nelle attività illecite assicura un riferimento stabile e potenzialmente equivoco con il mondo dell’economia illegale favorendo l’espandersi della criminalità nell’economia». Mi chiedo quanto deviata possa essere la mente umana per ritenere che impedire a un ex detenuto di reinserirsi legalmente nel mondo del lavoro costituisca una forma di “prevenzione” e non invece un’ulteriore condanna a commettere altri reati per vivere. Con l’interdittiva, le nostre aziende vengono praticamente condannate a morte certa. Iniziano le cancellazioni dagli albi professionali, ci viene revocata l’Autorizzazione Ambientale della Provincia, perdiamo gli appalti pubblici in corso, le gare vinte e i fidi delle banche. Siamo stati costretti a licenziare i nostri dipendenti e questo ci fa vivere con i sensi di colpa al pensiero quotidiano che decine di famiglie per bene si trovano in mezzo a una strada. La dignità della mia famiglia è stata calpestata. Sulla base di un semplice sospetto, siamo stati condannati sui giornali con danni incalcolabili alla nostra reputazione di persone fino ad allora conosciute da generazioni solo per la serietà, la costanza e l’impegno nel lavoro. Il nostro calvario non è finito qua. Già, perché sempre per gli stessi sospetti, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Firenze, mi ha sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ritenendomi soggetto socialmente pericoloso. Devo rientrare entro le 22 e non posso uscire prima delle 7. Mi è stata pure revocata la patente. Suona come una vera e propria presa in giro l’ordine di darmi alla ricerca di un lavoro entro 30 giorni. Mi si dice di cercare lavoro, dopo che lo Stato mi ha tolto il lavoro per avere fatto lavorare due ex detenuti proprio su indicazione dello Stato! Il Tribunale non mi ha concesso neppure il controllo giudiziario, cioè di essere affiancato da una sorta di commissario nominato dal tribunale, che mi avrebbe consentito di portare avanti la mia attività e di sospendere gli effetti dell’interdittiva. In pratica – faccio fatica a spiegare ciò che neppure io sono riuscito a capire – avendo io il 99 per cento della mia azienda, non avrei agevolato la camorra ma me stesso. Siccome il controllo giudiziario si può dare a chi ha agevolato occasionalmente la mafia, io, avendo agevolato solo me stesso, non posso beneficiare di questa misura e, quindi, la mia azienda deve essere condannata alla distruzione! Di fatto viviamo immobili, in perdita, privati della libertà, in attesa, in una situazione surreale. Scontiamo una pena senza essere stati condannati, senza avere commesso un reato. Semplicemente per avere lavorato e dato lavoro. A fatica riesco a parlare della mia vicenda in pubblico. Solo di recente, grazie a Nessuno tocchi Caino, ho trovato il coraggio di parlare di qualcosa di tremendo che ha segnato per sempre la vita della mia famiglia. Lo faccio, non senza sofferenza, perché ritengo che occorra alzare la testa, rivendicare in ogni sede la propria innocenza e reagire all’oppressione. La gente non ha la minima idea di che cosa succede all’ombra di una certa antimafia che, prescindendo dalle prove, dai fatti e dai reati, può colpire brutalmente chiunque in qualsiasi momento, distruggendo il lavoro, l’impresa, la dignità dell’uomo e lo Stato di Diritto.

Bari, ordinanza storica del Tar: «Basta interdittive antimafia arbitrarie». Chiesto l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Simona Musco il 31 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il principio del contraddittorio, «espressione fondamentale di civiltà giuridica europea», appartiene al catalogo dei principi generali del Diritto dell’Unione e, pertanto, non può essere escluso a priori dall’iter che porta all’emissione delle informative antimafia. Ed è per questo motivo che il Tar di Bari ha chiesto alla Corte di Giustizia europea di chiarire se il codice antimafia, nella parte in cui non prevede il contraddittorio in favore del soggetto destinatario di un’interdittiva, sia o meno compatibile il diritto dell’Unione. Una decisione storica quella dei giudici amministrativi, chiamati a decidere sul ricorso di una società estromessa da un appalto pubblico dalla Prefettura di Foggia, che aveva ravvisato possibili situazioni di condizionamento dell’attività imprenditoriale da parte della criminalità organizzata. Il provvedimento interdittivo era fondato su «risalenti rapporti di frequentazione intrattenuti dai soci della ditta» con persone controindicate, nonostante l’assenza di sentenze di condanna e senza che sia emerso, nel tempo, «alcun condizionamento, nelle decisioni cruciali per la vita della società, ad opera di esponenti» della criminalità. Un provvedimento adottato, evidenziano i giudici amministrativi, «senza alcun contraddittorio tra la pubblica amministrazione e i soci della società ricorrente, quindi in assenza di una fase partecipativa del procedimento amministrativo», con lo scopo di anticipare un eventuale pericolo di infiltrazione. Per il Tar, però, tale provvedimento non costituisce una misura provvisoria e strumentale, ma «un atto conclusivo del procedimento amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la pubblica amministrazione, con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili», dal momento che l’interdittiva ha, come effetto, «la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che, da quel momento e per sempre, non possono rientrare nel circuito economico dei rapporti con la pubblica amministrazione dal quale sono stati estromessi». Proprio per questo, per i giudici, tale strumento non può essere considerato parte dei provvedimenti interinali e cautelari che consentano di escludere il contraddittorio. «La stessa partecipazione al procedimento amministrativo, garantita attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario» del provvedimento interdittivo, evidenzia la decisione del Tar, «non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui riguardi opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al provvedimento conclusivo». Per i giudici, dunque, il contraddittorio tra il Prefetto e l’impresa «assume un’importanza davvero rilevante ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove e argomenti convincenti per ottenere un’informativa liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli». 

“L’orrore” delle interdittive sta per finire, la chiave è una decisione del Tar. Sergio D'Elia de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Casi come quello della famiglia di Bruno Polifroni sono migliaia e costituiscono il banco di prova della libertà di fare impresa, della vita degli imprenditori e dei lavoratori, in definitiva della vita del Diritto nel nostro Paese. La speranza che la situazione cambi giunge da una recente sentenza del Tar di Bari che può costituire un punto di svolta rispetto alla logica dell’emergenza che da trent’anni governa la vita politica, sociale ed economica nel nome di una guerra alla mafia che travolge tutto e tutti mangiandosi i principi basilari dello Stato di Diritto. Per la prima volta infatti, un tribunale, il mese scorso, ha accolto un ricorso, curato dall’avvocato Pasquale Rinaldi, in materia di interdittive antimafia e ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità della legge italiana con il principio del contraddittorio cosi come riconosciuto dal diritto dell’Unione. Un principio che certo riguarda il diritto di difesa nel processo ma che vale, secondo il Tar, anche «nei procedimenti amministrativi nei quali i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione». In altre parole non è tutto oro colato quello che dice la Prefettura. Finalmente si scoprono gli altarini della cosiddetta antimafia costruiti a partire dai primi anni Novanta e in virtù dei quali è potuto accadere che lo Stato di Diritto si sia ridotto allo Stato dei Prefetti, dei sospetti e degli interdetti. È potuto accadere che centinaia di Comuni siano stati sciolti per mafia senza contraddittorio e per via di sole relazioni prefettizie. È potuto accadere che a migliaia di imprenditori siano stati sequestrati i beni sulla base di semplici sospetti di infiltrazioni mafiose. È potuto accadere che altrettanti imprenditori siano finiti nella blacklist e interdetti dal lavoro con la Pubblica amministrazione, senza contraddittorio in ragione di informazioni prefettizie. È accaduto che il sistema di prevenzione su cui si fonda la lotta alla mafia si è progressivamente sostituito al sistema penale, troppo garantista con diritto al contraddittorio e i suoi gradi di giudizio. Un tempo si sarebbe detto che prevenire è meglio che reprimere ma oggi assistiamo ad una prevenzione che è più cieca e distruttiva della repressione stessa. Nella sentenza del Tar di Bari riecheggia il senso delle proposte di legge di iniziativa popolare del Partito Radicale volte a impedire le infiltrazioni mafiose nel sistema economico senza distruggerlo, a salvaguardare la continuità aziendale e amministrativa, a prevenire il crimine senza massacrare la vita delle persone, a combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani. Confidiamo anche in questo caso, come avvenuto con l’ergastolo ostativo, che siano le Alte Giurisdizioni, in questo caso la Corte di Giustizia europea, a sciogliere quei nodi che il Parlamento non è in grado di affrontare.

Storia dell’imprenditore Nino Polifroni, la sua fabbrica nella tenaglia tra Stato e mafia. Ilario Ammendolia de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Il 30 settembre del 1996 il titolare d’una piccola impresa di costruzioni, Nino Polifroni, dopo aver subito innumerevoli intimidazioni ed attentati, vene ucciso a Varapodio, Reggio calabria, dalla ‘ndrangheta. Gli assassini sono rimasti sconosciuti. Polifroni aveva più volte denunciato i mafiosi. Viveva senza scorta. Dopo la sua morte e dopo una approfondita istruttoria da parte degli organi competenti, la vittima è inserita nell’elenco ufficiale delle vittime di mafia. Contemporaneamente i figli Bruno e Vincenzo, entrambi ingegneri, decidono di continuare a lavorare in Calabria nonostante continuino le intimidazioni nei loro confronti. Nel 2017 i fratelli Polifroni vengono lambiti da una inchiesta giudiziaria per turbativa d’asta. Il processo di primo grado non s’è ancora concluso. Ancor prima del rinvio a giudizio le loro imprese cominciano ad esser colpite da una serie di interdittive antimafia. La conseguenza immediata è che le aziende finiscono in crisi e una trentina di dipendenti finiscono sul lastrico. Inoltre, dopo 24 anni, la prefettura di Reggio Calabria riapre il “caso Polifroni” con la motivazione che vi potrebbe essere «la sussistenza di un dubbio circa l’impossibilità di non escludere con certezza che la vittima (Nino Polifroni) fosse nel momento del fatto estranea a momenti malavitosi». Purtroppo la vittima non si può difendere perché è morta ed i sicari sono rimasti sconosciuti. In tutta questa vicenda se c’è una cosa certa è che l’imprenditore calabrese ha passato l’intera esistenza a difendersi dalle cosche senza mai abbassare la testa nonostante avvertisse il fiato della ndrangheta sul collo. Quella di Nino Polifroni è la storia di un uomo, che denuncia le potenti cosche calabresi e non indietreggia. Non a caso la sua indomita lotta venne indicata come un esempio di eroismo civile. Non è facile vivere e lavorare in Calabria quando la ‘ndrangheta rende la vita impossibile e quando lo Stato mostra un volto ottusamente burocratico. Bruno e Vincenzo Polifroni sono oggetto d’una inchiesta giudiziaria ma non gridano allo scandalo, non si nascondono dietro la memoria del padre. Scelgono di difendersi con dignità nel processo e si dichiarano fiduciosi nella giustizia. Ma presto sono costretti a sperimentare sulla loro pelle che può bastare un semplice rinvio a giudizio per far collassare un‘impresa solida e rovinare l’esistenza di molte famiglie. Contro le loro imprese si abbattono discutibili interdittive antimafia e se fino a due anni fa per sopravvivere bisognava lottare contro la ndrangheta a rischio della vita, oggi la loro lotta è su due fronti. Tutto diventa ancora più triste e doloroso quando la Prefettura pensa di riscrivere la storia d’un uomo la cui vicenda umana, anche grazie all’associazione “Libera“ di don Ciotti, è stata raccontata nelle scuole di mezza Italia, sui giornali ed in televisione. Un processo kafkiano alla memoria di Nino Polifroni.  Questa è la Calabria, una terra in cui convivono eroi spesso finti e vittime vere, dove centinaia di imprese possono essere messe sul lastrico senza un giusto processo e senza possibilità di appello. Perché sorprendersi se nessuno investe più ed i giovani vanno via?

Per Luigi Einaudi i Prefetti erano “infezioni”. Gioacchino Criaco l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Luigi Einaudi è stato il più liberale fra i Presidenti della Repubblica, i Prefetti non li aveva in simpatia, li considerava una sorta d’infezione. Tornasse in vita rinnoverebbe loro la propria antipatia, sorriderebbe beffardo: leggendo delle indagini sul Prefetto di Cosenza, finito nei guai per una presunta tangente di 700 euro, scorrendo l’elenco chilometrico delle amministrazioni locali rette da terne commissariali, contando le interdittive prefettizie. E poco benevole sarebbero le facce dei filosofi magnogreci, dei poeti latini, dei libertari etruschi: guardando il frutto italico delle loro gonadi. Un popolo immerso nelle paure irreali in cerca di una forza consolatoria, rinchiuso, rintanato in attesa di provvidenze salvifiche. La storia, quando verrà, non sarà clemente con l’Italia contemporanea, perché da un Paese che ha cullato filosofi e poeti migliaia di anni fa ci si attendeva altro, ci si aspettava che la società attuale sarebbe stata modellata con argilla artistica profusa da menti poetiche e filosofiche e non somigliasse alle retrostanze delle aule di Giustizia, pendendo, il cambiamento, da turgide labbra di Procuratore. Nessuno si sarebbe potuto immaginare, anni e anni fa, di ritrovarsi proni a elemosinare idee da burocrati e presenze istituzionali, si sarebbe pensato che dalla terra di Leonardo e Michelangelo sarebbero esplose intelligenze buone a plasmare una società d’avanguardia e non retrobottega polverosi da ufficio del catasto. E la vita collettiva si evolve, si sa, fra inciampi e spianate, ma dopo immense praterie aperte dalle menti eccelse del passato ci si sarebbe aspettati asperità sempre meno in rilievo, e davvero nessuno, dopo Beccaria, ci crederebbe, a vederla, a questa Italia manettista, nessuno darebbe per vero lo smantellamento delle garanzie nei processi, e soprattutto si penserebbe al miraggio facendo un giro nel deserto di speranze del sistema carcerario. Chi, dopo l’umano Cesare, potrebbe dare per veri la pena senza fine, l’isolamento totale, la fine della prescrizione? La storia, quando verrà risparmierà solo i pochi che hanno lottato per sconfiggere il buio odierno, e a chi ergerà emergenze e guerre ad alibi per la responsabilità o la complicità, la Storia, quando verrà, si volterà di spalle. E quelli che in questi anni si sono atteggiati, e ancora si atteggiano, a eroi, lo sanno bene che a loro non verranno concessi sconti, per questo godono pienamente la gloria dell’oggi. Einaudi ci andava giù pesante con i Prefetti, li personificava con la lue, la sifilide, magari era troppo duro, magari farebbe paragoni più maligni, essendo vivo. Ma non c’è bisogno né di lui né che arrivi la storia per capire che a cambiare i poeti e i filosofi e i libertini etruschi con i procuratori e i prefetti non ci guadagna nessuno, nemmeno i procuratori e i prefetti. 

·         Chiusi per (Anti) Mafia…

Il racconto dell'ex sindaco. Comune di Giardinello sciolto per mafia dai Consiglio di Stato, ma per il Tar non c’erano infiltrazioni…Giovanni Geloso su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la decima di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Viviamo in uno Stato di diritto o in uno Stato di potere prefettizio? La domanda non è per niente retorica. La vicenda giudiziaria che mi ha colpito non è diversa da quelle meritoriamente raccontate da Nessuno tocchi Caino sulle pagine di questo giornale. È una storia di barbarie, di violenza alla democrazia e alle persone: una storia di scioglimento di comuni per mafia senza l’ombra della mafia. Ho deciso di raccontare ciò che mi è capitato non solo per difendere l’onorabilità della mia famiglia e della mia comunità; lo faccio nella speranza che la politica possa rendersi conto dei limiti di una legge che, con il sospetto, si abbatte come una mannaia sui piccoli comuni favorendo certi interessi politici a discapito di altri. Nel mese di maggio del 2012 fui eletto Sindaco di Giardinello, un piccolo comune di 2.400 abitanti della Provincia di Palermo, dopo avervi ricoperto la carica di consigliere comunale. La mia squadra era composta per lo più da giovani alla prima esperienza amministrativa. Il difetto di esperienza era colmato dall’entusiasmo, dalla vitalità, dallo spirito di abnegazione, propri degli anni migliori. Dopo otto mesi dal mio insediamento, furono rese note le conclusioni di un’importante inchiesta antimafia condotta dai carabinieri, dal nome tutto evocativo: “Grande mandamento”. Operazione che portò all’arresto di alcuni indiziati mafiosi appartenenti al nostro comprensorio. Il calvario era alle porte. Da alcune intercettazioni vennero estrapolate e decontestualizzate alcune frasi riguardanti la mia campagna elettorale. Ne fu ricamato un quadro così inconsistente da non poter essere definito neppure indiziario; una sequela di apodittiche supposizioni comunque sufficiente per criminalizzare la classe politica locale e inviare al Comune i commissari prefettizi per un accesso ispettivo. Per circa tre mesi vennero esaminati gli atti del nostro breve mandato. Ero certo della mia integrità morale e di quella dei miei collaboratori e, perciò, dissi ai commissari che, qualora avessero trovato atti che ricollegavano l’azione della mia amministrazione alla mafia, mi sarei subito costituito. Dissi pure che in caso contrario nessuno, neppure il Prefetto o il Ministro, avrebbe potuto permettersi di infangare la mia persona, la mia famiglia e la mia comunità. La fiducia nelle Istituzioni non era ancora vacillata e pertanto chiesi un’audizione all’allora Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e alla Commissione Parlamentare Antimafia. Alle mie richieste non vi fu alcun riscontro. Continuava senza sosta l’ispezione della Commissione Prefettizia ma proseguiva anche il lavoro alacre della mia amministrazione che, nonostante fosse stata screditata, non abbandonava la speranza di giustizia. Speranza di giustizia tradita quando, circa tre mesi dopo, come un fulmine a ciel sereno, arrivò il provvedimento che disponeva lo scioglimento del Consiglio Comunale. Fui assalito da un senso profondo di rassegnazione. È difficile spiegare cosa si prova. Ti senti tradito dalle Istituzioni alle quali hai dedicato la tua vita e per le quali hai messo da parte la tua stessa famiglia. Ti senti impotente di fronte a un grave abuso che lede la tua dignità. L’ingiustizia subita generò in me e nei miei collaboratori un senso di rivalsa che, insieme alla forza di chi sa di essere nel giusto, ci spinse a intraprendere azioni volte a riaffermare la verità. Ottenute con non poche difficoltà le motivazioni dello scioglimento, piene di omissis, iniziammo una vera e propria battaglia civica per raccontare, attraverso gli organi dell’informazione locale, la nostra versione dei fatti. All’attività di corretta informazione dell’opinione pubblica affiancammo, ovviamente, anche l’azione legale, con il ricorso al TAR promosso dall’avvocato Immordino. Dopo circa otto mesi arrivò la tanto attesa sentenza del TAR che ribaltò quell’ingiusto scioglimento. Finalmente dei giudici amministrativi avevano riconosciuto ciò che era evidente fin dal principio, cioè che la mia amministrazione non aveva adottato alcun atto che si potesse ricondurre alla malavita. La notizia fece scalpore: Giardinello era il primo Comune siciliano a essere riabilitato. Con rinnovato vigore, rilanciammo la nostra azione di governo, riuscendo a ottenere in poco tempo risultati eccezionali, nonostante la difficile situazione economica purtroppo condivisa con molti comuni del Sud. Mi piace ricordare con orgoglio che il nostro è stato il primo Comune in Sicilia a raggiungere la massima quota di raccolta differenziata (circa l’80%). Questo risultato ci permise di abbassare la quota sulla tassa dei rifiuti, diede lustro alla nostra cittadinanza e fu il motivo di tanti attestati di stima che ci sono stati tributati a livello nazionale e regionale. Ottenemmo pure dei finanziamenti per la riqualificazione del Parco Urbano con annesso gazebo, senza alcun onere per il Comune. Abbiamo sempre garantito la pulizia e il rifacimento del manto stradale. Tutto sembrava andare per il meglio. Sembrava, appunto. A seguito del ricorso del ministro degli Interni, il Consiglio di Stato sciolse definitivamente il nostro Comune. Una situazione kafkiana: lo Stato che ricorre contro se stesso, lo Stato che rigetta nel baratro un’intera comunità. Per corroborare un’accusa del tutto infondata, era necessario dichiarare la mia incandidabilità. E affinché ciò si verificasse, a perorare la causa della perdita dei miei diritti politici venne colui che aveva eseguito lo scioglimento per mafia del nostro Comune: il sig. vice Prefetto. Incredibile ma vero! Le vicissitudini che ho sin qui riassunto, non senza dolore, hanno determinato una violazione dello Stato di Diritto e una macchia indelebile nella storia del nostro Comune. Non è più tollerabile la superficialità nelle investigazioni e la palese disparità tra accusato e accusatore. Con la scusa di riaffermare la legalità, sono stati causati danni incalcolabili al nostro territorio. Facciamo i conti con un sistema giudiziario ammalorato, ove operano soggetti che, sotto la toga o la divisa, perseguono interessi privati, secondo una logica predatoria e parassitaria. Come può in un ordinamento democratico il Prefetto, espressione del potere politico, cancellare il voto liberamente espresso dai cittadini senza che nessun consigliere di maggioranza o di opposizione abbia mai ricevuto un avviso di garanzia? La lotta alla mafia non è solo un pretesto per stravolgere i risultati elettorali, confiscare e interdire aziende senza prove. È la via della dannazione eterna per molti innocenti che, da un giorno all’altro, vengono distrutti sul piano patrimoniale, professionale e umano. Parliamo di una scorciatoia contorta attraverso la quale si applicano pene atroci senza reati; vere e proprie campagne di persecuzione alimentate da quella folle cultura del sospetto che qualche secolo fa portava al rogo donne innocenti accusate di stregoneria e che oggi conduce al martirio di tanti uomini onesti presi per mafiosi. La lotta alla mafia è un obiettivo sacrosanto ma il modo peggiore per perseguirlo è cercare la mafia laddove non c’è. Per dirla con Voltaire, «le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle».

Comune sciolto per mafia, ma la mafia non c’era…Giorgio Mannino su Il Riformista l'8 Novembre 2020. Lo scorso 29 luglio il Comune di Partinico – paese di trentamila abitanti a trenta chilometri da Palermo – per la prima volta nella sua storia è stato sciolto per mafia. Nella relazione firmata dall’ex prefetto del capoluogo siciliano, Antonella De Miro, si legge che «possano sussistere elementi concreti, univoci e rilevanti tali da far ritenere un possibile collegamento tra l’amministrazione comunale e Cosa nostra». Ma quali sono questi elementi? Il provvedimento si basa su quattro punti: l’indagine a carico del consigliere comunale Vito Alessio Di Trapani, imputato per associazione a delinquere nel procedimento penale – ancora in fase dibattimentale – seguito all’operazione antimafia Game Over; la cattiva gestione dei servizi sociali, in particolare relativa alle forniture alla casa di riposo “Canonico Cataldo” che sarebbero state affidate sempre alle stesse ditte, senza gara d’appalto e senza aver accertato i requisiti antimafia; la “mala gestio” del servizio di raccolta dei rifiuti che «ha finito per favorire ditte a vario titolo riconducibili alla criminalità mafiosa»; infine, ad aver giocato un ruolo importante per lo scioglimento, sarebbero state le «relazioni amicali e parentali» dei dipendenti e dei consiglieri comunali con soggetti con un passato nell’organizzazione mafiosa che hanno però saldato, negli anni, i propri debiti con la giustizia o che, in alcuni casi, hanno cambiato completamente vita. Fatti di trent’anni fa rispolverati per l’occasione. Si parla, persino, di «dipendenti comunali i cui congiunti sono gravati da precedenti penali». Come se essere parente di chi ha commesso reati sia, automaticamente, un indice di colpevolezza. Basta leggere con attenzione le 235 pagine della relazione prefettizia per rendersi conto che di mafia, in realtà, c’è ben poco. E le motivazioni dello scioglimento appaiono basarsi più su sospetti piuttosto che su dati di fatto.  Ma andiamo con ordine. Dei consiglieri comunali solo Di Trapani è stato rinviato a giudizio. È imputato per associazione a delinquere – è esclusa l’aggravante mafiosa – davanti la corte del tribunale di Palermo. Il processo è ancora in corso ma su Di Trapani la sentenza sembra già essere stata pronunciata. Sugli altri membri del consiglio comunale e sugli assessori non c’è neppure un’indagine. Nessuna ombra. Per quanto riguarda la “cattiva gestione” dei servizi sociali, stando alla relazione prefettizia, lo scioglimento per mafia sarebbe motivato dalla mancata verifica da parte degli amministratori dei requisiti antimafia delle ditte fornitrici, dalle ripetute bocciature in consiglio comunale delle proposte – da parte dell’ex sindaco Maurizio De Luca, dimessosi a maggio 2019 – di affidare a privati il servizio per fronteggiare la profonda crisi finanziaria delle casse comunali e quindi di avere favorito la gestione interna a ditte “a disposizione della mafia” vicine ad alcuni consiglieri comunali. Relazioni e complicità solo eventuali e non dimostrate. Più complicata la situazione relativa al servizio di raccolta dei rifiuti, nella quale, però, sembra emerga piuttosto l’incapacità gestionale dell’amministrazione che una vera e propria vicinanza ai clan locali. Il riferimento, tra gli altri, è alla ditta Cogesi che ha ricevuto, nel dicembre 2019, un’interdittiva antimafia e alla quale sarebbero stati affidati i servizi di raccolta, ben prima però della misura preventiva adottata dalla prefettura. Perché, dunque, questo scioglimento per mafia? «Dalla relazione non emerge nulla di criminogeno. L’apparato consiliare sicuramente ha commesso molti errori. Ci sono state dimenticanze e gravi omissioni. Ma sono azioni dovute all’incapacità gestionale. Sciogliere Partinico per infiltrazioni mafiose è stata una minchiata col botto. Non c’è alcun procedimento penale che riguardi i consiglieri comunali. Nessuno è indagato per mafia eppure il Comune è stato sciolto», dice Salvo Vitale, scrittore, compagno di mille battaglie al fianco di Peppino Impastato e attuale capo redattore di TeleJato. Dello stesso parere è Pietro Rao, ex consigliere comunale di minoranza nella giunta guidata da De Luca: «Non c’erano gli elementi per sciogliere il Comune per mafia. Faccio politica da più di vent’anni, sono nato a Partinico e quando bisognava scioglierlo perché c’erano forti legami con la criminalità organizzata non è stato fatto niente, adesso che questi soggetti non ci sono viene sciolto». Secondo Rao «è stato tutto montato ad arte per giochi politici. Si doveva difendere un principio, una linea e per giustificare le proprie incapacità politiche hanno tentato di buttarla in caciara col fatto che erano tutti mafiosi, che tutto era condizionato e che non si poteva lavorare. Balle!». Tradotto: De Luca e Rosario Arena – commissario che ha sostituito il sindaco dopo le dimissioni – sono uomini del presidente della Regione Nello Musumeci. Entrambi avrebbero fallito nella gestione della città e la carta dell’antimafia sarebbe servita per coprire i fallimenti. Anche Toti Comito, esponente di maggioranza della giunta De Luca non reputa solidi i motivi dello scioglimento: «Non credo proprio che il consiglio comunale e l’amministrazione abbiano avuto pressioni mafiose. Evidentemente c’è altro ma non mi va di sindacare il lavoro prefettizio. Bisognava resettare il consiglio perché la macchina burocratica si era incancrenita e non era all’altezza della sfida». Meno netto il giudizio dell’ex sindaco De Luca: «Quello che posso dire è che c’è stata una resistenza al cambiamento vero. Non so se questa possa essere definita mafia o no. Ho solo cercato di risanare i conti del Comune e progettare il futuro della città. Ma non mi è stata data questa possibilità». Intanto qualcuno – che preferisce rimanere anonimo – degli ormai ex consiglieri comunali fa sapere che procederà per vie legali: «Non posso rimanere a guardare. In questa storia c’è stata una grave manipolazione della verità».

Aosta, il voto anticipato per la ’ndrangheta. Il sindaco: «Cose che ci infangano». Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. In Italia esiste una regione chiusa per ‘ndrangheta. Non un negozio, non una attività commerciale. Un territorio abitato da famoso per le montagne e le sue stazioni sciistiche. A cento chilometri da Torino, 185 da Milano, ai bordi dell’operoso nord industriale. La Valle d’Aosta torna a votare dopo appena due anni. La giunta uscita dalle elezioni del maggio 2018 è stata spazzata via come un fuscello da due inchieste sulle infiltrazioni mafiose, sui patti che la politica locale avrebbe stretto con gli esponenti di spicco dei clan attivi nella Vallè, da tempo non più verde. Ci sarebbe bisogno di fare un riassunto delle puntate precedenti. Nel gennaio del 2019 l’indagine denominata “Geenna” aveva rivelato trame, accordi, e soprattutto il metodo. A Saint Pierre, appena fuori Aosta, anche il servizio di trasporto scolastico, l’autobus dei bimbi insomma, era stato affidato al cugino di un affiliato della ‘ndrangheta, nonostante ci fossero altre aziende che offrivano all’amministrazione un prezzo e una qualità migliori. Alla fine dello stesso anno è venuto giù tutto, con il già traballante presidente regionale Antonio Fosson costretto alle dimissioni da una nuova inchiesta, seguito da due suoi assessori e un altro consigliere, accusati a vario titolo di aver acquistato pacchetti di voti ai tavoli di ristoranti gestiti e affollati dai capi delle “locali” aostane. Prima di parlare, si premuravano che fosse acceso il macina caffè, chissà mai che ci fossero delle intercettazioni ambientali in corso. Ma forse è solo la storia che si ripete. Quando Rosy Bindi, allora presidente della Commissiona Antimafia, denunciò nel 2018 l’esistenza di una trentennale “pax valdotaine” fondata “sulla compiacenza di operatori economici, classe dirigente e mafie”, i vertici della politica locale le diedero della visionaria, nel più gentile dei casi. Mancavano pochi mesi al crollo del sistema. In piazza Chanoux, nel centro di Aosta, non hanno neppure fatto in tempo a smontare i pannelli elettorali che è già ora di usarli nuovamente. Si voterà il prossimo 19 aprile. L’annuncio è arrivato ieri. Le ultime settimane, spese nel tentativo di salvare la legislatura, sono trascorse in una atmosfera surreale. Non appena qualcuno si faceva avanti dicendosi disponibile a puntellare la maggioranza autonomista, ecco che il suo nome spuntava dalle carte delle varie inchieste che a loro volta hanno prodotto decine di altre indagini. La resa è arrivata non per mancanza di volontà, ma di personale politico al di sopra di ogni sospetto. Ieri ad Aosta era tutto un “non al telefono”, “lontano da occhi indiscreti che le spiego”. Renzo Testolin, presidente ad interim in quota Union valdotaine, il partito autonomista che ha governato la regione fin dagli albori, contesta sintesi a suo giudizio troppo severe. “In una realtà piccola come la nostra certe situzioni colpiscono e fanno male. Ci infangano e ci obbligano a farci delle domande. Ma ricondurre tutto alla ‘ndrangheta è riduttivo. Andiamo a votare anche perché la frammentazione in Consiglio è ormai ingestibile”. Eppure, quando le parole che spiegano meglio “la situazione” sono dei carabinieri che hanno svolto le indagini, significa che c’è un problema, e bello grosso. “Lo stato dell’infiltrazione ‘ndranghestista nel tessuto politico, amministrativo e istituzionale è sempre più inquietante”, scrivono in una annotazione depositata al processo Geenna. La discussione pubblica della classe dirigente valdostana verte intanto sul sesso degli angeli, ovvero se quelle presenti in Valle d’Aosta possano definirsi davvero come cosche, perché non commettono più reati da associazione mafiosa, ma si limitano a ottenere vantaggi illeciti dalla politica. Come se trent’anni di analisi sulle nuove mafie fossero passati invano. Fulvio Centoz, attuale sindaco di Aosta, appare nelle carte delle inchieste come una mosca bianca, l’unico che a quei pranzi elettorali si è sempre rifiutato di andarci, rifiutando appoggi elettorali di provenienza incerta. “Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo dovuto fare i conti con una realtà sottovalutata dalla politica. Alla fine è vero che il livello di coinvolgimento della politica nelle inchieste ha impedito ogni ipotesi di nuovo governo regionale. Spero che tanti miei colleghi capiscano che è possibile denunciare, senza voltarsi come hanno fatto in troppi”. Alla fine i cambiamenti sono sempre indotti dai comportamenti individuali. Basterebbe dire no. Vale ovunque. Anche nella Valle d’Aosta che finge di non vedere la propria umiliazione e la propria sconfitta.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Gogna Parentale e Territoriale.

Bonafede a Lamezia Terme per il maxiprocesso di Gratteri. Lo Stato è efficace in Calabria solo quando mette le manette…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. Uno Stato rapido, efficiente, dal sapore nordico, nipponico, che irrompe in un mondo dal ritmo lento, dal cuore rassegnato. Il ministro Bonafede che fa un passaggio lampo per celebrare il proprio trionfo: nella Piana di Lamezia Terme è sorta l’aula bunker dentro cui si celebrerà il processo elefantiaco Rinascita Scott. I muscoli del Governo sono scattati, hanno risposto alle esigenze della lotta alla mafia. Bonafede ha parlato di un messaggio chiaro, univoco: per la ‘ndrangheta non ci sarà tregua, sarà processata nella sua sede naturale. Come se fosse un’intimazione di sfratto, una cacciata dal contesto sociale che ha annichilito. I locali, riadattati in tempi strettissimi, dell’aula bunker sono quelli della Fondazione Terina, ente in house della Regione Calabria, prima ospitavano 700 lavoratori del call center di proprietà della Abramo Customer Care. I lavoratori erano già stati ridotti a 150 per la crisi in cui l’azienda versa da tempo, azienda che impiega in totale 3.000 calabresi in tutta la Regione. Gente che rischia di perdere il lavoro se non si troverà un modo per uscire dalla crisi. Per gli impiegati di Lamezia è urgente trovare una collocazione logistica, posto che la Fondazione Terina non ha rinnovato il contratto di locazione, proprio perché i locali lametini sono stati destinati a un altro utilizzo: di sede processuale, appunto. E sì, i calabresi sono rimasti spiazzati. Uno Stato sprinter per rispondere alle esigenze di un processo, che di sicuro è una cosa buona. E uno stato lumaca, anzi gambero quando gli interventi supersonici sarebbero utili per la questione occupazionale. E il ministro Bonafede è sceso per festeggiare un trionfo dello Stato, lo ha fatto con troppa velocità, e forse non la ha vista l’atmosfera di depressione. Atmosfera che sarebbe stata diversa se fosse sceso per tempo pure il ministro del Lavoro, per provare a dare soluzione a 3.000 lavoratori. A Caulonia, che sta giusto sull’affaccio del mare opposto a quello di Lamezia, nel 2015 la piena dell’Allaro si portò via il ponte della statale 106, unica strada di comunicazione di un certo, se pur minimo, rilievo. Il ponte nuovo ancora non c’è, forse ci sarà a Natale, anche se è il quinto da promessa non mantenuta. E non c’è ancora tutta la nuova 106 promessa, non c’è ancora il tratto di 52 chilometri per completare l’autostrada del Mediterraneo, fra lo Jonio e il Tirreno c’è la galleria della Limina in cui prima di entrare ci si fa il segno della croce. La sanità è la poca cosa che era prima della pandemia. Il binario della jonica è il serpente solitario e senza elettricità del tempo in cui i treni andavano a diesel, e così ancora marciano con quella nostalgica puzza di gasolio e umanità transumante che è infissa nelle traversine di legno di castagno. Lo Stato c’è ha detto Bonafede, ma con lui si è visto perché c’era la chiamata di una Procura. E lo Stato davvero c’è, e c’è sempre stato quando si è trattato di mostrare i muscoli. Ma in Calabria lo Stato che si vede è il consueto, quello che va dal ministero della Giustizia al ministero dell’Interno. Che i calabresi manco lo sanno che in un Governo ci stanno gli addetti al lavoro, all’economia, alla sanità, all’istruzione, trasporti, infrastrutture, turismo, spettacolo. In Calabria tutto è lento, gli scatti ci stanno solo se le chiamate arrivano dai Tribunali e dalle Caserme, che magari il diritto di voto, per i calabresi, lo si potrebbe limitare con riguardo a quei due dicasteri, ai quali gli si potrebbero pure attribuire tutti gli altri compiti che i Governi di solito hanno, perché in un lampo si rispondesse a esigenze che stanno fuori e intorno alle aule bunker.

Pizza, spaghetti e…mafia: l’Italia degli stereotipi nella stampa straniera.  Francesca Spasiano su Il Dubbio il 25 settembre 2020. Dopo le copertine offensive dei giornali tedeschi, a commettere lo scivolone è il quotidiano francese Le Figaro con un numero speciale dedicato alle “bellezze” della Sicilia. Pizza, spaghetti, mandolino e…mafia. Gli stereotipi nutriti dai nostri vicini europei che dipingono l’Italia della pasta asciutta e della malavita non sono certo una novità: ricordiamo titoli e copertine della stampa tedesca che in piena emergenza Coronavirus si premurava – dalle colonne del Die Welt e Der Spiegel – di non consegnare i fondi europei nella mani della mafia nostrana. Ma questa volta lo scivolone è assai curioso: il giornale francese Le Figaro dedica alla Sicilia un numero speciale di 170 pagine, intitolato “Sicilia eterna”, per celebrarne lo splendore dei paesaggi e la ricchezza dei monumenti. Un’operazione lodevole, se non fosse che a metà della scheda di presentazione del volume arriva l’inciso: la terra dove «la mafia pratica il crimine e l’estorsione secondo le regole di un impenetrabile codice d’onore». Un commento «che appare del tutto decontestualizzato rispetto al resto del testo in cui si sottolineano le bellezze e le peculiarità della nostra terra», scrive su Facebook l’assessore regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana, Alberto Samonà. «Una frase che ritengo non condivisibile – aggiunge l’esponente del Governo Musumeci – e non certo per negare la presenza di Cosa Nostra o per sminuirne la portata criminale, ma perché, se proprio si voleva fare riferimento alla mafia, a mio parere si sarebbe semmai dovuto sottolineare che la Sicilia è la regione italiana che negli anni ha pagato il più alto tributo di sangue nella lotta alla mafia, proprio per il considerevole numero di persone assassinate da Cosa Nostra e di vittime che si sono sacrificate per dire no alle sue logiche criminali». «Lo dico senza polemica, ma ritengo fuori luogo che ancora oggi si pensi a stereotipi che ripropongono lo stantio binomio Sicilia-mafia, come sembra emergere da quella frase, che francamente stride rispetto al resto del testo – peraltro molto bello – di questa presentazione», conclude Samonà. Nella presentazione, infatti, si legge di una Sicilia unica e affascinante, l’isola del Mediterraneo che, come «crocevia della nostra storia», ha accolto «Greci, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni e Spagnoli»: tutti popoli che ne hanno «scoperto la dolcezza del vivere». La terra – conclude la recensione – prediletta da «principesse e cineasti», ricca di ogni attrazione: tra cui non si trascura di menzionare la morbosa fascinazione per le cosche locali.

Il teorema della mafiosità ambientale. Il caso Dell’Utri e il delitto fantastico di “concorso esterno”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Dicembre 2019. Torna libero, per modo di dire perché ancora lo attendono malincontri di giustizia, ma già il fatto che Marcello Dell’Utri, scontata la pena, malato e invecchiato, sia autorizzato ad uscire dalla casa dove scontava i domiciliari, ci riempie il cuore di triste gioia. Primo, perché la cosa farà rabbia con schiuma verde a tutti i manettari produttori e consumatori del teorema della mafiosità ambientale respirabile anche in comode confezione spray; secondo perché ormai posso perdonargli di aver intossicato la mia ex moglie incinta al nono mese col suo sigaro fetente l’unica volta che cenammo insieme. Marcello Dell’Utri è stato dentro per “concorso esterno”. Significa che tu non hai commesso dei reati, neanche che sei un mafioso, ma che dalla strada fischiettavi con coppola storta, senza curarti che la lupara ti spuntasse sotto la giacca. Unica cosa che non mi esalta di Marcello Dell’Utri è questa mania della bibliofilia di volumi da “Nome della Rosa”, incunaboli polverosi, con tutte quelle figurine e capilettera ricamati a mano con stampe dell’epoca del torchio e del torcolo che puzzano di muffa. A parte questo, io non so – tutti dovremmo non sapere – come considerare e immaginare noi stessi perseguiti e perseguitati per il delitto di associazione mafiosa sì, ma esterna. È un delitto fantastico, che soltanto il genio italiano poteva concepire nella patria in cui il Diritto è nato, per restare poi in culla. Ne ho scritto e letto per anni di tutta la storia della squadra di calcio (mi pare si chiamasse) Bacigalupo a Palermo dove Dell’Utri conobbe, ma che dico, prese più volte il caffè esterno – con il mafioso Mangano che poi fu assunto da Berlusconi nella sua tenuta di Arcore con la storia del cavalli che secondo i teoremisti non erano cavalli ma messaggi in codice, ma sembra invece proprio che si trattasse di cavalli perché l’associato esterno Dell’Utri Marcello aveva anche il vizio di puntare sui cavalli e pare telefonasse agli amici per chiedere a quanto la dài a Cherie, piazzata o vincente? Era la stagione, la ricorderete della caccia al Berluscone intesa come preda furastica e ambitissima, parente del Cinghialone Craxi, di cui si commemora ora il ventennale della morte con Milano che si chiede perché ha una via Stalingrado, una Palmiro Togliatti, ma via Bettino no, quando era così semplice capirlo, il perché, visto che Bettino era il dante causa di Silvio, che era amico di Marcello che aveva il figlio che giocava nella squadra di calcio Bacigalupo dove al caffè incontrava Mangano che era un mafioso al quale in carcere gli andavano a chiedere se volesse essere messo in una clinica a scontare il suo cancro, casomai avesse voluto dichiarare che anche il cinghialone Berluscone era pure lui mafioso o almeno concorrente esterno a meno di dodici metri e quello diceva no, grazie e marcì in galera crepando del suo cancro. Per dire. Erano storie molto italiane in cui se ti permetti di dissentire, dubitare, ridicolizzare, sospettare, non credere, sei per prima cosa un lurido mascalzone, di chi fai il gioco, un giorno metteremo in galera anche a te, verrà il tuo momento. È stata una stagione così, quella che ha visto l’arresto di Marcello Dell’Utri dopo tutti i gradi di giudizio, la fuga in Libano per legittimo orrore della detenzione, con cattura, reti, cani cacciatori da quadro di Bruegel, grida di dolore, cellulare (automezzo, non telefono) e corsa in galera, stavolta la sconterai e imparerai a fare amicizie sbagliate. Non ci riferiamo a Mangano ma a quell’altro, l’amico tuo, intanto mettiamo in galera te, erano tempi fatti così – quelli dell’associazione esterna e anche coniugata interna o adiacente al terriccio mafioso, che non si nega a nessuno come per esempio alla malavita romana dove se ti muovi facendo la faccia da cosca, ti becchi l’aggravante mafiosa e se ammazzi col fico d’india in bocca prendi più anni che con il pallettone. La coreografia vuole i suoi sacrifici umani e Dell’Utri è stato un sacrificio e oggi umanamente è stato non riabilitato, ma soltanto riconosciuto degno di affacciarsi sulla porta dell’ascensore, accendere il televisore, andare su Internet e telefonare a qualcuno. Essere un concorrente esterno l’aveva portato a una condanna di sette anni che sono, a occhio e croce, più di settemila giorni e settemila notti, a san Vitùr a ciapà i bott’, anche se non era il San Vitùr dei tempi andati, ma anche Ucciardone, Regina Coeli o quel che capita. Era, è stato, un senatore della Repubblica. Un senatore di Forza Italia (e di Publitalia prima) in galera, dopo la testa di cervo e il luccio imbalsamato, sempre un bel trofeo. Quanti ne ha uccisi? Nessuno. Quanti ne ha rapiti? Nessuno. Si può andare avanti e la risposta resta nessuno, purché s’intenda in posizione mezza fuori e mezza dentro di associazione esterna con un piede sul gradino. Dell’Utri è invecchiato, è smagrito, è malato, è stato per anni dimenticato e abbandonato, lasciato nel suo appartamento della detenzione domiciliare a perdere il gusto per la vita e anche per i suoi dannati libri polverosi, con l’accusa peraltro per cui deve ancora essere processato di averne rubati alcuni. Dimenticavamo – quasi – l’accusa della trattativa Stato Mafia (ente pubblico, dunque maiuscolo) che si sarebbe conclusa con l’inverecondo risultato della fine dei fatti di sangue e stragi in cambio non si è capito ancora di che cosa, visto che tutti i mafiosi sono schiattati in galera, dietro le sbarre, umiliati e sconfitti. E poi l’accusa fantasy di stragismo sempre in combutta col cinghialone Berluscone che con lui avrebbe dato fuoco alle polveri come nella congiura delle polveri in Inghilterra, ma il film non è stato ancora messo in circolazione, sembra che la Disney sia interessata. Fantastoria? Altroché. Chiedetelo a lui, il connivente esterno, l’adiacente mafioso, il limitrofo che è una variazione notturna del licantropo canguro. Dell’Utri indossava sempre cravatte di gusto e aveva quell’espressione da uno che ancora non aveva capito bene che cosa stesse per capitargli. Speriamo che riprenda le vecchie abitudini e stia attento a dove mette i piedi quando calpesta una merda e a non passare la linea dell’esterno-interno, altrimenti, zàc, si trova che non è dentro né fuori, ma torna al quadretto numero uno del gioco della galera e si ricomincia tutto da capo, col filo e con l’ago, Good morning, Italy.

Lo scontro. Schiaffo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo alla nostra Cassazione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Ottobre 2020. Nuovo provvedimento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si aprono spiragli, forse porte e portoni per Marcello Dell’Utri e i tanti che come lui sono stati condannati sulla base del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Quello inventato dalla giurisprudenza, ma che non ha mai conquistato la dignità di esistere nel codice penale come reato autonomo, invece che come cucitura arbitraria di due norme ben distinte tra loro, il concorso e l’associazione mafiosa. Dopo Bruno Contrada, anche l’ex senatore democristiano di Palermo Vincenzo Inzerillo ha avuto il suo primo riconoscimento dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto ricevibile il ricorso presentato dal suo legale, l’avvocato Stefano Giordano, lo stesso che aveva già portato a casa non solo la sentenza Cedu su Contrada ma anche il suo risarcimento per ingiusta detenzione da parte della corte d’appello di Palermo. La decisione sull’ammissibilità del ricorso del senatore Inzerillo (cui seguirà una prevedibile sentenza favorevole) da parte della Cedu è particolarmente importante perché sconfessa una decisione discriminatoria assunta dalla corte di cassazione a sezioni riunite del 24 ottobre 2019, che considerava quello di Contrada non come sentenza-pilota, ma come (disdicevole) caso unico, non applicabile a nessun altro. Nel respingere ogni altro ricorso, la cassazione italiana stabiliva un paradosso. E cioè che, se con la condanna di Contrada si era violato l’articolo 7 della Commissione europea dei diritti dell’uomo, ciò non riguardava tutte le altre condanne, anche se relative a fatti precedenti il 1994, cioè l’anno in cui la giurisprudenza creò dal nulla il reato che non c’è. In tutti gli altri casi non si era violato alcun principio, quindi erano state sentenze giuste. Un pezzetto per volta la Cedu sta pareggiando i conti, spezzando la discriminazione tra casi di serie A e casi di serie B. Saranno in parecchi a vestire a lutto in questi giorni, oltre agli imbarazzati giudici che, nell’affermare che ogni condannato è un caso a sé, non avevano previsto che la Cedu, sentenziando su ciascuno di loro, avrebbe nei fatti attribuito alla sentenza Contrada il valore di pronunciamento erga omnes. Aspettiamo a breve (magari anche oggi stesso) che il Fatto quotidiano replichi l’articolo dell’11aprile scorso che, sotto il titolo “La verità dei fatti nello strano caso di Bruno Contrada” , portava due firme prestigiose, quelle di Giancarlo Caselli e di Antonio Ingroia. Era accaduto proprio in quei giorni che l’ex capo della squadra mobile di Palermo avesse ricevuto la liquidazione di 667.000 euro dalla corte d’appello di Palermo per ingiusta detenzione. Una piccola tardiva soddisfazione, dopo ventitré anni di torture, con l’arresto infamante nella notte di natale del 1992, mentre era al culmine di una brillante carriere, e poi il carcere militare e infine il rincorrersi di opposte sentenze, condanna assoluzione condanna. Poi, ormai in età avanzata, il primo riconoscimento, ma non da un tribunale italiano, dalla Corte europea che ha detto a chiare lettere che lui non doveva essere condannato. E infine, ma questo arriva sempre dopo purtroppo, il risarcimento per l’ingiusta detenzione. Caselli e Ingroia erano furibondi, quel giorno, e scrissero senza pudore che il caso Contrada era come l’araba fenice, che risorgeva sempre, nel senso che loro non riuscivano a liberarsene mai, a seppellire una volta per tutte la storia infame di un’ingiustizia. Contestavano apertamente la decisione della Cedu. Secondo loro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste eccome, nel codice penale. Non è solo prodotto di giurisprudenza. Infatti basta mettere insieme l’articolo 110 (concorso) e il 416 bis e il gioco è fatto: prendi due e paghi uno. E poiché, ragionano i due ex magistrati, quei due reati esistevano da ben prima che Contrada tenesse i comportamenti che loro ritengono illegali (l’art. 110 fin dal 1930, codice Rocco, l’altro dal 1982, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa), il gioco è fatto. Il reato che non c’è diventa improvvisamente il reato che c’è. Giornata luttuosa per chi preferisce arrampicarsi sui vetri piuttosto che accettare una sconfitta di politica giudiziaria. Sì, proprio politica giudiziaria, anche se a certi magistrati non piace sentirselo dire. Prima di tutto perché il caso Contrada è stato in quegli anni al centro di vere battaglie sulla politica antimafia, e la sua uccisione professionale con l’arresto ha aperto la strada ad altre brillanti carriere e a una diversa gestione dei “pentiti”, preferiti agli informatori, di cui lui preferiva fare uso. E anche perché l’invenzione del reato che non c’era, applicato a persone che rivestivano ruoli istituzionali, ha consentito di colpire, attraverso le incriminazioni e gli arresti, in chiave politica il famoso terzo livello nel quale per esempio Giovanni Falcone non aveva mai creduto. La decisione della Cedu di considerare ricevibile il ricorso del senatore Inzerillo è un altro colpo di piccone alla politica antimafia degli anni novanta e a qualche nostalgico dei “bei tempi”.

Il caso. Calabria: terra dove chi sbaglia paga ma pagano anche i suoi figli, i parenti e gli amici. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Chi sbaglia paga, è un detto antico, diffuso nel mondo, in Italia, per moltissimi, gli si dovrebbe aggiungere “per sempre”, e in Calabria, tranquillamente, si potrebbe riformulare: paga chi sbaglia, e pagano i suoi figli, i parenti, gli amici. Chiunque sfiori un cattivo è cattivo. La violazione penale diventa un marchio genetico, il per sempre diventa l’eternità. E anche se dopo aver violato la Legge, si sia pagato il corrispettivo, anche dopo avere scontato la pena del reato. Si dovrebbe stare in un canto, fare i bravi, e lasciarsi morire di fame, perché se non si troverà un privato di buona volontà, non potrà essere lo Stato a soccorrere. La pena totalizzante, il ravvedimento impossibile. E anche se la Costituzione dice altro, anche se l’umanità dovrebbe dire altro, o la pietà, il cuore, l’intelligenza. L’etica, quel pauroso sentimento dei giusti che impera, toglie ogni speranza. In Calabria accade che sia un generale dei carabinieri, ex, a battersi per il diritto alla sopravvivenza dei cattivi, ex anche loro. Il generale Aloisio Mariggiò, commissario straordinario di Calabria Verde, ente regionale che si occupa di forestazione e cura del territorio, lotta contro una crociata moralista che vorrebbe fuori dal lavoro i dipendenti che hanno violato la Legge, pur se hanno scontato la pena, cambiato vita, e tentano di rifarsene una fondata sul lavoro, il rispetto delle regole. Un generale da solo, che affronta le campagne mediatiche, le tendenze populistiche, le mancanze politiche, le deficienze sociali, le perdite di umanità. Difende i suoi operai. E non è facile, perché amministra un ente che negli anni ha dimostrato pecche e vergogne, che si è trasformato in carrozzone assistenziale, improduttivo. Scandalo dopo scandalo, eppure, fonte unica di speranza per migliaia di dipendenti: per i più, che non hanno mai violato la Legge, e per quelli che hanno sbagliato, anche in modo terribile e hanno aggrappato le loro vite a questo lavoro. Insieme, i giusti e gli ex cattivi, smarriti, lasciati senza progetti e senza guida, infilati nella retorica della legalità, dell’onestà. È un generale, oggi, che deve difendere i suoi operai dagli sbagli di un sistema che vuol far cadere sui dipendenti gli errori di un’intera classe dirigente. In un Sud che è questo, in una Calabria che è fatta di una maggioranza di giusti, ma che dentro ha tante persone che hanno sbagliato. E a quelli che hanno pagato, che vogliono rientrare con gli altri, camminare insieme, un’orda moralista vieta, o vorrebbe vietare, ogni appiglio, ogni ancora. Per i campioni del bene le espiazioni, i riscatti, sono favole. Ai cattivi ex e per sempre, bisogna interdire, negare, licenziare. Devono stare fuori dai buoni spesa, fuori dai redditi di cittadinanza, fuori dal lavoro. Fuori da tutto, chiusi nel recinto delle loro colpe. Ed è strano che a difendere chi ha sbagliato, e non vorrebbe farlo più, ci sia un ex Generale che ha trascorso tutta la propria vita a fermare i cattivi. O, forse, è più strano che non ci siano i corpi sociali a fermare le febbri etiche, le derive morali, l’esigenza di creare mostri per sentirsi migliori di come davvero si sia.

La leghista Maraventano ai nostri finti mafiosi: “Penso quello che ho detto, non devo chiedere scusa”. Le Iene News il 05 ottobre 2020. “Non c’è più la mafia sensibile e coraggiosa di prima”, aveva detto l’ex senatrice ed esponente leghista Angela Maraventano, durante la manifestazione catanese a sostegno di Matteo Salvini. Dopo l’inevitabile condanna dell’opinione pubblica, la leghista si è dissociata da quel pensiero. Noi de Le Iene allora le abbiamo mandato due finti mafiosi per capire se davvero fosse pentita delle sue parole, ma ci ha spiegato: “Penso quello che ho detto”. L’esponente leghista ed ex senatrice Angela Maraventano ha scioccato tutto il paese durante un comizio a Catania a sostegno di Matteo Salvini: parlando del traffico di migranti, ha detto che “la mafia non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Non esiste più, perché noi la stiamo completamente eliminando”, aveva proseguito l’esponente leghista. “Nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio”. Dichiarazioni vergognose a cui era ovviamente seguita l’indignazione generale, tanto che la leghista ha dovuto dissociarsi da quelle parole che ha definito "infelici". Ma si sarà ravveduta davvero? Noi de Le Iene, con Ismaele La Vardera e Massimo Cappello, abbiamo mandato nel suo locale due finti mafiosi, che si sono presentati come “picciotti”, per portarle la solidarietà delle famiglie mafiose. E a quei due finti “uomini d’onore” la Maraventano, candidamente, confessa di pensare davvero ciò che aveva detto in pubblico: “Pensi che con questa cosa che mi hanno combinato, che ne hanno parlato i giornali, non mi vogliono fare fuori? Tutti i commenti negativi, devi morire, mafiosa… Io penso quello che ho detto, se non lo dicevo morivo, mi veniva l’ulcera. È stata una cosa più forte di me. Non devo chiedere scusa a nessuno. Perché io sono così. Come me ci sono solo io”.

Maraventano e la mafia: prima le scuse, poi la confessione ai "picciotti" de Le Iene. Le Iene News il 06 ottobre 2020. Angela Maraventano, ex senatrice ed esponente leghista, aveva detto durante una manifestazione a sostegno del leader Matteo Salvini, parlando del business dell'immigrazione illegale: “Non c’è più la mafia sensibile e coraggiosa di prima”. Parole pesantissime, a cui sono seguite le smentite: “Frasi infelici”. Noi de Le Iene, con Ismaele La Vardera, abbiamo mandato al suo ristorante due finti mafiosi, ai quali ha confermato quelle parole: “Penso quello che ho detto”. Lunedì pomeriggio la Maraventano ha annunciato le sue dimissioni dalla Lega. Qualche giorno fa, durante un comizio a Catania a sostegno di Matteo Salvini, l’ex senatrice ed esponente leghista Angela Maraventano (nonchè ex componente della Commissione Antimafia), commentando il business che gira attorno al traffico internazionale di migranti, aveva detto: “La mafia non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Non esiste più, perché noi la stiamo completamente eliminando, aveva proseguito l’esponente leghista . Nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio””. Dichiarazioni che ovviamente hanno scatenato a livello di opinione pubblica e del mondo politico il putiferio. Subito dopo queste dichiarazioni la leghista era corsa ai ripari, parlando di “frasi infelici” e annunciando nella giornata di lunedì le sue dimissioni. Noi de Le Iene però, con Ismaele La Vardera e Massimo Cappello, le avevamo mandato nel suo ristorante due uomini che si sono presentati come “picciotti” e che volevano testimoniarle la solidarietà delle famiglie mafiose, facendole sapere che il suo messaggio dal palco era arrivato a "Cosa Nostra". E Angela Maraventano, non sapendo dio essere ripresa da una telecamera nascosta, ai due "uomini d'onore" aveva confessato di pensare davvero a ciò che aveva detto dal palco. “Pensi che con questa cosa che mi hanno combinato, che ne hanno parlato i giornali, non mi voglio fare fuori? Tutti i commenti negativi, devi morire, mafiosa…Io penso quello che ho detto, se non lo dicevo morivo, mi veniva l’ulcera. È stata una cosa più forte di me. Non devo chiedere scusa a nessuno. Perché io sono così. Come me ci sono solo io. Io vado avanti, con o senza Lega”. E aggiunge: "Io ho lanciato un messaggio, chi lo vuole prendere lo prende". Poi racconta che quando era piccola, a Lampedusa, non si muoveva una foglia, perché "c'erano persone che proteggevano il territorio". Quando arriva Ismaele La Vardera, nel pieno di quella chiacchierata con i nostri picciotti, le mostriamo i video messaggi di persone che conoscono molto da vicino la violenza mafiosa e lei ci risponde così: "Ormai qualcuno mi vuole rovinare e ci è riuscito. Per quale motivo tutta questa cattiveria che la sinistra mi vuole fare?" Alla fine interviene anche suo cognato, che le spiega di aver detto delle grandi "minchiate, delle cose immorali, che non si dicono". Poi si scusa davanti alle telecamere, ammettendo di avere detto una “minchiata”. Lunedì poi l’ex senatrice si è dimessa dalla Lega.

"Non c'è più quella mafia", Maraventano lascia Lega. Arrivano le dimissioni della ex senatrice leghista dopo la polemica scoppiata in seguito alle sue affermazioni sul palco di Catania: "Lascio la Lega, ma resterà sempre nel mio cuore. Non ci sono altri partiti per me". Federico Garau, Lunedì 05/10/2020 su Il Giornale. In seguito al grande clamore scaturito a causa delle proprie affermazioni fatte sul palco di Catania allestito dalla Lega per sostenere Matteo Salvini, l'ex senatrice del Carroccio Angela Maraventano ha preso la decisione di lasciare il partito.

I fatti. Durante la kermesse organizzata dalla Lega, la politica lampedusana aveva infatti parlato di immigrazione, attaccando il governo, e proprio nel corso del suo intervento aveva tirato in ballo la mafia, affermando: "La nostra mafia, che ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono? Non esiste più. Perché noi la stiamo completamente eliminando... Perché nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio". Affermazioni, quelle della Maraventano, che avevano subito scatenato la reazione indignata di numerosi rappresentanti politici e dei parenti delle vittime della mafia.

"Non c'è più quella mafia", bufera su Maraventano. Lega: "Ossimoro". Durissima la condanna da parte della sinistra e del Movimento 5Stelle, fra cui l'europarlamentare Dino Giarrusso, il quale aveva chiesto l'immediata espulsione della rappresentante del Carroccio. Compresa la gravità della situazione, l'ex senatrice, fra l'altro vittima di pesanti attacchi sui social, aveva cercato di spiegare il significato delle proprie dichiarazioni: "Volevo solo dire che la vecchia mafia, quella locale, non esiste più, questo era il senso, ci sono le altre invece che lavorano indisturbate. Per vecchia mafia, intendevo la difesa del proprio territorio, nel senso del coraggio che potevano avere i nostri. Non mi riferivo alla mafia brutta, quella che ha ucciso i nostri uomini valorosi". Le sue parole, tuttavia, non sono servite a placare gli animi, tanto che l'accesa polemica prosegue tuttora.

Gli attacchi alla ex senatrice. I rappresentanti del Partito democratico siciliano (si parla di almeno 30 politici) hanno subito attaccato il gruppo di centrodestra locale, reo di aver mantenuto sulla vicenda un "assordante silenzio". "Non si comprende e si stigmatizza l'assordante silenzio ed i tentativi di minimizzazione da parte dei rappresentanti delle istituzioni regionali e nazionali del centrodestra", hanno tuonato i dem, come riportato da "AdnKronos". "Non possiamo quindi tollerare il silenzio delle istituzioni siciliane. C'è solo vergogna. Il Partito Democratico continuerà ad impegnarsi nella lotta alla mafia". "Le spiegazioni di Angela Maraventano per provare a giustificare le parole orribili che aveva pronunciato dal palco della manifestazione della Lega a Catania sono la classica toppa peggiore del buco", hanno invece sentenziato i rappresentanti grillini della commissione parlamentare Antimafia. "Sono parole assurde, vergognose e offensive verso tutte le vittime della mafia e verso tutti i cittadini. Le mafie italiane purtroppo esistono ancora, anche se da anni lo Stato combatte una lotta dura che ha portato risultati importanti, senza distinzioni di provenienza. Proprio per questo le sciocchezze dette da Angela Maraventano sono pericolose oltre che inaccettabili".

La reazione della Lega e la decisione di Maraventano. La Lega non è rimasta in silenzio. Subito dopo l'accaduto, Fabio Cantarella, vice segretario regionale della Lega Sicilia, aveva definito come "un ossimoro evidentemente insostenibile" le dichiarazioni della Maraventano. In queste ultime ore, inoltre, il senatore e segretario regionale della Lega Sicilia Stefano Candiani ha duramente condannato le parole dell'ex senatrice, aggiungendo di stare aspettando delle dimissioni spontanee. "Dal palco di Catania abbiamo ascoltato delle affermazioni che contengono dei profili di ambiguità che non sono in alcun modo scusabili politicamente e soprattutto in casa Lega", ha commentato Candiani, come riportato da "AdnKronos"."Ogni tipo di giustificazione avanzata su questo tema mi sembra francamente insufficiente rispetto alla gravità delle frasi pronunciate. Le dimissioni dalla Lega rimangono l'unica scelta possibile". Dimissioni che non si sono fatte attendere. "Sì, lascio la Lega, accolgo la richiesta di Candiani, giusto così, io sono una persona seria", ha infatti comunicato oggi la Maraventano. "Io continuerò a fare la mia battaglia, contro le mafie dei tunisini e dei nord africani, vado avanti per la mia strada". La Lega, ha spiegato l'ex senatrice, resterà sempre nel suo cuore, dal momento che ne ha sposato la causa. "Me ne sono andata perché voglio tutelare il mio partito, ma resto leghista. È questa la mia storia, non ci sono altri partiti per me... sono e resto una donna di destra, di estrema destra", ha aggiunto, parlando ai microfoni di "AdnKronos". "Ho sbagliato a esprimermi in quel modo, non sono di certo mafiosa... chiedo scusa anche alle famiglie che si sono sentite offese".

Comuni sciolti per mafia, neppure la gestione commissariale colma deficit trasparenza. Franco Mostacci su Il Foglietto il 28 Ottobre 2020. Tra i 1.177 Comuni che sono andati al voto nelle recenti elezioni amministrative, sono 17 quelli sciolti per infiltrazione mafiosa nel 2018 che, dopo due anni di Commissariamento prefettizio, sono tornati ad eleggere il Sindaco e il Consiglio comunale. Tre di essi si trovano in provincia di Napoli (Caivano, Calvizzano e San Gennaro Vesuviano); 4 in Puglia (Mattinata, Sogliano Cavour, Surbo e Manduria); 7 in Calabria (San Gregorio d'Ippona, Briatico, Limbadi, Platì, Scilla, Cirò Marina e Strongoli); 3 in Sicilia (Trecastagni, Bompensiere, Camastra). Si tratta di Comuni di dimensioni medio-piccole che vanno dagli oltre 37 mila abitanti di Caivano (NA) agli appena 526 di Bompensiere (CL), con una media di 10 mila iscritti in anagrafe, anche se una parte di essi vive altrove. Sebbene si debba escludere che la causa dello scioglimento per infiltrazione mafiosa sia imputabile al Sindaco, perché in tal caso non potrebbe ricandidarsi, sono molte le situazioni in cui si assiste a un ritorno al passato dopo la parentesi del commissariamento. A contendersi l'elezione sono state in genere 2-3 liste civiche e solo in rarissimi casi si espongono i partiti nazionali. Al comune di San Gennaro Vesuviano (NA) si è presentata una sola lista, ed è stato rieletto Sindaco Antonio Russo, già eletto nel 2014, poi sfiduciato ad aprile 2017 dalla propria maggioranza, prima che a febbraio 2018 fosse riconosciuta la situazione di infiltrazione o condizionamento di tipo mafioso che, ai sensi dell'articolo 143 del Dlgs 267/2000 (testo unico degli enti locali), dà luogo alla gestione commissariale. Tornano a fare i Sindaci anche Pasqualino Ciccone a Scilla (RC) con il 98% dei voti e Rosario Sergi a Platì (RC) con il 78%, entrambi in comuni sciolti nel 2018. Hanno preferito tornare a un lontano passato, chissà forse nella speranza di un miglioramento, a Calvizzano (NA), dove ha vinto Giacomo Pirozzi, già Sindaco nel 2003; a Manduria (TA), dove Gregorio Pecoraro era già stato primo cittadino nel 1994 e 1998; a San Gregorio d'Ippona (VV), dove ha vinto Pasquale Farfaglia, già Sindaco nel 2002 e 2005. Invece, non ha precedenti esperienze Vincenzo Falco, a Caivano (NA), sostenuto da una coalizione di centrosinistra. Come misura di contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni criminali, il biennio di commissariamento avrebbe dovuto colmare il deficit di trasparenza nell'assolvimento degli obblighi previsti dal decreto legislativo 33/2013, con il quale è stata anche istituita la pagina "Amministrazione trasparente" del sito internet di ciascun ente, dove è prevista la pubblicazione tempestiva di documenti e dati di interesse per i cittadini. La situazione, invece, è assai deludente, come emerge dalla consultazione web effettuata a pochi giorni dalle elezioni sui 17 comuni interessati, per verificare la presenza di 14 obblighi di pubblicazione, inclusa la relazione di fine mandato prevista dal decreto legislativo 149/2011. Il comune di Cirò Marina (KR) colleziona 14 inadempimenti (100%), con la pagina "Amministrazione Trasparente" praticamente priva di contenuti; non va molto meglio a Briatico (VV) dove mancano o non sono aggiornate 11 sezioni (79%), e a San Gennaro Vesuviano (NA), Platì (RC), Strongoli (KR) e Bompensiere (CL), ciascuno con 10 carenze (71%). Un ottimo lavoro è stato invece svolto dalla gestione commissariale a Surbo (LE), dove tutte le pagine consultate risultano aggiornate. Nella sezione relativa all'organizzazione, tra i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo, sono 6 i Comuni in cui non è possibile consultare la composizione della gestione commissariale, dove oltre ai nominativi andrebbero pubblicati anche i curriculum e i compensi. Il 76% dei 17 Comuni non ha pubblicato il bilancio di previsione 2020-2022 e il 65% il rendiconto per il 2019, i cui termini di approvazione sono slittati quest'anno dal 30 aprile al 30 giugno per l'emergenza sanitaria, con il comune di Briatico in dissesto finanziario. Sul fronte della prevenzione della corruzione, 4 Comuni non hanno predisposto il Piano triennale 2020-2022 e in 6 manca la relazione del responsabile sulle misure adottate nel 2019. La sezione 'Accesso civico' dovrebbe contenere il nominativo del responsabile della trasparenza e l'indirizzo di posta elettronica al quale inviare richieste di accesso civico 'semplice' (per i contenuti la cui pubblicazione è obbligatoria) o "generalizzato" (altri documenti e dati prodotti dall'amministrazione). In più della metà dei Comuni, tali informazioni non sono disponibili e per poter esercitare l'accesso civico il richiedente è costretto a cercare nel sito le coordinate del destinatario, sperando di non sbagliare. Sono 6 i Comuni che non mettono a disposizione i dati sui pagamenti direttamente o rinviando al sito nazionale Soldi pubblici, mentre salgono a 10 (59%), quelli che non hanno pubblicato l'indicatore di tempestività dei pagamenti per l'anno 2019, dal quale si ricava che le fatture commerciali sono pagate mediamente 134 giorni dopo la scadenza, con una punta massima di 242 giorni di ritardo a Caivano (NA). Il controllo sugli appalti pubblici è una delle principali cause che determinano lo scioglimento di un'amministrazione comunale per infiltrazioni mafiose ed è particolarmente grave che ben 7 di esse (41%) neghino la possibilità di conoscere gli elementi informativi relativi ai contratti di lavori, servizi e forniture. Per 14 Comuni (82%), non è possibile sapere se l'ente ha locazioni passive e a quanto ammontino i relativi canoni eventualmente corrisposti. Per la parte relativa ai controlli interni, non è nota la composizione di 6 Organismi indipendenti di valutazione (o Nuclei di valutazione), per i quali dovrebbe essere pubblicata anche la delibera di nomina e i compensi ricevuti, mentre 5 di essi hanno omesso la griglia sull'assolvimento degli obblighi di pubblicazione per l'anno 2019 e 11 gli eventuali controlli, rilievi e relazioni della Corte dei Conti. La condizione di diffusa inadempienza agli obblighi di trasparenza, rilevata alla vigilia dell'elezione del Sindaco e del Consiglio comunale, non è un buon viatico per ripristinare la legalità e la normalità dell'azione amministrativa in territori nei quali sono già emersi elementi di collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata o forme di condizionamento nei confronti degli organi elettivi. Non resta che auspicare un intervento normativo che renda più cogenti gli adempimenti sulla trasparenza da parte della gestione commissariale, a partire da quando si insedia fino alla conclusione, con la relazione di fine mandato.

Fu vera mafia? Un’analisi sui Comuni sciolti per mafia in Sicilia e sulla relativa legge. Salvo Vitale su Telejato.it il 21 ottobre 2020. L’ANALISI DI SALVO VITALE. Il DL 164/1991, recante Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente e a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso ha introdotto, modificando precedenti disposizioni, le norme sullo scioglimento degli enti locali, ulteriormente aggiornate dal D.L 267 del 2000. La procedura parte dalle relazioni e richieste delle forze dell’ordine trasmesse al Prefetto, il quale dispone i relativi accertamenti nominando un’apposita Commissione. Ultimati i lavori i commissari trasmettono la relazione al prefetto, il quale, ove riscontri gli estremi dello scioglimento, inoltra la proposta al Ministro degli Interni; a sua volta il Ministro la trasmette al Consiglio dei Ministri, il quale sottopone la richiesta approvata alla firma del presidente della Repubblica. Da quel momento scatta la nomina dei commissari governativi, che operano dai 12 ai 18 mesi, prorogabili a 24 prima che si vada a nuove elezioni, alle quali non sono ricandidabili solo alcuni consiglieri specificamente indicati previa dichiarazione del tribunale civile, coinvolti in rapporti di collusione con le consorterie mafiose per lo più locali. La sanzione dello scioglimento è giustificata dalla straordinarietà, poiché interviene sull’autonomia degli enti locali e su rappresentanti della volontà popolare regolarmente eletti ma la Corte Costituzionale, con sentenza n.103 del 1993, puntando su una forzatura giurisprudenziale motivata dall’emergenza a causa della criminalità mafiosa, ne ha sancito la costituzionalità. Condizione per lo scioglimento è l’individuazione di elementi concreti, univoci e rilevanti: la legge concede un margine di ampia discrezionalità nell’individuazione di questi elementi, e non richiede la presenza di reati perseguibili penalmente oppure l’applicazione di misure di prevenzione, ma diventa operativa quando si riscontrano infiltrazioni o intimidazioni ad opera delle cosche che operano sul territorio, nei confronti degli amministratori locali. In tal caso, per una strana anomalia, si mandano a casa i consiglieri comunali, che potrebbero essere vittime, e non si procede penalmente nei confronti dei protagonisti mafiosi. Bastano indizi documentati e comunque confermati in più occasioni, concordanti, al di là del riscontro di qualche prova rigorosa di coinvolgimento degli amministratori. In genere chi compila la prima relazione, la quale viene poi quasi sempre riportata nelle successive redazioni, si sofferma sul clima di intimidazione e omertà che caratterizza la vita locale, sulle irregolarità nella gestione degli appalti (settore privilegiato è quello dei rifiuti), sulla mancata applicazione delle normative del codice antimafia, e quindi su eventuali affidamenti a ditte colpite da interdittiva della prefettura. L’interdittiva vale anche, come successo a Partinico, quando è stata emessa dopo i contatti relativi ai momenti in cui è stato commesso il fatto. In linea di massima si ricostruiscono parentele, procedimenti penali passati o in itinere, motivazioni nascoste o sospette dietro le delibere dei consigli comunali, nel tentativo, spesso ipotizzato e non provato, di contatti con la criminalità organizzata, rilevabili per lo più da intercettazioni. Il dato che emerge, nella quasi totalità dei casi, è che a pagare non è nessuno e che, malgrado copia delle relazioni di scioglimento sia inviata alle Procure della Repubblica, non sono attivati procedimenti penali nei confronti dei presunti responsabili, chiara dimostrazione questa che non ci sono i presupposti per avviare l’iter processuale. Idem dicasi per la macchina comunale, ovvero per l’insieme dei dipendenti e dirigenti amministrativi, che rimangono al loro posto o che, tuttalpiù sono spostati da un settore all’altro senza subire decisioni o sanzioni punitive. Dal 1991 al 2020 sono stati sciolti 338 Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, di cui 25 annullati a seguito di ricorso. Di questi in Calabria sono 117, in Campania 107, in Sicilia 82, in Puglia 18, pochi altri nelle restanti regioni d’Italia. Gli scioglimenti possono essere motivati anche da altre cause, come la sfiducia al sindaco e la mancata approvazione del bilancio. Attualmente in Sicilia sono 12 i Comuni sciolti per vari motivi, soprattutto per questioni politiche o per mancanza di bilanci, mentre il 52% degli scioglimenti degli enti comunali è avvenuto per infiltrazioni mafiose. Attualmente, secondo un dato dell’aprile del 2020, a cura della fondazione Openpolis sono 25 i Comuni dell’Isola commissariati e ben 13 hanno subìto le pressioni della criminalità organizzata, con la più alta percentuale a livello nazionale. Nel 2019 nella provincia di Palermo sono stati tre i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: San Cipirello (il 20 giugno del 2019), Torretta (l’8 agosto del 2019) e Mezzojuso (il 16 dicembre 2019). Anche nella provincia di Catania sono stati tre i comuni sciolti per mafia: Trecastagni (l’11 maggio 2018), Misterbianco (l’1 ottobre 2019) e Maniace (il 16 maggio 2020). Nella provincia di Agrigento sono stati sciolti Camastra (2018) e San Biagio Platani (2018), in quella di Caltanissetta Bompensiere (2018) e San Cataldo (2019), nel messinese Mistretta (2019), nel ragusano Vittoria, nel siracusano Pachino. In genere si tratta di comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti, nei quali è più facile individuare il fitto reticolo di parentele e il modo di muoversi e agire dei mafiosi locali. Sullo scioglimento di Scicli è intervenuto anche il presidente della Commissione Regionale Antimafia Claudio Fava, ritenendolo immotivato. In provincia di Palermo c’è una storia più complessa che ha coinvolto in passato diversi comuni, come Cinisi, sciolto 20 anni fa, si disse per volontà di Alfano nei confronti di una giunta di centrosinistra, Giardinello e Altavilla Milicia, dove il TAR aveva accolto i ricorsi contrari allo scioglimento, poi confermato da decisioni istituzionali, Borgetto, dove invece il TAR aveva ritenuto motivato lo scioglimento, comunque confermato diciamo “a tavolino”, malgrado, in un pubblico processo contro Pino Maniaci il pm Amelia Luise abbia recentemente sostenuto che i comuni possono essere sciolti anche per “sospetti” di infiltrazione, senza che questo determini la colpevolezza di sindaci o consiglieri. Gli scioglimenti più recenti sono stati quelli di Corleone, Sancipirello, dove i Commissari hanno chiesto una proroga di due mesi, e ultimamente quello di Partinico, ma già i Commissari ispettivi sono arrivati a San Giuseppe Jato e qualche altro Comune sente sul collo il fiato dell’ispezione. Un caso a parte è quello di Partinico, comune in dissesto finanziario, dove, dopo le dimissioni del sindaco De Luca (3 maggio 2019) si è installato nel giugno 2019 un commissario regionale, sino all’arrivo dei tre ispettori governativi, che hanno esautorato il commissario, a seguito dello scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Inevitabile una riflessione: per giustificare lo scioglimento basta il fumus, cioè la costruzione di un insieme di elementi finalizzati alla proposta, ma che non ha alcuna rilevanza penale e che, per contro, espone consiglieri comunali, abitanti, dipendenti all’infamante accusa non dimostrata, o dimostrata attraverso forzature pretestuose, di collusioni mafiose, alle quali si fa ricorso, anche ricostruendo lontane presenze, che hanno caratterizzato le vicende lontane di alcuni comuni e che sono ormai scomparse o che stanno scontando le loro colpe nelle patrie galere o ai domiciliari. Una vicenda simile, se non parallela si verifica per quel che riguarda l’applicazione dei sequestri e delle confische portate avanti dalle misure di prevenzione, che hanno un loro percorso sganciato dai procedimenti penali e che spesso portano al paradosso del sequestro confermato, rispetto all’assoluzione penale da ogni accusa, oppure alla restituzione del bene sequestrato, ma non più nelle condizioni economiche di quando è stato sequestrato. In entrambi i casi vale la cosiddetta “legge del sospetto”, che ha le sue lontane origini ai tempi dell’inquisizione e che è stata poi messa in atto durante la Rivoluzione francese. Se è vero che “il sospetto è l’anticamera della verità”, il sospetto non è la verità, ma, nel caso dei sequestri, diventa lo strumento di prevenzione al quale ricorrere in attesa dell’accertamento della verità, nel caso degli scioglimenti, ove si escluda la possibilità di ricorso al TAR, diventa una “misura” punitiva alla quale è difficile sottrarsi. Sarebbe auspicabile in tal caso un raccordo tra i vari rami della giustizia, nello specifico quello amministrativo, quello penale e quello politico, prima di procedere con drastiche decisioni. Tali misure nate nel momento dell’emergenza e in situazioni nelle quali i boss mafiosi dimostravano il loro potere e la loro capacità di controllo, ottenendo spesso assoluzioni, malgrado certe visibili ostentazioni di reato, oggi andrebbero rimodulate, non tanto per cambiare le leggi, a cominciare dalla Rognoni La Torre, che nessuno vuol mettere in discussione, ma per arrivare a una equilibrata e precisa individuazione della colpevolezza prima di procedere a decisioni che sospendono le scelte di democrazia in mano ai cittadini, e il loro diritto ad essere amministrati non da funzionari che hanno i poteri del podestà fascista, ma da rappresentanti regolarmente eletti. I tempi non sono più quelli di una volta e l’uso politico dello scioglimento non sempre produce i risultati proposti, sia perché penalmente non paga nessuno, sia perché alle successive elezioni comunali si ritroveranno le stesse persone a contendersi le cariche comunali. Tratto da antimafiaduemila.com

DATAROOM. Comuni sciolti per mafia, ecco perché Gomorra non se ne va. Riccardo Bruno (e Milena Gabanelli) su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2020. Gli ultimi due Comuni sciolti per mafia, all’inizio di agosto, sono calabresi: Cutro e Sant’Eufemia d’Aspromonte. Dieci giorni prima era stata la volta di Partinico, in Sicilia. Dall’inizio dell’anno sono già 9 le amministrazioni comunali mandate a casa (tra cui quella di Saint-Pierre, la prima in Valle d’Aosta), undici in cui la gestione dei commissari è stata prorogata. In quasi trent’anni, da quando nel 1991 è stata introdotta la legge sull’onda dell’emozione per il macabro omicidio di un innocente, il salumiere Giuseppe Grimaldi a Taurianova, sono stati 349 i decreti di scioglimento e 216 quelli di proroga.

Quando scatta il decreto. Sciogliere un Comune, mandare a casa gli eletti dal popolo, è una misura estrema, un decreto firmato dal Capo dello Stato solo quando emergono collegamenti «concreti, univoci e rilevanti» tra la criminalità e gli amministratori locali. La finalità è soprattutto preventiva, non sanzionatoria. Qualora si sospetti che i clan influenzino gli atti di un ente pubblico, il Viminale nomina una commissione d’indagine che ha tre mesi (più tre di proroga) per consegnare una relazione al prefetto. Se reputa che ci siano i presupposti, il prefetto trasmette le carte al ministero dell’Interno che propone a Palazzo Chigi lo scioglimento. In tal caso, viene nominata una commissione straordinaria di tre membri che si insedia e guida il Comune dai 12 ai 18 mesi, prorogabili a 24 in casi eccezionali. Dopodiché si tengono nuove elezioni. Un iter lungo e complesso che finora ha toccato ben 263 enti, compresi un capoluogo di provincia (Reggio Calabria) e sei aziende ospedaliere. Praticamente oltre il 3% dei 7.903 comuni italiani sono stati sciolti, in 50 casi il decreto è scattato due volte, in 18 addirittura tre. Lo scorso anno oltre 900 mila italiani non sono stati più amministrati dagli organi locali che avevano eletto. Quella sui comuni sciolti per mafia è una normativa pilastro nella lotta alla criminalità organizzata, tuttavia, dopo tre decenni, mostra crepe e lacune. E da più parti se ne chiede la modifica. Attualmente sono in discussione alla Camera dei deputati tre proposte di riforma, che cercano di rimediare ai problemi emersi durante l’applicazione.

Pochi commissari. Partiamo dai 68 comuni sciolti più di una volta, come Casal di Principe (Caserta) tra i primi ad essere sciolti nel 1991, e poi ancora nel 1996 e nel 2012. È evidente che i tempi previsti dalla legge in cui può operare la commissione straordinaria (2 anni al massimo) a volte non sono sufficienti a recidere i fili del malaffare. Quali le ragioni? L’associazione Avviso pubblico, che mette in rete 400 enti locali e 10 regioni e che attraverso l’Osservatorio parlamentare monitora costantemente la situazione, indica tra l’altro la «penuria di risorse umane e strumentali» delle commissioni. Chi subentra al posto di sindaco e giunta, è un numero ristretto di funzionari, quasi sempre costretti a dividersi tra più impegni, con scarse risorse finanziarie e con pochi mesi a disposizione. La legge 132 del 2018, di cui però manca ancora il decreto ministeriale attuativo, prevede un «nucleo» di uomini da cui attingere in caso di scioglimento, formato da 50 persone. Troppo poche, secondo il Sinpref, l’Associazione sindacale dei funzionari prefettizi, che chiede di arrivare ad almeno 75 unità, ma anche di prevedere «sezioni apposite in cui siano presenti, per esempio, professionisti con competenze finanziarie visto che quasi un comune su tre (il 28,6%) di quelli sciolti ha dichiarato il dissesto o è ricorso alla procedura di riequilibrio (a fronte di una media nazionale del 4,7%). Personale adeguato e competenze specifiche che andrebbero previste anche per le commissioni di accesso.

L’ostilità dei dipendenti. Per i commissari imprimere una svolta a un Comune sciolto è spesso una vera e propria impresa: si ritrovano ad operare con una struttura di dirigenti e impiegati legati ai politici rimossi, se non direttamente agli ambienti criminali. In più la popolazione e’ in gran parte scettica, o indifferente, se non ostile. Lo certificano i dati contenuti nell’ultima relazione del Viminale al Parlamento dello scorso maggio. I commissari trovano un atteggiamento «indifferente anche protratto nel tempo» nel 7,3% dei casi, addirittura ostruzionistico e indisponibile (9,1%), oppure di finta collaborazione (14,5%). In un comune su due (51%), i commissari devono districarsi tra chi collabora e chi invece prova a mettergli i bastoni tra le ruote. Atteggiamenti che per il 65,5 per cento dei casi rimangono inalterati anche dopo la gestione straordinaria.

L’indifferenza dei cittadini. Sempre il rapporto del Viminale segnala che più della maggioranza (54,5%) percepisce lo scioglimento con indifferenza, a volte con indignazione (32,7%), rassegnazione (25,5%), come una perdita di tempo (12,7%), come un complotto politico (11%), con stupore (11%) e perfino con paura (3%). Ha rilevato il presidente del Sinpref Antonio Giannelli nell’audizione alla Camera: «La Commissione straordinaria è come se entrasse in una stanza buia e si muovesse a tentoni in un ambiente spesso ostile e certamente poco collaborativo». E così spesso due anni non bastano, e se gli scioglimenti si ripetono la paralisi del Comune diventa infinita. Con perdita di fiducia nello Stato che finisce per alimentare proprio quelle metastasi che si vogliono eliminare.

Pochi casi al Nord. Un altro dato salta subito all’occhio, scorrendo trent’anni di scioglimenti. Su 349 casi, soli 13 hanno toccato comuni fuori dalle regioni meridionali con tradizionali radicamenti mafiosi, appena il 3,7%. Una cifra troppa bassa, anche tenendo conto del radicamento storico delle mafie nel Sud. La Calabria è la regione con il numero più alto numero: 123 enti sciolti, con Reggio Calabria che guida con 70 casi la poco prestigiosa classifica delle province, seguita da Campania (110), Sicilia (84) e Puglia (19). Eppure le inchieste negli ultimi anni hanno purtroppo svelato come le cosche hanno trovato radici e nuove collusioni al Nord, dove peraltro riescono a intercettare più ingenti flussi di denaro. Una migrazione geografica a cui non fa riscontro un incremento dei consigli comunali sotto osservazione o sciolti.

La conoscenza degli atti. Da tempo si chiede anche maggiore trasparenza. Aspetto sottolineato dal coordinatore di Avviso Pubblico nella recente audizione alla Camera: «risulterebbe di fondamentale importanza la pubblicazione in forma integrale di tutti i documenti funzionali all’individuazione delle cause che hanno condotto allo scioglimento dell’ente». Attualmente vengono rese pubbliche solo le relazioni del ministero dell’Interno e del prefetto, ma non quella della commissione di accesso che è sicuramente più puntuale e dettagliata. Così come nessuna pubblicità è prevista se si decide di non procedere allo scioglimento (i decreti di archiviazione sono stati finora 52, di cui 5 nel 2020). Una maggiore trasparenza permetterebbe di capire meglio cosa ha spinto lo Stato a una misura così drastica nei confronti di amministratori, che ovviamente ogni volta protestano innocenza e gridano allo scandalo. In alcune circostanze probabilmente non a torto. In 23 casi infatti i decreti di scioglimento sono stati annullati, ovvero il Tar o il Consiglio di Stato hanno accolto i ricorsi e reputato che non c’erano i presupposti per interrompere quell’esperienza di governo. Che tuttavia c’è stata, provocando comunque una ferita nella comunità.

Il rischio di distorsioni. La Commissione siciliana antimafia, nella relazione dello scorso aprile sul «ciclo dei rifiuti», ha denunciato possibili forzature della legge. Cita espressamente tre scioglimenti (Siculiana, Scicli e Racalmuto) e manifesta «la preoccupazione che ci possa essere stato un uso disinvolto e strumentale delle norme» e che, «in taluni casi, lo scioglimento sia oggettivamente servito a rimuovere, assieme alle amministrazioni comunali, le posizioni contrarie che quelle amministrazioni avevano formalizzato sulla apertura o sull’ampliamento di piattaforme private per lo smaltimento dei rifiuti». Non c’è dubbio che la legge sullo scioglimento dei comuni è un’arma potente per fermare gli interessi dei clan su appalti e controllo del consenso. Una lama per recidere legami illegali che però andrebbe affilata, come chiede chi si trova a operare in questi contesti complicatissimi.

Scicli, il comune sciolto per mafia: ma era un’invenzione di media e Pm…Giorgio Mannino su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Siculiana, Racalmuto, Scicli. Tre paesi accomunati dalla bellezza dei loro territori ma anche dal fatto di essere stati sciolti per mafia. Provvedimenti, però, gravidi di dubbi, coincidenze, anomalie, strane sviste, retti da un’impalcatura giudiziaria che – nei confronti degli amministratori – molto rapidamente, è crollata a colpi di assoluzioni. Sullo sfondo, a legare le vicende dei tre paesi siciliani, c’è l’affare del ciclo dei rifiuti. La cui gestione, in Sicilia, è prevalentemente affidata a privati con gravi conseguenze economiche e ambientali. Tre casi legati dallo stesso canovaccio: un’indagine giudiziaria che individua un’ipotesi di reato per fatti di mafia, un nutrito coro di voci provenienti dal mondo giornalistico, istituzionale e politico a sostegno delle accuse di collusioni con le organizzazioni criminali, poi l’esecuzione del provvedimento e infine l’incredibile assoluzione, in sede penale, di quegli amministratori precedentemente accusati. I casi di questi tre scioglimenti sembrano rappresentare il paradigma di una lotta alla mafia retorica svuotata di contenuti e di fatti. Utilizzata come clava per fare carriera e affari. E così, anche laddove la mafia non c’è o quanto meno non è infiltrata in amministrazioni comunali sane, bisogna inventarla. A tutti i costi. A ricostruire le storie di questi tre scioglimenti sospetti è stata la Commissione Parlamentare Antimafia dell’Assemblea Regionale Siciliana presieduta dal presidente Claudio Fava. Prima con un’inchiesta sul ciclo dei rifiuti approvata lo scorso 16 aprile a cui è seguita, lo scorso 8 settembre, la relazione conclusiva sullo scioglimento del Comune di Scicli. Nella quale si matura il dubbio di «un uso disinvolto e strumentale delle norme del Testo Unico sugli Enti Locali – scrive la Commissione – che disciplinano lo scioglimento dei consigli comunali. E che, in taluni casi, lo scioglimento sia oggettivamente servito a rimuovere le posizioni contrarie che quelle amministrazioni avevano formalizzato sulla ventilata apertura o sull’ampliamento di piattaforme private per lo smaltimento dei rifiuti». «Il caso di Scicli – ha spiegato il presidente Fava – rispetto agli altri due Comuni analizzati, Siculiana e Racalmuto, ci è sembrato mostrasse elementi di contraddizione più palesi e più violenti».

Rifiuti e petrolio. Secondo la Commissione Antimafia, le ragioni dello scioglimento per mafia del Comune di Scicli, avvenuto nel 2015, si collegherebbero all’impresa Acif – operante nel settore della raccolta rifiuti – e al progetto di ampliamento del suo impianto di trattamento e recupero di rifiuti pericolosi. E qui si manifesta la prima di una lunga serie di coincidenze. Infatti, è il 2014, «all’indomani di un parere negativo espresso nei confronti del progetto di ampliamento presentato da Acif – scrive l’Antimafia – l’amministrazione comunale viene travolta da un’inchiesta giudiziaria. L’indomani il prefetto di Ragusa (Annunziato Vardè, ndr) nomina una commissione di accesso agli atti del Comune. Il 17 luglio il sindaco Franco Susino – sul conto del quale si sono persino stranamente interessati i servizi segreti interni per acquisire informazioni – riceve un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Il 29 aprile del 2015 viene disposto lo scioglimento».  Nel 2016 l’Acif otterrà l’autorizzazione. Ma il percorso dello scioglimento inizierebbe già nel 2012 quando Susino si oppone al raddoppiamento della piattaforma petrolifera Vega che ha bisogno di un passaggio a terra per sbarazzarsi dei rifiuti.

Mafia a tutti i costi. Lo scioglimento per mafia del Comune di Scicli è determinato, come scritto dalla commissione prefettizia, dall’inchiesta penale a carico di Susino, reo di intessere relazioni pericolose con Franco Mormina assunto dalla Eco. Seib, ditta che aveva in appalto la raccolta dei rifiuti a Scicli. Mormina viene accusato di essere il boss mafioso capo della cosiddetta “banda degli spazzini”. Intanto, mentre la commissione prefettizia deve ancora decidere se sciogliere o meno il Comune, stampa e attività istituzionali ripetono a reti unificate, con certezza, che a Scicli c’è una cupola mafiosa. Poi si arriva a un processo. E quella che era stata spacciata per una verità acclarata, viene ribaltata: il gip del tribunale di Ragusa, riferendosi alla posizione di Susino, afferma che «è inaudito che l’imputazione abbia superato il vaglio dell’udienza preliminare!». Mormina viene assolto con sentenza definitiva sia dall’accusa di associazione mafiosa che da quella di associazione a delinquere semplice. Viene condannato per furto di carburanti e tentata violenza privata e estorsione. Mormina, dunque, non è mafioso. Eppure per il prefetto, i commissari prefettizi, il Tar, il Consiglio di Stato, «l’inchiesta penale è dirimente» per valutare il provvedimento di scioglimento. La storia potrebbe anche finire qui, ma c’è di più. Mancando l’autorevole voce dell’amministrazione comunale a tutela dell’ambiente, l’Acif ottiene l’autorizzazione all’ampliamento della discarica. Per i commissari prefettizi, che avrebbero dovuto tenere conto delle denunce della giunta Susino, derubrica l’autorizzazione come “una svista”. Ma le sviste, in questa storia, sono tante. Dagli atti risulta che Mormina sia stato assunto dall’Eco Seib prima che Susino diventasse sindaco. E che, inoltre, il licenziamento di Mormina – per questioni di budget – allora considerato il boss della presunta cupola di Scicli è avvenuto durante l’amministrazione di Susino. Informazioni che la prefettura di Ragusa avrebbe dovuto inviare alla commissione ministeriale. Ormai, però, l’accusa di associazione mafiosa non doveva crollare.

“Un’esperienza drammatica”. «È stata un’esperienza drammatica della quale, ancora oggi, sento il peso dal punto di vista fisico e psicologico. Mi sono sentito tradito dalle istituzioni. Tradito perché i commissari che hanno fatto l’accesso agli atti non hanno mai menzionato la mia azione amministrativa», dice l’ex sindaco Susino con la voce increspata dall’emozione. «Sulla mia attività – aggiunge – legata ai conti sul costo della raccolta dei rifiuti non risulta niente. Su questo aspetto, che poi è stata l’impalcatura della mia accusa in sede penale, non hanno scritto niente. Dovevamo essere eliminati politicamente». E sulla legge che regolamenta lo scioglimento dei comuni infiltrati dalla mafia non ha dubbi: «Dovrebbe essere rivista perché non ci sono contraddittori e nessuno controlla il lavoro dei commissari prefettizi». Oggi Susino continua a interessarsi alle politiche ambientali del paese. Camminando per le vie di Scicli spesso incontra un suo concittadino che gli ripete: «Dottore, glielo dicevo io che era troppo onesto per fare il sindaco».

Ecco perché Scilla ha fatto bene a rileggere il sindaco “sciolto per mafia” dallo Stato. Aldo Varano su Il Dubbio il 23 settembre 2020. Il sindaco di Scilla Pasquale Ciccone, mai condannato, è stato rieletto col 97% dei voti: i circa 5mila abitanti, l’hanno preso in braccio, come avviene nelle nostre processioni col Santo protettore, e l’hanno ricollocato al posto che gli spetta, alla testa del Comune dove l’avevano già mandato e messo per fare il sindaco. C’è stupore in Italia perché in un piccolo Comune della provincia di Reggio, tra i più noti al mondo dai tempi dell’Iliade e dell’Odissea, ha attribuito al suo sindaco 2.757 preferenze che fanno il 97,84 per cento dei votanti. Quando un fenomeno del genere si realizza non in un paesino quasi morto e disabitato tra le montagne alpine o appenniniche ma in una comunità di 5000 abitanti (e molti altri di più distribuiti nel resto del mondo) da tanti secoli adusa a incontrare e scontrarsi con Cariddi, vuol dire che è accaduto qualcosa che parla e chiede conto alla coscienza civile del Paese, un’implorazione e uno sforzo che merita attenzione e aiuto dall’Italia perché ha creato una rivolta civile ed ha avanzato una proposta di civiltà. Ma procediamo con ordine. Il sindaco eletto con questo forse inedito plebiscito, Pasquale Ciccone, è lo stesso che quando il “Comune venne sciolto per mafia” come recita una dizione decisamente imprecisa ma molto efficace, era il sindaco in carica a Scilla, dove era stato eletto con una percentuale, tiro a indovinare, certamente molto più bassa. I suoi concittadini di tutte le tendenze, ora cioè dopo lo scioglimento, rinunciando alle loro divisioni, che ricordo sempre energiche ed esplicite, più o meno simili in tutti i paesi da 5000 abitanti, l’hanno preso in braccio, come avviene nelle nostre processioni col Santo protettore, e l’hanno ricollocato al posto che gli spetta, alla testa del Comune dove l’avevano già mandato e messo per fare il sindaco. A Scilla sono tutti mafiosi che si muovono come tante marionette secondo le indicazioni di un “Crimine”, il vertice assoluto della ‘ndrangheta, Uno e Molteplice, che dirige tutte le ndranghete del mondo e furoreggia, soprattutto sui libri e sui giornali che vanno a ruba tra i lettori di cultura medio-bassa del paese? Improbabile, anche se nessuno immagina che li abitino solo sirene e marinai o scommetterebbe sulla radicale inesistenza di delinquenti e/o mafiosi. Il voto ha un’unica spiegazione: Scilla non accetta di essere spacciata e diventare una delle cento e oltre capitali della ‘Ndrangheta. Non sfida lo Stato e l’ordine pubblico, ma la sua incapacità a individuare problemi e responsabilità quando esistono veramente e risolvere veramente a non per l’occhio della gente e dei giornali. Ciccone viene rieletto perché in tutto il periodo di scioglimento del Consiglio non è stato investito da alcun giudizio, neanche uno di quelli discutibili e secondari della legge Severino. Lo scioglimento dei Consigli è in realtà un’arma terroristica che come tutti i terrorismi non riesce quasi mai a mantenere quel che promette. Fa però danni alle persone e alle economie dei paesi che vengono coinvolte con una furia che non è mai conseguenza di un atto giudiziario. Che si sappia non c’è nessun Consiglio comunale o di altri enti sciolti per mafia che, dopo la purga del commissariamento, sia stato veramente ripulito, quanto c’erano, dai condizionamenti mafiosi. Personalmente ricordo un’assemblea a Reggio Calabria (salone dell’Assindustria) dove l’allora senatore Luigi De Sena, in quel momento vice presidente della Commissione nazionale Antimafia (che stava per scadere per nuove elezioni) e già “superprefetto” della Calabria e in precedenza stimato vice capo della polizia italiana, rivelò pubblicamente che l’Antimafia, dopo avere ordinato uno studio, aveva scoperto che non in uno solo degli oltre 200 (tanti erano allora) enti sciolti erano stati risolti i problemi che avevano provocato lo scioglimento. Purtroppo De Sena non ebbe il tempo per rimettere in discussione quella legge come avrebbe voluto. Lo scioglimento scatta normalmente perfino quando in un Consiglio comunale non c’è nessun condannato, cioè quando a nessuno dei suoi componenti vengono imputati crimini o violazioni della legge. E’ un meccanismo che scatta sulle dicerie, le parentele, i sospetti. Anziché su reati o accuse di precisi reati. Lo scioglimento per mafia infama un’intera comunità però quando in quella comunità un problema c’è non riesce a risolverlo. Anzi, si rovescia nel suo esatto contrario dimostrando che mascalzoni ladri e mafiosi possono dormire tra due guanciali. Scilla s’è civilmente rivolta contro tutto questo. E ha fatto bene.

 “I figli dell’esattore boss e le ditte di 'Ndrangheta”. Controllo giudiziario per la società dei Salvo in Emilia. Le indagini della polizia hanno messo in risalto le relazioni con imprenditori vicini al clan Grande Aracri di Cutro. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 14 settembre 2020. Negli anni Settanta e Ottanta, era uno degli uomini più potenti e ricchi della Sicilia: Ignazio Salvo gestiva con il cugino Nino le esattorie. "Entrambi sono uomini d'onore", disse il pentito Tommaso Buscetta al giudice Giovanni Falcone, che poi arrestò i due imprenditori. Oggi la storia della famiglia Salvo ritorna d'attualità, per un provvedimento del tribunale di Bologna che ha imposto il "controllo giudiziario" alla società "LG Costruzioni srl" di Reggio Emilia, gestita dai figli di Ignazio Salvo, Luigi e Maria (fra i soci c'è anche la vedova dell'imprenditore), che da anni ormai si sono trasferiti in Emilia Romagna. Un provvedimento, della durata di un anno, proposto dal procuratore di Bologna Giuseppe Amato e dal questore di Reggio Emilia, Giuseppe Ferrari. Il "controllo giudiziario" prevede la nomina di un amministratore giudiziario che si affiancherà agli amministratori della società, per allontanare il rischio di infiltrazioni mafiose. Le indagini della polizia hanno accertato che la "LG Costruzioni", impegnata nella realizzazione di ville di lusso, avrebbe intrattenuto rapporti di lavoro con società riconducibili a imprenditori di 'Ndrangheta vicini al clan Grande Aracri di Cutro. "Con riferimento alla sua genesi è il primo provvedimento a livello nazionale - dice Giuseppe Linares, direttore del Servizio centrale anticrimine della polizia di Stato - in quanto proposto all'organo giudicante in forma congiunta da un procuratore distrettuale e da un questore, dietro input e con il supporto investigativo del servizio centrale anticrimine del ministero dell'Interno". La "LG Costruzioni" aveva chiesto alla prefettura di Reggio Emilia il rinnovo dell'iscrizione nella locale "White list". L'emergere di quelle relazioni d'affari, nell'attività edilizia, ha portato alla cancellazione della società dalla lista. E alla proposta di procuratore e questore, che passa al setaccio la storia di una famiglia. Ignazio Salvo fu ucciso il 17 settembre 1992 dai killer di Salvatore Riina. Una punizione, per non essersi impegnato abbastanza nell'aggiustare la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso. Davanti al tribunale di Bologna, i Salvo si sono difesi, ma hanno chiesto loro stessi il controllo giudiziario. "Ora, per effetto del provvedimento - dice una comunicato stampa della polizia - la ditta continuerà ad esercitare la propria attività imprenditoriale sotto il costante controllo di un giudice delegato e di un amministratore giudiziario, che potrà effettuare continui accessi nella ditta, intrattenere costanti rapporti con i soci per controllare atti di acquisto, esaminare scritture contabili, monitorare prestatori d'opera e partner commerciali".

Da ilmessaggero.it il 7 settembre 2020. È svanito in pochi mesi il sogno di cambiare vita trasferendosi nella Ville Lumiere per Lucia Riina, 40 anni, una dei quattro figli del boss corleonese stragista Totò, morto nel 2017 in carcere dove era finito dopo 24 anni di latitanza. La più giovane dei rampolli Riina era sbarcata a Parigi nell’autunno 2018 aprendo il bistrò «Corleone by Lucia Riina» dove alle pareti aveva appeso le sue opere pittoriche. A gennaio 2019 dopo che la notizia si era diffusa e i media avevano fatto servizi provocando reazioni anche del sindaco di Corleone cui non era piaciuto il nome della cittadina nell’insegna, e suscitando anche l’aggressività del marito di Lucia, Vincenzo Bellomo, che ha inseguito operatori televisivi lanciandogli contro oggetti, la coppia aveva deciso di togliere il nome pesante dal ristorante. «Non ho cercato di provocare né di offendere nessuno - aveva detto Lucia - volevo soltanto valorizzare la mia identità di artista-pittrice. E anche mettere in risalto la cucina siciliana. Affinché non ci sia nessun malinteso, vi annuncio che ho deciso di ritirare il mio nome dall’insegna del ristorante e dalle pubblicità, anche se mi dispiace che la mia identità di pittrice e di donna venga negata». Ma nel luglio 2019 Lucia con marito e figlia ha deciso di salutare rue Daru e tornare a Corleone. Nel paese dei boss che hanno gestito Cosa nostra per un quarantennio però la donna da qualche tempo non si vede. C’è chi dice si sia trasferita scegliendo una meta lontana. Nessuno in paese parla apertamente ma qualcuno sussurra che i Bellomo siano andati in Canada. Pascal Fratellini, ultimo discendente della famiglia di un celebre trio di artisti circensi originari di Firenze che fece fortuna in Francia, socio dei Bellomo nel locale parigino, dice che Lucia ha lasciato Parigi nell’estate 2019 «non avevano legami, non parlavano bene il francese, e forse mancavano loro i familiari». «Andare a trovare lo zio - aggiunge - o il fratello che sono in carcere era molto difficile. Per loro i legami sono importanti. Quando stavano in Francia la madre chiamava tutti i giorni per avere notizie: “Cosa succede a Parigi?”» Il bistrò parigino non ha riaperto dopo il lockdown. Fratellini spera di riaprire a breve anche se «il ristorante è solo una parte della mia attività, il mio principale business sono i locali notturni che scontano però la crisi in modo più forte».

Arrestato Leonardo Badalamenti, il figlio del boss Tano: era in vacanza dalla madre. di Felice Cavallaro il 5 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Era in vacanza dalla madre il figlio di Gaetano Badalamenti, 60 anni, che si riteneva essere in Brasile, era a Castellammare del Golfo. L’hanno trovato a casa della madre, a Castellammare del Golfo, ma ha capito che non poteva spacciarsi, come succede in Brasile, per Carlos Massetti. E ha ammesso di essere Leonardo Badalamenti, 60 anni, secondo genito del cosiddetto “don Tano Seduto”, come Peppino Impastato descriveva su Radio Aut il padre Gaetano, il capomafia di Cinisi che poi lo fece uccidere inscenando un falso attentato terroristico.

Vacanze rovinate. La Dia, la Direzione investigativa antimafia di Palermo diretta dal capo centro Antonio Amoroso, in collaborazione con la polizia brasiliana, ha rovinato le vacanze del figlio d’arte trasferitosi in Sud America come tanti “scappati” della guerra di mafia condotta dai Corleonesi. Il tutto in esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dall’autorità giudiziaria di San Paolo del Brasile. Leonardo Badalamenti risultava infatti latitante dal 2017, quando gli era stato spiccato un ordine di arresto da parte dei magistrati brasiliani di Barra Funda per associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti e falsità ideologica.

“Scappati” per sfuggire a Riina. Insieme con la famiglia di origine, compreso il padre Gaetano, riconosciuto grazie alle indagini del giudice Rocco Chinnici mandante dell’omicidio di Peppino Impastato, il maturo rampollo arrestato a Castellammare aveva trovato rifugio in Sud America nei primi anni Ottanta. Anche lui per scampare alla guerra di mafia scatenata dai Corleonesi per il controllo di Cosa nostra. Più che di un conflitto, come sottolinea il direttore della Dia, generale Giuseppe Governarle, si trattò di una vera e propria epurazione, posta in essere attraverso la sistematica eliminazione fisica di tutti coloro che, appartenenti allo schieramento avverso, potevano rappresentare un ostacolo ai progetti di “conquista totale” della mafia da parte di Riina, Provenzano e Bagarella. Dopo la cattura di Salvatore Riina e in seguito a tanti successi dell’apparato investigativo, è scattato un lento e silenzioso rientro in patria dei discendenti superstiti delle famiglie mafiose scappate. Siamo nell’ambito di quel fenomeno noto come il ritorno in Sicilia dei cosiddetti “scappati”. Il primo e il principale “scappato” fu Tommaso Buscetta, lo storico pentito di mafia che aiutò Giovanni Falcone a decodificare la geografia delle famiglie mafiose.

Il blitz di “Mixer Centopassi”. Leonardo Badalamenti il 22 maggio 2009 era già stato tratto in arresto in Brasile dal R.O.S dei Carabinieri nel corso dell’operazione “Mixer - Centopassi”, assieme ad altre 19 persone ritenute responsabili in concorso di associazione per delinquere di stampo mafioso, corruzione, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e trasferimento fraudolento di valori.

Da Shangai a Lehman Brothers. Tornato in libertà, aveva poi assunto l’identità fittizia di un uomo d’affari brasiliano, appunto, tale Carlos Massetti. Ma nel corso degli anni lo stesso presunto Massetti è stato indagato come capo di un’organizzazione con ramificazioni internazionali. Una cordata impegnata tra il 2003 e il 2004 nella negoziazione di titoli di debito pubblico emessi dal Venezuela, mediante l’intermediazione di un funzionario corrotto del Banco Centrale. Fondi destinati a garantire aperture di linee di credito in istituti bancari esteri. A questo si aggiunge l’accusa di avere tentato una truffa in danno delle filiali della Hong Kong Shanghai Bank, della Lehman Brothers e di un’altra banca d’affari britannica, la HSBC, per un importo di diverse centinaia di milioni di dollari americani.

Il nipote del Tano. Il figlio del vecchio boss condannato per l’uccisione di Impastato aveva sempre negato la sua vera identità, sostenendo di chiamarsi Massetti e registrando in Brasile anche la nascita del figlio primogenito al quale aveva dato il nome del nonno, Gaetano. Una storia per il momento approdata al carcere palermitano di Pagliarelli, in attesa della formalizzazione delle procedure di estradizione in Brasile.

Palermo, arrestato il figlio del boss Gaetano Badalamenti. E' ricercato dal Brasile per traffico di droga. Pubblicato mercoledì, 05 agosto 2020 da Salvo Palazzolo su La Repubblica.it. Nei primi anni Ottanta, era fuggito all’estero con il padre Gaetano, mafioso autorevole diventato un indesiderabile per i nuovi signori Cosa nostra. Due anni fa, Leonardo Badalamenti è tornato in Italia con i suoi segreti. Stanotte, è stato arrestato dagli investigatori del centro operativo Dia di Palermo, a Castellammare del Golfo: nei suoi confronti pende un mandato di cattura internazionale emesso dall’autorità giudiziaria di Barra Funda (Brasile) per associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti e falsità ideologica. Un provvedimento emesso nel 2017, ma solo di recente se n’è avuta notizia in Italia. Neanche Badalamenti ne era a conoscenza, viveva con la madre in provincia di Trapani, di tanto in tanto si vedeva anche a Cinisi, la sua città d’origine. Venerdì scorso, il figlio di don Tano si è reso protagonista di un eclatante raid in una villa confiscata al padre, morto nel 2004 in un carcere americano: “Con fare arrogante aveva addirittura cambiato la serratura del cancello d’ingresso – racconta il sindaco di Cinisi Giangiacomo Palazzolo – si faceva forte di un provvedimento della corte d’assise di Palermo che ha restituito quel bene alla famiglia Badalamenti. Ma è una decisione non ancora definitiva. E comunque quel casolare, su cui il Comune ha investito tanto per fare attività sociali, noi non lo restituiremo mai. La legge è dalla nostra parte”. Venerdì, sono intervenuti i carabinieri per “sfrattare” Leonardo Badalamenti. Un controllo più approfondito ha fatto emergere il mandato di cattura internazionale. Sono davvero tanti i misteri di famiglia che conserva il figlio di don Tano Badalamenti, il capomafia della Cupola che ordinò la morte di Peppino Impastato. Nel 2009, era stato arrestato dai carabinieri del Ros in Brasile, insieme a 19 persone, con l’accusa di associazione a delinquere, corruzione e truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Per la Dda di Palermo, avrebbe gestito la negoziazione di titoli di debito pubblico emessi dal Venezuela, mediante l’intermediazione di un funzionario corrotto del Banco Centrale, i titoli erano destinati a garantire aperture di linee di credito in istituti bancari esteri. Il figlio di don Tano era stato chiamato in causa anche per aver tentato una truffa in danno della Hong Kong Shanghai Bank, della Lehman Brothers e di un’altra banca d’affari britannica, la HSBC, per un importo di diverse centinaia di milioni di dollari americani. Al processo, tenuto a Palermo, le accuse sono però cadute. Leonardo Badalamenti è così tornato in Italia. E’ rimasto il racconto dei tanti affari di Badalamenti in Sud America: aveva assunto l’identità di un uomo d’affari brasiliano, tale Carlos Massetti. Adesso, si trova nel carcere palermitano di Pagliarelli, in attesa della formalizzazione della procedura di estradizione.  

Badalamenti Jr. contro la Procura: “Vogliono consegnarmi al Brasile”. Marco Bova su Il Riformista il 3 Novembre 2020. Voleva riappropriarsi di una casa dissequestrata. Ma adesso Leonardo Badalamenti, il figlio di “don Tano seduto”, rischia di essere estradato nell’inferno delle carceri brasiliane per 50 grammi di cocaina trovati nella sua auto, quasi dieci anni fa. Nonostante l’allarme delle Nazioni Unite e di una sfilza di ong che hanno definito la condizione carceraria in Brasile simile a un “inferno da girone dantesco! «Sono vittima di un complotto», ha detto ai giudici della Corte d’Appello, che da quest’estate stanno valutando la sua estradizione, in virtù di un trattato tra i due paesi che prevede la possibilità di rifiutare la consegna, qualora ci sia il «rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti». In questi giorni la procura generale (sostituto pg Carlo Marzella) è tornata a chiedere la sua estradizione, i suoi legali, avvocati Baldassare Lauria e Nino Ganci, invece hanno presentato un’istanza per opporsi alla richiesta. «È affetto da alcune patologie che lo rendono a rischio covid, un eventuale trasferimento in quel paese sarebbe devastante a causa del dilagare dell’epidemia e al già atavico sovraffollamento», dice l’avvocato Lauria. La Corte si è riservata di decidere, anche dopo aver acquisito report e dossier sull’attuale condizione carceraria in Brasile. In Italia la sua fedina penale è del tutto illibata, ma agli inizi di agosto l’erede di sangue del boss Gaetano Badalamenti è stato arrestato “ai fini estradizionali” dagli agenti della Dia, in esecuzione di una condanna a 5 anni e dieci mesi per “traffico di sostanza stupefacente” emessa dal Tribunale di San Paolo. Si tratta di un episodio che risale al marzo 2007, quando venne fermato per aver «trasportato con la sua autovettura un pacco del peso di 55,2 grammi contenente cocaina destinata alla vendita». L’Interpol lo aveva registrato con “tre nomi differenti” e per questo riconosceva il “pericolo di fuga”. Da quest’estate è detenuto al carcere Pagliarelli di Palermo, in regime di alta sorveglianza. Per lungo tempo aveva vissuto in Brasile e i carabinieri del Ros nel 2009 lo arrestarono per associazione mafiosa mentre si trovava nel paese latinoamericano, nel blitz “Mixer-Centopassi” ma presto tornò in libertà e assolto da ogni accusa. Da quattro anni viveva a casa della madre, a Castellammare del Golfo, dove la mattina del 4 agosto lo hanno trovato gli investigatori dell’Antimafia, senza molte difficoltà. Nei giorni precedenti all’arresto Badalamenti jr era finito al centro di una piccola querelle con il comune di Cinisi. Il 2 luglio, a distanza di tredici anni dal primo sequestro, la corte d’Assise di Palermo aveva dissequestrato un casolare, restituendolo al figlio di “don Tano”, che agli inizi di agosto cambiò il lucchetto. Scontrandosi con il sindaco di Cinisi, perché il comune in questi anni ha ristrutturato con dei fondi europei il bene confiscato, che dovrebbe diventare un mercato ortofrutticolo e un centro per la valorizzazione della vacca cinisara. Due giorni dopo fu arrestato.

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 6 agosto 2020. Se non avesse tirato fuori tutta la sua arroganza, deciso a rimpossessarsi di un casolare strappato alla sua «famiglia» dall'Agenzia dei beni confiscati alla mafia, il figlio di «don» Tano Badalamenti forse si sarebbe fatto le sue vacanze siciliane a casa della madre, tornando indisturbato in Brasile dove si fa chiamare Carlos Massetti. Nome di copertura di Leonardo Badalamenti, 60 anni, latitante per la magistratura brasiliana dal 2017, con un ordine di arresto per traffico di stupefacenti e falsità ideologica. Ecco il quadro che ieri ha consentito alla Dia, la Direzione investigativa antimafia di Palermo diretta dal capo centro Antonio Amoroso, di trasferire il figlio del boss dalla casetta materna di Castellammare del Golfo al carcere palermitano «Pagliarelli», in attesa delle intese internazionali con San Paolo. Epilogo inatteso per Badalamenti junior che non aveva nemmeno vent' anni quando il padre fece uccidere Peppino Impastato, stanco di essere sbeffeggiato attraverso Radio Aut. Un omicidio con la messinscena di un fallito attentato terroristico. Con coperture eccellenti, smontante dal giudice Rocco Chinnici. Poi, la guerra di mafia e la fuga del boss con i figli Leonardo e Vito in Brasile e Spagna. Anche loro fra gli «scappati» costretti all'esilio da Totò Riina. Negli anni l'intero patrimonio del padrino di Cinisi è finito sotto sequestro, compresa la dimora al centro del paese, quella dei «Cento passi», il film con Luigi Lo Cascio interprete di Impastato. Ma una recente sentenza della Corte di Assise non passata in giudicato ha effettivamente restituito alla famiglia quel casolare noto come «Casa Napoli», appena fuori Cinisi. E Leonardo Jr. ne ha rivendicato la proprietà. Contrastato dal sindaco, Giangiacomo Palazzolo, un avvocato deciso a non mollare, come si è capito due settimane fa quando un vigile lo ha allertato: «Badalamenti sta cambiando le serrature...». E Palazzolo corre, avvertendo i carabinieri: «Lo trovo dentro il casolare che l'Agenzia ci consegnò come un rudere di nessun valore e dove noi abbiamo speso 400 mila euro per farne luogo di memoria anche con la famiglia Impastato. Gli intimo di uscire e lui alza la voce minaccioso, arrogante, spalleggiato da un ragazzo, il figlio che ha lo stesso nome del nonno, Gaetano». Un duello, come racconta il sindaco-avvocato: «Gli impongo di sloggiare. Rifiuta. Nasce un battibecco. Ai carabinieri che arrivano dico che vado in caserma per la denuncia. Loro lo invitano a seguirlo. Ma quando sta per allontanarsi gli grido di lasciare le chiavi della nuova serratura. Non dimenticherò il suo sguardo quando capisce che è costretto a darmele». Il sindaco giura che non cederà: «Può pretendere i 30 mila euro del rudere, ma non dal Comune che lo ha avuto dall'Agenzia. Se la veda con lo Stato...». Ipotesi difficoltosa, considerata la svolta della storia con la Dia diretta dal generale Giuseppe Governale che, ricostruendo il percorso giudiziario di Badalamenti-Massetti ha fatto scattare le manette. D'altronde il 22 maggio 2009 era già stato tratto in arresto in Brasile dal Ros dei Carabinieri nel corso dell'operazione «Mixer-Centopassi», assieme ad altri 19 per associazione mafiosa, corruzione, trasferimento fraudolento di valori e truffa. Un pallino quest' ultimo poi riproposto, come mister Massetti, contro banche americane e inglesi, dalla Hong Kong Shanghai Bank alla Lehman Brothers, per centinaia di milioni di dollari. Ma il vero tesoro per lo «scappato» era quel rudere da riprendersi. Anche a costo di un duello, per il momento, perso.

Giancarlo Tommasone per stylo24.it il 3 agosto 2020. La sentenza di condanna a un anno e quattro mesi di reclusione, inflitta in primo grado all’ex cantante neomelodico Nello Liberti (al secolo Aniello Imperato) rappresenta un precedente giurisprudenziale. E’ stata giudicata ‘colpevole’ l’interpretazione di un brano e del relativo video, ’O capoclan, che stando alla decisione dei magistrati della IV Sezione penale del Tribunale di Napoli (collegio A, presidente Loredana Acierno), «istiga a delinquere», rappresentando un inno alla camorra. Stylo24 è riuscito a intervistare in esclusiva, il protagonista di una vicenda, che è destinata a far parlare a lungo di sé.

Nello Liberti o Aniello Imperato, come preferisce essere chiamato?

«Nello Imperato, Liberti era il mio nome d’arte».

Bene, Imperato, partiamo dal principio: come è nata la canzone ’O capolan?

«E’ molto semplice: era il 2003 e stavamo chiudendo il lavoro discografico ‘Lasciatemi crescere’. Eravamo alla ricerca di una hit che potesse competere con ’O latitante di Tommy Riccio. Nelle intenzioni era un pezzo dal taglio sociale, per parlare dei problemi della nostra terra. Io rivolsi questa richiesta al maestro Alfonso Alfieri (autore della musica e del testo del brano in questione) e lui ebbe l’idea di fare un pezzo che si ispirasse al film "Il camorrista". E’ così che è nato ’O capoclan».

Quindi, sta dicendo che vi siete ispirati al film sulla storia di Raffaele Cutolo?

«Assolutamente sì. Il brano, dal punto di vista musicale parte col tema (realizzato da Nicola Piovani, ndr) del film, ma anche nel testo ci sono numerose citazioni che si rifanno fedelmente a battute della pellicola. Ripeto la mia intenzione era quella di parlare di un problema sociale».

Operazione assolutamente non riuscita, perché ne è venuta fuori qualcosa di diametralmente opposta a quella che definisce denuncia sociale, non crede?

«Effettivamente è così, e dico pure che potessi tornare indietro, non farei mai una scelta del genere. Anche se, voglio ribadire, io sono l’interprete del brano, non l’ho scritto io, l’autore è Alfonso Alfieri. Tra l’altro, il brano l’ho pagato 400 euro. Questa la spesa solo per cantare il pezzo e inserirlo nel disco».

E quindi, l’ipotesi che il pezzo sarebbe stato scritto ispirandosi a una lettera dal carcere del defunto boss di Ercolano Vincenzo Oliviero, detto il Papa buono?

«Niente di più lontano dalla realtà, è andata come le ho spiegato prima. E come ha potuto provare, documenti Siae alla mano, Alfonso Alfieri, ascoltato dagli inquirenti come persona informata dei fatti».

Ma lei ha mai conosciuto Vincenzo Oliviero?

«Ho sentito parlare di questa persona solo dopo l’uscita di ’O capoclan e a tal proposito, le racconto un episodio che mi è capitato quando ancora facevo il cantante».

Di cosa si tratta?  

«Ero in piscina con degli amici presso il complesso Valle dell’Orso, e mi arrivò la telefonata del mio manager. Mi annunciava che il giorno seguente ci sarebbe stata la festa per i 18 anni della figlia di tale Vincenzo Oliviero, e io chiesi chi fosse. Il manager mi rispose che si trattava di gente di Ercolano. In pratica Oliviero, organizzando la festa, aveva chiesto la partecipazione di una serie di cantanti neomelodici (che poi effettivamente si esibirono) e nella lista c’era anche il mio nome».

E lei ha partecipato alla festa per i 18 anni della figlia del boss?

«No, nell’occasione, ripeto, non sapevo nemmeno si trattasse di un boss. Il manager, ribadisco, mi disse semplicemente che era “gente di Ercolano”, e basta. All’epoca il mio cachet era di 400 euro, loro chiesero al mio manager che mi esibissi per la metà dei soldi, e io dissi al manager di richiamare queste persone, per comunicare loro che non avevo accettato la proposta. Se fossi stato persona legata a questi ambienti, non crede sarei dovuto andare a cantare gratis? Non crede che mi avrebbero costretto ad esibirmi? L’ho detto anche ai giudici, certamente il mio telefono era sotto controllo, andassero a vedere i tabulati».

E ha mai avuto contatti con appartenenti alla malavita?

«Mai».

Parliamo del video (perno dell’inchiesta), in cui effettivamente compaiono tre persone considerate legate ad ambienti camorristici.

«Per quanto riguarda Anna Esposito,e Luigi Oliviero (fratello del boss Vincenzo, ndr), furono portati su set dalla produzione, io non li conoscevo. E tra l’altro, come ho potuto sapere in seguito, leggendo le carte dell’inchiesta, all’epoca erano incensurati. Quel video io l’ho pagato 300 euro. L’unica persona che conoscevo come soggetto che aveva avuto problemi con la giustizia era Alfonso Borrelli, che nel video interpreta il capoclan. Avevamo richiesto la sua presenza, solo perché, già in precedenza, sapevamo avesse partecipato a video e avesse fatto la comparsa in qualche pellicola».

Che cos’è la camorra?

«E’ un cancro da estirpare con tutti i mezzi, mi rendo conto di aver contribuito a lanciare un brutto messaggio, e sottolineo: è successo 17 anni fa, ero giovane, e non mi sono reso conto della gravità di quel messaggio, non era mia intenzione difendere o fare apologia della camorra. A questo punto, mi chiedo pure: prima e dopo di ’O capoclan ci sono decine e decine di canzoni che parlano di criminalità organizzata, illegalità, e altri ‘problemi sociali’. Perché solo il brano che io ho interpretato è stato considerato una istigazione a delinquere? E allora brani come ’O latitante, oppure come ’O killer, che cosa sono? Gomorra, cos’è? Non è apologia della malavita, non è istigazione a delinquere? Sa qual è la differenza tra il cantante Nello Liberti e Gomorra?».

No, ce lo spieghi lei.

«Gomorra è business e allora non si tocca, Nello Liberti è un ‘pescione’ (lasciamo il letterale, il termine indica una persona estremamente ingenua, ndr) che si è trovato al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Io da tempo lotto contro Gomorra, ho perfino una pagina Facebook e consiglio ai giovani di non imitare le azioni dei personaggi che vengono celebrati nella serie».

La sua carriera di cantante neomelodico l’ha fatta ricco?

«Assolutamente no. Io solo per la produzione e la promozione del disco in cui è inserito ’O capoclan, ho speso 21mila euro. Tutti soldi che sono usciti dalle mie tasche, in maniera onesta. Perché, altra cosa da sottolineare: io sono incensurato. Sono una brava persona, ho sempre lavorato. Sa come mi chiamavano da ragazzo? Il gigante buono».

E perché, a un certo punto della sua vita, ha voluto fare il cantante neomelodico?

«La verità? Perché non avevo come spendere i soldi, non avendo alcun vizio (non bevo, non fumo, mai fatto uso di droga), ho deciso di divertirmi con la musica. Io non so nemmeno cantare. All’epoca lavoravo insieme a mio padre, avevamo una attività di grossisti di stoffe. Mi venne lo sfizio di incidere dei brani e di fare dei dischi (tre produzioni in totale, ndr). Certo, dopo il successo di ’O capoclan, ho partecipato a numerose feste di piazza, in Campania, in Sicilia e in altre regioni, ma credo di averci rimesso economicamente».

Chi è oggi, Nello Liberti, anzi Aniello Imperato?

«Io sono un ercolanese doc, nato e cresciuto in Via Quattro Orologi, la zona più bella della mia città. Oggi vivo a Benevento, sono felicemente sposato e orgoglioso papà di due ragazzi. Dal 2007 ho smesso i panni del neomelodico e faccio il marittimo (sono cuoco sulle navi). Tredici anni fa ho deciso che bisognava crescere e dopo aver incontrato l’amore della mia vita e aver chiuso l’attività che avevo, mi sono imbarcato, è quella la ‘malavita’ a cui appartengo, come ebbi a dire al pm Filippelli nel corso di un interrogatorio, al quale mi presentai con il libretto di marittimo».

Ma è vero che è stato compagno di classe del sindaco Ciro Buonajuto?

«Sì, è un mio amico d’infanzia, abitava proprio in Via Quattro Orologi e siamo stati compagni di classe fino alle medie».

Il suo legame con Ercolano?

«E’ fortissimo, Ercolano oggi è diventata la città dell’amore, grazie ad Andrea Sannino, che stimo molto e ritengo un ragazzo d’oro. L’altra faccia di Ercolano, quella "cattiva", che tutti in questi giorni identificano col cantante Nello Liberti, non esiste. Ercolano è solo bene».

Storia Maestra di Vita. L’indignato speciale Nocolo Gebbia il 16 Novembre 2019 su themisemetis.com. Ieri mi è capitata una disavventura molto istruttiva, venendo subissato da centinaia di contumelie le più volgari su Facebook : Ninetta Bagarella, vedova di Totò Riina, ha chiesto il reddito di cittadinanza e l’INPS non glielo ha concesso. La 77enne ha preannunciato che il suo avvocato presenterà ricorso. Le reazioni sui social non si sono fatte attendere, improntate tutte a sdegno, indignazione, scherno e disprezzo. Le insolenze che hanno investito anche me erano motivate dal fatto che mi sono permesso di invitare tutti a lasciare che gli organi competenti valutino il ricorso con serenità, ed ho aggiunto che lo stato ha mostrato la sua faccia più vendicativa lasciando morire l’agonizzante Totò in carcere e respingendo l’istanza di sospensione della pena legittimamente avanzata dai familiari che volevano ricoverarlo in una casa di cura. L’esemplarità della sua morte, ed ancor di più quella della morte di Provenzano, sottoposto al protocollo farfalla che lo ridusse ad un vegetale, non mi rendono particolarmente orgoglioso di essere italiano, e lasciano in me anche il dubbio che prima ancora delle loro efferatezze, la colpa principale di entrambi sia stata quella di essere siciliani, secondo quel teorema che il nuovo ideologo del razzismo marcato Giletti, l’imprenditore lombardo Gianluca Brambilla, ha icasticamente espresso quando, dal salotto di ‘Non è l’arena’, ha parlato di diversità antropologica fra siciliani ed italiani. Il conduttore, qualche settimana prima, si era anche lasciato andare ad uno sfogo di rimpianto per i bei tempi del prefetto Cesare Mori, lui sì ‘che sapeva come si tratta la mafia’. Infatti è rimasto alla storia il sistema con cui convinse i latitanti di Gangi a costituirsi: tagliò il rifornimento idrico del paese, che noi carabinieri assediammo come i cavalleggeri del generale Custer con gli Cheyenne, finché non si fu consegnato fino all’ultimo dei ricercati. Del resto è con questi metodi che, insieme con i bersaglieri, dopo il 1860 riducemmo di mezzo milione gli abitanti di tutto il Regno delle Due Sicilie che non ne volevano sapere di diventare sardi (sudditi del Regno di Sardegna): il censimento del 1870 decretò un decremento della popolazione di quella entità, bizzarria statistica altrimenti inspiegabile. È questa constatazione, cioè che la sopravvivenza dei resti di quella che fu l’orgogliosa Cosa Nostra stragista è l’unico argomento che infiamma di indignazione i cuori di tutti gli italiani, senza distinzione di appartenenza politica, che mi induce a proporre una soluzione già sperimentata con successo dagli inglesi in Sud Africa alla fine dell’800, nella guerra contro i boeri, quei coloni olandesi che erano lì da alcune generazioni e che non ne volevano sapere di parlare inglese invece che tedesco, proprio come noi terroni rifiutavamo di imparare il piemontese. L’esercito britannico inventò allora una nuova istituzione che fu poi ampiamente utilizzata da tanti altri durante tutto il novecento: i campi di concentramento, caratterizzati proprio dal filo spinato che ne recingeva i confini. Tutte le famiglie dei soldati boeri, costrette a lasciare le proprie fattorie furono “concentrate” in quei campi, in modo che non potessero fornire supporto logistico ai “commandos”, che era il nome dei guerriglieri boeri, da allora sinonimo di soldati particolarmente addestrati a compiere azioni di guerriglia. Fu una soluzione militarmente vincente, che ha permesso all’Impero Britannico di godere per un secolo e mezzo delle ricchezze del Transvaal. In Sicilia si potrebbe fare qualcosa di analogo e concentrare all’interno delle recinsioni le famiglie di tutti coloro che, schedati mafiosi, si sono sottratti alla giustizia, partendo dalla figlia di Matteo Messina Denaro. Problemi per reperire kapo’ ed aguzzini non ne avremmo: da ieri sera so che due terzi degli italiani non ambisce a nulla di meglio. Io resto solo con la mia vergognosa debolezza di considerare la ‘criminale italiana’(Wikipedia) Ninetta Bagarella, che come me ha frequentato il liceo classico, come una donna verso la quale provo profonda umana pietà. Ho scoperto, fra l’altro che è proprio vero che il sangue non è acqua: quando nel 1971 fu proposta per essere inviata al soggiorno obbligato nel Nord Italia , fu la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta dal fratello minore di mio padre, Giuseppe Gebbia, che respinse la proposta. Mi chiudo quindi nella mia vergogna e non leggerò le contumelie che scriverete contro di me, che resteranno senza risposta.

Il pm Tartaglia lancia un appello alla figlia di Messina Denaro. Il pm ha sottolineato come rimase colpito da un post che la ragazza nel lontano 2013 scrisse su Facebook dove sottolineava quanto a lei mancasse una persona. Francesca Capizzi, Mercoledì 03/07/2019 su Il Giornale. "Chiama tuo padre alle sue responsabilità". A lanciare l'appello è stato il magistrato Roberto Tartaglia, consulente della commissione parlamentare Antimafia, ad un convegno che si è tenuto proprio nella città natia del super latitante più ricercato. "Chiedo alla figlia di Matteo Messina Denaro, Lorenza Alagna, di prendere esempio dalla scelta eroica di Giuseppe Cimarosa chiamando alle sue responsabilità il padre, dal quale sino ad oggi non ha mai avuto l'affetto dovuto, affinché paghi per tutto quello che ha sin qui fatto”. Giuseppe Cimarosa è il giovane che convinse a collaborare con la giustizia il padre, Lorenzo, morto in seguito a una malattia nel gennaio 2017. La madre di Giuseppe è la cugina di Matteo Messina Denaro in quanto la nonna materna è sorella della madre del latitante. Il Pm ha sottolineato come rimase colpito da un post che la ragazza nel lontano 2013 scrisse su Facebook. “Credo fosse il giorno del compleanno di Lorenza - ha detto il Pm - e la giovane scrisse quanto a lei mancasse una persona e nel post sottolineava che il destino era colpevole del fatto che lei non avrebbe mai potuto averlo al suo fianco e abbracciarlo. Ovviamente era riferito al padre. Ecco, questo mi aveva molto colpito e io spero che questa ragazza che comunque non ha colpe, possa avere il coraggio di dare un nome e un cognome alla parola “destino”, sostituendola con il vero responsabile di questa carenza e di questo deficit per poterlo abbracciare e convincerlo a costituirsi”.

Ma Lorenza ha preso o no le distanze dal padre? La ragazza, oggi ventitreenne, porta il cognome della madre, Francesca Alagna, unica compagna riconosciuta del boss. Matteo Messina Denaro ha sempre avuto la fama del latin lover. Tante le donne, prima e dopo la sua latitanza. Uno dei suoi più grandi amori fu l’austriaca Andrea "Asi" Haslehner. Una giovane donna che lavorava, ogni estate, alla reception dell’Hotel Paradise Beach, nella località balneare di Selinunte. Di lei, però, si era innamorato anche il vice direttore dell’albergo, Nicola Consales. A Messina Denaro non va giù e la sera del 21 febbraio del 1991 manda i suoi killer più fidati ad uccidere senza pietà il vicedirettore dell’hotel. La sua unica colpa? Essersi innamorato della donna del boss. Ma Messina Denaro ha il suo alibi. La stessa sera, infatti, si trova in un ristorante di Castelvetrano e rompe anche un vetro facendo finta che sia stato un incidente. Lorenza, è nata nel ’96 quando lui è già ricercato. Da quel giorno la madre si trasferisce a casa del boss per accudire la figlia, fino alla decisione di andare a vivere, ma solo per questioni di comodità, a due passi dalla casa della suocera. Qualche anno fa su l’Espresso venne raccontato che la giovane ragazza chiedeva alla famiglia di lasciare la casa dove ha sempre vissuto, quella della nonna paterna, che porta il suo stesso nome “Lorenza”, per andare a vivere lontano dai parenti del padre. In realtà Lorenza non si è mai allontanata e li frequenta regolarmente. Ad oggi, non ha mai dichiarato a gran voce di volersi distaccare dalla famiglia. Continua a frequentare i cugini e i parenti, che abitano nella zona della “Badia” a Castelvetrano. Si è diplomata al liceo scientifico “Cipolla” e si era iscritta all’università di Palermo da esterna. Ma secondo alcune indiscrezioni, pare si sia ritirata e che quindi momentaneamente sia a casa in attesa di decidere del proprio futuro. Una giovane, che fa una vita normalissima, quella di uscire con le amiche, partecipare alle feste oltre ad aver vissuto qualche mese a Londra per perfezionare il suo inglese. Certo è, che Lorenza non è figlia di uno qualunque, ma dell’uomo più ricercato al mondo. Quando la giovane studiava al liceo Scientifico di Castelvetrano, l’allora preside Francesco Fiordaliso, noto per le sue lotte antimafia, organizzava quasi ogni settimana, eventi con personaggi di spicco, da noti magistrati a scrittori, giornalisti e autorità varie e l’argomento principale era proprio Matteo Messina Denaro. Cosa non gradita ai parenti del boss, che puntualmente si recavano nello stesso Liceo a lamentarsi verbalmente con il preside. Una figlia potrà mai ripudiare un padre? Un rebus questo, chissà in che modo verrà risolto.

La figlia “ribelle” del boss e la notizia che non c’è. Giacomo Di Girolamo su lavocedinewyork.com il 30 Ago 2013. Secondo lo "scoop" dell'Espresso la diciassettenne avrebbe preso le distanze dalla famiglia mafiosa del padre, il super latitante Matteo Messina Denaro, perchè andata a vivere in un'altra casa di Castelvetrano... Ma dove sta la ribellione al clan? E’ stato molto pubblicizzato lo “scoop” de L’Espresso di questa settimana. Il periodico, infatti ha annunciato delle clamorose rivelazioni su Matteo Messina Denaro, il latitante numero uno di Cosa nostra, sul numero in edicola da ieri. In particolare, c’è un articolo di Lirio Abbate, profondo conoscitore delle cose di mafia, autore di  inchieste anche su fatti del trapanese, che racconta della presa di distanza della figlia di Matteo Messina Denaro, Lorenza Alagna, nata nel 1996, dalla famiglia mafiosa del padre. Una notizia clamorosa, che fa il paio con l’intervista di qualche giorno fa della figlia di Totò Riina alla televisione svizzera, che invece si è detta onorata di portare il cognome del padre. La ragazza ha parlato di onore, fede, amore filiale, ha detto d'essere fiera del cognome che porta anche se ha ammesso di essere dispiaciuta per le vittime della mafia. Ma torniamo a Messina Denaro e all'annunciato scoop dell’Espresso. In realtà, rispetto a quanto pubblicizzato però,  l’articolo contiene ben poco. Qualche frase ad effetto presa dal profilo Facebook della ragazza, una sua foto, presa sempre da Facebook, dove la giovane non scrive nulla di clamoroso, ma fa, semplicemente, le cose della sua età: le feste con gli amici, i messaggi d'amore con il suo fidanzato… Dove sta la ribellione al clan? L’articolo, poi, non aggiunge nulla di nuovo a quanto già si sa sul fronte investigativo. Semmai, fa, diciamo così, un punto della situazione, utile per chi non ha ancora capito la caratura criminale e l’impero dei Messina Denaro. Secondo L’Espresso, la piccola Alagna (la ragazza porta il cognome della madre, Francesca Alagna, oggi cinquantenne, unica compagna riconosciuta del boss), avrebbe chiesto “alla famiglia di poter lasciare la casa dove è sempre stata per andare a vivere lontano dai parenti del genitore”. La scelta è definita dal giornalista addirittura “rivoluzionaria”. Ma la sua non sembra una scelta di rifiuto e di abiura del padre. Anzi. «Quanto vorrei l'affetto di una persona e purtroppo questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino… », dice la figlia di Messina Denaro, senza fare esplicito riferimento al padre, che, secondo alcune fonti investigative, non avrebbe mai visto. In altre parole, non c’è alcuna rinnegazione, nè alcuna ribellione, se non quella di una normale adolescente che vuole vivere la sua vita. A proposito: che Francesca Alagna abbia cambiato casa è noto, a giornalisti interessati e investigatori, perchè è notizia vecchia. Non sta a casa dei Messina Denaro da più di un anno. E non per ragioni di ribellione. Tra l'altro sta sempre a Castelvetrano….Da quello che dicono a Castelvetrano i pochi frequentatori di casa Santangelo – Messina Denaro la scelta è stata dovuta a ragioni di spazio, anche per venire incontro alle esigenze della famiglia, di comodità, e di serenità, data la difficile convivenza – da sempre – di madre e figlia con i parenti del loro congiunto invisibile. E qui le “tradizioni tribali dei codici mafiosi”, come invece è scritto nell’articolo, non c’entrano nulla. Beppe Lumia, il senatore Pd che si è fatto eleggere nella lista del Megafono di Crocetta, comunque, ci è cascato subito. E nel suo quotidiano comunicato su mafia, antimafia e dintorni (ieri ad esempio era su Libero Grassi), sposta ancora avanti l'asticella di una notizia che non c'è: “È senz’altro una notizia positiva la presa di distanze da parte della figlia del boss Matteo Messina Denaro dal clan familiare del padre, ma questa decisione deve essere seguita da fatti e comportamenti concreti, come il rifiuto di qualsiasi bene o risorsa che provenga dalle attività di Cosa nostra. Il modello a cui ispirarsi – aggiunge – è quello di Peppino Impastato che ha preso piena coscienza del contesto familiare e culturale nel quale era nato, ribellandosi pubblicamente al fenomeno mafioso e promuovendo i valori della legalità e dello sviluppo”. Ecco, perchè non glielo scrive direttamente nel profilo Facebook della ragazza?

La “sentenza” di Giarrusso: «Basta Google per sapere se incontri un mafioso». Simona Musco su Il Dubbio il 4 marzo 2020. «È sufficiente, per un candidato, ricercare su “Google” il nominativo di un soggetto da incontrare per capire se lo stesso sia indagato». Ai tempi del web i motori di ricerca bastano per sancire la mafiosità di una persona. Una certezza, quella del senatore grillino Mario Giarrusso, che basta per certificare la totale consapevolezza del senatore Marco Siclari di avere a che fare con un uomo dei clan. Giarrusso ha pronunciato queste parole davanti ai colleghi della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, chiamati a decidere sulla richiesta di autorizzazione all’arresto del senatore forzista – coinvolto in un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria – che ora ha 20 giorni di tempo per difendersi. L’ipotesi dell’accusa è che il politico abbia stretto un patto mafioso con rappresentanti del potente clan Alvaro, che avrebbero racimolato un gran numero di voti per la sua elezione in cambio di favori all’occorrenza. Secondo il gip, non si riscontrano segni idonei a smentire che il senatore possa «continuare a piegare, anche in ragione dei tempi recenti di stipula del patto (anno 2018), la sua carica di importantissimo uomo politico e di Senatore della Repubblica per mettersi ancora a disposizione della ‘ndrangheta». Ma per il senatore Lucio Malan (Fibp-Udc), dall’esame del fascicolo trasmesso dall’autorità giudiziaria «non emerge alcuna evidenza e alcun indizio circa la promessa del senatore Siclari al Laurendi (Domenico, uomo di fiducia del clan Alvaro, ndr)». E durante l’incontro tra il senatore, il medico Domenico Galletta (considerato l’intermediario) e Laurendi, quest’ultimo «avrebbe disattivato il captatore inserito nel suo cellulare», rendendo impossibile stabilire «quali siano gli elementi trattati nel predetto incontro».  Per Giarrusso, però, la disattivazione del captatore da parte di Laurendi «costituisce un elemento sintomatico della pericolosità di tale soggetto sul piano criminale». Ma non solo: «gli incontri tra il senatore Siclari e il Laurendi sono avvenuti in forme sospette». E tanto basta.

Spada e Casamonica alla gogna, quando va in onda il “giornalismo antimafia”. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Il giornalista che fa il suo servizio davanti al portone della famiglia “mafiosa”, in collegamento con il conduttore che lo istiga a farci vedere le automobili di lusso, le piscine, le ricchezze illecite del “clan”, a me non sembra affatto diverso rispetto al parlamentare che si attacca al citofono del tunisino per domandargli se spaccia. Anzi è peggio. Perché almeno per ora la nostra Costituzione dice che la responsabilità penale è personale, e in uno Stato di diritto quel principio è contraddetto ogni qual volta un gruppo di persone, una famiglia, un clan sono indiscriminatamente esposti a quelle attenzioni. Chi ha dato ai giornalisti il diritto di andare con microfoni e telecamere sotto casa della gente a fare simili “inchieste”? Si piantano davanti ai cancelli e inquadrano le finestre: «Guardate, lì vive Tizio: il fratello è in prigione per mafia!»; «Ecco, vedete? Lì pare che i rubinetti siano tutti d’oro!». Se poi uno mette il naso fuori, allora il cronista s’infoia: «Eccolo, eccolo!», e via col giornalismo antimafia: «Senta, qui si dice che controllate appalti e prostituzione: lei che ne pensa?». E avanti di questo passo, con il video in digressione verso la donna intervistata sui carichi pendenti del marito: «Quanto gli hanno dato, signora? Ma che era? Droga? Usura? E i bambini lo sanno?». Questa schifezza la fanno e ce la propinano pressoché quotidianamente, e ne menano pure vanto nella retorica dell’“impegno”, del giornalismo tosto, “sulla strada”, naturalmente in favore del pubblico che “ha il diritto di sapere”: e che vuoi farci se, venendo così a sapere, la brava gente reclama il giusto e cioè ruspa e galera. Si noti poi come questo bel giornalismo si incattivisca in modo particolare nel caso di alcuni. Io tanti reportage, maratone, speciali, presunti documentari, quanti ne hanno dedicati ai Casamonica o agli Spada non ne ho mai visti. E guarda un po’ sono zingari. C’è da giurare che il giornalista democratico respingerebbe con indignazione l’addebito, ma è lo stesso che appunto non si accorge della pericolosa inciviltà del suo lavoro, di come esso violenti una regola elementare della convivenza democratica sostituendola con un canone letteralmente tribale. Non se ne accorge e anzi rivendica quel suo modo di fare giornalismo, che è pura e semplice attività di molestia ai danni di chi ha la colpa di appartenere a una famiglia piuttosto che a un’altra. E figurarsi dunque se è sfiorato anche solo dal sospetto che tra i motivi che inducono tanta concentrazione informativa (chiamiamola così) possa esserci anche questo, e cioè che si tratta di zingari. Pure, sotto casa degli altri non ci vanno, o non con tanta insistenza. E vorrà dire qualcosa. Piuttosto che gli illeciti commessi da alcuni di loro, a spiegare l’attenzione pubblica e la demagogia anticriminalista verso loro tutti è il fatto che sono zingari: una specie di premessa incriminatoria, per quanto non dichiarabile. E non serve dargli di zingaracci, per rendersi responsabili di questo razzismo inconfessato e, forse anche più temibilmente, inconsapevole. Basta la gogna travestita da servizio pubblico. Che poi sia nella versione progressista del giornalismo antimafia o in quella plebea della tivù “che sta tra la gente” importa molto poco: la matrice, ripugnante, è la stessa ed è doppiamente insultante. Innanzitutto perché tira a una giustizia compartimentata, con interi gruppi di persone messi alla berlina. E poi perché la compartimentazione è su base razziale.

Caso Spada: come posso dare una capocciata senza che sia mafiosa? Piero Sansonetti de Il Riformista il 15 Novembre 2019. Non credo che a me capiterà mai di dare una capocciata a qualcuno. Capocciata, a Roma, vuol dire un colpo con la testa sulla faccia altrui. Non mi è mai successo quando ero giovane è improbabile che mi capiti ora. Però da ieri c’è una domanda che mi frulla in testa: ma se dovesse capitarmi, come potrei fare per evitare che questa capocciata sia data con modalità mafiosa? Naturalmente mi riferisco al caso Spada. L’altra sera la Cassazione ha confermato la condanna a sette anni di carcere a Roberto Spada, pregiudicato di Ostia, per la famosa testata sul volto del nostro giovane collega Daniele Piervincenzi che cercava di intervistarlo e che subì, mi pare, la frattura del naso. Spada era stato condannato già in primo e in secondo grado, sempre con questa aggravante della mafia. Nel frattempo è stato condannato anche per altri reati, più gravi, si è beccato l’ergastolo e dunque questi sette anni non cambieranno molto la sua vita. Ma non è di questo che vorrei discutere, e nessuno vuole difendere i comportamenti di Roberto Spada, vorremmo solo che si riuscisse una volta per tutte a distinguere tra legge e propaganda. Non esiste nessuna persona al mondo che possa ragionevolmente ritenere che una capocciata possa essere mafiosa. Oltretutto abbiamo visto tutti quel video. Il giornalista col cameraman sull’uscio di casa Spada, i due che parlottano, poi Spada che all’improvviso, preso, sembra, da uno scatto d’ira, vibra la famosa testata, e poi insegue Piervincenzi e lo colpisce ancora con un bastone. Difficile sostenere che l’aggressione fosse premeditata. Come può essere mafioso uno scatto d’ira? E perché mai questa della mafiosità dovrebbe essere una aggravante di un delitto che comunque c’è, ed è grave? La Corte di Cassazione ha sostenuto che la prova della mafiosità – cioè dell’esibizione di un potere sul territorio – è dimostrato dal fatto che nessuno è intervenuto per difendere Piervincenzi. Ora dovete sapere che questo Roberto Spada è un cristone alto più di un metro e ottanta, novanta chili, muscolosissimo, pugile professionista: quanti di voi avrebbero deciso di frapporsi tra lui è Piervincenzi? Mi chiedo, possono essere considerate mafiose, ad esempio, le varie aggressioni, anche sessuali, esercitate a suo tempo da Michael Tyson, negli Stati Uniti? Si può scherzare su questa sentenza. Oppure prenderla sul serio. E se la si prende sul serio bisogna prendere atto almeno di due cose. La prima è che sempre più spesso le sentenze rispondono a delle esigenze, per così dire, politiche. Attorno a quella testata (anche perché fu rifilata a un giornalista) ci fu molto rumore e molta mobilitazione dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica, e i giornali, e le Tv, pretendevano una condanna esemplare. E un comportamento esemplare della polizia e della magistratura. Succede molto spesso, forse tutti i giorni, in qualche città d’Italia che qualcuno, in genere in una lite di traffico, tiri un pugno in faccia o una testata. Viene, in genere, denunciato, non arrestato. Quel giorno invece era urgente arrestare Spada, perché giornali e opinione pubblica premevano. Per arrestarlo occorreva l’aggravante mafiosa. Così è nata questa idea balzana. È molto rischioso il comportamento giudiziario che viene determinato dalla pressione dell’opinione pubblica e dei giornali. Purtroppo, però, ormai, è molto diffuso. Anche – soprattutto – per colpa dei giornali. Non sono moltissimi i magistrati che riescono a resistere a queste pressioni. Per fortuna ci sono questi magistrati, ma sono una minoranza. La seconda cosa di cui bisogna prendere atto è che ormai l’uso dell’aggettivo mafioso è diventato quasi un’abitudine. Tutto il processo sulla corruzione a Roma – Mondo di mezzo – si è fondato sull’ipotesi che la corruzione avvenisse sotto la direzione di una organizzazione mafiosa. Non era così, e infatti alla fine la Cassazione ha smontato il teorema. Però l’accusa di mafiosità aveva permesso un metodo di indagine molto repressivo che non sarebbe stato consentito in assenza di aggravante mafiosa, aveva permesso la segregazione di alcuni imputati al 41 bis e lunghe carcerazioni, e inviti pressanti al pentitismo. Tutto questo ha stravolto il normale funzionamento del diritto. Ed è esattamente ciò che avviene sempre più frequentemente. Non solo in questo modo si riducono le garanzie per gli imputati. Ma si rischia di cancellare, o almeno di offuscare il concetto di mafia. Mi ricordo che Giovanni Falcone ci mise anni per spiegare che Cosa Nostra è Cosa nostra e non è una forma qualsiasi di criminalità. Affermare che qualunque attività criminosa che prevede una associazione sia mafia, equivale a sostenere che niente è mafia. Cioè a tornare alle teorie negazioniste degli anni Sessanta, quando gran parte della politica e dei giornali negavano l’esistenza della mafia, in Sicilia, e sostenevano che i delitti siciliani erano normali delitti della mala. Ecco, rovesciando tutto, oggi, si sta compiendo la stessa operazione. Immaginare che Spada e Riina abbiamo fatto più o meno lo stesso mestiere, credetemi, è un grande regalo a Cosa Nostra.

Anche non condannati nella black list degli impresentabili di Nicola Morra. Il Dubbio il 23 gennaio 2020. Nella lista nera dell’antimafia ci sono anche due rinviati a giudizio. Nuove elezioni, nuove black list. Come ogni vigilia elettorale, la commissione antimafia compila e invia alla stampa la lista dei cosiddetti impresentabili. Il presidente grillino Nicola Morra ha infatti consegnato i nomi di tre persone, tre candidati considerati impresentabili a causa di condanne, anche solo di primo grado, o semplici rinvii a giudizio. Il primo della lista è il “fratello d’Italia” è Mauro Malaguti il quale  ha riportato una condanna in primo grado per peculato. Per quanto riguarda la Calabria, i candidati considerati «impresentabili» non hanno ricevuto alcuna condanna ma solo un rinvio a giudizio. Sono due, entrambi di Forza Italia-Berlusconi per Santelli. Si tratta di Giuseppe Raffa, rinviato a giudizio per corruzione in concorso, e di Domenico Tallini, anche lui rinviato a giudizio per «più fattispecie di corruzione indebita ».

Calabria, retata con sciacallaggio. E Morra non vedeva nulla…Francesco Storace martedì 25 febbraio 2020 su Il Secolo d'Italia.  Ovviamente, ricomincia la speculazione sulla Calabria. Stamane c’è stata una retata riguardante il voto di scambio tra politica e ‘ndrine e di mezzo c’è finito un consigliere regionale neoeletto, Domenico Creazzo, di Fdi. La procura competente chiede anche l’arresto del deputato di Forza Italia Siclari, che però non era candidato.

Morra non vede…Soprattutto dai Cinquestelle si attacca la Meloni. Lo specialista al ramo è il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, quello che non si è fidato a votare il candidato grillino alla presidenza della regione. E non è stato nemmeno capace di segnalare quella presenza in lista come da dovere dell’organismo che presiede, come ha giustamente notato il senatore Fazzolari di Fratelli d’Italia. Se non lo sapeva l’Antimafia…Fdi sapeva solo che parliamo di un finanziere, che era incensurato. La cognata di Creazzo ufficiale dei carabinieri vittima della mafia. E che lui è anche cugino del Pm Creazzo capo di Unicost. È evidente che l’arresto è grave e Fdi non vuole avere nulla a che fare con chi tresca con le cosche, sempre se ha fondamento l’imputazione mossa a Creazzo. Ma c’è diversa leggenda da sfatare. Fratelli d’Italia non ha – come non li ha nessun partito – strumenti ispettivi sui candidati. Il candidato in questione inoltre è stato per anni sindaco e Presidente del Parco dell’Aspromonte e non è mai stato toccato da alcuna indagine né sospetto, cosa per la verità difficile in Calabria.

Non cambiava nulla. Se uno appare pulito sono i carabinieri a dimostrare il contrario. Ma nessuno si azzardi a giocare con i voti di mafia. Iole Santelli ha stramazzato il suo avversario con duecentomila voti di scarto. Fratelli d’Italia in Calabria ne ha ottenuti ben 84mila (i Cinquestelle fermi a 48mila e questo spiega la loro rabbia) e Creazzo appena ottomila preferenze. Ecco, è vietato speculare. In alcune zone del sud le mascherine le indossano nell’ombra e il virus della malapolitica è ancora drammatico. Ma questo non sposta nulla rispetto alla pulizia morale di Giorgia Meloni.

Eppure, De Vito…Una politica incapace di capire che il problema rischia di riguardare tutti – perché corruzione e voto di scambio sono diffusi ovunque – non risolverà mai la questione morale. Ed è il motivo per cui un partito mette fuori chi è accusato di delinquere. Farlo prima dei magistrati e senza alcun motivo serio sarebbe da neuro. Dovrebbe saperlo proprio Di Maio che cacciò il presidente del consiglio comunale di Roma, De Vito. Che, uscito dal carcere, è di nuovo a fare il numero due del Campidoglio. Non ditelo a Morra.

Regionali Calabria, spunta parentela scomoda: Travaglio giustizia Aiello. Tiziana Maiolo l'11 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ha sicuramente ragione il professor Francesco Aiello, candidato del Movimento cinque stelle alla presidenza della Regione Calabria, quando dice che i parenti, uno non se li può scegliere. Al massimo possiamo selezionare gli amici, e anche i compagni di vacanze, come ben sappiamo tutti, compresi i cronisti del Fatto Quotidiano, che hanno lanciato l’ennesimo sasso nello stagno del giustizialismo, colpendo il professor Aiello per via di una parentela scomoda, quella con suo cugino Luigi, ucciso a Soveria Mannelli nel 2014 all’interno di una faida tra cosche. Una bella pugnalata, quella del quotidiano di Travaglio, soprattutto perché ha colpito alla schiena una persona selezionata dal Movimento cinque stelle in nome della massima trasparenza e distanza dalle inchieste giudiziarie, mentre in Calabria ancora imperversavano le polemiche politiche sui due candidati naturali di centrodestra e centrosinistra, alla fine sacrificati sull’altare delle Procure. Docente di politica economica all’Università della Calabria, Aiello ha accettato la candidatura presentando il suo volto migliore all’insegna di una “Calabria onesta, resiliente e positiva”. Ma non immaginava che il grado di onestà sarebbe stato misurato con analisi del sangue suo e anche dei parenti fino al quarto grado. Implacabile nei suoi confronti il presidente della commissione antimafia Nicola Morra, il filosofo che teorizza la “dittatura della legalità”, calabrese d’adozione e adoratore del procuratore Gratteri: terrò ben lontana la mia persona da questa campagna elettorale, ha sentenziato. Così mettendo una pietra tombale sul già debole candidato del suo partito. Ma di che stupirsi? Se escludiamo quella del “civico” Carlo Tansi, un geologo ex presidente della protezione civile calabra, le altre candidature alla presidenza della Regione hanno subito forti condizionamenti. Le inchieste giudiziarie paiono esser diventate il vero direttore d’orchestra che suona anche tutti gli strumenti con una sola nota, quella delle informazioni di garanzia usati come sfollagente. Il primo a esser stato colpito è il presidente uscente Mario Oliverio, uomo del Pd di solida e antica tempra. Uno che un vero partito comunista non avrebbe mai dovuto abbandonare per vicende giudiziarie, peraltro discutibili e contraddittorie all’interno della stessa magistratura. Poi è toccato al suo avversario politico di centrodestra, il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, destinatario di un paio di informazioni di garanzia, difeso da Forza Italia ma ripudiato dalla Lega di Salvini, che si è subito affiancata con disinvoltura alla peggior subcultura forcaiola del Pd e dei Cinquestelle. Fatti gravissimi, ma ancora poco rispetto al condizionamento culturale, a una sorta di vento che porta con sé paura e parole in libertà persino del nuovo candidato di sinistra chiamato a sostituire il furibondo (a ragione) Oliverio, l’imprenditore del tonno Pippo Callipo. Il quale, non solo ha passato al microscopio ogni candidatura facendo strage di nomi e cognomi della lista del Pd, ma si è affrettato a dire che con lui presidente nessuno dovrà bussare alla porta di politici, burocrati e mafiosi. Come se le tre categorie fossero intercambiabili. Tanto poté il vento della paura. Ma non quello del pudore, evidentemente. Intanto il professor Aiello, che forse non conosce la ferocia dell’uso politico e mediatico della giustizia, si è affrettato a prendere le distanze dal defunto cugino, dicendo di non aver mai avuto nulla a che fare con lui, quando il buonanima era in vita. Errore: sarebbe stato meglio ammettere almeno di aver giocato insieme da piccoli, visto che erano figli di fratelli. Anche perché nel frattempo i cani da tartufo del Fatto stanno già indagando per verificare se Luigi, l’uomo della ‘ndrangheta che gestiva un’impresa nel settore del movimento terra, avesse mai lavorato nella costruzione o ristrutturazione della villetta dove il cugino Francesco vive e che è stata già presa di mira per un parziale abuso edilizio di cui si sarebbe reso responsabile il padre. Parentele impegnative, quelle del professor Francesco Aiello, candidato nel partito dell’onestà. Ora aspettiamo di sapere se il combinato disposto Gratteri-Travaglio ha qualche altra sorpresa da rivelare su tutti i parenti fino al quarto grado non solo dei quattro candidati alla presidenza della Regione Calabria, ma anche degli aspiranti consiglieri. C’è tutto il tempo, mancano due settimane alle elezioni del 26.

I grillini lo scaricano ma i social sono con lui: la vicenda del professor Aiello. Gioacchino Criaco l'11 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il senatore dei 5 Stelle Nicola Morra ha preso immediatamente le distanze dal candidato del suo movimento sorpreso ad avere un cugino sospettato per mafia, e gli ha ritirato l’appoggio. Sembra tutto già scritto e visto, col professor Aiello infisso nella polvere. E invece Aiello rivendica e la sua pulizia morale e il suo diritto di continuare. Anziché trovare insulti, il professore viene sommerso da una solidarietà trasversale che parte dai social, innesca un rigetto inaspettato delle logiche giustizialiste solite, quelle che di solito appartengono alla parte politica per cui corre in Calabria. La sua storia di persona mite, limpida, innesca una speranza sorta improvvisa: ci fossero in giro libertari veri, persone veramente libere, meridionalisti autentici, non godrebbero delle polemiche su Francesco Aiello per avere avuto un cugino con problemi penali. Non ci godrebbero per il solo gusto di deridere un Movimento che in larga parte è stato giustizialista, in alcuna parte proprio per le forche. Non gongolerebbero a vedere il muro del pregiudizio sbattuto in faccia a un Movimento che del pregiudizio si è nutrito. Ci fossero intelligenze accese si metterebbero a fianco del professore e lo incoraggerebbero ad andare avanti, mostrando, magari, una strada da percorrere senza gli occhi chiusi. Facendo capire a tutti che ormai è indifferibile affrontare la questione. Un pregiudizio enorme che azzoppa tutte le generazioni presenti e future del Sud, impedendogli carriere istituzionali, politiche, sociali in ogni accezione. Buona parte dei calabresi del futuro, come è stato per buona parte dei calabresi del passato, saranno tenuti fuori da tutto, i Comuni saranno continuamente sciolti, tutto  strumentalmente guidato da una genia di puri che sono puri non per coscienza ma grazie alle chiavi che nascondono o scoprono il bene o il male. Magari molti dei puri hanno scheletri e ossa nascosti, ma sono così potenti da brandire secondo necessità gli stracci veri o presunti degli altri, di chi dà fastidio. Sconfiggere il pregiudizio che condanna il Sud al margine è la battaglia delle battaglie, per costruire una società normale, per accogliere i buoni e riaccogliere chi vuole una parte giusta in cui stare. A noi calabresi è vero, la mafia ci ha ammazzato, ma ci ha ammazzato di più il potere che l’ha armata, ci ammazza il potere che riesce ad escluderci dal cambiamento. Ci ammazza il pregiudizio che è l’arma più potente e insidiosa in mano al nemico. E bisogna smetterla di tremare davanti ai rappresentanti di un potere che si atteggia a etico. Bisogna cogliere l’occasione per lottare, per non finire prima o poi sul rogo.

In Calabria sono tutti mafiosi, fango dell’Espresso dopo l’inchiesta di Gratteri. Tiziana Maiolo il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. Padri, mogli, fratelli, suoceri, amici e vicini di casa. Non era difficile profetizzare, dopo la retata del 19 dicembre e dopo il siluro del Fatto quotidiano al candidato cinquestelle, che in Calabria si sarebbe aperta la caccia mediatico-giudiziaria a un’intera classe politica. Anche tramite i parenti (non si sa fino a quale grado) dei candidati. Non si guarda in faccia a nessuno, nessun partito, con sprezzo del pericolo. Ha provveduto l’Espresso che, pur sempre meno agguerrito, ha dedicato quindici pagine alla Calabria, naturalmente intitolandole alla ‘ndrangheta, in vista delle elezioni del prossimo 26 gennaio. E lo strano è che ormai, come ci dicono e scrivono ogni giorno tanti improvvisati storiografi a supporto delle inchieste giudiziarie, questa forma di criminalità si sarebbe trasferita al nord, fino alla punta estrema della Val d’Aosta. Pure non si può nominare la Calabria senza identificarla con la ‘ndrangheta. La tentazione è sempre forte. Nella campagna elettorale per l’Emilia, la regione gemella nell’appuntamento del 26, si parla di buona o cattiva amministrazione, di risultati da collegare solo a questioni locali o a problemi politici nazionali, di programmi. Addirittura del Salvini di turno da esorcizzare. Al massimo, se proprio vogliamo andare sul piano giudiziario, di Bibbiano e di bambini sottratti alle famiglie naturali. Non si criminalizzano i parenti dei candidati, e neanche si dice che, se una lista è “pulita”, non è perché è composta di persone per bene, ma perché «…la vittoria appare sicura e i poteri occulti preferiscono presentare le loro richieste a giunta fatta». In Calabria invece è così. E questo è il messaggio per Jole Santelli, candidata al ruolo di governatore del centrodestra, rispetto alla quale, evidentemente, il grande circo giudiziario e mediatico non è riuscito a trovare parenti né vicini di casa che possano gettare ombre. Quindi ci si prepara al “dopo”. Non sono così fortunati gli uomini del Pd. Citiamo in modo anonimo gli esempi che l’Espresso sciorina con nomi e cognomi, risparmiando solo la riproduzione delle impronte digitali. C’è un candidato che ha il torto di essere figlio di un altro che è stato sindaco ai tempi del “boia chi molla” e che ha un fratello indagato. Un’altra ha il padre condannato. Poi ce ne è uno che addirittura è considerato “vicino” a persona coinvolta nell’inchiesta sui rimborsi ai consiglieri regionali. E un altro contiguo a un imprenditore coinvolto in un’inchiesta di mafia, anche se poi assolto. Purtroppo, par di capire. È rimasto invece fuori dalle liste – e in questo caso ci pare giusto farne il nome – Luigi Incarnato, arrestato nella retata organizzata dal procuratore Nicola Gratteri, anche se nel frattempo il tribunale del riesame lo ha già scarcerato. A tal proposito va detto che non è andata così per l’avvocato Giancarlo Pittelli, finito nella stessa retata del 19 dicembre. All’udienza del riesame ha reso dichiarazioni spontanee in videoconferenza durata cinque ore dal carcere di Nuoro, e al termine, proprio ieri, il tribunale ha confermato la sua detenzione in carcere, anche se ha derubricato il reato a “concorso esterno” nell’associazione mafiosa. Un altro colpettino, comunque, alla solidità dell’inchiesta. La quale, proprio come quella parallela giornalistica dell’Espresso, parte da un assunto. È vero, dice, che ormai la ‘ndrangheta si è trasferita al nord, dove esistono mercati finanziari più appetitosi. Ma ci sono pur sempre qui in Calabria i “capi invisibili”, quelli come l’avvocato Pittelli accusati di fungere da cerniera tra i due mondi, quello degli ignoranti montanari calabresi e quello degli uomini del nord in grisaglia con il master alla Bocconi. Non a caso nel “portafoglio contatti” dell’avvocato calabrese ci sono nomi come quello di Fabrizio Palenzona, ex numero due di Unicredit, il cui nome viene buttato lì, insieme a quello di Tronchetti Provera, quasi a casaccio. E chi deve intendere, intenda. La sintesi di questa triste storia sta nell’ancor più disperante titolo: “Calabrexit”, che pare quasi un invito a scappare, e invece fa quasi venir voglia di tornarci, nella più bella e tragica regione italiana. Se non altro per un piccolo sfizio, per guardare in faccia la sardina Jasmine, che secondo l’Espresso è l’unica speranza di un’intera regione, la quale ha formulato il seguente profondo pensiero politico, in vista delle elezioni: «Abbiamo dato solo un’indicazione di voto, molto precisa: non votare Jole Santelli». Forza Calabria, vien da dire. Altro che Calabrexit.

La Sicilia e l'antimafia da salotto televisivo. Massimo Giletti diventa Pm e fa sciogliere per mafia il comune di Mezzojuso. Giorgio Mannino su Il Riformista l'11 Settembre 2020. La prefettura di Palermo, allora guidata da Antonella De Miro, l’aveva definito «un comportamento indicativo di una forma di rispetto rivolto ad un uomo di mafia». Così grave tanto da essere menzionato tra le prime pagine delle motivazioni che hanno portato, lo scorso dicembre, allo scioglimento per mafia del comune di Mezzojuso. Ma l’ex sindaco del piccolo paese in provincia del capoluogo siciliano, Salvatore Giardina, non ha mai partecipato al funerale del boss Nicola “don Cola” La Barbera (uno dei vivandieri di Bernardo Provenzano) come evidenziato dal tribunale civile di Termini Imerese – presidente Raimondo Lo Forti – che lo scorso agosto nel provvedimento che dichiara non candidabile Giardina scrive che «l’effettiva partecipazione al funerale di don Cola La Barbera non è in questa sede determinante alla luce della documentazione prodotta in corso di giudizio». Infatti Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, legali di Giardina, hanno presentato diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia gestito dall’ex sindaco a Villafrati. Documenti firmati proprio dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si stavano svolgendo le esequie del boss. Insomma Giardina non si trovava a Mezzojuso. Il tribunale di Termini Imerese, dunque almeno su questo punto, smentisce la prefettura palermitana. Ed è già un primo cortocircuito che desta più di qualche dubbio sulle reali motivazioni che hanno portato allo scioglimento per mafia di Mezzojuso. Paese sotto i riflettori dei media con la trasmissione su La 7 di Massimo Giletti, Non è l’arena che, con tanto di puntata live di oltre tre ore nella piazza principale di Mezzojuso, ha raccontato la storia delle sorelle Irene, Marianna e Gioacchina Napoli. Le tre donne – figlie di Salvatore “Totò” Napoli ritenuto, secondo fonti investigative, “capo indiscusso della famiglia mafiosa di Mezzojuso” già dalla fine degli anni Cinquanta e protettore, negli ultimi anni della sua latitanza, di Bernardo Provenzano nascosto proprio da Napoli in un monastero ortodosso del paese, e iscritto nel 1971 nello schedario degli indiziati per mafia, al numero 859, dall’allora capitano della stazione dei carabinieri di Corleone Carlo Alberto Dalla Chiesa – sono state vittime di danneggiamenti alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne danneggiavano le colture. Dietro questi danneggiamenti ci sarebbe la mano della mafia. Le donne hanno denunciato i fatti e la loro storia, grazie ai media, ha avuto grande eco. La giunta comunale, allora guidata dal sindaco Giardina, ha espresso più volte solidarietà. Ma l’amministrazione è stata accusata di un comportamento passivo nei confronti degli episodi subiti dalle Napoli. Intanto la macchina mediatica era stata messa in moto e il mostro sbattuto in prima pagina, anzi in diretta su La 7. Giletti ha anche pubblicato un libro dal titolo Le dannate – Storia delle sorelle Napoli che non si arrendono alla mafia. Ma come si è arrivati allo scioglimento per mafia del Comune di Mezzojuso? Nelle motivazioni redatte dalla prefettura palermitana si parla di irregolarità nell’organizzazione di feste e sagre, nel conferimento dei rifiuti, nell’affidamento degli appalti, nella riscossione dei tributi e delle amicizie pericolose di singoli amministratori. Giardina, però, è sicuro: «Se si trova una parola in uno degli atti amministrativi dove io abbia favorito questi presunti mafiosi, perché ad oggi non c’è nessun condannato per 416 bis a Mezzojuso, voglio l’incandidabilità a vita. Non per due anni. Anche perché tutte le aziende che la mia amministrazione avrebbe favorito sono poi state utilizzate nella gestione dei commissari prefettizi, così come i lavori post-alluvione nel 2018 costati 600 mila euro sono stati regolarmente rendicontati dalla Protezione Civile regionale. Quindi delle due l’una: o la Protezione Civile regionale è pure mafiosa o non lo è nessuno. O lo sono anche i commissari prefettizi che hanno continuato a gestire il paese affidandosi alle medesime ditte oppure entrambe le gestioni operavano nel bene. Come sono sicuro che sia stato». Tra queste c’è la Esperia che si è occupata del recupero crediti. Nessuna commessa con trattativa privata sarebbe stata assegnata a parenti del vecchio capomafia Benedetto Spera. Un consorzio a cui allora aderivano più di 1500 comuni a livello nazionale: «Anche se fosse stata assegnata ai parenti del boss per gli altri 1499 comuni non si profilerebbe il reato e per Mezzojuso sì? Gli altri comuni non sono stati sciolti per mafia. Al contrario continuano a lavorare con la ditta Esperia», dice Giardina. L’incandidabilità non ha riguardato, invece, l’ex generale dei carabinieri ed ex assessore – dimessosi dopo sei mesi dall’incarico – nella giunta Giardina, Nicolò Sergio Gebbia, per il quale il tribunale ha rigettato la richiesta proposta dal Viminale. Per Gebbia «il caso montato sulle sorelle Napoli è pirandelliano. Non parliamo di vittime della mafia ma di un fondo cospicuo per le vittime di mafia che non trova vere vittime di mafia a cui poterlo elargire. E così le vittime di mafia si devono inventare. E per errore ci si è imbattuti in questo caso. Sebbene, preciso, le sorelle Napoli siano brave persone. È stata una mistificazione che ha avuto la regia dei professionisti dell’antimafia».

Riemerse le prove. Mezzojuso, il padre delle sorelle Napoli fu calunniato dalla polizia: ecco le prove. Giorgio Mannino su Il Riformista il 13 Dicembre 2020. «Trovo strano, se non addirittura inquietante, la circolazione di “veline” di polizia, mentre non sono stati diffusi gli atti giudiziari che attestano l’insussistenza di pericolosità sociale di Salvatore Napoli, padre delle mie assistite Irene, Marianna e Gioacchina Napoli. E che lo stesso sia stato scagionato dalle accuse infamanti solo dopo un processo che vide condannato per calunnia l’autore delle lettere anonime che lo infangavano». Così l’avvocato Giorgio Bisagna difende la memoria del padre delle tre sorelle Napoli vittime, a Mezzojuso, di danneggiamenti – dietro i quali ci sarebbe la mano della mafia – alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne hanno danneggiato le colture. Una storia finita sotto i riflettori dei media con la trasmissione su La 7 di Massimo Giletti Non è l’arena che in diretta televisiva, sollecitò l’allora ministro degli Interni Matteo Salvini a sciogliere il comune per mafia. Cosa che avvenne esattamente un anno fa nonostante né l’ex sindaco, Salvatore Giardina, né i membri della sua giunta siano mai stati inquisiti per fatti di mafia. E siano incensurati. Secondo la prefettura di Palermo, uno degli elementi centrali che avrebbero portato al provvedimento, sarebbe stato la partecipazione di Giardina alle esequie del boss don Cola La Barbera il 29 ottobre 2004. Ma i legali dell’ex sindaco, Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, hanno presentato diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia gestito da Giardina a Villafrati. Documenti firmati proprio dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si svolgevano le esequie. A cui avrebbero partecipato, secondo molte fonti del paese, circa mille persone. Due settimane fa, invece, durante la trasmissione di Giletti, un testimone anonimo ha raccontato di aver visto “con i suoi occhi, nel primo pomeriggio” Giardina al funerale di La Barbera. E di non potersi sbagliare perché “c’erano circa 20 persone”. La presenza di Giardina sarebbe confermata da una relazione “corposa e dettagliata” dei carabinieri della compagnia di Misilmeri, trasmessa poi alla procura di Termini Imerese. Ma di questo documento, al momento, non c’è traccia. Abbiamo fatto richiesta al comando dei carabinieri ma l’esito è stato negativo. Richiesta inoltrata, circa dieci giorni fa, anche alla prefettura. Siamo ancora in attesa di risposta. Gli avvocati di Giardina aspettavano di leggerla negli atti processuali, ma non è mai stata presentata. Sul caso delle tre sorelle l’amministrazione, inoltre, è stata accusata di un comportamento passivo e dunque di aver favorito un clima d’isolamento. Intanto la macchina mediatica, messa in moto da Giletti, aveva sbattuto il mostro su La 7 in un processo in diretta tv. Ad esacerbare un clima già avvelenato sono state le notizie riguardanti il padre delle sorelle Napoli, Salvatore “Totò” Napoli ex sindaco del paese. In particolare la sua presunta mafiosità, affibbiatagli a suon di calunnie, come accertato dalla magistratura, dai suoi avversari politici. Incartamenti che abbiamo potuto leggere solo pochi giorni fa. Il 30 maggio 1968, Napoli – già oggetto di diffida nel 1963 – venne proposto, sulla base di una serie di lettere anonime, dal questore di Palermo Zamparelli per l’emissione di un provvedimento di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un comune fuori dalla Sicilia in quanto «ha finito con l’aggiudicarsi il ruolo di capo della malavita organizzata del luogo e che è riuscito ad eludere ogni investigazione perché protetto». La polizia gli attribuisce un omicidio e un tentato omicidio, danneggiamenti e atti incendiari. Ma «su tali fatti non è stato possibile raccogliere quelle prove necessarie per denunciarlo, pur nella consapevolezza della sua responsabilità», scrive la questura. Il tribunale due mesi dopo rigetta la proposta di Zamparelli «in quanto le proposizioni del rapporto erano apparse generiche e che le accuse anonime mosse contro di lui, provenissero dai suoi avversari politici per frustrarne il suo operato». Giudizio confermato anche dalla Corte d’appello di Palermo nel 1969: «È molto verosimile che lo scopo sia stato quello di eliminarlo politicamente e che contro di lui sia stata ordita un’ignobile macchinazione». Nel 1971 Napoli viene iscritto nello schedario delle persone indiziate di appartenere alla mafia. L’autore dell’esposto anonimo contro Napoli inviato alla questura è stato poi identificato in Francesco Paolo Bonanno condannato per calunnia nel 1974. «La cultura del sospetto va combattuta. Sono i fatti e gli atti giudiziari che devono avere rilevanza», dice Bisagna. Al netto di tutto ciò – che era doveroso ricordare – restano in piedi i tanti dubbi sullo scioglimento di Mezzojuso durante l’amministrazione Giardina quando di mafia, in realtà, in quel palazzo non sembra esserci stata traccia.

Non è l’Arena, Massimo Giletti getta fango sulla Calabria. Angela Azzaro il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il fango contro la Calabria arriva anche in diretta tv, durante la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti. Lo dice con rabbia e con ragione il presidente del Consiglio comunale di Catanzaro, Marco Polimeni, collegato con il programma di La7, che più che uno studio o un’arena, sembra una fossa dei leoni, con le belve pronte a divorare chi ci finisce in mezzo. Polimeni resiste e – accusato di aver nominato il nome di Gratteri invano, peraltro citandolo come esempio per i giovani – ribatte a Giletti di volersi sostituire ai pm. Una accusa che pecca solo per difetto. Giletti da anni ormai (e purtroppo) racchiude in sé il ruolo dei pm, dei giudici e della giuria popolare, con verdetti quasi sempre scontati: i malcapitati sono sempre e solo colpevoli. Il titolo della puntata non è da meno: “Calabria in attesa di giudizio”. Non alcune persone, quelle indagate da Gratteri e a dire il vero non ancora rinviate a giudizio, ma una intera regione che viene criminalizzata. Giletti, del resto, fa sempre così. Non chiedetegli di informare, è un compito che a lui non interessa. Quello che gli interessa è gettare fango, fare processi in tv, aizzare le folle. E in questo ruolo effettivamente è insuperabile, niente da eccepire. Ma se invece ci mettiamo nell’ottica del “buon giornalismo” allora i conti non tornano, perché ancora non si capisce che cosa c’entrino le urla, le accuse, la messa alla gogna delle persone. Ho smesso di vedere Giletti da un po’ proprio per questo e per la stessa ragione non mi sono stracciata le vesti quando la Rai ha deciso di non rinnovargli il contratto. Più che mai la tv pubblica dovrebbe impedire che i talk diventino produttori, a ciclo continuo, di antipolitica, qualunquismo, giustizialismo. Questo è invece Non è l’arena di Massimo Giletti, un programma in cui la presunzione di non colpevolezza è questione di archeologia del diritto, mentre la norma è quella del Vecchio Testamento: occhio per occhio, dente per dente…Giletti ha coltivato un pubblico indisciplinato, rancoroso, convinto che tutti siano responsabili di qualche nefandezza e che le accuse non vadano dimostrate, ma prontamente trasformate in pena. Oggi quasi tutta la televisione italiana è costruita sul modello del processo. Anche i talent, anche i talk show politici, anche i “chi l’ha visto”, anche i reality. Il processo cannibalizzato dalla tv, si è vendicato divorando tutti i format. Non è l’Arena è una fossa dei leoni, dove il conduttore getta in pasto al pubblico inferocito il capro espiatorio di turno che viene sommariamente processato e poi virtualmente lapidato. E non si tratta di essere innocentisti o garantisti, si tratta di dire basta a un modo di fare televisione che ha generato un Paese di mal informati, pronti a credere al primo che urla di più. E quanto a urla nessuno riesce a battere Giletti. Domenica sera era contornato da un pubblico in studio che rammentava un coro di prefiche: con ululatati, mugugni, applausi, sottolineava la rabbia contro Polimeni, impossibilitato quasi a replicare. Una scena terribile che dovrebbe essere dimenticata e che invece i siti dei giornali on line riprendono come esempio, modello. O forse come monito, come a dire: attenti, state zitti, non difendetevi dalle accuse, se no la prossima volta tocca a voi finire nella fossa. C’è da aver paura, da preoccuparsi e da sperare che una nuova televisione possa sorgere: senza urla, senza processi sommari, senza gogne. Nel 1994 il francese Daniel Soulez Lariviere manda in stampa il saggio Il circo mediatico giudiziario, titolo che è diventato anche espressione emblematica del cortocircuito che si è creato, soprattutto in Italia, tra giustizia e politica. Ma forse neanche Lariviere, per quanto profetico, poteva immaginare che in Italia quel circo diventasse così potente e conquistasse tanto spazio, monopolizzando la maggior parte dell’informazione e dei talk show. Il vulnus da lui denunciato era appena all’inizio, oggi i conduttori si sentono come il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, pronti a incarcerare anche Cristo purché gli ascolti vadano su.

Non è l'Arena, Tina Rispoli da Massimo Giletti attacca Roberto Saviano: "E' un pazzo, una persona malata". Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Tina Rispoli, ospite con il marito Tony Colombo da Massimo Giletti a Non è l'arena su La7, attacca pesantemente Roberto Saviano: "Questa è una persona malata, un depresso, ragazzi questo è un pazzo, io ci sto mettendo la faccia. Questo non fa altro che raccontare Gomorra, quello che legge dai giornali". E' un fiume in piena la donna e il conduttore cerca di arginarla: "Non potete definirlo come lo definite voi, è un narratore di realtà". Quindi la Rispoli sbotta e rincara: "Ma quale realtà? Non ce la facciamo più a sopportarlo. Dal 2004 sta raccontando sempre la stessa storia. Abbiamo capito". La Rispoli fa parte di una famiglia di Napoli che avrebbe forti legami con la camorra, tanto che lei e le sue sorelle hanno sulle braccia il tatuaggio con il guanto da boxe che dimostrerebbe l'appartenenza al clan "boxer". E' stata sposata con Gaetano Marino, noto personaggio legato alla camorra, ucciso con 13 colpi di pistola a Terracina, 7 anni fa. La vedova è poi convolata a nozze col cantante neomelodico napoletano, Tony Colombo, che sarebbe stato presente a tutte le feste organizzate dallo stesso clan.

Non è l'arena, domanda sulla camorra di Massimo Giletti, Tina Rispoli e Tony minacciano di lasciare lo studio. Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Tensione in studio tra Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, e i suoi due ospiti, Tony Colombo e Tina Rispoli. Lui dopo una domanda sulla camorra minaccia di lasciare lo studio: "Me ne vado. E' una vergogna associare la camorra alla mia vita, solo perché deve fare audience. Parliamo onestamente", dice mentre prende per mano la moglie per abbandonare la trasmissione. "Sì ma voi dovete rispondere a delle domande", ribatte il conduttore. La Rispoli fa parte di una famiglia di Napoli che avrebbe forti legami con la camorra, tanto che lei e le sue sorelle hanno sulle braccia il tatuaggio con il guanto da boxe che dimostrerebbe l'appartenenza al clan "boxer". E' stata sposata con Gaetano Marino, noto personaggio legato alla camorra, ucciso con 13 colpi di pistola a Terracina, 7 anni fa. La vedova è poi convolata a nozze col cantante neomelodico napoletano, Tony Colombo, che sarebbe stato presente a tutte le feste organizzate dallo stesso clan. 

I giornalisti? Chiamateli Grandi Inquisitori. Angela Azzaro il 7 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ernest Hemingway, premio Nobel nel 1954 con Il vecchio e il mare, era un grande scrittore perché, prima ancora, era un grande giornalista. Un reporter. Il suo primo scritto è un articolo per il giornale della sua città natale, sobborgo di Chicago. Era uno di quelli che prima di scrivere andava a vedere, toccare con mano, annusare. Una curiosità che lo ha portato in Spagna, in Francia, in Italia, in Africa, nella sua amatissima Cuba, quella della pesca, dei sigari, del mojito. Quando toccava una realtà se ne innamorava, cercava di capire entrando in sintonia con quello che raccontava. Si chiamava e si chiama: pathos, pietà, intelligenza. E da quella intelligenza, poi, nasceva il testo: racconto o reportage che fosse. Negli ultimi anni della sua vita, già gravemente dolorante per un incidente aereo, non smise di viaggiare, voleva ancora conoscere, innamorarsi. Scrivere. Oggi invece trionfa un altro modo di fare giornalismo, in cui la pietas è stata sostituita dalla crudeltà. Importante non è conoscere, non è aiutare a capire chi legge, ma fare audience. È il giornalismo che sembra fatto a immagine e somiglianza di un Savonarola per il moralismo, a un Davigo per la “presunzione di colpevolezza”, ma ancora più esattamente il modello è Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero che interrogava gli accusati di tradimento durante il Grande terrore staliniano. Per lui tutti erano colpevoli, tutti avevano qualcosa da nascondere e da confessare, tutti dovevano essere messi sotto torchio perché sicuramente avevano minato la causa rivoluzionaria. Spesso venivano mandati a morire. Oggi il terrore (la storia si ripete in forma di farsa…) è quello di un giornalismo che invece di informare, processa, invece di capire condanna, invece di verificare le notizie, cerca il clamore. C’è anche la versione light: quella del giornalista che ti insegue per strada e ti fa la domanda sperando che tu non risponda e così possa dire: «Ah che infingardo, non ha risposto. Quindi è colpevole». Come la metti la metti, sembrano tanti figlioletti di Andrej Vyšinskij, non più ispirati dal sacro fuoco del comunismo, ma da quello della Verità, rigorosamente con la V maiuscola, che però di fatti, date, documenti se ne frega altamente. Il retropensiero è sempre lo stesso: «Non c’è ipotesi di reato? Va beh, qualcosa deve per forza aver fatto». Gli esempi si sprecano e ci sono intere trasmissioni che seguono il metodo Vyšinskij come se fosse il manuale del buon giornalismo. L’altro ieri, a Piazza Pulita, Corrado Formigli non ha intervistato il leader di Italia Viva Matteo Renzi: gli ha puntato la lampada e lo ha interrogato sul caso Open. Il volto contratto, la postura e il ghigno da pm, le domande di chi non ha alcun interesse a sapere cosa pensi o sappia l’altro, ma volte esclusivamente a incastrarlo, metterlo in cattiva luce, se possibile umiliarlo. Per sfortuna di Formigli, Renzi è bravino: si è sottratto abbastanza facilmente a questo gioco al massacro rispondendo per filo e per segno sul caso Open, e respingendo il metodo inquisitorio al mittente. Quasi tutta la tv oggi è costruita sul modello del processo: giornalisti-pm, opinionisti-giudici, spettatori-giuria popolare. È il cuore del populismo televisivo che in questi anni ha prodotto trasmissioni come Le Iene. I suoi giornalisti sono i migliori nel perseguitare l’obiettivo, nell’incalzarlo e nel creare casi che spesso si risolvono nel linciaggio della persona coinvolta. Ci stanno provando anche con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che giovedì sera si è infuriato con la Iena Antonino Monteleone. «Lei – gli ha detto il premier – è fuori di testa». Conte, ormai celebre per il suo aplomb, ha perso la pazienza perché la Iena lo ha accusato di aver lavorato gratis per una consulenza ma di essersi poi fatto versare i soldi sul conto dell’avvocato Alpa: «Continuate a scrivere menzogne su menzogne. Non dovete approfittare del fatto che io da quando sono presidente del Consiglio non ho querelato nessuno». Normale che se si viene diffamati, incalzati con accuse false, ripetute in tutte le circostanze, ci si arrabbi. È quello che è accaduto anche al nostro editore, Alfredo Romeo, che per gentilezza ha accolto due giornalisti di Piazza pulita, rimasti fuori dalla sede per quasi tutto il giorno. Li ha fatti entrare, ha risposto alle loro domande, ma davanti alle inesattezze e alle insinuazioni ha perso la pazienza. I due giornalisti non avevano nessuna intenzione di conoscere i fatti, di sapere la versione dell’interlocutore, di verificare i dati in loro possesso. Erano lì per affermare la loro versione, per renderla più veritiera provando a mettere in difficoltà l’intervistato. Ma i fatti sono i fatti, le date sono le date e se si dice il falso, non è buon giornalismo, perché si nasconde la telecamera che riprende e registra, è – per citare Conte – una menzogna.

Platì: la retata di Gratteri in diretta Tv, la galera e la pioggia di assoluzioni. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 7 luglio 2020. Tappa dieci. Gli abitanti del piccolo comune dell’Aspromonte ricordano la terribile notte del 2003 in cui migliaia di uomini in divisa cinsero d’assedio il paese nell’ambito dell’operazione “Marine”: oltre cento gli arresti ma solo otto le condanne a fine processo. «Quando arresti una persone perbene, questa non lo dimenticherà mai perché subisce la violenza di Stato». Secondo Ilario Ammendolia, intellettuale della Locride ed ex sindaco di Caulonia, in Calabria lo Stato sbaglia due volte: lasciando prima il territorio in condizioni di ingiustizia e sottosviluppo, e poi gettando la società civile in pasto ai pregiudizi dell’intero Paese e dell’opinione internazionale. Con lui ripercorriamo la vicenda che quasi vent’anni fa sconvolse Platì, piccolo centro dell’Aspromonte che nell’immaginario pubblico è diventato uno dei luoghi simbolo della ‘ ndrangheta. È il 12 novembre 2003: nel cuore della notte un migliaio di uomini in divisa cinge d’assedio il paesino della locride arrestando oltre cento cittadini. In manette due ex sindaci, funzionari comunali, il medico e «lo “scemo del villaggio”, a cui i compaesani per calmarlo raccontarono la pietosa bugia che lo avrebbero portato in pellegrinaggio da Padre Pio».La maxi operazione “Marine”, coordinata dall’allora sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, mirava a sventare un sistema criminale che dalle ndrine locali sarebbe passato per le istituzioni comunali. Lunga la lista di reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo mafioso, voto di scambio, abuso in atti d’ufficio, falso, estorsione. Secondo l’accusa, le cosche – identificate con i clan dei Barbaro, egemoni sul territorio agivano indisturbate da Platì acquisendo il monopolio degli appalti pubblici e guidando parallelamente traffici illeciti. Nell’ambito dell’operazione venne scoperta e distrutta anche una rete di bunker e cunicoli che avrebbe permesso ai latitanti di nascondersi e di occultare le vittime di sequestro. Ma l’intero castello accusatorio dell’inchiesta crollò presto. Già in sede di convalida, il Tribunale del riesame aveva rimesso in libertà la maggior parte degli indagati. A fine processo, su 44 imputati giudicati con rito abbreviato, le condanne sono solo otto, di cui almeno cinque per reati minori. Per altri 19, per i quali si procedeva con rito ordinario, arriva la prescrizione. Nel 2015 infatti, una sentenza della Corte D’Appello di Reggio Calabria derubrica il reato a loro contestato: l’associazione per delinquere semplice, benché riconosciuta in alcuni casi, non avrebbe agevolato le ‘ ndrine. Intanto per il comune di Platì comincia il calvario amministrativo e politico. Sciolto per condizionamento mafioso a più riprese, l’ente viene retto negli anni da commissioni straordinarie e riorganizzato con un esteso programma di lavori pubblici. Con un fallimento elettorale dietro l’altro, nessuna rappresentanza politica riesce a stabilirsi al comando: si illude di ripartire con le elezioni del 2016, ma dopo due anni l’amministrazione viene commissariata per la quarta volta e tutt’oggi non ha né un sindaco né un consiglio comunale. «Bisogna rivedere tutta l’impostazione strategica nella lotta alla mafia. Le maxi retate fanno grande rumore ma la ‘ ndrangheta ne esce rafforzata», spiega Ammendolia, autore del saggio critico “La ‘ ndrangheta come alibi. Dal 1945 ad oggi” e direttore del settimanale Jonico “Riviera”. Una strategia che per l’ex sindaco non è certamente quella di «chi ha consapevolmente trasformato la sacrosanta lotta alla ndrangheta in un palcoscenico su cui discutibili comparse recitano la parte degli eroi aprendosi la strada a colpi scena destinate a trasformarsi in “notizie fragorose” sui media nazionali». Dell’operazione Marine – e di altri maxi blitz che negli anni hanno reso celebre il procuratore Gratteri – Ammendolia aveva studiato le carte fin da subito scovandone contraddizioni ed errori grossolani. Secondo la sua tesi, il fallimento di inchieste così ambiziose non farebbe che rafforzare le mafie restituendo un’immagine indebolita dello Stato. «È la crisi delle democrazia – aggiunge per cui tra i cittadini prevale il sentimento del “si salvi chi può”. Con operazioni da guerra lampo come “Marine”, si tenta, ed in parte ai riesce a saldare in un unico fronte gli ndranghetisti e le persone innocenti vittime di assurde repressioni di massa». Dell’efficacia di quell’operazione così estesa ricorda di aver subito dubitato, nonostante il clamore mediatico che produsse. La notizia degli arresti era su tutte le prime pagine. Ne parlarono anche i giornali stranieri, tra cui il New York Times e la BBC. «Così si produce uno sguardo ingessato sulla Calabria», conclude Ammendolia, che si sofferma in una riflessione sulla giustizia- spettacolo. «Anche se i periodi di detenzione sono stati brevi – sottolinea – e le sentenze si sono incaricate si ridimensionare la portata dell’operazione, nell’immaginario comune resta la cultura del sospetto» .

Gratteri arresta metà Calabria. Giustizia? No, è solo show. Ilario Ammendolia il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. All’alba di ieri si sono mossi 3mila carabinieri dei Ros, con l’ausilio d’un reggimento di paracadutisti  degli squadroni aviotrasportati, reparti mobili, mezzi di unità aerei edunità cinofile in un’operazione di guerra contro la ‘ndrangheta. 330 arresti, quasi 500 indagati, un’impresa colossale. L’augurio è che questa impresa, coordinata dalla Dda di Catanzaro, riesca a colpire con fermezza la ‘ndrangheta. Certamente in Calabria operazioni di questo tipo non sono una novità, come nuovo non è il dottor Nicola Gratteri che, negli ultimi 30 anni, ha avuto quasi sempre un ruolo di primissimo piano. E anche stavolta è stato lui a ordinare la retata. Sui risultati delle operazioni precedenti è lecito avere qualche riserva anche perché quasi tutte hanno dei tratti in comune: un grande dispiegamento di militari, centinaia di arresti, la presenza di qualche personaggio noto, quasi per dare un pizzico di sale a una minestra altrimenti insapore. Poi una raffica di assoluzioni con relativi risarcimenti per ingiusta detenzione.

L’OPERAZIONE MARINE – Furono più di un migliaio i carabinieri che la notte del 12 novembre del 2003 circondarono Platì – piccolo paese di tremila anime in provincia di Reggio Calabria – arrestando centinaia di persone. Fu un’operazione di guerra lampo con porte forzate, donne imploranti, bambini in pianto. E poi una lunga catena di ammanettati tra cui il sindaco del paese, il medico, lo “scemo” del villaggio, a cui i compaesani per calmarlo raccontarono la pietosa bugia che lo avrebbero portato in pellegrinaggio da Padre Pio.

L’operazione “Marine” – si chiamava così – non solo tenne le prime pagine dei giornali nazionali per diversi giorni: ne parlarono anche i giornali stranieri, tra cui il New York Times e la Bbs. Le sentenze si incaricarono di ridimensionare la portata dell’operazione Marine, tant’è che le condanne furono appena 3 (tre: tre su centododici, un po’ meno del 2%) mentre gran parte degli imputati furono prosciolti già nella fase delle indagini preliminari.

IL CASO STILARO – Un’eccezione? Direi la normalità, almeno in Calabria. Qualche tempo prima di “Marine” sulla Locride s’era scatenata l’operazione Stilaro. Anche in questo caso ci furono titoli di prima pagina sui giornali nazionali: arrestati i sindaci di Camini e Monasterace e con loro il più importante floricoltore calabrese, l’olandese Von Zanten, e poco meno di cento persone assicurate alla patrie galere. Anche in questo caso ci furono le dichiarazioni ufficiali del dottor Gratteri ma le sentenze ebbero l’efffetto di demolire quasi per intero l’impianto accusatorio.  I sindaci coinvolti non arrivarono a processo perchè la loro posizione fu stralciata e archiviata già nella fase delle indagini preliminari. Il sindaco di Camini, un vecchio maestro elementare, restò profondamente segnato dalla vicenda sino alla morte. L’arresto dell’imprenditore olandese Von Zanten, poi prosciolto, ebbe come logica conseguenza la crisi delle sue aziende, allora all’avanguardia. E assolti furono la stra- grande maggioranza degli imputati.

GLI ALTRI PRECEDENTI – Tra un’inchiesta e l’altra non c’è il vuoto ma “Circolo Formato”; “Jonica Agrumi”; “Asl Siderno” e poi una infinità di operazioni con le reti a strascico destinate a restare quasi sempre vuote. C’è stata la richiesta di mandare a processo 500 (ripeto cinquecento) tra amministratori e funzionari dei Comuni della Locride tutti regolarmente respinti dal Gup.

GRATTERI “IL NUOVO FALCONE” – L’ultima impresa in ordine di tempo è “Stige”, che all’alba del 9 gennaio 2018 ha visto mille carabinieri sguinzagliati nella provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone. Il dottor Gratteri la definì “La più grande operazione degli ultimi 23 anni”, così come quella di oggi è stata definita “la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxi processo di Palermo”. Tradotto: Gratteri è il nuovo Falcone. Parola di Gratteri. A parte “Palermo”, c’è da prendere atto che il numero di assoluzioni, in abbreviato, degli imputati arrestati nell’operazione Stige si aggira sul 40%, non possiamo che augurarci che in quella odierna gli innocenti coinvolti siano di meno.

L’ULTIMA RETATA – Infine, nell’operazione della notte scorsa sono stati coinvolti anche alcuni “politici” ma sarebbe giusto ricordare che il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, è stato quattro mesi in esilio tra le montagne di San Giovanni in Fiore per un provvedimento adottato dalla procura di Catanzaro e che la Corte di Cassazione ha giudicato illegittimo perché viziato da “pregiudizio “.

LA CALABRIA COME UNA GRANDE CASERMA – Quella a cui abbiamo appena accennato è una lunga storia su cui riflettere, ma una cosa è certa: le grandi operazioni di cui abbiamo parlato non hanno sconfitto la ‘ndrangheta anzi le hanno consentito di crescere sino a diventare la setta criminale più ricca e agguerrita di Europa. Nello stesso tempo ha trasformato la Calabria in una grande caserma in cui non sembra esserci grande rispetto per lo Stato di diritto e per la libertà delle persone.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Giudice Onorari “sfruttati”?

Storica sentenza della Corte di Giustizia Europea: le toghe onorarie vanno equiparate ai magistrati. Redazione su Il Riformista il 17 Luglio 2020. «La Corte di Giustizia dell’Unione europea con la storica sentenza del 16 luglio 2020 ha equiparato lo stato giuridico ed economico dei giudici di pace e dell’intera magistratura onoraria a quello della magistratura professionale, accogliendo integralmente i quesiti pregiudiziali del giudice di pace di Bologna, giudice del rinvio pregiudiziale con l’ordinanza dell’ottobre 2018». Lo si legge in una nota diffusa dall’Unione nazionale dei giudici di pace (Unagipa), nella quale si sottolinea che «la Corte di Lussemburgo conferma le eccellenti impressioni emerse all’esito della discussione della causa davanti al collegio a cinque della seconda sezione all’udienza del 28 novembre 2020, in cui la giudice di pace ricorrente Cristina Piazza è stata difesa dagli avvocati Gabriella Guida, Francesco Paolo Sisto, Francesco Visco e Vincenzo De Michele e la fondatezza delle questioni poste dal giudice di pace di Bologna sono state sostenute dalla stessa Commissione europea, che ora aprirà la procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, per obbligare il legislatore nazionale ad adeguarsi immediatamente alla decisione europea».

Il Ministero di Giustizia dovrà pagare gli arretrati e lo stipendio di un togato ad un giudice onorario. Il Corriere del Giorno il 17 Dicembre 2020. La sentenza del Tribunale del Lavoro di Vicenza consente un ulteriore passo in avanti per i Got, mentre le magistratura onoraria confida da tempo una legge che possa sistemare l’inquadramento dei giudici onorari, garantendo i diritti del lavoratore subordinato che secondo l’Unione Europea, dovrebbero avere, ma che invece finora sono stati calpestati dal legislatore italiano. Continua la protesta della magistratura onoraria davanti a vari tribunali d’Italia , per chiedere di ricevere un giusto riconoscimento della propria professione. Nel frattempo è arrivata una pagina importante per la categoria, con la decisione vergata da un giudice del lavoro del Tribunale di Vicenza che ha accolto il ricorso di una Got, cioè di una giudice onoraria, la quale appellandosi alla normativa europea, richiedeva che le venisse riconosciuto e retribuito per un periodo che va da maggio 2003 a luglio 2017, lo stesso stipendio di un giudice togato. Il giudice vicentino ha accolto l’istanza, affermando che la Got ricorrente avrebbe avuto diritto a ricevere gli stessi compensi dei giudici ordinari, indicando l’esatto importo dello stipendio che avrebbe dovuto esserle retribuito, invece del pagamento a cottimo che tutti i Got ricevono dal Ministero di Giustizia. La somma spettante è la stessa della classe stipendiale HH03, quella cioè prevista per un magistrato ordinario di ruolo, dopo aver svolto il tirocinio, che sulla base delle tabelle più aggiornate, inizialmente dovrebbe corrispondere a circa di 32mila euro lordi. Il giudice poichè le somme che sarebbero spettate al Got ricorrente non le sono state retribuite, ha condannato il ministero a pagarle adesso sono riconoscendo gli arretrati, dai quali va detratto il compenso “a cottimo” sinora percepito. Alla ricorrente spetterà anche il risarcimento per “l’illegittima reiterazione dei rapporti a tempo determinato” che vengono fatti ai magistrati onorari. Gli avvocati Francesco Rossi, Luisa Miazzi e Chiara Tomiola che hanno patrocinato la causa dinnanzi al Tribunale di Vicenza hanno commentato parlando “di una sentenza storica perché per la prima volta viene pienamente riconosciuto, in adesione ai principi sanciti dalla Corte di Giustizia, in capo ad un Giudice Onorario che ha svolto funzioni assimilabili a quelle di un giudice togato il diritto a percepire lo stesso trattamento retributivo. Ciò non significa, ovviamente, che il Giudice Onorario diventi con ciò magistrato ordinario, significa però che se egli svolge lo stesso lavoro avrà diritto alla stessa retribuzione”. Cristina Piazza, giudice di pace che si era rivolta al magistrato per ottenere il riconoscimento delle ferie di agosto, rivolgendosi sino alla Corte di Giustizia Europea, che con la sentenza Ux di luglio scorso le ha dato ragione, spiega: ″È il primo caso in cui il giudice dà un inquadramento specifico alla magistratura onoraria. Una recente decisione del Tribunale di Napoli sanciva l’equiparazione del trattamento economico dei magistrati togati ai colleghi onorari, ma non si specificava l’inquadramento”. La sentenza del Tribunale del Lavoro di Vicenza consente un ulteriore passo in avanti per i Got, mentre le magistratura onoraria confida da tempo una legge che possa sistemare l’inquadramento dei giudici onorari, garantendo i diritti del lavoratore subordinato che secondo l’Unione Europea, dovrebbero avere, ma che invece finora sono stati calpestati dal legislatore italiano. A dire il vero trasformare la questione in un provvedimento legislativo non è operazione semplice. In Parlamento giace da tempo un progetto di riforma, ma i Got che hanno protestato in questi giorni chiedono un iter più veloce, con la decretazione di urgenza, per la quale ad onor del vero, ultimamente si è dichiarato favorevole, anche il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Nei giorni scorsi aveva fatto discutere la risposta del Guardasigilli Bonafede all’interrogazione parlamentare del deputato Andrea Delmastro Delle Vedove (Fratelli d’Italia) che chiedeva nella sua interrogazione, se il governo ha intenzione di utilizzare le risorse del Recovery fund per “assumere stabilmente il personale della magistratura onoraria”. Nelle dieci pagine della sua risposta scritta il Ministro di Giustizia, Bonafede aveva spiegato perché riteneva non essere possibile l’equiparazione in toto con le toghe ordinarie. In un passaggio della risposta si legge: “Inoltre dai lavori preparatori della Costituzione risulta che l’opzione favorevole alla previsione degli onorari è legata altresì alla finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione della magistratura professionale”. Un passaggio contenuto nella risposta di Bonafede, che è stato diffuso dall’onorevole Del Mastro in un suo comunicato, ha fatto andare letteralmente su tutte le furie i giudici onorari e suscitato la reazione di una parte dei magistrati “togati”.

L’ingiustizia “onoraria” all’italiana. Gaia Cesare l'1 dicembre su Il Giornale. In nome del popolo italiano chiedono la condanna per i datori di lavoro che non versano i contributi previdenziali ai propri dipendenti. Ma per loro contributi previdenziali non ce ne sono.  Se si ammalano di Covid – e magari lo hanno contratto in tribunale, come è già successo a molti –  non possono celebrare udienze e quindi non sono pagati. Idem se hanno un tumore e sono costretti a sottoporsi a chemioterapia oppure, più semplicemente, se prendono un’influenza e non possono muoversi da casa. Niente malattia, niente maternità, niente ferie, niente pensione. Benvenuti in Italia, dove chi è chiamato ad amministrare la Giustizia non ha diritto a godere di un principio base di giustizia: vedere riconosciuto il proprio lavoro subordinato. Si tratta di 5mila giudici onorari di tribunale (Got), giudici di pace e viceprocuratori onorari (Vpo), un piccolo esercito di lavoratori che non gode di alcuna tutela giuridica. Nonostante smaltiscano il 100% del carico degli uffici dei giudici di pace, nonostante trattino quasi la metà dei processi penali di fronte ai tribunali monocratici e il 50% di quelli civili. Sono i pariah della Giustizia italiana. Da oltre vent’anni. In nome del popolo italiano. Nel Paese in cui i giudici togati sono i dipendenti pubblici meglio pagati (compresi diplomatici e dipendenti della presidenza del Consiglio), per i giudici non-togati non c’è diritto nemmeno alle briciole. Per questo centinaia di loro da oggi, a Milano e a Palermo, incrociano la braccia. E la protesta si sta estendendo ad altre procure e tribunali d’Italia. Qualcuno – per rimarcare l’assurdità di questa situazione che li costringe a scegliere tra indigenza e salute –  ha cominciato uno sciopero della fame a oltranza. Contro quello che chiamano “caporalato di Stato”, denunciano: “Non abbiamo diritto di gioire o di soffrire, niente maternità retribuita, niente malattia retribuita”. Pagati a cottimo. Mentre l’Unione europea ha già aperto una procedura di infrazione per il nostro Paese e la Corte di Giustizia europea ha riconosciuto l’ovvio che l’Italia non vuole riconoscere: si tratta a tutti gli effetti di lavoratori subordinati. E la politica che fa? Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, rispondendo a un’interpellanza, ha precisato che la loro esistenza “è legata alla finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione delle retribuzioni della magistratura professionale”. Tradotto: quel mini-esercito che amministra la giustizia serve per evitare che lieviti il numero dei magistrati togati e per evitare che si abbassino i loro stipendi (badate bene, fra i più alti d’Europa) e il loro peso. Non solo. In Commissione Giustizia, al Senato, nemmeno il testo di legge a firma della senatrice Valeria Valente (con il quale si vuole modificare il dlgs 116 del 2017), introduce tutele per Vpo e Got, lasciando così senza previdenza e assistenza l’intera categoria della magistratura onoraria. Onoraria solo sulla carta. Perché per il resto continua a lavorare in nero. Per il Ministero della Giustizia. La giustizia che per loro non c’è.

Dopo lo sciopero della fame cominciato da tre giudici di pace. Il privilegio più odioso? Essere un giudice non imparziale. Eduardo Savarese su Il Riformista il 16 Dicembre 2020. La protesta in corso di magistrati onorari e giudici di pace, a motivo della precarietà della loro condizione, in uno alla rivendicazione di uno status meno gravemente dissimile da quello dei magistrati togati, pone sul tavolo almeno tre temi. Il primo attiene all’esercizio della giurisdizione da parte di coloro che fanno e non fanno parte, allo stesso tempo, della “macchina giudiziaria”. Che lo Stato si avvalga massicciamente dell’apporto lavorativo di questi soggetti significa che ne ha bisogno e che li remuneri in modo inadeguato è uno dei suoi tanti segnali di debolezza. Quando la debolezza diviene iniquità, siamo di fronte a una questione fondamentale. Ma la soluzione non può essere la parificazione al trattamento, giuridico e stipendiale, del giudice togato: perché ciò può farsi a condizione che l’accesso per tutti si fondi su una selezione per concorso pubblico. Il che, come tutti sappiamo, non avviene. E anche questo, oggi, è forse gravemente ingiusto, ma stavolta dal punto di vista degli utenti della giustizia. Mi direte: come se il concorso garantisse per sempre la qualità del lavoro! Concordo, non per sempre, ma fornisce di certo una base di partenza ragionevolmente soddisfacente nella stragrande maggioranza dei casi. Soluzioni mediane, improntate a trasparenza ed equità, sono quindi improcrastinabili. Il secondo tema attiene ai privilegi della magistratura togata della quale chi scrive fa parte. Il privilegio è di per sé un concetto neutro. Infatti, quando ricordiamo i privilegi dell’ancien régime, aggiungiamo l’aggettivo “odiosi”, “insopportabili” e così via. Lo sono in quanto assistiti da una ragione sentita come arbitraria. I privilegi della magistratura italiana sembrerebbero consistere in stipendi eccessivi e in un regime di totale “irresponsabilità”. Mi sembra una mitologia del privilegio fuorviante. I soldi: gli stipendi dei magistrati sono largamente inferiori a quelli di moltissimi funzionari della Pubblica Amministrazione (penso ai “gettoni” di molti consiglieri di amministrazione di nomina politica). La funzione è difficile e merita una remunerazione congrua che ne rafforzi prestigio e autonomia. Questo non lo dico io, ma il pensiero politico occidentale e la prassi degli Stati di diritto. Quanto all’irresponsabilità: le regole sulla responsabilità dei magistrati sono necessariamente protettive. Come afferma un giudice inglese in una sentenza sul fi ne vita: «I am a responsibility taker». In ogni atto giudiziario, firmato dal giudice, c’è un’enorme assunzione di responsabilità: così deve essere! E in quest’assunzione, il magistrato deve essere e sentirsi totalmente indipendente. Non è un caso che le regole sulla responsabilità civile dei magistrati, che sostanzialmente lasciano impuniti i loro errori a meno che non vi siano dolo o colpa grave, siano molto simili in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati di diritto. Altro profilo è invece quello della meritocrazia in magistratura (sul cui gigantesco fraintendimento si sono innestate le faide correntizie dell’ultimo quindicennio). E altro profilo ancora – caro a Il Riformista, giustamente – è quello della deriva politica delle indagini penali, ovvero dell’inefficienza delle indagini penali e del costo che questo ha sulla vita dei cittadini: temi politici, che la magistratura al suo interno – ed è il mio auspicio – deve ancora imparare a discutere con totale franchezza e assunzione di responsabilità. E veniamo allora al terzo tema: qual è la percezione intorno ai magistrati italiani? Purtroppo, l’informazione dell’ultimo quarto di secolo si è polarizzata tra divinizzazione e demonizzazione. Tolte le croste di queste derive, entrambe dannose (ma con effetti diversificati), che cosa resta? Credo che poche città italiane avrebbero da dire in argomento più di Napoli: l’esigenza di una franca, profonda analisi del rapporto tra politica e magistratura ha infatti in questa città uno dei suoi centri nevralgici. Nella mia esperienza, però, i napoletani non troppo insofferenti alle istituzioni pubbliche (tutte) mantengono ancora una certa fiducia nel valore più importante in assoluto: la terzietà del giudice. Su questa fiducia e questo valore bisogna, tutti, non retrocedere di un millimetro. Perché il vero privilegio odioso, la vera catastrofe è fondamentalmente una: il giudice non imparziale.

La protesta. La rivolta dei giudici onorari, stop alle udienze e sciopero della fame. Andrea Esposito su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. Sono pagati a cottimo e non hanno diritto a ferie, assenze per malattia e contributi pensionistici. Eppure sul loro lavoro si regge buona parte del sistema giudiziario italiano, incluso quello campano. Ecco perché adesso i magistrati onorari alzano la voce e chiedono al governo Conte di essere finalmente inquadrati e regolarizzati: una mobilitazione che tocca anche Napoli dove oggi e domani, alle 10.30, giudici di pace, giudici onorari di tribunale e viceprocuratori onorari sospenderanno le udienze per poi ritrovarsi all’esterno degli uffici in segno di solidarietà alle colleghe palermitane che nei giorni scorsi hanno addirittura avviato lo sciopero della fame. A Napoli e dintorni i magistrati onorari sono circa mille. Le loro competenze spaziano dal settore penale (furti, rapine semplici, fatti di droga e stalking) a quello civile (cause ordinarie fino a un valore di 5mila euro e fino a 20mila per le controversie riguardanti incidenti stradali), senza dimenticare la materia dell’immigrazione. Ciononostante non godono delle garanzie di cui beneficiano tanti altri lavoratori. Di questa situazione si è interessata anche l’Unione europea, che ha più volte intimato all’Italia di regolarizzare la posizione dei magistrati onorari, mentre è di pochi giorni fa la sentenza con cui il Tribunale di Napoli ha stabilito che i giudici di pace hanno diritto a un trattamento economico e normativo corrispondente a quello dei magistrati di professione che svolgono «funzioni analoghe alle dipendenze del Ministero». «Noi magistrati onorari stiamo contribuendo in maniera decisiva a portare avanti la giustizia – sottolinea Olga Rossella Barone, giudice di pace del foro di Napoli che martedì prossimo intraprenderà lo sciopero della fame insieme con la collega Antonella Giugliano del foro di Barra – L’inerzia dello Stato italiano davanti alle procedure d’infrazione aperte dall’Europa è inaccettabile non solo per noi diretti interessati, ma per chiunque abbia a cuore le sorti della giustizia». In prima linea anche gli esponenti dell’Assogot: «Condanniamo l’indifferenza mostrata dal ministro Bonafede e dai sottosegretari alla Giustizia nei confronti delle colleghe palermitane in sciopero della fame. Noi magistrati onorari siamo sfruttati dal datore di lavoro, cioè dallo Stato, e perciò chiediamo a gran voce le dovute tutele giuslavoristiche».

«Noi giudici onorari in sciopero della fame per i nostri diritti». Valentina Stella su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. Intervista a Vincenza Gagliardotto, in sciopero della fame per i diritti della categoria: «Nel giro di poche settimane si potrebbe verificare la paralisi di tutti i tribunali di Italia». Continuano i flash mob dei magistrati onorari lungo tutta la penisola per chiedere che lo Stato riconosca loro i diritti di un lavoratore subordinato. Nonostante sentenze nazionali ed europee vadano in questa direzione, l’Italia non legifera in tal senso. Due giorni fa persino la Corte Costituzionale ha riconosciuto anche ai giudici di pace, come già avviene per i togati, il rimborso delle spese di difesa nei giudizi di responsabilità connessi all’esercizio della loro funzione. Tutto ciò sembra non bastare per far sì che il ministro della Giustizia prenda atto che i magistrati onorari non sono dei volontari ma benzina del motore del sistema giustizia. Per tenere alta l’attenzione da undici giorni Sabrina Argiolas e Vincenza Gagliardotto, due giudici onorari del Tribunale di Palermo, sono in sciopero della fame. Alle due colleghe si è aggiunta Giulia Bentley, vice procuratore a Palermo e paziente oncologica, e Livio Cancellieri, giudice onorario al Tribunale di Parma, anche lui affetto da gravissime patologie pregresse. Lo sciopero della fame si unisce alla dichiarazione di autosospensione dalla attività giudiziaria, a cui hanno aderito i vice procuratori di Milano e si va estendendo pian piano presso tutte le sedi giudiziarie. «Nel giro di poche settimane si potrebbe verificare la paralisi di tutti i tribunali di Italia» dice la dottoressa Gagliardotto al Dubbio.

Come è nata la protesta?

«La protesta è nata dal basso, da due donne, da Palermo. Sabrina ed io ci siamo dette che questi decenni di battaglia sono serviti a poco: spesso abbiamo proclamato le astensioni, ossia il rinvio dei fascicoli, ma nulla abbiamo ottenuto dalla politica. In questo periodo di grave emergenza sanitaria, constatando che la nostra vita era in pericolo, essendo privi di qualsiasi tutela per la malattia, abbiamo dovuto autotutelarci sospendendo l’attività di udienza, sebbene in tal modo restassimo privi di ogni ristoro economico. Nella totale assenza di risposte da parte di interlocutori istituzionali, siamo giunte a una manifestazione nonviolenta di protesta, mediante lo sciopero della fame, seguendo le modalità tipiche di Marco Pannella».

Per che cosa protestate?

«Lavoriamo accanto alla magistratura professionale con cui condividiamo tutti gli oneri – valutazioni professionali e corsi di aggiornamento -. Lo Stato ci assegna oltre il 50% delle cause civili di primo grado, e oltre l’ 80 % di quelle monocratiche del settore penale. Mandiamo avanti il sistema giustizia ma senza alcun corrispondente riconoscimento: nessuna tutela della malattia, della maternità, nessun riconoscimento previdenziale. Nonostante questo lo Stato ci considera dei semplici volontari. Invece chiediamo di essere considerati dei lavoratori subordinati, come hanno stabilito sentenza europee e nazionali. Non chiediamo di essere equiparati ai magistrati togati».

Proprio i togati chiedono che veniate tutelati maggiormente. Solo la politica è distratta: come procedono le interlocuzioni con il ministro Bonafede?

«Certo, noi per loro siamo necessari, senza di noi ci dicono – i Tribunali non potrebbero andare avanti con le attività. Però poi al ministero certi tecnocrati riescono a impedire di regolarizzare la nostra situazione lavorativa. Forse sono proprio loro ad indurre il ministro Bonafede a considerarci come dei volontari. Per questo non vediamo da parte sua un serio interessamento della questione. Eppure sono oltre 20 anni che amministriamo la giustizia "in nome del popolo italiano". Le nostre sentenze in Appello e in Cassazione reggono come quelle dei togati».

Cosa chiedete in concreto?

«Chiediamo le tutele giuslavoristiche riconosciute a tutti i lavoratori subordinati, mediante una decretazione d’urgenza, che ci consenta di riprendere l’attività lavorativa con la serenità e le legittime tutele».

Fin quando andrete avanti?

«Fin quando non ci saranno le condizioni per riprendere. Per quanto riguarda lo sciopero della fame, siamo coscienti che non possiamo lasciarci morire: andremo avanti finché potremo. Lo Stato ci sta mettendo alla fame, allora decidiamo noi di fare la fame. Due nostri colleghi si sono ammalati di Covid- 19. Uno di loro, un padre di famiglia, è andato in terapia intensiva, per due mesi non ha potuto lavorare e non ha preso nessuna indennità di malattia. Siamo dunque al limite se non ci possiamo permettere neanche di ammalarci: è possibile che in uno Stato di Diritto noi che amministriamo la giustizia non abbiamo le tutele giuslavoriste che la Costituzione prevede?»

Però due giorni fa la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero vi ha comunicato che state violando il codice di autoregolamentazione, invitandovi a revocare l’astensione per non incorrere in sanzioni monetarie o addirittura nel licenziamento.

«Hanno preso un abbaglio perché in realtà disconoscono completamente l’articolo 21 comma 2 del decreto legislativo che nel 2017 riformò la magistratura onoraria e che attribuisce la facoltà ai singoli magistrati onorari di autosospendersi. La suddetta delibera ha ulteriormente esasperato l’animo dei magistrati onorari rafforzando il proposito di autospensione anche in altri tribunali».

Stop delle udienze fino a venerdì. Sciopero dei Giudici di Pace: “Smaltiamo il 50% del carico civile di primo grado per 700 euro al mese e senza tutele”. Giacomo Andreoli e Chiara Viti su Il Riformista il 12 Ottobre 2020. “I giudici di pace pronunciano sentenze in nome del popolo italiano e non possono essere trattati come lavoratori a cottimo come se fossimo nell’Ottocento”. È categorico Sergio Nicchi, vicepresidente dell’Associazione nazionale dei giudici di pace. Inizia oggi l’astensione, che si protrarrà fino alla fine della settimana, dalle udienze civili e penali indetta dai giudici onorari e giudici di pace, proclamata dalla Consulta della Magistratura Onoraria. Con lo stop di questa settimana si chiede dunque revisione della legge Orlando che – dice Nicchi – “ci precarizza ancora di più”.

“Gran parte della magistratura onoraria non avrà la pensione o quei pochi fortunati avranno il minimo pensionistico” chiosa invece il giudice e membro dell’Associazione Gabriele Di Girolamo. Fallite le mediazioni negli ultimi mesi del 2019, i giudici di pace continuano la protesta per ottenere tutele e garanzie di indipendenza, il diritto alla previdenza e all’assistenza sociale, la revisione delle regole sul trasferimenti e sui criteri di attribuzione del compenso. La magistratura onoraria da tempo chiede un trattamento dignitoso e legittimo, anche in virtù della sentenza 16 luglio 2020 della Corte di Giustizia Europea che ha riconosciuto ai magistrati onorari italiani lo status di “lavoratore” secondo i principi europei con il conseguente riconoscimento delle tutele giuslavoristiche ed economiche. Si insiste dunque nella richiesta di adeguamento ai principi sanciti dalla Corte di Giustizia Europea da un lato e il rispetto del vincolo dei fondi del Recovery Fund dall’altro, sufficienti a valorizzare le professionalità dei magistrati onorari garantendo al tempo stesso l’indipendenza e l’imparzialità di metà della giurisdizione italiana. “Lavoriamo senza diritti, sono qui, insieme ai miei colleghi per chiedere tutele. Gli uffici del giudice di pace smaltiscono il 50% del carico civile di primo grado”, insiste Nicchi. La magistratura onoraria ha da sempre denunciato la “situazione di caporalato di Stato” in cui è costretta a vivere, essendo priva di tutele previdenziali ed assistenziali. “Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che l’astice non poteva essere messo vivo nel ghiaccio perché, poverino, soffriva. Ecco l’animale ha più diritti di un giudice di pace che lavora per il popolo” tuona Di Girolamo.

Giudice di pace “sfruttati”? La Corte Ue decide. Simona Musco su Il Dubbio il 15 luglio 2020. Secondo l’Italia e i suoi organi giurisdizionali di grado superiore, i giudici di pace ricoprono solo una carica onoraria, per la quale ricevono un rimborso spese parametrato all’attività svolta, con un tetto massimo annuo di 72.000 euro. La Corte di Giustizia dell’Unione europea con sede a Lussemburgo depositerà un’attesa sentenza in tema di magistratura onoraria. In particolare si stabilirà se i giudici di pace italiani vanno considerati al pari di “lavoratori subordinati”. Secondo l’Italia e i suoi organi giurisdizionali di grado superiore, i giudici di pace ricoprono solo una carica onoraria, per la quale ricevono un rimborso spese parametrato all’attività svolta, con un tetto massimo annuo di 72.000 euro. Ma per entrare più nel dettaglio della vicenda, ci facciamo aiutare dall’avvocato e giuslavorista Sergio Galleano che fa parte di un collegio difensivo dei giudici onorari insieme ai colleghi Bruno Caruso, Giorgio Fontana, Stefano Giubboni, Vincenzo De Michele e Gabriella Guida. «Il procedimento incardinato presso la Corte di Giustizia – ci spiega Galleano – nasce quando un giudice di pace di Bologna solleva una questione pregiudiziale a seguito di un ricorso di una nostra assistita, un’altra giudice di pace che, avendo trattato in un anno 1.800 procedimenti e svolto due udienze alla settimana, ha ritenuto di essere una lavoratrice e di chiedere quindi le ferie retribuite al ministero di Giustizia». La domanda alla quale i giudici europei dovranno rispondere è la seguente: «I giudici di pace italiani sono lavoratori e hanno pertanto diritto alle ferie retribuite?». Gli avvocati non hanno chiesto l’equiparazione tra magistrati onorari e togati, perché questi ultimi hanno un diverso percorso di carriera, ma una parificazione a livello di trattamento: ossia anche i giudici di pace dovrebbero essere inquadrati all’interno di un rapporto di lavoro subordinato e di conseguenza avere diritto ad una retribuzione adeguata, alla malattia e alle ferie. «Si tratta di una decisione molto importante e attesa – dice al Dubbio il direttivo di Asso. Got – in quanto se la Corte accoglierà le conclusioni già espresse dell’avvocato generale ( cosa che avviene nel 95% dei casi) lo Stato italiano dovrà adeguarsi riconoscendo molti dei diritti che finora ha negato ai giudici di pace e ai magistrati onorari di tribunale, Got e Vpo».

Cosa accadrebbe se la Corte desse ragione alla ricorrente?

«Tutti i magistrati onorari in servizio, circa 5.000 – ci spiega sempre Galleano – potrebbero fare ricorso e chiedere l’adeguamento retributivo per tutti gli anni passati.

Ovviamente non c’è un automatismo per cui, qualora la sentenza fosse a noi favorevole, immediatamente tutti i magistrati onorari riceverebbero un contratto di subordinazione. Spetterebbe al governo recepire nella maniera più fedele possibile la decisione della Corte».

Secondo un calcolo molto approssimativo, una decisione favorevole alla magistratura onoraria comporterebbe un maggior costo per lo Stato nell’ordine delle centinaia di milioni di euro, forse non lontano dal miliardo. Già nel 2015 la Commissione europea ha aperto una procedura di pre- infrazione contro l’Italia. L’accusa era di aver violato la direttiva Ue 99/ 70, giacché si continuava a rinnovare i contratti a termine di Got e Vpo senza prevedere maggiori tutele e remunerazioni. Roma era riuscita a fermare la procedura, promettendo di intervenire per risolvere la questione, ma sia la riforma Orlando che quella solo annunciata di Bonafede non sono state ancora dirimenti.

·         Il Caporalato dei Praticanti.

Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti. Fabrizio Patti il 22 Giugno 2009. Tempo fa la Repubblica degli Stagisti aveva acceso un faro sul pianeta praticanti, denunciando come - in modo analogo a quanto avviene per gli stagisti - sia una prassi comunemente accettata quella di lavorare senza una retribuzione o per cifre irrisorie. Oggi comincia un viaggio nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono.

Prima fermata: i praticanti avvocati. Quanti sono. Moltissimi. Secondo il Consiglio nazionale forense nel 2008 si sono presentati all’esame di  Stato 33.028 praticanti. Altri 6mila hanno fatto domanda ma non si sono presentati all’esame. Secondo la Cassa nazionale forense, il 52% dei praticanti iscritti alla Cassa è costituito da donne. Dai dati Almalaurea risulta che il 93% di chi ha una laurea a ciclo unico, e l’82% di chi ha conseguito la specialistica in Giurisprudenza, a un anno dalla laurea svolge il praticantato. Quanti diventano avvocati. L’esame di Stato viene passato, in media, da un terzo di chi si presenta. Nel 2006, a fronte di 41.400 presenti agli scritti, gli idonei sono stati 16.358. Nel 2007 la percentuale è scesa: su 40.000 presenti, gli idonei sono stati 9.905, circa uno su quattro. Non sono ancora noti i dati complessivi sul 2008. La severità crescente deriva dalla volontà degli organi dell’avvocatura di limitare gli accessi. I 200mila avvocati iscritti all’albo in Italia, infatti, sono una fetta consistente dei circa 850mila avvocati presenti in tutta Europa (dato Ccbe del 2005). In Francia il numero totale degli avvocati è di 50mila.

Quanto costa sostenere l’esame. Per i giovani aspiranti avvocati i costi da affrontare in vista dell’esame sono di circa 50 euro (in pratica i bolli da accompagnare alla domanda stessa). Se si supera l’esame, ad altri tre bolli da 14,62 euro (per l’istanza e i certificati di compiuta pratica e superati esami) si aggiungono 168 euro per concessioni governative, 103 euro per tassa di iscrizione e 207 euro come contributo annuo all’Ordine (nell’esempio si tratta di quello di Milano). Quanto guadagnano i praticanti. Non esiste una rilevazione ufficiale. In genere si tratta di un rimborso spese che cresce nel tempo. Nel Mezzogiorno una prassi diffusa consiste semplicemente nel non pagare i praticanti avvocati. In realtà come Milano, invece, un praticante guadagna all’inizio più o meno 500 euro al mese in uno studio tradizionale. Negli studi d’affari internazionali la retribuzione può salire fino a 1.500-2.000 euro al mese, a fronte di un impegno in termini di ore di lavoro molto elevato. La Cassa nazionale forense dà delle indicazioni interessanti sul reddito professionale ad inizio carriera, una volta che l’esame è stato superato: circa 10mila euro all’anno - meno di un quinto dei 51.313 euro del reddito professionale medio degli avvocati.

Retribuzione minima? In Italia attualmente non esiste una retribuzione minima per i praticanti avvocati. Per quanto nel Codice deontologico forense sia previsto l'obbligo di corrispondere, «dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto», l’indicazione non è vincolante. Una proposta di riforma dell’avvocatura approvata da tutte le organizzazioni della professione (e in particolare dal Cnf) e attualmente allo studio della commissione Giustizia del Senato prevede, tra l’altro, l’obbligo di retribuire i praticanti. Non si fissa, tuttavia, una soglia minima per il salario, perché, spiegano dal Cnf, «sono troppe le variabili da considerare, dal tipo di impegno al tipo di lavoro alla zona geografica dello studio».  Forme di salario minimo per i praticanti sono previste in Germania (circa 700 euro) e nel Regno Unito (almeno l’equivalente di 1.000 euro per i pupils aspiranti “barristers”). Cosa fanno. Ci sono alcune attività tipiche. Come emergeva in un precedente post, il praticante in studio svolge delle ricerche propedeutiche al lavoro di altri avvocati e redige atti, memorie, comparse, citazioni. In tribunale, oltre ad assistere alle udienze, deposita atti presso la cancelleria, oppure  va all’ufficio notifiche per rilasciare atti da notificare. La procedura. La pratica dura almeno 24 mesi. All’inizio il praticante riceve un libretto, che ogni sei mesi dev'essere controllato da un “tutore” dell’Ordine e firmato dal “dominus”, cioè dall’avvocato presso cui si svolge la pratica. Sul libretto si devono segnare le udienze seguite (almeno 20 a semestre),  gli atti processuali e le attività stragiudiziali a cui il praticante partecipa; infine si devono trattare almeno dieci questioni giuridiche studiate durante il semestre. Alla fine di ogni anno si devono poi scrivere dieci relazioni sulle cause seguite e sulle questioni giuridiche osservate. Dopo il primo anno è possibile fare la domanda per ottenere l’abilitazione al patrocinio, che permette di seguire in proprio alcune cause minori, come quelle di competenza del giudice di pace. Per l'intera procedura si veda, per esempio, il vademecum dell'Ordine di Firenze.

La scuola di specializzazione. Secondo l’attuale disciplina, dei due anni di pratica uno può essere sostituito dal conseguimento del diploma delle Scuole di specializzazione per le professioni legali. La riforma della professione allo studio al Senato prevede, oltre alla pratica negli studi, anche la “frequenza obbligatoria e con profitto”, per almeno 24 mesi, di corsi di formazione tenuti esclusivamente da Ordini e associazioni forensi. I corsi, particolare non  trascurabile, possono essere a pagamento. Fabrizio Patti

Pianeta praticanti, videointervista a Duchesne: il libro «Studio illegale» vola sulle ali del blog, e presto diventerà un film. Fabrizio Patti il 26 Giugno 2009 su La Repubblica. Federico Baccomo, alias Duchesne, con il suo «Studio illegale» è diventato una punto di riferimento per i praticanti e i giovani avvocati in Italia. Prima un blog commentato ogni giorno da centinaia di persone, poi un libro (Studio illegale, pubblicato dalla casa editrice Marsilio) che ha già raggiunto le 15mila copie vendute e da cui presto potrebbe essere tratto un film. Intanto il trentenne Baccomo lavora alla sua opera seconda, che uscirà - ma il quando è ancora un segreto - sempre per Marsilio.

La Repubblica degli Stagisti gli ha fatto una videointervista sulla condizione dei praticanti nelle law firm internazionali, sulla riforma dell’avvocatura e sugli stage negli studi legali. Rispetto a uno dei temi che stanno più a cuore ai praticanti, e cioè il rimborso spese, Duchesne ricorda che «l'obbligo di retribuzione esisteva già nel Codice deontologico», e ritiene che la nuova proposta di legge non sia poi così incisiva: «Non dice quasi nulla, anzi peggiora la situazione». E affonda: «Io questa cosa non la capisco: è vero che un praticante comincia da zero e non sa niente, che all'inizio bisogna insegnargli il lavoro, ma poi ci sarà un motivo se l'avvocato si tiene un praticante, e non credo che sia bontà o solidarietà! E credo che questo motivo vada retribuito». E gli stagisti negli studi legali? «Non fanno niente: pinzano fogli uno con l'altro, e spesso neanche benissimo» scherza l'avvocato-blogger-scrittore, aggiungendo però che lo stage è utile ai ragazzi per capire se vogliono passare la loro futura vita lavorativa tra le quattro mura di uno studio legale o no: «Lo stagista vede un ambiente, e riesce a farsi un'idea in tre mesi di che tipo di lavoro è». Ebbene sì, anche gratis: «Spesso non sono pagati: ma trattandosi di un periodo universitario, ci sta anche che possa essere soltanto un vantaggio in termini di conoscenza professionale».

 Commercialisti, l'esame è una scommessa - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti. Fabrizio Patti il 3 agosto 2009 su La Repubblica. Continua il viaggio della Repubblica degli Stagisti nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono. Dopo gli avvocati, ora è la volta dei commercialisti. La Catanzaro dei commercialisti è Milano. La calabrese città dei tre colli è stata per anni la Mecca di tanti praticanti avvocati che potevano contare su un’altissima probabilità di promozione [almeno fino alla riforma Castelli del 2003, che ha previsto la correzione delle prove in corti di appello di altre città]. L’estrema disparità tra le diverse sedi nella percentuale di promossi si ha anche per l’esame di abilitazione alla professione di dottore commercialista. E a sorpresa è l’università Bicocca di Milano a risultare l’ateneo più generoso: secondo le statistiche del ministero dell’Istruzione, nel 2006, ultimo dato disponibile, il 94,6% di chi ha effettuato l’esame alla Bicocca (88 su 93 esaminati) è stato promosso. La media nazionale si era invece fermata al 45 per cento. In tutta Italia, sempre nel 2006, i praticanti commercialisti che si sono presentati all’esame di abilitazione sono stati 10.024, di cui sono stati promossi 5.432. Lotteria promozione. Non che si sia di fronte a una spaccatura Nord-Sud rovesciata: dietro Milano Bicocca, tra gli atenei più generosi, spiccano Foggia, Messina, Torino, Napoli Seconda e Napoli Parthenope. Le università più severe sono state invece Trento (solo il 16,4% di promossi), seguita da Bari, Siena, l’Aquila e Salerno [la classifica completa si trova in questo articolo del Sole 24 Ore].  La causa è da ricercarsi, piuttosto, in una differenza di severità tra singoli atenei e nel fatto che – diversamente da quanto avviene per gli avvocati – i compiti sono predisposti in autonomia dalle singole università. Esame in quattro mosse. L’esame si compone di tre scritti (uno sulle novità fiscali, uno su un approfondimento di questione teorica e una prova pratica) e di un orale. Il costo di iscrizione all’esame varia da università a università ma è di circa 150 euro. Intorno ai 150 euro all’anno è anche la quota di iscrizione ai diversi ordini locali. Non sono previste scuole come per gli avvocati, ma gli ordini organizzano di solito dei corsi concentrati nelle settimane prima o diluiti nell’anno precedente l’esame. Praticantato lungo ma anticipabile. Per presentarsi all’esame bisogna affrontare un lungo iter: il praticantato dura tre anni sia per i dottori commercialisti che per gli esperti contabili. C’è però una novità positiva: la possibilità di cominciare il tirocinio durante gli anni della laurea specialistica. Il discorso interessa chi si vuole iscrivere alla sezione A, destinata ai dottori commercialisti, per accedere alla quale è necessaria la laurea magistrale (3+2). Ora è possibile svolgere due anni di pratica durante l’università, mentre un terzo anno va svolto dopo la laurea. Per accedere alla sezione B dell’albo, dedicata agli esperti contabili, invece, è sufficiente la laurea triennale. Altre informazioni sull'accesso si trovano sul sito del Cndcec. Rimborsi a discrezione. Il rimborso spese per i praticanti varia da studio a studio e da regione a regione. Non esistono attualmente delle norme che prevedano un compenso minimo. Secondo il Codice deontologico dei dottori commercialisti, «il rapporto di praticantato - considerato come periodo di apprendimento – è per sua natura gratuito. Tuttavia, il dottore commercialista non mancherà di attribuire al praticante somme, a titolo di borsa di studio, per favorire ed incentivare l’impegno e l’assiduità dell’attività svolta». Quanto prendono, insomma, i praticanti? Un’idea ce la si può fare leggendo il sondaggio che ha lanciato il blog dei praticanti commercialisti. Le risposte sono state le più varie: delle 16 persone che hanno partecipato, 4 hanno risposto zero, tre 300 euro al mese, due 400 euro,  tre 500, due 700 e due 1.000. Per tutti, tranne per chi è rimasto a zero, l’importo è salito con il passare degli anni. «L’importante è chiarire il senso del tirocinio» commenta il presidente dell’Unione giovani dottori commercialisti, Luigi Carunchio: «in un vero praticantato si impara a diventare professionisti e ci si prepara alle responsabilità richieste dalla professione. Non deve invece essere possibile un lavoro dipendente mascherato, dove ci si limita a fare bassa manovalanza». Giovani in bolletta ma con prospettive d’oro. Che la carriera del professionista all’inizio non sia tutta faville lo dicono i dati della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti. Dai dati 2007 (ultimi disponibili)  si scopre che gli iscritti con meno di 30 anni hanno un reddito Irpef di 9.830 euro, cioè 812 euro lordi per 12 mensilità. Tutto cambia negli anni successivi: tra i 30 e i 39 anni il reddito balza in media a 31mila euro, tra i 40 e i 49 a 65mila, tra i 50 e i 59 addirittura a 105mila. Più piana la dinamica degli esperti contabili. Secondo la Cassa Ragionieri, nel 2008 il reddito medio degli iscritti di 30 o meno anni è stato di 29.833 euro, contro una media di tutti gli iscritti di 49.532 euro. Un ordine affollato. Anche se le due casse previdenziali rimangono separate, i due ordini dei dottori commercialisti e dei ragionieri si sono da poco fusi in uno solo (Cndcec). Sono però rimaste due sezioni distinte, la A per i dottori commercialisti e la B per gli esperti contabili, cioè gli ex ragionieri. In totale il numero degli iscritti all’albo unico nel gennaio 2008 era di ben 107.499 iscritti, di cui il 61% commercialisti e il 39% provenienti dall’albo dei ragionieri. Il confronto con gli altri Paesi è sempre stridente, se si considera che in tutta la Francia i commercialisti sono solo 18mila. Secondo il rapporto 2008 dell’Istituto di ricerca dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, le donne sono solo 28%, ma la quota è in crescita da un decennio. Non a caso le donne sono decisamente più giovani: se complessivamente il 54% degli iscritti ha meno di 45 anni, in questa fascia rientra il 70% delle donne. Il 40,6% degli iscritti si trova al Nord, dove è anche più alto di iscritti per abitante, il 21,5% al Centro e il 37,9% al Sud. Dominus solo rodati. Per iniziare la pratica un neolaureato si può rivolgere a qualsiasi studio purché il “dominus” sia professionista da almeno cinque anni (art. 42 comma 1 del D.Lgs. 28 giugno 2005 n.139). Ed è proprio questa norma a non andare giù all’Unione dei giovani dottori commercialisti, che sottolinea come il 25% dei dottori commercialisti è professionista da meno di cinque anni. «Noi crediamo – dice il presidente Carunchio – che non sia l’anzianità professionale ad offrire una migliore preparazione, professionale e deontologica, al praticante. Anzi, i colleghi più giovani spesso riescono a dedicare maggiore attenzione ai futuri colleghi». Fabrizio Patti

·         Noi specializzandi sfruttati e malpagati.

Noi specializzandi sfruttati e malpagati, colmiamo i buchi del sistema sanitario. Un esercito ibrido di lavoratori che vengono considerati medici o studenti a seconda della convenienza. Costretti a reggere gli ospedali universitari, con turni anche di 12 ore, senza garanzie contrattuali e con una formazione che in molti casi è quasi inesistente. Le loro denunce. Collettivo Lorem Ipsum il 25 maggio 2020 su L'Espresso. Hanno recitato il giuramento di Ippocrate, si sono abilitati alla professione sostenendo un esame e si sono iscritti all’Ordine dei medici, eppure gli specializzandi in medicina vivono in un limbo: lavoratori o studenti? È la domanda che si pongono decine di migliaia di medici specializzandi ogni giorno. Laureati in medicina, abilitati alla professione e iscritti all’Ordine dei medici, dopo aver superato un concorso nazionale, ricevono una borsa di studio per formarsi e diventare specialisti ciascuno nel proprio ambito. Quello che accade, spesso e volentieri però, è che siano chiamati a reggere gli ospedali universitari, con turni anche di 12 ore, senza garanzie contrattuali e con una formazione che in molti casi è quasi inesistente. E che poi, nel momento in cui scoppia una pandemia come il Covid-19, siano reclutati per tappare i buchi di un sistema sanitario depauperato negli ultimi anni. Un esercito di lavoratori ibridi chiamato a ricucire i tagli alla sanità con condizioni lavorative che rasentano lo sfruttamento e che, a seconda della convenienza, sono considerati professionisti oppure scolari. “Il nostro inquadramento contrattuale prevede pochissime tutele: dovremmo rendere sulla carta 34 ore di attività pratica a cui si dovrebbero aggiungere 4 ore di attività teorica a settimana, ma in realtà tutti lavoriamo molto di più e non facciamo formazione”, spiega Irene Steinberg, Medico Specializzando in Anestesia a Torino e rappresentante di Chi si cura di te, associazione che ha l’obiettivo di dar voce e promuovere i diritti dei giovani professionisti della salute. La borsa che ricevono gli specializzandi non prevede straordinari, indennità per malattie, accesso convenzionato alle mense, possibilità di utilizzare i nidi aziendali. “Ci sono scuole di specialità in cui gli specializzandi devono scendere a mangiare sul marciapiede della propria struttura perché non hanno una sala dove stare”, denuncia Alessandro Frascati, presidente di MeSPad – Medici Specializzandi FederSpecializzandi Padova. Non sono previste indennità se si svolgono turni notturni e non vengono rispettate le normative europee in termini di giorni e ore di riposo fra un turno e l’altro. “Se io lavoro 60 ore perché altrimenti...

·         Se lo schiavo sei tu.

Inaccettabile chiedere ai professionisti consulenze gratuite. Il ministero ritiri quel bando. Andrea Mandelli su Il Dubbio il 21 ottobre 2020. Il bando pubblicato dal Ministero dello Sviluppo economico per reclutare 21 esperti richiede competenze ed esperienza di altissimo livello, c’è solo un problema: le consulenze dovranno essere prestate a titolo gratuito. Nel momento di grave crisi economica e sociale che stiamo vivendo, una delle vie decisive per iniziare a ricostruire il futuro del Paese dovrebbe essere la valorizzazione di quelle professionalità che sono uno dei grandi vanti dell’Italia. Suona perciò paradossale e inaccettabile che siano proprio le istituzioni a remare nella direzione opposta. Mi riferisco al bando pubblicato lo scorso 28 settembre dal Ministero dello Sviluppo economico per reclutare 21 esperti con l’incarico di redigere un “Libro bianco sul ruolo della comunicazione nei processi di trasformazione digitale”. Le competenze e l’esperienza richieste sono di altissimo livello, c’è solo un problema: le consulenze dovranno essere prestate a titolo gratuito. Gli esperti che dovrebbero entrare a fare parte del gruppo di lavoro presieduto dal Sottosegretario Liuzzi, insomma, riceveranno come contropartita per il loro prezioso contributo tecnico- scientifico un sentito ringraziamento. L’insulto alla professionalità, oltreché alla dignità del lavoro e al diritto costituzionalmente tutelato a vedersi riconoscere il valore economico del lavoro svolto, è evidente. Questo bando non va solo contro il buon senso: va contro una legge dello Stato, ossia quell’equo compenso per cui io stesso mi sono battuto duramente. La legge di Bilancio per il 2018, infatti, ha fissato chiaramente il dovere, per una serie di “contraenti forti” come le pubbliche amministrazioni, di garantire al professionista che presti la propria opera una corresponsione commisurata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto. Si tratta di un nodo etico, normativo ed economico riconosciuto anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato laddove è stato sancito che il compenso professionale non deve essere palesemente irrisorio e lesivo della dignità del professionista stesso. Purtroppo però non è la prima volta che il governo viene meno a questo principio. Già nel febbraio del 2019, infatti, il Dicastero dell’Economia e delle Finanze avviò un bando per la ricerca di esperti senza avere alcuna intenzione di remunerarli. Ora la storia si ripete nel più totale, imbarazzante e imbarazzato silenzio degli esponenti dell’esecutivo. Esattamente come feci nel 2019, senza mai ottenere risposta, anche in questo caso ho depositato un’interrogazione parlamentare: qualcuno si deve assumere la responsabilità di questo schiaffo a milioni di professionisti italiani. Peraltro, da luglio 2019 giace in Parlamento una mia proposta di legge che è volta a sanare le criticità applicative della norma sull’equo compenso, ampliando la platea dei soggetti tenuti al rispetto della normativa affinché coinvolga tutti coloro che, ai sensi del codice del consumo, non possono essere classificati come “consumatori”. La proposta ribadisce l’integrale soggezione alla disciplina da parte della P. a., dispone che l’equo compenso si applichi anche ai rapporti instaurati prima dell’entrata in vigore della normativa, purché ancora in essere, e legittima i Consigli nazionali delle professioni all’azione collettiva per inibire le violazioni della normativa. Si stabilisce infine che il Ministro della Giustizia adotti appositi decreti per ognuna delle professioni vigilate, tenendo conto di parametri specifici, per la liquidazione dei compensi da parte di un organo giurisdizionale o dei soggetti interessati. Mi chiedo come mai di questo tema, e della relativa proposta di legge, la maggioranza di governo non abbia più parlato. Non è una questione di polemica politica ma la riaffermazione di un principio che speravamo, evidentemente in modo ottimistico, di poter dare ormai per scontato: l’elevata qualità delle specializzazioni e del know- how dei nostri professionisti va pagata. Sempre e senza deroghe.

E questo dovrebbe essere ancor più evidente in un periodo in cui il mondo delle professioni sta affrontando con enormi difficoltà e con altrettanto orgoglio e coraggio una crisi che certo non lo ha risparmiato.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 20 ottobre 2020. Erano stati inviati allo scopo di alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite dal virus dell' Ebola, e invece hanno finito per infliggere ferite che con tutta probabilità non guariranno mai. Sono 51 le donne che hanno denunciato di avere subito abusi sessuali da parte di dipendenti dell' Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e di altre Ong, nel corso della recente epidemia scoppiata nella Repubblica democratica del Congo (Rdc). È quanto emerge da una lunga inchiesta pubblicata dai giornalisti investigativi di Reuters e The New Humanitarian, agenzia di stampa quest' ultima che si occupa di approfondire storie e tematiche altrimenti dimenticate. Molti casi riguardano la richiesta di prestazioni sessuali in cambio di un' occupazione. Lavori umili regolati da contratti a termine e pagati pochissimo, dai 50 ai 100 dollari al mese, ma spesso indispensabili per sopravvivere e portare avanti la famiglia. Secondo la classifica del Fondo monetario internazionale, infatti, la Rdc è il quartultimo Stato al mondo per reddito pro capite. Come se non bastasse, in una terra già martoriata dai conflitti interni, a complicare le cose è sopraggiunta negli ultimi anni una terribile epidemia di Ebola. Nell' ondata che ha colpito le province di Kivu e Iburi, nella regione orientale del Paese che confina con l' Uganda, la febbre emorragica ha mietuto più di 2.200 morti. Molti degli incontri si svolgevano in hotel utilizzati come quartier generale dalle organizzazioni coinvolte. «Mi ha chiesto di raggiungerlo in albergo», racconta una testimone ai giornalisti parlando di un funzionario dell' Oms. «Poi una volta in camera da letto mi fissava silenzioso», prosegue la malcapitata, «puoi ottenere un lavoro nella nostra organizzazione se fai sesso con me». E così, in preda all' angoscia, la povera donna cede all' orrendo ricatto: «Non volevo, ma ottenere il lavoro era più importante di quello che stava accadendo, e così ho accettato». Chi si è ribellato a questo sistema ha dovuto pagare le conseguenze. «Mi ha detto di togliermi i vestiti e mi ha sbattuta contro il muro», racconta un' addetta alle pulizie alle dipendenze di un medico, «ma io mi sono rifiutata e sono corsa via». Risultato: «Arrivati alla fine del mese, non mi hanno rinnovato il contratto». Alcune vittime spiegano di essere state stordite con cocktail a base di alcolici che magari, chissà, contenevano anche droghe per rendere la preda più docile. Una di loro si è svegliata nuda e sola in una stanza d' albergo, e ritiene di essere stata violentata. «Ho perso mio marito a causa dell' Ebola», ha confessato agli autori dell' inchiesta, «invece di aiuto, tutto quello che ho ottenuto è stato un altro trauma». Una parte dei responsabili proviene dalle diverse organizzazioni non governative attive nella regione. Coinvolte, oltre all' Oms, la International medical corps (8 denunce), l' Alliance for international medical action (5), l' Unicef (3), il World food programme (2), l' International rescue comittee e il Network of media for development (una denuncia ciascuno). Le Ong hanno scelto la linea dell' omertà. Solo 24 dei 34 soggetti tirati in ballo da Reuters e The New Humanitarian hanno accettato di fornire i dati richiesti, e solo una piccola parte di essi hanno ammesso di aver ricevuto denunce di abusi. Stessa musica anche dal ministro congolese della Salute, Eteni Longondo, il quale ha candidamente ammesso di non aver mai ricevuto alcuna segnalazione ufficiale dalle zone tormentate dall'epidemia. Un drammatico circuito vizioso che non fa altro che scoraggiare le persone che hanno subito maltrattamenti, minacce e violenze a puntare il dito contro i loro aggressori. Ma più della metà dei presunti carnefici, una trentina, sono alle dipendenze dell'Organizzazione mondiale della sanità. Tra loro figurano medici, funzionari, operatori sanitari e semplici impiegati. Grazie alla complicità di una rete di autisti erano riusciti a mettere in piedi una sorta di «servizio navetta» che recapitava le sfortunate direttamente sul luogo dove si svolgevano le malefatte. Travolta dallo scandalo, l'Oms si è affrettata a gettare acqua sul fuoco. «L' Organizzazione mondiale della sanità, dirigenza e staff, esprime indignazione per i recenti rapporti sui presunti casi di sfruttamento e abusi sessuali nel contesto della risposta all' epidemia di Ebola nella Repubblica democratica del Congo», recita il comunicato diffuso a margine della pubblicazione dell' inchiesta. «L'Oms applica un politica di tolleranza zero», si legge in fondo alla nota, «chiunque verrà identificato come coinvolto sarà ritenuto responsabile e dovrà affrontare gravi conseguenze, compreso il licenziamento immediato». Ma se andiamo oltre la superficie delle formule di rito, di concreto c' è poco o nulla. Tutto viene rimandato ai risultati di una «approfondita analisi delle accuse» avviata dal direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus. Poco più di un centinaio di parole per liquidare una questione gravissima, di fatto, a data da destinarsi. Per carità, almeno sulla carta la massima autorità sanitaria a livello planetario ha attivato politiche molto severe per il contrasto delle violenze e degli abusi sessuali nel corso delle missioni all' estero. Tanto che sul sito ufficiale dell' organizzazione è presente un' intera sezione dedicata alla trasparenza di tali iniziative. Nel 2017, l'Oms ha adottato un codice di condotta assai stringente che obbliga gli enti e i collaboratori a segnalare episodi di questo tipo, riservandosi in caso di violazioni delle linee guida di revocare loro il mandato nonché di impedire la partecipazione ai bandi futuri. Oltre a una rete di protezione per i whistleblower (gli individui che segnalano una violazione, ndr), è stata attivata inoltre una «integrity hotline», che permette di inoltrare una denuncia telefonicamente o via email in forma completamente anonima. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché i veri problemi sono altri. Prima di tutto, considerata la notevole influenza che gli autori delle violenze potevano esercitare sulle loro vittime, molte donne hanno rinunciato a sporgere denuncia nel timore di future ritorsioni. Facile ipotizzare, dunque, che i casi scoperti dalle due agenzie di stampa rappresentino appena la punta dell' iceberg dei soggetti effettivamente colpiti. Secondo, quasi tutte le donne intercettate dai giornalisti non sapevano dell' esistenza della linea dedicata agli abusi. Un particolare che solleva molti sospetti sull' efficacia delle azioni messe in campo da parte dell' Oms contro gli abusi sessuali. Che stando ai fatti sembra essere tutto fumo e niente (o molto poco) arrosto. Terzo, anche quando le denunce vengono presentate, come dimostrano i dati complessivi forniti dall' Onu sulla condotta delle missioni, buona parte di esse viene archiviata (39%) oppure risulta ancora in sospeso (22%). Pessime credenziali, non c' è che dire, per i signori che pretendono di portarci in salvo dal tunnel del coronavirus.

Badanti, camerieri, muratori: per il lavoro nero il 2020 è un anno d'oro. Crescono i disoccupati, diminuiscono i contratti. Gli irregolari sono oltre tre milioni ma entro dicembre rischiano di aumentare. I nuovi dati dell'Istat lanciano l'allarme su un problema che riguarda tutto il Paese. Però al Nord in ogni famiglia c'è uno stipendio, al Sud invece si bara sul reddito di cittadinanza. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 12 ottobre 2020. Una delle ferite destinate ad allargarsi ulteriormente per colpa della lunga emergenza sanitaria. Cittadini di serie b, invisibili e abbandonati, oppure figli di mancate riforme, o di riforme manchevoli. Fantasmi economici, sociali e giuridici che affollano, in perpetuo, il dietro le quinte dell’occupazione all’italiana. Lontani dal fisco e dall’Inps, dai sindacati, dai diritti e dai doveri. Esposti a ricatti, incidenti e infortuni professionali. Sono i lavoratori in nero, protagonisti, in genere loro malgrado, di quel lavoro irregolare (o informale, termine tenero) che sta conoscendo un fortissimo exploit nell’anno del coronavirus. Lo afferma l’Istat, chiamato in causa dal centro studi della Cgia, associazione artigiani e piccole imprese di Mestre. Entro la fine del 2020, prevedono le proiezioni, circa 3,6 milioni di connazionali rischiano di perdere il posto tra recessione profonda, sblocco dei licenziamenti e stop alla cassa Covid. E una fetta consistente di quest’emorragia di esuberi sarà assorbita dall'economia sommersa. Ci si accontenterà di tutto. Retribuiti male, e di nascosto. Dalla luce del sole alle tenebre dell’incertezza. Nel Belpaese gli irregolari sono già 3,3 milioni e generano qualcosa come 78,7 miliardi di euro di valore aggiunto sotterraneo. Il 13,1 per cento del totale. Il 38 per cento di loro vive al sud, in particolare in Calabria (21,6 per cento), Campania (19,8) e Sicilia (19,4). «A Palermo il lavoro nero riguarda un lavoratore su tre» ha denunciato Enzo Campo, segretario cittadino della Cgil. Ma chi sono i lavoratori segreti tricolori? In che settore operano i disoccupati, cassintegrati, pensionati virtuali e doppiolavoristi in black? Predominano «i poco istruiti, i giovani, le donne e i cittadini di altri paesi dell’Unione europea. E lavorano soprattutto nel terziario, perché i diversi rami che lo compongono superano il 75% dell’intera occupazione irregolare, pari a 2 milioni e 500 mila persone», spiega all’Espresso il professor Emilio Reyneri, professore emerito di sociologia del lavoro all’Università di Milano Bicocca. «In primis, c’è il lavoro domestico (un quarto di tutti i lavoratori in nero), seguito da commercio (oltre l’11%), alloggio e ristorazione (8,5%) e le attività professionali (8,5%). Agricoltura, industria manifatturiera e costruzioni oscillano tra 7% e 8% dell’occupazione irregolare. Nel segmento che più alimenta il lavoro nero, i servizi domestici alle famiglie, il tasso di irregolarità sfiora il 60%». Occhio alle sorprese, si fa per dire: «L’incidenza è molto elevata anche nelle attività artistiche e di divertimento, mentre è relativamente modesta nei servizi finanziari e assicurativi». Tutte figure professionali che lavorano senza nessuna registrazione. Un mucchio selvaggio di «domestiche e badanti, commercianti e artigiani, camerieri e baristi, muratori, braccianti; ma anche musicisti, infermieri, insegnanti a domicilio. Forniscono prestazioni sia alle famiglie che alle micro-imprese, molte delle quali nascono, muoiono e rinascono con gran frequenza per sfuggire a ogni controllo», aggiunge il docente e scrittore, che sta preparando un contributo ad hoc per il prossimo rapporto Cnel. «Durante il lockdown, la domanda per buona parte di queste attività è crollata: si pensi al turismo, alla ristorazione, all’intrattenimento. Ma per altri è cresciuta, come le consegne a domicilio». C’è poi il tema della spaccatura apparente, quantitativa e qualitativa, tra nord e sud. «Il problema del Mezzogiorno non è tanto una diffusione del lavoro nero particolarmente alta, quanto la scarsissima presenza di quello regolare, soprattutto nell’industria e nei servizi. Il lavoro nero è solo un poco meno diffuso nelle regioni settentrionali e anche lì, quindi, costituisce una difficoltà. Ma se le differenze regionali non sono massicce come si ritiene, altrettanto non può dirsi per l’offerta di lavoro, cioè per le caratteristiche dei lavoratori e delle lavoratrici in nero». La radiografia-tipo appare infatti radicalmente differente. «Nelle regioni meridionali gli occupati irregolari sono tendenzialmente maschi, in età centrale e capifamiglia, mentre in quelle settentrionali sono per lo più donne, giovani e coniugi. È così probabile», conclude il professor Reyneri «che i lavoratori in nero nel Mezzogiorno siano i soli occupati in famiglia, mentre al nord vivano in nuclei familiari in cui il capofamiglia ha un lavoro regolare». Si spiega così la maggiore gravità sociale del fenomeno dalle Marche in giù, accentuata dalla più sostenuta presenza di poco alfabetizzati, che rimarca «una maggior dequalificazione delle occasioni di lavoro nero». Modello caporalato, insomma, quando al centro-nord circola pure del “lavoro nero qualificato”. Un ossimoro sì, ma sublimato. Se allarghiamo invece lo sguardo al palcoscenico europeo, come ha fatto, nei suoi studi, un altro studioso di razza come l’austriaco Friedrich Schneider dell’università di Linz, osserviamo come il lavoro nero metta il turbo e trovi terreno fertile nei paesi più poveri e peggio governati. Senza correlazioni dirette con le tassazioni del lavoro regolare e con i flussi migratori. Anzi, lieviterebbe proprio nelle nazioni dove l’emigrazione prevale sull’immigrazione. Un’osservazione double face, che taglia le unghie ai populisti della politica e dell’economia. Qualcosa, certo, si muove. Si è da poco conclusa la cosiddetta “sanatoria colf, badanti e braccianti”, procedura di emersione dei rapporti di lavoro irregolare intrapresa a inizio giugno ai sensi del decreto legge del 19 maggio. Sono arrivate 200 mila domande e rotte di regolarizzazione. Mobilitati i comparti dell’agricoltura, del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona. Ma non basta: la coperta ha lasciato scoperti milioni di addetti, e molte cellule del tessuto lavorativo italiano sono infette da tempo, non basta un provvedimento straordinario, benché incompleto, per rigenerarle. Anche perché si fanno largo pulsioni più estemporanee al radicamento esponenziale del lavoro nero nella nostra penisola. Prendiamo il reddito di cittadinanza. Le cronache tracimano di casi di percettori del Rdc che, al posto di impegnarsi in lavori di pubblica utilità, foraggiano la manovalanza del lavoro nero. Ci guadagnano tutti, in apparenza: gli assistiti, che potendo contare su un sussidio fisso si accontentano di un salario “extra” scontato, e certi imprenditori machiavellici. Ma chi perde è lo Stato.

Se lo schiavo sei tu: inchiesta sui giovani e sulla Gig Economy.  Sono tre milioni e settecentomila persone. Tra i 25 e i 35 anni. Hanno un'istruzione medio-alta. Gli avevano promesso un lavoro flessibile che li avrebbe resi liberi. Oggi producono il 4,5 per cento del Pil ma se ne dividono le briciole facendo ricchi i nuovi padroni. Sono rider, operatori di call center, trasportatori, edili. E non sono più solo "gli altri". Sono "noi". Carlo Bonini, Alessio Candito, Giuliano Foschini, Luisa Grion, Matteo Pucciarelli, Riccardo Staglianò su La Repubblica il 10 giugno 2020.

Articolo 600 del codice penale: “Chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento compie il reato di riduzione in schiavitù. La riduzione nello stato di soggezione ha luogo quando ci si approfitta di una situazione di vulnerabilità o di una situazione di necessità”.

Esistono gli schiavi in Italia? E Chi sono? Se dimentichiamo per un attimo le campagne di Rosarno, il ghetto di Borgo Mezzanone, e quegli angoli d’Italia dove l’uomo bianco ha la faccia del caporale o del capomastro e l’uomo nero quella del migrante piegato nella raccolta dei pomodori o nei cantieri dell’edilizia abusiva, scopriamo quello che non vogliamo vedere. I 3 milioni e 700 mila italiani – per lo più ragazze e ragazzi tra i 25 e i 35 anni – che lavorano senza tutele, fuori dalle norme, o, tutt’al più al riparo di contratti che chiamare tali è un eufemismo. Contano per il 4,5 per cento del nostro Pil (79 miliardi di euro). Hanno un’istruzione media o medio-alta. Sono figli della generazione cui era stato promesso dal capitalismo della piattaforma digitale, dalla “sharing economy”, dalla corsa all’outbound un futuro di affrancamento e flessibilità liberi dal modello fordista novecentesco e dalle sue varianti. Sono quelli che, oggi, si contendono le briciole dell’economia dei lavoretti. Faticano nel commercio, nell’edilizia, nel terziario, gomito a gomito con richiedenti asilo che arrivano dai conflitti e dalle carestie dell’Africa subsahariana. In sella a una bicicletta che consegna cibo a domicilio, in un call center o nell’abitacolo di un furgone per le consegne. Vivono esistenze in cui la parola “futuro” è sconosciuta. Sanno di essere schiavi, ma sanno anche di non avere alternative. Siamo andati a cercarli. Partendo dalla città più europea d’Italia. La sua locomotiva economica e civile, Milano. Dove abbiamo avuto accesso anche ad atti ed intercettazioni telefoniche inedite disposte dalla Procura nell’inchiesta su una delle più importanti società di delivery del Paese. Abbiamo fatto tappa a Roma, per arrivare infine nell’abisso della Calabria.

ATTO I. Rider. Una “App” ti renderà libero. Un giorno speciale. Milano, inverno 2020. Andrea era convinto che quello che stava per cominciare sarebbe stato un giorno speciale. “Sarà dura”, gli avevano detto. Ma intanto sarebbe stato qualcosa. Un contratto di lavoro, di quelli piccoli piccoli, ma comunque un contratto. Uno di quelli che alla fine dell’anno ti “mette i contributi”, ti fa “provare l’ebbrezza di ricevere una certificazione unica” per il Fisco, che, insomma, “ti dice che da qualche parte esisti. Magari fai un lavoro un po’ di merda. Ma comunque esisti”. Andrea ha 25 anni. Un percorso scolastico sfortunato – geometra, su costrizione dei genitori – e un ingresso nel mercato del lavoro altrettanto infelice: una serie di lavori a nero uno più sbagliato dell’altro, uno dopo l’altro. Prima un importante studio professionale, dove lo tenevano a fare le fotocopie. Poi, lavapiatti, quindi cameriere, allestitore per il salone del mobile, infine parcheggiatore in un garage. Andrea cercava qualcosa di vero. “Qualcosa che si tocca, che non ti fa tornare soltanto stanco a casa. Qualcosa che ti fa dire: “Io lavoro per” e non ti fa vergognare tutte le volte che ti chiedono: “Ma tu che lavoro fai?”. Perché è quella la prima domanda che si fa – e a Milano, poi, più che altrove – “Tu che lavoro fai?”. La sera prima, Andrea aveva oliato e pulito la sua bicicletta, una vecchia Atala grigia che Peppino, il gommista di corso Lodi, gli aveva assicurato andasse come nuova. Sulla sedia di legno della sua stanza era invece il suo futuro, pronto per essere riempito: l’enorme zaino giallo di “Uber Eats”. Andrea era un fattorino, anche se ora si dice “rider”. Che suona meglio, forse. E, chi sa perché, dà un’idea di libertà. Il “rider” corre. Il “rider” gira. Il “rider” è libero. Ecco perché Andrea era convinto che la sua prima giornata di lavoro sarebbe presto diventata un trionfo.

“Cercare le ore”. Francesco T. ha 36 anni, lavora per Just Eat ma in passato ha fatto il rider per altre compagnie. Il suo cognome è puntato per proteggerne l’identità completa, perché le società di delivery possono “licenziare” questi liberi professionisti – che non sono liberi e neanche professionisti, visto che basta un nulla per imparare il mestiere – con un clic. Ti viene tolto l’accesso alla “app” che, di fatto, è il tuo datore di lavoro. E finisce lì. Parlare con i giornalisti è peggio che parlare con gli sbirri. Un peccato capitale per il quale è prevista una condanna senza appello: tu prova a fiatare e la disconnessione sarà perenne. “Per carità – racconta Francesco – non la mettono giù come un ricatto. Anzi, finisce che ti convincono che sia giusto così. Il sistema è pensato per spingerti a fare sempre di più, a superare i tuoi limiti e la soglia della fatica per portare a casa qualche euro in più, a competere coi tuoi colleghi”. Il sistema prevede che tu debba passare il tempo morto di “inattività” davanti alla app sullo schermo del tuo smartphone o tablet “cercando le ore”. Sì, “cercare le ore”, che “significa aggiudicarsi al volo con clic uno slot di tempo utile per fare più consegne, cioè pranzo e cena. Ogni consegna sono soldi. Ogni consegna è il nostro lavoro. Il mio concorrente è il mio collega, incollato come me davanti a un telefono a cercare le ore. O, almeno, così ci formano e così ci hanno spiegato”. Quando si diventa rider si viene catapultati in una realtà alternativa, in qualche modo smaterializzata. Impersonale. Dove le dinamiche di interazione tipiche del rapporto di lavoro si trasformano in altro. In un rapporto con la “app” che sembra avere quale unico scopo quello di mantenere sul fattorino – pardon, “rider” – una pressione continua. Uno stato d’ansia da competizione continuo, dove il tuo concorrente è il click di chi ti ha bruciato mentre “cercavi le ore”.

Lo schermo nero della tua app. C’è modo e modo di essere “rider”. In bicicletta, o in scooter o in automobile. “In bici spendi zero di benzina e poco di manutenzione ma non riesci a fare più di 3-4 consegne per pranzo o cena. Lo scooter velocizza le cose, però costa mantenerlo, c’è la benzina che ti devi pagare e devi avere un meccanico amico pronto a intervenire a qualsiasi ora. Infatti, qualcuno preferisce affittare il motorino, 200 euro al mese con qualche compagnia, e hai meno pensieri”. “La macchina è per chi consegna in zona periferiche. E’ comoda, veloce, ma costosa e con molti rischi multa”, spiega Francesco. Lui usa la bici. E la prima cosa che ha imparato è che la “libertà di scelta del mezzo” è la prima regola della competizione. È – soprattutto – l’ostacolo che impedisce di “fare sistema” con i colleghi. Ognuno per sé, insomma. Il “rider” non ha uno stipendio fisso. Ogni compagnia dà un compenso a consegna diverso: un fisso di 4-5 euro, più un’altra somma parametrata sui chilometri percorsi. Solo che anche qui nulla è scritto nella pietra. C’è chi calcola il tragitto effettivamente percorso, chi conteggia le distanze in linea d’aria e chi calcolando il percorso teorico di Google Maps. Cifre e parametri che comunque la compagnia può cambiare a proprio piacimento e senza avvertire i rider. Irfan è un rider da due anni. Durante il coronavirus ha avuto molta paura di essere contagiato. Lui e i suoi colleghi sono stati costretti a lavorare in condizioni rischiose. Irfan non ha mai potuto sottrarsi perché deve continuare a mandare i soldi alla sua famiglia rimasta in Pakistan. “Detto questo – prosegue Francesco – bisogna vedere che tipo di consegne ottieni quel giorno: se ad esempio becchi il ristoratore che ti fa aspettare tempo fuori parti già male…”. Una volta dentro il sistema, si cominciano a conoscere i ristoranti e le pizzerie dove ritirare il cibo da consegnare. Quelli noti per non essere rapidi vengono evitati sperando in una chiamata migliore. E poi, come in una puntata della serie “Black Mirror”, ogni rider ha un suo punteggio da 1 a 100 e grazie a quello può ottenere dalla app più fiducia. Proprio così: se l’app ti dà più fiducia, tu fai più ore di lavoro posizionate meglio nell’arco della giornata. I punti si ottengono dando disponibilità nei giorni di weekend e festivi, se i clienti valutano bene il servizio del rider sulla app, se si passa più tempo nell’applicazione a cercare le ore. Il meccanismo manda facilmente in pappa il cervello. Dice Francesco: “La fiducia data o negata dalla app può essere devastante. Se una sera te la prendi libera per stare con la tua ragazza hai il terrore di perdere punti e quindi consegne e quindi reddito. Non stacchi mai“.

Si va con la partita Iva, se questo lavoro viene fatto a tempo pieno, cioè sei giorni su sette. E si possono portare a casa tra i 1.000 e 1.300 euro, lordi naturalmente. In scooter magari si arriva a 1.700, ma poi bisogna togliere le spese per il mezzo. Lo stesso vale per l’automobile. Naturalmente anche la app ha una sua vulnerabilità. E il doppio lavoro è possibile. Ogni numero di telefono di rider ha accesso ad una sola app di delivery. “Ma basta avere un secondo account… Qualcuno poi si fa addirittura il terzo account e magari lo affitta chiedendo una percentuale media del 20 per cento a chi ad esempio è stato fatto fuori dal sistema”. E così lo schiavo diventa caporale.

“Attenzione: gli importi presenti sull’applicazione sono errati”. Il primo giorno di lavoro di Andrea cominciò in maniera diversa rispetto a quello che, legittimamente, si aspettava. Aveva fatto il primo chilometro sulla sua “Atala” rimessa a nuovo con grande scioltezza, senza avvertire un minimo di fatica. Arrivò all’appuntamento e trovò in fila i suoi colleghi. Avevano gli zaini per terra e telefonini nelle mani. Uno di loro gli spiegò come funzionava. “Noi lavoriamo per Uber eats – gli disse uno dei ragazzi – Sei mai stato all’estero? Avrai preso probabilmente una macchina Uber. Ecco, noi lavoriamo per loro”. Già, nell’estate del 2016, Uber, abbandonato il servizio di trasporto auto privato in Italia, aveva deciso di inaugurare un nuovo servizio di consegna di pasti a domicilio tramite un’applicazione dedicata: “UberEats”. Era partita da Milano. Per arrivare a Rimini, Torino, Reggio Emilia. Bologna, Firenze e Roma. “Non siamo però i più grandi. Per il momento, almeno”, aveva aggiunto il tipo. Andrea questo lo sapeva. Aveva studiato in rete. Tra le società di food delivery (Just Eat, Uber Eats, My Menu, Deliveroo e Glovo), Uber, in realtà, non occupava una posizione di testa. Just Eat consegnava in tutto il territorio nazionale. Glovo anche. Deliveroo in 15 città, ma era presente da molto tempo. My Menu in sei. “Il rapporto – gli continuò a spiegare quel ragazzo – è fra ristorante e corriere, con Uber che mette a disposizione la piattaforma e tiene per sé una percentuale (dal ristoratore). All’inizio, quando io ho cominciato – tenne a precisare il ragazzo, facendo capire, dunque, che lui era un veterano – c’era un canale diretto dove il singolo corriere si iscriveva e, dopo una banale verifica dei documenti, gli veniva abilitato l’account per poter lavorare e fare consegne. Dalla fine 2017, inizio 2018 le cose sono cambiate. Ed è cominciata una collaborazione con una società che fornisce il servizio a Uber. Noi lavoriamo per loro”. La società si chiama Flash Road City e il “capo” si chiama Giuseppe. Mentre Andrea continuava a parlare con il collega esperto si fece avanti uno della società. Per spiegargli come avrebbe funzionato. “Vedo che hai la bicicletta”, gli disse, indicando l’Atala.

“Sì”.

“Bene, quindi la tua è una formula bike. Il compenso lordo è di 3,75 euro lordo a consegna. Quindi sono 3 netti. Con il motore saremmo andati a 4,37, ovvero 3,50 netti. Il primo pagamento avverrà dopo la terza settimana di lavoro. Vi paghiamo ogni quindici giorni, se ci sono mance le tratteniamo e poi ve le consegniamo. Sull’applicazione ci sono dei calcoli diversi, ma sono sbagliati. Capito? Sbagliati. Chiaro? SBAGLIATI!”.Era chiaro.“Il calcolo avviene sulle consegne effettuate: 3 euro l’uno”.

Ad Andrea fu messo sotto il naso un fogliettino dove era spiegato, chiaramente, quello che gli era stato appena detto.

E ora, firma qui. Ad Andrea fu messo sotto il naso un altro foglietto. Bianco e con in calce una data e un’intestazione in stampatello maiuscolo.

“Accordo di collaborazione occasionale3 euro netti x consegna.

Pagamento ogni 2 settimane”.

“Firma”.

Andrea firmò. C’era anche da siglare un altro accordo.

“Ricevo borsa di lavoro. In caso di perdita o rottura verranno addebitati 80 euro (valore materiale)”.

Andrea firmò.

“Dovete essere disponibili nelle ore cruciali, cioè quelle delle ore pasti. Sia a pranzo sia la sera”.

“Tre euro vale per qualsiasi consegna?”, chiese Andrea al “capo”.

“Sì. Ovunque andiate. Tre euro a consegna”.

In mano, il ragazzo della Flash Road teneva un foglio con il computo del mese di tutti gli altri rider. Colonna con il numero delle consegne, paga settimanale: 68-179 euro. 75-225. 13-33,50. C’erano anche altre due colonne nella tabella.

Quella “bonus”, vuota. E quella “malus”. “Il malus – spiegò – si calcola come cifra da sottrarre alla paga. Venite puniti se non vi attenete ad alcune disposizioni: per esempio se rifiutate gli ordini o se non le consegnate in tempo. Il tuo numero ce l’ho?”.

“Sì”.

“Eccolo, ti mando un messaggio per capire come funziona”.

Il messaggio arrivò immediatamente.

“Le percentuali di accettazione e di cancellazione settimanali delle consegne incideranno sul pagamento in questo modo:

– verrà applicata una penalità di 0,50 € per ogni consegna se la percentuale di accettazione è inferiore al 95%;

– verrà applicata un’ulteriore penalità di 0,50 € per ogni consegna se la percentuale di cancellazione è superiore al 5%.

Le percentuali che vengono tenute in considerazione sono quelle della settimana intera. Esempio: cosa succede se completate 10 consegne tenendo una percentuale di accettazione dell’80% e una percentuale di cancellazione del 20%? Normalmente dovreste guadagnare 30,00 € (10 consegne x 3,00 €), ma in questo caso riceverete una penalità di 5,00 € per l’accettazione troppo bassa (0,50 € x 10 consegne = 5,00 €) e un’altra penalità di 5,00 € per la cancellazione troppo alta (0,50 € x 10 consegne = 5,00 €). Quindi guadagnerete solo 20,00 € (cioè 30,00 € – 5,00 € – 5,00 €)”.

“Quindi mi pagate 3 euro a consegna, ed eventualmente mi togliete anche dei soldi?”, chiese Andrea.

“Esatto”.

“C’è altro da sapere?”.

“No”.

Sul telefono di Andrea, arrivò il primo messaggio. C’era da andare a prendere una consegna da McDonald, a tre chilometri dal punto in cui si trovava. Per portarla, sempre in bici, in un appartamento distante altri quattro chilometri.

Saltò sulla bici e cominciò a pedalare, verso un Big Mac ma in realtà verso una nuova vita. Il telefono cominciò a vibrare.

Andrea fissò il display.

 “MESSAGGIO IMPORTANTE!!! Da oggi chi non risponderà ai messaggi di Michael per le disponibilità o per qualsiasi altro motivo Non lavorerà mai più con Uber!”.

Tutti coloro che

– non rispettano l’orario di lavoro che comunicano;

– si inventano delle scuse false per non andare a lavorare;

– si mettono online in una zona lontana da dove si svolge il lavoro;

– non rispondono ai messaggi e in generale non sono collaborativi nella organizzazione del lavoro;

– non rispettano le percentuali richieste da Uber: accettazione superiore al 95% e cancellazione inferiore al 5%;

– non hanno capito, dopo moltissime spiegazioni, come funzionano i pagamenti (siamo stanchi di essere infastiditi dai messaggi di chi sostiene falsamente di non avere ricevuto i soldi), non potrà continuare a lavorare”.

Andrea rilesse il messaggio almeno per altre due volte. Fermò la bicicletta. Entrò in un bar, con lo zaino a tracolla, per mangiare qualcosa. Tutti lo scansavano, il corridoio era stretto e quel baule Uber Eats occupava tutto lo spazio. Il barista gli disse: «Guarda che non c’è nessuna consegna da fare”.

“Un cappuccino», rispose. “Per me”. Il ragazzo dietro il bancone gli voltò le spalle, azionando la macchina del caffè. Andrea prese il telefono in mano. E non ci pensò molto. Venne tutto abbastanza naturale. Cercò in rubrica il numero di quello che lo aveva reclutato per quel lavoro, il “capo”, quello che gli aveva fatto firmare quei pezzi di carta, e gli scrisse. Sorrise, bevve il cappuccino con molta calma. Lasciò una moneta da due euro sul tavolo e, senza prendere nemmeno il resto, si avviò verso l’uscita. Il telefono gli squillò ancora. Lesse con soddisfazione tutta la conversazione.

“Ciao sono Andrea, volevo dirti che sei uno schiavista e un ladro. Vai a fare in culo”.

“Ti vengo a prendere a sberle, ti rompo il culo. Da noi non lavorerai perché ho bloccato il tuo account. Non ti farò mai più lavorare, questo è quanto”.

Andrea rimise il telefono in tasca. Salì sulla bicicletta e andò via, salendo sui pedali. Oriana ha 40 anni e fa l’educatrice in un progetto di assistenza domiciliare ai disabili, oltre che la baby sitter per arrotondare. “Appena è scattato il lockdown non era chiaro se il mio lavoro fosse tra quelli sospesi, perché un’educatrice domiciliare ha un rapporto diverso con la persona che segue. Poi ho appreso che il decreto stabiliva che sarebbe dipeso solo dalla mia volontà e ho deciso di non sospendere per non causare traumi psicologici alla ragazza. Ma ho avuto tanta paura di poter essere un vettore di contagio per lei e per il bimbo che seguo alla mattina. In entrambi i casi è impossibile mantenere le distanze”.

Stazione Porta Genova. Lo zaino a cubo col marchio era meglio di qualsiasi lasciapassare. Milano, come il resto del Paese era in lockdown. Un deserto da percorrere per raggiungere chi, in casa, aveva solo loro come contatto con il mondo esterno: i rider. Pedalare, dunque. Come se non fosse mai cambiato nulla: pedalare-pedalare. Prigionieri di un doppio incantesimo. Quello della app col suo algoritmo della fiducia e quello di una città irreale. La stazione ferroviaria di Porta Genova a Milano è a due passi dai Navigli. E, ogni giorno in quei due mesi di quarantena, da una finestra della loro casa che dà sulla piazza, intorno alla mezzanotte, Alberto Piccione e la sua compagna avevano assistito a un identico spettacolo. Trenta, quaranta, anche cinquanta rider che dopo una intera giornata di consegne attendevano i pullman sostitutivi dei treni per rientrare a casa. Cioè nei paesi e nelle frazioni dell’hinterland, avamposti dormitorio dove affittare una stanza o un posto letto costa la metà rispetto alla scintillante, velocissima e ormai proibitiva Milano. Il covid e il necessario distanziamento sociale impedivano di garantire a quei ragazzi in attesa spazio per tutti dentro il pullman. “Allora regolarmente scoppiava la ressa per entrare prima degli altri”, racconta oggi Piccione. Battagliare per conquistarsi il diritto di tornare a dormire in un letto normale piuttosto che accomodarsi in stazione. Ogni notte la stessa storia: gli autisti dei pullman provavano a dividere i rider, quindi l’arrivo delle volanti, i cittadini della zona esasperati dagli schiamazzi, i tassisti nei paraggi per provare a raccogliere qualche corsa dei rimasti a piedi. “Questo – ragiona Angelo A., che si dà da fare nel collettivo di mutuo soccorso Deliverance – è quello che si muove dietro le quinte di un intero sistema dove, alla fine, i più fragili pagano pegno due volte. Sono necessari, anzi indispensabili, per soddisfare esigenze considerate ormai parte essenziale della nostra quotidianità. Ma spesso senza neanche i diritti basilari”. “Nel frattempo, il lockdown è finito, i treni sono tornati a circolare con regolarità, eppure per gli operai a cottimo delle consegne la vita rimane complicata. I pendolari si lamentavano della loro presenza ingombrante e fissa – bici e zaino – che per forza di cose gli toglieva il già non molto spazio vitale, così Trenord ha tagliato la testa al toro vietando il trasporto di biciclette sui vagoni. Ed ecco quindi come tutto si lega e si tiene insieme: speculazioni immobiliari che fanno schizzare i prezzi di case e affitti alle stelle; allora vai a vivere fuori ma i tagli al trasporto pubblico locale trasformano un viaggio in treno verso la città in una conquista, in una battaglia coi tuoi simili; e quando arriva il momento di lavorare, beh, eccolo qui il momento”.

Palazzo di giustizia. Una sera, in birreria, Andrea aveva raccontato quell’esperienza da fattorino di Uber a un tavolo di amici, dopo una partita di calcetto. In fondo ora un lavoro decente lo aveva trovato – dietro il banco di un ferramenta – e il senso di umiliazione se n’era andato, lasciando giusto un po’ di rabbia.

“Lo zaino non l’ho mai più riconsegnato. Lo tengo come fosse una reliquia”, diceva.

E chi lo ascoltava aveva riso molto. Qualche tempo dopo, gli era arrivato un messaggio da un numero che non conosceva.

“Ciao Andrea, sono Marco, quello del calcetto. Ci vediamo un attimo? Devo parlarti di una cosa”.

Rimase sorpreso ma in pausa pranzo lo raggiunse. L’incontro durò poco, giusto il tempo di consegnarli un plico di 60 pagine.

“Tribunale di Milano, sezione autonoma misura di prevenzione”, diceva l’intestazione.

“Non te l’ho mai detto, Andrea, ma io sono un carabiniere. Ci vediamo sul campo”.

Andrea si mise a leggere.

“Procedimento di prevenzione nei confronti di Uber Italy srl”, era l’intestazione.

Poi continuò.

“Nell’ambito del procedimento penale n. 41492/19 sono stati svolti accertamenti in ordine alla possibile perpetrazione del reato ex art. 603 bis c.p. (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) in danno dei c.d. ‘riders’ da parte delle imprese che ne gestiscono le consegne. Caratteristica peculiare del lavoro disimpegnato dai riders per conto della FLASH ROAD CITY è risultata la modalità di retribuzione: in tal senso è emerso come essi sarebbero stati pagati "a cottimo", 3 euro per ogni consegna effettuata, indipendentemente dalla distanza percorsa (ritiro presso il ristoratore e consegna al cliente finale), dalla fascia oraria (diurna o notturna e giorni festivi) e delle condizioni metereologiche”. “La modalità di retribuzione, tra l’altro, non terrebbe nemmeno conto del valore che la stessa ‘app’ di UBER attribuisce alla singola consegna. In altri termini, ogni rider, attraverso la propria ‘app’, visualizza preliminarmente l’importo che UBER riconosce per la corsa portata a termine (ritiro/consegna) ma, ciononostante, il rider verrebbe pagato sempre e solo 3 euro a consegna. Il monitoraggio delle comunicazioni telefoniche e delle conversazioni intercettate ha consentito di delineare una struttura organizzativa palesemente illecita sia nei rapporti lavorativi con il personale mai regolarmente assunto sia nei rapporti di collaborazione con una vasta schiera di fattorini, operanti in diverse città italiane, in nome e per conto di Uber”. “Gli indici di sfruttamento previsti dalla normativa in esame sono sostanzialmente due: lo sfruttamento lavorativo e l’approfittamento dello stato di bisogno. Le articolate attività d’indagine, volte ad accertare il collegamento tra l’intermediario e l’utilizzatore, hanno consentito di delineare in maniera puntuale il numero di lavoratori reclutati, le reali condizioni di lavoro, i metodi di sorveglianza e il mancato versamento delle ritenute d’acconto operate (ma non certificate) e non versate”.  “La veste di apparente legalità che caratterizzava, infatti, la Flash Road City le ha permesso, nell’arco temporale giugno 2018 – febbraio 2020, di reclutare una crescente manodopera costituita da numerosi migranti richiedenti asilo, per lo più dimoranti presso centri di accoglienza straordinaria, che si trovano in condizioni di vulnerabilità sociale tale da poter richiedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari: infatti, la maggior parte dei soggetti escussi a sommarie informazioni era in possesso di permessi di soggiorno a tempo in attesa di conoscere l’esito da parte delle Autorità nazionali delle loro richieste finalizzate ad ottenere lo status di rifugiato politico”. “Basti pensare che una ricerca effettuata su parte dei nominativi emersi dalle indagini effettuate ha evidenziato che buona parte dei riders reclutati dalla Flash Road City proveniva da zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri), la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare e lontananza dai propri familiari”. “Il forte isolamento sociale in cui vivono questi lavoratori immigrati offre l’opportunità di reperire lavoro a bassissimo costo poiché si tratta di persone disposte a tutto per avere i soldi per sopravvivere, sfruttate e discriminate da datori di lavoro senza scrupoli che avvertono in loro il senso del sentirsi costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio e quindi disposti a fare non solo i lavori meno qualificati e più pesanti ma anche ad essere pagati poco e male”. “L’analisi appena esposta chiarisce, indubbiamente, le motivazioni che hanno indotto i riders reclutati dagli indagati ad accettare le condizioni previste nei documenti che sono stati rinvenuti in sede di perquisizione e sequestro nonché dall’analisi dei documenti estratti dai dispositivi informatici analizzati”. Nel fascicolo c’erano i nomi dei riders: stranieri, italiani. C’era anche il suo, Andrea. C’erano i loro messaggi. Le loro fotografie.

C’erano anche dei numeri. Alpha, 26 anni, originario della Costa D’avorio, ha perso il lavoro all’inizio della pandemia. Lavorava da qualche mese in un ristorante come lavapiatti. Dopo essere stato per un anno in un Centro di Accoglienza Straordinario era riuscito a permettersi una casa in periferia. “Ora non so più come pagare l’affitto. Devo trovare qualcosa di nuovo ma è difficile, c’è troppa crisi”. “Sono stati sottratti 21mila euro ai fattorini di mance. E trovati 547.400 euro da ritenersi profitto dei reati di appropriazione indebita in relazione all’omesso versamento delle ritenute d’acconto effettuate e di sfruttamento del lavoro (Euro 242.200 oltre ad Euro 305.200 occultati in una cassetta di sicurezza sita presso l’istituto di credito Intesa San Paolo di Milano via Lorenteggio 70)”.

Il telefono gli squillò di nuovo. Era un messaggio di Marco, il carabiniere. “Sai la cosa più divertente? Quando hanno saputo dell’indagine sono corsi in banca per svuotare la cassetta di sicurezza piena di contanti. I soldi rubati ai riders. Noi li aspettavamo fuori”.

ATTO II. Il capitalismo della piattaforma. La differenza tra lavoratori e schiavi è che i secondi non hanno alcun potere di contrattazione. Prendere o lasciare. I datori di lavoro li spremono finché vogliono e poi li buttano. Avanti un altro, come nelle “Vite di scarto” raccontate dal sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman. Fino a poco tempo fa, però, gli schiavi assicuravano una cattiva reputazione a chi li sfruttava. Adesso – e le storie di Andrea e Francesco lo dimostrano – non più. Perché la frontiera della spoliazione dei diritti dei lavoratori è, appunto, sempre più spesso digitale. I 3 euro a consegna di Uber Eats raccontano il paradosso evidente di uno dei campioni della cosiddetta sharing economy (impostura linguistica a ben vedere): il massimo della tecnologia (con una app che smista le consegne tra i fattorini, indica loro il percorso, decide il prezzo della loro prestazione, alla faccia dell’autonomia), con il minimo dei diritti. È il paradosso fondativo del “platform capitalism”, per cui chi possiede la piattaforma estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione. E’ così che il patrimonio personale di Travis Kalanick, il giovane fondatore di Uber, in poco più di un lustro, passa da zero a sette miliardi, mentre sempre più autisti di Uber, dopo l’ennesima decurtazione alle tariffe, dormono nei parcheggi dell’aeroporto di San Francisco per essere i primi ad aggiudicarsi le corse buone. O, lo abbiamo visto, i riders di UberEats si azzuffano nella notte in Porta Genova. 

L’Economia delle briciole. Insomma, altro che economia della condivisione. Semmai “Share the scraps economy”, come l’ha ribattezzata l’economista Robert Reich, dove i lavoratori si spartiscono giusto le briciole mentre il grosso dei guadagni, talvolta esentasse per sofisticate triangolazioni fiscali, resta nelle mani dei padroni delle piattaforma. Vale per Uber, parzialmente per Airbnb e in maniera ancora diverse per Glovo, Deliveroo, JustEat. I lavoratori dell’economia dei lavoretti, sono una minoranza (intorno al 10% della manodopera negli Stati uniti, il 3% in Gran bretagna e sui 700 mila in Italia, stando al primo censimento voluto da Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo DeBenedetti, mentre altre indagini danno cifre decisamente più basse) ma è importante occupercene oggi per evitare che quella mediata dall’algoritmo non diventi la modalità standard dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. D’altronde cosa vieta, tanto più adesso che il tabù del lavoro a distanza è stato definitivamente infranto, che un medico, un architetto o un giornalista non si mettano all’asta online, a quel punto in competizione con colleghi albanesi o in qualsiasi altra parte del mondo a patto che parlino la nostra lingua? Le prime vittime della globalizzazione sono state le tute blu. Le seconde si candidano a diventare i colletti bianchi. Nel frattempo, i riders, ormai servizio pubblico de facto in quanto tra i pochissimi, con autisti di bus e tassisti, autorizzati a sfrecciare sulle strade italiane desertificate dal lockdown per consegnarci la cena a domicilio, continuano a prendere una miseria. E a contare niente. Tra le varie misure di sostegno annunciate per chi perde il lavoro o lo mantiene pesantemente decurtato ci sarebbero anche loro. In teoria. Ancora un mese fa, una rassegna tra i ciclofattorini del capoluogo emiliano, quartier generale del sindacato sociale Riders Union Bologna, mostrava che a lavorare erano rimasti quasi solo gli immigrati. Gli italiani chiedevano un reddito di quarantena al grido di “una pizza non vale il rischio”. Gabriel De Paris era tra i pochi superstiti autoctoni: “Il perché è semplice: non ho alternative e mi servono i 500 euro che, in media, porto a casa al mese”. Nella sfortuna, era meno sfortunato di altri, lavorando per MyMenu, un’azienda italiana di consegne che ha sottoscritto la Carta dei diritti dei lavoratori digitali fortemente voluta dal Comune e che offre tutele basilari. Mentre Saeed, ventottenne afgano che lavora per la multinazionale Deliveroo e ha provveduto in autonomia per le mascherine tagliando un berretto e trasformandolo in scaldacollo che tiene davanti alla bocca, ha visto sprofondare i suoi non disprezzabili incassi di prima a circa 300 euro al mese, lavorando sette ore nei feriali e anche più di 10 nei festivi (McDonald’s aveva chiuso e gli stessi riders erano costretti a spartirsi le corse rimaste dopo la defezione del principale cliente). A fine 2019, dopo una lunga serie di false partenze, è diventato legge un decreto che li riguarda. Scoraggia il cottimo. Fissa compensi minimi. Dà la protezione Inail per tutti in caso di incidenti sul lavoro (le aziende però hanno un anno per mettersi in regola e quindi, oggi, per molti le protezioni restano sulla carta). Passi avanti, tra tante disposizioni ancora discutibili. Ma i riders, testimonial ideali del nuovo precariato perché lavorano in strada, hanno divise vistose che è impossibile non notare, con i loro cubi frigo sulle spalle sono la rappresentazione plastica di nuovi Sisifo nell’atto di uno sforzo abbastanza vano, stanno simpatici a tutti. 

Destra e sinistra. È facile empatizzare con loro. Potrebbero essere i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri fratelli sgobboni. Sono generalmente assai istruiti (il 6% di chi campa con le piattaforme ha master o dottorato, sempre da solito censimento) e quindi sanno raccontarsi molto meglio di altri. Nonostante tutto questo, e lo sanno benissimo anche loro, sono solo una piccola provincia della grande nazione dello sfruttamento. Se infatti da Milano si scende verso Bologna, Roma, per poi spingersi in Calabria, si incontrano i ricattati di “Mondo Convenienza”, gli edili che volteggiano sui ponteggi senza protezione, i forzati dei call center. Decisamente più invisibili dei rider, ma non meno abusati.

Un Mondo di Convenienza. Bologna. Succede spesso che i contratti ci siano, e ci siano le buste paga, ma la realtà non è quella scritta nei documenti. Milleduecento euro al mese per trasportare e montare mobili. Lo stipendio è nella norma e per tanti lavoratori che provengono dai Paesi dell’Est, quel compenso può sembrare un colpo di fortuna. Tanto più se la ditta che lo offre usa un marchio conosciuto. I dipendenti delle srl e cooperative che lavorano per Mondo Convenienza, contratto multiservizi, guadagnano proprio quella cifra. Solo che nei 1.200 euro tutto è compreso. Anche se la giornata di lavoro è di 12 ore, 7 giorni su 7. “La cifra attira molti lavoratori rumeni contattati direttamente nel loro Paese d’origine, o portati in ditta da conoscenti che già vi lavorano – spiega Susanna Sandri, segretaria della Filt Cgil di Bologna, sindacato che con le cooperative e le srl fornitrici del marchio Mondo Convenienza ha dal 2017 una causa in corso per attività antisindacale e differenze retributive fra busta paga e orario effettivo –  I nostri delegati, che nel frattempo sono stati tutti licenziati, ci raccontavano di come, una volta caricati i camion alle 6 del mattino, il lavoro finisse solo a consegna effettuata.  Allora, in azienda, si usava una specie di promemoria che segnava i tempi di scarico merce e il nominativo del cliente. Ciò ci permetteva di ricostruire l’orario di lavoro, che era in media di 12 ore al giorno. Ora quel foglio non si usa più. C’è solo il nome di chi riceve la merce. Non abbiamo più rappresentanza sindacale, ma sappiamo che le condizioni di lavoro sono peggiorate”. Lo racconta l’ex dipendente Cristian P.: “Sono rimasti in pochi e chi c’è corre di più”. Lo conferma Doru che per Mondo Convenienza ci lavora ancora: “Sono pagato a giornata. Riesco a guadagnare fino a 80 euro al giorno. Ma di ore ne faccio anche più di 14, sabato compreso. E c’è chi sta peggio di me. Sopra agli uffici di Bologna ci sono delle stanzette: ci dorme chi arriva direttamente dalla Romania e non ha casa. Fino a 6 dipendenti per stanza. Per quel letto pagano sui 130 euro al mese trattenuti dallo stipendio”. Una circostanza che Mondo Convenienza smentisce, assicurando “di avere tutto l’interesse a prendere provvedimenti nei confronti di chi non rispetta i diritti dei lavoratori”, di “non affittare a nessun dipendente proprie stanze”, “di non chiedere a nessun dipendente soldi”, “di non avere cause in corso con il sindacato”. Il sindacato, invece, conferma le accuse e, con loro, le cause in corso. Paolo, 40 anni, lavora per una multinazionale della logistica. Le consegne si basano su un algoritmo: durante il periodo del Covid-19, il carico è aumentato considerevolmente e i tempi per le consegne si sono sempre più ristretti (in un giorno possono arrivare anche a 170 in 8 ore e 45 minuti). “Manca umanità, un sistema informatico decide tutto, questa è l’unica cosa che mi dispiace davvero dell’ambiente in cui lavoro”.

Dallo “smorzo” ai colletti bianchi. Roma…

·         Il lavoro sporco delle pulizie.

Il lavoro sporco degli angeli delle pulizie: 5 euro l'ora per sanificare i nostri ambienti. Un esercito di lavoratori impiegati a igienizzare scuole, uffici e ospedali, in prima linea contro la pandemia. Senza tutele contro il Covid e con un salario risibile. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 03 novembre 2020. Iniziano a lavorare mentre gli altri ancora dormono e la loro attività può protrarsi fino al pomeriggio inoltrato, anche il doppio del tempo ufficiale. Se si fermassero, in blocco, per un giorno, si bloccherebbe l’intero paese. Sono un esercito invisibile di circa 600 mila operatori. Per il 70 per cento, donne. E guadagnano pochissimo. Secondo Indeed, il motore di ricerca per trovare lavoro, il loro stipendio medio è di 667  euro. Una cifra suffragata dalle tabelle contrattuali: il salario d’ingresso si aggira sulle 600 euro e a fine carriera, con in tasca il titolo di “dirigente”, si guadagna poco più del doppio. Eppure stanno sempre lì a spaccarsi la schiena, con il gelo o col caldo torrido, le addette e gli addetti alle pulizie che disinfettano e rendono più igienici e vivibili, senza requie, i nostri ambienti lavorativi e di vita. Impegnati quasi di nascosto negli uffici, nelle scuole, nelle università, nelle banche, nelle fabbriche, nei supermercati, nelle case di riposo, nei condomini, nei centri commerciali, negli enti locali, nei musei, sui mezzi di trasporto, nelle carceri. E negli ospedali: almeno il coronavirus avrebbe dovuto rendere di dominio pubblico il loro sacrificio quotidiano. Ma così non è stato. È da fine febbraio che sono in prima linea contro la pandemia. Sono proprio loro gli artefici della sanificazione costante delle corsie ospedaliere, dei pronto soccorso, delle stesse terapie intensive e Covid Hospital. Qualcosa di imprescindibile, un supporto prezioso e tangibile all’azione di medici e infermieri. In primavera vennero gettati allo sbaraglio, con dispositivi di protezione insufficienti e a singhiozzo, e in questi mesi hanno visto dritto in faccia questo mostro subdolo, imparando a convivere con la paura e l’angoscia. E in parecchi si sono contagiati, non pochi sono morti. Il 27 ottobre, al Cardarelli di Napoli, è deceduto a causa del virus Mimmo Scala, un addetto alle pulizie di 55 anni. Non aveva patologie pregresse. «Nessuno gratifica il nostro operato, e il nostro coraggio. Nemmeno in questo momento di difficoltà dove molti di noi, me compreso, si sono contagiati in ospedali ad altissimo rischio. Non vogliamo medaglie: pretendiamo solo rispetto, senza essere messi, sempre, alla fine del carro» si è sfogato così su Facebook Francesco, un collega di Mimmo. Come Antonio, che ha sintetizzato: «Per cinque euro l’ora a noi tocca il lavoro sporco». Manca, ancora, all’appello un protocollo di sicurezza anti-covid per il settore. Persino quando si ammalano, in vari casi fino alle estreme conseguenze, sono costretti, insomma, a farlo in silenzio. Le tre sigle di categoria dei sindacati confederali, Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uil Trasporti, si stanno battendo da mesi per il rinnovo del contratto collettivo nazionale multiservizi, che rappresenta il comparto. Un contratto scaduto sette anni e mezzo fa. Ma le associazioni datoriali hanno alzato un muro alle loro richieste, benché i loro assistiti abbiano visto lievitare le commesse e le relative entrate, grazie al boom della sanificazione. Anzi, tra le loro controproposte l’aumento di una flessibilità già molto sostenuta. Nasce da questi presupposti la manifestazione che si è svolta il 21 ottobre in 49 città collegate, via Zoom, con la piazza principale di Roma, dove ha potuto gridare le proprie ragioni “in presenza” un centinaio di persone. Si reclama, e in tempi brevi, il rinnovo del Ccnl, con adeguamenti salariarli e maggiori diritti e garanzie per una professione sottaciuta e nevralgica. Proclamato lo stato di agitazione. «Non costringeteci, in questo momento d’emergenza pandemica, a dichiarare lo sciopero nazionale del settore pulizie/multiservizi – affermano Claudio Tarlazzi e Marco Verzari, rispettivamente segretario generale e nazionale della Uiltrasporti -. È fondamentale che questi lavoratori, che hanno lavorato in condizioni difficili e continuano a farlo al pari di medici e infermieri, non debbano più vivere al di sotto di una sussistenza dignitosa». Ma il problema è che, per assurdo, i titolari del predetto contratto nazionale sono un’elite di “garantiti”, perché quello delle addette/i alle pulizie è un sottobosco rigoglioso e sfuggente di sfruttamento e precariato. Nonostante sia lo Stato, che si gira dall’altra parte, il suo maggior committente. Un mondo di sotto dove imperversa il far west contrattuale: si contano decine e decine di contrattini di comodo, se non fittizi, intrecciati da microsindacati usa-e-getta schiacciati sulle posizioni “padronali”. Così come esiste una gragnuola di tipologie di aziende di pulizie: dalle grandi società alle piccolissime ditte individuali, passando per le associazioni temporanee di impresa e le cooperative. E sono numerosi i somministrati dalle agenzie interinali. Prolifera il lavoro nero. La meno tutelata, alle solite, è la manodopera straniera. Si può anche esercitare il mestiere come libero professionista a partita Iva. E chi è assunto a tempo indeterminato lo è in una maniera un po’ anomala. Uno dei difetti calcificati dell’ingranaggio è, infatti, il ricorso capillare e opportunistico al cambio di appalto. Accade questo: gli operatori lavano, strofinano e sanificano, sovente per un grosso committente, portando a casa un compenso semi-accettabile. Ma a un certo punto l’appalto è esaurito, viene meno, e allora sono destinati a una nuova realtà. Solo che per vincere la connessa gara d’appalto, la società o la cooperativa da cui sono stati assunti gioca la carta dell’offerta al massimo ribasso. Che è la controversa strada maestra, la strettoia per spuntarla sui concorrenti. E questo comporterà, per le maestranze, uno stipendio fortemente ridotto, coniugato a una crescita esponenziale delle ore lavorate sottobanco. Se è vero che la ditta che si aggiudica un appalto (applicando il contratto in discussione in queste settimane) si impegna, al termine dello stesso, a mantenere in organico gli assunti, è sulle buste paga che interviene per non veder diminuire i propri profitti. Si taglia il costo del lavoro, li si fa lavorare di più. Gli accrediti bancari precipitano: 3, 4, 500 euro al mese, e guai a lamentarsi. Il part-time forzato diventa una delle regole. Ogni volta che scade un appalto, tabula rasa e si ricomincia daccapo. Contratti capestro. E dopo il decreto Sblocca-cantieri dell’estate del 2019, sono tornati di moda i sub-appalti: un’altra trappola risaputa per i diritti e le retribuzioni. Racconta all’Espresso Marcelo Amendola, segretario nazionale del maggior sindacato di base, il Cub: «Non firmiamo i contratti nazionali di categoria per scelta, perché ogni rinnovo fatto va sempre nella direzione di puntare su un sistema di welfare privato, sanità, pensioni, enti bilaterali, il tutto togliendo risorse dirette ai lavoratori e indirette ai servizi pubblici. E come abbiamo visto nel caso della sanità per la pandemia, nel corso di un’emergenza l'unico apparato che tutela tutti è quello pubblico. Certo, i rinnovi contrattuali sono necessari perché solo così i lavoratori recuperano il potere d’acquisto perduto. Ma il nodo vero viene rimandato di volta in volta». Per la confederazione unitaria di base sarebbe questo: «Bisogna puntare ad aumenti effettivi e consistenti: la nostra proposta era di 300 euro netti, con riduzione dell’orario a parità di salario e democrazia sindacale diretta uguale per tutti. Per quel che concerne le gare, invece, spazio alla reinternalizzazione dei lavoratori: escluderli dal gruppo portante della manodopera, ossia dalla filiera principale, serve solo ad indebolirne la forza contrattuale e a renderli tutti più ricattabili e meno protetti». Intanto in rete si trovano messaggi di questo tenore: «Per te, tre ore di pulizia e igienizzazione completa a soli 22 euro». Da questa somma, vanno scalati il guadagno della cooperativa e le spese per secchi, stracci, scopettoni, spruzzini, detergenti, mascherine. Non chiedono ospitate televisive, abituati come sono a lavorare nell’ombra, i cleaners, le cleaners italiane; ma un soprassalto di considerazione e un po’ di gentilezza. Come nel celebre film di Ken Loach, un manifesto, il cielo in una frase: «Noi vogliamo il pane, ma anche le rose».

·         Il Caporalato agricolo Padano.

Perché i ragazzi italiani vanno a fare la vendemmia in Francia. Dormono in tenda, hanno un casolare con le docce, una cucina e una sala comune. Vanno lì per poche settimane, attirati da un contratto regolare che in patria non riuscirebbero ad avere. E sono sempre più numerosi. Maurizio Franco su L'Espresso il 26 ottobre 2020. Braccia prestate all’agricoltura francese. Giovani italiani che valicano le Alpi per lavorare durante la stagione della vendemmia. Ogni anno le strade della Penisola portano nei vitigni della Borgogna o di Bordeaux: il “deserto francese” - come è definita la desolazione urbanistica della provincia, in contrapposizione al mattone parigino – vergato dai filari che sconfinano sulla linea dell’orizzonte. Coltivazioni intensive e grappoli d’uva. E giovani che non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi mani e piedi immersi nella fanga, i cui cervelli non sono in fuga, ma scalpitano sul terriccio della precarietà economica. Lì, invece, in molti hanno visto che lo stipendio è messo nero su bianco con tanto di firme, tutele e diritti siglati con il linguaggio criptico della burocrazia. Così le frontiere si aprono a centinaia di “vendangeurs”, vendemmiatori improvvisati: laureandi e laureati, dottori di ricerca e professionisti in erba.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 30 agosto 2020. Il posto delle fragole. Lavoravano sotto la costante minaccia di essere licenziati i quasi cento lavoratori della Cascina Pirola di Cassina de' Pecchi sequestrata dai carabinieri che hanno portato alla luce un sistema di caporalato che andava avanti da anni. Nell'azienda che fa capo alla società StraBerry di proprietà del 32enne messinese dal cognome blasonato, Guglielmo Stagno d'Alcontres, le condizioni lavorative erano contro ogni norma e rispetto della dignità personale e lavorativa. Ignaro di essere intercettato dalla Guardia di finanza, il nobile spiegava la sua strategia nella gestione della forza lavoro: «Questo deve essere l'atteggiamento perché con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante (risata), è quello il concetto, io con loro sono il maschio dominante». Un cognome importante (gli appellativi onorifici sono Eccellenza e Don), la laurea alla Bocconi, un'azienda premiata per bene due volte dal Coldiretti con l'Oscar Green, e poi una triste storia di sfruttamento di poveri cristi, di braccianti della Sierra Leone. Il pasto delle fragole. È grazie all'agricoltura sostenibile che il nobile diventa ignobile? Il lavoro nobilita l'uomo, ma se lavorano gli altri a 4,50 euro all'ora, allora si può parlare di aristocrazia al nero. Strawberry Fields Forever.

IL CASO STRABERRY, UNA STARTUP DALLE STELLE ALLE STALLE. Una situazione ben lontana da quel sogno del nord produttivo senza illegalità. Michelangelo Bonessa il 27 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Per raccontare la sua azienda parlava di “modernissime serre riscaldate con pannelli fotovoltaici”, ma lo hanno arrestato per “sistematico sfruttamento illecito della manodopera agricola”. Il caso del sequestro della StraBerry, azienda che distribuiva fragole fresche con apecar, e del suo fondatore ha colpito duramente un altro mito lombardo: il giovane bocconiano che inventa una startup di successo. Guglielmo Stagno d’Alcontres, 31 anni, nel 2013 e nel 2014 era stato celebrato da Coldiretti con il premio Oscar Green. E nel 2015 aveva “ottenuto il riconoscimento produttore di qualità ambientale del Parco Agricolo Sud Milano” rivendicava sul suo sito aziendale. Sembrava l’unione perfetta tra il giovane giunto a Milano per studiare alla Bocconi e il capitalismo post Greta Tunberg: era il prototipo del successo del bocconiano moderno. Il capitalismo verde e amante dell’ambiente, Guglielmo guadagnava con un commercio di prodotti sani coltivati a 15 chilometri da piazza Duomo. Inoltre, grazie ai pannelli solari delle sue serre high-tech poteva non solo rendere energicamente autosufficiente la sua attività, ma distribuiva energia “per 4mila persone” raccontava sul suo sito. E l’idea della consegna di prodotti a chilometro zero con piccoli mezzi piaceva: la pagina Facebook dell’azienda contava migliaia di fan appassionati dall’idea e la sagra che aveva inventato il giovane imprenditore nel 2016 era stata visitata da 15mila persone. La sua iniziativa era andata così bene che se ne era interessata anche Finiper, il gigante della grande distribuzione organizzata. Sembrava andare tutto per il verso giusto al giovane imprenditore, tanto che la sua creatura fatturava sette milioni di euro all’anno. Sembrava. A interrompere il sogno ci ha pensato la Guardia di Finanza riportando sotto la Madonnina un termine ricondotto solitamente alle coltivazioni di pomodoro nel Sud: caporalato. Nell’ambito di un’inchiesta su questo fenomeno, anche la StraBerry (dall’inglese strawberry cioè fragola, ndr) è stata sequestrata dai militari. Il decreto è stato eseguito dagli uomini della compagnia di Gorgonzola che hanno accertato un “sistematico sfruttamento illecito della manodopera agricola a danno di circa 100 lavoratori extracomunitari”. Nel complesso gli indagati sono 7: 2 amministratori, 2 due sorveglianti, 2 impiegati amministrativi e il consulente dell’azienda che predisponeva le buste paga. Dalle indagini, coordinate dal tribunale di Milano, sono emerse “anomalie nelle assunzioni e nelle retribuzioni dei dipendenti dell’azienda” e “gravi e perduranti violazioni delle norme che regolano l’impiego dei braccianti agricoli”. I lavoratori erano costretti a turni di 9 ore dietro pagamento di 4,50 euro all’ora. Alla iniqua retribuzione si aggiungevano vessazioni durante il lavoro: una continua vigilanza da parte dei responsabili dei turni e la violazione delle norme anti Covid-19 sul distanziamento sociale per accelerare i tempi della raccolta agricola. Il tutto sotto la minaccia costante del licenziamento. Una situazione ben lontana da quel sogno italiano del nord produttivo senza fenomeni di illegalità, un quadro “schiavista” come è stato definito dal racconto della Gdf. Con lavoratori costretti ad accettare contratti di due giorni in prova senza compenso, per approfittare della manodopera gratuita. Inoltre le indagini dei militari hanno potuto constatare “l’assenza di dispositivi di protezione individuale, di spogliatoi, di docce e di servizi igienici a sufficienza (era presente, infatti, un solo bagno chimico esterno)”. E le mancanze toccavano tutta l’organizzazione: “Risultavano mancanti il piano di prevenzione incendi ed il piano di emergenza – ha spiegato al GdF – Veniva tra l’altro accertato il precario deposito di diserbanti e fitofarmaci – sostanze che i responsabili facevano direttamente utilizzare ai braccianti, privi di ogni formazione, esponendoli, così, ad un grave rischio per la salute – nonché di generi alimentari destinati ad essere venduti ad operatori della grande distribuzione (sono stati, infatti, sequestrati oltre 27mila barattoli di marmellata esposti al sole)”. Ora la Procura è intervenuta con decisione e, oltre agli arresti, ha disposto il sequestro di tutti i beni della società interessata, che comprendono 53 immobili tra terreni e fabbricati, 25 veicoli e 3 conti correnti. Infine, è stato nominato un amministratore giudiziario per dare continuità all’attività dell’azienda. Ma il vero duro colpo lo ha preso una figura simbolo degli ultimi 20 anni: il giovane imprenditore sfornato dalla Bocconi, l’università che in questi anni anche a livello politico ha assunto una posizione sempre più preminente. Suoi molti consulenti in ambiti delicati, suoi anche i presidenti del Consiglio dei Ministri come Mario Monti. E Bocconi voleva dire anche molto Milano, come città dell’economia e dell’avanguardia. Il caso StraBerry però ha incrinato questo mito, riportando con i piedi per terra una città che si è sempre considerata poco italiana e molto europea.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 27 agosto 2020. Il «Capo grasso» faceva paura a tutti: vessava, minacciava, imponeva ritmi massacranti nei campi per 4,5 euro all'ora. «Questo mese solo un giorno di pausa, sempre lavoro. Io sempre stanco, faccio il lavoro di dieci persone», si sfoga Ibrahim lamentando turni fino a dodici ore consecutive. StraBerry, la fattoria delle fragole, era tutt' altro che l'idillio agreste a quindici chilometri dal centro di Milano. È il primo caso di caporalato all'ombra della Madonnina. La startup dei frutti di bosco a chilometro zero fondata dal bocconiano Guglielmo Stagno d'Alcontres, ha svelato l'inchiesta della Procura di Milano che ha indagato sette persone, era un'azienda agricola da 7,5 milioni con gli schiavi extracomunitari nei campi, sprezzante della legge e dell'umanità. A imporre le regole, rivelano le intercettazioni, è il «Capo grasso» Stagno d'Alcontres, che dettando le direttive mostra la sua «totale mancanza di scrupoli», scrive il pm Gianfranco Gallo nella richiesta di sequestro convalidata dal gip Roberto Crepaldi. «Questo deve essere l'atteggiamento, perché con loro devi lavorare in maniera tribale.  Tu devi fare il maschio dominante - ride d'Alcontres - è quello il concetto, io con loro sono il maschio dominante. Sono più orgoglioso di avere inventato StraBerry che avere questi metodi coercitivi, chiamiamoli così, nei loro confronti. Ma sono i metodi con i quali bisogna lavorare». Un manager muscolare sprezzante di ogni regola contrattuale, scrive il pm: chi non accetta turni massacranti viene licenziato, spesso nemmeno confermato dopo due giorni in prova senza retribuzione. I braccianti non conoscono la lingua, non hanno il permesso di soggiorno e vivono nei centri di accoglienza, pur di racimolare qualche euro abbassano la testa. Qualcuno prova a ribellarsi, ma incassa solo umiliazioni: «Mi ha detto che siamo dei poveracci africani che non hanno niente, poi mi ha spintonato violentemente provando a buttarmi fuori dall'ufficio e mentre mi spingeva continuava a venirmi sulla faccia e continuava ad urlare e sputacchiarmi in faccia», è il trattamento ricevuto da Mohamed da parte di uno dei capi. «Erano molto offensivi, sempre, contro tutti gli africani. Usavano parole come cog...one, negro di merda, animali. Offendevano». Le condizioni di lavoro non erano da meno. «È concesso bere ma soltanto se hai con te una bottiglietta d'acqua, non è permesso poter andare a bere alla fontanella. Quindi se non hai la bottiglietta non bevi e io, quel giorno, me la ero dimenticata - ricorda Diallo - Ci sono altre proibizioni. Per esempio non è possibile parlare con i compagni di lavoro, ho visto tante volte Capo grasso mandare via le persone perché parlavano tra di loro». O soltanto perché, stremate dalla sete, sono andate alla fontanella distante dieci minuti di cammino. Non ci sono toilette, riferisce un ex stagista, «i servizi igienici sono costituiti da un bagno chimico a esclusivo uso del personale di origine italiana. Non c'è un servizio igienico per gli operai» provenienti dall'Africa. «Ogni volta che avevo bisogno del bagno andavo nei cespugli - dice Idron - Non ci sono docce, c'è un rubinetto con il tubo di plastica per bere ma era vietato usarlo per lavarci, andavamo in un piccolo canale. Non c'è la mensa, mangiavamo lungo il viale d'ingresso dell'azienda, per terra». Chi prova a protestare viene cacciato. È la regola del Capo grasso: «Domani cominciamo a buttarli fuori uno alla volta, anche quelli vecchi. Cominci a buttarne uno, no? E vediamo gli altri. Il primo che rompe i coglioni va a casa, vediamo se gli altri non stanno attenti».

Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 27 agosto 2020. «Noi noi con questa cosa qua che abbiamo il contratto a chiamata, non ti dico che chiamo... Però lo usiamo come strumento, no? Lavori male non ti chiamo, lavori bene ti chiamo». Guglielmo Stagno d'Alcontres spiega così, ignaro di essere intercettato dalla Guardia di finanza, la sua strategia nella gestione della forza lavoro nei suoi campi di fragole. «Questo deve essere l'atteggiamento perché con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante ( ride ), è quello il concetto, io con loro sono il maschio dominante». A far scattare il sequestro della StraBerry è stata un'indagine complessa, condotta dalle Fiamme gialle. Per capire che cosa accadesse davvero nelle serre «fotovoltaiche» di Cassina de' Pecchi, oltre all'incrocio di molte testimonianze - soprattutto da parte dei lavoratori africani - sono state necessarie molte verifiche di documenti e, anche, intercettazioni telefoniche. E quello che ne emerge, nelle parole dello stesso giudice per le indagini preliminari Roberto Crepaldi, è un «quadro desolante, francamente degno di ben altra epoca e contesto, emerso dalle indagini», che «denota una visione meramente economica del lavoratore, inteso come mezzo produttivo da "spremere" per conseguire un maggior margine di profitto». È questa l'altra faccia - quella brutta - della start up modello creata dal giovane bocconiano siciliano dal cognome blasonato e premiata due volte da Coldiretti. Ad aprire il primo squarcio sul «clima del terrore», come lo definiva lo stesso manager dalle nobili origini, sono proprio i ragazzi africani, i lavoratori reclutati per passaparola nei centri di accoglienza e poi arruolati per lavorare a Cascina Pirola, secondo regole non scritte ma urlate. Uno dopo l'altro, i braccianti - molti dei quali domiciliati nel centro di accoglienza di via Corelli - si sono rivolti alla Guardia di finanza per raccontare le condizioni vessatorie di lavoro imposte a Cascina Pirola. Hanno paura, ma i conti non tornano: e poiché chi è ai margini inferiori della scala economica lavora soprattutto in cambio di denaro, la rabbia iniettata dalle vessazioni quotidiane si incanala nella denuncia di buste paga irregolari. Per esempio, in vista di controlli, come quello degli emissari della Coop, il padrone istruisce così i lavoratori: «Se lui chiedere quanto prendere soldi una persona azienda, tu bisogno dire "io non lo so"». E poi: «Tu devi dire "io no pagare orario ma pagare giornata, giornata prendiamo più o meno 50 euro"». I racconti dei giovani braccianti africani si confermano a vicenda. Ma gli investigatori cercano ulteriori prove nelle conversazioni telefoniche tra i dipendenti e i consulenti della StraBerry. Ascoltano conversazioni dalle quale emerge chiaramente che - per politica aziendale non c'è alcun legame tra ore lavorate e salario percepito, fino al giorno in cui, quasi increduli, intercettano una richiesta inusuale alla consulente delle paghe (a sua volta indagata): «A Guglielmo serviva una busta paga che fosse giusta, ok? Come se... un facsimile ». E così finisce che ai lavoratori vengono riconosciuti 4,5 euro all'ora, la metà di quanto spetterebbe loro per contratto. Sui campi, intanto, incombe il più severo controllo. Una squadra di cinque persone, quattro italiani e un africano, sorvegliano ogni mossa del centinaio di lavoratori chini sulle piantine di fragole. Nei racconti dei braccianti ci sono un «capo grande» e un «capo piccolo» che controllano ogni mossa. Guai a chi risponde al telefono o fa durare più di pochi secondi una pausa per bere o per fare pipì. E soprattutto, vietato considerare conclusa la giornata di lavoro se non sono stati raggiunti gli obiettivi stabiliti dal dominus. Chi non ha raccolto o non ha zappato abbastanza non può andarsene: «Tu quanto hai fatto? Hai finito cinque? Ok ci vediamo domani» dice per telefono Stagno d'Alcontres a uno dei suoi dipendenti. Gli altri li manda via. In altre conversazioni intercettate, del resto, è lo stesso manager bocconiano a teorizzare un «sistema del terrore». Il giudice parla anche di «uso strumentale del contratto a chiamata» e di «tono violento e razzista». Insomma nel 2020, a 15 chilometri dal Duomo, osserva il giudice, c'è chi fa impresa «sfruttando l'enorme disponibilità di mano d'opera straniera che accetta condizioni di lavoro al limite con la schiavitù pur di sopravvivere in Italia».

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 26 agosto 2020. Sfruttamento e caporalato a Straberry, la «fattoria delle fragole» mito dell' Expo 2015 orgoglio del sindaco Beppe Sala. La Procura di Milano indaga sulla start up che sfruttava un centinaio di immigrati che lavoravano senza tutele e pagati 4,5 euro l' ora. Durante l' Expo 2015 di Milano, simbolo dell' efficienza del sindaco Giuseppe Sala e del Partito democratico, si definivano «Buoni, puliti e belli». Sfilavano con Apecar e innovative «cargobike» per la città, vendendo frutti di bosco, gelati e ghiaccioli. Peccato che a distanza di 5 anni, Straberry, start up milanese da 7,5 milioni e mezzo di euro specializzata nella coltivazione e nella distribuzione di fragole, sia stata sequestrata dalla Guardia di finanza di Gorgonzola. Le accuse sono di caporalato e sfruttamento del lavoro di cittadini extracomunitari con regolare permesso di soggiorno. In alta stagione venivano impiegati almeno 100 braccianti, in bassa 20. Ma c' è il rischio che la lista di reati possa allungarsi, anche perché nell' azienda non venivano rispettate non solo le normali regole sanitarie, ma anche quelle obbligatorie durante l' emergenza Covid 19. Non veniva misurata la temperatura, né si utilizzavano mascherine: era un potenziale focolaio pronto a esplodere.

Il rischio salute. Non solo. Le fiamme gialle hanno anche scoperto che le fragole «a km 0 e green», come venivano reclamizzate, erano in realtà raccolte senza guanti e inondate di diserbanti, che i lavoratori erano costretti a usare senza alcun tipo di protezione o esperienza professionale: era un rischio anche per la loro salute. È stata un' inchiesta lampo, iniziata a maggio e terminata lunedì, quella degli investigatori. A destare dei sospetti sono stati i database dove venivano inseriti i lavoratori: le cifre non quadravano. A finire indagato è Guglielmo Stagno d' Alcontres, 31 anni, economista, bocconiano, nobile siciliano inserito nei salotti della Milano bene, come veniva definito dai giornali anni fa. Insieme con lui finiscono indagati dal pm Gianfranco Gallo anche altri due amministratori, due «sorveglianti della manodopera», due dipendenti amministrative che reclutavano i lavoratori e infine un consulente esterno che compilava le buste paga. Stando alle indagini delle fiamme gialle, coordinate dal capitano Giacomo Curucachi, i 7 avrebbero in concorso tra loro inventato un vero e proprio metodo di sfruttamento della manodopera, spendendo pochissimo e soprattutto dando zero tutele lavorative ai braccianti che raccoglievano le fragole. Il sistema era questo. Alla mattina presto centinaia di extracomunitari si presentavano fuori dalla cascina Pirola di Cassina De' Pecchi, 50.000 metri quadrati a 15 chilometri da centro di Milano nel parco Sud, zona di speculazioni edilizie negli anni Ottanta. Alcuni venivano selezionati e veniva proposto loro di lavorare per 2 giorni, gratuitamente, senza alcun corso di formazione e senza contratto. Poi in base alle valutazioni dei caporali venivano assunti o lasciati a casa. In questo modo, oltre a una parte di personale già presente sul posto, Straberry poteva avere un ricambio giornaliero di manodopera senza spendere un euro. Per di più l' orario lavorativo doveva essere in teoria di 6 ore, ma in realtà la Guardia di finanza ha scoperto che tutti i lavoratori, per la maggior parte africani, restavano almeno fino alle 7 di sera. Insomma, lavoravano quasi 12 ore al giorno, sotto il sole, senza spogliatoi dove cambiarsi e con un solo bagno chimico a disposizione, a chilometri di distanza dalla loro postazione di lavoro. La paga era di 4,50 all' ora, mentre secondo il contratto collettivo dovrebbe essere quasi il doppio, circa 8 euro. Gli affari nell' ultimo anno non sono andati benissimo, nel 2018 (ultimo bilancio) l' azienda ha perso 141.000 euro, ma aveva comunque una dotazione di immobilizzazioni materiali per 3,9 milioni di euro (tra terreni, fabbricati e impianti e macchinari) tutto per la maggior parte finanziato da mutuo bancario.

Premio coldiretti. Stagno d' Alcontres aveva persino ricevuto da Coldiretti nel 2014 il premio Oscar Green, in quanto «azienda agricola innovativa ed attenta alla sostenibilità ambientale». Fa parte di quella schiera di giovani imprenditori che i quotidiani celebravano durante l' Expo 2015, titolari di start up innovative, raccontati sui giornali come i nuovi self made man, capaci di abbandonare i sogni da squali della finanza per tornare alla nuda terra. «Siamo un' impresa giovane ed innovativa che rappresenta la più grande realtà in Lombardia che coltiva frutti di bosco». E ancora: «Operiamo nell' assoluto rispetto dell' ambiente utilizzando l' energia solare prodotta dai pannelli fotovoltaici posti sopra le serre», c' è scritto sul sito internet dell' azienda.

Con i soldi di mamma. Proprio nel 2015 aveva ricevuto il riconoscimento «produttore di qualità ambientale del Parco agricolo sud Milano, «per l' impegno a favore dell' ambiente del territorio e del paesaggio». Ex consigliere regionale Coldiretti dal 2015 al 2018, Stagno d' Alcontres raccontava nel 2017 a La Stampa che «aveva pensato di fare il banchiere». Poi, «mi venne l' idea di cosa fare dei terreni - 60 ettari a mais e prati stabili - di mia madre a Cassina De' Pecchi nel Parco agricolo sud Milano. Non rendevano una mazza! Oltre a non saper d' agricoltura non avevo mai fatto l' imprenditore; però capisco velocemente le cose, i numeri mi vengono fuori subito.Con l' ok di mamma, da gennaio 2010, ho messo in piedi un vero ambaradan». Ma ora l' ambaradan è finito in Procura.

Storia di StraBerry, la startup premiata da Coldiretti che sfruttava i migranti. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Di fragole, lacrime e nobiltà. Potrebbe essere il titolo di una di quelle commedie amare che si giravano qualche decennio fa. Una farsa tragica. Ingredienti e titoli di una storia di successi, finiti nella polvere a mischiarsi con una terra ingrassata da pesticidi e fitofarmaci. Guglielmo Stagno D’Alcontres, bocconiano brillante, progenie del casato normanno fondato ottocento anni fa da Berengario Estanol, di stanza in Sicilia ed espansione lombarda, sospettato dalla guardia di finanza di Milano di sfruttare i migranti, che per questo gli ha sequestrato azienda, immobili e beni strumentali. Per i finanzieri, la StraBerry di Cassina de Pecchi, pochi passi alle spalle di Segrate, per produrre fragole, mirtilli e lamponi, dentro due serre fotovoltaiche, pagava ai braccianti 4,50 euro l’ora, li teneva piegati sulle ginocchia per nove ore al giorno, facendoli pungolare a sforzi severi da ligi sorveglianti dell’azienda. E se è vero, la tragedia più grande, la sofferenza, è quella dei lavoratori sfruttati, provenienti dai centri di accoglienza, che fra le terre migliori in Italia, avevano sperato di finire in terra lombarda, considerata la meglio di tutte. E se è vero, la farsa più grande, sarebbe quella in cui è caduta Coldiretti, associazione di categoria storica, che un paio di anni fa aveva, con enfasi, consegnato all’imprenditore, con sangue pregiato e studi lussureggianti, l’Oscar Green, il premio per le produzioni biologiche, il sigillo della qualità. Ora, se sono vere le testimonianze raccolte dai finanzieri, per dare colore smagliante ai frutti di bosco, nella terra e sulle piante si abbondava nell’uso di pesticidi e fitofarmaci. Le magie, più che la terra, le compiva il mago della chimica. E i furgoni multicolori che portavano in giro i prodotti della StraBerry, facendo luccicare gli occhi dei bambini al proprio passaggio, se è vero, non trasportavano miracoli naturali. I migranti, quelli che arrivano in Italia, al Nord soprattutto, a portare via il lavoro agli italiani, si portavano a casa solo gli spiccioli per sopravvivere, nutrire la loro fatica a vantaggio di un padrone, se è vero, per cui il tempo si era fermato alle galee. I “neri”, quelli che portano il covid, stavano ammassati gli uni sugli altri, si spartivano un unico bagno chimico, irridendo alle norme sul distanziamento, alle regole contro la pandemia. È una storia questa, se è vera, che fra lacrime, nobiltà e successo, sta nel filone della commedia italiana amara, nella farsa che poi diventa tragedia e spiega che gli italiani, non tutti, non siano brava gente, che quella della terra in cui tutto finisce a tarallucci e vino è una grande balla. Sappiamo essere spietati, e il sangue blu, i master universitari, non sempre sono sinonimi di bontà. E nemmeno le coppe, i trofei, le medaglie, assicurano su tutto. E degli eroi, dei paladini, bisogna sempre controllare l’orto dietro casa.

·         Schiavi nei cantieri navali.

Marco Revelli per “la Stampa” l'11 novembre 2020. Non è una puntata di Un posto al sole. Non sono i Cantieri Palladini. Insomma, non è una fiction. È un pezzo di realtà italiana. È La Spezia: lavoratori schiavi impiegati a costruire yacht di lusso pagati quattro euro all' ora, sotto il controllo di "caporali" molto violenti. Lavoratori in condizioni di lavoro pericolose e, in caso di positività al virus, nemmeno la possibilità della mutua. Ancora una volta la cronaca ci mette di fronte a una realtà inimmaginabile in una società moderna: a scenari da ançien régime, dove la ricchezza assoluta del consumatore di lusso si sposa alla miseria assoluta del produttore ridotto a "vita di scarto". Possiamo ben dirlo che su quel molo al confine tra Liguria e Versilia - la nostra "costa d' oro" - i poli estremi della piramide sociale si sono avvicinati quasi a toccarsi in un punto solo: nell' oggetto del desiderio simbolo di status per gli uni, luogo di tormento per gli altri, rivelando il sottofondo di ingiustizia che soggiace al modello sociale affermatosi col nuovo secolo. La cronaca ci dice che i lavoratori erano in prevalenza bengalesi (simbolo a loro volta di una società di casta che conosce paria e signori). Che l' organizzazione che li gestiva come merci di poco valore era estesa e ramificata, dotata di cospicui mezzi finanziari (è stato sequestrato un milione di euro), assistita da professionisti e consulenti del lavoro in grado di far sembrare il tutto perfettamente in regola sulla carta, come in ogni sistema basato sulla subfornitura. E sembrerebbe un' anomalia nell' iper-modernità contemporanea. Invece ne è, in qualche misura, una rappresentazione esemplare, benché estrema. Il modello post-industriale che si è affermato nel mondo con la globalizzazione finanziaria, commerciale e produttiva è, per sua natura e sostanza, disegualitario. Abissalmente disegualitario. Vive di coniugazione degli estremi. Ricchezze spropositate come quelle che questo modello di accumulazione produce non possono che fondarsi sull' espropriazione di settori ampi di popolazione e sulla riduzione al minimo, fino alla cancellazione, dei loro diritti. Se nel cuore del Novecento industriale un dirigente come Vittorio Valletta percepiva una retribuzione di circa 25 volte quella di un proprio operaio, oggi un amministratore delegato di una grande transnazionale ne guadagna mille, millecinquecento volte, anche di più con le stock options. Così come se uno di loro si contagia del coronavirus sarà assistito con i migliori farmaci salvavita nel reparto Diamante del San Raffaele mentre il pensionato napoletano sta in auto, fuori dal pronto soccorso del Cardarelli, con la bombola d' ossigeno appesa al finestrino. Si misura qui per intero la falsità di quella teoria detta del trickle down ovvero dello "sgocciolamento", che ha costituito l' argomento principe del modello neo-liberista continuando a ripeterci, per anni, che la concentrazione della ricchezza in alto è comunque positiva perché prima o poi "sgocciolerà" in basso, beneficiando oltre ai "primi" anche gli "ultimi". A La Spezia si può vedere ad occhio nudo che quella ricchezza rimane, drammaticamente, in alto, convivendo con la peggiore deprivazione in basso. So benissimo che si obbietterà che questo è un caso limite, un evento unico, tanto da aver provocato l' intervento della legge. E che il resto del mondo è tutt' altra cosa: l' attuale organizzazione sociale è così complessa, labirintica, opaca - i circuiti della produzione e della distribuzione della ricchezza così dispersi in filiere lunghe e lunghissime - che permette di protrarre all' infinito il gioco delle interpretazioni e delle confutazioni. Ma personalmente resto convinto che la regola si nasconde nell' eccezione. E che l' economia del lusso, inevitabilmente, contenga in sé i germi della società della miseria.

·         Riders: Cornuti e Mazziati.

Uber Eats, la verità sull’Amministrazione giudiziaria e sulle accuse di caporalato. Fabrizio Capecelatro su Notizie.it il 17/12/2020. Troppe semplificazioni giornalistiche hanno provocato forti inesattezze nella comprensione della vicenda giudiziaria di UberEats. Parlano per la prima volta l'amministratore giudiziario, Cesare Meroni, e due coadiutori, Fabio Cesare e Marcella Vulcano. La vicenda giudiziaria di Uber Eats è ormai nota a tutti. La popolarità del brand di delivery e i dettagli emersi sulle condizioni di lavoro dei cosiddetti riders hanno reso l’inchiesta della Procura di Milano una di quelle su cui i giornali si accaniscono, sapendo di incontrare l’interesse del pubblico. Ma è proprio lì che spesso si insinua quella che in gergo è detta “semplificazione giornalistica”. Ed è così che nel racconto delle vicende giudiziarie, come quella di Uber Eats, si insinuano delle inesattezze, che rischiano di distorcere la verità. Per la prima volta da quando sono stati nominati dal Tribunale di Milano, parlano – in esclusiva per Notizie.it – l’Amministratore Giudiziario, il dottor Cesare Meroni, e i due coadiutori, gli avvocati Fabio Cesare e Marcella Vulcano. Con loro ripercorriamo l’intera vicenda per fare chiarezza.

Il NON commissariamento di Uber Eats. Nel maggio del 2020, su proposta della Procura, la Sezione Autonoma delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto con decreto la misura dell’amministrazione giudiziaria per Uber Italy Srl, società che opera con due linee di business, quella del delivery food e quella, residuale, del noleggio con conducente. La notizia viene subito rilanciata da giornali e TV come “il commissariamento di Uber Eats”, ma – in realtà – non si tratta affatto di questo. «La misura disposta – spiega l’avvocato Marcella Vulcano – non è in alcun modo una forma di commissariamento della società, bensì una forma di prevenzione patrimoniale prevista dall’art. 34 del D. Lgs. 159/2011 (il cosiddetto “Codice Antimafia”)». «La finalità delle misura – aggiunge l’avvocato Vulcano – non è infatti repressiva, non è diretta a punire l’imprenditore, ma è preventiva, ossia diretta a sottrarre imprese sane dal possible coinvolgimento in condotte antigiuridiche, sotto il controllo dell’amministratore giudiziario che non sostituisce chi rappresenta la società». Il Tribunale di Milano ha quindi ritenuto che Uber Italy Srl avesse potuto, nell’esercizio delle sue attività, agevolare alcuni soggetti indagati per caporalato.

A chi sono rivolte le accuse di caporalato? È qui che si insinua l’altra grande semplificazione giornalistica che ha generato errore nell’opinione pubblica: a essere indagata per caporalato (ovvero il reato previsto all’articolo 603bis del Codice Penale, che intende sanzionare chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori”) non è Uber Italy Srl, bensì società terze a cui questa aveva affidato la gestione dei riders. «Uber Italy Srl – spiega l’Amministratore giudiziario Cesare Meroni – fornisce, oltre al servizio di noleggio con conducente, servizi di intermediazione digitale, fatturazione e pagamento ai ristoranti e servizi di consegna ai clienti persone fisiche. La consegna è effettuata dai corrieri (i cosiddetti riders, appunto) che ricevono domande di consegna tramite l’applicazione Uber Eats. L’applicazione Uber Eats permette agli utenti di ordinare del cibo presso ristoranti disponibili sull’applicazione e di riceverli all’indirizzo indicato». In una prima fase della sua attività, Uber appaltava la gestione dei riders a società terze che si occupavano del loro arruolamento e della loro retribuzione. Queste società sono state indagate per caporalato. «Peraltro – aggiunge l’avvocato Fabio Cesare – quando è nata l’inchiesta, Uber aveva già interrotto i rapporti con queste società, a causa di una variazione del proprio modello di business». «Quello che il Tribunale di Milano ha quindi ritenuto, nell’ambito dell’inchiesta della Procura, è che Uber Italy, per quanto estraneo alle condotte illecite dei soggetti indiziati, potesse aver agevolato la loro attività a causa di un omesso controllo e di una grave deficienza organizzativa sul piano di una reale autonomia rispetto alla casa madre olandese», spiega l’avvocato Vulcano. Uber avrebbe quindi agevolato l’attività illecita delle società indagate non con la precisa volontà di farlo, che sarebbe quindi una sorta di complicità, ma perché non si era dotata dei necessari “anticorpi” e dei sistemi di controllo necessari per evitare di farlo. Ed è per questa carenza che il Tribunale ha disposto l’Amministrazione giudiziaria.

Le finalità dell’amministrazione giudiziaria. «Le finalità della misura – spiega Fabio Cesare – sono tese essenzialmente all’analisi dei rapporti esistenti tra Uber Italy Srl e le altre società della galassia Uber, sempre nel perimetro della gestione dei “riders”; all’analisi dei rapporti con i “riders”; alla verifica dell’esistenza di forme di sfruttamento di lavoratori esterni; alla verifica dell’esistenza e dell’idoneità del modello organizzativo previsto dal D. Lgs. 231/2001 per prevenire fattispecie di reato ricollegabili all’art. 603 bis c.p.». «L’attività – commenta il dottor Cesare Meroni – si è caratterizzata sin dal primo contatto con un fitto dialogo con la Società e con svariati interlocutori, interni ed esterni: il legale rappresentante e il Public Policy Manager di Uber Italy, i legali dello Studio Bonelli Erede incaricati dalla Società,i Dipendenti, i componenti dell’Organismo di Vigilanza, l’associazione datoriale Assodelivery, la Prefettura, le organizzazioni sindacali, i ristoranti clienti di Uber Italy Srl e tutte le altri parti». Uber Italy Srl si è quindi subito dimostrata efficacemente propositiva e collaborativa nei confronti dell’Amministrazione giudiziaria, che infatti deve lavorare in collaborazione e non in conflitto, almeno laddove possibile, con la società. Ed è grazie a questa collaborazione che in 7 mesi di amministrazione giudiziaria si sono raggiunti diversi e importanti traguardi.

I risultati dell’Amministrazione giudiziaria. «A sette mesi dall’inizio del nostro intervenuto – spiega l’avvocato Vulcano – l’azienda sta adottando tutte le prescrizioni da noi formulate, dotandosi di Modello Organizzativo, di Gestione e Controllo ex D.Lgs. 231/2001 volto non solo ad a evitare possibili situazioni di illegalità simili a quelle per le quali è stata adottata la misura dell’amministrazione giudiziaria, ma anche a prevenire una serie di eventi-rischio a cui potrebbe essere esposta la Società negli ambiti di attività specifici, tenuto conto anche di eventuali attività esternalizzate a società del Gruppo». «Il Modello Organizzativo 231 – aggiunge l’avvocato Fabio Cesare – prevede il divieto di impiego di società terze per la gestione dei riders e, laddove dovesse rendersi necessario, è previsto uno specifico procedimento che coinvolge più organi e funzioni per l’individuazione del partner e un’attenta verifica sui fornitori».

Il protocollo sperimentale di legalità. «Questo processo – spiega il dottor Cesare Meroni – si inserisce nel solco tracciato dal Protocollo sperimentale, sottoscritto lo scorso 6 novembre da Assodelivery, associazione rappresentativa dell’industria del food delivery italiana, che annovera tra i propri componenti Deliveroo, Glovo, Just Eat (recentemente uscita da Assodelivery) SocialFood e Uber Eats e dalle organizzazioni sindacali. Il Protocollo di legalità, a cui ha contribuito l’amministrazione giudiziaria di Uber, è stato promosso dal Tribunale di Milano – Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano – Ufficio Misure di Prevenzione e dalla Prefettura di Milano. Il Protocollo, intende contrastare il caporalato e ogni forma di sfruttamento lavorativo nel settore delivery, attività che è attualmente in forte espansione, per elaborare e porre in essere strumenti efficaci a sostegno dei diritti dei lavoratori e dell’economia legale nel settore di riferimento». Tutte le società aderenti ad Assodelivery si sono quindi impegnate ad adottare il Modello Organizzativo 231 e il Codice Etico entro sei mesi dalla stipula del protocollo e si sono impegnate a designare, entro lo stesso termine, un rappresentante nell’ambito dei componenti del proprio Organismo di Vigilanza costituito ai sensi della ai sensi del d.lgs. 231/2001 che andranno a costituire un Organismo di Garanzia in seno alla Prefettura di Milano.

Il ruolo di Uber in Assodelivery. «Siamo particolarmente soddisfatti – conclude l’avvocato Fabio Cesare – del nuovo ruolo assunto da Uber all’interno di Assodelivery il cui Consiglio Direttivo ha voluto affidare la Vicepresidenza al Public Policy Manager di Uber, conferendogli, altresì, la delega ai rapporti sindacali. L’estensione del Protocollo di Legalità a tutto il territorio nazionale è uno dei principali obiettivi riposti vicepresidente di Assodelivery e che, se attuato, rivelerebbe una volontà di garantire una regolamentazione del settore attraverso l’attuazione di strumenti efficaci a sostegno dei diritti dei lavoratori e dell’economia legale». «L’auspicio – aggiunge l’avvocato Marcella Vulcano – è che il positivo percorso di legalità intrapreso da Uber conduca la Società a posizionarsi sul mercato con una elevata connotazione etica ed a svolgere, anche in seno ad Assodelivery, una funzione di trascinamento dei competitors verso un percorso condiviso di crescita nella legalità e nel rispetto dei diritti dei lavoratori e quindi verso un nuovo assetto di mercato che disconosca ogni forma di sfruttamento del lavoro».

Fabrizio Capecelatro. Giornalista, dopo aver collaborato con diverse testate nazionali, fra cui Il Giornale e Il Fatto Quotidiano, si è specializzato in progetti nativi digitali. Dopo essere stato Brand Editorial Manager del network Nanopress, è approdato a Entire Digital come responsabile della redazione del network Notizie.it. È autore di tre libri inchiesta sulla criminalità organizzata ("Lo spallone - Io, Ciro Mazzarela, re del contrabbando", "Il sangue non si lava - Il clan dei Casalesi raccontato da Domenico Bidognetti", "Omissi 01 - La vera storia di Rosa Amato: camorrista per vendetta, pentita per amore") e insegna "Comunicazione digitale" presso l'Università Umanitaria. Nel 2019 ha vinto il "Premio Europeo di Giornalismo Giudiziario e Investigativo".

Da open.online il 12/10/2020. Si sono chiuse le indagini per caporalato su Uber eats, portate avanti dal pm di Milano Paolo Storari, che hanno condotto all’iscrizione nel registro degli indagati di 10 persone. Lo scorso 29 maggio, dopo le prime indagini sullo sfruttamento dei rider impiegati nella consegna a domicilio del cibo, il Tribunale aveva disposto un provvedimento unico nella storia delle piattaforme di delivery: il commissariamento di Uber Italy, filiale del colosso americano. I rider, si legge nell’avviso di chiusura indagini, erano: «pagati a cottimo 3 euro a consegna», «derubati» delle mance, «puniti» e «sanzionati attraverso la arbitraria sospensione dei pagamenti dovuti a fronte di asserite mancanze lavorative». Il pm Storari scrive che «i rider venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber». Tra gli indagati c’è Gloria Bresciani, manager di Uber Italy. In un’intercettazione con un dipendente della filiale italiana, si sente dire: «Davanti a un esterno non dire mai più “abbiamo creato un sistema per disperati”. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori». Uber Italy, indagata in virtù della legge sulla responsabilità amministrativa, il 22 ottobre dovrà affrontare un’udienza alla Sezione misure di prevenzione.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 31 maggio 2020 «Ho perso tutto quello avevo. […] hanno preso tutti i miei soldi. […]». Daniel va sempre in bicicletta, ma non consegna più pasti a domicilio. Vive ancora in un centro di accoglienza, a Roma. […] Fino allo scorso luglio ha lavorato per una delle due società che reclutavano e gestivano i riders in mezza Italia per conto di Uber Italy, e che pagavano i fattorini tre euro a consegna. […] «A Roma ho cercato un lavoro […] Un mio amico mi ha presentato a Danilo. […] All' inizio erano 3,5 euro all'ora, ma quando scopre che in quel modo non guadagna molto cambia: 3,50 a consegna».  Nell' indagine della procura di Milano, Danilo Donnini è titolare di una delle due ditte che si occupa della gestione dei riders sulla piazza di Roma. Ora sotto inchiesta. «[…] venivamo pagati senza ricevute. Quando mi sono lamentato, mi hanno bloccato l' account sulla piattaforma. […] A chi come me non aveva documenti, pagava direttamente in contanti, perché non avevamo un conto in banca. […]». […] «Proprio in quei mesi mia madre in Africa si è ammalata, è stata ricoverata in ospedale. Io avevo bisogno dei soldi per le spese mediche. Danilo non rispondeva ai messaggi, e si rifiutava di pagarmi. Io l' ho supplicato. Mi diceva "tu non puoi farmi niente, non sei italiano, io sono italiano"». […] A luglio, nel tentativo di incassare qualcosa, Daniel scrive per una settimana a Donnini, che con Giuseppe e Leonardo Moltini, gestisce la Flash Road City e la Frc srl, tutti indagati per caporalato. […] «[…] Mia madre è morta il primo settembre e non ho potuto aiutarla. Quelle persone mi hanno fatto impazzire […]». Negli stessi giorni in cui Daniel scrive sms disperati a Donnini, quest'ultimo discute della gestione dei riders con un dipendente di Uber Italy. «Siccome gli abbiamo decurtato i soldi perché hanno dei tassi di accettazione e cancellazione degli ordini schifosi.. allora abbiamo cominciato a punirli.. visto che non vogliono sentire, prima di bloccarli…poi adesso li blocchiamo.. anche perché di 'sta gente me ne voglio liberare..».

Da corriere.it il 29 maggio 2020. La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria, ossia il commissariamento, di Uber Italy srl, la filiale italiana del gruppo americano, per caporalato, in particolare per lo sfruttamento dei rider addetti alle consegne di cibo per il servizio Uber Eats. Su Uber Italy è in corso un’indagine condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf e coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci e dal pm Paolo Storari.

«Caporalato sui riders»: il tribunale di Milano commissaria Uber. Il Dubbio il 29 maggio 2020. Le accuse sono di  sfruttamento dei dipendenti che consegnano il cibo a domicilio con Uber Eats. «Caporalato sui riders»: è con questa motivazione che il tribunale di Milano, Sezione misure di prevenzione,  ha disposto il commissariamento della società Uber Italy. In base agli elementi raccolti, le accuse sono di  sfruttamento dei dipendenti che consegnano il cibo a domicilio con Uber Eats, l’app dell’apposito servizio collegata al gruppo di noleggio auto. L’indagine è in corso e la misura è ancora in esecuzione da parte del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano, con il coordinamento del pm Paolo Storari. A settembre scorso, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il sostituto Maura Ripamonti hanno avviato una ricognizione del fenomeno, partendo da elementi sotto gli occhi di tutti: mancato rispetto delle tutele contrattuali, norme igienico- sanitarie carenti, pericolosità nei confronti degli altri utenti della strada, passando anche per lo sfruttamento di immigrati irregolari. Un’indagine a tutto tondo quella sui fattorini che consegnano pasti a domicilio per conto delle piattaforme di food delivery, alcuni dei quali già ascoltati in procura assieme ai sindacati e alle società datrici di lavoro, per fare il punto della situazione. Gli accertamenti sono partiti a giugno 2019, quando la procura – «per precauzione» – ha deciso di affidare alla polizia locale una serie di controlli, che hanno portato, a settembre, alla decisione di aprire un fascicolo. Sono tanti, al momento, i documenti da analizzare per verificare il rispetto del Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e le condizioni igienico- sanitarie, anche relativamente al cibo trasportato dai rider, che spesso non verrebbe conservato a temperature idonee. Durante i controlli a campione effettuati dalla polizia locale su ordine della procura sono stati poi individuati tre migranti irregolari, su un totale di 30 persone fermate. L’ipotesi avanzata dalla procura è che alcuni fattorini, regolarmente titolari di un rapporto di lavoro con le piattaforme in questione, abbiano venduto il proprio account a immigrati non in regola. Si tratta del cosiddetto “caporalato telematico”, ovvero la cessione degli strumenti di lavoro, in particolare gli smartphone con le app per le consegne, a immigrati clandestini. Ma l’inchiesta riguarda anche il rispetto delle norme di sicurezza: l’utilizzo di luci, scarpe e freni adeguati e la valutazione dell’idoneità fisica per un impiego stremante, che prevede ore di percorsi in bicicletta. La Procura sta anche cercando di fare una mappatura di tutti gli incidenti stradali che hanno coinvolto i fattori, impresa complicata dalla mancata distinzione, nei verbali di polizia, tra ciclisti comuni e rider. Quattro le società coinvolte. «È una indagine doverosa, sotto il profilo della prevenzione – aveva commentato l’aggiunto Siciliano – Tutto nasce da una fotografia di una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Oramai muoversi di sera in città è diventata una sfida contro le insidie e i pericoli per via di questo sistema di distribuzione del cibo. Con questi rider che, nelle ore canoniche, sfrecciano senza, per esempio, alcun presidio» come i giubbotti catarifrangenti o il casco, «e senza alcuna osservanza delle regole stradali, in contromano o sul marciapiede». Un problema di sicurezza diffusa sia per chi presta attività lavorativa sia per i comuni cittadini. L’indagine «ci consente di esplorare questo fenomeno che è ampio ed è in espansione ma senza controlli. La Procura preferisce intervenire prima ed esercitare un ruolo di prevenzione».

La trappola dei lavori che rubano il tempo. Promettono libertà ma divorano le famiglie. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Polito. La notizia era a una colonna sul Corriere, in una pagina interna. Se non avessi visto la sera prima l’ultimo film di Ken Loach, «Sorry we missed you», forse non l’avrei neanche letta: «Fattorino morto per un controllo», diceva il titolo. Cédric Chouviat, 42 anni, padre di cinque bambini, viene fermato dalla polizia a Parigi mentre guida lo scooter che gli serve per fare consegne, ogni giorno dalle sei del mattino: si innervosisce, gli agenti anche, partono insulti e spintoni. La situazione degenera, i poliziotti lo buttano giù, ventre a terra, per mettergli le manette. Gli si ferma il cuore, gli agenti stessi gli praticano il massaggio cardiaco, muore dopo tre giorni di coma. Frattura della laringe, pare che sia un pericoloso effetto collaterale della tecnica del «placcaggio ventrale». La polizia parigina è sotto accusa. Ma fermiamoci prima: un uomo di 42 anni, cinque figli, che per vivere fa consegne con lo scooter, dalle sei del mattino. Se qualcuno ha visto come me il film di Ken Loach riconoscerà nella povera vittima di Parigi la sindrome — fatta di spossatezza, alienazione e rabbia — che accompagna le giornate dei «nuovi proletari», autisti, motociclisti, ciclisti, che affollano le nostre metropoli portando pacchi e lettere e pasti, nuovi schiavi della «società signorile di massa», per usare il titolo di un fortunato libro di Luca Ricolfi. Persone spesso non più giovani, neanche povere in senso tradizionale. Working poor, si dice in inglese. Gente cioè con un lavoro ma senza una vita, perché il lavoro si mangia la vita. Persone che accettano un impiego così perché hanno famiglia, ma che spesso perdono la famiglia perché fanno un lavoro così. I nuovi negrieri li attraggono con la più moderna delle seduzioni: un lavoro autonomo, in cui sono padroni del mezzo, e non hanno il limite di un orario o di un salario, possono guadagnare bene se corrono molto, se consegnano in tempo, se il cliente è soddisfatto. Un’apparente libertà rispetto al posto fisso, o al lavoro manuale di un tempo, che può anche giustificare sogni di ascesa sociale, di un decoro piccolo-borghese, comprare un giorno una casa col mutuo, dare una scuola migliore ai figli. Ma è una finzione. La trappola sta proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente, che libera il datore di lavoro da ogni responsabilità e vincola invece il lavoratore a ritmi da schiavo, segnati da penali, multe, mancati guadagni, rate del mezzo da pagare. L’operaio della società industriale, nella fabbrica o nel cantiere, vendeva la sua forza-lavoro. I nuovi proletari vendono il loro tempo, ed è peggio. Non per caso la prima battaglia del movimento operaio fu sul tempo di lavoro: il primo maggio del 1886 fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per la giornata di otto ore. Finì con il massacro di Haymarket, a Chicago. Tre anni dopo la Seconda Internazionale fece di quella data, il Primo Maggio, la festa dei lavoratori. I vecchi proletari si ribellavano perché non avevano da perdere che le loro catene; i nuovi non hanno da perdere che il loro tempo di vita, e con esso le famiglie, gli affetti, ogni gioia. Nel film di Loach, ambientato nel nord dell’Inghilterra, anche la moglie del protagonista lavora così: fa la badante, assiste anziani e malati a domicilio, viene pagata a visita da una società di servizi, più ne fa più guadagna. Una delle sue assistite, un’anziana sindacalista che era stata con i minatori negli anni ’70, allibisce quando scopre che non ha un orario fissato per contratto. Il marito, invece, ha comprato un furgone bianco, diecimila sterline a rate, per poter andare in giro a consegnare pacchi senza fermarsi mai, sotto il controllo di uno scanner satellitare — «la pistola» lo chiamano — che registra tutto, e se tarda a ripartire dopo una consegna comincia a fare bip bip, portandosi appresso nel bagagliaio una bottiglia di plastica vuota per fare la pipì quando gli scappa senza perdere tempo. Lo ha fatto per i figli, e invece è proprio questa scelta che lo rende assente, stanco, nervoso, un padre peggiore, e fa saltare gli equilibri di una famiglia fin lì unita, forte, bella. Alla fine del film i figli glielo rimproverano: we missed you, ci sei mancato. Il ragazzo adolescente è sull’orlo del comportamento antisociale, la bambina, undicenne, sull’orlo di una crisi di nervi. La moglie esaurisce le sue riserve di affetto e pazienza. E lui a pezzi, ferito, pesto, assonnato, con una costola rotta, si rimette all’alba alla guida del van cui disperatamente ha affidato la sua vita, ma che gliela sta strappando. Fasi così il capitalismo ne ha già conosciute nella sua storia, quando un salto tecnologico gli consente nuove condizioni di sfruttamento, e le usa tutte perché il profitto è la sua legge. Ma sempre la civiltà, la filantropia, la lotta di classe, la politica democratica, hanno di volta in volta trovato il modo di mitigare queste condizioni e di rimettere al centro l’uomo e la sua dignità. Questo è uno di quei momenti, ma i nuovi proletari non hanno ancora trovato il modo, l’organizzazione, i sindacati, i partiti, la cultura che possa impedirne la trasformazione in merce, per costruire un nuovo umanesimo anche nel mondo dei satellitari e del controllo da remoto. Il film di Ken Loach ha il merito di ricordare a tutti noi che nessuno è davvero libero, se intorno a lui lavorano degli schiavi.

·         Caporalato nei centri commerciali.

Lavorare per 2 euro e 50 all'ora: gli sfruttati di “Max Cina”. Le Iene il 30 dicembre 2019. Roberta Rei ci racconta le assurde condizioni di lavoro all’interno di un centro commerciale cinese, in provincia di Bari, tra paghe di 2,50 euro all’ora e mobbing. Vendendo merce con etichette Cee molto particolari. Roberta Rei incontra Johnny, manager di “MaxCina”, un centro commerciale di 8.000 metri quadrati a Modugno, in provincia di Bari. È una delle zone con il più alto tasso di disoccupazione in Italia, dove trovare un lavoro è un vero miracolo. Una ragazza, che chiameremo Chiara, racconta a Roberta Rei: “Gli ho mandato subito il curriculum e lo stesso giorno mi contatta Johnny, il responsabile. Mi ha detto che mi avrebbe assunto per 9 ore al giorno, per 600 euro al mese. Ho un mutuo da pagare, in giro non c’è nulla e allora ho accettato”. Chiara inizia a lavorare come commessa, ma le cose sono molto diverse:

“Si lavora dieci ore no stop, non puoi andare in bagno, non ti puoi sedere, non ti puoi fermare cinque minuti, se ti fumi una sigaretta vieni richiamato”. E tutto questo per due euro e 50 all’ora!

Si lavora anche la notte, nonostante il negozio sia chiuso: “Per fare le pulizie, per sistemare la merce, per la sicurezza”.

Chiara, che è l’univa donna a lavorare lì, deve anche fare le pulizie: “Dovevo pulire tutto il locale, 8.000 metri quadrati”.

Dopo 15 giorni di prova però Johnny le dice che verrà un’altra ragazza, “per 500 euro al mese”. Chiara, se vuole continuare a tenere il suo posto di lavoro, deve accettare di ridursi lo stipendio.

“Con 500 euro al mese non ci pago neanche il mutuo”, spiega a Roberta Rei e così decide di andare via. Oltre al danno c’è anche la beffa perché la ragazza viene pagata solo il 15 del mese successivo. Quando va a prendersi quei sudatissimi soldi, decide di filmare con una telecamera nascosta l’incontro con l’uomo, che le spiega come la pagherà: “Una parte con bonifico, una parte ti dò i soldi”.

Poi, su sua richiesta, le fa firmare un contratto, nel quale però risulta che lavora soltanto 9 ore alla settimana! Proviamo a entrare nel magazzino, per parlare con gli altri dipendenti, tutti giovani bisognosi. Una di queste, credendoci interessati al lavoro, ci dà un consiglio: “Non ti far vedere seduta, lo dico per te … all’inizio è dura lo so, anche io me ne andavo in crisi…”.

Avviciniamo il caporeparto, che dice che “l’ambiente è molto tranquillo, l’abbiamo risanato perché prima c’erano i lavativi, si lamentavano degli orari, della situazione economica, portavano malumore”. Chiara ci aveva spiegato un’altra cosa sui prodotti venduti: “Ci facevano fare una cosa stranissima, ci davano queste etichette e ce le facevano attaccare sui prodotti, etichette adesive con scritto marchio Cee. Io le ho messe sui bracci per televisori e sui microfoni del karaoke per bambini…” Anche noi proviamo ad andar a chiedere lavoro. Mentre lo riprendiamo di nascosto, Johnny ci spiega: “Lo stipendio mensile parte da 600 euro al mese, più o meno sono 400 che è scritto ufficialmente sulla busta. Perché funziona così, ci sono delle leggi un po’ stupidine… Puoi anche iniziare da domani”.

E infatti l’indomani ci torniamo, con la divisa da Iene. Gli diciamo che il suo è sfruttamento, perché non paga i contributi, ed è anche evasione fiscale, ma lui cerca di fermarci. “Ti denuncio”, e nega di pagare i dipendenti appena 2,50 euro all’ora. Gli facciamo vedere il video registrato da Chiara, mentre le paga parte dello stipendio in nero: “Fagli spegnere la telecamera, non c’è niente di illegale. Io non ho dato soldi così”. Roberta Rei gli spiega che nel contratto nazionale di lavoro la paga minima è di 6,79 euro, ma l’uomo si rifiuta di commentare. Gli chiediamo anche di quelle strane etichette, ma lui nega e dice di avere tanto da fare. E poi aggiunge alla Iena: “Hai mai infranto la legge? Tu sei tutta legale? Non è facile, per nessuno”.

·         Il Caporalato dei Call Center.

Valeria D'Autilia per "La Stampa" il 15 luglio 2020. «Abbiamo paura di perdere anche questo pezzo di pane». Paola trova il coraggio di raccontare quel lavoro per pochi euro, da centralinista in un sottoscala a Crispiano, in provincia di Taranto. Come lei, lì dentro, ci sono altre 19 persone. «Sottopagati, senza alcun rispetto dei contratti e della sicurezza. Ma è la nostra unica entrata». È combattuta, decide di rivolgersi alla Cgil. «Però non possiamo rischiare che il call center chiuda». Quei soldi servono. Circa 400-500 euro al mese a cui è impossibile rinunciare. Da contratto nazionale, dovrebbero essere 7.85 euro lordi l'ora, invece netti sono meno di 4. Ma da queste parti, trovare un'occupazione non è facile. Da un lato, la consapevolezza di essere sfruttate, dall'altro la paura di perdere il posto. Al punto da tirarsi indietro, come nel caso di Alessandra: «Mi dispiace, non voglio procurare danni a nessuno. Lasciate stare. Adesso ho un piccolo lavoro a progetto, poi non avrei più nulla». Prima di questo, altre esperienze nel settore. Sa che le condizioni non sono quelle previste per legge e ci si deve adattare. Sino a difendere un impiego mal pagato. «Questo è schiavismo», attacca Andrea Lumino, segretario della locale Slc Cgil. È stato lui a raccogliere alcune segnalazioni e denunciare tutto all'ispettorato del lavoro. «Siamo di fronte a un call center irregolare che opera per conto del colosso Tim, in una saracinesca, non rispettando l'accordo nazionale sui compensi né la normativa anti-Covid. È grave che la più grande azienda di telecomunicazione del Paese abbia affidato la sua attività a un intermediario che ha cambiato nome diverse volte». Un comparto difficile nel quale le regole ci sono, ma molti non le rispettano. Call center che nascono da un giorno all'altro e chiudono con altrettanta rapidità. Spesso è impossibile identificarli. Investimenti bassissimi per un giro d'affari enorme, con grossi committenti pubblici e privati. In tutta la Puglia, sono 35 mila i lavoratori impiegati in imprese che non risultano neppure censite dai registri delle Camere di commercio. All'esterno della sede nessuna targa: qui si lavorava in un ambiente unico, uno stanzone con una sola finestra a livello della strada. Quasi tutte donne, tra i 25 e i 30 anni. Così da circa un anno e mezzo. Persino le pause erano a discrezione del coordinatore. La normativa per i terminalisti prevede uno stop di 15 minuti ogni 2 ore. «Invece non c'erano regole» ha raccontato una di loro. Lumino lancia l'allarme: «La crisi sociale ed economica sta schiacciando ancora di più i lavoratori che accettano condizioni aberranti pur di andare avanti». Lui stesso, prima di denunciare, ha contattato altri call center per un eventuale assorbimento di questi venti lavoratori. Il rischio, dopo la segnalazione alle autorità, era che rimanessero per strada. «Sono stati loro stessi a chiedermi innanzitutto di verificare se ci fossero delle possibilità altrove, altrimenti non avrebbero proseguito neppure con la denuncia. Questo è il dramma». Poi la richiesta a Tim: «Faccia rimanere quella commessa a Taranto, ma in un'azienda regolare, senza girarsi dall'altra parte». Appena tre settimane fa, a Statte, sempre nel Tarantino, un'altra segnalazione: 3 euro l'ora per lavorare da casa, con a carico anche le spese telefoniche. «Parliamo di realtà invisibili e incontrollabili che, sfruttando la fame della gente, non rispettano la legge. Qui il settore è forte in espansione: ora il rischio è che, utilizzando lo smart working, sarà sempre più difficile smascherare queste situazioni di sfruttamento».

·         Il Caporalato degli animatori turistici.

Belli i villaggi vacanze, ma per gli animatori spesso possono essere un incubo. Corsi a pagamento. Orari interminabili. Contributi mai pagati. I giovani che si occupano di far divertire chi è in vacanza sono una categoria che nasconde una quantità di soprusi. E per tanti di loro, al primo impatto con il mondo del lavoro, la delusione è traumatica. Maurizio Di Fazio il 3 agosto 2020 su L'Espresso. È uno dei lavori più irregolari e atipici, legato a filo doppio alla bella stagione visto che si è occupati da maggio a settembre, a parte le settimane bianche. Quest’estate, complice il covid, è caos grande. «È un’annata balorda. Si fa un gran dissertare di distanziamento sociale, ma gli animatori turistici fanno, o dovrebbero fare, esattamente il contrario: mettere in contatto» ci dice Roberto Dionisi, presidente nazionale della quarantennale Associazione Italiana Animatori. Pochi fuochi d’artificio e spensierati giochi-aperitivo, per loro, ma tante nuvole e sfruttamento sottobanco. Parliamo di un settore che dà un posto, seppure in modo discontinuo e frastagliato, a decine di migliaia di persone tra hostess, bagnini, dj, cabarettisti, tecnici, cantanti, ballerini/e, personal trainer e via elencando. Tutti sognano di diventare una star alla Fiorello, in troppi precipitano al rango di sguatteri. Per pochi euro e sgobbando senza orologio.

Quel mastodontico equivoco del lavoro-vacanza. «Pensano a un lavoretto estivo e si ritrovano a essere impegnati in più turni giornalieri, anche spezzati tre volte: un po’ si lavora la mattina, un po’ il pomeriggio e un altro po’ la sera. Con orari lunghi ed estenuanti e delle paghe spesso ridicole» spiega all’Espresso Lora Parmiani, segretaria della Filcams Cgil di Rimini. 300, 400 euro è il salario standard ed entry-level per chi è alla prima esperienza. In più ci sono il vitto e l’alloggio gratis, e ci mancherebbe altro.

«Firmi per un contratto part-time, ma in realtà poi lavori molto, molto di più. Un full-time mascherato, all’ennesima potenza - ci racconta Claudia, 31 anni, animatrice dal 2008 nel segmento fitness, attualmente in un noto villaggio turistico del nord Italia -. Con la prima agenzia guadagnavo 450 euro al mese. Adesso poco più di 600 euro. Dovrei lavorare 4 ore al giorno, ho firmato per questo. Ma ne faccio 9, e con le prove dei corsi e degli spettacoli, che possono durare 2 o 3 ore, arrivo a 11 ore». La ragazza è operativa sei giorni alla settimana. O meglio, «non esiste un intero giorno libero, e anche dopo il tramonto ci toccano i cosiddetti “Serali”, magari piacevoli sul piano dell’intrattenimento ma ci tolgono la possibilità di un riposo completo. E c’è il discorso dei contributi non versati: so che lavoro molto più di quanto sia scritto su carta, e vorrei che mi venisse riconosciuto».

Attenti alle agenzie, specie quelle senza un background, uno “storico”. Claudia lavora con una medio-grande, che offre delle garanzie; ma ne esistono a centinaia, una distesa informe, e alcune tentano il colpaccio. Uno dei terreni di caccia preferiti da queste ultime sono gli stage di formazione a pagamento, che si svolgono all’inizio della primavera nei grandi hotel della riviera adriatica.

Sara, da Modena, ci contatta e lancia un segnale d’allarme: «Quest’inverno ho inviato il mio curriculum a due agenzie. A un certo punto mi hanno intimato di versare subito 90 euro, prima dell’inizio del corso, che sarebbero stati poi ricalcolati in busta paga qualora fossi stata assunta. Addirittura una delle due mi ha detto che per lavorare avrei dovuto pagare, per dieci mesi, una quota fissa».

Le fa eco Davide: «Ho trovato un classico annuncio sul web: “Cerchiamo animatori con o senza esperienza per villaggi turistici in Italia e all'estero”. Ho scritto all’indirizzo mail segnalato, e quando mi hanno chiamato al telefono mi hanno proposto questo, prendere o lasciare: “Faremo dei casting tra febbraio e inizio marzo. Inviami i tuoi dati, e una caparra di 60 euro per bloccare la camera in un hotel riminese”. E io di corsa, ingenuamente, sono andato a fargli il versamento. Ho provato tante volte a ricontattare quel numero telefonico: ma dà sempre spento, svaniti nel nulla». Conferma Roberto Dionisi: «Sono stage speculativi, completamente distorti. Non formano al mestiere, anche perché durano solo pochi giorni. Sono mera informazione aziendale, illustrazione della vita lavorativa che li attende: non è giusto che paghino per questo, è scorretto».

Per molti giovani, e giovanissimi, quella nei villaggi o nelle spiagge e negli hotel è la prima esperienza lavorativa in assoluto. Un debutto che può rivelarsi tutt’altro che divertente. «Ed è un peccato, dovremmo adottare molte più precauzioni e contromisure trattandosi del loro primissimo impatto col mondo del lavoro – aggiunge Lora Parmiani della Filcams Cgil -. In parecchi casi viene adoperato un sistema ripugnante: quello di “elevare” ragazzi di due o tre anni più grandi allo status di coordinatori. Insomma, capetti. E qui comincia l’incubo: al diavolo le emozioni, lo spirito d’amicizia, le speranze nell’avventura nuova. Con i “superiori” che ti sbattono a svolgere i lavori più pesanti, e 12 ore di fila. Si tratta di delusioni umane incredibili, incancellabili. Quella è un’età che andrebbe preservata, protetta. Occorrerebbe molta più qualità e rispetto. Si possono fare esperienze lavorative anche senza guadagnare tanto: ma vanno tutelate».

La pensa ugualmente Dionisi: «è uno dei pochi lavori per i ragazzi, a cui però si arriva con un’idea sommaria di quello che sarà. E così molti di loro vengono catapultati in realtà lavorative che non erano riusciti nemmeno a immaginare, o le immaginavano in una maniera radicalmente diversa, e molto più romantica. Assistiamo perciò, di frequente, a un esordio traumatico».

Non dimenticando la babele dei contratti. Afferma ancora all’Espresso Lora Parmiani: «Nel nostro territorio, uno dei maggiori fornitori di servizi d’animazione turistica, avendo sede a San Marino, ricorre spesso allo strumento della “prestazione occasionale”, che abbassa i compensi applicando tariffe forfettarie che nulla hanno a che vedere con quelle regolari, da contratto nazionale». Che quando viene applicato è quello del turismo, o del terziario e dei servizi: «qualche agenzia, quelle più serie, li applicano, mettono in regola».

A proposito di agenzie: ne abbiamo contattate diverse, e nessuna ci ha risposto. Si tende al contrattino flessibile, «si gioca sulle ore, sui mancati riposi e prosperano i contratti-pirata, accordi sedicenti firmati da sigle di comodo, prive di reale rappresentatività ma che servono, in genere, ad abbassare la soglia di diritti fissata dai contratti collettivi nazionali». E lo Stato sta a guardare. «Le istituzioni sono totalmente assenti – conclude Roberto Dionisi -. Il turismo dovrebbe essere il nostro petrolio, e si parla di tutto fuorché dell’animazione, che è la cartina di tornasole del turismo di massa e ha trasformato il nostro modo di andare in vacanza». Ora bisognerebbe trasformare, in meglio, la condizione lavorativa di chi ci allieta le ferie.

Lo sfruttamento senza fine degli animatori turistici tra agenzie truffa e vessazioni. Ogni anno, tra gennaio e febbraio, inizia il reclutamento del personale che si occupa di alberghi e villaggi vacanza. Spesso da parte di agenzie che propongono stage a pagamento. Per poi accedere a contratti ai limiti dello schiavismo. Maurizio Di Fazio l'11 febbraio 2020 su L'Espresso. La chiamata alle armi viene spammata sul web tra gennaio e febbraio. «Cerchiamo animatori turistici con o senza esperienza, con doti relazionali e artistiche, spigliati e dinamici, per la prossima stagione estiva. Previsto inserimento in strutture turistiche in tutt'Italia. Inviaci il tuo curriculum, che aspetti!». In tanti rispondono, ci credono, proiettano esaltanti film di svago e successo nella propria mente. C'è il luogo comune che sia una specie di lavoretto-vacanza questa professione, un'intermittenza fatale, un rito di passaggio come l'Erasmus o l'Interrail. Qualcosa di creativo e adrenalinico, che spezza le catene della routine a venire e consacra, per tanti ragazzi, il debutto nel mondo lavorativo. E poi gli applausi e quel senso di popolarità a presa rapida. Anche Fiorello, in fondo, è partito da qui. E pazienza per le eventuali corvée collaterali. Sono decine di migliaia gli animatori turistici tricolori, bandana in testa, karaoke e gioco-aperitivo o muerte. Ma dietro quei sorrisi comandati, bagnini e hostess, dj e tecnici delle luci, cabarettisti e cantanti da pianobar, possono nascondere un abisso di prostrazione psicologica e fisica.

Ogni estate migliaia di ragazzi si mettono al lavoro negli hotel e nei villaggi per rendere uniche le vacanze degli italiani. Ma crescono i casi di sfruttamento, spesso organizzati da intermediari senza scrupoli.

Francesco ha tra i venti e i trent'anni, ha lavorato l'estate scorsa in un villaggio pugliese e il suo racconto non dà scampo: «Il mio contratto prevedeva 350 euro al mese, e benché avessi un part-time lavoravo fino a tardi. Il mio orario classico era questo: tre ore e mezzo la mattina, altre tre il pomeriggio e due la sera. Ma i momenti di pausa erano tutt'altro che tali: servivano a organizzare le attività diurne (i giochi, i balli di gruppo o caraibici ecc.) e gli spettacoli serali. E così non andavo mai a dormire prima delle due o tre di notte. Il sabato era definito giorno libero, ma serviva per accogliere i nuovi arrivi nella struttura. Mi sono divertito, ma dopo un po' ero sfinito, fritto, non ce la facevo più ad andare avanti. Ci trattavano come robottini usa&getta. Un sistema molto simile al caporalato. Ho retto 15 giorni e mi sono licenziato». Lavorano tanto, sempre, gli animatori turistici, anche 16-18 ore al giorno, 7 giorni su 7. Si va avanti a colpi di caffè, soft-drink energetici e shottini di rum. E tutto questo per 4-500 euro al mese per chi è agli inizi, pari a 1 o 2 euro l'ora. A cui si aggiungono, quando va bene, vitto e alloggio gratuito, si fa per dire: mangiano e dormono poco e male, magari dentro sgabuzzini fatiscenti in condominio con qualche collega. Ad assumerli sono le agenzie d'animazione che hanno come committenti i villaggi turistici e gli hotel, i campeggi e i resort. Ne esistono centinaia: alcune sono serie, altre meno, altre ancora truffaldine tout-court. Ve ne sono di storiche e di nate l'altro ieri, che hanno fiutato l'affare. Qualcuna muta nome di continuo, o resta in vita il tempo necessario per spillare quattrini ai partecipanti agli stage di formazione che si tengono, verso la coda dell'inverno, negli alberghi della riviera adriatica. Un ingannevole business parallelo, se a pagamento, perché solo una piccola parte troverà poi occupazione. Non che ai prescelti vada sempre meglio: parecchi sognavano un trampolino per la gloria, nello show-system o almeno sui social, e si ritrovano addosso i panni «anti-glamorous» del factotum/tappabuchi, condannato a qualsiasi manovalanza. In certi casi con un mandato esplicito, rivendicato. L'anno scorso un'agenzia di Verona cercava, per un suo cliente in Trentino, un animatore che fosse contestualmente aiuto-cuoco, e viceversa. «La risorsa si occuperà del supporto allo chef per gli antipasti, i primi, i secondi e i dolci, e dell'animazione per i bambini» specificava il suo annuncio.

Anna ha 43 anni ed è di Roma. Anche lei chiede che sia omesso il suo cognome, «ho paura di rappresaglie». Negli ultimi tempi ha conosciuto due brutte esperienze legate all'animazione turistica. Con un'agenzia molisana, «devo ancora recuperare un credito di 600 euro risalente al 2016. Dalla mia parte una sentenza del tribunale, ma il titolare è sparito e risulta nullatenente, nonostante continui a imperversare nel settore e abbia persino comprato una casa nuova. In seguito ho lavorato con un'agenzia abruzzese: oggi hanno smantellato tutto, uffici, sito Internet, pagina Facebook, come non fossero mai esistiti. Terminata la stagione con loro, sono andata al centro per l'impiego per fare domanda di disoccupazione, ma ho scoperto che non risultavo assunta. Per cui non ho avuto un euro, e nemmeno il riconoscimento dei contributi. Mi devono ancora mille euro e rotti di stipendio. E l'elenco delle frustrazioni potrebbe continuare a lungo. Ho lavorato pure con agenzie oneste, si intende. Mi occupavo del baby club: dopo tutte queste delusioni brucianti ho deciso, però, di smettere». A proposito: latitando, nella nostra penisola, prospettive concrete di destagionalizzazione del turismo, gli animatori stabili, cioè quelli più in là con l'età, faticano a tirare avanti tra una «missione» e l'altra. Il Jobs Act di Renzi ha infatti dimezzato il periodo di durata dell'indennità di disoccupazione, che dal 2015 si chiama Naspi ed è pari al 50 per cento dei mesi lavorati. Prima lavoravano, nella migliore delle ipotesi, per sei mesi, primavera ed estate, ed erano «coperti» per l'altra metà dell'anno. Adesso restano senza nessun introito per 4, 5 o 6 mesi. Stefano Bastianelli («mettile pure le mie generalità complete, voglio che tutti sappiano») ha 33 anni e vive in Veneto. Ha cambiato decisamente ambito, fa l'attrezzista torni, ma nel suo passato ci sono stati quattro anni di animazione intensa: «È un mestiere completamente fuori controllo, dove il contratto è stagionale, la paga fissa mensile ed estremamente bassa. Io cominciai con 450 euro al mese, saliti a 700 quando diventai responsabile diurno. Ero sempre a lavoro, per sette mesi consecutivi, con giorni liberi non assicurati e nessuna regola da osservare per chi gestiva il team: se qualcosa non ci andava a genio, il benservito era dietro l'angolo. Un'esperienza che ti arricchisce dal punto di vista umano, con interessanti risvolti artistici, ma pilotata sfruttando i subalterni. E non è il totale di ore lavorate il problema, perché per diventare confidente e amico, o “eroe” in una settimana di villeggiatura è necessario un contatto continuo con gli ospiti, sia di giorno che di sera. Il fatto inaccettabile sta nell'essere pagati così poco, col pretesto del vitto (di qualità, in genere, mediocre) e dell'alloggio, del soggiorno in camere di scarsa o infima categoria. Un salario infame, che andrebbe raddoppiato». A maggio è stato firmato il contratto collettivo nazionale degli animatori turistici, che si attendeva da trent'anni. In precedenza erano considerati alla stregua di stagionali dello spettacolo, del personale artistico nei pubblici esercizi. Ha una durata triennale e garantisce la sicurezza sul luogo di lavoro, una giornata di riposo, un minimo di due ore di sosta pomeridiana, una paga base minima di 1.160 euro, comprensiva di «pacchetto ospitalità» e un orario di «lavoro ordinario» non superiore alle 48 ore settimanali. Una mera utopia nei villaggi. E se l'agenzia che ottiene l'appalto non retribuisce il suo staff, ci si può rivalere direttamente sulla struttura, che sarà tenuta a sborsare fino all'ultimo centesimo. Pochissimi mostrano, tuttavia, di essersi accorti di questo contratto, e lo applicano davvero. Continuano quindi a proliferare i part-time fittizi e il «nero parziale», mentre si fa strada, come nella lontana e vicinissima gig economy, la vecchia legge del cottimo. E negli anni scorsi non sono mancati episodi di degenerazione dello strumento dell'alternanza scuola-lavoro, con studenti spediti a lavorare gratis nei villaggi turistici. A divertirsi eufemisticamente, obtorto collo, sotto il fuoco incrociato dei capricci dei clienti e delle vessazioni dei mandanti di un incarico estenuante, sebbene spacciato come un hobby a fine didattico.

Ma torniamo al nuovo CCNL che dovrebbe, in teoria, tutelare anche la salute dei dipendenti. Anila Cenolli è membro della segreteria lombarda della Uiltucs, la sigla di categoria della Uil che rappresenta le maestranze del terziario, del commercio, dei servizi e del turismo: «Poco prima dell'ultimo ferragosto ho ricevuto la telefonata di due ragazzi, due animatori turistici ventenni che stanno insieme pure nella vita. Erano disperati. La sera precedente il lui della coppia si è sentito male. La mattina dopo si è alzato molto presto ed è andato a lavorare, ma il suo malessere andava peggiorando. Non gli è rimasto allora che recarsi nel pronto soccorso più vicino, che gli ha certificato dieci giorni di malattia». Non l'avesse mai fatto. Un sacrilegio. «Quando ha presentato il certificato medico, la sua datrice di lavoro ha iniziato a insultarlo pesantemente, con una violenza verbale impressionante. E l'ha persino minacciato, intimandogli di tornare subito all'opera. Ormai sta finendo sotto attacco lo stesso basilare diritto costituzionale a curarsi. Grazie all'azione del nostro ufficio vertenze, siamo riusciti a recuperare il loro compenso arretrato, perché la donna non voleva più saldare le tre settimane lavorative già svolte – conclude la sindacalista -. E dire che sgobbavano per 18 ore al giorno, si svegliavano all'alba e correvano come dannati da un angolo all'altro del club vacanze, dando una mano anche in cucina e nelle operazioni di carico-scarico». Storie di animatori sull'orlo di una crisi di nervi, sottopagati per lavorare tantissimo, con una maschera d'allegria triste come Joker. O meglio, come i Joyner, i «professionisti della gioia»: li ha definiti così, di recente, una delle più note agenzie sul mercato, e non è una battuta di Fiorello.

Truffe, stage a pagamento, orari e salari da schiavi: ecco la giungla degli animatori turistici. Ogni estate migliaia di ragazzi si mettono al lavoro negli hotel e nei villaggi per rendere uniche le vacanze degli italiani. Ma crescono i casi di sfruttamento, spesso organizzati da intermediari senza scrupoli. Maurizio Di Fazio il 23 aprile 2018 su L'Espresso. Generalmente hanno dai 18 ai 35 anni, ma non mancano i quarantenni e i cinquantenni. Si occupano del nostro tempo libero all’interno di villaggi, hotel, campeggi, resort, crociere. Vestono i panni indifferentemente del coreografo, del ballerino, del maestro di tiro con l’arco e di yoga, dello scenografo, del dj. Quasi sempre sono inquadrati nel contratto nazionale per il personale artistico nei pubblici esercizi. Lavoratori stagionali dello spettacolo, insomma. Operativi dalle 9 del mattino alla sera tardi, con l’obbligo del sorriso e del buon umore. L’annuncio-standard, la cartolina-precetto che li riguarda è, di solito, questa, e viene spammata a cavallo tra il crepuscolo dell’inverno e l’inizio della primavera. Sognando di diventare Fiorello rispondono in decine di migliaia. «Selezioniamo animatori turistici con o senza esperienza, con doti relazionali e artistiche, spigliati e dinamici, per la prossima stagione estiva. Previsto inserimento in strutture turistiche in Italia e all’estero. Inviaci il tuo curriculum, cosa aspetti!». Ma a volte, e non poche volte, l’epilogo è differente. Racconta Anna Olivieri, che vive a La Spezia: «Sono la mamma di uno dei 140 ragazzi truffati da un'agenzia di animatori di villaggi turistici. Mio figlio Gianluca, nel 2012, ha risposto a un annuncio pubblicato da quest’agenzia che cercava animatori per i loro villaggi. È così partito per Milano per un colloquio, seguito da un weekend in un albergo romagnolo dove ha svolto prove di ballo e recitazione per poi essere reclutato, con un contratto "scandaloso", in un villaggio in Basilicata. 300 euro al mese, più vitto e alloggio. Ha cominciato a fine maggio: lui e gli altri animatori hanno lavorato 12 ore al giorno per pulire la struttura, rifare il teatro, imbiancare le pareti, E quando sono arrivati i villeggianti ha iniziato a fare il lavoro che gli era stato assegnato: sempre 12 ore al giorno, mezz’ora per i pasti e una giornata a settimana di riposo». Infine, l’amara scoperta: «Nel contratto era previsto il pagamento dell'intero periodo di lavoro (4 mesi) dopo 30/60 giorni dal rientro a casa. A distanza di tre anni, l'agenzia ha liquidato giusto la metà dell'importo dovuto a mio figlio, e solo a qualche decina di ragazzi...».

Festivi non pagati, ferie cancellate, straordinari regalati: i dipendenti dell'automotive sempre più spesso schiacciati tra le necessità dei brand a quattro ruote e le furberie dei proprietari delle concessionarie. L’appello online di Anna è stato suffragato dalla rivelazione di numerosi casi analoghi. Tutti j’accuse firmati con nome e cognome autentici, ma vi omettiamo le generalità complete. «Lavoro da vent’anni in questo mondo e vorrei che tornasse quello di una volta» scrive Paolo. «Anch'io 15 anni fa sono stata sfruttata in un villaggio in Sardegna. Rimasi colpita dalla mancanza di rispetto per i lavoratori. Volevano farmi pagare pure la divisa, ci misero a dormire in una topaia» dice Jussara. «Da marito di un’ex-animatrice, so per certo che esistono aziende serie, semiserie e truffaldine. Queste ultime devono essere cacciate dal mercato, perché alterano la concorrenza proponendo prezzi stracciati fondati sullo sfruttamento dei ragazzi» aggiunge Marco. E Mario: «Lavoro nell’animazione e nello spettacolo da 10 anni, purtroppo è sempre andata così. Fa piacere che qualcuno finalmente faccia qualcosa, protesti, perché sì, sarà pure il lavoro più bello del mondo, ma è pur sempre un lavoro. Un duro lavoro». Con uno stipendio da pionieri della gig economy. Uno dei principali collettori del disagio che cova sotto le bandane e i giochi-aperitivo è la pagina Facebook Truffe in animazione. «Il problema è che alcune agenzie, come vero business, organizzano gli stage, con cui guadagnano in nero sui ragazzi. E alla fine saranno presi in servizio giusto 2 o 3 tra i 150 che hanno finanziato il corso. Una vergogna» si legge in un post pubblicato di recente da uno degli amministratori.

È la storia di Annapaola, mamma di Roberta ricoverata per un delicato intervento. E che ha dovuto dimostrare alla società per cui lavora di aver assistito la figlia presentando più documenti di quelli previsti per legge. Per legge, questi stage dovrebbero essere gratuiti, ma spesso costano un occhio della testa. In un hotel di Rimini, a gennaio di quest’anno, sono piombati i carabinieri con tre auto di servizio. Era in corso una sessione di “formazione professionale per animatori in villaggi turistici”. Nella hall 32 aspiranti provenienti dall’intera penisola. «Ci spillano soldi millantando posti di lavoro inesistenti» hanno dichiarato amaramente dopo il blitz, prima di ripartire per le terre di residenza, magari lontanissime come la Calabria e la Sicilia. Niente più vacanze-lavoro (o lavori forzati estivi) per loro.

·         Il Caporalato dei Locali Pubblici.

Da leggo.it il 3 febbraio 2020. Mesi a lavorare senza un contratto di lavoro e con una paga «da fame», come la definisce lei stessa. È la storia vissuta da Elisa (nome di fantasia), che dopo averci pensato su per giorni ha voluto replicare alle esternazioni di Maura Cavallaro, titolare de “Il Locale” di via Miani, che dalle colonne de Il Gazzettino si lamentava di non riuscire a trovare personale da impiegare nel suo bar. «Penso di sapere il perché...», sbotta Elisa. Lei, come tante ragazze e ragazzi, da giovane ha mosso i primi passi nel mondo del lavoro facendo la barista. Così, terminati da poco gli studi, decide di rispondere all’annuncio di lavoro della signora Cavallaro, quando all’epoca gestiva un altro locale nel cuore del centro storico rodigino. «Ho conosciuto la signora Maura più di dieci anni fa, quando verso fine estate ha accettato di farmi un colloquio di lavoro come barista - racconta - Le spiegai che non avevo alcuna esperienza in quel campo, ma mi disse che l’avrei fatta con lei. Dopo avere fatto il tradizionale giorno di prova decise di assumermi senza un contratto, chiarendomi sin da subito, però, che non voleva che io lasciassi il lavoro prima della fine della stagione invernale. Pensai che, giustamente, non volesse rimanere senza personale durante il periodo natalizio, in cui la clientela aumenta molto. Inizialmente andò tutto bene: un po’ alla volta mi aveva insegnato alcune cose basilari, come fare il caffè e servire ai tavoli. Come detto, però, non avevo un contratto, solo un foglio in cui c’era scritto che quello era il mio giorno di prova, anche se in realtà erano già passati alcuni mesi dalla mia “assunzione”».

E per i pagamenti?

«Io mi scrivevo le presenze, ho provato a tenere il conto di quanto avrebbe dovuto pagarmi, ma quel poco che ho percepito me lo dava quando voleva lei - risponde Elisa - Mi pagava in contanti, non mi mostrava i conti che lei si era fatta. Inizialmente erano otto euro all’ora, ma in realtà erano molti meno. Quando poi ero io a chiederle lo stipendio, mi rispondeva che aveva problemi familiari e me li avrebbe dati più avanti. In circa sei mesi che sono stata lì, lavorando nei weekend, mi avrà dato si e no due o trecento euro».

Con il protrarsi di una situazione del genere cosa hai deciso di fare?

«La vicenda non si è mai risolta: mi diceva sempre che aveva dei problemi familiari, così le ho mandato una lettera in cui le chiedevo di rispettare almeno gli accordi che avevamo preso. Per tutta risposta lei mi ha scritto a sua volta una lettera che tengo ancora dall’epoca, nella quale mi rinfacciava di non esserle stata riconoscente per avermi insegnato un mestiere, che quando ho deciso di lavorare lì non avevo un fucile puntato alla testa e che avrei dovuto essere più sensibile verso i suoi problemi personali. Morale della favola: non ho visto un euro, nonostante concludesse la sua lettera dicendomi che avrebbe saldato il suo debito dopo avere parlato con il commercialista».

Sai di altre persone che hanno avuto gli stessi problemi?

«So di non essere stata l’unica. Anche una mia amica e altre persone che conosco hanno avuto la mia stessa esperienza: alla fine se ne sono sempre andati via perché non venivano pagati».

Nei giorni scorsi Maura Cavallaro diceva che i giovani non hanno voglia di lavorare…

«Mi sono sentita offesa per quelle parole. Non è assolutamente vero che i giovani non hanno voglia di fare: non c’ è fiducia, non ci viene data la possibilità di metterci in gioco. Io credo, e questo discorso vale per tutti, non solo per i giovani, che se una persona venisse pagata per la sua effettiva prestazione lavorativa, quella signora non si troverebbe senza personale. Quando vieni pagato per quello che fai provi soddisfazione e lavori anche meglio».

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         I Favoritismi Curatelari.

Foggia, dopo fallimento denuncia “favoritismi” in Tribunale: inchiesta archiviata. La vicenda, scrive Repubblica di Bari, parte da quanto esposto da un farmacista foggiano "che ha prima ha denunciato" i fatti " per poi "opporsi alla richiesta di archiviazione del pm De Nozza", sostituto procuratore di Lecce.  Redazione statoquotidiano.it il 03/03/2020. Foggia, 03 marzo 2020. “Le relazioni del giudice sarebbero state successive alle sue decisioni“. E’ quanto appurato (fonte Repubblica di Bari) dal sostituto procuratore di Lecce, Milto De Nozza, relativamente a un’indagine della Guardia di Finanza relativa a un presunto caso di “corruzione in atti giudiziari nel tribunale di Foggia”. Come riporta il testo di Repubblica, “il giudice” avrebbe “instaurato relazioni” con “alcune curatrici fallimentari a cui sono stati dati incarichi dallo stesso tribunale“. Per la Procura di Lecce non si è in presenza di un “illecito penale”, con analisi relative solo a una presunta “violazione di regole deontologiche”. Gli accertamenti su ipotetiche violazioni nella deontologia spetterebbero ora al Consiglio superiore della Magistratura. La vicenda, scrive Repubblica di Bari, parte da quanto esposto da un farmacista foggiano “che ha prima ha denunciato” i fatti ” per poi “opporsi alla richiesta di archiviazione del pm De Nozza”, sostituto procuratore di Lecce. Come riportato da Repubblica, nel testo a firma di Chiara Spagnolo “La storia nasce dalle procedure fallimentari che hanno coinvolto due farmacie di Foggia e intreccia le cause civili con le indagini penali”. “Il titolare dei due esercizi ha ritenuto che quelle procedure fossero viziate” da ipotetiche “irregolarità“. Da qui la denuncia di “tutti i magistrati che se ne sono occupati, prima a Foggia e poi a Bari“. Come riporta Repubblica di Bari sono “undici le persone” che sono state “iscritte nel registro degli indagati (tra magistrati – alcuni in servizio alla Corte d’Appello di Bari – commercialisti e avvocati), accusate a vario titolo di corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio“. Indagato anche l’uomo che ha denunciato i fatti, accusato di “calunnia”. Le indagini sono state svolte dalla Guardia di Finanza “che ad inizio dicembre (2019,ndr) ha depositato l’informativa finale, che ha portato il pm a chiedere l’archiviazione della vicenda”. Per i finanzieri non sono emersi “episodi corruttivi in capo ai magistrati”. Al contrario, il farmacista potrebbe essere stato “vittima di un raggiro da parte del suo amico, finto intermediario”. La Procura di Lecce ha stabilito che dai presunti rapporti tra giudice e curatrici, “in momenti successivi rispetto ai decreti di nomina”, non sono “scaturiti atti illegittimi”, nè si sarebbero “creati favoritismi”.

Il giudice e le curatrici amiche "Le relazioni non sono reato". Repubblica.it di Chiara Spagnolo 3 marzo 2020. È nata come indagine su un presunto caso di corruzione in atti giudiziari nel tribunale civile di Foggia e ha portato alla luce la storia di un giudice che ha instaurato relazioni sessuali con alcune curatrici fallimentari a cui sono stati dati incarichi dallo stesso tribunale. Nessun illecito penale — dice oggi la procura di Lecce, che ha indagato a lungo sulla questione — ma la violazione di regole deontologiche, che potrebbero far finire il caso all'attenzione del Consiglio superiore della magistratura. Sempre che non sia il gip a decidere che qualche reato penale è invece ravvisabile e che le indagini meritano di essere approfondite, così come ha chiesto il farmacista foggiano che prima ha denunciato lo scandalo e poi si è opposto alla richiesta di archiviazione del pm Milto De Nozza. La storia nasce dalle procedure fallimentari che hanno coinvolto due farmacie di Foggia e intreccia le cause civili con le indagini penali. Il titolare dei due esercizi ha ritenuto che quelle procedure fossero viziate da pesanti irregolarità e denunciato tutti i magistrati che se ne sono occupati, prima a Foggia e poi a Bari. Undici le persone iscritte nel registro degli indagati (tra magistrati — alcuni in servizio alla Corte d'appello di Bari — commercialisti e avvocati), accusate a vario titolo di corruzione in atti giudiziari e abuso d'ufficio, mentre l'uomo che li aveva denunciati è stato, a sua volta, indagato per calunnia. Il farmacista ha raccontato di avere pagato una mazzetta al giudice e al curatore fallimentare, tramite un intermediario, per ottenere il salvataggio delle sue farmacie ed evitare che venissero dichiarate fallite. «Ho consegnato al mio amico due buste chiuse, contenenti 2.000 euro ciascuna, affinché li facesse arrivare al curatore e al giudice». Quest'ultimo, inoltre, stando alla denuncia, avrebbe commissionato l'acquisto di un quadro in argento raffigurante immagini sacre, essendo un collezionista. La prima consegna sarebbe avvenuta nel luglio 2017, poi ad agosto il magistrato avrebbe chiesto altri 1.000 euro, a settembre il farmacista ne avrebbe consegnati 800 e a ottobre altri 400 in generi alimentari, formaggi e vini pregiati. Al curatore invece avrebbe fatto arrivare 1.000 euro, anche se ne aveva chiesti 2.000, per pagare una piccola vacanza. Altri 800 euro li avrebbe dati al mediatore, « quale compenso per il lavoro svolto e da svolgere». Accuse pesanti, approfondite dalla guardia di finanza, che — a inizio dicembre — ha depositato l'informativa finale, che ha portato il pm a chiedere l'archiviazione della vicenda. Ii finanzieri hanno ritenuto di non avere individuato episodi corruttivi in capo ai magistrati e suggerito che il farmacista possa essere stato vittima di un raggiro da parte del suo amico — finto intermediario, che si è fatto consegnare 9.000 euro e per questo è indagato ( insieme a un complice) per traffico di influenze illecite. Le intercettazioni telefoniche — scrivono gli investigatori -hanno fatto emergere contatti tra il farmacista, l'intermediario e il curatore ma non con il giudice. Dalle telefonate, però, è venuto fuori che il magistrato abbia intrattenuto diverse relazioni con curatrici fallimentari. Per la procura, però, anche questo non è reato perché «è stato accertato come il giudice fosse solito instaurare il rapporto sentimentale in momenti successivi rispetto ai decreti di nomina dei curatori» . Né da quei rapporti sarebbero scaturiti atti illegittimi o si sarebbero creati favoritismi nei confronti delle curatrici. A sostegno di tale tesi, il pm porta anche gli interrogatori delle avvocatesse, che hanno confermato le relazioni ma smentito di averne mai tratto vantaggio. Ora deciderà il gip. La procura di Lecce ha chiesto di archiviare l'inchiesta a carico di un magistrato foggiano. Tutto nasce dal crac di due farmacie.

·         Non è Usura…

Francesco Loscalzo per l'ANSA il 20 maggio 2020. Induzione indebita a promettere o dare utilità: è l'accusa contro il procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, agli arresti domiciliari nell'ambito di un'inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente sui magistrati jonici. Capristo avrebbe cercato, secondo l'accusa, di indurre una giovane pm di Trani (dove era stato Procuratore), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva la "bambina mia" - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito, anche lui magistrato, all'epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo - che respinge ogni accusa - sono finiti ai domiciliari l'ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l'accusa dell'induzione indebita. E' indagato anche l'ex procuratore della Repubblica di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d'ufficio perché con le sue azioni avrebbe provato a "procurare l'impunità" di Capristo. A Trani - sempre secondo l'accusa - Capristo avrebbe creato negli anni un suo "club di fedelissimi": per il gip di Potenza, Antonello Amodeo, tale legame sarebbe anche "di natura affaristica, ossia orientato a privilegiare gli interessi personali dei suoi componenti". Dalle indagini, cominciate circa un anno fa e che fanno riferimento ad episodi accaduti tra l'aprile 2017 e l'aprile 2019, è emerso che i cinque uomini arrestati, "in concorso", avrebbero cercato di convincere la pm Curione a perseguire per usura una persona, così gli imprenditori avrebbero potuto ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge per le persone "usurate". Scivittaro si presentò nell'ufficio della pm Curione "a nome e per conto" di Capristo per chiedere di portare avanti il processo.  La giovane pm però si rifiutò e inviò una relazione di servizio al procuratore Di Maio, che decise allora di trattare direttamente il procedimento contro Capristo, chiedendone l'archiviazione. Ma "in ragione dell'infondatezza della richiesta", la Procura generale di Bari avocò a sé l'inchiesta e la trasmise per competenza alla Procura di Potenza. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono accusati di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico: gli investigatori hanno scoperto che in alcune centinaia di casi l'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore.  Attraverso il suo legale, l'avvocato Angela Pignatari, Capristo ha negato "recisamente ogni addebito" e ha "rivendicato la legalità, la dignità e il rispetto della funzione da sempre esercitati nel suo ruolo professionale e nella sua vita privata". Stamani sono stati perquisiti anche gli uffici della procura di Taranto: "Si tratta di fatti - ha specificato il procuratore aggiunto, Maurizio Carbone - che non riguardano l'attività del nostro ufficio, che continua il suo operato con il massimo impegno e con la serenità di sempre".

Corruzione in atti giudiziari, ai domiciliari  il Procuratore di Taranto Capristo. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Virginia Piccolilo. Il Procuratore della Repubblica di Taranto, Nicola Maria Capristo, è agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Lo stesso provvedimento è stato eseguito a carico di un ispettore della Polizia in servizio nella Procura tarantina e di tre imprenditori della provincia di Bari. L’inchiesta, cominciata un anno fa, è portata avanti dalla Procura della Repubblica di Potenza. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l’ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l’accusa, gli indagati avrebbe compiuto «atti idonei in modo non equivoco» a indurre un giovane sostituto presso la Procura di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito - l’inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono «gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso»: l’ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva «incombenze» per conto del Procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale.

Taranto, arrestato Procuratore capo Capristo: tentò di «aggiustare inchiesta». Indagato anche ex capo pm Trani. Ai domiciliari anche tre imprenditori e un ispettore di Polizia. L'indagine grazie alla denuncia di un giovane pm. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2020. Il procuratore di Taranto, il barese Carlo Maria Capristo è stato arrestato questa mattina nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Potenza, insieme ad altre quattro persone, tutte accusate per induzione indebita (art. 319 quarter) per aver tentato interferire con una inchiesta della Procura di Trani dove Capristo non operava più da qualche anno. Oltre all'alto magistrato sono finiti ai domiciliari un ispettore di Polizia, Michele Scivittaro, e tre imprenditori operanti nella provincia di Bari, i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Indagato a piede libero anche il successore Di Maio, ex Procuratore di Trani, per abuso d’ufficio e favoreggiamento. Secondo l'accusa, gli imprenditori avrebbero approfittato del loro legame con il capo della Procura di Taranto «per indurre un giovane sostituto della Repubblica in servizio nel tribunale di Trani - si legge in un comunicato del Procuratore di Potenza, Francesco Curcio - a perseguire in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto, la persona che loro stessi avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici ed i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati». Un disegno sfumato a seguito dell'opposizione del giovane pm ad «aggiustare» il processo, da qui la denuncia dello stesso sostituto che ha collaborato all'indagine consentendo all'inchiesta di culminare con le misure cautelari di oggi. Capristo e Scivittaro sono stati ritenuti responsabili di truffa aggravata per aver "falsificato" la documentazione attestante la presenza lavorativa dell'ispettore di Polizia presso la Procura di Taranto. Il procuratore, da quanto emerso, controfirmava le presenza del poliziotto e i suoi straordinario "mai prestati": anziché lavorare a Taranto era a casa. Capristo, un anno fa, era stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Messina nell'ambito di una inchiesta legata al (presunto) falso complotto ai danni dell'Eni: una vicenda complessa - per la quale un ex pm dei Siracusa ha patteggiato 5 anni di reclusione - che incrocia anche la Procura di Trani, sempre nel periodo in cui Capristo era capo dell'ufficio inquirente del tribunale del nord barese. Le accuse a carico di Di Maio si riferiscono agli atti da lui eseguiti dopo aver avuto una relazione di servizio dal sostituto Silvia Curione «in ordine alle pressioni ricevute da un ispettore di Polizia (Michele Scivittaro) a nome di Capristo». L’accusa di favoreggiamento - secondo la Procura della Repubblica di Potenza - si sostanziò nelle scelte di Di Maio di "procurare l’impunità di Carlo Maria Capristo», tenendo alcuni "comportamenti omissivi», cioè non verificando se il Procuratore di Taranto fosse coinvolto nella vicenda del processo a carico di una persona estranea all’accusa di usura. Di Maio è stato recentemente trasferito dopo una sentenza del Consiglio di Stato su ricorso dell'attuale procuratore Renato Nitti. «La bambina mia": così il Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo - da stamani agli arresti domiciliari - si riferiva alla pm di Trani, Silvia Curione (ora in servizio a Bari) parlando con gli imprenditori che volevano un processo per usura a carico di una persona. Capristo - secondo l’accusa della Procura della Repubblica di Potenza - utilizzava l’immagine «bambina mia» per dimostrare a Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo «di avere autorità sulla Curione», che, invece, manifestò una «ferma opposizione» al tentativo di «aggiustare» il processo. La stessa Curione inviò una relazione all’allora Procuratore di Trani, Antonino Di Maio, raccontando che l’ispettore di Polizia, Michele Scivittaro, collaboratore di Capristo, era andato da lei per indurla a portare avanti l’accusa. Di Maio - secondo la ricostruzione degli investigatori - agì per «procurare l'impunità» di Capristo. Successivamente però la Procura generale di Bari avocò a sé l’inchiesta e la trasmise per competenza a Capristo alla Procura di Potenza. «Respingo ogni accusa": così, attraverso il suo legale, Angela Pignatari, il Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, ha commentato l'ordinanza agli arresti domiciliari a suo carico. Capristo «nega recisamente - ha aggiunto Pignatari  - ogni addebito e rivendica la legalità, la dignità e il rispetto della funzione da sempre esercitati nel suo ruolo professionale e nella sua vita privata». «Dalla lettura delle imputazioni riportate sul decreto di perquisizione notificato, si evince che trattatasi di contestazioni per fatti che non riguardano l'attività del nostro ufficio, che continua il suo operato con il massimo impegno e con la serenità di sempre». Lo sottolinea in una nota il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone, in merito all’inchiesta della procura di Potenza che ha portato agli arresti domiciliari l’attuale procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, già procuratore a Trani. «Questa mattina - precisa Carbone - ho doverosamente comunicato a tutti i sostituti della Procura che è stata eseguita presso gli uffici del Procuratore Capristo una perquisizione su disposizione della Procura di Potenza che, a quanto appreso da notizie giornalistiche, ha anche dato esecuzione ad una ordinanza di applicazione degli arresti domiciliari nei suoi confronti». Carbone spiega di «aver sentito la necessità» di riferire l'accaduto ai sostituti della procura ionica «nell’attesa di conoscere maggiori notizie sulla vicenda giudiziaria» e «nel doveroso rispetto delle attività di indagine in corso».

Arresto cautelare per il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo. Antonello De Gennaro il 19 Maggio 2020 su Il Corriere del Giorno. L’attuale vicenda “pugliese” scatenata dalla Procura di Potenza, a parer nostro puzza più come un “regolamento di conti” fra le varie correnti della Magistratura, che come un vero scandalo giudiziario. Ed ancora una volta dietro le quinte del Consiglio Superiore della Magistratura vengono fuori lottizzazioni. Dalle 8:30 di questa mattina il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo si trova agli arresti domiciliari, ordinanza emessa dal Gip dr. Antonello Amodeo del Tribunale di Potenza su richiesta della Procura di Potenza che ha avviato un’indagine su Capristo, sulla quale emergono più di qualche dubbio e perplessità. L’inchiesta su Capristo ha origine da un fascicolo di indagine della Procura di Trani, aperto quando il Procuratore si era trasferito a Taranto. Secondo l’accusa Capristo avrebbe cercato di esercitare pressioni su un magistrato di Trani Silvia Curione, per condizionare l’esito di indagini su episodi di sua diretta competenza.  Sempre secondo la Procura di Potenza, che ha iniziato le indagini un anno fa avrebbe fatto pressioni sulla pm Trani, “abusando della qualità di procuratore della Repubblica di Taranto, superiore gerarchico del marito della pm Curione, ossia di Lanfranco Marazia che a Taranto prestava servizio come pm”. La procura lucana sostiene un’ipotesi giudicaria secondo la quale Capristo avrebbe rappresento alla Curione che avrebbe potuto “esercitare a fini ritorsivi le sue prerogative”, persino ostacolando la carriera del marito, “visto che aveva già dimostrato nel 2017 di essere capace di farlo”. Ma incredibilmente nell’ordinanza non emerge alcun riscontro probatorio di tale ipotesi accusatoria. Nel comunicato del Procuratore di Potenza Francesco Curcio si fa riferimento a delle presunte pressioni di Capristo “per indurre un giovane sostituto della Repubblica in servizio nel Tribunale di Trani a perseguire in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto, la persona che loro stessi avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici ed i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati”. Il giovane magistrato, cioè la dr.ssa Silvia Curione secondo la Procura di Potenza, non solo si sarebbe opposto fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia – ha stabilito unilateralmente l’inchiesta della procura lucana – non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Oltre al magistrato Capristo sono finiti agli arresti domiciliari anche l’ ispettore di Polizia di Stato Michele Scivittaro, originario di Bitonto distaccato presso la Questura di Taranto come autista e scorta di Capristo sin dai tempi in cui ricopriva la carica Procuratore capo della repubblica presso il Tribunale a Trani, ed i fratelli Cosimo, Gaetano e Giuseppe Mancazzo, imprenditori della provincia di Bari, imparentati con un alto ufficiale della Guardia di Finanza distaccato al comando generale, il Colonnello Antonio (Antonello) Mancazzo. Secondo la Procura di Potenza, Capristo e Scivittaro sono “gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso” in quanto secondo gli inquirenti l’ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa ed avrebbe svolto «incombenze» per conto del Procuratore. Al magistrato Silvia Curione della Procura di Trani secondo le accuse a carico del procuratore capo di Taranto, sarebbe stato chiesto (ma non da lui direttamente n.d.r.) di indagare una persona per usura, facendole temere ritorsioni sul marito Lanfranco Marazia, anch’egli magistrato in servizio alla Procura di Taranto, dunque alle dipendenze di Capristo. Stamani sono state eseguite perquisizioni anche carico di altre persone e anche l’attuale capo della procura di Trani Antonino Di Maio , che è indagato per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. La procura di Potenza sospetta che Di Maio non verificò il coinvolgimento del procuratore di Taranto dopo aver ricevuto dalla giovane pm una relazione di servizio della giovane pm in ordine alle pressioni ricevute dall’ispettore Scivittaro «per conto di Capristo». Incredibilmente per la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura sulla nomina di Di Maio a Procuratore della Repubblica di Trani, il Consiglio di Stato ha nuovamente sconfessato e ritenuto nulla la deliberazione con la quale, il 13 febbraio 2019, il plenum del Csm aveva ribadito la nomina di Di Maio, originario di Catania, al vertice della Procura tranese, quale successore di Carlo Maria Capristo. Di Maio aveva ottenuto la maggioranza dei voti, prevalendo sul collega concorrente Renato Nitti, pubblico ministero a Bari, che si era già rivolto ai giudici amministrativi del TAR impugnando la prima decisione del Csm risalente all’aprile 2017, che però a gennaio 2018 rigettò il suo ricorso. In secondo grado, il 3 ottobre 2018, il Consiglio di Stato aveva accolto parzialmente il ricorso del pm barese avverso la sentenza del Tar, ritenendo che il provvedimento di nomina da parte del Csm fosse affetto da un vizio di legittimità. In poche parole il giudici di Palazzo Spada avevano ritenuto che Di Maio non avesse titoli sufficienti per diventare procuratore. Ci sono alcuni particolari di questa inchiesta che destano più di qualche perplessità, a partire dalla discutibile competenza della Procura di Potenza sulla vicenda giudiziaria in questione. Infatti secondo delle nostre qualificate fonti già ai vertici della Suprema Corte, gli eventuali fatti imputati a Capristo e Di Maio si sarebbero verificati presso la Procura di Trani (“locus commissi delicti“) sul cui operato è competente la Procura di Lecce e non certo quella di Potenza che sarebbe stata invece competente in caso di eventuali reati d’ufficio accaduti a Taranto, che allo stato dei fatti non risultano. Peraltro l’attuale procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, originario di Polla è di fatto un “facente funzione”, e non ha di fatto realmente tale qualifica, in quanto la sua nomina alla guida della procura lucana, effettuata dal CSM grazie all’ennesima gestione “politicizzata“, che si era manifestata nell’indicazione raggiunta all’ unanimità dalla 5a Commissione del CSM (Incarichi Direttivi) è stata revocata dalla sentenza emessa dal Consiglio di Stato lo scorso gennaio- . Nel marzo 2019 il collegio, presieduto dal giudice Carmine Volpe, accolse il ricorso presentato da Laura Triassi, pubblico ministero di Potenza. Nel suo ricorso, la Triassi si era opposta alle valutazioni compiute tra la fine del 2017 e inizio 2018 dal Consiglio Superiore della Magistratura, che decise di assegnare l’incarico a Curcio. Ma c’è di più. Infatti il Consiglio di Stato oltre a quella di Curcio , ha confermato anche l’annullamento delle nomine di Raffaello Falcone (come Procuratore aggiunto a Napoli) e Annamaria Lucchetta (Procuratore capo di Nola), confermando quindi la sentenza del Tar del Lazio. Tutti e tre magistrati erano stati nominati insieme a Curcio, nella stessa seduta, dal Csm. Il magistrato Francesco Curcio non è nuovo ad indagini dal clamore mediatico, come quelle sulla “P4” a Napoli, che all’esito del giudizio si sono dissolte come neve sotto al sole. Come l’archiviazione per Mauro Moretti, all’epoca dei fatti amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, indagato per favoreggiamento. O come la decisione della II sezione penale della Corte d’Appello di Napoli che ha assolto l’ex parlamentare del Pdl Alfonso Papa dalle accuse contestategli proprio Curcio nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli ‘P4’ sulla presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell’ambito della pubblica amministrazione italiana e della giustizia. Papa, ex magistrato è stato il primo parlamentare per il quale la Camera ha autorizzato la custodia in carcere è stato condannato in primo grado dalla I sezione penale del Tribunale di Napoli a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Con la sentenza Papa venne assolto da tutti i reati contestati (Legge Anselmi, corruzione, concussione, ricettazione, rivelazione di segreto e favoreggiamento). Papa, durante le otto ore di interrogatorio di garanzia per il suo ingiusto arresta difendendosi dall’ accusa di aver rivelato il segreto delle indagini, fece il nome di tre magistrati, fra i quali proprio quello del pm Francesco Curcio, titolare (con il collega Henry John Woodcock) proprio delle indagini sulla “P4”. Papa durante il faccia a faccia con il gip e i pm raccontò che, «in un incontro del dicembre 2010 con Italo Bocchino», il vicepresidente di Fli lo avrebbe invitato a stare in guardia dal momento che era finito sotto inchiesta. Bocchino gli avrebbe inoltre raccomandato di non sottovalutare la vicenda (già nota attraverso i giornali) perché aveva saputo dal pm Francesco Curcio, «che si trattava di una cosa sera». Alla domanda, “come lo sai“, Bocchino avrebbe risposto, aggiunge Papa, «che Curcio era amico suo». Circostanza che il pm Curcio negò, pur non entrando ovviamente nel merito della vicenda processuale, avendo spiegato anche al suo procuratore capo che aveva visto «per la prima volta Bocchino nel febbraio del 2011» quando lo ascoltò come teste. Papa citò l’ episodio di un pranzo in campagna in casa di un giornalista, al quale entrambi erano presenti. L’ ex pm racconta: «Mi avvicinai al procuratore», dicendogli che era a conoscenza dell’ inchiesta che lo riguardava e assicurandogli che si trattava di cose false. Lepore si sarebbe limitato a fare una risata. Lo stesso procuratore dichiarò a Repubblica. «Certo, ci fu quel pranzo. C’ erano anche altri magistrati. Ricordo bene Papa, sapevo che lo avrei trovato lì e mi consultai con i miei pm, decidemmo che era meglio che ci andassi per non insospettirlo. Ed è vero che non dissi una parola». L’attuale vicenda “pugliese” scatenata dalla Procura di Potenza, a parer nostro puzza più come un “regolamento di conti” fra le varie correnti della Magistratura, che come un vero scandalo giudiziario. Ed ancora una volta dietro le quinte del Consiglio Superiore della Magistratura vengono fuori lottizzazioni.

Arrestato il Procuratore di Taranto Capristo: pressioni per indirizzare indagini. Inchiesta partita dalle accusa di una pm di Trani: "Capristo mi chiamava 'bambina mia'''. Arrestati anche 3 imprenditori e un ispettore di polizia: avrebbero indotto la pm e indagare per usura una persona. Indagato anche il procuratore di Trani. Giuliano Foschini il 19 maggio 2020 su La Repubblica. Il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo è agli arresti domiciliari su ordine della procura di Potenza. L’inchiesta nasce da un fascicolo della procura di Trani, aperto quando Capristo già si era trasferito a Taranto. E sulla quale, secondo la ricostruzione, avrebbe comunque provato a fare pressioni per indirizzarne l’esito. Il Procuratore cercò di indurre il pm di Trani, Silvia Curione, a perseguire ingiustamente una persona per usura facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura di Taranto. Curione denunciò: "Capristo mi chiamava 'bambina mia'''. Anche il Procuratore di Trani, Antonino Di Maio, è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l'ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbe compiuto "atti idonei in modo non equivoco" a indurre la pm di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito l'inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono "gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso". L'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale.

Arrestato il Procuratore di Taranto Capristo: pressioni per indirizzare indagini. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 da La Repubblica.it. Il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo è agli arresti domiciliari su ordine della procura di Potenza. L’inchiesta nasce da un fascicolo della procura di Trani, aperto quando Capristo già si era trasferito a Taranto. E sulla quale, secondo la ricostruzione, avrebbe comunque provato a fare pressioni per indirizzarne l’esito. Il Procuratore cercò di indurre il pm di Trani, Silvia Curione, a perseguire ingiustamente una persona per usura facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura di Taranto. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l'ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbe compiuto "atti idonei in modo non equivoco" a indurre la pm di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito l'inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono "gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso". L'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale.

Carlo Maria Capristo, arrestato il procuratore capo di Taranto. Le accuse: tentata induzione, truffa e falso. ‘Pressioni per indirizzare indagini dei pm di Trani’: altre 4 persone ai domiciliari. Il magistrato si trova ai domiciliari per un'inchiesta della procura di Potenza (competente per i reati compiuti dai pm del capoluogo ionico): secondo l'accusa ha cercato di condizionare l'indagine di un pubblico ministero di Trani, dove guidava la Procura prima del suo trasferimento a Taranto. Stesso provvedimento per altre 4 persone, tra cui un poliziotto. Indagato Antonio Di Maio, il successore di Capristo alla guida della Procura di Trani. di P.G. Cardone e F. Casula il 19 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Cercarono di convincere un giovane magistrato della Procura di Trani a chiudere le indagini per usura e avviare il processo contro un imprenditore, senza che ce ne fossero i presupposti e solo perché gli interessati avevano un obiettivo ben preciso: ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge conseguiti dallo status di vittime di usura. Motivo per cui avevano già provveduto a denunciare il malcapitato imprenditore. Il pm, però, si è ribellato. Ha detto no al ricatto e ha raccontato tutto alla sua procura. Che, però, ha incredibilmente chiesto l’archiviazione. Il fascicolo, avocato dalla Procura generale di Bari, è stato trasmesso per competenza funzionale alla Procura di Potenza, che un anno fa ha avviato le indagini. Oggi la svolta: tutti arrestati con le accuse a vario titolo di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, falso e truffa. Tra i protagonisti di questa vicenda, però, ci sono nomi molto pesanti: c’è il Procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (ex capo della Procura di Trani), l’ispettore di polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto (e parte della scorta di Capristo) e tre imprenditori della provincia di Bari, i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Tra gli indagati, inoltre, anche il magistrato Antonino Di Maio: per il successore di Capristo a Trani, le accuse sono di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. Vale la pensa ricordare che quella di Trani è la stessa procura in cui operavano i magistrati Savasta e Nardi, arrestati per corruzione nei mesi scorsi per vicende diverse. I cinque arrestati di oggi sono stati posti ai domiciliari dal nucleo di polizia economica-finanziaria di Potenza, dall’aliquota di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e dalla squadra mobile del capoluogo lucano. Il provvedimento cautelare è stato emesso dal gip del tribunale di Potenza su richiesta della procura guidata da Francesco Curcio. Contestualmente sono state effettuate anche perquisizioni nelle case degli indagati e anche nell’abitazione del procuratore Di Maio a Roma. Il procuratore Carlo Maria Capristo e Scivittaro, inoltre, sono “gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso”: secondo l’accusa, anziché lavorare presso la Procura o per il suo ufficio, era presso il proprio domicilio o si occupava di adempiere a incombenze personali o sbrigava faccende d’interesse di Capristo. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la Procura di Potenza, “con l’avallo del procuratore Capristo che controfirmava le sue presenze in servizio e gli straordinari mai prestati”. Per Capristo è una nuova tegola giudiziaria dopo l’accusa di abuso d’ufficio mossa dai magistrati di Messina nell’inchiesta sul “sistema Siracusa“, una presunta organizzazione che secondo l’accusa era in grado di pilotare le decisioni del Consiglio di Stato, ma anche di aggiustare le richieste provenienti da magistrati e politici. Anche i fatti siciliani che coinvolgono il capo degli inquirenti tarantini, riguardano il periodo in cui Capristo era procuratore di Trani. Si tratta del famoso depistaggio sull’inchiesta Eni: nel capoluogo tranese era infatti giunto uno degli esposti anonimi redatti dall’avvocato siciliano Piero Amara per mettere in piedi una sorta di depistaggio delle indagini sull’Eni per le tangenti versate dal colosso petrolifero in Nigeria. Per i giudici messinesi, Capristo avrebbe inviato l’esposto anonimo non ai colleghi di Milano, competenti su quella vicenda, ma a Siracusa dove l’allora pubblico ministero Giancarlo Longo, che ha patteggiato una condanna per corruzione e associazione a delinquere, su input di Giuseppe Amara, fratello di Piero e legale esterno dell’Eni, aveva messo in piedi un’indagine priva di qualunque fondamento con il solo scopo di intralciare l’inchiesta milanese in cui è coinvolto anche l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. 

Il procuratore di Taranto Capristo finisce in manette: “Voleva incastrare un innocente”. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Due pm, moglie e marito, contro i rispettivi capi. È una vicenda dai contorni molto torbidi quella che ha portato ieri mattina all’arresto del procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, del suo autista e di tre imprenditori della provincia di Bari. Per loro l’accusa è quella di induzione indebita. Indagato in stato di libertà per abuso d’ufficio e favoreggiamento Antonino Di Maio, ex procuratore di Trani e ora pm a Roma. Le indagini sono state condotte dalla Procura di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati pugliesi. Questa la storia. I fratelli Cosimo, Gaetano e Giuseppe Mancazzo, imprenditori della provincia di Bari, avevano presentato alla Procura di Trani una denuncia per usura nei confronti di Giuseppe Cuoccio, un altro imprenditore pugliese. La denuncia venne assegnata al pm Silvia Curione la quale decise di effettuare subito alcuni approfondimenti tecnici. La legge, infatti, prevede per le vittime del reato di usura l’accesso ai contributi erogati dallo Stato, la sospensione delle procedure esecutive ed altre agevolazioni. A questo punto entra in scena Capristo che prima di essere nominato nel 2016 procuratore di Taranto aveva prestato servizio, con il medesimo incarico, a Trani, e conosce molto bene i fratelli Mancazzo ai quali è legato da amicizia. Capristo, secondo quanto denunciato dalla Curione, avrebbe allora esercitato “pressione” nei confronti della pm affinché non archiviasse il fascicolo. Come arma di “persuasione” avrebbe minacciato delle ritorsioni nei confronti del marito della dottoressa Curione, Lanfranco Marazia, sostituto a Taranto e suo dipendente. Sulla Curione ci sarebbero state, invece, “pressioni” da parte di Di Maio che aveva un ottimo rapporto con Capristo. Curione e Marazia decisero quindi di denunciare l’accaduto ai pm di Potenza, raccontando anche i vari condizionamenti subiti. Il nome di Capristo era già spuntato nell’indagine di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara. Secondo le dichiarazione di Piero Amara, l’avvocato che per sua stessa ammissione aveva inventato il cosiddetto “Sistema Siracusa“, l’organizzazione che riusciva a “comprare” le sentenze del Consiglio di Stato, ad avvicinare magistrati e politici, pare ci fossero stati interessi affinché Capristo fosse trasferito da Trani a Taranto. In particolare per alcuni procedimenti sull’Ilva. Il 10 dicembre del 2018 la Procura di Perugia chiese al Csm gli atti sulla nomina di Capristo a Taranto che, candidato di Unicost, era stato all’epoca votato con 15 voti in Plenum. Le indagini di Potenza sono state condotte dall’attuale reggente della Procura Francesco Curcio. Già sostituto alla Procura nazionale antimafia, Curcio era stato in passato sostituto alla Procura di Napoli, indagando sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica. Inchieste condivise con il collega Henry John Woodcock. Di orientamento progressista, era stato votato nel 2018 all’unanimità in Plenum. Lo scorso gennaio, però, il Consiglio di Stato ha annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi.

Taranto, «Caso Capristo» il giallo delle date: sono tanti ancora gli omissis. La segnalazione che ha innescato l’inchiesta è del 2019, il fascicolo del 2018. La settimana prossima gli interrogatori. Mimmo Mazza il 22 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Pagine e pagine di omissis. E un mistero sulle date. Le carte dell’inchiesta sul procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, finito l’altra mattina agli arresti domiciliari con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità, truffa e falso, fanno intuire che il fascicolo coordinato dal procuratore capo di Potenza Francesco Curcio ha ancora diversi aspetti da svelare. Capristo - che la settimana prossima potrà fornire la sua versione dei fatti nel corso dell’interrogatorio di garanzia - avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre una giovane pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Non riuscendoci, per l’opposizione del sostituto che denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio a Taranto. Ai domiciliari sono finiti anche l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio alla Procura di Taranto e uomo di fiducia del procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori bitontini Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Indagato a piede libero è l’ex procuratore di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d’ufficio. Le indagini fanno riferimento, stando a quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Antonello Amodeo, ad episodi accaduti tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019, con l’input partito il 25 marzo del 2019 dalla Procura Generale di Bari all’indirizzo della Procura di Potenza, competente per i fatti riguardanti i magistrati in servizio a Taranto. E qui si incardina il primo giallo relativo alle date. Se, come si legge nelle carte, l’inchiesta a Potenza è stata aperta a seguito della segnalazione giunta da Bari nel marzo del 2019, come mai il relativo numero del registro generale delle notizie di reato reca come anno di riferimento il 2018? Era forse stato già acceso un faro? Quanto agli omissis, agli atti dell’indagine ci sono i verbali delle sommarie informazioni testimoniali dei magistrati Silvia Curione e del marito Lanfranco Marazia, entrambi parti offese, e anche il verbale di interrogatorio di indagato in procedimento connesso, dell’avvocato siracusano Giuseppe Calafiore, ascoltato dagli inquirenti lucani nel giugno del 2019 nella sede della Direzione Nazionale Antimafia di Roma. Calafiore era socio dell’avvocato Piero Amara, il consulente legale dell’Eni che affiancò nell’estate del 2016 gli allora commissari dell’Ilva nella trattativa con la Procura di Taranto (Capristo si era insediato in riva allo Jonio il 6 maggio di quell’anno) per il patteggiamento nell’ambito del processo «Ambiente Svenduto», trattativa che si concluse con un accordo che però non resse al successivo vaglio della corte d’assise e generò aspre polemiche degli ambientalisti tarantini nei confronti della Procura. Calafiore rispose alle domande del procuratore Curcio e dei sostituti Gargiulo e Savoia, parlando sia di Capristo che del poliziotto barese Filippo Paradiso, grande amico del procuratore di Taranto, indagato a Roma per traffico di influenze. «Amara - dice Calafiore, in verbali punteggiati da numerosi omissis - mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino o meglio deduco che Paradiso si sia relazionato anche con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Gli inquirenti - che indagavano sul presunto accordo tra Capristo e i fratelli Mancazzo - chiesero a Calafiore di conoscere i nomi di eventuali imprenditori pugliesi legati al magistrato ma l’avvocato negò la circostanza: «Non conosco imprenditori pugliesi legati a Capristo. Quando sentivo il nome Capristo sentivo il nome Paradiso».

Taranto, Caso Capristo, i retroscena. E la difesa studia le carte. L’inchiesta di Potenza è nata da una dettagliata segnalazione fatta nel marzo 2019 dalla Procura generale di Bari. Mimmo Mazza il 22 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non è stato ancora fissato l’interrogatorio di garanzia del procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, finito l’altra mattina agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente sui magistrati in servizio a Taranto, con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità. Capristo avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre una giovane pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva stando a quanto emerso da alcune intercettazioni telefoniche la «bambina mia» - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo - che tramite il suo avvocato Angela Pignataro continua a respingere ogni accusa - sono finiti ai domiciliari l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Indagato a piede libero è l’ex procuratore della Repubblica di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d’ufficio perché con le sue azioni avrebbe provato a «procurare l’impunità» di Capristo. A Trani - sempre secondo l’accusa - Capristo avrebbe creato negli anni un suo «club di fedelissimi»: per il gip di Potenza, Antonello Amodeo, tale legame sarebbe anche «di natura affaristica, ossia orientato a privilegiare gli interessi personali dei suoi componenti». Dalle indagini, che fanno riferimento ad episodi accaduti tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019, è emerso che i cinque uomini arrestati, «in concorso tra di loro», avrebbero cercato di convincere la pm Curione a perseguire per usura una persona, così gli imprenditori avrebbero potuto ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge previsti per le persone «usurate». Scivittaro il 16 aprile del 2018 si presentò nell’ufficio della pm Curione «a nome e per conto» di Capristo per chiedere di portare avanti il processo. La giovane pm però si rifiutò, scrivendo una relazione di servizio al procuratore Di Maio nella quale si legge che il poliziotto «rappresentava la necessità che il fascicolo venisse definito con urgenza. Quella visita mi ha lasciata perplessa». Di Maio, sempre secondo quanto accertato dagli inquirenti, decise allora di trattare direttamente il procedimento, chiedendone l’archiviazione. Ma «in ragione dell’infondatezza della richiesta», la Procura generale di Bari avocò a sé l’inchiesta e la trasmise per competenza alla Procura di Potenza nel marzo del 2019. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono accusati di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico: gli investigatori hanno scoperto che in alcune centinaia di casi l’ispettore risultava presente in ufficio a Taranto e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva «incombenze» per conto del procuratore.

Caso Capristo, la difesa: «Non pressioni sulla pm di Trani, solo richieste d’informazione». Si difende così il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo da martedì scorso agli arresti domiciliari nell’ambito dell'inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza. Mimmo Mazza il 23 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nessuna richiesta di favori, né in prima persona, né tantomeno in conto terzi. Scocca l’ora della difesa nell’inchiesta che martedì scorso ha portato agli arresti domiciliari il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente su fatti riguardanti i magistrati in servizio nella città dei due mari, con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità. In particolare, Capristo avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre il pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016) Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva stando a quanto emerso da alcune intercettazioni telefoniche la «bambina mia» - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo, sono finiti ai domiciliari l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Ieri il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Potenza Antonello Amodei ha tenuto gli interrogatori di garanzia dei fratelli Mancazzo e di Scivittaro. I quattro indagati, tutti bitontini e difesi dagli avvocati Giuseppe Giulitto, Maurizio Altomare e Giovanni Capaldi, hanno risposto alle domande del giudice e, alla presenza del procuratore Francesco Curcio, hanno respinto tutte le ipotesi di accusa. Stando a quanto si è appreso, le circostanze che hanno portato all’apertura dell’inchiesta, prima, e agli arresti, poi, sono state contestate punto per punto sulla dinamica ipotizzata dagli inquirenti. Il teorema accusatorio vuole i fratelli Mancazzo approfittare dell’amicizia con Capristo per fare pressioni sulla pm Curone per indurla a perseguire in sede penale la persona che gli stessi imprenditori avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati. L’ispettore Scivittaro, in particolare, nell’aprile del 2018 si sarebbe recato dalla Curone per sollecitare l’archiviazione. Gli indagati, invece, contestano tale ricostruzione, sostenendo di essersi limitati unicamente a chiedere notizie sullo stato del procedimento, senza formulare pressioni o minacce, tantomeno per conto del procuratore Capristo. Spetterà ora proprio a Capristo, difeso dall’avvocato Angela Pignatari, offrire al gip Amodeo la sua versione dei fatti. L’interrogatorio di garanzia del procuratore in realtà non è stato ancora fissato perché il difensore di Capristo ha chiesto un lieve differimento per ragioni di salute del suo assistito. Considerato che la norma prevede che l’interrogatorio venga svolto entro dieci giorni dall’esecuzione della misura, l’atto sarà comunque compiuto entro la prossima settimana. Dopodichè i difensori valuteranno le successive mosse, a partire dal ricorso al tribunale del riesame.

Caso Capristo. Si sgonfiano le accuse al procuratore capo di Taranto. Il Corriere di Taranto il 23 Maggio 2020. Il poliziotto Michele Scivittaro, autista ed agente di scorta del magistrato Carlo Maria Capristo , posto ai domiciliari con i tre fratelli Mancazzo imprenditori di Bitonto, hanno completamente scagionato il procuratore capo di Taranto. ROMA – Nel corso dell’interrogatorio di garanzia che si è svolto ieri mattina presso il Tribunale di Potenza, alla presenza al Gip Antonello Amodeo che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare e del procuratore Francesco Curcio (facente funzione , essendo stato rimosso dal suo incarico dal Consiglio di Stato) che sostiene l’ impianto accusatorio, il poliziotto Michele Scivittaro, autista ed agente di scorta del magistrato Carlo Maria Capristo , posto ai domiciliari con tre imprenditori di Bitonto, ha scagionato il procuratore capo di Taranto. Assistito dagli avvocati Maurizio Altomare e Giuseppe Giulitto , Scivittaro ha affermato a verbale che non si è non mai recato dal pm Silvia Curione presso la procura di Trani, per indurla e pressarla, come ha sostenuto strumentalmente la giovane magistrata, affinché mandasse a processo la persona denunciata dai fratelli imprenditori Giuseppe, Gaetano e Cosimo Mancazzo, ma bensì di essersi recato a titolo personale , poichè in quella Procura di Trani aveva prestato servizio per numerosi anni. Il poliziotto ha spiegato al Gip Amodeo che si era recato dalla pm Curione a seguito di un colloquio avuto a titolo personale con i tre imprenditori, suoi conoscenti personali (sono tutti di Bitonto) che volevano informazioni sullo stato in cui versava la denuncia che avevano sporto. Secondo Scivittaro, le accuse sono solo interpretazioni sbagliate e suggestive su delle conversazioni telefoniche che commentavano la decisione della pm di Trani di archiviare l’inchiesta. Identico il contenuto dell’interrogatorio dei tre imprenditori, i fratelli Mancazzo, assistiti dagli avvocati Giulitto e Giovanni Capaldi, i quali hanno negato fermamente di conoscere Capristo in alcun modo (ed in effetti agli atti dell’ordinanza con compare alcun tipo di contatto diretto con il magistrato) ed hanno confermato di essersi rivolto, esclusivamente a titolo di amicizia, al poliziotto Scivittaro chiedendogli di informarsi sullo stato della denuncia sporta in procura a Taranti. Quindi noin vi è stata nessuna utilità in cambio, alcun tipo di pressione, ma esclusivamente l’interesse di ricevere delle informazioni. I tre fratelli Mancazzo hanno anche confermato di essere stati vittime di usura anche se incredibilmente la denuncia che avevano sporto era stata archiviata, precisando e ricordando al giudice Amodeo ed al procuratore Curcio di essere stati persino affidati a un’associazione antiusura di Molfetta. Il procuratore capo di Taranto Capristo, che notariamente non è in buone condizioni di salute e stava per essere sottoposto ad un intervento di natura ortopedica, , verrà interrogato la prossima settimana. Tutti e cinque gli indagati per il momento i domiciliari in attesa delle udienza davanti al Tribunale del Riesame che si svolgeranno fra un paio di settimane, ed in quell’occasione i difensori richiederanno la revoca degli arresti domiciliari, che allo stato dei fatti rimangono una pura forzatura per una “spettacolarizzazione” dell’ inchiesta. L’ennesima “boutade” ad uso mediatico a cui il magistrato Curcio è particolarmente affezionato, come è accaduto in precedenza nel caso dell’inchiesta “P4” da lui condotta a Napoli rivelatasi a seguito delle varie sentenze dei Tribunali una vera e propria “bufala” giudiziaria.

Chi è Francesco Curcio, il procuratore che ha indagato su Capristo. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2020. Francesco Curcio è reggente della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza. Nel 2018 era stato votato all’unanimità in Plenum, però lo scorso gennaio il Consiglio di Stato ha annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi. Originario di Polla (Salerno), già magistrato della Procura Nazionale Antimafia, è stato in passato sostituto alla procura di Napoli. Ha indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, ed ha condiviso la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. È stato anche titolare di indagini sui vertici dei Casalesi e sui rapporti tra il clan del boss Michele Zagaria e la Banda della Magliana nelle attività di riciclaggio. È stato uno dei pm del processo “Spartacus 3” che nel 2009 si chiuse con 50 condanne, pene per complessivi tre secoli di carcere e la confisca di numerosi beni nei confronti di presunti affiliati al gruppo del clan dei Casalesi.

Il procuratore capo di Taranto Capristo indagato per abuso d'ufficio sul falso complotto Eni. Il magistrato è coinvolto in un'inchiesta della procura di Messina sulla base di un esposto anonimo recapitato quando era in servizio a Trani: trasmise gli atti a Siracusa invece che a Milano. La Repubblica il 02 luglio 2019. La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d'ufficio, il procuratore di Taranto Carlo Capristo. Le accuse si riferiscono all'epoca in cui il magistrato era a capo della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell'esposto anonimo su un presunto complotto contro l'Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. L'esposto, secondo l'accusa, sarebbe stato finalizzato in realtà a depistare un'altra inchiesta, nel frattempo aperta a Milano, su tangenti pagate dall'Eni in Nigeria e Algeria. L'anonimo venne mandato alla procura di Siracusa e a quella di Trani. A Siracusa l'allora pm Giancarlo Longo, che ha poi patteggiato una condanna per corruzione e associazione a delinquere, su input di Giuseppe Amara, legale esterno dell'Eni, avrebbe messo in piedi un'indagine priva di qualunque fondamento, su un falso piano di destabilizzazione della società del cane a sei zampe e del suo amministratore delegato. In realtà, per gli inquirenti che hanno arrestato Amara e un altro avvocato, Giuseppe Calafiore, lo scopo sarebbe stato intralciare l'inchiesta milanese sulle presunte tangenti in cui Descalzi era coinvolto. A Capristo, sentito le scorse settimane dai pm messinesi, che hanno indagato e processato Longo scoprendo il piano, si contesta l'anomala trasmissione dell'esposto al collega Longo anziché alla procura di Milano, naturale sede dell'inchiesta sul falso complotto. L'indagine della Procura di Messina ha scoperchiato un vero e proprio sistema corruttivo con al centro Amara e Calafiore che riuscivano, pagando mazzette e facendo regali, a condizionare indagini sui loro più grossi clienti. "Sono stato già interrogato dai colleghi di Messina alcune settimane fa alla presenza del mio difensore e ho rappresentato loro la correttezza del mio operato", ha dichiarato in proposito. "Nessuno - aggiunge - poteva immaginare all'epoca alcun preordinato depistaggio. Quando giunsero gli anonimi a Trani - spiega Capristo - furono assegnati a due sostituti che si occuparono dei doverosi accertamenti sulla loro fondatezza. Successivamente - prosegue - venne formalizzata una articolata richiesta del fascicolo dal PM di Siracusa. La richiesta fu analizzata dai due sostituti che con apposita relazione mi rappresentarono che gli atti potevano essere trasmessi. Vistai la relazione e disposi la trasmissione del fascicolo al Procuratore di Siracusa. Nessuno poteva immaginare all'epoca alcun preordinato depistaggio".  

Il flop di Capristo sul rogo del Petruzzelli: per il direttore Pinto calvario di 16 anni ma era innocente. Angela Stella su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Carlo Maria Capristo, 67 anni, entra in magistratura dai primi anni ottanta. Prima di arrivare alla Procura di Taranto nel 2016, Capristo è stato prima a Bari, dove ha ricoperto l’incarico di sostituto procuratore occupandosi di inchieste delicate. La più nota è quella sull’incendio doloso del teatro Petruzzelli, distrutto all’alba del 27 ottobre del 1991, e terminata con l’assoluzione dei principali imputati. Dal primo momento gli investigatori imboccarono la pista che portava all’ex gestore, Ferdinando Pinto. Il pm decise di ascoltare l’indagato Pierpaolo Stefanelli, malato terminale di Aids, ricoverato nell’ospedale di Catania, e morto dieci giorni dopo. La testimonianza fu resa in assenza del legale e divenne importante per accusare Pinto; l’uomo fu arrestato con l’accusa di aver commissionato il rogo e di concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso. Tredici anni di carcere fu al processo la richiesta dell’accusa, e, in attesa dell’ espiazione della pena, anche un regime da sorvegliato speciale. Pinto, invece, fu poi rimesso in libertà e infine, nel 2007, del tutto scagionato. Il procuratore della Cassazione disse che il processo non si sarebbe mai dovuto celebrare. Tra il 1995 e il 1996, come riferì Il Giornale, è lo stesso Capristo a finire sotto la lente degli inquirenti, che lo accusavano di aver fornito notizie sulle indagini a Francesco Cavallari, noto alle cronache come il re Mida della sanità privata italiana, uomo chiave di un’inchiesta su un presunto intreccio tra criminalità, affari e politica. Capristo venne assolto. Nel 2008 diviene capo della Procura di Trani. Anche lì la sua carriera è segnata da clamorose inchieste come quella contro le principali agenzie di rating mondiali, Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s, responsabili a suo dire di aver tagliato il rating italiano ingiustificatamente e manipolato il mercato: pure in questo caso arrivarono, tra l’altro, sette assoluzioni. Un altro caso che giunse alla ribalta nazionale fu quello relativo al nesso di causalità tra somministrazione del vaccino contro morbillo e parotite e insorgenza dell’autismo, a partire dalla denuncia di alcuni genitori. Una teoria alquanto stramba, come conclamato dalla comunità scientifica internazionale, il cui esito giudiziario terminò con una archiviazione. Il nome di Capristo finì poi nel 2009 sulle pagine del Fatto Quotidiano che pubblicò l’intercettazione di una telefonata tra lui e il suo legale, in cui Capristo raccontava di aver incontrato ‘Raffaele’, individuato nel ministro Fitto, il quale gli era sembrato intenzionato a “sbarrare la strada” a un magistrato barese proposto quattro mesi prima dal Csm per la procura di Brindisi. Tutto finì in un nonnulla. Non si sa ancora invece come finirà un’altra questione: nel luglio 2019 la Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d’ufficio, proprio Capristo. Le accuse si riferiscono all’epoca in cui il magistrato era a capo sempre della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell’esposto anonimo su un presunto complotto contro l’Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. Secondo gli inquirenti Capristo trasmise gli atti a Siracusa invece che a Milano, naturale sede dell’inchiesta sul falso complotto. In questo momento nella mani di Capristo c’erano le sorti dell’Ilva e di Arcelor Mittal.

Capristo, l’indagine torna sull’llva: 3 dipendente interrogati sugli incarichi all'avvocato Ragno. La fuga di notizie, archiviata: il magistrato era finito sotto accusa di aver anticipato la notizia di un sequestro nell'acciaieria. Massimiliano Scagliarini il 12 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nell’ottobre 2017 la Procura di Potenza aveva indagato su Carlo Capristo per una ipotesi di violazione del segreto di indagine. Una vicenda, nata dalla trasmissione di atti dalla Procura di Lecce, in cui si ipotizzava che il procuratore di Taranto avesse spifferato a un avvocato esterno dell’Ilva di un imminente sequestro all’interno dello stabilimento. L’accusa finirà archiviata su richiesta dell’aggiunto Francesco Basentini, che non riterrà rilevanti nemmeno gli elementi raccontati sul punto dal pm Lanfranco Marazia (allora a Taranto, oggi a Bari). Ma la storia è tornata a galla perché - proseguendo nelle indagini su Capristo (ai domiciliari ormai da due settimane) - i magistrati lucani hanno ascoltato tre dipendenti dell’Ilva: il loro sospetto è che dietro quella vecchia storia possa esserci stato uno scambio di favori. La circostanza al centro degli approfondimenti riguarda infatti un avvocato di Molfetta, Giacomo Ragno, già a processo a Lecce con l’accusa di corruzione nel troncone dell’inchiesta sulla Procura di Trani che dovrebbe chiudersi il 24 con la sentenza in abbreviato: rischia una condanna a 2 anni e 8 mesi per calunnia e corruzione. «Posso dire - aveva raccontato ai magistrati di Potenza il pm tranese Lucio Vaira - che il dottor Capristo intratteneva rapporti cordiali con la generalità della classe forense. Ho notato che aveva una certa consuetudine con l’avvocato Giacomo Ragno, che spesso ho avvistato nell’anticamera del procuratore da ciò deducendone che il procuratore era in servizio». Nel 2017 Ragno venne nominato come legale da due dipendenti dell’Ilva nell’ambito di un fascicolo del pm Marazia sullo smaltimento dei rifiuti dello stabilimento. L’ascolto dei tre testimoni serviva proprio a escludere che dietro la nomina dell’avvocato Ragno ci fosse qualche tipo di pressione, esattamente come - secondo la Procura di Lecce - ritiene che sia avvenuto nel caso di Trani. Qui l’imprenditore Flavio D’Introno (che a Potenza è stato sentito martedì) ha raccontato di essersi rivolto a Ragno, su input dell’ex gip Michele Nardi, affinché l’avvocato individuasse un falso testimone per far dichiarare false le notifiche delle cartelle esattoriali da 10 milioni di euro. Ciò che sarebbe emerso dalle testimonianze dei dipendenti dell’Ilva è che, in sostanza, ciascuno era libero di scegliersi un avvocato di propria fiducia purché fosse gradito alla società. Ma del resto lo stesso avvocato Pietro Amara, quello del «sistema Siracusa» che aveva fatto finire nei guai Capristo con la Procura di Messina (indagine poi archiviata), aveva interessi professionali con l’Ilva. Ne ha riferito alla procura di Roma il collega di studio di Amara, Calafiore: «”Io - qui Calafiore sta riferendo le parole di Amara a proposito di Capristo - l’ho convinto a fare la domanda per Taranto, anche perché a me serve a Taranto in quanto io a Taranto ho interessi con l’Ilva”». Amara è considerato una pedina del sistema Palamara per il tentativo di influire sulla nomina del Procuratore di Gela. E anche se per questa vicenda l’accusa di corruzione è caduta (Palamara non ha mai preso soldi dai due avvocati), la Procura di Perugia ha indagato anche sui rapporti tra Capristo e Palamara che facevano parte della stessa corrente: «Non ho ricordi su attività sollecitatoria di Palamara», mette a verbale l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Palamara, dice Legnini, mise invece «particolare impegno» per la Procura di Trani: «Sostenne fortemente la nomina del dottor Di Maio», che ora a Potenza deve rispondere di favoreggiamento per aver provato a far archiviare il fascicolo sull’autista del suo predecessore.

Corruzione, 15 arresti: ci sono il pm Longo, l’avvocato di Eni Amara e Bigotti, imprenditore del caso Consip. Una rosa di nomi eccellenti e frequentatori assidui delle cronache giudiziarie, quelli finiti nell'inchiesta delle Procure di Roma e Messina, protagonisti di due associazioni a delinquere. Spicca il suolo dell'ex pubblico ministero di Siracusa, il quale in cambio di soldi e vacanze avrebbe aperto procedimenti giudiziari fittizi per venire a conoscenza del contenuto di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. Il Fatto Quotidiano il 6 febbraio 2020. Quindici arresti. Una rosa di nomi eccellenti e frequentatori assidui delle cronache giudiziarie, quelli finiti nel mirino di un’operazione messa a segno dalla Guardia di Finanza su ordine delle Procure di Roma e Messina, protagonisti di due associazioni a delinquere dedite alla frode fiscale, reati contro la P.A. e corruzione in atti giudiziari. Ci sono Giancarlo Longo, ex pm della Procura di Siracusa, l’avvocato Piero Amara (legale di Eni) e gli imprenditori Fabrizio Centofanti e Enzo Bigotti, e il docente della Sapienza Vincenzo Naso. I nomi di Amara e Bigotti erano emersi negli atti dell’inchiesta sul caso Consip. Quello di Centofanti, invece, era legato all’inchiesta su Maurizio Venafro, l’ex capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti, poi assolto in uno dei vari stralci del processo Mafia Capitale. Nell’inchiesta risulta indagato anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio (oggi in pensione). Nei suoi confronti si contesta il reato di corruzione in atti giudiziari in concorso con l’avvocato Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Nei confronti di Virgilio era stata chiesta una misura “non detentiva” ma è stata respinta dal gip per assenza di ragioni cautelari. “Le indagini hanno preso le mosse da distinti input investigativi, convergendo sull’operatività dei due sodalizi criminali, (individuati dagli inquirenti come “mondo Centofanti” e “mondo Amara“, ndr) consentendo altresì la ricostruzione di ipotesi di bancarotta fraudolenta da parte di soggetti non riconducibili alla struttura delle organizzazioni”, ricostruiscono gli inquirenti. Nelle carte dell’inchiesta i pm tratteggiano il ruolo del giudice Longo, il quale “in qualità di pubblico ufficiale svendeva la propria funzione” e “ha dimostrato di possedere una personalità incline al delitto, perpetrato attraverso la strumentalizzazione non solo della funzione ricoperta, ma anche dei rapporti personali e professionali”. In particolare, nella sua veste di pubblico ministero a Siracusa – prima di essere trasferito su sua richiesta al Tribunale civile di Napoli – Longo avrebbe messo a disposizione la sua funzione giudiziale per aiutare i clienti di Amara e Calafiore, dai quali avrebbe intascato 88mila euro, vacanze offerte con la famiglia a Dubai e un capodanno al Grand Hotel Vanvitelli di Caserta. In cambio dei quali si era messo a loro servizio “a partire dal 2013 e sino ai primi mesi del 2017“. Una “mercificazione della funzione giudiziaria” nell’ambito della quale Longo avrebbe aperto procedimenti giudiziari fittizi allo scopo di venire a conoscenza del contenuto di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. Tra queste l’indagine aperta presso la Procura di Milano in cui figurava tra gli indagati l’ad di Eni Claudio Descalzi, rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. I metodi usati da Longo erano tre: creazione di fascicoli “specchio”, che il magistrato “si auto-assegnava – spiegano i pm che hanno condotto l’inchiesta – al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi (e di potenziale interesse per alcuni clienti rilevanti degli avvocati Calafiore e Amara), legittimando così la richiesta di copia di atti altrui, o di riunione di procedimenti; fascicoli “minaccia”, in cui “finivano per essere iscritti – con chiara finalità concussiva – soggetti ‘ostili’ agli interessi di alcuni clienti di Calafiore; e fascicoli “sponda”, che venivano tenuti in vita “al solo scopo di creare una mera legittimazione formale al conferimento di incarichi consulenziali (spesso, radicalmente inconducenti rispetto a quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’indagine), il cui reale scopo era servire gli interessi dei clienti di Calafiore a Amara”. “La gravità delle condotte da lui poste in essere in qualità di pubblico ufficiale che – prosegue l’ordinanza riguardo a Longo – concorreva alla redazione di atti pubblici ideologicamente falsi, si faceva corruttore di altri pubblici ufficiali, con piena accettazione da parte degli stessi, che venivano per giunta da lui remunerati con soldi pubblici, intratteneva una rete di rapporti dall’origine oscura e privi di apparente ragion di essere oltre che, in certi casi, contraria ai più elementari principi di opportunità, depone nel senso della assoluta insufficienza a contenere il pericolo di reiterazioni criminosa attraverso misure diverse e meno afflittive della custodia cautelare in carcere”. L’inchiesta coinvolge anche un noto giornalista siracusano, Giuseppe Guastella, finito ai domiciliari. Secondo l’accusa, in cambio di soldi, ricevuti da Amara, che è anche legale esterno dell’Eni, Guastella avrebbe divulgato sul “Diario” “reiterate affermazioni di natura diffamatoria in danno dei magistrati Marco Bisogni e Tommaso Pagano, incaricati di valutare i fascicoli iscritti nei confronti di clienti degli avvocati Amara e Calafiore”, scrive, nel capo d’imputazione, la Procura di Messina che ha condotto l’indagine. L’inchiesta è nata da una denuncia firmata da otto pubblici ministeri di Siracusa, colleghi di Longo. Un esposto del 24 settembre del 2016 denunciava il sospetto di rapporti illeciti tra l’ex pm, nel frattempo trasferito al tribunale civile di Napoli, e Calafiore e Amara. Rapporti, che, scrivevano i magistrati, sarebbero stati una sorta di “prosecuzione sottotraccia” delle relazioni illegali che un altro pm siracusano aveva con i due difensori. Si tratta di Maurizio Musco, che è stato condannato con sentenza definitiva per abuso d’ufficio insieme all’allora capo della Procura Ugo Rossi. La società di consulenza di Amara e Calafiore, ha rapporti economici, tra l’altro, con gli imprenditori siracusani del “gruppo Frontino”, che sarebbero, secondo l’accusa, tra i soggetti avvantaggiati da Longo.

Per il Viminale c’è un boom degli usurai, ma così si creano mostri. Giacomo Di Gennaro su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Durante il lockdown sanitario la prima preoccupazione di tutti è stata l’immediata ricaduta economica e sociale che avremmo registrato. Proprio la mancanza di unità di intenti a livello europeo e di provvedimenti governativi lenti e poco efficaci, ci ha convinti che la crisi economica sarebbe stata più difficile da governare, lunga e che di essa si sarebbero avvantaggiate le organizzazioni criminali interessate sia a riciclare denaro sporco e ad avvantaggiarsi del possesso di risorse immediate per invadere in modo mascherato i diversi settori economici. E non c’è strategia migliore che finanziare sia i non bancabili che chi ha bisogno di liquidità con il mercato illegale del credito. A fine aprile, infatti, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza lanciava l’allarme: a fronte di una forte riduzione dei complessivi reati in Italia (-66%) l’unico in crescita era l’usura (+9%). È una conferma delle preoccupazioni? Possibile che sia bastato un mese e mezzo di isolamento totale per confermare i timori sul rischio di ingresso dei capitali mafiosi nelle attività di imprese ed esercizi commerciali? Si potrebbe dire certo, in previsione dell’apertura piccoli imprenditori e commercianti – magari molti dei quali già indebitati o segnalati alla centrale rischi – non potendo rivolgersi alle banche per un prestito si rivolgono al mercato del credito illegale. Ma se non sanno ancora quali ulteriori provvedimenti il governo prenderà, perché dovrebbero impiccarsi da subito allo strozzinaggio degli usurai? Possibile che aprano già le porte ai capitali sporchi, magari cedendo la titolarità del capitale sociale dell’impresa a qualche prestanome di qualche clan, oppure chiedendo soldi immediati? E poi che fanno, si sono subito pentiti e vanno a denunciare? C’è qualcosa che non quadra. Approfondisco. Primo dato: in Italia, se prendiamo solo il periodo che va dall’ultima crisi dei subprime 2008-2009 e il relativo credit crunch fino al 2013, abbiamo in media 405 denunce all’anno presentate all’autorità giudiziaria sull’intero territorio! Dell’intero periodo solo il 2009 fa registrare un valore più alto: 464. Non superiamo le 34 denunce al mese su base nazionale. Da tale periodo ad oggi il quadro nella sua sostanzialità non muta. Anzi, nel 2018 le denunce scendono a 189 e nel 2019 a 181. E allora? Questo 9% in più nel solo primo trimestre 2020 non dice niente! Forse si confonde l’allarme delle associazioni antiracket, delle fondazioni antiusura con le reali denunce all’autorità giudiziaria? La cosa non quadra. Atteso che questi sono i valori e che nel Paese nel 2018 il 79,5% delle unità produttive italiane (821 mila: i due terzi delle imprese) con almeno 3 e massimo 9 addetti si regge su una gestione familiare, se è vero che esse sono più facilmente aggredibili, è anche vero che la costruzione delle traiettorie economiche di tali microimprese essendo nelle mani di nuclei familiari è più difficile che nelle condizioni date si mettano subito alla mercé degli usurai. Se oltretutto aggiungiamo le quasi due milioni di famiglie sovraindebitate registrate al primo gennaio 2017 (cresciute in 10 anni del 53,5%) in base all’elaborazione dati della Banca d’Italia, il numero delle denunce sebbene incrementate è risibile! Certo, l’usura è un reato nascosto, non si denuncia facilmente, in più il ristoro alla vittima avviene dopo percorsi procedurali e processuali lunghi e maledettamente impropri da non presentarsi come incentivi alla denuncia. Inoltre, la vittima vive un differimento temporale tra momento dell’incasso e consapevolezza dell’inferno prodottosi che è enorme. È vero, le lunghe crisi economiche generano forme diverse di indebitamento incontrollato spingendo alla ricerca del credito usuraio, ma questa tempestività come si spiega? Certo, gli usurai si presentano in veste di benevoli offerenti di liquidità e poi si trasformano in breve tempo in divoratori mediante una packman strategy per acquisire patrimoni, imprese, alberghi, attività commerciali, riciclando al contempo denaro sporco. Ma i conti tornano. La crisi e il rischio fallimento non si negano, ma da qui a sostenere che categorie professionali spingano alla messa in scena del reato o a demonizzare quanti attorno all’usura possano costruirvi vantaggi appropriati ce ne passa. Un dubbio però mi assale: vuoi vedere che ancorché una packman strategy ci troviamo di fronte a qualcosa di peggiore? Mi viene in mente la deliberazione 9 del 24 maggio 2018 della Corte dei Conti sulla “Gestione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura”. In essa si sostiene che, attesa l’esclusione dal Fondo per tutte le vittime che abbiano rapporti con “ambienti delinquenziali”, si è già riscontrato un sensibile incremento di domande di accesso al Fondo da parte di vittime che dalle risultanze istruttorie e dalla lettura degli atti giudiziari, non avevano alcun titolo in quanto “appartenenti o affiliati a gruppi della criminalità organizzata di tipo mafioso”. Cosa era successo? Da un lato, il Fondo ha dovuto soccombere per 14,7 milioni di euro a un contenzioso posto in essere per “pronunce giudiziarie sfavorevoli o transazioni stipulate per evitare ulteriori spese”; dall’altro, ancora al 30 giugno 2017 “pendevano giudizi per ulteriori 18,3 milioni molti dei quali già decisi con sentenza di primo grado sfavorevole al Fondo”. Insomma, pur avendo il Comitato di solidarietà antiracket e antiusura rigettato istanze di persone prive del requisito di estraneità ad ambienti criminali per oltre 40 milioni, la Corte dei Conti valuta nella relazione che l’impianto della truffa ordito dalla malavita organizzata varia tra un minimo di 15 ad un massimo di 30 milioni di euro! Ecco che tornano i conti. Tra l’altro metto questo dato in relazione all’inchiesta partita dalla procura di Potenza e l’ipotesi della messa in scena ordita dalla rete illegale per generare tutti i vantaggi derivanti dallo status di soggetto usurato. Allora, il rischio del riprodursi di false denunce non è peregrino e se l’inchiesta di Trani confermerà quanto accertato, avremo la quadratura del cerchio e sarà documentato in giudizio ciò che molti imprenditori, vittime di accuse simili hanno dovuto subire.

«Commercialisti vicini alle mafie». Un salentino denuncia Roberto Saviano. Il legale: «Offende chi lavora nel rispetto della legge». Il Quotidiano di Puglia Martedì 26 Maggio 2020. Un commercialista salentino, Stefano De Maglio, 48 anni, ha sporto una denuncia-querela per diffamazione aggravata a mezzo stampa nei confronti dello scrittore Roberto Saviano, che domenica scorsa, 24 maggio, durante la trasmissione "Che tempo che fa" su Rai2, avrebbe generato - sottolinea il legale del commercialista - «un messaggio fuorviante di contiguità della professione alle mafie». La denuncia è stata presentata oggi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecce. Francesco Vergine, legale del professionista, evidenzia che «generalizzare un'accusa significa offendere la maggior parte dei commercialisti che operano nel pieno rispetto della legge. Sarebbe stato più opportuno che Saviano avesse fatto nomi e cognomi nelle sedi competenti di quei commercialisti che avrebbero violato la legge».

ROBERTO SAVIANO DA FAZIO ATTACCA I COMMERCIALISTI: INFORMANO GLI USURAI. Massimo Malpica per “il Giornale” il 26 maggio 2020. «Gravissimo». Non usa mezze parole il presidente del consiglio nazionale dei commercialisti, Massimo Miani commentando l' attacco a sorpresa alla categoria arrivato due sere fa su Rai Due da Roberto Saviano. Lo scrittore, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, rispondendo a una domanda del conduttore sugli «informatori» della criminalità organizzata dedita all' usura, se l' è presa infatti proprio con i commercialisti. Che, a suo dire, «quando un' azienda inizia ad andare in crisi», avvicinati dagli strozzini, «spesso» avviserebbero delle società o delle persone in difficoltà. Un'affermazione che ha scatenato polemiche anche nella politica tra le altre, a chiedere conto di quelle parole a Saviano anche la leader di Fdi Giorgia Meloni ma che, soprattutto, ha mandato su tutte le furie i diretti interessati, come ci spiega Miani. «Con le sue affermazioni, Saviano ha offeso i 120mila commercialisti italiani che lavorano onestamente e, spesso, a fianco della giustizia».

Quindi non si riconosce nell' immagine di insider degli strozzini andata in onda domenica?

«Ovviamente non mi ci riconosco. E ripeto, molti dei commercialisti italiani lavorano quotidianamente contro la criminalità organizzata, perché in tanti ricoprono ruoli in ambito giudiziario, per esempio, come gestori delle aziende sotto sequestro, lavorando spesso sotto minaccia e mettendo a rischio la propria incolumità. Altro che contigui, in qualsiasi maniera, alla criminalità organizzata».

Che cosa pensa che abbia spinto Saviano a sostenere quella tesi? Le risulta che ci siano casi specifici che potrebbero calzare su quella definizione?

«Saviano ha fatto un esempio generico. E se avesse qualche informazione specifica, doveva segnalarlo alle procure. Noi siamo i primi a chiederlo, non vogliamo al nostro interno persone che si comportano in questo modo. Ovviamente non posso escludere a priori che qualcuno possa aver fatto una cosa del genere, ma se non vengono segnalati casi simili alle procure o ai consigli disciplinari degli ordini, non si può fare un' affermazione simile davanti a milioni di spettatori, su Rai Due. Perché poi c' è il rischio che la gente prenda per buone affermazioni di fronte alle quali nemmeno il conduttore, Fazio, purtroppo ha sollevato obiezioni, e passa il messaggio che siamo collusi con la criminalità organizzata, Quando ovviamente non è così: siamo sempre a fianco delle imprese e dei cittadini, e collaboriamo nella massima legalità. Abbiamo lavorato anche durante il lockdown, sia per l' ordinario che per aiutare tutti a ottenere le misure messe in campo dal governo, e ovviamente visto il periodo e la difficoltà degli assistiti gli incassi sono stati magri: difficile chiedere soldi a soggetti che sono in difficoltà. Altro che segnalarli agli usurai».

Come presidente dell' Ordine anche in passato non le è mai capitata una segnalazione di comportamenti scorretti accostabili alle accuse lanciate a Che tempo che fa?

«No, mai avute segnalazioni, come ho detto, mai avuto un riscontro. Appunto trovo gravissimo quello che è successo: quando si accusa genericamente un' intera professione, bisogna stare attenti a quello che si dice. Il ragionamento di Saviano era chiaro: siccome siamo i consulenti delle imprese, saremmo in grado di indicare agli usurai a quali porte bussare, ma appunto è qualcosa di gravissimo da dire, e offende 120mila professionisti in mancanza di qualsiasi riscontro».

E un riscontro di quanto i commercialisti abbiano preso male quella frase, invece, voi lo avete avuto?

«Certo. Tantissimi messaggi e segnalazioni da chi si è sentito offeso».

Si aspetta un passo indietro da Saviano, una spiegazione?

«Mi aspetterei le sue scuse, o un chiarimento di quello che voleva dire. Come me le aspetto da Fazio, che di fronte a quelle accuse non ha battuto ciglio, non ha proferito parola. Nell' attesa, stiamo valutando se ricorrere alle vie legali».

Saviano non torna indietro: "Commercialisti? Chi tace è complice".

Lo scrittore ha voluto ribadire quanto affermato domenica sera a "Che tempo che fa": "Ridicolo dover precisare che non mi riferivo a tutti i commercialisti. Non esiste più l'usura del cravattaro, questa è più complessa". Federico Garau, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. L'eco delle polemiche scaturite in seguito alle dichiarazioni rilasciate da Roberto Saviano durante l'intervista alla trasmissione "Che tempo che fa" nella serata della scorsa domenica non accenna a diminuire. "Quando un'azienda comincia ad andare in crisi, la criminalità organizzata avvicina i commercialisti. E i commercialisti dicono c'è quella persona, c'è quella società che è interessata", aveva dichiarato lo scrittore a Fabio Fazio, sollevando un vero e proprio polverone già durante il suo intervento. "Sostenere che i commercialisti italiani segnalano alla criminalità le aziende in crisi è quanto di più lesivo della onorabilità di 120mila professionisti economici quotidianamente in campo per la legalità, oltre che al fianco di imprese e cittadini di questo Paese", aveva controbattuto il presidente del consiglio nazionale dei commercialisti Massimo Miani, ricevendo l'immediato appoggio anche dal centrodestra. "Un'infamia così grave è stata pronunciata sulla tv pubblica, il che la rende ancora più grave e inaccettabile. La Lega ha già presentato un'interrogazione: è lecito attendersi scuse immediate, di Saviano e di Fazio", aveva infatti attaccato Salvini. "Quello che più ci ferisce del concetto espresso dallo scrittore napoletano Roberto Saviano in merito ai commercialisti non è il racconto di una realtà che purtroppo ben conosciamo, quanto il fatto che non sia stato specificato che si tratta di una risicatissima minoranza contro cui anche noi combattiamo", ha di recente affermato Matteo De Lise, presidente dell'Unione nazionale giovani dottori commercialisti ed esperti contabili (Ungdcec), come riportato da AdnKronos. "Crediamo che generalizzare sia un errore molto grave e che rischia di mettere in ombra il lavoro di decine di migliaia di professionisti e persone perbene". Ma Roberto Saviano non ritratta nella maniera più assoluta quanto raccontato domenica sera, irritandosi per il fatto di dover esser costretto a specificare che le accuse non sono genericamente rivolte a tutta la categoria. E lo fa in un video pubblicato sulla pagina Youtube di Fanpage. "Domenica sera ho raccontato di come le imprese in difficoltà spesso vengano agganciate dall'usura criminale e anche dall'usura mafiosa tramite i commercialisti. Non tutti ovviamente, è ridicolo anche precisarlo, tanto è vero che chi ha la fortuna di avere professionisti seri non incorre in questo tipo di pericolo. Non esiste più l'usura del cravattaro", aggiunge ancora,"e se esiste è marginale. Questa è un'usura molto più complessa. Perché si avvicina ai commercialisti (infedeli, sottolineo)? Si tratta di figure che conoscono i clienti. Gli imprenditori, i negozianti, ma anche le singole famiglie, sono minacciate da questa pratica. Dovevate denunciare questo, non fare rumore su di me", replica stizzito lo scrittore, prima di scagliarsi contro gli attacchi subiti anche dal mondo della politica. "Questi politici che hanno fatto rumore per avere un po' di traffico prendendosela con me invece che indignarsi per queste dinamiche, non sanno che esiste una zona grigia fatta di avvocati, commercialisti, imprenditori, politici che collaborano e sono parte integrante delle organizzazioni criminali? Ancora siamo alla versione della mafia coppola e lupara? Neanche i bambini ci credono più". "Queste informazioni mica sono nuove, le prendo studiando non solo le inchieste, ma anche gli studi di settore sull'usura, sulla crisi economica", aggiunge ancora. "Eurispes del 2016, e Unione Camere del 2014, tramite la fondazione nazionale antiusura, dicono chiaramente che ci sono insospettabili negozianti, commercialisti, avvocati, dipendenti pubblici, che sfruttano la crisi economica e l'indebitamento di famiglie e imprenditori per arricchirsi, forti delle crescenti difficoltà di accesso al credito bancario, ed è nata una nuova figura, quella dell'usuraio della stanza accanto". Poi arriva una seconda frecciata ai politici. "Perché non siete intervenuti, perché zitti? Perché i voti, come il denaro, non puzzano. E quindi è facile attaccare quando qualcuno racconta di queste dinamiche", accusa. "Ribadisco ogni mia parola", dice in conclusione. "E aggiungo: chi in questi anni ha taciuto o ha avuto flebili parole, e non ha portato avanti una battaglia su questo, e quando si accende una luce si attacca a chi quella luce la sta accendendo, è complice. Continuerò a parlare, ovviamente".

I tanti professionisti della nuova mafia. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Roberoto Saviano su La Repubblica.it. Quando un'azienda comincia ad andare in crisi le organizzazioni criminali avvicinano alcuni professionisti - come i commercialisti - e avvertono che esiste una possibilità per non soccombere alla mancanza di liquidità. Ecco il senso delle parole che ho pronunciato in tv e che hanno indignato che fa finta di non sapere. Come fa la criminalità organizzata a trovare i propri clienti? Come sa chi cercare e dove trovarli?". Questa è la domanda che Fabio Fazio mi ha posto domenica 24 maggio in diretta su Raidue a Che tempo che fa. Fazio mi aveva invitato perché raccontassi in televisione ciò che avevo scritto su questo giornale, perché spiegassi come, nei momenti di crisi, le organizzazioni criminali riescano a prendere possesso delle attività economiche in difficoltà. Lo spettro dell'usura aleggia sull'Italia in tempo di pandemia, come accadde dopo la crisi economica del 2008. Abbiamo oggi gli anticorpi necessari per riconoscere queste dinamiche? Forse no. Nel rispondere a Fazio ho fatto riferimento a quanto emerge dagli atti giudiziari e da studi condotti in questo ambito dall'istituto di ricerca Eurispes, da Unioncamere (l'Unione italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) e dalla Consulta nazionale antiusura. Quando un'azienda comincia ad andare in crisi, le organizzazioni criminali avvicinano alcuni professionisti permeabili - come può essere un commercialista che è persona di cui spesso l'imprenditore si fida - e avvertono che esiste una possibilità per non soccombere alla mancanza di liquidità. Ecco svelato il meccanismo. Aggiungo che, se invece ci si è rivolti a professionisti seri, le strade che verranno indicate sono altre e sono legali. È evidente che non parlavo di un'intera categoria, ma solo di alcune persone che la disonorano con il loro comportamento. Non ho generalizzato né criminalizzato un ordine professionale, ma raccontato una dinamica e l'ho raccontata perché la studio da anni. Ho visto fioccare ridicole richieste di scuse che avrei dovuto dare, ma per cosa? Per aver detto il vero? I politici che hanno diffuso agenzie cariche di indignazione non hanno nemmeno ascoltato ciò che ho detto, ma hanno colto l'ennesima occasione per prendersi un po' di visibilità, non riuscendo a farlo per meriti propri, lo fanno creando polemiche strumentali su di me che però mostrano la loro totale inadeguatezza e l'incapacità di comprendere sul serio il dramma che molti imprenditori stanno vivendo e hanno vissuto. E allora mi domando: ma davvero non sapevate ciò che ho raccontato domenica sera a Che tempo che fa? Davvero non sapevate che le organizzazioni criminali usano professionisti per entrare nel tessuto economico legale? Io credevo fosse assodato, credevo conosceste queste dinamiche. Fingete di non sapere o davvero - cosa imperdonabile - non sapete che ormai da decenni la pratica mafiosa, e più in generale il prestito a usura alle aziende avviene con la mediazione di professionisti, commercialisti, avvocati, bancari? Guardate ad esempio le grandi inchieste sull'espansione al Nord delle mafie. Secondo voi come hanno agito? Chi usavano per avvicinare gli imprenditori che stavano fallendo? Si tratta di meccanismi rodati: il clan identifica figure professionali vicine agli imprenditori e fa la sua proposta, che molto spesso viene accettata. Ma allora anche gli imprenditori sono mafiosi? No, sono disperati e questa vostra levata di scudi, signori politici senza competenze, è vergognosa perché non tiene conto della disperazione di chi accetta il cappio illudendosi di poter salvare i sacrifici di una vita, decine di dipendenti che si troverebbero senza lavoro, senza guadagno e con famiglie a carico. Come faccio a saperlo? Basta leggere le inchieste e gli studi di settore. Non conoscevate l'Operazione "Serpe" coordinata dalla Dda di Venezia (2011)? No? E allora ve ne parlo io. "Aspide srl" è una società con sede a Selvazzano (Padova), apparentemente si occupa di recupero crediti, ma in realtà pratica l'usura. I tassi di interesse oscillano tra il 110 e il 120% annui, ma possono arrivare anche al 180%. Il gruppo criminale (di stampo mafioso, come accertato dai giudici di Cassazione) è guidato da Mario Crisci, da tutti soprannominato "O' dottore". Secondo il Tribunale, a fare da intermediari tra Mario Crisci e i potenziali clienti della Aspide erano dei professionisti vicini agli imprenditori. Tra questi Ivano Corradin (di Marostica, presidente dell'associazione dei tributaristi del Vicentino), che reperiva i clienti per conto della Aspide, condannato a 3 anni e 10 mesi. La sentenza dei giudici di Cassazione scrive su di lui: "Il suo ruolo svolto nell'Aspide era necessariamente consapevole delle attività esercitate dalla società e delle modalità mafiose utilizzate". E ancora: davvero non avete mai studiato il Rapporto Eurispes del 2016? Ve lo segnalo io, cito testualmente: "Occorre però osservare come i soggetti più esposti cadano oggi nelle mani di un numero sempre maggiore di nuovi sfruttatori, non solo criminali e mafiosi ma anche 'insospettabili': negozianti, commercialisti, avvocati, dipendenti pubblici, che sfruttano la crisi economica e l'indebitamento di famiglie, commercianti ed imprenditori per arricchirsi, forti delle crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. Ed è nata una nuova figura: quella dell'usuraio della stanza accanto". Perché non vi siete scandalizzati quando emergevano queste analisi? A questo punto, immagino, non sappiate nemmeno ciò che, nel 2014, l'Unioncamere ha scritto in uno studio sull'usura condotto con la Fondazione nazionale antiusura Interesse Uomo. Vi riporto anche questo: "Sempre più spesso fatti di cronaca ci raccontano di associazioni che talvolta si servono di professionisti o, più in generale, cercano collegamenti con persone operanti nel settore del credito legale. Si tratta di insospettabili, rispettati nell'ambiente sociale in cui agiscono. Sono imprenditori, commercialisti, avvocati, notai, bancari, finanche funzionari ministeriali e statali". Ma forse non dovrei parlarne, per non offendere le persone oneste... Così come non avrei dovuto parlare, nel 2010, su Raitre a Vieni via con me dei vertici collusi con la 'ndrangheta dell'Asl di Pavia per non offendere i medici o i dirigenti sanitari? O non avrei dovuto parlare - per non offendere gli avvocati come categoria - dell'avvocato Michele Santonastaso, condannato in via definitiva per falsa testimonianza aggravata perché aveva condotto l'interrogatorio di un imprenditore caseario del casertano, Mandara, spingendolo a confessare il falso per far risultare il boss Augusto La Torre in un altro luogo nel giorno in cui aveva preso parte al duplice omicidio di due ragazzi, Luciano Roselli e Salvatore Riccardi, scomparsi il 27 marzo del 1990? Dovevo evitare di dire che l'avvocato Santonastaso aveva creato un falso alibi a un boss pluriassassino per non offendere gli avvocati? Ma la polemica ora è finita, ne sono consapevole. Queste cose durano poco perché poco devono durare, ormai voi la politica la intendete così: fate rumore per mostrarvi difensori di chi, in realtà, non state difendendo. Non state difendendo i commercialisti, al contrario, state invitando all'omertà. Si difendono i commercialisti isolando chi fa pratiche illegali, non offrendo un ombrello protettivo anche a chi calpesta le regole che la maggioranza rispetta. Queste dinamiche dovreste raccontarle voi, ma ve ne guardate bene perché i voti, come il denaro, non hanno odore. E in ultimo, ma davvero i vertici degli ordini dei commercialisti non hanno mai studiato le analisi della Consulta nazionale antiusura (organizzazione non lucrativa di utilità sociale)? Leggete cosa ha scritto: "Per troppo tempo l'usura non è stata percepita come un pericolo sociale: basti pensare che, fino al 1992, in caso di flagranza, non era obbligatorio l'arresto. Questo atteggiamento risale al tempo in cui l'usura era esercitata dal 'cravattaro' di quartiere, che svolgeva la propria attività in un ambito ristretto. Negli ultimi anni, però, a questa tradizionale attività si è affiancata quella di organizzazioni che, agendo attraverso cosiddetti insospettabili (commercianti, commercialisti, professionisti) concedono prestiti sia ai singoli e alle famiglie, sia a tante piccole e piccolissime aziende in difficoltà finanziarie". Denunciare una dinamica non significa disonorare una categoria, ma difendere le vittime, dar loro la forza di ribellarsi, metterle in guardia. Ed è necessario per tutelare proprio le categorie professionali nelle loro componenti oneste, che sono maggioritarie. A chi si è indignato tra politici e vertici di categoria dico: o non sapevate nulla di tutto questo, e sarebbe grave, o state mentendo e questa vostra attitudine sfiora la complicità. Ecco la linea disegnata a terra, da un lato gli inconsapevoli, dall'altro i complici: guardatela bene, pensateci e, senza fretta, scegliete da che parte stare.

·         Astopoli.

RELAZIONE A FINI DI GIUSTIZIA

Per la Procura della Repubblica

Presso il Tribunale di Potenza

 

Del Dr Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/63 ed ivi residente alla Via A. Manzoni, 51 74020 Avetrana Ta Tel. 0999708396 Cell. 3289163996 Email giangrande.antonio@alice.it

 

Sono un noto saggista d’inchieste e presidente di un sodalizio antimafia ed antiusura denominato Associazione Contro Tutte le Mafie. In questa veste sono destinatario di varie segnalazioni. Nei miei libri riporto solo le questioni attendibili, quali quelle prese in considerazione da interrogazioni parlamentari o articoli di stampa credibili di giornali nazionali.

Per quanto riguarda i procedimenti esecutivi giudiziari le anomalie riscontrate sono:

·         Procedimenti esecutivi spesso attivati in virtù di usura bancaria non rilevata per circolari interne agli uffici giudiziari.

·         Affidamento degli incarichi del procedimento di amministrazione e vendita dei beni pignorati senza rotazione o con qualità superiore ai soliti avvocati o commercialisti potentati, con omertà dei loro colleghi mai nominati. Amministrazione senza controllo, infruttuosa e senza soluzione di continuità, che prosciuga i beni in conto di spese ed onorari.

·         Acquisti pari o al di sotto del “Prezzo Vile” da parte di “Cartelli organizzati con liquidità immediata” (vedi Lecce processo Canasta), che spesso rivendono ai prestanome dei precedenti proprietari, o da parte dei magistrati dello stesso Foro in conflitto di interessi (vedi Tempio Pausania). Spesso i giudici titolari sono corrotti per agevolare tali prassi.  

·         Acquisti riservati solo per alcuni per mezzo di pubblicazioni false od omissive.

Per quanto riguarda queste anomalie in tutte le parti Italia si sono accesi i riflettori giudiziari: meno che a Taranto.

Si fa presente che, a fronte della mia attività di scrittore d’inchiesta e di esercente provvisorio l’attività forense, in qualità di praticate abilitato, i magistrati ed avvocati, quali commissari di esame di avvocato di Lecce, prima, e presso altre sedi, poi, mi hanno bocciato artificiosamente per ben 17 anni. Tutti i compiti visionati, sempre con lo stesso voto (25), risultavano non corretti, ma dichiarati tali: letti in due minuti (occorrenti almeno oltre 10 minuti) e senza glosse o correzioni. Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, da me attenzionato perché coinvolto nella vicenda Ilva, ha respinto i miei ricorsi avversi, simili ed uguali ad altri che sono stati accolti. Le mie denunce presentate a Potenza, per competenza, sono risultate tutte lettera morta.

Inoltre, alcuni magistrati di Taranto, per intimorirmi, hanno presentato denuncia per calunnia e diffamazione nei miei confronti, il cui esito a Potenza si è concluso con un ovvio nulla di fatto.

Tutti coloro i quali, in tema di Aste truccate a Taranto, si sono rivolti a me per avere ristoro di giustizia, pur non potendo esercitare, li ho indirizzati presso:

l’Avv. Anna Maria Caramia con studio legale in via S. Caterina 1/c a Massafra. Tel 0998804688 email avv.annamariacaramia@gmail.com e anna.caramia@hotmail.com.

Lo stesso avvocato è a conoscenza dei fatti di molteplici vittime del “Sistema Taranto” essendo lei stata l’avvocato delle vittime. Lei in persona, o le vittime da ella rappresentate, hanno presentato innumerevoli denunce presso il Tribunale di Taranto e presso il Tribunale di Potenza, ove vi fosse responsabilità dei magistrati. Tutto rimasto lettera morta.

In questo modo ella stessa è diventata vittima, come me senza tutela giudiziaria, di ritorsioni ed intimidazioni. Specialmente ella da parte del  giudice Pietro Genoviva.  Chi è Genoviva? Genoviva è il giudice che ha definito la condotta di quell’avvocato penalmente rilevante e che ritiene, assieme ai coniugi Delli Santi persone che “tentano di condizionare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale attraverso lo strumento della denuncia contro i giudici”. 

Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi.

Ad oggi l’avv. Anna Maria Caramia, stante l’astio di Taranto, il silenzio di Potenza su Taranto e di Salerno su Potenza, ha presentato una denuncia penale a Napoli su Salerno, recapitandola a piedi percorrendo 300 km con immenso clamore mediatico. Ha scritto un libro e lo presenta fisicamente in tutte le città d’Italia, parlando della situazione d’illegalità e di omertà in cui si versa in queste zone.

Io personalmente su Taranto ho conosciuto direttamente e indirettamente i casi dei denuncianti esecutati attraverso articoli di stampa, di giornalisti lucani e non locali, o di interrogazioni parlamentari.

·         Procedimenti esecutivi spesso attivati in virtù di usura bancaria non rilevata per circolari interne agli uffici giudiziari.

Da tener conto che fino a poco tempo fa, prima dell’arresto del Procuratore Capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Carlo Maria Capristo, il suo predecessore era il dr Aldo Petrucci, che a Lecce aveva adottato le circolari contestate sull’usura bancaria.

·         Affidamento degli incarichi del procedimento di amministrazione e vendita dei beni pignorati senza rotazione o con qualità superiore ai soliti avvocati o commercialisti potentati, con omertà dei loro colleghi mai nominati. Amministrazione senza controllo, infruttuosa e senza soluzione di continuità, che prosciuga i beni in conto di spese ed onorari.

E’ il caso dei consulenti Paolo D’Amore e Valentina Valenti. Sarebbero tra i cinque consulenti che hanno collaborato costantemente con il giudice Martino Casavola. D’Amore in 7 anni avrebbe ricevuto 238 incarichi, 34 l’anno, quasi 3 al mese. Un’enormità. Scrive ancora nel suo esposto il signor Angelo Delli Santi: “Naturalmente, anche questa circostanza è stata denunciata al tribunale di Potenza e, manco a dirlo, anche questa volta Potenza ha ignorato.” Sembrerebbe che tra alcuni magistrati, consulenti, periti, avvocati ci siano legami parentali e amicali più o meno stretti. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto.

Per questo motivo anche a Taranto si augura lunga vita professionale al Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, anche perché il pensiero corre ai custodi giudiziari nominati per lo spegnimento degli impianti ILVA. Si pensi un po’, prendendo spunto da quanto suddetto ed adottando i criteri di liquidazione del GUP, quanto a questi sarà riconosciuto come compenso?

·         Acquisti pari o al di sotto del “Prezzo Vile” da parte di “Cartelli organizzati con liquidità immediata” (vedi Lecce processo Canasta), che spesso rivendono ai prestanome dei precedenti proprietari, o da parte dei magistrati dello stesso Foro in conflitto di interessi (vedi Tempio Pausania). Spesso i giudici titolari sono corrotti per agevolare tali prassi.  

·         Acquisti riservati solo per alcuni per mezzo di pubblicazioni false od omissive.

Tonino Scarciglia di Oria, vive a Roma, a cui veniva chiesto “un fiore da ventimila euro”…L’audio pubblicato, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice. Quella conversazione risale al febbraio del 2014, ma i fatti cui si fa riferimento sono tuttora oggetto di contenzioso. L’imprenditore, due anni prima avrebbe subito due aggressioni o più precisamente, come egli dice: “Hanno tentato di uccidermi”. Fatto sta che in una delle due aggressioni il signor Tonino ha perso la vista all’occhio destro. Nella conversazione pubblicata, emergerebbe un tentativo di concussione da parte del curatore il quale afferma di parlare in nome di un giudice delle esecuzioni fallimentari. L’imprenditore, per non avere più fastidi, e chiudere la faccenda, dovrebbe “offrire un fiore” da ventimila euro. L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci (Manduria/Oria) . Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

Bufera mediatica su un avvocato manduriano. Un noto avvocato manduriano Franco De Laurentiis, è finito suo malgrado nell’occhio del ciclone mediatico per una vicenda avvenuta due anni fa quando fu oggetto di un esposto presentato da un imprenditore di Oria presunta vittima di un sistema di aste fallimentari truccate. L’avvocato in questione, nominato curatore di un fallimento, aveva avuto a che fare con l’oritano interessato ad acquisire una proprietà agricola sulla quale rivendicava il diritto di usucapione. La trattativa non andò in porto e l’imprenditore presentò una serie di esposti contro il curatore e la giudice del tribunale fallimentare accusandoli di tentata corruzione. Per quelle accuse l’avvocato manduriano è stato sotto inchiesta conclusa con la richiesta di archiviazione. Anche il suo ordine professionale che lo aveva sottoposto a procedure disciplinari, ad aprile scorso ha chiuso il fascicolo con un’altra archiviazione. L’altro ieri, nuovo scossone: l’imprenditore di Oria, intervistato da Telenorba, ha rinnovato le accuse nei confronti dell’avvocato rendendo inoltre pubblico un video registrato di nascosto nello studio legale di Manduria nel 2014. Dalla registrazione, prodotta parzialmente, non emergerebbe con chiarezza nessun tentativo di concussione da parte dell’avvocato le cui uniche parole registrate si riferiscono ad una proposta transattiva tesa a definire la questione a favore dell’acquirente che avrebbe potuto prendere possesso del bene a cui teneva versando la somma di ventimila euro. Diversa invece la tesi dell’oritano che nell’intervista a Telenorba aveva raccontato di essere stato vittima di una richiesta concussiva di ventimila euro da dare alla giudice del fallimento.

Attinente al procedimento fallimentare de quo fa parte il caso di Roberto Ditaranto. 

Roberto Ditaranto di Sava vive a Parma. Perché il signor Ditaranto vive con lo status di fallito da oltre 30 anni? Uno dei motivi? Gli hanno detto che non riescono a vendere la sua porzione di masseria cosiddetta “Li Cicci” (Manduria/Oria) “perché non ci sono acquirenti”. E’ vero che non ci sono acquirenti? L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci. Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. L’imprenditore interessato all’acquisto della porzione di bene del signor Ditaranto sarebbe stato anch’egli ostacolato nel suo legittimo scopo. Da circa 20 anni sta provando a regolarizzare la sua posizione, ma sarebbe stato vittima di “sabotaggi” anche attraverso perizie false e vendite a prezzo vile di terreni, ad altre persone, insistenti nel perimetro della Li Cicci. La domanda è: siamo proprio sicuri che la vicenda del signor Di Taranto dura da 30 anni perché il curatore non aveva acquirenti a cui vendere? Anche Roberto Ditaranto, come tanti altri cittadini ha denunciato curatore e giudice tarantini al tribunale di Potenza.

Ha perso un’azienda agricola, un’azienda di sistemi di sicurezza, una casa e ora, anche il rischio di perdere l’abitazione di Parma dove vive. Da 31 anni va avanti così, per una vicenda da cinquanta milioni di lire cominciata nel 1984. Una procedura interminabile che, non gli ha consentito di riabilitarsi come imprenditore. Anzi, ha travolto l’intera famiglia, in particolare i figli i quali si sono visti serrare il futuro da una giustizia eterna. Eppure, le procedure fallimentari, anche le più complesse, dovrebbero durare non più di sette anni. Roberto Ditaranto, imprenditore di Sava, 60 anni, ora vive in Emilia. La solita trafila dei “destinati al fallimento”. Prima ti concedono un mutuo, poi fanno di tutto per evitare che lo paghi, magari ci si mette di mezzo anche la finanziaria di turno con le solite truffe. O qualcuno che ti propone di fare delle cose illegali, ma tu ti opponi e allora sono guai. Hai una bella masseria, un’azienda avviata, un appartamento e qualcuno li vuole ad ogni costo. Niente di più facile a Taranto. Ti puntano ed entri nel tritacarne della giustizia, anzi dell’ingiustizia, dove la sezione fallimentare del tribunale sembra essere, per molti “falliti”, il girone infernale delle procedure a ostacoli. Tu cerchi di difenderti. Fai di tutto, nonostante i raggiri di cui sei stato vittima, per agevolare l’iter di vendita dei tuoi beni, sperando che la tua condizione di “fallito” duri il meno tempo possibile, per riabilitarti e ricominciare. Invece, no. Loro ti tengono sulla graticola fin quando serve. Anche più di trent’anni, come in questo caso. Allora l’angoscia ti avvolge, il mondo intorno ti tratta come un essere inutile, uno stupido onesto, un presuntuoso che non ha voluto chinare la testa. Avverti l’impotenza di fronte all’ingiustizia, quell’ingiustizia che indossa il mantello scuro della legalità. E pensi ad un’unica via d’uscita: il suicidio. Perché il signor Ditaranto vive con lo status di fallito da oltre 30 anni? Uno dei motivi? Gli hanno detto che non riescono a vendere la sua porzione di masseria cosiddetta “Li Cicci” (Manduria/Oria) “perché non ci sono acquirenti”. E’ vero che non ci sono acquirenti?

Forse la risposta è nella nostra inchiesta del 4 novembre scorso. Potremmo scrivere un libro sulla vicenda del signor Ditaranto, magari noioso, pieno di codici e codicilli della procedura fallimentare. Potremmo raccontare delle presunte false perizie. Potremmo raccontare delle denunce, degli esposti, delle suppliche inviate a decine di autorità. Avremo tempo, la nostra inchiesta continua. Qui però, ci interessa fare luce su un episodio inquietante che oggi sembra dipanarsi con una conferma dei dubbi già espressi quando abbiamo iniziato le nostre inchieste sulle aste fallimentari a Taranto e sulle archiviazioni facili a Potenza: esiste un sistema di corruzione intorno alle procedure delle aste fallimentari nel tribunale jonico? Il caso del signor Ditaranto sembra essere collegato alla vicenda di cui ci siamo occupati nel novembre dello scorso anno, con un articolo corredato da un video. In quel video c’è una conversazione che farebbe emergere un tentativo di concussione da parte di un curatore fallimentare il quale afferma di parlare in nome di un giudice delle esecuzioni. L’imprenditore, per ottenere ciò che chiede da qualche tempo, dovrebbe “offrire un fiore” da ventimila euro. Quella conversazione risale al febbraio 2014, ma in un altro audio risalente al dicembre 2014, l’imprenditore in questione torna sulla vicenda chiedendo al suo interlocutore: “Perché devo dare 20mila euro, perché?” Dunque, il tira e molla sul “fiore” da quanto tempo dura?

Se due più due fa quattro e se il tribunale di Potenza la smette di archiviare. L’imprenditore cui viene chiesto il fiore da 20mila euro, è lo stesso che già possiede e vive dal 1987 in una porzione della Masseria Li Cicci. Interessato a comprare il resto dei beni immobiliari (fabbricati e terreni). Il curatore fallimentare che chiede, a suo dire per conto di un giudice, il “fiore”, sarebbe lo stesso avvocato cui è stata affidata la curatela nel procedimento Roberto Ditaranto. Il giudice cui farebbe riferimento il curatore che chiede il “fiore”, sarebbe lo stesso del caso Di Taranto. L’imprenditore interessato all’acquisto della porzione di bene del signor Ditaranto sarebbe stato anch’egli ostacolato nel suo legittimo scopo. Da circa 20 anni sta provando a regolarizzare la sua posizione, ma sarebbe stato vittima di “sabotaggi” anche attraverso perizie false e vendite a prezzo vile di terreni, ad altre persone, insistenti nel perimetro della Li Cicci. La domanda è: siamo proprio sicuri che la vicenda del signor Di Taranto dura da 30 anni perché il curatore non aveva acquirenti a cui vendere? La risposta è nelle mani della magistratura. Anche Roberto Ditaranto, come tanti altri cittadini ha denunciato curatore e giudice tarantini al tribunale di Potenza. Chissà se anche in questo caso si procederà a “facile” archiviazione.

Intanto un uomo e la sua famiglia sono allo stremo. Ecco la rabbia di Roberto. Penso a voce alta, ma l'obiettivo del curatore qual 'è? Quello di chiudere la procedura come per Legge, entro cinque o massimo sette anni! E se il curatore è incosciente di essere incosciente, dietro di lui c'è anche un giudice, c'è anche un presidente del Tribunale. (…) Io non ho potuto esercitare la mia professione quella di progetti di sistemi di sicurezza a livello militare essendo fornitore di fiducia del Ministero Difesa (…) Ma che diritto hanno di inchiodare una vita, di portare le persone a pensare di farla finita! Io nel 2000 ho fatto diversi salvataggi di aziende, ma non ho potuto accettare incarichi di amministratore delegato perché quei disonesti hanno tenuto in piedi questa procedura, finché rimane aperta sono segnalato dappertutto. Io ho avuto la fortuna di avere tanta forza, competenza e di arrivare dove sono arrivato. Ma tante persone si sarebbero già suicidate al posto mio. (…) E poi, se io mi devo raccomandare per avere un mio diritto, allora andrò via dall'Italia. Non devo usare le raccomandazioni per ottenere un mio diritto come per Legge altrimenti è finita. Anche la mia casa di Parma sta andando all'asta nonostante ho prodotto 2 denunce di usura, 1 denuncia di querela di falso, 1 denuncia di estorsione. Dal 2009 per mezzo del fallimento aperto anche i miei due figli, hanno passato e stanno passando i guai, tanti guai. Mia moglie poi, è disperata. Aiutatemi. Michele Finizio su "Basilicata 24", Martedì 14/02/2017.

Alfonso Notarnicola e Filomena Altamura di Palagiano, marito e moglie da una vita. Sulla soglia degli 80 anni lui, quasi 75enne lei. Come da copione, Alfonso e Filomena, finiscono nel tritacarne delle procedure fallimentari del tribunale di Taranto, per non aver pagato alcune rate di mutuo. Come da copione, le loro proprietà, tutte, vanno all’asta. L’ultima, che riguarda un immobile del valore di mercato di poco meno di circa 1 milione e 300mila euro, è aggiudicata al prezzo vile di 275 mila euro.

Alfonso Notarnicola e Filomena Altamura, marito e moglie da una vita. Sulla soglia degli 80 anni lui, quasi 75enne lei. Vivono (si fa per dire) a Palagiano in provincia di Taranto. Nel corso della loro vita di duro lavoro e di sacrifici non avrebbero mai immaginato di finire, un giorno, per essere trattati dallo Stato come stracci da cucina. Accanto al dolore per aver perso ogni proprietà, compresa la casa dove abitavano, si è aggiunta una delusione, profonda, di quelle che fanno male. La delusione di una Giustizia ingiusta, che trasforma il cittadino in carta da sgabuzzino e lo tratta come carne da macello. Come da copione, Alfonso e Filomena, finiscono nel tritacarne delle procedure fallimentari del tribunale di Taranto, per non aver pagato alcune rate di mutuo. Come da copione, le loro proprietà, tutte, vanno all’asta. L’ultima, che riguarda un immobile del valore di mercato di poco meno di circa 1 milione e 300mila euro, è aggiudicata al prezzo vile di 275 mila euro. Niente di che, ormai è sempre così, gli articoli del codice per cui non si possono svendere gli immobili oltre determinati limiti di valore, a Taranto, ognuno li interpreta a soggetto. I coniugi Notarnicola sono stati espropriati di tutti i loro beni per pagare debiti, che forse nemmeno sono reali, nella misura indicata dalle banche, con interessi verosimilmente usurai, senza tenere in minimo conto il valore dei beni e quello del debito. Infatti, con quella vendita, il debito non è estinto. Niente di che. E’ la prassi. Quei beni sarebbero stati venduti ai soliti personaggi che lucrano sulle disgrazie altrui. Una specie di club degli affari sulle aste, in cui si affacciano persone per bene e personaggi di dubbio calibro morale. Una vicenda emblematica la racconta lo stesso Alfonso in un suo esposto alla Procura della Repubblica tarantina: …“anche noi abbiamo da dire qualcosa in merito alle cosiddette turbative d’asta! Infatti, in un recente passato… io, Notarnicola Alfonso, ho reso informazioni presso la caserma dei carabinieri di Massafra per evidenziare che il citato signor "OMISSIS" (che è stato arrestato per ben due volte nell’anno 2016) aveva richiesto anche a me del denaro per evitare che la mia proprietà fosse venduta (e inizialmente, anche in riferimento alle prime vendite, avendo paura di perdere la proprietà, all’insaputa di tutti, gliene ho anche dato denaro, in diverse tranche, se mal non ricordo circa una ventina di mila euro; poi quando ho capito che comunque non mi poteva garantire nulla e che la mia proprietà non solo restava all’asta, ma veniva venduta, non gli ho dato più nulla: e lì ho perso tutto). Ricordo che il signor Putignano ‘sapeva ben vendere’ il proprio intervento per evitare che le aste fossero aggiudicate e, in particolare, ricordo che in un’occasione lo stesso ebbe a dire: “ma cosa credete che tutto ciò che mi date è a me? Io devo accontentare quelli di Taranto”; ora chi siano quelli di Taranto non mi compete saperlo, quello che so è che devo lottare per difendermi, ma mai avrei creduto di dovermi difendere dallo Stato”. Il sognor "OMISSIS", sappiamo chi è, noto esponente di un clan malavitoso locale, non sappiamo chi sarebbero “quelli di Taranto”.  Anche se la curiosità si fa sempre più rodente. Sin qui, nulla di nuovo. Abbiamo raccontato di peggio. Ciò che appare nuovo, in questo ennesimo caso di “vite all’asta”, è il trattamento subito dalla famiglia Notarnicola da parte dell’Istituto Vendite Giudiziarie. Trattamento che potremmo sintetizzare con una sola frase: cacciati illegalmente da casa, ingannati a più riprese, privati dei più elementari diritti umani. Michele Finizio su “Basilicata 24” Venerdì 05/05/2017.

Angelo Salvatore Delli Santi e Maria Giovanna Benedetta Montemurro. “E che c’entra… noi le case mica le regaliamo... e comunque il prezzo base è più che sufficiente, noi vendiamo anche e sino a euro 20.000,00!” Questa è la risposta che il giudice delle esecuzioni avrebbe dato alla signora Giovanna Montemurro, o meglio alla figlia di lei: … “Al che mia figlia gli evidenziava che in base all’ultima ordinanza di vendita, da lui (il giudice Martino Casavola) firmata, il valore del bene si era di molto abbassato, scendendo al di sotto della metà, con la conseguenza che pur vendendo la nostra casa, nemmeno i debiti si sarebbero coperti (debiti che nel frattempo erano fortemente lievitati); (…). Mi risulta che, a quel punto, il magistrato rispondeva così: “E che c’entra… noi le case mica le regaliamo... e comunque il prezzo base è più che sufficiente, noi vendiamo anche e sino a euro 20.000,00”. Eppure, scrive la signora Montemurro nel suo esposto, non si poteva procedere all’asta perché il prezzo fissato come base, pari a euro 49.800,00, era inferiore al limite minimo di legge, ossia il limite della metà del valore del bene espropriando, così come determinato dallo stesso Tribunale. In questo caso il prezzo stabilito è pari a euro 118.000,00, per cui la metà sarebbe stata al massimo euro 59.000,00. Quindi non si poteva procedere all’asta poiché il prezzo base non avrebbe potuto consentire un ragionevole soddisfacimento delle ragioni dei creditori, anche tenuto conto dei costi della procedura esecutiva. Purtroppo il giudice dell’esecuzione – scrive la signora Montemurro - ha venduto la nostra casa all’asta durante l’udienza del 26 maggio 2016, con un tempismo sospetto.

Emergono nuovi particolari episodi che lascerebbero stupefatto anche un novellino del diritto. Insomma vizi e violazioni di norme sarebbero all’ordine del giorno delle procedure fallimentari gestite dal tribunale di Taranto. Andiamo a vedere. Paiano, è giudice delle esecuzioni. Denunciato sia dal signor Delli Santi, sia dalla moglie di questi, Giovanna Montemurro, per abuso d’ufficio e non solo. La denuncia della signora Montemurro pende al tribunale di Potenza. Logica vorrebbe, ma soprattutto il Diritto, che un giudice si astenga se ha “causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori”. Nella giostra della sezione fallimentare del tribunale civile di Taranto, questa norma non sembra avere ospitalità. Infatti, il dottor Paiano nonostante le denunce a suo carico, in qualità di giudice ha deciso più istanze presentate dai coniugi Delli Santi, naturalmente rigettandole tutte. Eppure egli sa, lo sanno tutti, che è stato denunciato dalla signora Montemurro il 24 giugno 2016, e verosimilmente egli sa, e tutti lo sanno, che è stato denunciato anche dal signor Delli Santi il 23 settembre 2016. Nel primo caso l’accusa è di abuso d’ufficio, nel secondo caso si ipotizza addirittura l’associazione per delinquere tra magistrati, curatori, consulenti, banche. I coniugi Delli Santi chiedevano con opposizione formale l’estinzione della procedura esecutiva, per vizi procedurali e violazioni delle norme. Opposizione rigettata, la casa viene aggiudicata. Si opponevano all’aggiudicazione, perché ritengono che siano state violate la legge e la procedura. Niente da fare, opposizione rigettata. La signora Montemurro si oppone anche allo sgombero con ulteriore atto. Niente da fare, anche questa opposizione è rigettata. Il giudice, da loro denunciato, agisce come se nulla fosse. Per la verità Paiano aveva chiesto l’astensione, ma il presidente del tribunale non ha autorizzato. Lo stesso presidente, però, aveva autorizzato il giudice Martino Casavola ad astenersi da quel procedimento, per evidente inimicizia con l’avvocato dei Delli Santi. Chissà, l’inimicizia è causa di astensione, le denunce al contrario non autorizzano l’astensione. Il tribunale di Taranto sarebbe un vero e proprio laboratorio di giurisprudenza “creativa”. I coniugi Delli santi, tramite il loro avvocato Anna Maria Caramia, in data 23 dicembre 2016, presentano un reclamo contro il provvedimento di rigetto del giudice Paiano. Chi decide su quel reclamo? Un collegio di tre giudici tarantini. Chi è il presidente di quel collegio? Il giudice Pietro Genoviva.  Chi è Genoviva? Niente di che. Semplicemente ha il dente avvelenato contro l’avvocato dei coniugi Delli Santi, l’avvocato Anna Maria Caramia. Lo stesso avvocato di tanti altri cittadini falliti e finiti nelle maglie del tribunale di Taranto. Genoviva è il giudice che ha definito la condotta di quell’avvocato, penalmente rilevante e che ritiene i coniugi Delli Santi persone che “tentano di condizionare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale attraverso lo strumento della denuncia contro i giudici”.  Servirebbe un dentista sopra le parti. Come già detto, la signora Giovanna Montemurro il 24 giugno 2016 denuncia il giudice Andrea Paiano alla Procura della Repubblica di Potenza (procura competente a giudicare i magistrati tarantini). In quella denuncia è richiamata espressamente l’istanza di sequestro preventivo dell’immobile poi aggiudicato all’asta. Su questa istanza la procura di Potenza non si esprime. Si esprime però, e stranamente, sulla denuncia del signor Angelo Delli Santi, quella del 23 settembre 2016, con una decisione di “non luogo a provvedere”. Strano anche che una denuncia, quella di Delli Santi, contro la procura potentina finisca nelle mani dei magistrati di Potenza, cioè nelle mani del giudice denunciato. Eppure, quella denuncia è stata indirizzata a tutti tranne che, giustamente, alla procura di Potenza. Procura che è la stessa a iscrivere la notizia di reato che la riguarda a modello 45 (Registro degli atti non costituenti notizia di reato). Eppure la denuncia di Angelo Delli Santi è gravissima, altro che notizie non costituenti reato! Perché nessuno si è mosso per fare almeno una verifica sulle dichiarazioni del denunciante? Macché! Il giudice denunciato decide per se stesso: “Non luogo a provvedere”. Si autoassolve. E se il signor Delli Santi ha torto nel denunciare collusioni tra giudici tarantini e potentini, se il signor Delli Santi ha torto nel denunciare un “sistema criminale di gestione delle aste fallimentari”, perché non è destinatario di una denuncia per diffamazione o calunnia da parte dei giudici potentini e tarantini? Perché non viene arrestato per le sue gravi e infondate accuse? Michele Finizio, martedì 21/02/2017 su "Basilicata 24".

“…l’asta va avanti anche quando si tratta di vendere case abitate dagli invalidi”. La signora Montemurro ha presentato ricorso con richiesta di tutela cautelare, alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato avrebbe ricevuto il fascicolo il 25 maggio e lo stesso giorno il giudice Andrea Paiano ha rigettato la richiesta. Il giorno successivo, il 26 maggio, ha provveduto all’aggiudicazione, in maniera se non illegittima quanto meno poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di un immobile adibito ad abitazione occupata da due anziani quasi ottantenni. Non c’è da meravigliarsi. E’ ancora la signora Montemurro a parlare: Messo di fronte al rischio che io e mio marito, ormai anziani, finissimo in mezzo alla strada, anche alla luce del diritto comunitario, così come applicato dalla Corte di Giustizia, secondo cui l’abitazione di residenza deve essere tutelata, il giudice (in questo caso Martino Casavola) si limitava a precisare che dovevamo ringraziare per essere rimasti nella casa per trent’anni e che il fatto che la casa fosse abitata da due anziani a nulla rilevava e che l’asta andava comunque avanti, e va avanti anche quando si tratta di vendere case abitate dagli invalidi. Però! Chi compra la casa all’asta dei Montemurro? Lo chiediamo alla signora Giovanna. “A quanto mi risulta l’unico offerente per l’asta è stato un certo signor Di Napoli Pasquale. Di lui so soltanto che è imparentato, essendone verosimilmente il figlio, con il signor Di Napoli Giovanni, con precedenti per associazione per delinquere di stampo mafioso, e attualmente in carcere per l’episodio del triplice omicidio di Palagiano del 2014, ove fu ucciso anche un bambino di tre anni. Sembrerebbe che, prima dell’evento omicidiario e dell’arresto, il signor Giovanni Di Napoli lavorasse con il figlio Pasquale, nella ditta di quest’ultimo, in Massafra”. Da quanto abbiamo appreso segnaliamo la circostanza che Giovanni Di Napoli avrebbe legami con il clan mafioso dei Putignano di Palagiano.

Il clan mafioso e le aste pilotate. Pasquale Putignano, 67enne membro dell’omonimo clan il cui capo sarebbe il fratello Carmelo, detto “Minuccio”, venne arrestato il 5 aprile 2016 perché aveva chiesto soldi a un imprenditore agricolo per pilotare un asta. Il Putignano è stato nuovamente arrestato il 3 novembre 2016 per gli stessi fatti: estorsione e turbativa d’asta. Nel corso del tempo, i carabinieri hanno avuto modo di accertare nuove condotte delittuose, della stessa specie e con lo stesso "modus operandi", in danno di imprenditori agricoli dell'agro di Palagiano e Palagianello. Il 67enne, secondo quanto emerso dalle indagini, minacciava di pilotare l'aggiudicazione di beni sottoposti a vendita giudiziaria di alcuni imprenditori agricoli, sottoposti a procedure esecutive immobiliari ed intenzionati a riacquistarne la proprietà, millantando di poter allontanare ogni possibile concorrente. Il palagianese, per la "sua opera persuasiva" – dicono gli inquirenti- pretendeva dai malcapitati l'ingiusta consegna di una somma di denaro, quale compenso per il proprio intervento, facendosi promettere ulteriori somme di denaro in caso di favorevole esito delle aste giudiziarie, presso il Tribunale di Taranto. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

di recente a quanto risulta agli interroganti, la signora Maria Giovanna Benedetta Montemurro, presso il tribunale di Taranto, ha incardinato una procedura di opposizione avverso l'esecuzione immobiliare n. 168/1986 R.G.E., tentando di far valere molteplici ragioni a sua tutela. Nel ricorso, tra i tanti motivi di opposizione, invocando il "decreto Banche" (rectiusdecreto-legge n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2016), la signora Montemurro ha anche dedotto che il giudice non poteva procedere all'aggiudicazione atteso che, nella fattispecie, il prezzo di vendita era inferiore al limite della metà e che erano stati esperiti tentativi di vendita oltre il numero consentito dal citato decreto-legge. Effettivamente il recente decreto-legge n. 59, andando a completare il quadro normativo disciplinante la materia, non ha trascurato proprio i profili di tutela delle parti, creditrice e debitrice, soprattutto al fine di evitare che la vendita avvenga oltre determinati limiti e per un tempo indefinito;

la vendita al "prezzo vile", ovvero al prezzo lontano da quello di mercato, danneggia sia il debitore che lo stesso ceppo creditorio (con il rischio concreto di vendere le case e non soddisfare nemmeno le ragioni dei creditori) e pare anche certo che, indipendentemente dalle modalità di vendita (con incanto o senza), dal sistema delle norme che presidiano le esecuzioni immobiliari può ricavarsi che la vendita non possa avvenire ad un prezzo inferiore al limite della metà del valore del bene espropriando, così come stabilito dal tribunale ai sensi dell'art. 568 del codice di procedura civile;

tuttavia, nonostante l'apparente e verosimile fondatezza del ricorso proposto dalla signora Montemurro, il giudice dell'esecuzione ha rigettato le sue ragioni, peraltro in circostanze di tempo così rapide da destare, a parere degli interroganti, non poca inquietudine: il ricorso è stato presentato alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato ha ricevuto il fascicolo il 25 maggio (perché lo ha "ereditato" da altro magistrato che ha inteso astenersi); nella medesima data del 25 maggio il magistrato ha rigettato la tutela cautelare chiesta dalla Montemurro; solo il giorno successivo, ovvero il 26 maggio, ha provveduto all'aggiudicazione, a giudizio degli interroganti in maniera se non illegittima quanto meno in modo poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di espropriare un immobile adibito ad abitazione;

considerato che a quanto risulta agli interroganti:

la signora Montemurro, ritenendo di non avere ricevuto alcuna tutela in sede civile, con atto del 24 giugno 2016, ha adito il giudice penale ed ha denunciato non solo il giudice dell'esecuzione, ma anche il "sistema" aste presso l'organo di giustizia. Nel suo esposto, tra l'altro, ha lamentato che presso il tribunale jonico: vi è l'orientamento di vendere all'asta, con poca o nessuna tutela per le parti; vi è poca turnazione dei magistrati, che gestiscono le aste ed anche degli ausiliari di questi ultimi; vi sarebbe prassi di vendere anche al limite di 20.000 euro, indipendentemente da quello che è il valore del bene espropriando, con la conseguenza che, a suo dire, alla fine, risulterebbero "pagati" solo i costi delle procedure;

la signora Montemurro non è l'unica ad aver lamentato condotte discutibili e inclini alle banche (solitamente creditrici procedenti) ed alle espropriazioni in genere da parte dei magistrati del tribunale tarantino, di volta in volta chiamati ad intervenire in questioni relative alle opposizioni alle aste immobiliari, in sede sia di cautela che di merito. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Maria Spera. “E’ in utile che continuate a pagare tanto il terreno sarà venduto... c'è già il compratore”. (Negli esposti archiviati che risalgono a sei anni fa) Così parla al telefono un funzionario della SGC, società delegata alla riscossione del credito vantato dalla Bnl nei confronti della signora Maria Spera. E ancora: “Non continuate a pagare altrimenti saranno tutti soldi gettati... se non pagate la penale il terreno sarà venduto il 29 novembre”. Il funzionario al telefono sa benissimo che la signora Spera non può e comunque non deve pagare alcuna penale. La vendita di quelle proprietà è stata pianificata da tempo. Un piatto succulento per chiunque. Un patrimonio che qualcuno vorrebbe comprare con quattro soldi. In questa vicenda, le violazioni di legge, gli abusi, e persino l’usura sono drammaticamente evidenti. La signora Spera lo spiega nel suo esposto: “la somma che ho preso a mutuo nel 1990, dalla Bnl, era pari a 500 milioni di lire corrispondenti a € 258.228,45; la somma che alla data della conversione del pignoramento ho reso (novembre 2007) è pari a €. 400.000,00; la BNL, secondo i conteggi depositati in giudizio all’udienza di conversione (29.11.2007), mi ha chiesto ancora €. 491.013,91 (oltre spese successive); la SGC, in virtù del decreto ingiuntivo 566/2003, che trae origine dallo stesso mutuo, consacra in un titolo definitivo e non più caducabile la somma di € 408.834,30 oltre interessi di mora dal 2003…; tutto ciò comporta, ulteriormente, che a fronte di un mutuo di circa € 258.000,00 oggi esistono titoli per ottenere coattivamente circa € 1.500.000,00. Insomma, la BNL e la SGC agiscono entrambe per l’intero credito rinveniente dal mutuo e non ognuna di esse per una parte dello stesso credito. E’ come dire: Caio deve 100 a Mevio, Mevio cede i 100 a Sempronio, Mevio e Sempronio agiscono entrambi congiuntamente… Caio non è più debitore di 100 ma di 200! Insomma, una illegittima duplicazione di titoli esecutivi. C’è già il compratore, chi sarebbe? Signora Spera, chi sarebbe il compratore? Le condotte di tutte le parti coinvolte in questa storia, oltre ad avermi danneggiata ingiustamente, erano oggettivamente finalizzate a favorire probabilmente il ricco imprenditore locale Antonio Albanese, notoriamente interessato ad acquistare il terreno di mia proprietà e generalmente avvezzo agli acquisti all’asta. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Altra vicenda molto sintomatica della pervicace chiusura dei giudici di Taranto rispetto alla tutela da accordare agli esecutati e falliti è quella della signora Maria Spera (procedura esecutiva n. 590/1994 R.G.E del tribunale di Taranto). Vicenda che, nonostante non si sia ancora conclusa, ha registrato non poche forzature, con grave danno economico, psicologico e morale dell'esecutata. Addirittura la signora Spera ha lamentato un'illegittima duplicazione di titoli esecutivi, con cui l'intero suo patrimonio risulta ancora bloccato: 1) la procedura n. 590/1994 R.G.E., che si basa sul titolo esecutivo "mutuo fondiario" e che vede quale bene pignorato un terreno di 24 ettari (terreno a cui sarebbe interessato un facoltoso imprenditore locale, già socio di Emma Marcegaglia); 2) un decreto ingiuntivo, che si basa sullo stesso e medesimo debito, decreto con il quale è stato ipotecato l'intero restante patrimonio immobiliare della signora Spera. La vicenda, a giudizio degli interroganti, è tanto più inquietante se si pensa che il debito originario contratto dalla signora nel 1990 era a pari a 500 milioni di lire (corrispondenti a circa 258.000 euro) e la signora, alla data del 2007, ne aveva già restituiti 400.000 euro (corrispondenti a circa 800 milioni di lire);

ad oggi la signora Spera, nonostante il pignoramento del terreno, sottostimato dal tribunale di Taranto in poco più di 400.000 euro (somma che sarebbe più che capiente rispetto all'eventuale debito residuo, ove ne residuasse, visto che circa 400.000 euro sono stati già resi dalla signora alla Banca nazionale del lavoro), ha l'intero suo patrimonio ipotecato, in virtù dell'altro titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo), emesso per lo stesso ed unico debito (che così è consacrato in 2 distinti titoli esecutivi). Pertanto, se la signora volesse vendere qualcosa per pagare eventuali residui debiti, non potrebbe farlo (e nemmeno è in condizione di onorare le esose tasse sulla proprietà, se non con gli aiuti dei figli);

la signora Spera ha riferito agli interroganti che, decorsi 10 anni dall'iscrizione dell'ipoteca sul suo patrimonio, in virtù del decreto ingiuntivo, nell'assenza di atti esecutivi (perché nel frattempo la procedura è andata avanti per la vendita del terreno pignorato sulla base del titolo esecutivo "mutuo fondiario"), ha chiesto la cancellazione dell'ipoteca, anche ritenendo la perenzione del decreto ingiuntivo, ma in risposta ha ottenuto dal tribunale tarantino il rigetto della sua legittima istanza (procedura n. 3291/2014 R.G. del tribunale). La questione pende in appello (causa n. 536/2014 R.G. della Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto), ma la signora Maria Spera ritiene che incontrerà ancora l'illogico ed illegale ostacolo;

considerato, inoltre, che:

la signora Maria Spera ha riferito agli interroganti di aver presentato, presso il tribunale di Potenza (competente a valutare gli esposti nei confronti dei magistrati di Taranto), denuncia penale nei confronti dei magistrati ed ausiliari che, a suo parere, avrebbero male esercitato la funzione giurisdizionale, causandole danni; ma anche a Potenza ha dovuto prendere atto che, anziché ottenere tutela, ha solo registrato l'astio del pubblico ministero e la pessima sua azione. Allo stato la signora Spera, esecutata dal 1994, non ha ottenuto, né dai giudici di Taranto né da quelli di Potenza, la tutela che le leggi le garantirebbero ma che la magistratura (chiamata ad applicarle) le ha negato;

la vicenda è già balzata agli onori della stampa (sul settimanale tarantino "Wemag" del 12 novembre 2010) ed è stata anche oggetto di un'altra interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei deputati nel 2010 (4-07339 a firma dell'on. Zazzera dell'IdV, Legislatura XVI);

ad avviso degli interroganti, circostanza molto inquietante è quella per cui, sempre in danno della signora Spera, né la magistratura jonica (sia in sede civile che penale) né quella potentina (in sede penale) hanno inteso accertare l'usura che la signora stessa ha lamentato esserle stata applicata. Usura che è poi emersa nell'ambito di una causa civile sempre dinanzi al tribunale tarantino, in occasione di una consulenza di ufficio redatta (causa n. 7929/2009 R.G. del tribunale di Taranto);

. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Vitoantonio Bello. Vitantonio Bello ha lamentato una tenace chiusura della magistratura jonica rispetto all'asta immobiliare in suo danno (n. 593/2011 R.G.E. del tribunale di Taranto), non ottenendo tutela nonostante le molteplici procedure incardinate e nonostante, in qualche provvedimento giurisdizionale, il magistrato estensore abbia riconosciuto la fondatezza della doglianza da lui sollevata. La banca concede un mutuo a chi evidentemente non può sostenerlo. Perché? Alla domanda risponde il signor Vitoantonio Bello, di Massafra: Forse perché sin dall’inizio hanno deciso di prendersi la mia casa. Nel caso di Bello l’asta immobiliare riguarda la casa dove vive con moglie e due figli minori, un anno e cinque anni di età. In questo caso la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l’esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il signor Bello e la banca, seppure l’istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro, e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso. In questo caso il giudice dell'esecuzione è Francesca Zanna. Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24".

Nella vicenda del signor Bello, la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l'esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il medesimo e la banca, se pure l'istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro (e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso). A parere degli interroganti, nella stessa statuizione, vi sarebbe anche un'abnorme legittimazione della concessione abusiva di credito. Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". I cittadini vessati sono convinti di essere finiti nelle maglie di un “sistema” che fa affari intorno alle aste. Avvocati, periti, magistrati, consulenti, funzionari di banche, faccendieri e malavitosi si coalizzerebbero per aggredire i patrimoni delle povere vittime, spesso inconsapevoli dell’esito, già deciso, delle loro vicende giudiziarie. Loro traccerebbero i percorsi giudiziari avvalendosi dei soliti periti che sottostimano il valore degli immobili, per raggiungere l’obiettivo della vendita a basso prezzo, ricavando percentuali sull’affare aggiudicato ai soliti compratori o ai loro prestanome. E se qualcuno dovesse, a valle del tracciato giudiziario, partecipare a un asta già assegnata a monte a Tizio, a quel qualcuno viene “amichevolmente” consigliato di ritirarsi dalla partita oppure gli viene offerto del denaro. Tutto avverrebbe, come scrive il signor Delli Santi nel suo esposto, nella certezza dell’impunità. “Tanto a Potenza archiviano”. “Il principio di rotazione dei consulenti sarebbe rispettato soltanto per molti, con pochi e marginali incarichi, ma non per alcuni, che si contano sulle dita di una mano, ai quali sarebbero affidati grossi incarichi in grande quantità. E’ il caso dei consulenti Paolo D’Amore e Valentina Valenti. Sarebbero tra i cinque consulenti che hanno collaborato costantemente con il giudice Martino Casavola. D’Amore in 7 anni avrebbe ricevuto 238 incarichi, 34 l’anno, quasi 3 al mese. Un’enormità. Scrive ancora nel suo esposto il signor Angelo Delli Santi: “Naturalmente, anche questa circostanza è stata denunciata al tribunale di Potenza e, manco a dirlo, anche questa volta Potenza ha ignorato.” Sembrerebbe che tra alcuni magistrati, consulenti, periti, avvocati ci siano legami parentali e amicali più o meno stretti.

Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24": L’estrema difesa dei cittadini: Chiedere aiuto al tribunale di Potenza. Le storie qui raccontate sono soltanto un frammento di una lunga narrazione che riguarderebbe molti altri casi. La narrazione di abusi, falsi ideologici, strafalcioni procedurali, usura e raggiri che hanno seminato e stanno seminando molte vittime. Sarebbero decine i cittadini che hanno denunciato i giudici, ma anche periti e custodi giudiziari tarantini, al tribunale competente di Potenza. Per ottenere cosa? Improbabili, eppure sorprendenti archiviazioni. Tra i casi più eclatanti quello della signora Spera finito, come altri, nelle mani del pm di Potenza Anna Gloria Piccininni. Spera denuncia il giudice delle esecuzioni di Taranto, Martino Casavola e il Ctu, Paolo D’Amore, per i reati di abuso d’ufficio, omissione in atti d’ufficio, falsa perizia o interpretazione. La Procura di Potenza chiede l’archiviazione sulla base delle sole dichiarazioni del custode, avvocato Fabrizio Nastri che doveva essere indagato. Tutto a posto. La signora Spera fa opposizione alla richiesta di archiviazione. Opposizione accolta dall’allora giudice per le indagini preliminari Luigi Barrella che dispone ulteriori indagini. Piccininni chiede nuovamente l’archiviazione. La signora Spera fa opposizione alla seconda archiviazione. Il gip Michela Tiziana Petrocelli dispone l’archiviazione, ma dispone anche che il Nastri sia indagato. E così via, per tutte le denunce contro i magistrati, i consulenti tecnici, i curatori, i periti del tribunale di Taranto. Eppure le denunce presentate dai cittadini sembrerebbero molto circostanziate e ricche di dettagli. Chissà. Non a caso dodici senatori del Movimento Cinque Stelle, nel settembre scorso, hanno presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia per sapere, tra l’altro, “se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza…”. Staremo a vedere.  

Stefano Buonsanti. ". Usurato dalle banche e costretto al fallimento, finisce nelle maglie delle procedure di vendita all’asta. Un’altra voce contro il tribunale di Taranto. Stefano Buonsanti, imprenditore edile, ginosino, riesce appena a trattenere le lacrime, mentre ci racconta la storia, assurda, paradossale come tante altre vissute da molti cittadini della provincia tarantina. Il signor Stefano lavorava bene, guadagnava anche bene. Fino a quando un intreccio “mortale” tra avvocati e direttori di filiali bancarie, giudici del tribunale, lo costringe alla miseria. E’ il 1998 quando il presidente dell’allora Cassa Rurale e Artigiana (ora Banca di Credito Cooperativo) di Ginosa dice al signor Buonsanti: “Da oggi in poi devi morire”. Da quel momento, infatti, l’imprenditore non ha più pace. Gli vengono revocati tutti i fidi in tutte le banche. Intanto aveva contratto mutui con le stesse banche a tassi usurai, fino al 23 per cento di interessi. I committenti per lavori da centinaia di milioni di vecchie lire, si tirano indietro e revocano i contratti. Il signor Buonsanti capisce che una rete “mortale” lo ha imprigionato in un destino che lo porterà a perdere tutti i suoi beni. E siamo ai giorni nostri. Stefano Buonsanti ci racconta di aste pilotate, di vendite illegittime, di opposizioni alle vendite sempre rigettate dal giudice Martino Casavola. Questo giudice compare spesso nelle denunce dei cittadini al tribunale di Potenza, oltre che nei racconti di altre persone sottoposte a procedimenti fallimentari. E’ di pochi giorni fa, il 25 novembre scorso, la denuncia dell’imprenditore contro il Giudice tarantino e alcuni avvocati, depositata al tribunale di Potenza. Buonsanti fa rilevare nella sua denuncia due episodi da egli ritenuti perseguibili penalmente. Il fatto riguarda la vendita all’asta di un locale commerciale in pieno centro storico di Ginosa per il quale era stata nominata custode la moglie dell’imprenditore. Il giudice ha ritenuto di surrogare il custode nominando in sostituzione l’avvocato già delegato alla vendita dell’immobile. Buonsanti, tramite il suo legale, ricorre contro il provvedimento di sostituzione chiedendone la revoca. Ricorso rigettato. Il giudice, nell’ambito del procedimento fallimentare, ordina la comparazione delle parti per il giorno 19 dicembre 2016, ma nel frattempo, in data 12 ottobre 2016, l’immobile viene venduto e aggiudicato. A chi? A persone che sembrano lavorare saltuariamente, quindi con un reddito, almeno apparentemente, povero. A quanto viene ceduto l’immobile? A 25mila euro. Eppure il valore stimato era pari a 120mila euro. “Insomma – ci dice Buonsanti – questa è una delle tante aste pilotate al cento per cento, spero che il tribunale di Potenza indaghi sul serio, anche se so che altre denunce di altri cittadini sono finite archiviate”. In questi anni l’imprenditore ha subito aggressioni verbali, umiliazioni, che lo hanno ridotto allo stremo psicologico. Ci racconta di strani personaggi malavitosi aggirarsi intorno alle aste, di strane procedure che finiscono con l’aggiudicazione di beni immobili a gente che non sembra avere le mani pulite. Buonsanti è convinto: “Quel giudice è corrotto”. Noi, naturalmente non possiamo approvare la sua convinzione. Fino a prova contraria quel giudice è immacolato. Da quando ci stiamo occupando di queste vicende che coinvolgono il tribunale tarantino e il tribunale di Potenza, abbiamo ricevuto molte segnalazioni, anche anonime, di persone che hanno vissuto vicende controverse nel “calvario” delle procedure fallimentari a Taranto e delle archiviazioni “facili” a Potenza. Michele Finizio, giovedì 1/12/2016 su "Basilicata24".

Caterina Cuscito. Mettono all’asta un immobile a Palagiano, ma nell’avviso scrivono Palagianello. Un errore? Macché. L’hanno fatto apposta. Ma come è possibile? Il curatore avrebbe dato una risposta che, nel girone circense infernale dei procedimenti fallimentari a Taranto, non fa una grinza: “Se avessimo scritto Palagiano, ci sarebbe stata la fila di persone”. Ma che risposta sarebbe? L’interesse del curatore dovrebbe essere di avere una fila di compratori che garantisce più offerte e magari la vendita ad un prezzo più alto della base d’asta. Roba da denuncia. Infatti, la signora Caterina Cuscito, vittima protagonista del fattaccio, ha presentato un esposto-denuncia alla procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto, il 28 gennaio scorso. La signora Cuscito è un'ex commerciante che ha dovuto fare i conti con la crisi e con la solita banca. Prima gli espropriano la casa, poi mettono all’asta due locali commerciali e un’auto rimessa a Palagiano (Taranto). Però, il curatore nell’avviso scrive Palagianello (Taranto). Indicare una località al posto di quella effettiva di collocazione dei beni all’asta è certamente un vizio di procedura, ma probabilmente è anche un reato. E sì. Perché la signora Cuscito legittimamente si sente truffata. La “fila delle persone” avrebbe fatto alzare il prezzo dell’immobile con un probabile vantaggio per Caterina: il ricavo di una somma residuata dalla vendita, dopo aver pagato il creditore. Questa possibilità è svanita, perché i locali sono stati venduti, a chissà chi, ad un prezzo chissà quale, a Palagiano e non a Palagianello. I compratori, dal canto loro, dovevano essere informatissimi circa la collocazione dei beni. Insomma, alla sezione fallimentare del tribunale di Taranto, le procedure sono delle vere e proprie processioni di povere vittime che non sanno più a che santo votarsi. I pescecani, invece, sanno benissimo a chi rivolgersi. A proposito anche in questo caso il giudice delle esecuzioni è sempre uno del "giro". Gli stessi del fiore da 2omila euro, del caso Delli Santi, del caso Roberto Di Taranto, della vicenda Buonsanti, gli stessi in moltissime procedure contestate. Gli stessi più volte denunciati al Tribunale competente di Potenza che archivia. Anche i curatori, gira e rigira, sono sempre gli stessi giostrai della disperazione. Alla prossima puntata, tra qualche giorno, un altro caso che riguarda direttamente il tribunale di Potenza. Michele Finizio, sabato 18/02/2017 su "Basilicata 24".

Caterina Cuscito è un’ex commerciante che ha dovuto fare i conti con la crisi e con la solita banca. Prima le espropriano la casa, poi mettono all’asta due locali commerciali e un’autorimessa. La signora Caterina ritiene di aver subito espropriazione per oltre il doppio del valore dei debiti… ed oggi è senza un soldo e senza tetto, la sua residenza è in auto con la roba che l’accompagna. E i debiti sono ancora da saldare. E’ sempre la stessa storia nel tribunale di Taranto: beni venduti a prezzo vile, procedure fallimentari che durano da oltre 30 anni, persone dichiarate fallite per tutta la vita, senza alcuna possibilità di provare a rialzarsi. Tentativi di concussione, acquirenti di beni all’asta sempre i soliti in odore di criminalità. Ce ne siamo occupati più volte con la nostra inchiesta “Vite all’asta”. Storie di cittadini vessati, finiti nel tritacarne delle procedure fallimentari, “puniti e torturati” dallo Stato che dovrebbe difenderli. Per le nostre inchieste siamo stati denunciati, ma noi non molliamo. L’audio della telefonata che pubblichiamo fornisce il senso della disperazione di una donna 50enne, Caterina Cuscito, vittima del “sistema” tarantino delle aste. La donna, disperata, chiama il suo avvocato per chiedere aiuto. "Basilicata 24" scrive il 14 marzo 2018.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”.

Legislatura XIII Ramo: Camera Tipo Atto: Interrogazione a risposta scritta Numero atto: 4/19855 Data di presentazione: 24-09-1998 Seduta: 411 Presentatore Nichi Vendola Destinatari Ministero di Grazia e Giustizia e Ministero del Tesoro e del Bilancio e della Programmazione Economica Risposta del Governo Oliviero Diliberto 13-07-1999

Testo della Interrogazione. Ai Ministri di grazia e giustizia e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. - Per sapere -  premesso che:

sempre più frequentemente, negli ultimi anni, alla Procura di Lecce sono pervenuti esposti di cittadini che denunciavano un comportamento usurario da parte di istituti di credito, che grazie alla capitalizzazione degli interessi avrebbero fatto lievitare talvolta oltre il 100 per cento annuo i tassi su finanziamenti e scoperti di conto corrente;

alla fine del 1995 il Procuratore della Repubblica aggiunto presso la procura di Lecce, dottor Aldo Petrucci, responsabile per i reati in materia finanziaria, inviava ai pubblici ministeri della stessa procura una circolare tecnica di chiarimento (n.72244/95) sulla valutazione nel calcolo degli interessi;

nella suddetta circolare si ribadiva l'assoluta liceità della capitalizzazione degli interessi e si affermava in modo alquanto singolare la seguente tesi: "a parità di capitale finanziario, di interessi dovuti e di durata del finanziamento il calcolo del tasso effettivo attraverso il regime dell'interesse semplice offre sempre un risultato superiore a quello ottenuto attraverso il regime dell'interesse composto (cioè con la capitalizzazione degli interessi); un finanziamento della durata di tre anni che preveda un capitale finanziato pari a 1.000.000 e il pagamento di 300.000 lire di interessi avrà un tasso effettivo del 10 per cento secondo il regime dell'interesse semplice e del 9,1 per cento secondo l'interesse composto";

questa tesi ha evidentemente l'obiettivo di dimostrare che l'applicazione dell'interesse composto è per il cliente più conveniente rispetto a quella dell'interesse semplice, mentre – come facilmente riscontrabile con la semplice consultazione di tutta la letteratura scientifica sul tema - è vero il contrario;

risulta che tale circolare abbia influenzato presso la Procura di Lecce l'esito di procedimenti penali aperti nei confronti di responsabili di Istituti di Credito per il reato di usura;

in particolare, il 25 gennaio 1996 il pubblico ministero Giovanni Gagliola ha richiesto l'archiviazione di una denuncia per usura presentata nei confronti di Fernando Venturi, già titolare della Banca Venturi (ora Credito Romagnolo), da un cliente a cui era stata applicata la capitalizzazione trimestrale degli interessi sul proprio conto corrente;

in tale richiesta di archiviazione si affermava che "Il consulente del pubblico ministero ricostruiva integralmente il rapporto di conto corrente de quo e calcolava nella misura del 131 per cento circa annuo" il tasso d'interesse applicato dalla banca;

nella medesima richiesta il pubblico ministero, affermando la legittimità della capitalizzazione degli interessi, precisava: "Su questa linea si pone la posizione dell'ufficio di procura nel suo complesso (vedi relazione del procuratore aggiunto in atti), dalla quale posizione complessiva questo pubblico ministero non vede ragione di discostarsi";

risulta che anche successivamente all'entrata in vigore della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha fissato il limite del tasso usurario nella misura del "tasso effettivo globale medio aumentato della metà", la procura di Lecce non abbia mutato la linea e la giurisprudenza indicate nella succitata circolare;

il settimanale Il Mondo del 12 giugno 1998 ha riferito che il 30 aprile scorso il procuratore aggiunto, Aldo Petrucci, ha richiesto l'archiviazione per infondatezza di un esposto presentato dalla signora Anna Maria Presicce nei confronti della Banca Venturi di Copertino (oggi Rolo), corredato da una perizia secondo cui la banca avrebbe applicato un interesse medio annuo dell'85 per cento;

nel 1997, cioè in data successiva all'emanazione della legge che ha determinato i criteri per la fissazione del tasso usurario, sono state presentate alla procura di Lecce 90 denunce per usura nei confronti di banche, contro le 50 del 1996;

nonostante questa situazione l'unica condanna pronunciata recentemente dal tribunale di Lecce in seguito a uno dei pochissimi rinvii a giudizio disposti dalla procura risulta essere quella nei confronti del banchiere Attilio Megha, già amministratore della Banca Leuzzi e Megha (ora assorbita dalla Banca del Salento), per aver applicato interessi superiori al 36 per cento, come ha riferito il 18 luglio scorso il Quotidiano di Lecce:

quali provvedimenti si intendano adottare per garantire il rispetto delle norme vigenti in materia di tassi usurari in aree depresse del Paese particolarmente colpite dal fenomeno, come la Puglia, anche nel caso in cui nell'attività usuraria siano coinvolti istituti di credito;

se non ritengano necessaria una verifica, attraverso l'uso dei poteri ispettivi, sul comportamento della procura della Repubblica di Lecce in relazione alla grande quantità di esposti presentati da cittadini e imprenditori nei confronti delle banche per il reato di usura e al corrispondente gran numero di archiviazioni richieste. (4-19855)

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719.

BUCCARELLA , AIROLA , DONNO , LEZZI , PETROCELLI , SANTANGELO , GIARRUSSO , FUCKSIA , CASTALDI , TAVERNA , PUGLIA , CAPPELLETTI , MANGILI , BLUNDO , BOTTICI - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

tramite l'atto di sindacato ispettivo 4-06370 (pubblicato il 21 settembre 2016), il primo firmatario della presente interrogazione segnalava le criticità occorse nell'ambito delle procedure fallimentari e di esecuzione immobiliare presso il Tribunale jonico, ed anche la chiusura della magistratura potentina competente a valutare gli esposti presentati contro i colleghi tarantini, e chiedeva al Ministro in indirizzo di disporre ispezione presso i Tribunali di Taranto e Potenza al fine di verificare la fondatezza dei fatti indicati. L'interrogazione inoltre enumerava molteplici suicidi-omicidi dovuti alla crisi ed alla facilità con cui viene tolta agli italiani la prima casa, con la conseguenza di spingere anche le persone anziane a covare e a realizzare azioni estreme di morte; inoltre, nell'atto sono contenute indicazioni, per difetto, dei casi occorsi a quella data;

dal mese di settembre 2016 ad oggi, altri casi di suicidi-omicidi si sono purtroppo verificati, imponendo la necessità di un intervento immediato e drasticamente risolutorio;

considerato che:

risulta agli interroganti che il 23 settembre 2016, il signor Angelo Salvatore Delli Santi avrebbe depositato presso la Questura di Taranto una denuncia penale (inviata per conoscenza anche al Ministro) in cui, premettendo il suo stato di fallito ed esecutato da ben 30 anni, avrebbe lamentato che presso il Tribunale di Taranto esistono meccanismi che creerebbero un sistema finalizzato ad espropriare i falliti ed esecutati, sistema da lui addirittura definito come "criminale, consolidato stabile ed efficace". Inoltre, nell'esposto, il signor Delli Santi avrebbe lamentato fortemente l'esistenza di una rete di collegamenti tra i Tribunali di Taranto e di Potenza, per cui, a suo dire, le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370;

la gravità dei fatti è stata evidenziata in un articolo pubblicato in data 4 novembre 2016 dalla redazione on line di "Basilicata24" che, descrivendo il "sistema" illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari, ha finanche prodotto il video di una conversazione avvenuta presuntivamente nello studio di un curatore fallimentare, da cui si ricava che il citato ausiliario del magistrato avrebbe richiesto all'imprenditore, per conto del magistrato, una somma di denaro di circa 20.000 euro per chiudere ogni questione, con tanto di fissazione di incontro successivo, con il magistrato stesso, presso il quarto piano del Tribunale di Taranto;

a parere degli interroganti, i fatti descritti dal citato articolo e dalla conversazione registrata sono molto gravi sia sotto il profilo delle eventuali responsabilità dei magistrati interessati che sotto quello delle conseguenze, anche estreme, ricadenti sull'utenza e sulla collettività, determinando umiliazione ed affievolimento delle garanzie democratiche, che rischiano di essere annullate da una giustizia negata e mercificata;

considerato inoltre che:

i fatti descritti nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370, relativi alle questioni occorse ai signori Montemurro, Bello e Spera, contengono dettagliate indicazioni di casi in cui, a detta degli stessi, si sarebbero evidenziate forzature nelle maglie del diritto, sostanziale e processuale, con evidente vulnus della giustizia;

risulta agli interroganti che tali episodi non sarebbero isolati e di ciò il signor Delli Santi, nel suo esposto del 23 settembre 2016, fornisce un'indicazione analitica, elencando casi di sua conoscenza, in cui si sarebbero verificate evidenti e macroscopiche violazioni di legge;

a parere degli interroganti, si pone come improrogabile la necessità di verificare i fatti, non potendo accettare che i cittadini vivano con la convinzione dell'esistenza di dubbi meccanismi nell'applicazione del diritto e, indi, nel funzionamento del "sistema giustizia" di Taranto;

risulta agli interroganti che numerosi media stiano affrontando le problematiche emerse, soprattutto alla luce del video pubblicato da "Basilicata24";

a parere degli interroganti si ricava che vi sia sfiducia nella giustizia, anche dal fatto che la citata signora Spera, i cui fatti sono dettagliatamente indicati nell'atto di sindacato ispettivo citato, ha espresso il timore di non ottenere tutela nemmeno nelle questioni ancora pendenti, a causa di quello che ha definito come "andazzo allegro" dei magistrati tarantini;

risulta agli interroganti che la signora Spera riferirebbe essere pendente una sua questione in grado di appello relativamente all'ipoteca che grava i suoi beni da oltre 13 anni, nonostante ella ritenga di aver versato addirittura più somme di quelle eventualmente di debenza e nonostante l'usura subita e non sanzionata (causa n. 536/2014 R.G. Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto);

considerato altresì che risulta anche agli interroganti che sia stata già disposta, e programmata nel mese di gennaio 2017, un'ispezione presso il Tribunale e la Procura di Taranto, che verterebbe su alcune delle problematiche afferenti alla gestione delle procedure presso le sezioni di esecuzione immobiliare e fallimenti;

considerato infine che a giudizio degli interroganti tali critiche situazioni impongono che sia disposta un'ispezione, senza ritardo, presso tutti gli organi di giustizia che abbiano trattato le questioni evidenziate, nonché quelle indicate nell'atto di sindacato ispettivo citato, in particolare presso il Tribunale e la Procura di Taranto, sezione distaccata della Corte di appello di Taranto, e presso il Tribunale e la Procura di Potenza,

si chiede di sapere:

se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive presso gli organi deputati all'applicazione del diritto e al funzionamento della giustizia nel tarantino e potentino, con particolare riferimento al Tribunale di Taranto, alla Procura di Taranto, alla sezione distaccata di Taranto della Corte di appello, al Tribunale di Potenza e alla Procura di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;

se l'ispezione programmata per gennaio 2017 riguardi i fatti e fascicoli relativi i signori Spera, Bello, Montemurro e Delli Santi, ovvero se non si intenda estenderla anche a tali situazioni.

Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06370 Pubblicato il 21 settembre 2016, nella seduta n. 683.

Buccarella, Airola, Taverna, Donno, Bertorotta, Puglia, Cappelletti, Serra, Giarrusso, Paglini, Santangelo, Bottici -

Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

si apprende da un articolo apparso su "TarantoBuonaSera", del 13 luglio 2016, che a Taranto ci sarebbero quasi 750 case all'asta, con altrettante famiglie destinate a perdere la propria casa, che nella maggior parte dei casi è proprio quella di abitazione;

la crisi che ha colpito il Paese sta incrementando il fenomeno delle aste immobiliari, soprattutto conseguenti all'impossibilità, da parte dei cittadini, di onorare i mutui contratti (senza sottacere delle tante abusive concessioni di finanziamento, da parte degli istituti bancari, che vanno ad aggravare situazioni fortemente compromesse dalla recessione);

purtroppo, non mancano anche conseguenze estreme, come i suicidi ed anche gli omicidi-suicidi di interi nuclei familiari, ad opera di persone ritenute perbene e tranquille, ma che, nella morsa della crisi, non ravvisando vie di soluzione (nemmeno in conseguenza di azioni giudiziarie, che spesso non risultano loro favorevoli), compiono tali deprecabili atti, e i numeri depongono per un vero olocausto di italiani;

dall'Osservatorio suicidi per la crisi economica, gli interroganti hanno rilevato che negli ultimi 4 anni, ovvero tra il 2012 e il 2015, si sono verificati 628 suicidi, in media uno ogni 2 giorni. Ecco alcuni casi, verificatisi solo negli ultimi 12 mesi, balzati agli onori delle cronache: l'omicidio-suicidio di Boretto: agosto 2016, Albina Vecchi, 71 anni, uccide il marito Massimo Pecchini, 77 anni, e poi si uccide perché la loro casa è andata all'asta; 30 maggio 2016, Stefano, pescatore genovese di 55 anni tenta il suicidio perché senza lavoro da mesi, da quando gli era stata sequestrata l'imbarcazione con la quale usciva in mare, e, sfrattato dalla sua abitazione, era costretto ad occupare abusivamente un alloggio del Comune; marzo 2016, Sisinnio Machis, imprenditore di 58 anni, si è suicidato a Villacidro dopo il pignoramento della propria casa; gennaio 2016, Maurizio Palmerini, cinquantenne di Vaiano, frazione di Castiglione del Lago (Perugia), ha ucciso i suoi figli, Hubert di 13 e Giulia di 8 anni, a coltellate e ferito la moglie, poi si è tolto la vita; gennaio 2016, dopo il suicidio del signor Guarascio per aver subito lo sfratto, i deputati dell'Assemblea regionale sciliana del Movimento 5 Stelle comprano la casa andata all'asta e la restituiscono alla sua famiglia; dicembre 2015, un imprenditore si impicca a Lodi perché la sua casa viene messa all'asta;

risulta, inoltre, agli interroganti che presso il tribunale di Taranto, al quarto piano dedicato alle aste immobiliari, si sarebbero imposte prassi non del tutto conformi alla legge (come quella di vendere i beni pignorati anche al "prezzo vile", favorendo gli "avvoltoi" di turno e, verosimilmente, la stessa criminalità) a cui si aggiunge la tendenza a prestare maggiore attenzione alla prosecuzione delle esecuzioni immobiliari, piuttosto che alla tutela ed alle garanzie dei soggetti esecutati o falliti;

sempre presso il tribunale di Taranto, sarebbero diversi i cittadini ad aver lamentato abusi e violazioni di legge da parte dei magistrati chiamati a decidere le loro controversie, con grave nocumento dei loro diritti;

di recente a quanto risulta agli interroganti, la signora Maria Giovanna Benedetta Montemurro, presso il tribunale di Taranto, ha incardinato una procedura di opposizione avverso l'esecuzione immobiliare n. 168/1986 R.G.E., tentando di far valere molteplici ragioni a sua tutela. Nel ricorso, tra i tanti motivi di opposizione, invocando il "decreto Banche" (rectiusdecreto-legge n. 59 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2016), la signora Montemurro ha anche dedotto che il giudice non poteva procedere all'aggiudicazione atteso che, nella fattispecie, il prezzo di vendita era inferiore al limite della metà e che erano stati esperiti tentativi di vendita oltre il numero consentito dal citato decreto-legge. Effettivamente il recente decreto-legge n. 59, andando a completare il quadro normativo disciplinante la materia, non ha trascurato proprio i profili di tutela delle parti, creditrice e debitrice, soprattutto al fine di evitare che la vendita avvenga oltre determinati limiti e per un tempo indefinito;

la vendita al "prezzo vile", ovvero al prezzo lontano da quello di mercato, danneggia sia il debitore che lo stesso ceppo creditorio (con il rischio concreto di vendere le case e non soddisfare nemmeno le ragioni dei creditori) e pare anche certo che, indipendentemente dalle modalità di vendita (con incanto o senza), dal sistema delle norme che presidiano le esecuzioni immobiliari può ricavarsi che la vendita non possa avvenire ad un prezzo inferiore al limite della metà del valore del bene espropriando, così come stabilito dal tribunale ai sensi dell'art. 568 del codice di procedura civile;

tuttavia, nonostante l'apparente e verosimile fondatezza del ricorso proposto dalla signora Montemurro, il giudice dell'esecuzione ha rigettato le sue ragioni, peraltro in circostanze di tempo così rapide da destare, a parere degli interroganti, non poca inquietudine: il ricorso è stato presentato alle ore 12.30 del 24 maggio 2016; il magistrato ha ricevuto il fascicolo il 25 maggio (perché lo ha "ereditato" da altro magistrato che ha inteso astenersi); nella medesima data del 25 maggio il magistrato ha rigettato la tutela cautelare chiesta dalla Montemurro; solo il giorno successivo, ovvero il 26 maggio, ha provveduto all'aggiudicazione, a giudizio degli interroganti in maniera se non illegittima quanto meno in modo poco prudente, in considerazione del fatto che si trattava di espropriare un immobile adibito ad abitazione;

considerato che a quanto risulta agli interroganti:

la signora Montemurro, ritenendo di non avere ricevuto alcuna tutela in sede civile, con atto del 24 giugno 2016, ha adito il giudice penale ed ha denunciato non solo il giudice dell'esecuzione, ma anche il "sistema" aste presso l'organo di giustizia. Nel suo esposto, tra l'altro, ha lamentato che presso il tribunale jonico: vi è l'orientamento di vendere all'asta, con poca o nessuna tutela per le parti; vi è poca turnazione dei magistrati, che gestiscono le aste ed anche degli ausiliari di questi ultimi; vi sarebbe prassi di vendere anche al limite di 20.000 euro, indipendentemente da quello che è il valore del bene espropriando, con la conseguenza che, a suo dire, alla fine, risulterebbero "pagati" solo i costi delle procedure;

la signora Montemurro non è l'unica ad aver lamentato condotte discutibili e inclini alle banche (solitamente creditrici procedenti) ed alle espropriazioni in genere da parte dei magistrati del tribunale tarantino, di volta in volta chiamati ad intervenire in questioni relative alle opposizioni alle aste immobiliari, in sede sia di cautela che di merito;

consta agli interroganti che anche il signor Vitantonio Bello abbia lamentato una tenace chiusura della magistratura jonica rispetto all'asta immobiliare in suo danno (n. 593/2011 R.G.E. del tribunale di Taranto), non ottenendo tutela nonostante le molteplici procedure incardinate e nonostante, in qualche provvedimento giurisdizionale, il magistrato estensore abbia riconosciuto la fondatezza della doglianza da lui sollevata. Nel caso di Bello l'asta immobiliare ha ad oggetto la casa ove vive con moglie e due figli minori (di anni 5 ed uno), a tal punto il signor Bello avrebbe anche interessato della sua vicenda la Presidenza della Repubblica e quest'ultima, di rimando, la Prefettura di Taranto;

sempre nella vicenda del signor Bello, la magistratura di Taranto, non accordandogli tutela e non sospendendo l'esecuzione, in un provvedimento giurisdizionale, ha sostanzialmente anche asserito che non vi sarebbe alcun vizio nel rapporto tra il medesimo e la banca, se pure l'istituto di credito, concedendogli più prestiti a distanza di poco tempo, era a conoscenza che lo stesso cliente non sarebbe stato in condizione di restituire il denaro (e ciò in considerazione di quella che era la sua valutata capacità di rimborso). A parere degli interroganti, nella stessa statuizione, vi sarebbe anche un'abnorme legittimazione della concessione abusiva di credito;

altra vicenda molto sintomatica della pervicace chiusura dei giudici di Taranto rispetto alla tutela da accordare agli esecutati e falliti è quella della signora Maria Spera (procedura esecutiva n. 590/1994 R.G.E del tribunale di Taranto). Vicenda che, nonostante non si sia ancora conclusa, ha registrato non poche forzature, con grave danno economico, psicologico e morale dell'esecutata. Addirittura la signora Spera ha lamentato un'illegittima duplicazione di titoli esecutivi, con cui l'intero suo patrimonio risulta ancora bloccato: 1) la procedura n. 590/1994 R.G.E., che si basa sul titolo esecutivo "mutuo fondiario" e che vede quale bene pignorato un terreno di 24 ettari (terreno a cui sarebbe interessato un facoltoso imprenditore locale, già socio di Emma Marcegaglia); 2) un decreto ingiuntivo, che si basa sullo stesso e medesimo debito, decreto con il quale è stato ipotecato l'intero restante patrimonio immobiliare della signora Spera. La vicenda, a giudizio degli interroganti, è tanto più inquietante se si pensa che il debito originario contratto dalla signora nel 1990 era a pari a 500 milioni di lire (corrispondenti a circa 258.000 euro) e la signora, alla data del 2007, ne aveva già restituiti 400.000 euro (corrispondenti a circa 800 milioni di lire);

ad oggi la signora Spera, nonostante il pignoramento del terreno, sottostimato dal tribunale di Taranto in poco più di 400.000 euro (somma che sarebbe più che capiente rispetto all'eventuale debito residuo, ove ne residuasse, visto che circa 400.000 euro sono stati già resi dalla signora alla Banca nazionale del lavoro), ha l'intero suo patrimonio ipotecato, in virtù dell'altro titolo esecutivo (il decreto ingiuntivo), emesso per lo stesso ed unico debito (che così è consacrato in 2 distinti titoli esecutivi). Pertanto, se la signora volesse vendere qualcosa per pagare eventuali residui debiti, non potrebbe farlo (e nemmeno è in condizione di onorare le esose tasse sulla proprietà, se non con gli aiuti dei figli);

la signora Spera ha riferito agli interroganti che, decorsi 10 anni dall'iscrizione dell'ipoteca sul suo patrimonio, in virtù del decreto ingiuntivo, nell'assenza di atti esecutivi (perché nel frattempo la procedura è andata avanti per la vendita del terreno pignorato sulla base del titolo esecutivo "mutuo fondiario"), ha chiesto la cancellazione dell'ipoteca, anche ritenendo la perenzione del decreto ingiuntivo, ma in risposta ha ottenuto dal tribunale tarantino il rigetto della sua legittima istanza (procedura n. 3291/2014 R.G. del tribunale). La questione pende in appello (causa n. 536/2014 R.G. della Corte di appello di Lecce, sezione di Taranto), ma la signora Maria Spera ritiene che incontrerà ancora l'illogico ed illegale ostacolo;

considerato, inoltre, che:

la signora Maria Spera ha riferito agli interroganti di aver presentato, presso il tribunale di Potenza (competente a valutare gli esposti nei confronti dei magistrati di Taranto), denuncia penale nei confronti dei magistrati ed ausiliari che, a suo parere, avrebbero male esercitato la funzione giurisdizionale, causandole danni; ma anche a Potenza ha dovuto prendere atto che, anziché ottenere tutela, ha solo registrato l'astio del pubblico ministero e la pessima sua azione. Allo stato la signora Spera, esecutata dal 1994, non ha ottenuto, né dai giudici di Taranto né da quelli di Potenza, la tutela che le leggi le garantirebbero ma che la magistratura (chiamata ad applicarle) le ha negato;

la vicenda è già balzata agli onori della stampa (sul settimanale tarantino "Wemag" del 12 novembre 2010) ed è stata anche oggetto di un'altra interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei deputati nel 2010 (4-07339 a firma dell'on. Zazzera dell'IdV, Legislatura XVI);

ad avviso degli interroganti, circostanza molto inquietante è quella per cui, sempre in danno della signora Spera, né la magistratura jonica (sia in sede civile che penale) né quella potentina (in sede penale) hanno inteso accertare l'usura che la signora stessa ha lamentato esserle stata applicata. Usura che è poi emersa nell'ambito di una causa civile sempre dinanzi al tribunale tarantino, in occasione di una consulenza di ufficio redatta (causa n. 7929/2009 R.G. del tribunale di Taranto);

considerato infine che:

i fatti lamentati, per quanto gravi, non sono isolati. Gli interroganti hanno preso atto anche di un'intervista fatta dalla televisione locale "Studio 100" a varie persone esecutate, che avrebbero descritto il quadro inquietante e ricorrente al quarto piano del tribunale di Taranto, destinato appunto alle esecuzioni e ai fallimenti: si racconterebbe di prassi illegali che, pur denunciate, non vengono sanzionate, di "avvoltoi" che si avvicinano agli esecutati, estorcendo denaro per rinunciare all'acquisto, per poi acquistare all'udienza di vendita successiva, con ulteriore ribasso del prezzo e aggravio di danno per le povere vittime;

a giudizio degli interroganti la delicatezza dell'argomento, sia per le gravose conseguenze sulle persone, che per i dubbi di opinabile esercizio della funzione giurisdizionale, impone interventi urgenti e forti,

si chiede di sapere:

se non ricorrano le circostanze per intraprendere le opportune iniziative ispettive, sia presso il tribunale di Taranto, che presso quello di Potenza, onde verificare se quanto lamentato dai soggetti coinvolti corrisponda al vero e, in caso di verifica positiva, se non ricorrano le condizioni di adozione dei necessari provvedimenti correttivi a tutela delle parti e del corretto esercizio della funzione giurisdizionale;

se, nell'ambito delle attività ispettive, il Ministro in indirizzo non ritenga di dover verificare: la sussistenza delle condotte descritte, con particolare riguardo ai rapporti con le banche e le società di recupero crediti, ai fini dell'eventuale adozione di provvedimenti sanzionatori da parte delle autorità competenti; se corrisponda al vero che, presso il tribunale di Taranto, si celebrano aggiudicazioni di immobili anche al di sotto della metà del loro valore, e comunque in violazione delle norme di legge;

se esista un obbligo di turnazione dei magistrati nelle sezioni di esecuzione immobiliare e fallimentare e, in caso positivo, se lo stesso venga rispettato presso il tribunale di Taranto e se il medesimo obbligo sussista rispetto ai consulenti e ausiliari vari.

Dr Antonio Giangrande

BATTAGLIE CIVILI. A piedi da Taranto a Napoli. La sfida di un avvocato per accendere un faro sul sistema malato della Giustizia. Passo dopo passo per raccontare e sfidare il sistema delle aste giudiziarie e della malagiustizia in alcuni tribunali. Giusi Cavallo il 26 Maggio 2020 su basilicata24.it. Raggiungerà Napoli a piedi, per andare a depositare una denuncia contro “il sistema delle aste fallimentari”. E’ partita ieri da Taranto, l’avvocato Anna Maria Caramia. Percorrerà circa 310 chilometri per sfidare quello che definisce “un sistema che insabbia e copre”. “Porto con me - spiega - le persone esecutate che hanno perso tutto quello che avevano a causa di una procedura fallimentare di cui ho denunciato anomalie e irregolarità.” Napoli sarà l’ultima tappa di un viaggio alla ricerca di giustizia, cominciato da Taranto, approdato poi a Potenza, dove sono finiti i fascicoli riguardanti magistrati in servizio al tribunale pugliese, Catanzaro, competente sui giudici potentini, e Salerno, sede competente sui magistrati calabresi. Il Palazzo di Giustizia partenopeo, dunque, per l’avvocato, sarà l’approdo finale per tentare di accendere un faro su quanto denunciato in questi anni nel settore delle aste fallimentari tarantine e di cui anche questo giornale si è occupato più volte. “La sfida, passo dopo passo”- così l’ha chiamata l’avvocato Caramia che aggiunge: l’ho intrapresa in un momento storico in cui si registra una totale sfiducia nella magistratura; ci sono anch’io a tentare di dimostrare come davvero non sia più tollerabile il sistema di abusi che, il più forte potere dello Stato, ha adottato e porta avanti, in danno della gente,  per realizzare finalità del tutto estranee all’amministrazione della giustizia. Inevitabile il riferimento a quanto emerso in questi giorni dopo la pubblicazione di intercettazioni che coinvolgono alcuni magistrati: “Ha ragione lui ma dobbiamo colpirlo”, le ultime parole attribuite a Palamara per me non sono una novità, ma la regola: io lo so bene-sottolinea l’avvocato in cammino- che quando vergo atti e difendo la gente (e me stessa) ho ragione, e anche loro lo sanno… Ma mi devono colpire, a prescindere e per posizione presa!” Sono infatti numerose le denunce che lo stesso avvocato ha ricevuto “per aver avuto l’ardire di scoperchiare il sistema delle aste fallimentari”. “E così, in occasione della mia ultima denuncia contro il malaffare giudiziario aggiunge- ho deciso di non lasciare il mio atto di accusa semplicemente depositato in un Palazzo, in attesa dei tempi che poi mostrano il nulla incartato in fascicoli (quando non invertono i ruoli e da parte offesa ti ritrovi indagata). No, questo mio atto lo accompagno, passo dopo passo, a piedi, sino a Napoli. La mia iniziativa vuole portare la giustizia fuori dai palazzi, dove spesso viene frustrata e svilita, e farla camminare sulle mie gambe, per strada. La sfida… passo dopo passo ha anche un’altra valenza: dopo la sfida a me stessa, se dovessi vincerla, essa diventerà la mia sfida al sistema, a coloro che non ci pensano due volte a distruggere la gente, con lo strumento del processo e al calore della legge. La mia è un’iniziativa che sa di strano anche a me - conclude - ma quando una le tenta tutte ed ottiene solo il nulla, con aggravio di pesi, cosa può fare se non rendere il proprio lavoro anche una protesta? L’avvocato durante il percorso viene seguita in auto da due esecutati che l’assisteranno in caso di bisogno. Quella stessa auto sarà il suo letto per la notte, le fontane che troverà lungo il percorso, il suo bagno per lavars. Vivrà questi giorni come molti dei suoi assistiti, finiti per strada, dopo aver perso tutto. Per raccontare la sua sfida Caramia ha creato un gruppo Facebook a cui tutti coloro che condividono la sua battaglia possono iscriversi.

Liberoreporter.it 9 febbraio 2020. Accade in Italia. Caso Di Napoli: si chiede urgente intervento Ministro Giustizia e Procuratore Generale Corte Cassazione. Ricusa e cita in giudizio i magistrati che ignorano le sue richieste nell’ambito di un giudizio per la revoca di un singolare fallimento e che ritiene diversi dal giudice naturale: arrestata vittima di usura (con oltre 35 processi e assoluzioni e dopo un recente intervento per un tumore) quando la legge prevederebbe la multa o la condanna per lite temeraria. Chi ha interesse a tappargli la bocca e alla conferma di una singolare e paradossale procedura fallimentare? Chi ha determinato, finora, l’impunità dei responsabili di usura determinando la prescrizione del reato? Luigi Di Napoli cammina con le stampelle dal 9 settembre 1988, ossia, da oltre 30 anni, da quando, all’epoca imprenditore e in coincidenza con alcune battaglie contro un appalto “truccato” e dopo essere stato minacciato, venne sparato. Le uniche minacce che aveva ricevuto erano su una bobina. Fu lui ad essere processato, sospettato di avere potuto manipolare la cassetta. Il nastro fu esaminato e, dopo 8 anni, fu assolto con formula piena. Nel 1990, invece, a Gallipoli, chiedeva che i Carabinieri impedissero l’installazione di una recinzione metallica e la colata di cemento sulla scogliera. Fu processato per minaccia a pubblico ufficiale e successivamente applicata anche la misura dell’obbligo di dimora con onere di presentarsi due volte ai giorno in caserma per firmare. Anche in questo caso fu, poi, assolto. Dopo qualche anno, divenuto proprietario di un patrimonio che oggi varrebbe non meno di 50 milioni di euro, contestò le pretese bancarie che, fondate su rapporti instaurati alla fine degli anni ’70, erano determinate con applicazione di interessi e commissioni mai validamente pattuite e, tra l’altro, con capitalizzazione mensile. Nel 1999, il Tribunale di Lecce aveva dichiarato che la società di Di Napoli (Dinauto s.a.s.) non potesse fallire in quanto i crediti erano contestati e non vi era uno stato di insolvenza dato oltretutto che il patrimonio era di gran lunga superiore alle pretese previamente contestate. Ottiene, anzi, lui due decreti ingiuntivi, rispettivamente, contro le banche che invocavano il suo fallimento. Viene data la notizia su Il Messaggero del 13 novembre 2000 del decreto ottenuto contro una delle due. I rappresentanti di una delle 2 altre banche, invece, erano indagati per usura avendo preteso tassi di interesse fino al 292%. Il rigetto delle istanze di fallimento viene reclamato dalle tre banche. A fine novembre 2000, la Corte d’Appello di Lecce, con una composizione del collegio che Di Napoli ritiene anomala visto che due membri avevano i rapporti con le stesse banche reclamanti il fallimento, ordina il fallimento. Dopo varie astensioni e ricusazioni dei giudici, la procedura fallimentare viene affidata a un giudice che (mentre la legge impone di formare il passivo “sentito il fallito”), dopo avere ricevuto la notifica di una citazione a giudizio per danni da parte di Di Napoli, all’udienza fa uscire questo (incensurato e con le stampelle) dall’aula da un poliziotto. Il curatore nominato con la sentenza di fallimento (che, all’epoca era anche Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Lecce), rinuncia all’incarico in quanto il Giudice pretendeva che chiedesse la vendita dell’abitazione di Di Napoli malgrado vi fossero 80 lotti e sebbene la giurisprudenza fosse concorde nel vendere per ultima la “casa del fallito”. Vari curatori designati non accettano l’incarico che viene affidato a un commercialista. Viene formato un passivo ammettendo le pretese bancarie con criteri che Di Napoli contesta. La legge e la giurisprudenza costante affermano che, in sede di ammissione al passivo fallimentare, la banca deve produrre la documentazione contrattuale e tutti gli estratti conto per far comprendere come si sia formato il saldo: altrimenti la domanda di ammissione del credito viene esclusa. In ogni caso, i rapporti sorti anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 385/1993, con applicazione di interessi “usi piazza” o senza alcuna valida pattuizione, devono essere rideterminati con applicazione degli interessi al tasso legale. Nel caso di Di Napoli i crediti vengono ammessi con applicazione del tasso massimo dei BOT previsti dal d.lgs. 385/1993 che, ai sensi dell’art. 161, non è retroattivo (come confermato dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 338/2009). Il patrimonio fa gola a molti visto che è costituito da oltre 80 lotti tra appartamenti, box e suoli edificatori invidiabili in quanto siti in una zona dove i terreni limitrofi non sono edificabili. Di Napoli, già nel 2005, fu costretto alla misura degli arresti domiciliari da maggio a fine settembre con l’accusa di avere falsificato il provvedimento - che aveva provveduto a trascrivere- col quale sosteneva che la sentenza di fallimento fosse sequestrata. Nel frattempo, nell’ambito del processo penale sorto in seguito alla denuncia presentata da Di Napoli fin dal 1996, vengono rinviati a giudizio per usura i responsabili della Banca Popolare Pugliese (il Presidente e il Direttore Generale dell’epoca) ma, proprio mentre nella procedura fallimentare (i cui istanti, si ripete, erano tre banche tra le quali proprio la Banca Popolare Pugliese) Di Napoli contesta il passivo formato da un Giudice Delegato (subentrato ad altri) sua controparte, all’udienza preliminare il GUP (dott.ssa Pia Verderosa) proscioglie gli imputati. La sentenza viene impugnata sia dalla Procura sia dallo stesso Di Napoli. La Corte d’Appello di Lecce conferma il proscioglimento che, però, viene annullato dalla Corte di Cassazione che accoglie il ricorso di Di Napoli e della Procura rinviando alla Corte d’Appello di Lecce. Quest’ultima, nel dichiarare la morte di uno dei due imputati, non si limita a dichiarare l’estinzione del reato per tale fatto, ma accerta e dichiara i tassi elevatissimi (fino al 202%) che l’imputato si era fatto promettere e pretendeva quale rappresentante della stessa banca che aveva chiesto (ottenendolo) il fallimento della Dinauto. La stessa Corte d’Appello, in conformità a quanto deciso dalla Cassazione, rinvia al Tribunale, invece, il processo a carico dell’altro imputato. Il Tribunale di Lecce, tuttavia, nel marzo 2015, dichiara la prescrizione del reato. Su ricorso della Procura Generale e della persona offesa Di Napoli, la Corte d’Appello di Lecce il 22 gennaio 2020 conferma la prescrizione del reato. Ritorniamo alla sentenza di fallimento (del 2000) che fu confermata in primo e secondo grado (rispettivamente, nel 2003 e nel 2006). I giudici dell’appello, però, erano gli stessi membri che, negli anni prima, avevano conosciuto della stessa procedura. Di Napoli propone ricorso per Cassazione che, nel 2008, viene accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Bari. Nel frattempo, però, tutti i suoi beni sono stati venduti tanto che, ad ottobre 2006, nonostante avesse anche ottenuto la sospensione ex art. 20 l.44/99 (sospensione in favore delle vittime di usura ed estorsione), viene sottoposto ad un’esecuzione per rilascio (al terzo accesso tra giugno e ottobre, periodo nel quale a Gallipoli era impossibile trovare altra abitazione per uno, tra l’altro, senza un centesimo), subendo, con la sua famiglia, un’esecuzione con circa una dozzina tra poliziotti e carabinieri che impediscono l’accesso a qualsiasi testimone. Finisce buttato sul divano in mezzo alle scale del condominio in “stato catatonico” e in stato di arresto perché, mentre trascinano il divano con lui sopra che urlava per il dolore alla gamba, si frantuma un bicchiere di vetro e un poliziotto sostiene di essere stato colpito. Portato in ospedale (e la famiglia con una figlia che allora aveva 8 anni, in una stanza di albergo), resta oltre un mese agli arresti domiciliari. Dopo qualche anno, ancora una volta, viene assolto con formula piena perché il fatto non sussiste. Nel 2014, scopre di avere una neoformazione al rene destro. Chiede alla procedura fallimentare la chiusura del fallimento non potendoci essere un “passivo” lecito e la restituzione del residuo del ricavato, oppure, quantomeno l’importo occorrente e preventivato dal Prof. Patrizio Rigatti che gli avrebbe tolto la cisti e salvato l’organo. Gli viene negato. Nel febbraio 2018, la situazione si aggrava in quanto urina sangue. Riformula l’istanza e viene autorizzato a farsi operare a spese della procedura ma, ormai, l’intervento conservativo non è più possibile e il 17 agosto 2018 gli viene asportato il rene. Alla Corte d’Appello di Bari, tra il 2009 e il 2018, è costretto a presentare svariate ricusazioni chiedendo la sostituzione di magistrati per vari motivi; alcuni li cita in giudizio. Lamenta, infatti, principalmente, il mancato rilascio di copie autentiche degli atti del fascicolo o la mancata adozione di provvedimenti contro i responsabili delle banche resistenti visto che quel passivo fu formato con criteri non conformi a quanto prescritto dalla legge e dalla giurisprudenza in materia bancaria e visto anche che, nel 2012, la Corte d’Appello di Lecce, nel dichiarare la morte di uno degli imputati di usura ai suoi danni, accertò e dichiarò che le pretese nei suoi confronti erano pari al 292% di tasso di interesse. La ricusazione, prevista dall’art. 52 c.p.c., al contrario di quanto previsto dalla norma, così come chiarito dalla giurisprudenza di merito e di legittimità costante, non sospende il giudizio che, dunque, potrebbe continuare. Ciononostante, a febbraio 2018, il Presidente di Corte d’Appello di Bari Franco Cassano, vedendosi pervenire le richieste di astensione da parte dei giudici componenti il collegio, ha, dapprima, trasmesso un esposto al Consiglio di Disciplina contro l’avv. Rigliaco, difensore di Di Napoli, nonché alla Procura sostenendo che, in tal modo, Di Napoli vorrebbe ritardare l’accertamento definitivo dell’insolvenza. Non considera, però, evidentemente, che l’insolvenza fu già dichiarata (forse, illegittimamente) nel 2000 e i beni sono stati già tutti svenduti. Che interesse avrebbe Di Napoli, con le stampelle da 30 anni e che non ha mai avuto la serenità per sottoporsi ad intervento chirurgico, che ha dovuto subire l’asportazione di un rene (che, probabilmente, sarebbe stato curato se gli organi fallimentari avessero dato l’importo occorrente nel 2014), a cui viene negato anche l’importo sufficiente per acquistare una qualsiasi autovettura per agevolarlo nel trasporto, con una moglie anche lei invalida, a ritardare la definizione di un processo che, se fosse accolta la sua opposizione, potrebbe sfociare con la revoca della sentenza di fallimento o, al contrario, con la conferma? Essendo già stati venduti i suoi beni, certamente il fine non può essere quello di ritardare le vendite. L’ordinanza di arresti domiciliari afferma che Di Napoli evidentemente non avrebbe avuto giovamento dal suo pregresso giudiziario. Ma quale è il vero pregresso giudiziario? Oltre 35 processi definiti con sentenza di assoluzione tanto che, anni fa, lo stesso Tribunale di Salerno, condannandolo per calunnia, lo definiva sostanzialmente incensurato. Quella sentenza di condanna, poi, fu riformata dalla Corte d’Appello che, anche quella volta, lo assolse con formula piena con una pronuncia confermata anche dalla Corte di Cassazione che dichiarò inammissibile il ricorso del Procuratore Generale della Corte d’Appello di Salerno. Ma, prima ancora: come si fa a pensare che una persona sempre assolta dalle accuse subite nelle sue battaglie e, spesso, perfino rinunciando alla prescrizione, abbia voluto interrompere un pubblico servizio e, cioè, l’amministrazione della Giustizia, con le ricusazioni e citazioni a giudizio, se la giurisprudenza stessa è sempre stata conforme nel ribadire che la ricusazione non sospende il processo e la citazione a giudizio del magistrato per danni derivanti dallo stesso processo in corso non obbliga il giudice ad astenersi? Il 2 settembre 2019, il Tribunale del riesame ha revocato la misura degli arresti domiciliari sostituendola con quella dell’obbligo di dimora a cui Di Napoli, pur decorsi 5 mesi, è ancora sottoposto. Il 12 ottobre e il 14 novembre si sarebbero tenute le udienze del giudizio di opposizione alla sentenza di fallimento nell’ambito del quale Di Napoli ha più volte sostenuto che quel passivo fallimentare (a causa del quale sono stati svenduti beni del valore effettivo di oltre 40 milioni di euro) è stato formato con criteri illegittimi da un giudice che era sua controparte. Il giudizio (avente ad oggetto, quindi, materia fallimentare) è stato assegnato alla Sezione Lavoro e Di Napoli ha dovuto affrontare l’udienza senza potere esercitare un suo diritto fondamentale alla ricusazione (visto lo stato di soggezione in cui si trovava e la misura da cui era stato colpito). Ma perché la Corte d’Appello di Bari non ha mai esaminato la validità del passivo fallimentare malgrado i vizi rilevabili d’ufficio? Come mai si è consentito di svendere suoli edificatori malgrado gli organi fallimentari avessero chiesto ed ottenuto la certificazione urbanistica come “suoli agricoli in stato di abbandono e incolti”? Possibile che nessun giudice né di Lecce né di Bari ha mai adottato alcun provvedimento contro i responsabili di pretese palesemente illecite (tassi fino al 292%) e che si lascia continuare a resistere nel giudizio per la revoca del fallimento? E’ proporzionata una misura di arresti domiciliari a carico di un incensurato, con le stampelle da 30 anni, senza disponibilità economica, con un rene tolto per tumore e che avrebbe bisogno di serenità e di cure per interruzione di pubblico servizio che sarebbe consistito nell’essere promotore ed organizzatore unicamente del suo avvocato di ricusazioni che, per giurisprudenza costante, nemmeno determinerebbero la sospensione? Si vorrebbe confermare il fallimento senza consentirgli di difendersi, di muoversi, di parlare e senza, così, che sia esaminato il passivo fallimentare? Chi ha determinato la prescrizione del reato di usura a carico dei responsabili della Banca Popolare Pugliese che avevano chiesto ed ottenuto il fallimento? Di certo non la persona offesa Di Napoli visto che gli imputati erano stati prosciolti, nel 2005, con una motivazione confermata dai giudici dell’appello penale nel 2008 ma che la Cassazione, invece, nel 2009 ha annullato ritenendo, quindi, che il processo penale doveva continuare. Ha sbagliato Di Napoli a denunciare fidandosi dello Stato, oppure, visto che la Cassazione ha annullato i proscioglimenti del 2005 e del 2008, avevano sbagliato i giudici a prosciogliere determinando, così, la prescrizione e l’impunità dei responsabili? Il paradosso nella vicenda già kafkiana è che, nel processo penale, la stessa curatela fallimentare, con l’avvocato penalista, chiedeva la condanna dell’imputato di usura (l’ex responsabile della Banca Popolare Pugliese) e il risarcimento dei danni proprio riconoscendo che la condotta della banca ha determinato il fallimento dell’impresa di Di Napoli. Nel giudizio per la revoca del fallimento, a Bari, però, la curatela si oppone alla revoca: come è possibile? Forse qualche possibile spiegazione è nella singolare difesa: la Banca Popolare Pugliese è difesa dagli avvocati Giuseppe Dell’Anna Misurale e Amelia Misurale mentre la curatela fallimentare (che dovrebbe rappresentare, oltre che i presunti creditori, anche “il fallito”) sarebbe difesa dall’avvocato Raffaele Dell’Anna (padre di Giuseppe Dell’Anna e marito dell’Avv. Amelia Misurale). E’ evidente il conflitto di interesse ai danni di Di Napoli (visto che, oltretutto, il difensore della curatela sarebbe pagato con il denaro ricavato dalle “svendite”). Il 12 novembre 2019, l’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio avente ad oggetto l’opposizione avverso la sentenza di fallimento si è tenuta dinanzi ai Giudici della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Bari ma, come lamentato da Di Napoli, nella privazione dei suoi diritti fondamentali visto che, minacciato con una tale grave misura a cui è ancora sottoposto, non poteva ricusarli pur confidando nella loro astensione e restituzione del fascicolo per l’assegnazione ai giudici competenti secondo i criteri tabellari. Il prossimo 20 febbraio si dovrebbe tenere l’udienza di discussione con la parte ingiustamente limitata nella libertà con una misura che sembra più un tentativo di intimorirlo e privarlo, in tal modo, di un suo diritto quale è quello della ricusazione dei magistrati che non ritiene compatibili. Sarebbe il caso che intervenga immediatamente il Ministro della Giustizia e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione. E’ stata presentata interrogazione parlamentare dal Sen. Elio Lannutti. Si faccia luce su questo fallimento e su chi stia cercando di legittimare le vendite di un ingente patrimonio della vittima di usura, di estorsione e di lesioni gravi.

Usurati ed esecutati. Aste giudiziarie fallimentari. Il marcio sotto il tappeto: chi si scusa si accusa.

Il business delle Aste giudiziarie fallimentari e della gestione dei beni confiscati a presunti mafiosi.

L’intervento del dr Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sono presidente di una associazione Antiracket ed Antiusura, riconosciuta dal Ministero dell’Interno perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia, finchè lo permetteranno. La mia peculiarità è quella di essere presidente di una associazione che non prende soldi da alcuno, né ha agganci politici o istituzionali. Per tale carica e per la mia storia sono l’unico destinatario delle lamentele di migliaia di cittadini usurati ed esecutati da tutta Italia. Accuse tutte uguali: sfiducia nella giustizia e nelle istituzioni. La mia risposta a costoro è una sola: non caverete un ragno dal buco.

L’assunto è provato dal mio libro “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”. Saggio che raccoglie le storie piccole e grandi sparse in tutta Italia. Storie come quelle di cui si parla in questo periodo al tribunale di Taranto: Foro chiacchierato per questa e per altre vicende. Ma del chiacchiericcio si deve tacere, altrimenti capita quello che capita a me: perseguitato dalla magistratura di Taranto e Potenza perché oso parlarne.

Da tempo mi chiamano i cittadini tarantini per denunciare anomalie nella gestione delle aste giudiziarie fallimentari e di questi ne ho fatto un gran fascio, oggetto di prove, veicolati presso uno studio legale che le raccoglie. Solo in questo periodo è montata la polemica per la presentazione di interrogazioni parlamentari, che ha permesso di parlare pubblicamente del fenomeno senza ritorsioni e stranamente si è parata un’alzata di scudi a spada tratta da parte delle corporazioni coinvolte: Excusatio non petita, accusatio manifesta, ossia, chi si scusa si accusa.

Ma provare a chi? Ai magistrati?

Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!! Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto. A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni. Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi. Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni. Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero. Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure...Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto. L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa. La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie. Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili. Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”. Aste, stop alle accuse: “rispettate tutte le leggi”, scrive Campicelli su “Il Quotidiano di Puglia”. Il presidente del Tribunale di Taranto Francesco Lucafò respinge con fermezza qualsiasi insinuazione su “condotte non lineari” nell’esercizio delle funzioni svolte dai magistrati tarantini impegnati sul fronte delle esecuzioni immobiliari e delle aste giudiziarie: «La legge è chiara e le procedure si rispettano fino in fondo».

Già perché nei tribunali si rispettano le leggi? A questa domanda risponde un ex magistrato antimafia.

Ingroia: «Il tribunale di Roma ignora il lavoro dei pm nisseni». L’ex pm aveva chiesto che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara venisse ascoltato come teste assistito nel processo sul riciclaggio del tesoro di Ciancimino, scrive il 2 novembre 2015 "Il Corriere del Mezzogiorno". «Sono rimasto sorpreso della decisione del tribunale di Roma di non acquisire gli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta e del Consiglio Superiore della Magistratura sull’ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e di non ascoltare l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara nella veste di teste assistito. Una decisione che trovo assolutamente incomprensibile e che rende purtroppo più difficile la ricerca della verità». Lo dichiara l’avvocato Antonio Ingroia, difensore di Raffaele Valente e del rumeno Victor Dombrovschi. «Il collegio - aggiunge Ingroia - ha totalmente ignorato le evidenti connessioni probatorie esistenti tra il processo di Roma e l’inchiesta di Caltanissetta, che vede indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la giudice Silvana Saguto per fatti gravissimi all’esame del Csm e su cui si è pronunciato in modo netto anche il ministro della Giustizia Orlando. Nel procedimento romano, infatti, risultava che Cappellano Seminara era stato nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati, e sequestrati proprio grazie alle informative di Cappellano Seminara: come si può negare che ci sia una connessione con quanto emerso nelle ultime settimane a Palermo? La logica suggerisce di sì e invece il tribunale ha deciso di ignorare il lavoro dei pm nisseni. Evidentemente - conclude Ingroia - meglio non sentire, non vedere, non sapere. Ma non è così che si accerta la verità e si fa giustizia».

Ma provare a chi? Agli ispettori ministeriali?

Se, come è stato evidenziato nell’interrogazione parlamentare, tutto è stato insabbiato a Potenza, come può desumersi fonte di prova un atto che non si trova o che sia già valutato negativamente dal sistema giudiziario? E comunque, il Ministero della Giustizia, (andando contro corrente, anche in virtù delle risultanze di una certosina ispezione senza condizionamenti ambientali, da cui risultasse un sistema criminale collusivo non certificato dai magistrati), promuovesse un’azione disciplinare nei confronti dei responsabili, quale risultato ne conseguirebbe, se non un esito scontato?

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GIUSTA CAUSA di Claudia Di Pasquale

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO:…ma un procedimento disciplinare del CSM a carico di un magistrato può durare fino a 5 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE: Ogni anno quanti procedimenti vengono invece archiviati?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: La media è il 94% circa.

CLAUDIA DI PASQUALE: Che cosa?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: Delle archiviazioni sul numero degli esposti. Noi facciamo azione disciplinare sul 7% degli esposti.

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA: Quando un magistrato prende uno svarione nessuno gli fa un procedimento disciplinare.

Ma provare a chi? Ai Prefetti in funzione antiusura ed antiracket?

Nella migliore delle ipotesi, da rappresentanti istituzionali e governativi, ti impediscono di parlare di usura bancaria e di aste truccate, come di malagiustizia in generale; nella peggiore delle ipotesi si parla di Prefetti arrestati o condannati, come Ennio Blasco per corruzione in relazione alle certificazioni antimafia rilasciate, o Carlo Ferrigno per usura e sesso in cambio di aiuto o agevolazioni.

Ma provare a chi? Agli avvocati?

Avvocati? A trovarne uno meritevole di tale appellativo è un’impresa. E se lo trovi te lo tieni stretto, pur essendo sempre un avvocato, coi i suoi difetti e con i suoi pregi. Il fascio di prove sono in mano ad un avvocato coraggioso di Massafra, che per ripicca è isolato ed accusato di Stalking giudiziario. Per altro gli avvocati di Taranto hanno preso una netta posizione.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la Giustizia per scopi elettorali», Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: “preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi”, scrive Enzo Ferrari su "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Ma provare a chi? Ai commercialisti?

Vicenda Aste pilotate, i commercialisti: fiducia nei magistrati, scrive Marcella D'Addato il 15 novembre 2016 su "Canale 189”.

Ma provare a chi? Ai politici parlamentari?

I due parlamentari di Taranto (avvocati) scrivono al ministro per difendere la sezione fallimentare del tribunale. Chiarelli e Pelillo evidenziano quelle che ritengono le estraneità assolute con fatti riguardanti la malavita e attaccano i parlamentari M5S che chiedono di chiarire presunte anomalie, scrive il 16 novembre 2016 “Noi Notizie”.

La polemica. Abusi nella gestione dei fallimenti, bufera sul Movimento 5 Stelle. Pelillo e Chiarelli scrivono al ministro Orlando e attaccano i senatori pentastellati, scrive "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016. Diventa un caso politico la polemica sollevata da un gruppo di senatori del M5S su presunti abusi nella gestione dei fallimenti al Tribunale di Taranto. La reazione parlamentare all’interrogazione dei Cinquestelle arriva in modalità bipartisan con una lettera congiunta degli onorevoli Michele Pelillo (Pd) e Gianfranco Chiarelli (CoR) indirizzata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una lettera nella quale, oltre a esprimere incondizionata fiducia agli operatori della giustizia, i due deputati accusano i senatori del M5S di aver voluto strumentalizzare politicamente situazioni che neppure conoscono.

Ma provare a chi? All’antipolitica parlamentare?

Aste Immobiliari del Tribunale di Taranto, il Meetup amici di Beppe grillo di Massafra risponde, scrive "Vivi Massafra” il 16 Novembre 2016. «Ma quali fini elettoralistici… il movimento 5 stelle non ne ha bisogno, cammina sulle sue gambe, anzi corre, e meno male che c’è!" Meetup Amici di Beppe Grillo Massafra». Da sapere che i 12 senatori della prima interrogazione che ha innescato la polemica ed i 15 senatori della seconda interrogazione sono quei parlamentari che hanno votato contro la responsabilità civile dei magistrati. Ergo: per la loro assoluta impunità ed irresponsabilità! Inoltre è risaputo il fenomeno dei concorsi pubblici farsa o truccati. Allora perché non chiedere ai rappresentanti delle categorie interessate pronti ad aprir bocca, come loro sono stati abilitati?

Ma provare a chi? Al regime omologato dell’informazione, che ha anch’essa assoluta fiducia nella magistratura?

Da premettere che ricevo segnalazioni di inchieste a carico di magistrati ed avvocati delle quali nessuno ha mai saputo nullo, compreso l’inchiesta sul bilancio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Ma è esemplare come la vicenda delle aste giudiziarie fallimentari a Taranto con conseguente interrogazione parlamentare e ispezione ministeriale a gennaio 2017, sia rimasta censurata sulla stampa nazionale e locale, salvo casi eccezionali. Nella cerchia nell’eccezionalità, nella maggioranza dei casi, però, deformando la realtà. Si pensi che il video della intercettazione privata ambientale in cui si dimostra la concussione di un delegato giudiziario è stato pubblicato da un giornale non tarantino, non pugliese, ma da un giornale lucano. E comunque nessuno ha avuto il coraggio di fare il nome dell’avvocato coinvolto a chiedere la presunta tangente.

Su come sono stati trattati i fatti vi è un esempio lampante: “Caso aste giudiziarie a Taranto, un'inchiesta per fare chiarezza. La procura farà chiarezza sulle denunce arrivate dagli agricoltori”. Servizio di Francesco Persiani del 9/11/2016 su TeleNorba. Breve intervista a Paolo Rubino, Tavolo Verde agricoltori: «Non possiamo che registrare una grande sfiducia nelle istituzioni. In questo caso della Magistratura». Il resto dell'intervista dedicata all'Avv. Fedele Moretti, Presidente Camera Procedure ed Esecuzioni Immobiliari. «La Procura indagherà, partendo dai servizi giornalistici di questi giorni, ritenute possibili notizie di reato e per questo acquisiti dall’autorità giudiziaria su disposizione del procuratore capo presso il Tribunale di Taranto Carlo Maria Capristo», chiosa Persiani.

Servizi giornalistici? Lo studio legale che ha il fascio di prove sulle aste di Taranto è tenuta ben lontana dagli autori dei servizi giornalistici mai nati. Perché? Perché i giornalisti son di sinistra e son amici dei magistrati. Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali? Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano.

Tra gli omologati spicca la figura dell’eccezione. «Cane non morde cane. Le certezze del sistema e i dubbi dei cittadini. Sul caso delle aste pilotate al tribunale di Taranto e delle facili archiviazioni alla Procura di Potenza levata di scudi contro i Cinque Stelle e la nostra inchiesta. A quando la verità? - Scrive Michele Finizio su "Basilicata 24", mercoledì 16/11/2016. - Può darsi che quanto raccontato negli esposti dei cittadini vittime delle “presunte” irregolarità sia tutto falso, Oppure tutto vero. Basta fare qualche verifica. Eppure, a quanto pare, tutti i signori della giustizia, della politica, delle professioni, della stampa, non hanno dubbi: “Tutto regolare”. Vorremmo toglierci il dubbio anche noi, per questo il nostro lavoro di inchiesta sulla vicenda, continua. A presto rivederci».

Ma provare a chi? Agli usurati esecutati?

Le vittime, accusate di mitomania o pazzia, anziché fare un fascio di prove aggregandosi tra loro, anche per rompere il velo di omertà e censura, pensano bene di smarcarsi e fare guerra a sé per salvare il proprio orticello.

La conclusione di questo mio intervento, quindi, è che ogni vittima di qualsivoglia ingiustizia non caverà mai un ragno dal buco perché per gli altri sarà sempre “Tutto Regolare”, mentre per quanto riguarda se stessi: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

E comunque, dopo quanto ho scritto, non mi si chieda perché il mio sodalizio si chiama Associazione Contro Tutte le Mafie. Il perché dovrebbe essere chiaro…

La casa acquistata 23 anni fa all’asta non è mai stata sua: colpa di un timbro. Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Quello che ha in mano è solo un pezzo di carta inutile. Se non fosse privo «del timbro di deposito nonché dei numeri apposti dal cancelliere a seguito del deposito», come ha scritto il giudice, non l’avrebbero sfrattata dalla casa che 23 anni fa fu comprata all’asta dal Tribunale di Milano e dalla quale a 48 anni con il figlio di 13 dovrà uscire il 4 marzo, se necessario trascinati dalla forza pubblica. Una storia kafkiana dove la fredda forma vale più della sostanza, in cui la giustizia ha provato a fare giustizia, senza riuscirci. Tutto comincia il 21 aprile del 1993 quando la sezione fallimentare del Tribunale di Milano aggiudica per 139 milioni di lire ad un signore di Rho (Milano) un bilocale a Legnano (Milano) messo all’asta dopo un fallimento. Nel 2004 l’acquirente muore lasciando la casa alla moglie e al figlio i quali, tre anni dopo, si accorgono che risulta ancora intestato al fallito. Come scrive il 31 luglio del 2019 l’attuale presidente della sezione fallimentare di Milano, Alida Paluchowski, in un documento che ripercorre la vicenda, il decreto di trasferimento della proprietà non era mai stato emesso. «Avrebbe dovuto essere predisposto su iniziativa del curatore (fallimentare, ndr)», firmato dal giudice delegato e dal cancelliere e inviato agli uffici competenti per essere annotato sui registri immobiliari che attestano la proprietà. A quel punto gli eredi chiedono al Tribunale che venga emesso un nuovo decreto, affidandosi alla difesa dello stesso avvocato che era stato curatore del fallimento e che, annota Paluchowski, «in posizione di evidente conflitto di interessi», richiedeva il decreto di trasferimento all’ allora presidente il quale, «animato si ritiene dalla buona volontà di consentire la trascrizione e sanare l’anomalia», nonostante il fallimento fosse stato chiuso da anni, firmava il 7 gennaio 2008 una «bozza» di decreto. Ne ha una copia il figlio erede dell’acquirente, come ce l’ha dell’analogo decreto del ’93,e degli assegni con i cui il padre pagò la casa per 126,6 milioni di lire e del verbale di aggiudicazione. Risulta anche che i 18,6 milioni di lire sborsati per il trasferimento sono rimasti inutilizzati nel fascicolo del fallimento in Tribunale fino al 2010. Poi sono stati incamerati da Equitalia. Il legale in questione ha rivendicato la totale correttezza del suo operato. Quella che sembrava una storia a lieto fine, visto che tutto si è svolto di fronte alla magistratura, anni dopo si trasforma in un incubo dal quale i protagonisti/vittime non si sono ancora svegliati: anche il secondo decreto di trasferimento della proprietà non risulta emesso ufficialmente. Dopo la morte del fallito, infatti, i suoi eredi si sono resi conto che l’appartamento era sempre intestato al loro parente ed hanno, loro sì correttamente, trasferito la proprietà a sé stessi. Tutto formalmente regolare. Non solo, dato che nella casa vivono la ex compagna del figlio dell’acquirente e il figlio della coppia, nel 2016 hanno fatto causa alla donna che il 21 giugno scorso è stata condannata dal Tribunale di Busto Arsizio (Varese) a lasciare l’immobile e a pagare 70 mila euro per affitti arretrati e sanzioni. Nella causa, la signora ha fatto emergere la assurdità della vicenda, ma alla fine il giudice non ha potuto fare altro che rilevare che i documenti presentati non avevano i timbri necessari a dimostrare che siano stati depositati e che la proprietà non è stata mai trasferita. «Proveremo la strada dell’ usucapione e speriamo che si possa sospendere lo sfratto», dice l’avvocato Maria Teresa Minniti che lavora ad una soluzione.

·         La Mangiatoia degli incarichi professionali nelle procedure fallimentari.

Foggia, la cura per le curatrici. Telenorba 03-03-2020. Relazioni sentimentali,e non solo,all'ombra di una montagna di fallimenti.A foggia,un giudice fallimentare prima affidava le curatele, e poi si curava delle avvocatesse alle quali le concedeva. Ma per la procura di lecce, che per competenza ha condotto l'inchiesta,non ci sarebbe alcun reato. Anzi, il tutto sarebbe da archiviare, perchè dalle indagini sarebbe emerso che le vicende personali non avrebbero affatto intaccato o condizionato l'attività d'ufficio.

Una ristretta cerchia di professionisti si spartisce la torta dei salvataggi aziendali. Tra incarichi assegnati senza gara, scambi di favori, lungaggini burocratiche. Intanto, dall'Ilva all'Alitalia fino a Mercatone Uno, decine di migliaia di lavoratori rischiano il posto. Vittorio Malagutti il 16 gennaio 2020 su L'Espresso. Nell’Italia con il motore in panne e il Pil stagnante c’è un settore che non conosce crisi. Anzi, viaggia a gran velocità e muove una giostra milionaria di incarichi, consulenze e relative parcelle. È l’industria dei salvataggi aziendali, cioè concordati, curatele fallimentari, amministrazioni straordinarie. Una ristretta cerchia di professionisti, in prima fila avvocati e commercialisti, si spartisce la ricchissima torta dei compensi per la gestione o la liquidazione delle grandi imprese in difficoltà. La lista dei gruppi a rischio naufragio si allunga di mese in mese. Ci sono le storie infinite, tipo Alitalia e Ilva, che continuano a macinare perdite mentre passano da un commissario all’altro. E poi un variegato elenco di casi critici, decine e decine di marchi noti e meno noti, accomunati da un futuro incerto che potrebbe spazzare via migliaia di posti di lavoro. Per esempio, giusto per citare le cronache più recenti, colossi delle costruzioni come Astaldi e Condotte, oppure Mercatone Uno, i grandi magazzini del mobile. E così, mentre il Paese si impoverisce e il made in Italy perde letteralmente i pezzi, aumentano di conseguenza le occasioni d’affari per gli specialisti in crac e affini, quelli che “risolvono problemi”, per dirla con Mr. Wolf di Pulp Fiction, il film di Quentin Tarantino. Tutto funziona a norma di legge, in teoria, dalle procedure fallimentari al concordato, fino alle regole sull’amministrazione straordinaria, formulate per la prima volta nel 1979 (la legge Prodi) e aggiornate più volte fino all’estate del 2018, con Luigi Di Maio al ministero dello Sviluppo economico. Il business delle crisi, però, col tempo è diventato un’enorme stanza di compensazione in cui si danno battaglia cordate contrapposte di professionisti, un luogo dove finiscono per incrociarsi nomine, favori e conflitti d’interessi. Anche perché a ogni procedura collaborano esperti e consulenti vari. Altre parcelle, insomma, a volte molto ricche, che gonfiano il fatturato di studi professionali grandi e piccoli. Le indagini della procura di Roma sul concordato Astaldi,  svelate da L’Espresso , hanno illuminato trattative riservate e scambi di favori. Tanto da arrivare a ipotizzare un reato grave come quello di corruzione in atti giudiziari per Stefano Ambrosini e Francesco Rocchi, due dei tre commissari (il terzo è Francesco Ioffredi) incaricati dal tribunale fallimentare di Roma di gestire una procedura dalle dimensioni extralarge, per un gruppo con un attivo ben superiore ai 3 miliardi di euro. Sotto inchiesta è finito anche Corrado Gatti, il commercialista che avrebbe dovuto attestare la fattibilità del piano di concordato. Per dare un’idea della posta in palio vale la pena ricordare che, secondo quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche, i commissari puntavano da principio a spartirsi un compenso di 36 milioni, 12 milioni di euro ciascuno. Il caso è ancora nella fase delle indagini preliminari. Solo sospetti, quindi, e nessun colpevole, almeno finora. Conviene partire proprio da qui, però, per raccontare le trame che avvolgono il grande affare dei salvataggi aziendali. «È il professionista italiano che negli ultimi quindici anni ha ricevuto il maggior numero di incarichi come commissario straordinario e commissario giudiziale», si legge on line nello sterminato profilo Wikipedia di Stefano Ambrosini, 50 anni, avvocato torinese da qualche tempo attivissimo anche a Roma. Ambrosini è di sicuro il nome più noto tra quelli coinvolti nell’indagine della procura capitolina e tra le tante poltrone accumulate in carriera può vantare anche quella al timone di Alitalia in amministrazione straordinaria dal 2008. Questa procedura ha preso le mosse dopo il primo fallimento della compagnia. Il secondo crac risale invece al 2017 e ha dato il via a un’altra amministrazione straordinaria che corre parallela alla prima. In totale sono ben nove i commissari che si sono succeduti negli anni, fino a Giuseppe Leogrande, nominato a dicembre dal governo con il mandato di tentare per l’ennesima volta il salvataggio della società. La prima Alitalia invece è da un pezzo in liquidazione, una macchina che ha prodotto e continua a produrre parcelle per un esercito di professionisti. Difficile stabilire con precisione il valore complessivo di questi compensi. Di certo siamo nell’ordine delle decine di milioni, se si pensa che nel solo secondo semestre del 2018, il conto alla voce consulenti ammonta a 952 mila euro. Nell’elenco degli incarichi compare anche quello conferito a Marco Aiello, classe 1981, un avvocato che a partire dal 2007 ha lavorato a lungo nello studio torinese di Ambrosini. Il mandato risale al 28 luglio 2016. La data è importante, perché proprio quel giorno il ministero dello Sviluppo economico all’epoca guidato da Carlo Calenda, varò un regolamento che rende obbligatoria la scelta dei consulenti mediante una gara tra «almeno tre» diverse offerte e vieta ai commissari di affidare consulenze a «soggetti appartenenti al medesimo studio professionale». Ebbene, dai documenti ufficiali risulta che l’Alitalia in amministrazione straordinaria gestita da Ambrosini insieme agli altri due commissari Gianluca Brancadoro e Giovanni Fiori, ha assegnato ad Aiello un incarico «ad personam di particolare delicatezza, per la comprovata esperienza del professionista in ambito concorsuale». Niente gara, quindi. Aiello, come detto, ha lavorato a lungo nello studio di Ambrosini per poi mettersi in proprio - conferma lo stesso Aiello - «nella primavera del 2016». Tempo poche settimane ed ecco la consulenza pagata dalla compagnia aerea in liquidazione guidata proprio da Ambrosini. Dal curriculum di Aiello emerge un fatto curioso: dei cinque incarichi ricevuti da amministrazioni straordinarie, ben quattro sono arrivati da società in qualche modo collegate ad Ambrosini. È il caso, oltre alla già citata Alitalia, della Asa di Ivrea (una consulenza affidata il 30 maggio 2016) e della compagnia aerea Itavia. Entrambe sono gestite con il ruolo di commissario dall’avvocato torinese ora sotto inchiesta per la vicenda Astaldi. Poi c’è la veronese Tosoni. A dicembre del 2015 Ambrosini era stato designato dal tribunale di Verona per portare il gruppo Tosoni al concordato. L’opposizione dei creditori ha però reso inevitabile il ricorso all’amministrazione straordinaria a partire dal 6 maggio 2016. Nel terzetto dei commissari Ambrosini non c’era, ma il suo allievo Aiello il 10 maggio ha ricevuto un incarico di consulenza di carattere “fiduciario” per gestire “una questione particolarmente complessa”. Dal vaso di Pandora del concordato Astaldi emerge anche un altro nome di gran peso come Enrico Laghi, professionista romano che tra maggio 2017 e aprile 2019 è riuscito nell’impresa di gestire come commissario Alitalia e Ilva, due incarichi di nomina governativa a dir poco delicati (e ben remunerati) che si sommavano a decine di altri impegni anche come amministratore o sindaco di società. Nell’elenco compare anche Astaldi. Laghi, chiamato come consulente del concordato del gruppo di costruzioni (con parcella da 2,5 milioni), è anche creditore della società per 811 mila euro. In sostanza, il professionista romano avrebbe quindi voce in capitolo anche sulla liquidazione del proprio credito. Su questo punto il tribunale fallimentare di Roma ha formulato rilievi critici, respinti dal diretto interessato che ha ribadito la propria indipendenza, giustificandola sul piano giuridico. La questione, finita sotto i riflettori delle cronache nelle scorse settimane, risulta ancora in sospeso. Meno noto è invece il ruolo dello stesso Laghi nella vicenda Mercatone Uno, azienda con 1.800 dipendenti che detiene il poco invidiabile record di essere di fatto finita due volte in amministrazione straordinaria. Al primo giro infatti, nell’estate del 2018, la società era stata ceduta a una cordata rivelatasi pochi mesi dopo del tutto inconsistente sul piano finanziario. La vendita alla Shernon holding, questo il nome dell’acquirente finito in bancarotta, era stata gestita dai commissari Stefano Coen, Ermanno Sgaravato e Vincenzo Tassinari affiancati da un gruppo di professionisti. Laghi è entrato in scena nell’ottobre del 2015, con il mandato di valutare i beni aziendali destinati a passare di mano. L’incarico, con parcella di 170 mila euro, è stato affidato “intuitu personae”, cioè sulla base delle riconosciute qualità professionali del commercialista romano. Niente gara, quindi, che solo pochi mesi dopo sarebbe diventata obbligatoria per effetto del regolamento Calenda. A giugno del 2019 Mercatone Uno è ripartita da zero. Il ministero dello Sviluppo ha nominato tre nuovi commissari. Tra questi anche il commercialista Antonio Cattaneo. Lo stesso Cattaneo che figura tra i soci della Deloitte financial advisory, coinvolta come consulente nella prima fallimentare amministrazione straordinaria della società di Imola.

Incarichi affidati alla compagna, giudice agli arresti domiciliari. Lunedì 1 Aprile 2019 di Marilù Musto su ilmattino.it. La sesta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha deciso: per il giudice Enrico Caria scatteranno gli arresti domiciliari. Niente da fare, dunque, la misura cautelare sarà applicata sulla base della sentenza letta a mezzanotte di venerdì scorso dai consiglieri di piazza Cavour, che hanno deciso di accogliere solo in parte le doglianze degli avvocati difensori del magistrato della sezione fallimentare. E così, negli anni in cui Enrico Caria ha rivestito il ruolo di giudice della sezione fallimentare del tribunale di Napoli Nord e poi di quello di Santa Maria Capua Vetere, avrebbe veicolato nomine di consulenze in cambio di favori. Una sorta di «caso Saguto» in salsa napoletana. Almeno in apparenza. In sintesi, i giudici hanno respinto il ricorso della Procura di Roma per quattro capi di imputazione, tra i quali anche la storia della compravendita della casa in via Tasso, accogliendo il ricorso della difesa di Caria, rappresentato dagli avvocati Francesco Barra Caraccio e Vincenzo Maiello; ma hanno ritenuto sussistenti i gravi indizi per due capi di imputazione: si tratta dei due incarichi di lavoro assegnati alla compagna del giudice da una società privata e dal professionista napoletano Alfredo Mazzei. In sostanza, il giudice Caria avrebbe violato «i doveri di lealtà e imparzialità nell'esercizio delle funzioni di giudice delegato, tanto da consentire la conclusione che l'incarico presso la sezione fallimentare era per lui anche un canale di entrate integrative per mantenere un tenore di vita probabilmente superiore a quello che il magistrato avrebbe potuto permettersi facendo unicamente affidamento sulle sole fonti lecite di guadagno», almeno secondo quanto avevano scritto i giudici del Riesame di Roma. Entro oggi, al massimo domani, saranno disposti per Caria gli arresti domiciliari in relazione ad alcuni episodi di corruzione. La procura di Roma, in verità, aveva anche chiesto l'applicazione di quattro misure interdittive per la durata di un anno nei confronti della sua compagna, l'avvocato Daniela D'Orsi, dell'architetto Giancarlo Piro Calise, del consulente Alessandro Colaci e del commissario giudiziale Alfredo Mazzei. Ma torniamo al caso principale. Concorde con il Riesame, la Cassazione rigetta il ricorso di Caria. Perché? La risposta la fornisce la motivazione del Riesame del gennaio scorso. «È emersa una spiccata tendenza di Caria - si legge nel provvedimento dei magistrati romani - a chiedere e ad accettare favori e regalie dai professionisti con cui veniva in contatto, a dimostrazione del fatto che quella di ricevere utilità era per lui una vera e propria prassi, una consolidata modalità di esercizio del potere giurisdizionale». Evidenzia ancora il Riesame: «Più in generale si è riscontrata la tendenza dell'indagato (che doveva provvedere sia al mantenimento della ex moglie e dei due figli avuti con lei, sia del figlio avuto dalla nuova compagna e di quest'ultima, che negli ultimi anni non aveva dichiarato redditi molto consistenti) a intessere e mantenere una fitta rete di relazioni personali nell'ambito della quale, a prescindere dalla rilevanza penale delle condotte, si assiste ad una pericolosa confusione tra interessi personali e impiego di prerogative riconosciute in virtù del ruolo pubblico ricoperto».

Crac e mazzette, chiesta archiviazione per il commercialista Gelormini. Ilmattino.it Lunedì 13 Gennaio 2020. La Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l'archiviazione per 12 delle 27 persone finite nell'inchiesta che ha coinvolto il giudice fallimentare del Tribunale di Napoli Nord e di Santa Maria Capua Vetere Enrico Caria, accusato dagli inquirenti di corruzione. L'archiviazione è stata chiesta dal pm Claudia Terracina per Francesco Corbello e Maurizio Maiello, per il noto commercialista Alessandro Gelormini e per Nicola D'Abundo, Antonio Savino, Francesco Matacena (difeso dall'avvocato Raffaele Costanzo), Massimo Matera, Francesco Palmieri, Luca Perrella, Francesco Tagliatela, Giuliana Acampa, Patrizia Fisichella. Per gli investigatori il giudice, rinviato a giudizio insieme con altre 14 persone (l'udienza preliminare è stata fissata per il prossimo 5 febbraio davanti al gup di Roma Taviano), in cambio di denaro avrebbe conferito incarichi a professionisti, tra i quali figura anche la moglie, nominati nell'ambito di procedure fallimentari. Tra gli avvocati che hanno ottenuto l'archiviazione per i rispettivi clienti figurano anche Italo Benigni, Giuseppe Saccone, Luigi De Vita, Andrea Abbagnano Trione, Giampiero Pirolo, Vincenzo Comi e Alfonso Laudonia.

Decine di incarichi alla compagna del giudice indagato, ma al telefono la definiscono "una capra". Il retroscena spunta nelle carte del tribunale del Riesame che ha accolto la richiesta della Procura di arrestare Enrico Caria. Giuseppe Perrotta il 13 gennaio 2019 su  casertanews.it. Perché uno studio professionale di rilevanza internazionale con centinaia di legali operanti su tutto il territorio dovrebbe affidare pratiche ad una “quasi anonima” legale della provincia di Avellino? E soprattutto perché le potrebbe permettere di quintuplicare il proprio fatturato annuale pur ritenendola, testualmente, “una capra”? Sono le domande che si sono posti i giudici del tribunale del Riesame di Roma nell’affrontare la delicata indagine sul giudice Enrico Caria, ex presidente della sezione Fallimentare del tribunale di Napoli Nord con sede ad Aversa (che ha lavorato anche a Santa Maria Capua Vetere e Napoli), e dei plurimi incarichi legali che sono stati affidati, negli ultimi anni, alla compagna Daniela D’Orso. Il dato che emerge dalle ‘riflessioni’ del tribunale del Riesame che ha accolto il ricorso del pubblico ministero della Procura di Roma sulla richiesta degli arresti domiciliari per il giudice napoletano (congelata in attesa del ricorso in Cassazione) è lampante: secondo i giudici non ci sarebbero motivi se non quelli di “compiacere” un giudice che potrebbe tornare utile per loro. E così si spiega, dunque, anche l’aumento dei compensi di Daniela D’Orso, che passa dai 16mila euro dichiarati nel 2012 ai 75mila del 2016. Con tanti incarichi legali ricevuti da uno studio professionali di Milano, dove, in realtà, non è che le sue “qualità professionali” abbiano fatto breccia. In una telefonata del luglio 2017 intercettata dagli inquirenti, Fischetti e Colaci, entrambi dipendenti dello studio professionale, parlano della richiesta della D’Orso di vedersi aumentare il compenso per una pratica seguita, passando da 5mila a 10mila euro. Fischetti commenta così la richiesta del collega: “E’ stata un mese in vacanza e in più abbiamo… ci sono mail di solleciti che lei era sparita, ha letto 4 verbali e li ha commentati in più con grande disappunto da parte di Capitini perché lei non aveva capito una sega. Vabbè, comunque non ti entro nel merito della cosa perché comunque lei è veramente una capra. Però tra me e te diamole 10mila euro e…”. Ed è proprio su questo punto che riflettono i giudici romani: perché raddoppiare il compenso per un avvocato ritenuto una capra? E la risposta, per il Riesame, non può essere diversa da quella di voler soddisfare l’avvocato che è la compagna del giudice Enrico Caria. Al punto che Colaci sarebbe addirittura disposto a versare la differenza di propria tasca: “Dimmi quello che gli vuoi dare, poi eventualmente se no te lo integro io…”. Una “volontà” che starebbe a manifestare la voglia di compiacere la compagna del giudice che dovrò aiutare i protagonisti in altre faccende. E che per questo, adesso, rischia l’arresto.

Salerno: indagato Alessandro Brancaccio, giudice della Corte di Appello. Alessandro Brancaccio, giudice della Corte di Appello di Salerno è indagato per corruzione in atti giudiziari: sequestrati i file dal suo pc. Pina Ferro de Redazione L'Occhio di Salerno il 6 giugno 2019. Alessandro Brancaccio, giudice della Corte di Appello di Salerno è indagato per corruzione in atti giudiziari: sequestrati i file dal suo pc.

Il giudice della Corte di Appello finisce nei guai. Non solo i giudici della Tributaria nel mirino della magistratura. L’attenzione della Procura si sposta anche su altri settori giustizia. Nei giorni scorsi la Procura di Napoli ha disposto la perquisizione e acquisizione di numerosi file contenuti nel pc del giudice Alessandro Brancaccio, assegnato, fino a qualche tempo fa, al settore civile (esecuzioni immobiliari) ed oggi in forza alla Corte di Appello di Salerno – Sezione Civile in qualità di Consigliere. Sulla vicenda al momento vige il massimo riserbo. Pochissime le notizie trapelate. L’accusa per il giudice sarebbe di corruzione in atti giudiziari. Pare che al centro dell’inchiesta vi sia l’attribuzione di alcuni incarichi. Sarebbero stati numerosissimi i file acquisiti dal computer personale del giudice. Gli inquirenti pare abbiano “bussato” direttamente presso l’abitazione salernitana di Alessandro Brancaccio. Al momento non è dato sapere se nell’inchiesta sono coinvolti altri soggetti e se la stessa nasce da qualche segnalazione. Al momento l’unica cosa certa è l’iscrizione nel registro degli indagati del consigliere della Corte di Appello di Salerno. Nessuno parla della vicenda anche se, pare, che la stessa non sia proprio sconosciuta tra i corridoi della Corte di Appello di Salerno e della sezione fallimentare ubicata presso la cittadella. Bisognerà attendere il prosieguo delle indagini per avere un quadro più chiaro circa i contenuti dell’inchiesta. Pina Ferro

Report Rai, martedì 26 giugno 2018. Giorgio Mottola. Ecco come muore un'azienda nella terra che fu di Cutolo. La paura ha iniziato a provarla solo qualche settimana fa. Quando alla scuola elementare frequentata dalla sua nipote più piccola è arrivata la telefonata di una donna che si qualificava come amica di famiglia e annunciava che entro un’ora sarebbe passata a prendere la bambina. Una chiamata strana e inaspettata che ha mandato in confusione la scuola e i genitori della piccola. Ma non Pasquale Di Luccio, lui ha subito inteso che si trattava di una minaccia: «nessuno della tua famiglia è al sicuro», questo è il messaggio implicito che ha dedotto. Solo a quel punto, dopo aver provato negli ultimi sei anni esclusivamente rabbia e angoscia, ha iniziato ad avere anche paura. È da tempo che la vita di Pasquale Di Luccio, allevatore di bufale a Capaccio Paestum ed ex ufficiale della Guardia di Finanza, ha cominciato ad andare in frantumi. Da quando la sua azienda è stata presa di mira dal nipote del boss Giovanni Marandino, il braccio destro di Raffaele Cutolo (nella foto a sinistra) all’epoca della sua latitanza a due passi dai templi di Paestum.

Il debito e il custode giudiziario. L’anno orribile per Pasquale Di Luccio è il 2012. Non riesce più a far fronte alle rate di un mutuo da 290 mila con la Banca di Credito di Serino. Per questo, l’istituto si rivolge al Tribunale di Salerno che commissaria la fattoria dell’imprenditore paestano e nomina una custode giudiziaria, la calabrese Oriana Travaglio. Per poter continuare a mantenere in piedi la sua attività e lavorare dentro la sua stessa azienda, Pasquale Di Luccio deve pagare ogni mese un affitto di 2000 euro. Per evitare la bancarotta, la famiglia si rimbocca le maniche, ogni giorno continua a lavorare nella stalla e a vendere il latte. Di Luccio paga puntualmente la rata stabilita dal Tribunale e le cose sembrano andare meglio, anche se la strada per estinguere il debito è ancora lunga. Dopo qualche mese, pensando di potersi finalmente rialzare del tutto, acquista altre 160 bufale da un altro allevatore di Capaccio Paestum. Le compra per 140mila euro, ma si accordano per un pagamento rateale. Anche in questo caso, Pasquale Di Luccio inizia a saldare regolarmente quanto dovuto, arrivando a versargli 106mila euro. Mancano solo 34mila euro per ricominciare a vedere la luce. Ma il buio ripiomba nella sua vita.

Il nipote del boss cutoliano. A pochi mesi dalla transazione, le bufale acquistate dall’imprenditore paestano vengono infatti pignorate. Stavolta però non dipende dalle difficoltà economiche di Di Luccio. La responsabilità è dell’imprenditore che gliele ha vendute, il quale, nonostante avesse incassato l’acconto e le rate, non aveva mai registrato la cessione del bestiame. Di Luccio lo scopre solo nel momento in cui l’Azienda agricola Fravita s.r.l. chiede all’allevatore di saldare un debito di oltre 100 mila euro e quindi prova a rivalersi attraverso il pignoramento delle 160 bufale. Quelle stesse 160 bufale che Di Luccio pensava di aver acquistato regolarmente. Il pignoramento scatta all’inizio del 2016, è a questo punto che fa la sua comparsa nella storia Giovanni Marandino jr. Porta lo stesso nome di suo nonno, braccio destro di Cutolo negli anni ’80 e ancora oggi ras incontrastato del racket e delle estorsioni nella Piana del Sele, come dimostrano le recenti condanne. Marandino junior non porta su di sé solo il peso del cognome, ma anche quello delle quote di alcune società che i magistrati della Procura di Firenze hanno ritenuto nella disponibilità del nonno camorrista: Auto2000 e Azienda Agricola Sabatella, formalmente intestate a Giovanni Marandino junior e a Emanuel Marandino, figlio di seconde nozze del boss, di recente arrestato per estorsione. Entrambe le aziende sono oggi in liquidazione, ma nel 2006 sono state sequestrate in concomitanza con il nuovo arresto del boss Giovanni Marandino senior. Per poi essere dissequestrate 2 anni dopo quando, durante il nuovo processo in Toscana all’ex braccio destro di Cutolo, dalla condanna per estorsione è scomparsa l’aggravante mafiosa. Marandino Junior, che finora non è stato mai sottoposto a procedimenti per associazione mafiosa, ha intanto continuato a fare l’imprenditore nella Piana del Sele. Sebbene con fortune molto alterne, considerato che il suo nome spunta più volte nel registro dei “protestati” della Camera di Commercio per il mancato pagamento di cambiali. Nonostante le sue credenziali, Giovanni Marandino si propone come mediatore nella controversia tra l’allevatore di Capaccio e l’Azienda agricola Fravita S.r.l. , in cui Pasquale Di Luccio si è trovato coinvolto inconsapevolmente. Il nipote del boss avrebbe organizzato dunque un incontro a cui partecipano i titolari della Fravita srl, tra cui uno dei più famosi notai della Piana del Sele: Pasquale Cammarano. Il notaio e il nipote del boss siedono uno di fronte all’altro. A Report Cammarano conferma la riunione e precisa: «Non avevo mai incontrato prima Marandino Jr, ma conoscevo bene suo nonno che è stato più volte mio cliente negli anni ‘70». Insieme, secondo l’esposto fatto al Gico da Di Luccio, raggiungono un accordo in base al quale il debito sarebbe sceso a 80mila euro e sarebbe stato rilevato da Marandino Junior attraverso una società di famiglia. Il nipote del più potente e pericoloso camorrista della Piana del Sele da mediatore diventa così creditore dei due imprenditori malcapitati. «In realtà – è la versione del famoso notaio - quei soldi non li ho mai più recuperati e infatti sulla questione pende una causa civile» La somma che deve saldare Di Luccio ammonterebbe invece a 34mila euro, vale a dire la quota restante non ancora pagata per le 160 bufale. In un primo momento il nipote del boss si mostra accomodante. Dal momento che Di Luccio non è in grado di saldare subito, si legge nell’esposto, accetta che il pagamento avvenga in latte di bufala, che, per mesi, ogni mattina sarebbe stato consegnato al Caseificio “La Cilentana”, di proprietà della famiglia Marandino. Inoltre, viene chiesta in cambio a Di Luccio la cortesia di ospitare una sessantina di bufale, intestate alla Buvar, società costituita in quelle settimane, che vede come titolare la moglie di Marandino Jr e amministratrice la madre, Angela Paladino, nuora dell’anziano boss. Ma, secondo il racconto fatto al Gico, quando Di Luccio ha chiesto al nipote del boss di regolarizzare la quantità di latte versato, che intanto ammontava al valore complessivo di quasi 70mila euro (il doppio di quanto era dovuto), Giovanni Marandino Jr gli avrebbe risposto a brutto muso: «Tu non hai capito niente perché qua il padrone della stalla sono io, le bufale e i soldi del latte te li puoi sognare. Non ti permettere di fare passi azzardati perché distruggo a te alla tua famiglia». Frasi che Marandino jr, contattato da Report, nega di aver mai pronunciato, fornendo una versione diversa dell’intera vicenda. Conferma di essere entrato nella trattativa con il notaio e di aver rilevato il debito, ma ottenendo in cambio l’intera mandria di bufale, che era al centro della contesa. Stando a quanto ci riferisce, non ci sarebbe dunque stato nessun accordo con Di Luccio, che a suo avviso non poteva accampare all’epoca nessun diritto sul bestiame. Circostanza questa che sarebbe però smentita dalla scrittura privata tra Di Luccio e l’allevatore capaccese di cui Report è entrata in possesso e che attesterebbe l’accordo tra le due parti. Al momento, tuttavia, l’ex ufficiale della Guardia di finanza, ha perso sia le 160 bufale sia i 106 mila euro anticipati. Nonostante le minacce verbali riferite, Pasquale Di Luccio ha il coraggio di denunciare il nipote del boss e prova a cacciarlo dalla sua azienda. Ci prova ma non ci riesce. Quando inizia la causa scopre infatti che Marandino Jr ha consegnato alla custode, la Travaglio, un contratto di comodato d’uso gratuito della fattoria dei Di Luccio, intestato alla Buvar, che, stando all’esposto presentato dall’imprenditore, sarebbe falso. Quindi, formalmente, i Marandino avrebbero avuto il pieno diritto a continuare a stare nell’azienda. Tutto pulito, legale, non c’è stato bisogno di sparare neanche un colpo di pistola: a Di Luccio l’azienda viene sfilata con il codice civile alla mano: la discesa verso gli Inferi dell’allevatore paestano viene accelerata dal Tribunale civile di Salerno.

All’asta terreni e capannoni non pignorati. Non avendo più entrate, l’imprenditore paestano non può pagare le rate alla custode giudiziaria. In conseguenza di ciò, quest’ultima decide di estromettere definitivamente Di Luccio dalla sua azienda e affidarne la gestione alla Buvar, vale a dire, di fatto, al nipote del boss, Giovanni Marandino jr. Ma, come si legge nell’esposto al Gico, «senza che avesse esperito una gara pubblica e con la ratifica del Giudice Brancaccio», riferimento ad Alessandro Brancaccio, giudice della Ufficio espropriazione del Tribunale di Salerno. Per evitare che il nipote del boss ne assuma il pieno controllo, Di Luccio comprende che l’unica soluzione è vendere l’azienda. Sparge la voce, si rivolge ad alcuni allevatori della zona e arrivano le prime offerte. Tutti, però, quando scoprono che sull’azienda ha messo gli occhi Marandino jr, si fanno indietro. E così la custode giudiziaria prende in mano la situazione e mette all’asta l’intera fattoria di Di Luccio. Dopo alcune gare andate deserte, il prezzo scende e Giovanni Marandino Jr se l’aggiudica per 450mila euro. Un vero e proprio affare: secondo la perizia del consulente tecnico, il valore ammontava a circa 1 milione e mezzo di euro. Ma per la famiglia Di Luccio, allo sconforto segue lo sconcerto. I beni messi all’asta dalla custode Oriana Travaglio e acquistati a un prezzo tanto irrisorio da Marandino jr non risultavano né pignorati, né ipotecati. Le ipoteche erano state apposte su altri terreni, ma non sulle particelle catastali e sui capannoni che erano stati messi all’asta. L’imprenditore paestano fa immediatamente ricorso contro l’illegittimità della vendita e scrive al giudice che si occupa del procedimento: Maria Elena Del Forno. Un nome diventato negli ultimi mesi molto noto nei corridoi del Tribunale di Salerno: dal dicembre del 2017 è indagata per rivelazione di segreto di ufficio e abuso d’ufficio. Ed è proprio contro i provvedimenti della Del Forno che si infrangono le ultime speranze di Pasquale Di Luccio. La giudice, divenuta nel frattempo responsabile dell’Ufficio Esecuzioni Immobiliari del Tribunale di Salerno, nonostante le visure catastali dimostrino l’assenza di qualsiasi ipoteca e pignoramento al momento dell’asta sulle particelle messe in vendita, ha respinto il ricorso dell’imprenditore. E ha anche provveduto ad emettere il decreto di trasferimento a favore della Buvar della famiglia Marandino senza attendere il termine di 20 giorni, previsto dal codice civile, per consentire a Di Luccio di presentare una opposizione.

Toghe nella bufera, indagato un altro giudice. La procura di Firenze contesta l’abuso d’ufficio a Salcerini. Le “pressioni“ del collega Sdogati per nominare l’avvocato Bertoldi. Erika Pontini su  La Nazione il 12 gennaio 2020.  Anche il giudice Simone Salcerini, Delegato alla Fallimentare del tribunale di Spoleto – originario di Città di Castello e un passato tra Torino e Arezzo – è finito nella bufera scatenata dall’indagine per corruzione sul collega Tommaso Sdogati e sugli avvocati Nicoletta Pompei e Mauro Bertoldi (entrambi agli arresti domiciliari per corruzione e traffico di influenze). Il pm Luca Tescaroli, Aggiunto di Firenze, gli ha notificato un invito a comparire per la prossima settimana con l’ipotesi di abuso d’ufficio, in relazione alla nomina di Bertoldi, quale delegato alle vendite, dopo le pressioni del collega. La decisione degli inquirenti su Salcerini arriva dopo l’interrogatorio di Sdogati davanti al gip che l’ha sospeso dalle funzioni per due mesi ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per la corruzione in atti giudiziari e il pericolo di reiterazione del reato: se al lavoro potrebbe avvantaggiare nuovamente la compagna avvocato e il suo socio di studio. Il giovane magistrato, al suo primo incarico dopo l’uditorato svolto a Perugia, ha ammesso di aver chiesto al collega Salcerini di nominare Bertoldi. Nei giorni scorsi la procura di Firenze ha acquisito anche l’elenco dei delegati alle vendite del tribunale in cui, in una riga, compare sbarrato il nominativo di un professionista sostituito con quello di Bertoldi. C’è inoltre il sospetto che poco prima delle ordinanze di custodia cautelare del dicembre scorso all’avvocato sia stato affidato un altro incarico, oltre a quello del 9 ottobre scorso. Tutte questioni che potrebbero essere chieste allo stesso Salcerini. Al gip Sdogati "ha dichiarato di aver parlato due sole volte con il giudice Salcerini segnalandogli l’iscrizione di Bertoldi nelle liste dei delegati ma ha negato di aver effettuato qualsivoglia pressione sul medesimo". «Gli ho detto “Simò senti l’hai fatta quella – io non mi ricordo se ho detto cosa o cosina – cosa?“, perché lui mi aveva detto che c’avrebbe avuto da dare delle deleghe". L’interessamento di Sdogati su Salcerini è del 9 settembre scorso, esattamente un mese dopo a Bertoldi arriva via pec la nomina per la vendita di un immobile a Todi. Sdogati sapeva, secondo l’accusa, che i proventi degli incarichi sarebbero stati divisi a metà tra la Pompei e Bertoldi. " ... fino alla morte, per dirti che anche se non vieni più in ufficio ... quando me pagano è a metà", diceva, intercettato, Bertoldi alla Pompei. Una circostanza che Sdogati dice di non sapersi spiegare. "Le anticipo la domanda che avrei fatto all’avvocato Pompei, dice “perché dividono a metà... perché questa metà doveva durare tutta la vita?", chiede Pezzuto. Sdogati: "Ah, questo no, la lettura di questa cosa tra de loro non gliela so dà...". Sdogati non ha saputo nemmeno spiegare perché, durante le intercettazioni la Pompei gli dice “ ma lo sai che serve anche per noi, no!... cioè sempre una cosa in più ". "La spiegazione di tale espressione fornita da Sdogati – dice Pezzuto – non è assolutamente convincente. L’indagato sostiene infatti che “ serve anche per noi “ intende per lei e per il collega di studio. Intanto il tribunale del Riesame di Firenze ha fissato al 15 gennaio l’udienza per discutere la revoca dei domiciliari sollecitata dagli avvocati Guido Rondoni e Roberto Erasti per la Pompei mentre gli stessi legali sono al lavoro per presentare appello contro il provvedimento di interdizione nei confronti di Sdogati. Quest’ultimo potrebbe chiedere autonomamente il trasferimento in un’altra sede. Dopo la procura infatti è atteso l’avvio dell’azione disciplinare da parte del Csm. Nei prossimi giorni si muoverà anche la Sezione disciplinare dell’Ordine degli avvocati di Perugia. Erika Pontini

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Io sono il Potere Dio tuo.

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì - la Repubblica” il 5 marzo 2020. Io sono il Potere Dio tuo: quindi senza nome e senza volto, come si presenta l’autore di questo libro che per la prima volta disvela dall’interno ciò che oggi va di moda definire Deep State, lo Stato Profondo. La sala macchine e insieme il retrobottega dell’amministrazione pubblica: quell’entità che invisibili addetti hanno il potere di fare andare avanti con norme scritte e concreti atti di governo, ma che pure con i medesimi mezzi possono bloccare, o magari differire, oppure deviare, o addirittura inceppare senza che nulla appaia alla luce del sole; e comunque sempre in nome di quella Tecnica che formalmente e al servizio delle Istituzioni, ma in pratica si pone al disopra dei politici, a loro volta valutati dall’autore con «ferocia darwiniana», giacche i ministri passano, mentre «per noi c’è sempre un dopo». E il mondo dei capi di gabinetto, dei maghi degli uffici legislativi, della vera e misteriosa Casta di color che sanno, consiglieri e avvocati di Stato, magistrati dei Tar e della Corte dei Conti, consiglieri parlamentari, gabinettisti raccontati maliziosamente alle prese con gli smaniosi capricci e le goffe ottusita dell’odierna classe di governo. E uno di questi mandarini che il giornalista Giuseppe Salvaggiulo ha convinto a vuotare il sacco, anche se l’impressione e che non aspettasse altro, colmo com’era di nozioni sulle virtu e le male arti del «kamasutra normativo». Ecco perciò astuzie e trucchi lessicali («In attesa del riordino della materia...»), pareri e codicilli di inavvertito, ma devastante impatto, regolamenti nati morti o avvelenati, deleghe oblique, spacchettamenti a rimbalzello, inammissibilità a geometria variabile; il tutto culminante nell’affannosa misteriosità della Legge di bilancio: soldi, soldi, soldi, naturalmente pubblici, che per conto dei rispettivi ministri i capi di gabinetto si contendono a suon di bozze segrete, file posticci, “bachi” per individuare le fughe di notizie. Ed e come se un lampo rompesse l’oscurità che un giorno spinse un esasperatissimo Berlusconi a invocare: «Ma che cazzo e questa bollinatura?». Dunque: Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto (Feltrinelli, 287 pagine comprensive di un lodevole e promettente indice dei nomi). Chi e convinto che si governi con i tweet e le dirette Facebook non apra proprio questo libro – per quanto farebbe meglio a studiarselo e non solo perchè, come diceva la nonna, le apparenze ingannano e sotto la piu vistosa fuffa si nasconde il senso ultimo delle scelte. Se la politologia americana, da Murray Edelman in poi, ha approfondito il ruolo degli staff, nell’Italia della commedia e del melodramma si può essere grati a questa ignota testimonianza. Abbandonandosi dunque a un’antropologia di tristi tropici ministeriali fatti di piccoli piaceri e ricche parcelle, anticamere e salottini un po’ sdruciti, la cernita di mobili e cimeli nei sotterranei, il mercato degli autisti, la somministrazione delle spese di rappresentanza, i biglietti omaggio all’Olimpico, fino alla tritatura dei documenti. Una classe eterna e in via di aggiornamento, vedi l’uso di Telegram e degli integratori, l’aperitivo da Camponeschi, gli scooteroni e gli zainetti che fanno il capo di gabinetto smart e young. Un’umanita in egual misura leale, insostituibile e maneggiona cui tocca far marciare le concrete decisioni della politica districandole in quell’«ordalia burocratica» che tanti spasmi seguita a fornire anche alla letteratura, dal fondamentale Misteri dei ministeri (1952) di Augusto Frassineti, al recentissimo e sapido E nato prima l’uomo o la carta bollata? (Rai Libri) di Alfonso Celotto, passando per certe indimenticabili pagine di Flaiano sulla fatidica invasione barbarica: “la discesa dei Timbri”. Perche tre, elenca con pazienza l’Anonimo, sono le risposte classiche che ci si sente di norma rivolgere dai direttori generali: «Non e possibile», «E impossibile», «E assolutamente impossibile»; per poi concludere: «Se ti dimostri titubante ti mangiano vivo». Ma e nei riguardi della classe politica che l’orgoglio d’elite, pure rafforzato da orditi dinastici e coniugali, si traduce in una superiorità che sfuma nel disprezzo – ed e il tratto piu malevolo e godibile del libro. Chi manca di rispetto alla casta la paga cara. Cosi Giulio Tremonti che volle avere al suo fianco un ex ufficiale della Guardia di Finanza «laureatosi a 46 anni» se lo ritrovo subito «isolato come portatore di un virus pestilenziale», e nessuno gli rispondeva al telefono. Idem Matteo Renzi, che venne a Palazzo Chigi con “la vigilessa” e quando provo a pubblicare in Gazzetta Ufficiale un decreto dal titolo Per un’Italia piu semplice e veloce, fu sconsigliato perche suonava come «un film della Wertmuller». Idem Giggino Di Maio, troppi compaesani; peggio che peggio il tragicomico staff di Virginia Raggi, non a caso autonominatosi in chat Quattro amici al bar. Depositari della residua cultura istituzionale, va da se che i gabinettisti tramandino nei loro circuiti maldicenze fin qui ignorate dai piu pettegoli retroscenisti. Qualche perla: la bella ministra che in esotico viaggio di nozze scopri il marito a letto con un cameriere indigeno; o quell’altra di cui si sparse voce che partecipava al Consiglio dei ministri senza mutande; una reazione di Tremonti a Letizia Moratti: «Questo e il governo, non tuo marito!»; le conseguenze anche diplomatiche dei colpi di sonno di Silvio Berlusconi; le peripezie della legge per istituire la carica di emerito presidente della Repubblica (si dovette aspettare la morte di Giovanni Leone che si opponeva: «Ma lo sapete a Napoli che significa “emerito?”»); le bestemmie dispensate durante le riunioni di governo da Emma Bonino, e quando Francesco Rutelli e Linda Lanzillotta inorridivano chiedendo a Romano Prodi di intervenire, ecco che lei ci dava ancora più dentro, «porca ostia!». E tuttavia, anche per chi ritenga secondario, se non disdicevole, questo ravanare intorno a tali aspetti della vita pubblica, le confessioni del capo di gabinetto offrono singolari e spesso inedite ricostruzioni sulla vera storia del colpo di spugna del primo governo Berlusconi, per dire, o sul decreto “a favore” di Eluana Englaro; come pure a proposito della lettera emessa dalla Bce nell’estate del 2009 e ricevuta non si e mai capito bene come e da chi, oltre alle varie manine e manone che nel corso del tempo senza posa cercavano di inserire sgravi fiscali o depenalizzazioni a favore di Mediaset. Tutto o quasi appare qui plausibile. In primo piano si stagliano, descritti con irresistibile e irriverente nitore, le figure dei commis de l’Etat, a cominciare dal capostipite, Gaetano Gifuni, o dal suo massimo erede, l’attuale e sfuggente segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti. Un formidabile capitolo e dedicato a Gianni Letta, proclamato con impegnativa enfasi: «L’unita di misura del potere piu precisa e immutabile che sia, come la barra di platino e iridio conservata a temperatura costante di zero gradi nel Bureau international de poids et mesures a Sevres». Uno dopo l’altro danzano e zompettano sullo scivoloso proscenio del comando uomini decisivi come il leggendario Enzo Fortunato, la cui prudenza lo porto a dimettersi prima di far firmare una nomina Rai che sapeva illegittima (e lo era); o l’asciutto, elegante e un po’ arrogante Roberto Garofoli che non molto tempo fa, a ragione ma in pubblico, si e concesso di interrompere e dare torto al presidente Conte; e a chi si complimentava ha risposto: «Allora non sapete che cosa facevo con Renzi». E ancora l’anziano, ma efficientissimo Zaccardi, il vulcanico Giampaolino, il poliedrico Spadafora, il prezzemolino Ceresani, o Carbone che scorrazza in monopattino per i lucidi corridoi dell’Economia. E poi c’e lui, l’Anonimo. Non si cascherà nella trappola del “chi e?”. Al netto degli indovinelli, si capisce che e un uomo sottile, ma vuol sembrare molto raffinato e idolatra il potere fino a bearsi di incontrare Marta Cartabia che corre a Villa Borghese. Insieme a una vena pedagogica, nelle sue funzioni e relazioni coltiva un freddo e misurato realismo, senza sbotti di tracotanza ne palpiti di pietà. Ma e di certo un uomo assai spiritoso: il racconto di Sandro Pertini che, costretto da un’urgenza fisiologica, chiude di botto un incontro con Jacques Chirac riprendendosi per sbaglio il dono e restituendo ai francesi il loro e sublime; cosi come l’odissea burocratica cui il ministro Alfonso Pecoraro Scanio sottopose il proprio capo di gabinetto per salvare certi cavalli dell’esercito e farsi bello con gli animalisti – ma dall’intricatissimo iter resto fuori un mulo – e degna di un soggetto di Rodolfo Sonego per una commedia all’italiana con Alberto Sordi. Eppure, come risucchiato da un gorgo di compiaciuto autolesionismo, l’Ignoto racconta i propri sogni e in turbinante metafora esprime a nome di tutti l’essenza del servizio: «Ci dobbiamo anche far piacere le minestre insipide e le paste scotte, ma solo con la certezza di avere sempre una bottiglia di champagne in fresco». Onore infine al confessore, Giuseppe Salvaggiulo, che pure del potere e appassionato, ma come un pericoloso ordigno che alla fine e meglio perdere che conquistare – anche se in fondo quel lavoro li qualcuno deve pur farlo.

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì - la Repubblica” il 5 marzo 2020.

Quanto a personaggi e relazioni, la sua testimonianza sul potere e sorprendente e meticolosa. Come e possibile che non sia mai menzionata la massoneria?

«In realtà se ne parla continuamente, senza citarla. Al vero gabinettista non interessa essere formalmente massone o sodale di qualsiasi gruppo di potere. In caso contrario, non potrei dire “io sono il potere”».

Fra le virtù del capo di gabinetto, come lei stesso non manca di sottolineare, c’e la discrezione. Cosa l’ha portata a violarla in modo cosi palese?

«La discrezione e un’arte preziosa, da amministrare con onesta. Io non ho violato segreti. Non ho usato le informazioni per lanciare messaggi, procurare vantaggi o consumare vendette. Non ho altro scopo che far conoscere i meccanismi del potere, perchè il potere deve essere conosciuto per come funziona, da tutti». 

Si nota, nel suo racconto, e nell’ambiente che lei descrive, uno spiccato senso d’orientamento. Come può pensare di non essere riconosciuto?

«Io non sono un nome. Sono una maschera, un frammento pirandelliano, un meccanismo. Mi divertirò ad assistere al gioco di società di chi cerca di personificarmi. Esercizio superfluo. Io sono una funzione, impersonificata e impersonificabile».

Da “il Fatto quotidiano” il 5 marzo 2020. Esce oggi in libreria per Feltrinelli "Io sono il potere". Ovvero "Confessioni di un capo di gabinetto" raccolte dal giornalista Giuseppe Salvaggiulo. Il più grave errore di Renzi, dopo la presa del potere nel 2014, fu sbagliare la squadra. Non dei ministri, che in quel governo - a parte Padoan e pochi altri - erano perlopiù comparse. Parlo degli staff a Palazzo Chigi e nei ministeri. L'epurazione dei grand commis la lasciò in mano ai petit commis. Ma se i petit sono tali, un motivo ci sarà. Il segnale di un cambio di stagione senza precedenti fu la scelta del capo del Dipartimento legislativo della presidenza del Consiglio. Il mitico Dagl. Dipartimento affari giuridici e legislativi. L'ufficio da cui passano tutti i provvedimenti del governo e che tiene rapporti con ministeri, Quirinale, magistrature, istituzioni indipendenti, corporazioni. Il gigantesco depuratore che riceve le bozze dei disegni di legge e di tutti i provvedimenti dai ministeri. Le centrifuga, le modifica, le ripulisce e fa anche scomparire gli odori. I capi del Dagl sono creature da film di fantascienza. Per metà sopraffini giuristi, per metà navigatori di mari imbizzarriti, avvezzi ai costumi della politica più spietata. Per cui una fragorosa e irriverente risata salutò, in quel 2014 in cui Renzi pareva onnipotente, la nomina di Antonella Manzione. Proiettata da una onesta carriera di capo della polizia municipale in Toscana al prestigioso e ambitissimo ruolo a Palazzo Chigi, che era stato occupato per dieci anni da Claudio Zucchelli, il mitico "Zucchellone", e poi dal brillante consigliere di Stato Carlo Deodato, finito anni dopo in Consob. C'era un piccolo grande problema: la Manzione difettava del pedigree da dirigente generale dello Stato, necessario per quel ruolo. Come per il grillino Barca, anche per la renziana fu necessaria una forzatura. Dopo il primo no della Corte dei conti, si ovviò parificando il ruolo di comandante dei vigili urbani comunali a quello di un alto magistrato o di un dirigente generale dello Stato, per elevare il suo curriculum al rango necessario. Non nascondo un certo maschilismo, corroborato da una antica passione per i B-movie anni settanta, nel rivendicare la paternità del soprannome con cui negli anni successivi la Manzione è stata ferocemente bollata, disprezzata, boicottata: "la Vigilessa". Me ne sono pentito, conoscendola. In realtà Antonella è donna intelligente e abile, svelta a imparare e per niente arrogante. Doti che avrebbe avuto la possibilità di mostrare se non si fosse trovata trafitta implacabilmente da occhi maliziosi non meno che prevenuti. Ma in quei giorni ciò che risaltava era la sua abissale inesperienza legislativa, la povertà del curriculum, l' assenza di una personalità in grado di orientare e mediare la volontà politica con il sapere giuridico dei più alti apparati statali. Ad aggravare la situazione, il fatto che nel suo staff non ci fossero gabinettisti esperti, ma anonimi funzionari. Faceva tutto parte di un disegno di Renzi. Che voleva portare al più alto livello istituzionale la rottamazione consumata trionfalmente nel suo partito. I ministeri furono infarciti di funzionari parlamentari e avvocati di non chiara fama. Poco avvezzi alla scrittura delle leggi, molto proni ai desiderata politici. Non solo. Lo stile Renzi rompeva ogni consuetudine, capovolgeva l' ordine logico del nostro lavoro. Anziché elaborati pazientemente per mesi, i testi legislativi dovevano essere scritti in poche ore, per dare seguito ad annunci rapsodici del premier che scavalcava i ministri. Prima le slide riassuntive, poi i testi veri. Ma le leggi non si fanno con la bacchetta magica. Il risultato è stato il governo delle slide affidate agli staff di comunicazione che precedevano, a volte per mesi, testi inevitabilmente confusi e grondanti errori. E tutti a scaricare sulla Manzione anche colpe non sue. Di pasticci legislativi ne abbiamo contati una decina solo nel primo anno di governo. Si finge di approvare un decreto o un disegno di legge in Consiglio dei ministri. Si trova un nome a effetto, possibilmente corto abbastanza da star dentro un titolo di giornale. Si fa una bella conferenza stampa proiettando slide mirabolanti. Poi si vede l' effetto che fa, lasciando ai malcapitati funzionari del Dagl il compito di fare il lavoro sporco con gli uffici legislativi dei ministeri coinvolti. Come cambiare una norma mezz' ora prima che parta il plico per il Quirinale. O mezz' ora dopo, quando bisognerebbe solo ricopiare il testo firmato sulla Gazzetta Ufficiale. Non bisogna stupirsi se qualche tempo fa un decreto è giunto alla Corte dei conti privo di soggetto in una frase. Come nemmeno nei giochi della "Settimana Enigmistica". Una squadra efficiente e forte non avrebbe consentito di arrivare a quel punto. I problemi li avrebbe risolti prima, nelle riunioni tra capi di gabinetto, in quelle tra capi degli uffici legislativi. Nei casi più delicati, a tu per tu con l' omologo di un altro ministero. () Il capo del Dagl si comporta come un maestro di cerimonie, dirige le danze e dissimula per orientare l' esito delle riunioni. Solo se deve chiudere e teme che la situazione gli sfugga di mano può ricorrere all' imperio che gli deriva dal ruolo. E cioè: si fa così perché lo dico io. Un potere da esercitare con parsimonia, per preservarne la sacralità. Al contrario di quanto faceva all' inizio la Manzione nei preconsigli dei ministri. Di fronte a un contrasto di opinioni, si rifugiava nel più classico "chiedo a Matteo". Si allontanava, telefonino in mano. E quando rientrava, lo esibiva come un trofeo, chiosando il contenuto del messaggio ricevuto con la formula "Matteo mi ha detto di fare così". A Palazzo Chigi solo una persona riusciva a tenerle testa ed era un' altra donna, di pari osservanza renziana. Destinata al ministero delle Riforme, senza portafoglio, Maria Elena Boschi capì subito che la sala macchine era a Palazzo Chigi e lì bisognava entrare.

Estratto dal libro ''Io sono il potere'', pubblicato da ''La Stampa'' il 7 marzo 2020. Ci sono due lezioni che ho imparato dai politici. La prima è il culto della durata. Della resistenza. Della resilienza. La seconda è che la durata richiede misura. Non penitenza, né astinenza. Misura. Noi non siamo impiegati, funzionari, dirigenti. Noi capi di gabinetto di carriera sappiamo bene che una parte non meno importante del nostro lavoro non è nel ministero. È fuori, è oltre. Nell' ora tarda e incerta in cui le luci degli uffici affievoliscono, i computer portatili si ripongono. E i telefoni vibrano, dolcemente silenziati. (...) io cerco di essere scientifico. Ci sono tanti parametri da osservare nella scelta dei posti da frequentare. L' istituzione coinvolta è il principale. E sopra tutte c' è sempre il Quirinale. Toglietemi tutto, ma non la Festa della Repubblica al Quirinale. Una ventina di giorni prima viene recapitato l' invito, sotto forma di cartoncino pergamenato con il simbolo della presidenza della Repubblica. Se sei al governo, te lo aspetti. Se sei rimasto fuori, triboli. Per cui quando arriva è una soddisfazione. E devi confermare la tua presenza. Con la possibilità di portare un ospite. Uno o una, s' intende. La moglie è la scelta più canonica. I figli no, perché i minorenni non sono ammessi. Quando al Quirinale arriva il gran giorno, le macchine si parcheggiano sulla grande piazza che divide il palazzo da quello della Corte costituzionale. Dall' alto la distesa di auto blu è impressionante, anche se negli ultimi anni parecchi hanno preso l' abitudine di arrivare a piedi. A favore di telecamere. Fa chic e non impegna. L' ingresso è comunque rigorosamente a piedi, per tutti. A questo punto devi scegliere il momento in cui entrare. Se vuoi finire nelle gallerie fotografiche, ti conviene seguire un ministro o una personalità istituzionale. Lo scatto è assicurato. Se vuoi tenerti sobrio, meglio accodarsi a qualche ammiraglio in divisa. Sono tutti uguali, nessuno li riconosce. Dopo il controllo sotto il metal detector, tipo aeroporto, attraversando il grande cortile finalmente approdi sulla terrazza mozzafiato. Tutta Roma è ai tuoi piedi e la sensazione è di magica onnipotenza. Tavolini e capannelli di gente dappertutto. Ai bordi il gran buffet. Ricco, al punto da sembrarmi un po' raffazzonato. Troppi vini diversi, non sempre di qualità. E paninetti da festa di paese, anche se con la P maiuscola. Ma pare che le vivande siano gentilmente offerte alla presidenza della Repubblica, e quindi non è il caso di sottilizzare. A un certo punto si forma la fila per salutare il capo dello Stato. Nel 2018 è accaduto qualcosa di inedito. Il governo Conte I si era formato da poche ore e non tutti avevano avuto il tempo di prendere dimestichezza con il nuovo presidente del Consiglio. E allora, incredibilmente, si erano create due file. Una per salutare Mattarella, l' altra per stringere la mano a Conte. Io mi sono trattenuto ai bordi delle due file. Quello era il momento migliore per intercettare i nuovi ministri pentaleghisti. Il 90 per cento esordienti, sia al governo sia al Quirinale, e comprensibilmente storditi e non meno improvvisati del premier. Pubbliche relazioni necessarie a entrare in sintonia con i nuovi potenti, bisognosi di nominare gli staff, e a farsi vedere dai giornalisti. La festa al Quirinale è infatti l' unico momento in cui a loro è consentito di mischiarsi con noi. In quel pomeriggio si scoprono le carte. Si vede chi sei, chi conosci, quanto vali in questo specialissimo mercato. Come te la cavi con un presidente emerito che si diffonde sull' ultimo suo saggetto nella rassegna di giurisprudenza costituzionale e con un campione olimpico che racconta della rimonta che valse l' oro.Un doveroso baciamano a Silvana Sciarra e Daria de Pretis, giudici della Corte costituzionale. E un vigoroso abbraccio con Marco Tardelli, guizzante tra i banchetti del beverage come dopo l' eroica corsa sul prato del Bernabéu. Qualche anno fa la considerazione del mio ministro (di sinistra) schizzò all' insù quando, interrompendo un' alata dissertazione sulla più recente sentenza della Corte di Strasburgo, mi vide salutare con un doppio bacio sulle guance la soave attrice Paola Cortellesi. Simmetricamente, un altro ministro (di destra), si rallegrò ostentando complicità maschile dopo avermi notato in affettuosa conversazione con una Valeria Marini che, assicuro, non passava inosservata. Al Quirinale i politici ancora poco «romani» misurano che tu puoi essere più che un valido capo di gabinetto. Puoi presentargli un Nobel, un Oscar, uno Strega. Puoi essere un passe-partout. Puoi essere il loro campione del mondo.

ECCO PERCHÉ LA LEGGE DI BILANCIO È IL PIÙ MANIPOLATO DEI TESTI SACRI. Estratto dal libro “Io sono il potere” pubblicato da “il Sole 24 Ore” il 7 marzo 2020. Potremmo fare a meno di tutte le oltre duecentomila leggi italiane. Tranne di una. La legge finanziaria è l' unica che il Parlamento approva necessariamente entro la mezzanotte del 31 dicembre di ogni anno, perché serve a dare attuazione all' articolo 81 della Costituzione. È il pieno di benzina nella macchina dello Stato. Ogni tanto i politici in crisi di coscienza le cambiano nome per imbellettarla agli occhi dell' opinione pubblica. In principio, alla fine degli anni settanta, era la legge finanziaria. Poi legge di stabilità. Ora legge di bilancio. Ma la sostanza, per noi, resta immutata. Tanti numerini sparsi in centinaia di pagine di tabelline infarcite di migliaia di emendamenti per risolvere (o creare) altrettanti problemi. È la legge delle leggi. E dato che è l' unica che il Parlamento sicuramente approverà, tutto ciò che ci finisce dentro sarà magicamente marchiato con il timbro indelebile della legge. Tasse, spese, finanziamenti, tagli, agevolazioni, obblighi, diritti, divieti e proroghe. I progressi più nobili e le schifezze più abiette. Tutto insieme, affogato ed equiparato. La finanziaria è un rito lungo, tantrico, che si snoda in tre mesi di passione. I mesi più faticosi del mio anno da capo di gabinetto. Ancora di più ora che non ho più l' età gagliarda delle prime esperienze ministeriali, quando le notti insonni mi ricaricavano di adrenalina. Per arrivare fino in fondo bisogna aver letto i testi sacri e bilanciare passioni e interessi. Che non sono né buoni né cattivi. E quindi non vanno respinti, poiché significherebbe respingerli a un livello più profondo. E quindi sublimarli. Il nostro compito è salire su quello che Giuliano Amato definì «l' ultimo treno per Yuma». Portare a bordo gli articoli funzionali ai compiti del ministero. Poi quelli che sorreggono la carriera del ministro. Infine, se possibile, quelli caldeggiati da qualche gruppo di pressione a cui siamo personalmente legati o semplicemente interessati a coltivare. Un' associazione ambientalista, una multinazionale del tabacco, una start up, un' azienda parastatale. Non importa chi e perché. È un compito ingrato, ma qualcuno deve pur farlo. Ogni ministro deve intestarsi qualcosa. Gli incentivi all' auto elettrica, la lotta alle bibite gassate, un festival jazz, una cattedrale da restaurare. Il capo di gabinetto deve fare in modo che quella norma, all' alba di Capodanno, sia stampata sulla Gazzetta Ufficiale. E quindi regolarmente in vigore. Ne va della sorte del ministro, e anche della mia. Se il ministro ne uscirà vincitore, anche le mie quotazioni come buon capo di gabinetto saliranno. Se tra ottobre e dicembre non sei disposto a trasfigurarti in un guerriero e a salire sul ring della finanziaria, il mestiere di capo di gabinetto non fa per te. Se non sei pronto a combattere la lotta più spietata a colpi di commi, emendamenti, articoli, riformulazioni, ordini del giorno e codicilli, sarai spazzato via e rispedito a scrivere sentenze, manuali universitari, pareri di legittimità. [] I tre mesi della finanziaria sono infernali. Roma viene invasa da lobbisti di ogni sorta, in rappresentanza di ogni tipo di interessi. Pubblici e privati. Affaristici e no profit. Collettivi e individuali. Un avvocato d' affari mi ha raccontato che ormai i suoi clienti non gli chiedono più di avvicinare ministri e presidenti di commissione, ma direttamente i capi di gabinetto. Prestigiose agenzie internazionali e intermediari "all' amatriciana" si confondono in un caleidoscopio di appuntamenti, promesse, lusinghe e minacce, alimentando un mercato che vale 40 milioni (più gli extra in nero) e cresce del 15% l' anno. Tanto che alcuni di noi, quando escono dal giro dei ministeri, provano a passare dall' altro lato della barricata. Come Luigi Tivelli, un ex funzionario parlamentare che ha aperto uno studio di consulenza vantandosi di essere «il Coppi del lobbying». Per tenerne conto, mentre il Parlamento discute, analizza, audisce, si accapiglia sui decimali, ogni giorno da qualche parte viene sfornata una nuova bozza. Nella quale sparisce la soppressione di una Camera di commercio. E spunta un bicentenario da sovvenzionare. Si elimina un' esenzione fiscale. E si aggiunge una superstrada da finanziare. Inutile inseguire le bozze mutevoli. Bisogna capire da dove escono. Chi le scrive. Molti girano a vuoto, si illudono. Io cerco di non farmi distrarre. La cosa più importante è sapere qual è il computer buono. Il computer giusto. C' è, in tutta Roma, un solo computer che può cambiarti la vita, la carriera o almeno la legislatura. Perché contiene il file della legge finanziaria. Da lì escono le bozze. Il file vero. Quello in cui si scrivono i testi che poi andranno in Parlamento e saranno approvati. [] È finita. Quasi. Anche il maxiemendamento va scritto, in un computer. Il computer buono, sempre quello. In via XX Settembre, nella stanza del capo di gabinetto del ministero dell' Economia o del suo vice. E io dovrò vigilare che non mi facciano scherzi. «Il maxiemendamento è il delitto perfetto», ha scritto il costituzionalista Michele Ainis. Senza castigo, aggiungo io. Mi faccio mandare "il maxi". Sono stremato. Ma devo resistere, sono all' ultimo miglio. Lo viviseziono. Elefantiaco, contorto, oscuro. Un articolo, 842 commi di italica oscurità. Il maxiemendamento non si deposita mai in Parlamento in formato elettronico, ma rigorosamente cartaceo. Come ai vecchi tempi. La ragione non è il rifiuto luddistico della tecnologia informatica, ma una più pratica esigenza. Il regolamento prevede che trascorrano almeno ventiquattro ore dal momento in cui il maxiemendamento viene depositato dal governo a quello del voto in Aula. Un giorno può essere eterno, possono maturare circostanze che esigono correzioni volanti al testo. Per esempio, se si scopre che mancano alcuni voti e bisogna recuperarli con una marchetta di gradimento dei parlamentari riottosi. Allora bisogna aggiungere, correggere, limitare, estendere, eliminare in extremis una parola, un rimando normativo, una cifra. Se il testo è depositato in formato elettronico, per email o su una chiavetta Usb, la correzione è impossibile: lascerebbe una traccia indelebile e non sarebbe possibile intervenire su tutte le copie del file. Invece se l' originale è stampato, anche a fronte di un maxiemendamento di migliaia di pagine, è sufficiente toglierne una e sostituirla con un' altra stampata clandestinamente con la correzione necessaria. Tutti sanno che è andata così. Che il testo sacro è stato manipolato. Ma nessuno potrà mai dimostrarlo.

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 12 marzo 2020. Buongiorno signor capo di gabinetto, è così che la chiamano nei palazzi romani della politica, giusto?

«Buongiorno a lei. Proprio così, con naturale sussiego e dovuta deferenza».

Leggendo il suo libro anonimo Io sono il potere - Confessioni di un capo di gabinetto (Feltrinelli), denso di aneddoti e circostanze molte delle quali vissute da testimone oculare, raccolte da Giuseppe Salvaggiulo, mi viene il sospetto che tanti addetti ai lavori non potranno non riconoscerla.

Sbaglio?

«Qualcuno ci prova, inevitabilmente. È la parte più divertente. Ma io resto uno, nessuno e centomila. Impersonale, come il potere autentico».

Parliamo del coronavirus, una situazione senza precedenti non solo per l' Italia. Prima di entrare nei dettagli, come descriverebbe con un' immagine la gestione istituzionale dell' emergenza?

«Molti hanno parlato di 8 settembre. Piuttosto mi pare una via di mezzo tra il grand bazaar di Istanbul e Caporetto».

Dire che il premier Giuseppe Conte brancola nel buio, come si faceva parlando di certe indagini della polizia, è troppo forte e troppo colorito?

«Io non do giudizi politici, non è il mio ruolo. Io lavoro nella politica, con la politica, per la politica. In questi giorni tutti annaspano. Non solo premier e ministri ma anche capi partito, sindaci e governatori più esperti. Alla fine si faranno i conti. Non escludo rivalutazioni, quando gli altri Paesi copieranno dall' Italia».

Come giudica che nemmeno 48 ore dopo la proclamazione della Lombardia e di 14 province zone arancioni si estendono queste norme a tutto il Paese?

«È quello che si sarebbe dovuto fare due settimane fa. Meglio chiudere tutto e subito che un po' alla volta, ingenerando confusione. Nel nostro ambiente se n' era discusso».

E perché poi non si è fatto?

«Perplessità sui presupposti sanitari e giuridici, oltre che incertezza politica. Anche da parte di chi oggi chiede di chiudere tutto».

Decreti a singhiozzo che si accavallano possono trasmettere ai cittadini senso d' insicurezza e il sospetto che chi ci governa non abbia completamente in mano la situazione?

«È più di una sensazione, anche per noi uomini di Stato. Prenda le carceri. Nel ministero della Giustizia c' è grande preoccupazione, dietro le dichiarazioni rassicuranti. Il capo di gabinetto esperto ipotizza tutte le ripercussioni delle decisioni politiche. Risolve preventivamente i conflitti, minimizza gli effetti indesiderati. Così aiuta a far accadere le cose, nella direzione giusta. Altrimenti sono grida manzoniane, se non boomerang».

Di che cosa è sintomo il fatto che un governo convochi una conferenza stampa per comunicare decisioni drammatiche alle 3 della domenica mattina?

«Strutture impreparate, assenza di leadership, troppi "esperti" improvvisati. E sottovalutazione della comunicazione con i cittadini: nella gestione delle crisi sanitarie conta quanto la scienza. Anche qualche gabinettista non se n' è accorto, impiccandosi a moduli e autocertificazioni».

A suo giudizio i consulenti tecnici cui si affida il governo, da Walter Ricciardi a Angelo Borrelli a Rocco Casalino, sono sufficientemente preparati?

«Non spetta a me giudicare. E comunque si tratta di ruoli e persone troppo diversi. Uno scienziato, un burocrate, il terzo non saprei definirlo».

Com' è avvenuto che il decreto del presidente del consiglio dei ministri è stato diffuso prima che fosse firmato?

«Troppe bozze in giro, per giunta con lo stemma e l' intestazione di Palazzo Chigi. Quindi con il crisma dell' ufficialità. Da troppi anni girano bozze, bozzette e bozzacce. Su cui si esercitano manine e manone. In una materia così delicata, una follia. E senza nemmeno le precauzioni da gabinettisti esperti».

La tecnica del baco nelle copie dei documenti che ora potrebbe rivelare chi è stato a trasmetterla in anticipo all' esterno?

«Constato che è un lettore attento delle mie "confessioni". Metodo acuto e prudente: lo introdusse Sabino Cassese alla Funzione pubblica, nel 1993. Ora invece siamo alle insinuazioni tra istituzioni. E non possiamo escludere che le manine siano più di una, come in Assassinio sull' Orient Express».

Sono confessioni che illuminano l' anatomia del potere. Quali compiti sta assolvendo il capo della Protezione civile? Noi lo vediamo solo aggiornare il bollettino dell' emergenza.

«Angelo Borrelli è un rispettabile, dignitoso e diligente funzionario pubblico. Che gli si faccia recitare il bollettino di guerra pomeridiano, oltre che irriguardoso nei suoi confronti, è un errore strategico. S' è capito tardi che siamo in uno stato di eccezione. Lei è tifoso di calcio?».

Sì, certo. Perché me lo chiede?

«Domenica, mentre guardavo la partita, ho ripensato a Carl Schmitt: "Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione". Nel calcio, sovrano è chi tira un rigore all' ultimo minuto. Nella Juventus il pallone lo prende Cristiano Ronaldo, non De Sciglio».

Per la sua esperienza, servirebbe un supercommissario?

«Servirebbe, perché manca una regia unica. Ma l' esperienza insegna che i commissari, che la politica teme perché se funzionano fanno ombra ai politici, vanno nominati subito. A questo punto suonerebbe come una delegittimazione dei titolari delle istituzioni. È doloroso osservare che la gestione di un' emergenza così grave sia finita in pasto alle furbizie e ai calcoli politici».

Non siamo più in tempo a distinguere le macchine operative una per la gestione ordinaria e un' altra con libertà d' azione per quella straordinaria?

«Di ordinario non c' è più nulla».

Tanto più. I frequenti conflitti di poteri con sovrapposizioni tra governo centrale, regioni, capo della Protezione civile non bastavano a consigliare questa soluzione?

«Nella prima fase l' autorità politica riteneva di essere in grado di gestire la vicenda da sola, supportata dal comitato tecnico-scientifico. Quando la situazione è esplosa, ha capito che non bastava. Per questo è stato richiamato Ricciardi».

Com' è possibile che si stabiliscano norme per i cittadini con conseguenze drammatiche senza disporre contemporanei sostegni per famiglie, scuole e imprese?

«Tempistiche e selezione di questi interventi appartengono a valutazioni politiche che non competono a un capo di gabinetto».

Sono state sottovalutate le problematiche del sistema sanitario?

«Si è tardato ad attrezzarlo, soprattutto nelle regioni più esposte. Non si è ipotizzato un piano per lo scenario peggiore. Per troppi giorni i medici sono rimasti senza mascherine. E solo poche ore fa è stato assegnato l' appalto per raddoppiare gli apparati respiratori per la terapia intensiva. Improvvisamente tutti riscoprono il valore della sanità pubblica, ma la sottovalutazione ha radici antiche. Sono trent' anni che, quando si fanno le riunioni preparative sulla finanziaria, il ministero della Sanità è in cima alla lista dei tagli. E il capo di gabinetto può solo cercare di limitare i danni».

Richieste del sistema ospedaliero sottovalutate, carceri in rivolta, sport nel caos: queste situazioni danno l' idea di un Paese allo sbando. È un' impressione che si ha anche dall' interno della macchina governativa?

«Per noi lo Stato non può essere allo sbando, per definizione, nemmeno quando lo appare. Dopo Caporetto c' è sempre Vittorio Veneto. Ci salveranno i medici e gli infermieri che saltano i riposi e rischiano la salute negli ospedali. Sono i nostri Armando Diaz».

Che ripercussioni ha avuto questa situazione sul funzionamento della macchina governativa?

«Assistiamo a scene inimmaginabili. A Palazzo Chigi sono stati limitati gli accessi: ogni ministro può far entrare un solo collaboratore, anziché la pletora di capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi, vice e vice dei vice. Nemmeno Renzi, che pure ci detestava, l' aveva mai fatto. E poi è partito il vortice della delazione. Se qualcuno salta un pre-consiglio dei ministri o una riunione tecnica, dilagano sospetti e pettegolezzi. E dagli all' untore. I capi di gabinetto sono spietati. E qualcuno ne approfitta per regolare conti o tarpare le ali a gabinettisti novizi ma, come dire, "cagionevoli". Io, nel dubbio, non tossisco mai. Nemmeno per schiarirmi la voce».

Se si chiudessero tutti i servizi pubblici a eccezione di alimentari e farmacie si tratterebbe di una decisione da governo di salute pubblica, un discreto salto istituzionale per il quale forse sarebbe indispensabile un intervento del Capo dello Stato, non crede?

«Si dice che necessitas non habet legem. Camminiamo sospesi su un filo, il capo dello Stato è garante di un equilibrio fragile».

·         La Lobby del Tabacco.

Strapotere del gruppo mondiale del tabacco. Philip Morris ordina, il governo esegue: niente tasse al 50% sul tabacco riscaldato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. Il disegno che su questo giornale avevamo tratteggiato ha preso forma, nella conferma della legge di bilancio al varo: la pressione fortissima del mondo del tabacco – particolarmente vicino ad alcuni soggetti – impedisce al Parlamento di mettere mano liberamente alla tassazione sui prodotti da tabacco riscaldato. Alle 3 di notte tra sabato e domenica, quando ormai era l’ultimo secondo utile, la “manina” ha fatto ritorno in commissione, reinserendo l’emendamento del Governo sul tabacco. Così nelle pieghe della manovra ecco la leggina che ritocca le accise: quelle sul tabacco riscaldato passano dal 25 al 30% per il 2021, al 35% per il 2022 e al 40% nel 2023. Tutto lo sdegno per le notizie su Tabaccopoli via via pubblicate non è riuscito a tramutarsi nel voto dei tanti, soprattutto tra i Cinque Stelle, che erano corsi a sottoscrivere l’emendamento a prima firma Vita Martinciglio che portava le tasse, da subito, al 50 per cento. Il mancato emendamento comporta un vantaggio di milioni di euro per Philip Morris. Ed è proprio la deputata pentastellata, membro della commissione Bilancio, tesoro e pianificazione, a dirsi la più delusa: “Mi ero illusa che con la legge di bilancio 2021 e facendomi forza anche del consistente numero di sottoscrizioni, si potesse aprire finalmente uno spiraglio su iniziativa di parlamentari di diversi gruppi alla Camera”, ci dichiara Martinciglio, “ma l’epilogo ha segnato una brutta pagina della nostra cronaca politica. Il beneficio è stato ridotto di poco, senza allinearlo agli standard dei grandi paesi europei. bisognava correggere esclusivamente l’imposizione fiscale sul tabacco riscaldato, escludendo l’irragionevole beneficio, e lasciare inalterate le previsioni relative ai liquidi da inalazione senza combustione, perché diversamente si legittimerebbe nuovamente il beneficio, sul quale sta facendo chiarezza anche la magistratura”.  Il riferimento alla giustizia non risulta improprio, quando con riferimento all’operazione Cassandra, che ha tra l’altro portato all’arresto di Leo Checcaglini, all’epoca dei fatti Direttore Affari Istituzionali Philip Morris Italia, leggiamo negli atti della Procura della Repubblica di Roma che vi sarebbe stato “uno stabile asservimento della funzione pubblica a Philip Morris Italia a discapito degli altri produttori concorrenti”. Sono il Procuratore Paolo Ielo ed il sostituto Alberto Pioletti a scriverlo. Nella richiesta di costituzione di parte civile, sottoscritta il 9 novembre scorso da Bat, uno dei concorrenti, troviamo un elemento precognitivo e rivelatorio: “Nell’esposto abbiamo, fra l’altro, sottolineato come lo “stabile asservimento” evidenziato negli atti dell’indagine potrebbe avere anche influenzato il processo decisionale che ha portato, a fine 2018, al drastico incremento dello sconto fiscale concesso alle nuove sigarette a tabacco riscaldato di cui Iqos Heets di Philip Morris deteneva, a quella data, il 100% della relativa quota di mercato”. Se la maggioranza voleva fugare i i sospetti di chi adombra uno stabile asservimento, ha mancato il colpo. E’ delusa anche la deputata di Leu Rossella Muroni: “L’emendamento a mia prima firma sul tabacco riscaldato è stato fermato da un compromesso al ribasso. La mia proposta, sottoscritta anche da Fusacchia, Lattanzio, Palazzotto, Quartapelle, Fioramonti, Stumpo, Magi, Fratoianni e Pastorino, aveva uno scopo preciso: togliere un privilegio fiscale su prodotti dannosi per la salute a sostegno del finanziamento della medicina territoriale. Prevedeva infatti di rafforzare l’assistenza domiciliare ai soggetti fragili con gli introiti derivanti dalla riduzione del vantaggio fiscale di cui gode il tabacco riscaldato. E’ stato fatto poco e male: poco perché si giunge nel 2023 a solo il 40%, male perché i fondi recuperati verranno dispersi in mille rivoli”. Grande disappunto anche tra qualche esponente del Pd, come Tommaso Nannicini. La legge colpisce le sigarette elettroniche, lambisce del minimo il tabacco riscaldato e lascia inalterate le sigarette tradizionali. Tra gli operatori del settore e-cig si teme il peggio dall’introduzione di un aumento sulle sigarette elettroniche, anche questo dovuto – sembra – alle pressioni di Big Tobacco. “Quasi certamente nel 2021 vedremo la chiusura di centinaia di punti vendita e una contrazione severa di tutto il comparto, a favore di BigT con la compiacenza dei burocrati”, dichiara Nicola Guglielmi, nel settore del fumo elettronico a Bologna. Sulla polemica, a cose fatte, si inserisce un po’ a sboccio anche Matteo Salvini. Twitta: “Scrivono sui pacchetti di sigarette ‘Il fumo uccide’ e stanno per approvare una legge (col voto contrario della Lega) che aumenta le tasse sulle sigarette elettroniche, sul tabacco riscaldato e sullo Svapo. Che senso ha?” Quando si parla di prodotti da fumo neppure Salvini riesce a parlare più di flat tax.

La battaglia sul tabacco. Philip Morris piega il Parlamento, vince Davide Casaleggio: insabbiata Cinquestellopoli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. Ha vinto la Philip Morris. Era prevedibile. L’aumento delle tasse sul fumo elettronico sarà quasi impercettibile e resterà largamente al di sotto della media internazionale. Ha deciso il Parlamento. La piccola pattuglia di parlamentari di vari partiti che si è battuta per ripristinare una tassazione ragionevole e per usare i fondi così guadagnati dallo Stato per finanziare la sanità, è stata sgominata. La maggioranza del Parlamento ha chinato il capo dinanzi al diktat della potentissima multinazionale, nonostante lo scandalo sollevato nelle settimane scorse dal Riformista, che aveva rivelato come la Philip Morris aveva firmato ricchissimi contratti alla Casaleggio Associati e, contemporaneamente, aveva visto i 5 Stelle votare provvedimenti vari che abbassano notevolmente le tasse sul fumo elettronico. Per la Philip Morris è stato un bel colpo da manuale. Si calcola che ne abbia avuto un vantaggio che oscilla tra i 200 e i 500 milioni all’anno. Ma anche la Casaleggio ne è uscita abbastanza bene, perché quello che a occhio nudo appare come uno dei più clamorosi scandali politici degli ultimi vent’anni, è stato perdonato dalla politica, dai giornali e dalle Tv. Hanno chiuso tutti un occhio. Chissà perché. Forse i giornalisti, anche sugli scandali, vanno un po’ a corrente alternata. Per varie ragioni. Poche confessabili, molte inconfessabili. E così, sebbene pressati da una parte del Pd e di Italia Viva, da FdI, da una parte dei 5 Stelle (in dissenso con i capi) i deputati non si sono vergognati di dare un voto che premia la Philip Morris e punisce la sanità. E hanno passato sotto silenzio anche Cinquestellopoli e i due milioni e mezzo di euro intascati da Casaleggio. Ora l’unica possibilità è che la magistratura faccia il suo dovere (alla fine, lo sapete, l’unico protagonista attivo, in politica, è la magistratura). Ma il legame tra molte Procure e i 5 Stelle potrebbe sconsigliare…

La Philip Morris è intoccabile, il governo si piega boccia l’aumento delle tasse per il tabacco riscaldato. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Dicembre 2020. Mi occupo di politica da tanti anni, però non mi era mai capitato di trovarmi di fronte a una situazione come questa. Riassumo: Philip Morris, multinazionale del fumo, offre alla Casaleggio Associati vari contratti per la cifra notevolissima di circa due milioni e mezzo. Non si è capito bene, ancora, in cambio di che cosa. La Casaleggio Associati appartiene a Davide Casaleggio, Davide è uno dei maggiori leader dei 5 Stelle, i 5 Stelle votano in Parlamento un provvedimento che abbassa del 25 per cento le tasse sulle sigarette elettroniche producendo alla Philip Morris vantaggi economici calcolati tra i 250 e i 500 milioni all’anno. Noi – cioè noi del Riformista – scopriamo questa magagna. La denunciamo, nessuno ci smentisce anzi piovono conferme e a questo punto alcuni parlamentari – soprattutto di Leu ma anche qualche 5 Stelle dissidente o forse neppure tanto dissidente ma un pochino onesto – insieme a Italia Viva e, credo, anche a FdI, propone di aumentare le tasse e di riportarle ai livelli ante-Casaleggio, e vicini agli standard europei, cioè vicini al vecchio 75 per cento. O almeno – soluzione di compromesso – al 50 per cento. Il governo invece propone di portarle dal 25 al 30 per cento. Cioè una mollichina in più. La differenza tra la proposta di ritorno alle regole e la mollica del governo è di alcune centinaia di milioni all’anno. Nella proposta di Leu, d’Italia Viva e di alcuni 5 Stelle c’è anche l’idea di destinare i fondi così raccolti alla sanità. Voi dite: beh, colti sul fatto, di fronte all’evidenza che dare i soldi alla Philip Morris anziché alla Sanità non è una cosa bella bella, i filimmoristi cederanno. Magari anche solo per sano e inevitabile populismo. Macché! Tengono duro e non hanno vergogna di niente. In commissione bilancio insistono che contro la Philip Morris non si può andare più di tanto. E hanno la maggioranza. Il bello è che questo scandalo di dimensioni ciclopiche nuota appena appena al pelo dell’acqua. Perché ai giornali questo scandalo non piace. E piace a pochissimi giornalisti. Perché? Certo, sarebbe carino indagare su questo, ma non è facile. E poi quando una lobby fa l’alleanza coi giornalisti, giurarci, non si va lontano. Una volta è la lobby dei magistrati, una volta è la lobby del fumo… Si blindano. Naturalmente tutta questa vicenda – che assai probabilmente finirà con la vittoria della Philip Morris e di Casaleggio – ci dice molto sui sistemi di controllo della nuova politica. Esistevano già una volta, questi sistemi. Ora però si sono fortissimamente rafforzati. Una delle leggi che più ha inciso nella subordinazione totale della politica alle Lobby è stata quella che ha abolito il finanziamento pubblico dei partiti. Prendere per il collo la politica e spingerla alla miseria è un’ottima arma per costringerla a mettersi agli ordini delle Lobby. E così è stato. Del resto – diciamo la verità – nella Prima Repubblica non poteva succedere che un partito, addirittura, potesse essere considerato la diretta emanazione di una società per azioni. Ora è così. E gli interessi della Casaleggio, che controlla il partito di maggioranza relativa (sia nel governo sia nel Parlamento) sono evidentemente interessi del tutto privilegiati sullo scacchiere politico. Da questo punto di vista credo che noi Italiani siamo capofila in Europa. Forse in nessun altro paese esiste una dipendenza così forte della politica dal potere economico.

·         Le Lobbies di Gas e Luce.

Gas e luce: 13 società sotto inchiesta dell’Antitrust. Il Corriere del Giorno il 9 Ottobre 2020. L’indagine attiene anche alle condotte aggressive poste in essere da alcuni degli operatori, laddove prevedono l’applicazione di penali in caso di recesso o applichino costi per servizi non resi, onde sanzionare i comportamenti pregiudizievoli per i clienti domestici e non domestici di piccole dimensioni e così dissuaderne la futura reiterazione. L’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Libero Mercato, meglio nota come Antitrust ha avviato 13 procedimenti istruttori nei confronti delle società Enel Energia, Optima, Green Network, Illumia, Wekiwi, Sentra, Olimpia-Gruppo Sinergy, Gasway, Dolomiti Energia, E.On, Axpo, Audax, Argos riguardanti la mancanza di trasparenza nell’indicazione delle condizioni economiche di fornitura di energia elettrica e gas sul mercato libero. I rilievi formulati dall’Autorità si riferiscono sia alla documentazione contrattuale sia alla comunicazione promozionale. L’analisi delle principali offerte commerciali sul mercato libero proposte dalle società ha rivelato l’esistenza di diversi profili critici delle informazioni rese – spiega l’Antitrust in un comunicato – in ordine alle voci che concorrono alla formazione del prezzo complessivo dell’energia elettrica e del gas, comprensive di oneri che, una volta riportati in bolletta, vengono posti a carico dei consumatori. In particolare risulta che, prima della sottoscrizione del contratto, gli utenti non siano adeguatamente informati dell’esistenza di alcune voci di costo aggiuntive al prezzo della componente energia, con la conseguenza che, solo al momento della ricezione delle bollette, essi si rendono conto degli effettivi costi delle forniture di energia elettrica e gas applicati da queste imprese, risultanti superiori alle attese. In molti casi gli oneri di commercializzazione non sono indicati nel loro esatto ammontare oppure alcuni oneri previsti dal contratto non trovano fondamento in una corrispondente attività. Talvolta invece altre voci di costo risultano impropriamente addebitate agli utenti in caso di recesso anticipato, a titolo di penale o sotto forma di storno dei bonus concessi per incentivare l’adesione alle offerte commerciali. Con l’avvio di questi procedimenti, l’Autorità intende accertare l’esistenza di condotte relative alle offerte di fornitura dell’energia elettrica e del gas sul mercato libero che contrastino con le norme del Codice del Consumo, nei casi in cui le condizioni economiche prospettate nella documentazione contrattuale o promozionale da parte dei vari operatori del settore risultino ingannevoli, inadeguate o omissive. L’indagine attiene anche alle condotte aggressive poste in essere da alcuni degli operatori, laddove prevedono l’applicazione di penali in caso di recesso o applichino costi per servizi non resi, onde sanzionare i comportamenti pregiudizievoli per i clienti domestici e non domestici di piccole dimensioni e così dissuaderne la futura reiterazione. Tali comportamenti potrebbero integrare, del resto, anche una condotta non diligente, in violazione dell’art. 20 del Codice del Consumo.

·         La Lobby dei Sindacati.

Gli insindacabili. Report Rai PUNTATA DEL 14/12/2020 di Claudia Di Pasquale. Collaborazione di Federico Marconi e Lorenzo Vendemiale. L'emergenza coronavirus sta dando il colpo di grazia alla nostra economia. I tavoli di crisi aperti al ministero sono ben 120, per circa 160 mila lavoratori. Non sappiamo cosa accadrà quando finirà il blocco dei licenziamenti. In questo scenario è fondamentale il ruolo del sindacato per difendere i lavoratori e garantire la giustizia sociale. Ci siamo chiesti allora come funziona uno dei principali sindacati italiani, quello della Cisl, ma i vertici del sindacato non hanno voluto concederci un'intervista istituzionale. Mai in venticinque anni di storia abbiamo ricevuto così tante porte in faccia. Un grande sindacato come la Cisl non ha ritenuto di rispondere a domande finalizzate a capire qual è oggi il ruolo del sindacato, come garantisce ai suoi iscritti la trasparenza, e quali sono le regole interne, che garantiscono la correttezza dei comportamenti dei dirigenti sindacali. Perché i dirigenti Cisl evitano il confronto? È arrivata anche una querela preventiva per un tweet di Sigfrido Ranucci sugli stipendi dei vertici. Era il 2015 quando su tutta la stampa nazionale esplodeva il caso dei maxistipendi della Cisl, a distanza di cinque anni. Report torna su quella vicenda con testimonianze e documenti inediti.

“GLI INSINDACABILI” di Claudia Di Pasquale collaborazione Federico Marconi – Lorenzo Vendemiale immagini Chiara D’Ambros – Giuseppe De Faveri – Matteo Delbò montaggio Federico Tozzi – Antonella Vincenzi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO 28 luglio 2020, a Roma si tiene un’importante riunione della Cisl a cui partecipano anche il segretario generale aggiunto Luigi Sbarra e la segretaria generale Annamaria Furlan.

CLAUDIA DI PASQUALE Dottoressa Furlan, posso ringraziarla? So che ci concederà un’intervista a settembre.

ANNAMARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Sì, se per voi non è un problema. Ci vediamo, volentieri.

CLAUDIA DI PASQUALE L’unica cosa: io volevo anche poter intervistare il dottor Sbarra.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Poi ci mettiamo d’accordo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ci tengo. Perché ognuno ha la sua storia, ovviamente, sindacale e penso che sia un buon segnale la trasparenza in questo momento, giusto?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Arrivederci.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo stesso pomeriggio ad un altro evento, la Furlan ce lo conferma.

ANNA MARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Ci vediamo a settembre.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Passano le settimane e arriva settembre.

ANNA MARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Il primo diritto della persona è quello del lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE Dottoressa Furlan, si ricorda l’impegno che avevamo preso?

ANNA MARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Ah, la giornalista di Report, come sta?

CLAUDIA DI PASQUALE Riusciamo a incontrarci allora per un’intervista?

ANNA MARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL So che avete mandato una richiesta.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì. ANNA MARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL E noi vi rispondiamo, grazie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È possibile realizzare nel nostro paese un’inchiesta sul sindacato, senza essere accusati di attacco alle libertà sindacali? La nostra, forse, è un’ambizione, ma proveremo a farlo questa sera. In 25 anni non abbiamo mai riscontrato tanta ostilità e tanta resistenza a rilasciare informazioni e interviste. Abbiamo invitato più volte Anna Maria Furlan, la segretaria generale della CISL e i suoi dirigenti, ma abbiamo ottenuto sempre dei “no” in risposta e, anzi, volevano partecipare in diretta alla trasmissione, come se non sapessero che in venticinque anni il format di “Report” non è mai cambiato e non l’ha mai prevista. Ma per un semplice motivo: perché vogliamo vagliare ogni singola informazione per rispetto del pubblico, prima di trasmetterla. Non certo perché temiamo il confronto. Ma la cosa che ci ha sorpreso di più, è scoprire, proprio nelle ore precedenti alla trasmissione, che la CISL aveva preparato 21 tweet. Sono dei tweet con dei contenuti già prestampati, scritti dai dirigenti in difesa degli stessi dirigenti. I contenuti sono, l’hashtag è: #iostoconlacisl. “Quello di Report è un attacco alla libertà sindacale…”, “orgoglioso di far parte della CISL”, “l'inchiesta di Report demonizza il sindacato vergognatevi!”, “invece di parlare di trasparenza perché non parlate” del mio stipendio, “l'attacco – poi - a Luigi Sbarra – il segretario aggiunto - è un’offesa...”, “conosco personalmente – il segretario - Sbarra è una gran brava persona”. Ecco, questi tweet, almeno hanno avuto l’abilità di scrivere: non fate il copia e incolla per evitare imbarazzi. Questi tweet poi, alla fine, serviranno stasera anche forse a fare una conta. Come nasce tanta ostilità? Quando, questa estate, si è dimesso il segretario Bentivogli, Marco Bentivogli. Era il segretario della Fim, la federazione dei metalmeccanici della CISL. Io sottolineavo il fatto, commentavo il fatto che abbandonava un sindacalista 4.0, con una visione moderna del sindacato, che sarebbe stato probabilmente utile in questa fase del paese. E ricordavo la vicenda, lo scandalo degli stipendi dei dirigenti della CISL. Non sapevo di aver toccato un nervo ancora scoperto. Mi è arrivata la querela più veloce della storia, e quel nervo scoperto era lo stesso che aveva toccato nel 2015 un ex dirigente della CISL, Fausto Scandola. Aveva denunciato che alcuni dirigenti della CISL avevano accumulato un lordo previdenziale ben superiore a quanto stabilito dal regolamento dell’epoca. In alcuni casi si arrivava anche al doppio, 200 mila euro, quando il limite previsto era intorno agli 87 mila euro. Poco dopo Scandola viene espulso dai probiviri, una sorta di organismo, di magistratura, interna al sindacato: l’accusa è quella di aver leso l’onore della segretaria, Anna Maria Furlan. Dopo poco Scandola muore. Non c’è più neppure la collega Nadia Toffa, che aveva realizzato per “Le iene” un’inchiesta memorabile su questa vicenda, pur non avendo ricevuto una risposta. La Furlan e Sbarra dicono: ma noi i redditi li pubblichiamo. Vero, ma a partire dal 2015, dopo che è stato cambiato un regolamento e hanno anche introdotto un’indennità di funzione. Non hanno mai pubblicato i redditi che erano, invece, al centro della denuncia di Scandola. Sarebbe servito, se non altro, per far chiarezza. La nostra Claudia Di Pasquale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Luigi Sbarra, lo incontriamo durante lo sciopero generale del 18 settembre.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL È solo il lavoro che ci aiuterà e ci porterà fuori da questa terribile tempesta, grazie!

CLAUDIA DI PASQUALE Lei come sa dottor Sbarra, noi le abbiamo fatto una richiesta ufficiale di intervista.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Sì sì, le arriverà la risposta del nostro ufficio stampa, tranquilla, tranquilla.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma nell’attesa, ci toglie…

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Oggi siamo qui per parlare del lavoro. Siamo concentrati sui temi della manifestazione, vi chiediamo di avere rispetto del nostro lavoro…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sbarra è di origine calabrese. Sua sorella Nausicaa oggi è la responsabile del coordinamento donne Cisl Calabria. Lui invece inizia la sua carriera sindacale a Locri. E già dagli anni ’80 ricopre incarichi dirigenziali all’interno della Cisl, fino a diventare dal 2000 al 2009 segretario regionale della Cisl Calabria. Proprio in quegli anni, la stampa locale pubblica la notizia della sua assunzione all’Anas.

GIOVANNI GRAZIANI - GIORNALISTA - EX PRESIDENTE PROBIVIRI FAI CISL La voce che era circolata sulla stampa era che l’assunzione fosse avvenuta nel 2004, nel momento in cui Sbarra ricopriva l’incarico di segretario generale della Cisl in Calabria. Non è un illecito, nel senso che l’Anas può assumere chi vuole e uno può fare il concorso che vuole. Quello che non torna è come si faccia a fare contemporaneamente il segretario generale della Cisl della Calabria e lavorare presso il dipartimento dell’Anas di Catanzaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma Luigi Sbarra ha mai lavorato all’Anas?

GIOVANNI GRAZIANI EX PRESIDENTE DEI PROBIVIRI FAI CISL Se ha mai lavorato all’Anas, lo sa l’Anas, lo sa lui e lo sa Dio.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sul sito della Cisl, il segretario Sbarra non ha specificato in quale anno è stato assunto all’Anas, e quando ha pubblicato la sua busta paga la data di assunzione risultava cancellata.

CLAUDIA DI PASQUALE Dottor Sbarra visto che comunque lei tiene alla trasparenza e…

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Ha qualche dubbio, ha qualche dubbio?

CLAUDIA DI PASQUALE Mi dica lei, mi parli lei dei suoi stipendi, visto che lei parla…

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Ha qualche dubbio?

CLAUDIA DI PASQUALE Io voglio fare delle domande.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Se lei insinua, facciamo parlare gli avvocati.

CLAUDIA DI PASQUALE Di che cosa?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Ne parliamo in tribunale. Se lei insinua…

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa devo insinuare?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Se lei mi dice che dobbiamo parlare dei miei stipendi, che sono pubblicati da sei anni, sul sito della Cisl.

CLAUDIA DI PASQUALE Da sei anni. E quelli precedenti?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL C’era un regolamento che prevedeva altro.

CLAUDIA DI PASQUALE Quando è stato assunto all’Anas?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Sono stato assunto con regolare selezione pubblica, l’ho superata…

CLAUDIA DI PASQUALE Sì, in che anno?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL …l’ho superata, ho preso servizio e sto utilizzando l’aspettativa sindacale che è regolata dalla legge e dai contratti. Grazie.

CLAUDIA DI PASQUALE Però ci dice in quale anno, perché c’è questo mistero dell’anno perché…

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL È tutto nella mia biografia, guardate.

CLAUDIA DI PASQUALE Non c’è scritto nella sua biografia.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Guardate, guardate…

CLAUDIA DI PASQUALE Non c’è scritto l’anno nella sua biografia.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL E andate al centro per l’impiego.

CLAUDIA DI PASQUALE Devo andare al centro per l’impiego? Ma perché non ce lo può dire in che anno è stato assunto?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Andate al centro per l’impiego. Guardi, non faccia provocazioni e non faccia insinuazioni, le ripeto.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma io non sto facendo nessuna insinuazione.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Diversamente facciamo parlare gli avvocati.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma basta che lei ci dice in che anno è stato assunto.

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Tranquilla, tranquilla, lo hanno scritto i giornali.

CLAUDIA DI PASQUALE È stato scritto nel 2004, quando lei era già segretario della regione Calabria. Questa cosa è vera?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL E quindi? E quindi?

CLAUDIA DI PASQUALE Me lo dica, è vero?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL E quindi, dov’è il problema? Dov’è il problema?

CLAUDIA DI PASQUALE Ma è vero o no?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Ma dov’è il problema?

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei quanti giorni ha lavorato all’Anas?

LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL Lavoro… lavoro… lavoro… Ho lavorato il tempo necessario. Nel pieno rispetto della legge e dei contratti. La saluto.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma se lei era il segretario della regione Calabria come faceva a lavorare per l’Anas?

 LUIGI SBARRA - SEGRETARIO GENERALE AGGIUNTO CISL La saluto, la saluto… Arrivederci, arrivederci…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Cinque anni fa i segretari Luigi Sbarra e Annamaria Furlan sono finiti insieme ad altri dirigenti della Cisl nell’occhio del ciclone. Allora su tutta la stampa nazionale, da Repubblica a Le Iene, è esploso il caso dei maxistipendi della Cisl, che apparivano superiori ai limiti indicati dal regolamento economico interno, allora vigente risalente al 2008.

GIOVANNI GRAZIANI - GIORNALISTA - EX PRESIDENTE PROBIVIRI FAI CISL Le retribuzioni indicate dal regolamento erano attorno agli 80mila, 85, forse il segretario generale un pochino di più.

CLAUDIA DI PASQUALE 80-85mila euro.

GIOVANNI GRAZIANI - GIORNALISTA - EX PRESIDENTE PROBIVIRI FAI CISL Sì. E le retribuzioni dei segretari risultavano in alcuni casi 140, 120, anche 170, in alcuni casi ancora di più.

CLAUDIA DI PASQUALE Qualcuno di questi dirigenti è stato comunque sospeso?

GIOVANNI GRAZIANI - GIORNALISTA - EX PRESIDENTE PROBIVIRI FAI CISL No, nessuno. Anzi, sono tutti rimasti regolarmente al loro posto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questi sono i redditi lordi della Furlan, dal 2010 al 2014, finiti a suo tempo sulla stampa. Comprendono sia le indennità sindacali, sia gli stipendi che ha ricevuto come dipendente delle Poste. Il lordo previdenziale appare superare il limite indicato dal regolamento della Cisl allora vigente. Ma la Cisl assicura che è tutto regolare. Lo scrivono anche in questa relazione pubblicata sul sito del sindacato, firmata da un commercialista, Danilo Battista. Che cita come prova anche una delibera di segreteria del 2006.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma che c’è scritto in questa delibera?

GIOVANNI GRAZIANI - GIORNALISTA - EX PRESIDENTE PROBIVIRI FAI CISL Allora, la delibera l’ha letta il commercialista e pochi altri perché è tenuta strettamente riservata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nella stessa relazione del commercialista si legge un altro dato: per qualche anno fino al 2013 la Cisl avrebbe versato ad Annamaria Furlan dei contributi previdenziali maggiorati del 18 per cento sulla base di una legge che riguarda gli statali, e non i sindacalisti.

GIOVANNI GRAZIANI - GIORNALISTA - EX PRESIDENTE PROBIVIRI FAI CISL Cioè la pensione della signora Furlan sarebbe stata aumentata in base a questo calcolo sbagliato. La Cisl non è lo Stato. La Cisl è un datore di lavoro privato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I contributi versati in più per errore. Ora l’inps li ha restituiti, non è chiaro se alla Cisl, alla Furlan, o a entrambi.

CLAUDIA DI PASQUALE Dottoressa Furlan, sono Di Pasquale. Mi può spiegare la relazione del dottor Danilo Battista e a quale titolo la Cisl le ha versato il 18 per cento in più di contributi previdenziali? Ma perché non può spiegare?

ANNAMARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Noi siamo un’organizzazione assolutamente in regola.

CLAUDIA DI PASQUALE Può spiegare questa delibera del 2006 cosa è esattamente?

ANNAMARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Guardi del 2006 non so proprio.

CLAUDIA DI PASQUALE È la delibera che giustifica perché con il regolamento del 2008 lei aveva dei compensi superiori al limite.

ANNAMARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Da quando io sono segretaria generale pubblichiamo tutti i redditi e tutti i bilanci.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì, però a suo tempo quando è esploso lo scandalo dei superstipendi, scusi…

ANNAMARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Questo è veramente un modo brutto di parlare del sindacato e del…

CLAUDIA DI PASQUALE Vi siete tutti autoassolti…

ANNAMARIA FURLAN - SEGRETARIO GENERALE CISL Assolutamente negativo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ok, ma perché le versava dei contributi in base, scusi, alla legge del ‘76 maggiorati del 18%...

UOMO SICUREZZA Andate fuori per favore.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Chi ci dice qualcosa è l'ex segretario della Cisl Raffaele Bonanni, anche lui finito a suo tempo sui giornali per la sua pensione. E nella cui segreteria la Furlan è stata dal 2006 al 2014.

CLAUDIA DI PASQUALE C'era un regolamento, prevedeva un limite lordo previdenziale?

RAFFAELE BONANNI - EX SEGRETARIO GENERALE CISL In parte non era applicato. È così evidente. Non è che sto affermando una verità svelata, no? In parte non veniva rispettato. Ci sono delle cose che non erano regolamentari, parlo innanzitutto per me. Perché c'era questa gestione informale.

CLAUDIA DI PASQUALE E questa scelta di aumento degli stipendi era stata presa informalmente lei mi ha detto, che significa?

RAFFAELE BONANNI - EX SEGRETARIO GENERALE CISL Si prendevano informalmente con gli uffici, insomma è chiaro che poi non è che uno si faceva lo stipendio lui. Si prendevano delle decisioni informalmente, non si metteva su per iscritto, no?

CLAUDIA DI PASQUALE Invece questa indennità di alloggio cos'era? Di questi circa mille euro al mese? Chi è che aveva diritto a questa indennità?

RAFFAELE BONANNI - EX SEGRETARIO GENERALE CISL Allora fu una indennità diciamo così aggiuntiva di stipendio sotto mentite spoglie. che riguardava un aumento di stipendio parliamoci chiaro.

CLAUDIA DI PASQUALE E poi in più però prendevano in busta paga più di quanto era previsto dal regolamento?

RAFFAELE BONANNI - EX SEGRETARIO GENERALE CISL Sì, si prendeva di più, certo, certo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORICAMPO A distanza di 5 anni dalla denuncia di Scandola, Report ha scoperto che prima del 2015 i vertici potevano ricevere dalla Cisl in un mese una retribuzione aggiuntiva fino a 8.139 euro, più un’indennità di alloggio di 1.040 per un totale di 9.179 euro lordi. Più eventuale stipendio del datore di lavoro originario in caso di distacco retribuito. Certo è che secondo il regolamento del 2008 sarebbero spettati massimo poco più di 6mila euro lordi.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi gestiva questa roba?

RAFFAELE BONANNI - EX SEGRETARIO GENERALE CISL Bonfanti. Poi Ragazzini, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2015, quando sulla stampa è scoppiato il caso degli stipendi, il segretario amministrativo della Cisl era Piero Ragazzini. Allora anche il suo reddito è finito all'interno del dossier di Scandola perché appariva superare i limiti indicati dal regolamento del 2008. Pochi mesi fa è stato eletto segretario generale della Federazione dei pensionati.

CLAUDIA DI PASQUALE Posso presentarmi? Salve.

ADDETTA STAMPA CISL Scusa?

CLAUDIA DI PASQUALE Ufficio stampa di Ragazzini?

ADDETTA STAMPA CISL No, ufficio stampa Cisl. Che è successo?

CLAUDIA DI PASQUALE Volevo fare due battute con il segretario dei pensionati.

ADDETTA STAMPA CISL Non c’è il suo addetto stampa…

CLAUDIA DI PASQUALE Presentarmi almeno e dirgli che lo vorrei intervistare?

ADDETTA STAMPA CISL Lo faccio presente io.

CLAUDIA DI PASQUALE È qua dietro di te.

ADDETTA STAMPA CISL Poveraccio, non lo voglio disturbare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il segretario Ragazzini se ne va via con il telefono in mano ed entra all’interno dell’area stampa.

CLAUDIA DI PASQUALE Possiamo entrare scusi? Stampa.

UOMO SICUREZZA No.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché?

UOMO SICUREZZA Perché no.

GIORNALISTA Posso rientrare scusate?

UOMO SICUREZZA Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei può rientrare e noi no?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In base al codice etico della Cisl, i dirigenti sindacali devono pubblicare la loro situazione reddituale. Sul sito però della federazione dei pensionati, il reddito di Ragazzini non c’è.

CLAUDIA DI PASQUALE Si ricorda di me, sono Claudia Di Pasquale di Report.

PIERO RAGAZZINI - SEGRETARIO GENERALE FNP CISL No, non mi ricordo.

CLAUDIA DI PASQUALE Le ho chiesto un’intervista il 30 di luglio.

PIERO RAGAZZINI - SEGRETARIO GENERALE FNP CISL Siamo stati sempre in giro.

CLAUDIA DI PASQUALE Le volevo chiedere soltanto questo: perché non c’è il suo reddito nel sito della federazione pensionati?

PIERO RAGAZZINI - SEGRETARIO GENERALE FNP CISL Perché io sono un pensionato, non prendo soldi dalla federazione.

CLAUDIA DI PASQUALE In base al regolamento economico risulta che comunque è prevista un’indennità. Ci spiega: lei ha rinunciato a questa indennità?

UOMO Ragazzi…

CLAUDIA DI PASQUALE Ce lo può spiegare? Cioè ha rinunciato all’indennità prevista dal regolamento?

PIERO RAGAZZINI - SEGRETARIO GENERALE FNP CISL Non glielo devo spiegare. Glielo spiego alla mia gente, non a voi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quel che è certo, è che dopo le nostre domande, il reddito di Ragazzini è apparso sul sito della federazione dei pensionati. Non solo, lo stesso identico giorno Ragazzini ha inviato questa lettera di rimprovero a tutte le sedi della Fnp Cisl: “Abbiamo dovuto constatare che alcune strutture non hanno ancora provveduto a rendere pubblici il bilancio e i redditi della dirigenza”.

GIOVANNI GUERISOLI - EX SEGRETARIO AMMINISTRATIVO CISL Il fatto che andate lì, cercate di intervistarli e non si fanno intervistare: sono fuori di testa, ci avrei 50 modi per cercare di discutere, no? Se tu non rispondi è chiaro che dai alibi e consenti… “Ah, allora che c’hanno da nascondere?”.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In tutto questo, Luigi Sbarra e Annamaria Furlan insieme ad altri dirigenti sindacali, hanno denunciato un dipendente Inps di Verona perché dalla sua postazione sarebbero stati visionati i loro redditi. Un anno fa è stato condannato in primo grado a sette mesi.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei come sta vivendo questa storia qua?

RICCARDO WEISS - DIPENDENTE INPS Molto male perché mi ha ferito nell’anima, sentendomi venir giù addosso, mi è come piombato il mondo addosso. Una vicenda di questo genere è molto grande, è troppo grande per me.

CLAUDIA DI PASQUALE Che poi i vertici della Cisl le hanno anche chiesto un risarcimento…

RICCARDO WEISS - DIPENDENTE INPS Eh…

 CLAUDIA DI PASQUALE E quanto le hanno chiesto?

RICCARDO WEISS - DIPENDENTE INPS Eh, 50mila euro…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei è iscritto a un sindacato?

RICCARDO WEISS - DIPENDENTE INPS Io sono iscritto alla Cisl da sempre.

CLAUDIA DI PASQUALE Proprio alla Cisl?

RICCARDO WEISS - DIPENDENTE INPS Alla Cisl! Sì, questo è il bello.

CLAUDIA DI PASQUALE E ora i vertici della Cisl le hanno chiesto 50mila euro.

RICCARDO WEISS - DIPENDENTE INPS Sì, sì, sì!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A denunciare nel 2015 gli stipendi dei vertici della Cisl è stato un ex dirigente sindacale di Verona, Fausto Scandola, che allora è stato espulso dai probiviri del sindacato per aver ecceduto nel diritto di critica e per avere danneggiato l’onore della segretaria Furlan. Pochi mesi dopo la sua denuncia, Scandola è morto per una grave malattia.

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Qualcuno ha proposto di fare un documento per chiedere la riabilitazione politica di Fausto Scandola e il sottoscritto si è incaricato di portarlo personalmente alla segretaria Furlan. E anche quella mi è costata un po’, forse.

CLAUDIA DI PASQUALE E la Furlan cosa le ha detto?

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Mi ha detto che non si può, che non dipende da lei.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Luigi Bombieri è l’ex segretario della Federazione dei pensionati della Cisl del Veneto. Pochi mesi dopo aver chiesto la riabilitazione di Fausto Scandola ha ricevuto un’ispezione ed è stato commissariato.

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL Nel fare un'ispezione qualcosa bisogna trovare e qualcosa è stato trovato. ma la domanda in fondo è: mi dite quale danno ho fatto all’organizzazione? E lì non ho risposta. Ci è stato detto: “Ah, guarda qui c’è una busta dell’ispezione. Tu dai le dimissioni, la buttiamo via, non se ne parla più”. Io ho detto: “No, se ho commesso dei danni non è giusto. Voglio sapere cosa ho fatto”.

CLAUDIA DI PASQUALE In quanto tempo si è svolto tutto questo?

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Sette giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, l’hanno commissariata in sette giorni?

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Era a carattere di urgenza. Allora se qualcuno mi fa convinto che non è stato un commissariamento politico... mi deve convincere però.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei è sicuro che è stato un commissariamento politico?

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Vuole che le dica cosa mi ha scritto il segretario generale?

CLAUDIA DI PASQUALE Bonfanti?

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO È una cosa personale che non ho fatto vedere a nessuno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Gigi Bonfanti è stato fino allo scorso febbraio il segretario generale dei pensionati della Cisl. Ha scritto questa lettera personale alla moglie di Luigi Bombieri.

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO “Il commissariamento della struttura regionale FNP del Veneto è l’epilogo di valutazioni di natura politico-sindacale e non già riferibili alla persona dell’allora segretario regionale”. “Le recenti vicissitudini della FNP Cisl regionale Veneto non hanno alcun riferimento alla dirittura morale e all’onestà di suo marito, Luigi Bombieri, che riconosciamo e apprezziamo”. Questo lo ha scritto. Guardi è personale.

EMILIO LONATI - EX SEGRETARIO FNP CISL PIEMONTE ORIENTALE Essere giudicati da chi appunto aveva doppie, triple retribuzioni. Essere messi in discussione, tu che ti eri tagliato lo stipendio.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi vi eravate addirittura abbassati il compenso, cioè?

EMILIO LONATI - EX SEGRETARIO FNP CISL PIEMONTE ORIENTALE Noi come segretari avevamo il 40 per cento in meno dei minimi tabellari stabiliti dal nazionale. Io poi non percepivo per scelta il 30 per cento di maggiorazione di retribuzione per il segretario generale, quindi rinunciavo anche all’indennità di carica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Emilio Lonati è l’ex segretario dei pensionati del Piemonte orientale della Cisl. A luglio del 2018 ha fatto un intervento critico davanti a un’assemblea del sindacato. Pochi giorni dopo, gli è arrivata un’ispezione che ha segnalato alcune criticità. E i probiviri della Cisl lo hanno sospeso. Inoltre, un documento anonimo lo accusava di non essersi iscritto al sindacato dal 2012 in poi. Lonati ha quindi tirato fuori le buste paga con la trattenuta sindacale e gli elenchi con le tessere pagate in contanti.

EMILIO LONATI - EX SEGRETARIO FNP CISL PIEMONTE ORIENTALE Abbiamo dimostrato che erano accuse assolutamente infondate e quindi false. L’unico problema alla fine rimase quello del ’18.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei si era dimenticato di pagare la tessera del 2018?

EMILIO LONATI - EX SEGRETARIO FNP CISL PIEMONTE ORIENTALE Cosa vera che io ho ammesso… Movente quale? Risparmiare 120 euro all’anno quando io rinunciavo complessivamente a 500 euro al mese di retribuzione? Io ho dovuto giustificare ai miei figli perché avendo dato la mia vita al sindacato, che cosa avessi fatto di così grave.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lonati ha quindi scritto una lettera all’ex segretario dei pensionati della Cisl Bonfanti, denunciando l’uso di ispezioni fatte per intimidire, commissariamenti artatamente costruiti e pesanti interventi dei probiviri.

EMILIO LONATI - EX SEGRETARIO FNP CISL PIEMONTE ORIENTALE L’ispezione è fatta per correggere quei problemi, non per punire pesantemente, per eliminare delle persone scomode, una struttura scomoda. Perché questo è avvenuto.

CLAUDIA DI PASQUALE L'organo dei probiviri è un organo di garanzia, è un organo terzo?

GIOVANNI GUERISOLI - EX SEGRETARIO AMMINISTRATIVO CISL No.

CLAUDIA DI PASQUALE In che senso?

GIOVANNI GUERISOLI - EX SEGRETARIO AMMINISTRATIVO CISL Nel senso che i probiviri vengono eletti dai congressi, è un organo che garantisce chi governa l'organizzazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Un anno fa, su proposta della segreteria confederale, è stato eletto come probiviro della Cisl Pierangelo Raineri, ex segretario generale della Fisascat Cisl. Anche lui nel 2015 fu denunciato da Scandola per le sue svariate collaborazioni e per i suoi redditi da oltre 200mila euro lordi l'anno, cifre che apparivano superare i limiti retributivi del regolamento allora vigente, che inoltre consentiva di cumulare un solo incarico.

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Posso fare una battuta?

CLAUDIA DI PASQUALE Sì, cioè, è lui che deve giudicare il comportamento degli altri?

LUIGI BOMBIERI - EX SEGRETARIO FNP CISL VENETO Hanno messo la volpe alla guardia del pollaio.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve, il dottor Raineri?

PIERANGELO RAINERI - PROBIVIRO CISL No, non sono io.

CLAUDIA DI PASQUALE È lei. Sono di Report, Rai 3, potrei farle qualche domanda?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Raineri ci nega di essere se stesso.

VOCE FUORI CAMPO Signora, signora! Allora!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il probiviro che nega di essere il probiviro. Questo ci mancava. I probiviri sono un collegio di magistratura, quasi, una sorta di magistratura interna al sindacato. Devono valutare il comportamento dell’iscritto, e vedere se il suo comportamento è coerente con quanto scritto nel regolamento interno, nello statuto, nel codice etico e, semmai, sanzionarlo, sospenderlo o, addirittura, espellerlo dal sindacato. Raineri è stato segretario generale della Fisascat, la federazione del settore terziario. Ha la moglie e un figlio che lavorano in enti vicini alla CISL, come molti altri sindacalisti. Quando è scoppiato il caos, lo scandalo dei redditi alti, il suo fu uno dei quelli che fece più scalpore perché non solo era tra i redditi più alti, ma avrebbe anche violato il regolamento che vieta di accumulare più di due incarichi, il vecchio regolamento. Tutto questo non è mai andato a finire sul tavolo dei probiviri. Come non ci è andata la vicenda degli stipendi, dei redditi. Avrebbe dovuto portarla Scandola ma è stato espulso. E, quando la procura di Verona ha archiviato, ha detto, chiaramente, che sulla legittimità di quei redditi avrebbe dovuto valutare un’altra sede. Quale, però, non abbiamo capito bene. La CISL si è sempre difesa attraverso la relazione del commercialista, Battista. Ha detto: guardate che quel regolamento vecchio è un regolamento di indirizzo, non era vincolante. E ha portato come prova una delibera del 2006 che però noi non abbiamo potuto vedere, se la conservano come fosse il sacro Graal. Quello che invece abbiamo capito è che sul tavolo dei probiviri non ci è andata neppure a finire quella gestione informale, così come l’ha chiamata Bonanni, una gestione informale dove si aumentavano lo stipendio senza scrivere nulla. Un aumento di stipendio era anche considerato l’indennità di alloggio, un modo fittizio, perché poi la CISL l’alloggio provvedeva comunque a dartelo e a pagarlo a parte. Chi erano i segretari amministrativi dell’epoca? Bonfanti e Ragazzini, che poi sono diventati anche i segretari di quella che è la cassaforte della CISL, la federazione dei pensionati, con un milione e settecento mila iscritti, quasi la metà dell’intero bacino dei tesserati. Si capisce il loro potere da questo. Proprio Bonfanti aveva scritto a chi voleva, in qualche modo, rivalutare la figura di Scandola, che era stato commissariato. Scrive Bonfanti: il tuo è stato un commissariamento di natura politica. È la classica strategia dei due pesi e delle due misure. Quella che sta emergendo da un altro procedimento, che si sta per chiudere proprio in questi giorni a Napoli, dove, dal passato, è spuntata una verità che era stata nascosta 5 anni fa: l’indennità di alloggio.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Campania a causa della pandemia rischiano di perdere il lavoro migliaia di persone. Le aziende in crisi sono più di 400. Per esempio, sono a rischio i 500 lavoratori dell'azienda aerospaziale Dema, nel casertano la multinazionale americana Jabil conta decine di esuberi, senza contare poi la crisi del settore dell'automotive.

GIANPIERO TIPALDI - SEGRETARIO GENERALE CISL NAPOLI Ma la situazione drammatica riguarda un meno 50 per cento in edilizia negli ultimi 7-8 anni e abbiamo poi decide di migliaia di lavoratori espulsi dal mondo del lavoro nei servizi e nell’area industriale.

DORIANA BUONAVITA - SEGRETARIA GENERALE CISL CAMPANIA Buona parte di questi lavoratori sono in cassa integrazione, l’Inps stima circa un 300mila persone. Ora stimare oggi quante persone finita la cassa integrazione torneranno al lavoro, eh, speriamo che ne resti fuori quanto meno possibile.

 CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Doriana Buonavita ha preso il posto dell’ex segretaria della Cisl Campania Lina Lucci, oggi sotto processo per una presunta appropriazione indebita di 206mila euro, ridotti a 77mila euro per avvenuta prescrizione. La Cisl si è costituita parte civile. Ma non lo ha fatto nei confronti del funzionario amministrativo del sindacato Salvatore Denza, tirandolo così fuori dal processo. Il tribunale lo aveva rinviato a giudizio con l’accusa di appropriazione indebita per 172mila euro.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché la Cisl si è costituita parte civile solo per l'ex segretaria e non per l'altro funzionario?

 DORIANA BUONAVITA - SEGRETARIA GENERALE CISL CAMPANIA L’altro funzionario quello che era stato parimenti…

CLAUDIA DI PASQUALE Indagato sempre per appropriazione indebita…

DORIANA BUONAVITA - SEGRETARIA GENERALE CISL CAMPANIA Noi ci costituiamo parte civile dove registriamo che c'è una responsabilità.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè questo funzionario oggi è fuori dal processo.

DORIANA BUONAVITA - SEGRETARIA GENERALE CISL CAMPANIA Sì, fuori dal processo...

CLAUDIA DI PASQUALE Perché voi non vi siete costituti parte civile.

DORIANA BUONAVITA - SEGRETARIA GENERALE CISL CAMPANIA Da parte sua per noi non c'era nessun tipo di rilevanza da dover marcare, se no avremmo agito diversamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Insomma, per la Cisl Campania i 172mila euro contestati dalla procura a Denza non contano. Quindi chiamano direttamente lui.

SALVATORE DENZA - EX FUNZIONARIO CISL CAMPANIA Sì pronto.

CLAUDIA DI PASQUALE Salvatore Denza?

SALVATORE DENZA - EX FUNZIONARIO CISL CAMPANIA Sì, lei chi è?

CLAUDIA DI PASQUALE Scusi se la disturbo, sono Claudia Di Pasquale una giornalista di Rai3 di Report la disturbo?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lui ci chiude il telefono in faccia. L’ex segretaria Lina Lucci oggi invece è sul banco degli imputati ed è chiamata a rispondere in base all’accusa di rimborsi, regali, incarichi e di avere usufruito indebitamente di un appartamento in questo palazzo affittato a spese della Cisl Campania.

LINA LUCCI - EX SEGRETARIA GENERALE CISL CAMPANIA Non è possibile che la segreteria che mi ha accompagnato non sapesse.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A denunciare la Lucci è stato l’attuale segretario dei pensionati della Cisl Piero Ragazzini. Nel corso della sua deposizione è emerso che proprio lui fino a qualche anno fa riceveva dalla Cisl oltre a un alloggio anche un’indennità di alloggio di circa 1000 euro mensili. Anche Annamaria Furlan è stata chiamata come teste più volte ma non si è mai presentata.

SANDRA LOTTI – GIUDICE Quindi a questo punto si procede alla revoca dell’ordinanza ammissiva del teste Furlan…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra le persone chiamate a testimoniare al processo c'è anche l'attuale segretario della Cisl di Napoli Gianpiero Tipaldi. Pochi anni fa è finito sulla stampa perché l'azienda vinicola di cui è socia sua moglie ha venduto delle bottiglie di vino alla federazione degli edili della Cisl Campania, che di fatto le ha acquistate con i soldi dei lavoratori.

GIANPIERO TIPALDI - SEGRETARIO GENERALE CISL NAPOLI Sono stati fatti a Natale dei regali di bottiglie di vino a persone che nell'organizzazione erano reputate degne di attenzione.

CLAUDIA DI PASQUALE Nessuno le ha mai detto niente per questa cosa?

GIANPIERO TIPALDI - SEGRETARIO CISL NAPOLI Assolutamente, anche perché era una cosa tranquilla, regolare, non in contrasto con nessuna norma.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Eppure, secondo il vecchio codice etico della Cisl i dirigenti sindacali non potevano ottenere vantaggi per i propri parenti. La tenuta agricola, che ha venduto il vino alla Cisl, si trova a Scansano in provincia di Grosseto, produce Morellino di Scansano doc. E tra i soci non ha solo la moglie del segretario della Cisl di Napoli ma anche quella di un altro ex noto dirigente sindacale, Pietro Cerrito, ex segretario della Cisl Campania e fino al 2017 presidente nazionale del Caf Cisl.

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL NAZIONALE Ma perché non gliel'hanno detto che in genere a Natale nel sindacato si fanno doni di vino, di… si fanno dei regali…

CLAUDIA DI PASQUALE Ho capito, ma il vino veniva prodotto nella tenuta di cui erano socie sua moglie e la moglie di Tipaldi, quindi...

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Beh, qual è il problema?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per la storia del vino, Cerrito è stato denunciato ai probiviri della Cisl, proprio dall'ex segretaria Lina Lucci. All’esposto sono state allegate anche le copie di diversi fogli viaggio, che la Cisl avrebbe rimborsato a Cerrito: 1.000, 1.500, 2.000 euro, anche per pochi giorni di trasferta da Napoli o Roma fino a Grosseto. E dove andava a dormire e a mangiare spesato dalla Cisl? Nello splendido centro storico di Scansano, dove c’era il ristorante Pane e Tulipani e un b&b all'epoca dei fatti gestiti da sua figlia.

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Sono tutte fotocopie inventate, è un cumulo di sciocchezze, tese a dimostrare un arricchimento illecito approfittando della posizione dominante che io avrei avuto.

CLAUDIA DI PASQUALE Non è mai andato al ristorante Pane e Tulipani lei? Non ha mai pagato lì delle cene con i soldi della Cisl?

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Come ho fatto in tutta Italia, lì come altrove.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei mi sta confermando comunque che è stato a cena o a pranzo al ristorante Pane e Tulipani e che è capitato che pagasse con i soldi della Cisl?

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL E certo.

CLAUDIA DI PASQUALE In provincia di Grosseto andava da sua figlia al ristorante con la carta di credito della Cisl…

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL E certo è chiaro, assolutamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi è anche capitato, mi scusi, che pernottasse alla ….. E pagasse poi con la carta di credito della Cisl?

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Ma sarà capitato qualche volta, sicuramente.

CLAUDIA DI PASQUALE Non c'era un conflitto di interessi secondo lei in questo caso?

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Assolutamente no. Questa è una stupidaggine.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quel che è certo è che i probiviri della Cisl hanno rigettato il ricorso contro Cerrito.

 CLAUDIA DI PASQUALE Cercavo il dottor Cerrito… ah è lei.

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Mi dispiace, vorrei che ve ne andaste da questa proprietà.

CLAUDIA DI PASQUALE Voglio ottenere la sua intervista ufficiale, non voglio essere scortese…

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Io non rilascio nessuna intervista ufficiale, gliel'ho già detto, non ho nulla da dire.

CLAUDIA DI PASQUALE Penso che se lei ha dei documenti che dimostrano la falsità...

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Io non devo dimostrare nulla né a lei né a nessuno, perciò la prego di accomodarsi grazie.

CLAUDIA DI PASQUALE Se vuole darci della documentazione io sono assolutamente disponibile.

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Guardi non insista, per cortesia non insista, questa tv spazzatura andatela a fare da altre parti.

CLAUDIA DI PASQUALE Però io penso che se lei ha della documentazione che ci può aiutare…

PIETRO CERRITO - EX PRESIDENTE CAF CISL Io non le do nessuna documentazione perché lei non è un magistrato né un cazzo, è chiaro?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chiarissimo. Più chiaro di così! E noi, come ha ricordato elegantemente Cerrito perché quella è la loro visione del mondo, non c’entriamo nulla. Ecco, non possiamo neppure chiedergli spiegazioni, chiarimenti su quei rimborsi che la Cisl, dunque gli iscritti, gli hanno riconosciuto, quando andava a mangiare o a dormire nel B&B della figlia. Insomma abbiamo capito che c’è la strategia dei due pesi e delle due misure, che emerge dal procedimento giudiziario di Napoli: la Cisl si è costituita parte civile nei confronti dell’ex segretaria Lucci che è accusata di aver percepito, di appropriazione indebita per 77 mila euro, non lo ha fatto invece nel caso dell’altro funzionario, Denza, che la procura aveva, per cui la procura aveva chiesto il rinvio a giudizio, accusato di una presunta appropriazione indebita di 172mila euro. Ecco, siccome per procedere in questo tipo di reato ci vuole la querela di parte, la Cisl l’ha ritirata e Denza è stato prosciolto. Insomma abbiamo capito che la scritta “la legge è uguale per tutti” vale solo se la leggi all’interno di un tribunale. D’altra parte lo dice anche chiaramente, l’ex segretario amministrativo, Guerisoli, che dice, il collegio dei probiviri in realtà garantisce, di fatto, chi governa. È là che si intuisce come nasce la strategia dei due pesi e delle due misure. Verrebbe da chiedersi se l’hanno anche applicata in un settore in questi mesi, quelli della pandemia, che è strategico per il paese, il settore dei metalmeccanici dove c’è la Fim Cisl che conta oltre 205mila iscritti, ma con noi, come al solito, nessuno ha voluto parlare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Napoli il 31 ottobre ha chiuso lo stabilimento della Whirlpool. Qui si producevano lavatrici di alta gamma. A perdere il lavoro sono circa 350 dipendenti avvisati con un sms.

CORO LAVORATORI Eh, governo, dove sei, eh governo, dove sei…

 DONATO AIELLO - RSU FIOM CGIL Whirlpool ha detto che dismette la produzione e noi stiamo dicendo da 18 mesi che è inammissibile al governo quello che sta facendo Whirlpool.

CLAUDIA DI PASQUALE Quante persone perdono il lavoro?

GIANPIERO TIPALDI - SEGRETARIO GENERALE CISL NAPOLI Tra dipendenti diretti e indiretti compreso l'indotto un migliaio di persone.

CLAUDIA DI PASQUALE Da quanto tempo voi lavorate alla Whirlpool?

DIPENDENTE WHIRLPOOL NAPOLI Io lavoro da 31 anni sono entrata che avevo 19 anni e adesso ne ho quasi 51… alla mia età che fine farò?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel torinese questa estate è fallita l'ex Embraco, società del gruppo Whirlpool, ceduta solo due anni fa ad un'altra azienda la Ventures, che però non ha mai iniziato una nuova produzione.

DAVIDE PROVENZANO – SEGRETARIO FIM CISL TORINO Ha preso in giro i lavoratori, faceva pitturare le linee di montaggio, ha preso i soldi. Bisogna proprio dirlo letteralmente così. Adesso è fallita e questo ne pagano i lavoratori in primis.

LAVORATRICE EX EMBRACO Oggi ci sono 406 famiglie che non sanno ancora domani quello che… il loro futuro quale sarà.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La pandemia ha colpito duramente il settore dell'automotive, nel 2020 è crollata la produzione di automobili e a rischiare di essere travolto è tutto l'indotto.

DOMENICO CIANO - RSU FIM LEAR GRUGLIASCO Minimo ci sono 180 lavoratori a casa. E in alcune settimane non si lavora completamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In totale i tavoli di crisi aperti al ministero sono ben 120, è così che già lo scorso 25 giugno i lavoratori metalmeccanici di oltre 100 aziende di tutta Italia sono scesi in piazza per chiedere il rinnovo del contratto nazionale e il blocco dei licenziamenti.

FRANCESCA RE DAVID - SEGRETARIO GENERALE FIOM CGIL Noi non consentiremo la chiusura di nessuna fabbrica per crisi Covid, e non si licenziano i lavoratori con i soldi delle loro tasse.

ROCCO PALOMBELLA - SEGRETARIO GENERALE UILM Non si possono tenere in ostaggio milioni di lavoratori senza rinnovare il contratto più importante del settore industriale.

MARCO BENTIVOGLI - EX SEGRETARIO GENERALE FIM CISL Questo paese ha ancora un motore e il fuoco di questo motore si continuano a chiamare lavoratrici e lavoratori metalmeccanici.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Marco Bentivogli è l’ex segretario generale dei metalmeccanici della Cisl. Autore di libri sullo smartworking, amico personale dell'ex ministro Calenda, oggi ha lanciato una sua associazione. Lo scorso giugno infatti in piena crisi Covid si è dimesso dal sindacato.

MARCO BENTIVOGLI - EX SEGRETARIO GENERALE FIM CISL Grazie perché siete stati qui fino ad ora, non vi dimenticherò mai.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nella sua lettera di dimissioni Marco Bentivogli ha precisato che la sua è stata una scelta libera. Eppure, lo scorso anno a luglio ben 42 dirigenti della Cisl hanno firmato questa lettera contro di lui, accusandolo di protagonismo politico.

GIOVANNI GUERISOLI - EX SEGRETARIO AMMINISTRATIVO CISL Non ti sei dimesso subito, però a questo punto che hanno fatto, hanno cominciato a fargli una guerra interna, e sicuramente lo hanno indebolito e lo hanno portato alle dimissioni.

 CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso 13 luglio il consiglio generale della Fim Cisl si riunisce per scegliere il nuovo segretario, dopo Bentivogli. Per l’occasione arrivano anche la segretaria generale Annamaria Furlan e il segretario generale aggiunto Luigi Sbarra. Sarà eletto quasi all’unanimità Roberto Benaglia che proviene dalla federazione agricola alimentare.

CLAUDIA DI PASQUALE Scusi dottor Benaglia…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Non riusciamo però neanche a incrociarlo. Per evitarci esce veloce dal retro del palazzo. Gli abbiamo chiesto invano un’intervista. Alla fine, lo incontriamo a novembre allo sciopero dei metalmeccanici.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché non ci ha dato un’intervista in tutto questo periodo, capisce?

ROBERTO BENAGLIA - SEGRETARIO GENERALE FIM CISL Sono impegnato, siamo tutti impegnati, a discutere e a fare delle cose complicate, a salvare i posti di lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho pensato sinceramente che in qualche modo fosse quasi imbarazzato dal fatto che la sua nomina fosse arrivata…

ROBERTO BENAGLIA - SEGRETARIO GENERALE FIM CISL No, non sono uno abituato…

 CLAUDIA DI PASQUALE …dopo questa guerra interna che oggettivamente non ha niente di bello se posso dirle…

ROBERTO BENAGLIA - SEGRETARIO GENERALE FIM CISL Non c'è nessuna guerra interna.

CLAUDIA DI PASQUALE Molte persone hanno paura di parlare con noi perché sanno che se parlano possono essere in qualche modo poi raggiunte da un'ispezione, possono essere raggiunte da provvedimenti che li mettono in difficoltà.

ROBERTO BENAGLIA - SEGRETARIO GENERALE FIM CISL C’è un grande imbarazzo a parlare con la televisione di queste cose perché vorremmo occuparci delle fabbriche e dare risalto a quello che ci impegniamo dodici ore al giorno con tutti i nostri colleghi.

CLAUDIA DI PASQUALE Il silenzio rende tutti complici di un sistema sbagliato.

ROBERTO BENAGLIA - SEGRETARIO GENERALE FIM CISL Non è così, grazie.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le dimissioni dell'ex segretario della Fim Bentivogli arrivano dopo un anno di ispezioni che la Cisl ha inviato nelle sedi territoriali dei metalmeccanici, come ci racconta in anonimato una fonte interna.

SINDACALISTA CISL Faccio le ispezioni, trovo quello che devo trovare, cerco quello che voglio trovare, e poi decido se puoi restare a svolgere il tuo ruolo o buttarti fuori dall'organizzazione. È solo una clava che tu usi se vuoi punire o promuovere qualcuno.

CLAUDIA DI PASQUALE Ci sono state un po' alcune polemiche anche sul fatto che Bentivogli abbia ricevuto delle pressioni interne, ci sa spiegare cosa è accaduto all'interno della Fim?

PAOLO CARINI - SEGRETERIA FIM CISL LOMBARDIA Sono voci che girano, ma su cui non ci sono elementi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lui è Paolo Carini, ritenuto vicino a Bentivogli. Si è dimesso dall’incarico di segretario della Fim dei Laghi di Varese dopo un’ispezione della Cisl che ha rilevato tessere gonfiate e irregolarità di vario tipo. Tra le accuse c'era però anche questa: i compensi risultavano inferiori ai livelli previsti dal regolamento. Lo stesso Carini in qualità di segretario non riceveva alcuna indennità. Una scelta che aveva consentito di abbattere le spese e di avere un risultato positivo di gestione.

CLAUDIA DI PASQUALE A me risulta che proprio lei sia una delle persone a cui sono state inviate delle ispezioni per dei motivi anche abbastanza strani nel senso…

PAOLO CARINI - SEGRETERIA FIM CISL LOMBARDIA No no no su questo…

CLAUDIA DI PASQUALE Perché vi eravate diminuiti lo stipendio, quindi un po' particolare come cosa…

PAOLO CARINI - SEGRETERIA FIM CISL LOMBARDIA No, sono questioni su cui non voglio parlare, grazie.

SINDACALISTA CISL Se io parlo posso essere ulteriormente punito attraverso questi sistemi.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto le ispezioni come sono state usate all'interno della Fim, cioè dei metalmeccanici?

SINDACALISTA CISL Sono state usate per eliminare una parte del gruppo dirigente che non era allineato con le scelte della Cisl.

 CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa estate è stato espulso l'ex segretario dei metalmeccanici della Fim di Roma, Stefano Lombardi, anche lui vicino a Bentivogli. L’ispezione della Cisl ha rilevato diverse irregolarità: dai buoni pasto all’ufficio vertenze, che faceva conciliazioni anche ai lavoratori non iscritti. Anche a lui è stata contestata la decurtazione dei compensi, più la gestione dei rimborsi: 11 euro per bus, uno scontrino di 5 euro, 15 scontrini per un parcheggio in cui mancavano all'appello 90 centesimi.

CLAUDIA DI PASQUALE E gli ispettori che fanno le ispezioni sono organi terzi?

GIOVANNI GUERISOLI - EX SEGRETARIO AMMINISTRATIVO CISL No, no, gli ispettori sono dipendenti, sono pagati, sono a libro paga.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Gli ispettori della Cisl invece hanno sorvolato su una vicenda che tira in ballo il sottosegretario all'economia Pierpaolo Baretta. A giugno del 2018 Baretta perde l'incarico di sottosegretario. E subito la sua portavoce Stella Teodonio trova casa nei metalmeccanici, di cui Baretta in passato è stato segretario generale. Viene infatti distaccata dalla Fim di Roma e con la benedizione dell'allora segretario confederale Piero Ragazzini, inserita in un progetto di proselitismo, finanziato dalla federazione dei pensionati e promosso dalla Fim del Lazio.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè il suo stipendio veniva finanziato dalla Federazione dei pensionati?

ANDREA MINNITI - SEGRETARIO FIM CISL LAZIO Guardi…

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè chi è che la pagava di fatto?

ANDREA MINNITI - SEGRETARIO FIM CISL LAZIO Allora… C'è un bilancio che è stato approvato.

CLAUDIA DI PASQUALE E quindi chi la pagava la dottoressa Teodonio?

ANDREA MINNITI - SEGRETARIO FIM CISL LAZIO Ci sono agli atti dei documenti che dimostrano che se qualcuno ha fatto attività per ciò che ci riguarda è stato pagato regolarmente.

 CLAUDIA DI PASQUALE Il fatto che la Teodonio fosse stata diciamo presa in questo progetto è stato un favore che voi avete fatto a Baretta?

ANDREA MINNITI - SEGRETARIO FIM CISL LAZIO Io la ringrazio e la saluto. Va bene?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Baretta ci scrive che il rapporto con la sua portavoce era cessato, ma nel periodo in cui lei era a busta paga del sindacato, ha comunque collaborato con l'associazione Riformismo e Solidarietà, fondata proprio da Baretta. E quando a settembre del 2019 Baretta è tornato a fare il sottosegretario, anche la Teodonio è tornata a fargli da portavoce, abbandonando il sindacato. Su questa storia nessuno ha avuto nulla da ridire. SINDACALISTA CISL Ciò che non è giusto è che si decida di utilizzare a seconda delle proprie convenienze il bastone o la carota. Per uno stesso errore ti puoi ritrovare un dirigente che può essere espulso e un dirigente che viene mantenuto dentro nell'organizzazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A essere deferito ai probiviri è stato Andrea Donegà, segretario dei metalmeccanici della Lombardia, cassaforte delle tessere Fim, ritenuto vicino a Bentivogli.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei è Donegà?

ANDREA DONEGA’ – SEGRETARIO FIM CISL LOMBARDIA No, sono il fratello.

CLAUDIA DI PASQUALE Il fratello?

ANDREA DONEGA’ – SEGRETARIO FIM CISL LOMBARDIA Non riprendere però davvero!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A denunciare Donegà è stato un altro dirigente dei metalmeccanici della Cisl, Gianluca Tartaglia.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve, ma se le facciamo ora due battute, cinque minuti...

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Adesso io ho una riunione, adesso ho una riunione, ci dobbiamo sentire dopo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A sua volta Tartaglia è stato deferito ai probiviri proprio da Donegà per questa storia. Tartaglia aveva firmato un accordo per i lavoratori dell’azienda Novelis Italia spa, in cui si riconosceva un incentivo al licenziamento in base al proprio contratto, che in media era di 38mila euro lordi. Secondo la denuncia, c'è chi ha avuto più di altri. Tra questi c’era anche un dirigente sindacale della Fim. Proprio Tartaglia prima gli ha tolto l’aspettativa sindacale per farlo rientrare nella procedura di licenziamento della Novelis, poi ha firmato per lui una conciliazione da quasi 98mila euro, e quindi lo ha assunto nel sindacato.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa dice ai lavoratori licenziati che hanno avuto un trattamento diverso rispetto al sindacalista per cui lei firmò quella conciliazione?

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Le sto dicendo, non corrisponde al vero che in quella procedura di licenziamento ci siano stati lavoratori che hanno preso meno soldi rispetto a quello che viene dichiarato da qualcuno.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè tutti i lavoratori hanno avuto 100mila euro?

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE C'è stato chi ha avuto dei soldi in più, c’è stato chi ha avuto soldi in più, perché c'è un accordo sindacale, che stabiliva dei…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma l’accordo sindacale che dice?

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Era legato ai profili dei lavoratori, i loro livelli di inquadramento, la storia dei lavoratori.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma in media quanto prendeva un operaio scusi?

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Io non ho fatto quel tipo di conteggio lì.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma per esempio per chi era prossimo alla pensione erano previsti 5.200 euro lordi come incentivo al licenziamento.

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Non è quello che è scritto nell'accordo, torno a dire leggete bene l'accordo

CLAUDIA DI PASQUALE L'ho letto bene l'accordo.

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Se ha letto bene l’accordo, non è scritto questo…

CLAUDIA DI PASQUALE C'è scritto che chi è prossimo alla pensione 5.200 euro.

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE L’unica cosa che le posso dire è che io ne ho firmate due.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì.

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE E quella che lei cita, no? L'altra conciliazione, ha preso molti più soldi di questo lavoratore che lei sta citando.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei ha firmato quindi per quell'accordo e poi due conciliazioni dai 100mila euro in su.

GIANLUCA TARTAGLIA - SEGRETARIO FIM CISL PIEMONTE ORIENTALE Se lei mi chiede quanto hanno preso gli altri lavoratori mi fa una domanda alle quale non posso darle una risposta.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per quella conciliazione da 98mila euro, Tartaglia è stato espulso dai metalmeccanici, lui però ha fatto ricorso e i probiviri della Cisl lo hanno di fatto reintegrato. Lo scorso luglio è stato anche nominato segretario generale della Fim Cisl del Piemonte orientale. E oggi si occupa del territorio di Novara, anche questo colpito dalla crisi del settore dell’automotive.

SINDACALISTA CISL Quello che infastidisce ancora di più è che in un momento in cui il sindacato dovrebbe occuparsi di problemi reali e concreti, il covid è sicuramente una di queste situazioni, tu perdi tempo a fare riunioni, telefonate, per definire il gruppo dirigente a tua immagine e somiglianza, invece di occuparti dei problemi concreti che le persone vivono tutti i giorni.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che in questa vicenda non ci sono né diavoli né solo santi, ecco. Però fa sorridere un sistema che è così indulgente nei confronti di chi ha percepito redditi alti e così intransigente, invece, nei confronti di coloro che i redditi se li sono abbassati perché questa volta il regolamento è vincolante. Però insomma anche qui emerge la strategia dei due pesi e delle due misure, che è coperta però da un silenzio che rende tutti complici, compreso quello del sindacalista 4.0 Marco Bentivogli, che quando si è dimesso, si è dimesso scrivendo una lettera e gli è scappata una riga dicendo che: “le sue dimissioni sono la migliore condizione per proteggere la Fim, le sue donne e i suoi uomini”. Ecco, proteggere da cosa? Noi non lo sappiamo perché con noi non ha voluto parlare, ma di sicuro non hanno convinto, quelle dimissioni, Pezzotta, l’altro ex sindacalista segretario che si è dimesso, che ha detto, tu ti dimetti quando sperimenti con mano la tecnica del logoramento, ti tagliano l’erba sotto i piedi. Lui ne sa qualcosa perché è stato vittima di una congiura di palazzo che poi ha comportato il subentro di Bonanni. Ecco, quello che abbiamo capito, che proprio grazie a questa tecnica del bastone e della carota poi sono tutti terrorizzati a parlare. Non parla chi è espulso, non parla neppure chi viene sventolata davanti la carota perché pensa di poter rimanere, in qualche modo, nel sindacato. Però ci chiediamo: questo clima di terrore, che è dentro il sindacato, uno stato dell’anima, come si concilia con un sindacato che si dice democratico? Ora in queste ore c’è fibrillazione per il futuro della Fim Lombardia. La guida, in questo momento, Andrea Donegà, che è un fedele, un uomo fedele di Bentivogli. Con noi non ha voluto parlare, ha detto “sono suo fratello”, perché? Perché pende sulla sua testa un lodo arbitrale, un lodo dei probiviri perché a denunciarlo è stato l’altro sindacalista, il segretario del Piemonte orientale, Tartaglia, che lo ha denunciato perché ha rovinato, leso, la sua immagine, quale immagine? Quella di un sindacalista che prende, toglie dal distacco sindacale un suo collega, porta a firmare una conciliazione con l’azienda che stava licenziando i suoi operai, gli fa firmare un accordo da 100mila euro circa e poi lo assume nel sindacato. Ecco, insomma questa è l’immagine del sindacalista e Tartaglia per i probiviri ha meritato la carota. Bastone invece per la Fim Abruzzo, perché nei suoi territori si sono dimessi dopo che, sui suoi territori, sono state trovate delle irregolarità. Carota invece per la Fim Toscana, ci risulta che sono state trovate delle situazioni poco chiare sui territori, però a oggi ci risulta che non sono stati presi provvedimenti, perché? Ecco, perché, insomma, bisognerebbe capire quello che è successo in questi mesi, ci siamo chiesti, ma è possibile che è stato perso del tempo nei momenti di crisi a creare dossier anonimi, a riempirli di veleni, a studiare strategie per difendersi l’uno contro l’altro. Ci risulta anche che qualche ora l’abbiano persa per cercare di fermare Report. Ora, l’etimologia del sindacato ha una simbologia altissima, viene da: SIN insieme DIKE’ giustizia e significa giustizia sociale. Tutelare i lavoratori, solo che poi anche i sindacalisti hanno famiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui siamo in Sicilia, a Palermo. In questo palazzo c'era la sede dell'ente di formazione della Cisl, lo Ial Cisl Sicilia. Nei tempi d'oro ha superato i mille dipendenti, ma ecco cosa ci racconta l'ex responsabile delle risorse umane.

MARIA TERESA CIMINNISI - EX RESPONSABILE RISORSE UMANE IAL SICILIA Ho sempre visto che durante, che nelle fasi elettorali, diciamo, c’era una grandissima... un via vai continuo di assunzioni… perché i politici avevano gli accordi con la Cisl e bisognava accontentare tutti in tutte le province.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Di assunzione in assunzione sono cresciuti anche i debiti dell'ente di formazione della Cisl. È così che nel 2011 viene ceduto gratuitamente a dei privati. A seguire la cessione è stato Graziano Trerè.

CLAUDIA DI PASQUALE Questa operazione di fatto ha liberato la Cisl dai debiti...

GRAZIANO TRERÈ - EX AMMINISTRATORE UNICO IAL NAZIONALE Sì sì sì, nel modo più assoluto.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei sapeva che le persone a cui stava cedendo l'ente facevano riferimento a dei politici siciliani?

GRAZIANO TRERÈ - EX AMMINISTRATORE UNICO IAL NAZIONALE Sapevo che c'erano coinvolti anche dei politici siciliani.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma sa chi erano?

GRAZIANO TRERÈ - EX AMMINISTRATORE UNICO IAL NAZIONALE Eh eh, proprio coi siciliani... sì, però non lo dico...

MARIA TERESA CIMINNISI - EX RESPONSABILE RISORSE UMANE IAL SICILIA Lo Ial Cisl Sicilia, la Cisl lo cede a una corrente all'interno del Pd che fa riferimento ed è riconducibile alla Cisl.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'ente di formazione della Cisl sarebbe passato nelle mani di persone ritenute vicine all'ex senatore Papania, all'ex segretario della Cisl d’Antoni, al deputato regionale Lupo e all'ex senatore Adragna. Ma neppure loro riescono a salvare l’ente, che nel 2015 fallisce e i dipendenti vengono licenziati.

SILVIA POTENZA - EX DIPENDENTE IAL SICILIA Assunta nel 2005, licenziata nel 2016.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi che fa? SILVIA POTENZA - EX DIPENDENTE IAL SICILIA Sono disoccupata.

MARCO CUCUZZA - EX DIPENDENTE IAL SICILIA Oggi purtroppo sono disoccupato per via appunto della malagestione dell'ente, nello specifico avanzo circa 10 mesi di retribuzioni. SANTO BONO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA Si sono fregati i soldi della mia malattia.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma cosa ha avuto glielo posso chiedere?

SANTO BONO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA Due tumori.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti soldi le deve l'ente?

SANTO BONO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA 85mila euro circa.

CLAUDIA DI PASQUALE In sostanza centinaia di lavoratori vengono licenziati alla fine.

COSTANTINO GUZZO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA – SIFUS CONFALI Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Tranne alcuni…

COSTANTINO GUZZO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA – SIFUS CONFALI Tranne gli unti del signore della Cisl.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra il 2015 e il 2016 mentre fioccano i licenziamenti, solo alcuni dipendenti dell’ente riescono a mantenere la continuità lavorativa e a passare ad altro ente di formazione. Tra questi ci sono il figlio dell’allora segretario confederale della Cisl, Maurizio Bernava e alcuni dirigenti sindacali, come Giovanni Migliore, allora segretario regionale della Cisl Scuola, e quindi titolare proprio della vertenza.

COSTANTINO GUZZO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA – SIFUS CONFALI I dirigenti sindacali della Cisl si salvano attraverso la legge che tutela tutti i lavoratori e non la applicano per i lavoratori, la applicano per loro, cioè il sindacato tradisce di fatto il proprio mandato.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa fa Giovanni Migliore oggi?

COSTANTINO GUZZO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA – SIFUS CONFALI È il responsabile della formazione.

CLAUDIA DI PASQUALE Della Cisl?

COSTANTINO GUZZO - EX DIPENDENTE IAL SICILIA – SIFUS CONFALI Della Cisl, esatto. Attualmente si siede ai tavoli per rivendicare i diritti dei lavoratori.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve dottor Migliore, sono Claudia Di Pasquale di Report, Rai3.

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA Prego, buongiorno.

CLAUDIA DI PASQUALE Siccome c'è stato un esposto da parte di alcuni ex dipendenti dello Ial Sicilia perché quando venivano licenziati centinaia di lavoratori lei passava ad altro ente. Me la spiega lei questa cosa così evitiamo…

 GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA Se ci sono esposti nei miei confronti parlerà la magistratura.

CLAUDIA DI PASQUALE Però mi spiega questa cosa?

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA Io non ho niente da spiegare.

CLAUDIA DI PASQUALE Non deve dare una risposta a chi è stato licenziato?

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA Le stiamo dando le risposte, stiamo lavorando ogni giorno per il recupero di ogni lavoratore.

CLAUDIA DI PASQUALE C'è gente che è ancora a casa.

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA I numeri non sono tali che possano consentire a tutti il recupero.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei non era quello che si occupava della vertenza in quel momento?

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA Io mi ero occupato della vertenza ma sono pure un padre di famiglia come tutti gli altri. CLAUDIA DI PASQUALE Anche quando è passato ad altro ente lei ha sempre avuto il distacco sindacale, immagino.

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA Certo.

CLAUDIA DI PASQUALE Insomma, ha mai perso un giorno di contributi lei dottor Migliore?

GIOVANNI MIGLIORE – SEGRETARIO CISL SCUOLA SIRACUSA – RESPONSABILE FORMAZIONE CISL SICILIA No.

CLAUDIA DI PASQUALE Mai. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma la memoria è un po’ come l’alta marea, ogni tanto restituisce un relitto. Ecco il relitto che ci ha consegnato di Migliore è questo post del 2015 nel quale rassicurava i lavoratori e definiva, bollava come fake news le voci che lo davano di passaggio ad altri enti. Diceva, non vi preoccupate io sono con voi e lotterò con voi, ecco. Dopo un po’ abbandona la nave e i lavoratosi, si aggrappa, aggrappato alla scialuppa del distacco sindacale è passato di ente in ente. Tutto questo la Cisl Sicilia come lo ha valutato se lo ha valutato? Sicuramente gli deve esser piaciuto perché Migliore oggi è il responsabile della formazione della Cisl, cioè colui che va a tutelare i diritti dei lavoratori. E ora vediamo un’altra vicenda, quella della federazione agro-alimentare della Cisl di Latina dove c’è stato un tentativo di aumentare il numero delle tessere. Come si è comportata qua la Cisl?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Latina 6 settembre 2020, la Cisl festeggia i 70 anni del sindacato.

ROBERTO CECERE - SEGRETARIO GENERALE CISL LATINA Una bella piazza, un bel colpo d’occhio. PRESENTATRICE Eh, un bel colpo d'occhio questa sera…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per l'occasione vengono premiati tutti i segretari.

PRESENTATRICE Rosario Bellezza!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo per esempio è il momento della premiazione della Fai, la Federazione Agricola alimentare…

OPERATORE FAI CISL LATINA Che dire, viva la Cisl!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sul palco però manca il segretario della Fai Cisl di Latina, Marco Vaccaro. Un’assenza giustificata. A gennaio del 2019 è stato, infatti, arrestato e oggi è sotto processo.

ROBERTO CECERE - SEGRETARIO GENERALE CISL LATINA Questa persona non esercita più il ruolo del sindacalista, fino all'ultimo grado di giudizio noi non possiamo emettere alcuna sentenza.

CLAUDIA DI PASQUALE La Cisl si è costituita parte civile a questo processo?

ROBERTO CECERE - SEGRETARIO GENERALE CISL LATINA Guarda non mi puoi fa’ domande che... allora voglio dire, sei venuta qui a fare un'intervista o vuoi cercare qualcosa che…

CLAUDIA DI PASQUALE Io voglio sapere questa cosa.

ROBERTO CECERE - SEGRETARIO GENERALE CISL LATINA Io questo modo di indagare non mi piace, penso che l'intervista può bastare. Buona giornata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’ex dirigente sindacale Vaccaro è stato rinviato a giudizio nell’ambito di un’inchiesta sul caporalato condotta dalla Squadra mobile di Latina. Al centro delle indagini, c’è la cooperativa Agriamici, che secondo l’accusa sfruttava centinaia di braccianti agricoli ed era in buoni rapporti con la Fai Cisl di Latina.

INTERCETTAZIONE - operatrice Fai Cisl Latina al telefono con il segretario provinciale Marco Vaccaro

OPERATRICE FAI CISL LATINA Cioè Luigi ha parlato a chiare note davanti a tutti i lavoratori mentre stavamo lavorando, che chi non veniva a fare la disoccupazione con la Cisl non gli avrebbe dato Cud, non gli avrebbe dato buste paga, e non gli avrebbe rinnovato il contratto eh... dice poi ci stanno pure queste teste di cazzo, rumeni, neri che non capiscono, però la maggior parte dovrebbe venì…

MARCO VACCARO E allora continuiamo a insistere.

OPERATRICE FAI CISL LATINA Vediamo, stasera un po’ di movimento c’è stato.

GIUSEPPE PONTECORVO - CAPO SQUADRA MOBILE LATINA Vi sarebbe stato un tentativo di costringere i lavoratori a iscriversi al sindacato di appartenenza dietro la prospettazione e la minaccia di non vedere rinnovato il proprio contratto di lavoro. Il vantaggio nel caso del sindacalista derivava da introiti maggiori a un numero di iscritti, dalla possibilità di trattare pratiche relative all'indennità di disoccupazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Fai Cisl nazionale ha inviato allora a Latina come subreggente il sindacalista Maurizio Geron. Particolare non trascurabile anche lui nel 2017 si era dimesso da segretario dei metalmeccanici di Padova Rovigo, un'ispezione aveva rilevato delle criticità nella gestione dei conti e che lo stesso Geron avrebbe ricevuto un compenso superiore ai limiti previsti dal regolamento.

CLAUDIA DI PASQUALE Io cercavo il dottor Geron.

OPERATORE FAI CISL LATINA Eh, lui non c'è.

CLAUDIA DI PASQUALE E quando possiamo trovarlo?

OPERATORE FAI CISL LATINA Lo trova solo al telefono.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma il subreggente Geron, ci fa sapere che non vuole parlarci. Chi ci mette la faccia è invece Giampiero Bianchi, per 26 anni è stato il direttore della scuola di formazione della Fai Cisl. All’inizio del 2015, da un giorno all'altro, è stato licenziato.

GIAMPIERO BIANCHI - EX DIRETTORE SCUOLA FORMAZIONE FAI CISL Torno dal Natale e vedo che c’è una raccomandata per me.

CLAUDIA DI PASQUALE Che c’era scritto in questa lettera?

GIAMPIERO BIANCHI - EX DIRETTORE SCUOLA FORMAZIONE FAI CISL Sembra che io nel pomeriggio del 23 settembre avessi gridato "Finalmente la Cisl è libera!", quando era giunta notizia che Raffaele Bonanni si era dimesso da segretario generale della Cisl.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto il peccato originale è che lei ha gioito delle dimissioni di Bonanni.

GIAMPIERO BIANCHI - EX DIRETTORE SCUOLA FORMAZIONE FAI CISL Quella è la cosa principale. È un reato di opinione. Cioè dentro un organismo democratico ti licenziano perché non la pensi come la pensa la segreteria.

CLAUDIA DI PASQUALE Aveva un altro lavoro? Aveva famiglia?

GIAMPIERO BIANCHI - EX DIRETTORE SCUOLA FORMAZIONE FAI CISL Io ero vedovo da tanti anni, e avevo tre bambine piccole e senza stipendio.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi è che la licenzia?

GIAMPIERO BIANCHI - EX DIRETTORE SCUOLA FORMAZIONE FAI CISL Il commissario.

CLAUDIA DI PASQUALE E chi era?

GIAMPIERO BIANCHI - EX DIRETTORE SCUOLA FORMAZIONE FAI CISL Luigi Sbarra.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’attuale segretario aggiunto della Cisl, Luigi Sbarra allora era commissario della Fai Cisl. La federazione agricola alimentare era stata infatti commissariata dopo che aveva votato contro lo scioglimento della federazione stessa. I vertici del sindacato avevano chiesto il voto palese. Ma qualcuno fece saltare i loro piani.

MAURIZIO ORI - EX SEGRETARIO FAI CISL EMILIA ROMAGNA Ho chiesto la parola, ho fatto una mozione d'ordine all'applicazione dell'articolo 35, cioè il voto segreto. E ognuno nel segreto dell'urna poteva votare come credeva e come era il suo pensiero e la sua coscienza.

CLAUDIA DI PASQUALE Grazie al voto segreto la federazione?

MAURIZIO ORI - EX SEGRETARIO FAI CISL EMILIA ROMAGNA La federazione esiste ancora oggi. Non si è compiuto quello che qualcuno a tavolino aveva già deciso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Fai dopo tre giorni viene commissariata. E dopo due mesi Maurizio Ori viene buttato fuori dalla Cisl dopo 38 anni di attività sindacale. Una bella mattina gli arriva questa lettera firmata dal commissario Luigi Sbarra che gli comunica la revoca del distacco sindacale e il ritorno in fabbrica.

MAURIZIO ORI - EX SEGRETARIO FAI CISL EMILIA ROMAGNA Non pensavo di finire la mia carriera sindacale in quel modo lì.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei è riuscito a rientrare in fabbrica?

MAURIZIO ORI - EX SEGRETARIO FAI CISL EMILIA ROMAGNA No, perché ormai un'età ce l'avevo, a 60 anni si fa fatica a trovare da lavorare. Per me è stata da un punto di vista personale molto pesante, perché poi io avevo tutti e quattro i figli ancora tutti a scuola, quindi dall'oggi al domani trovarmi senza lavoro mi creda è stata dura. Devo solo ringraziare mia moglie che…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E’ l’esordio di Sbarra nei panni di commissario. Una intera carriera passata dentro al sindacato. E’ stato assunto nel 2004 dall’Anas, mentre era segretario della Cisl Calabria. Lui dice, prima di prendersi il distacco sindacale, che ha lavorato il tempo necessario. Quanto ha lavorato lo sa lui, lo sa l’Anas e lo sa dio perché dice è tutto pubblico, sono entrato con selezione pubblica, noi gli crediamo fino a prova contraria, ma quando siamo andati ad accedere a questa documentazione pubblica l’Anas non c’è la inviata per motivi di privacy. Comunque se anche fosse stato assunto il primo ottobre che era un venerdì’ il primo ottobre del 2004 poi c’era il sabato, la domenica, il lunedì che era san Francesco e se il 5 avesse ottobre conseguito il distacco sindacale sarebbe comunque tutto regolare, perché la legge glielo consente. Oggi si siede a fianco della Furlan in qualità di segretario aggiunto. Gestire la Cisl significa gestire 4 milioni di iscritti, 21 unioni regionali più le unità territoriali. Solo la Cisl nazionale nel 2019 ha avuto un bilancio di circa 25 milioni di euro, 19,9 sono le entrate degli iscritti, ma ci sono anche 2,6 milioni di contributi, di donazioni liberali e su questo c’è ovviamente, come prevede la legge, il riserbo più assoluto. 7 milioni li spendono per pagare gli stipendi dei loro dirigenti e dei dipendenti poi ci sono le 19 federazioni di categoria, ognuna pubblica il suo rendiconto, non tutte proprio lo fanno comunque manca un bilancio consolidato. Quindi avere contezza dei conti di tutto l’impero Cisl e federazioni è complicato, è impossibile. Poi ci sono gli enti collegati e quelli che erogano servizi come caf, patronati, adiconsum, associazioni varie come anteas, ial, iscos. Solo il Caf Cisl, nel 2019, il centro di assistenza fiscale, ha incassato 44 milioni di euro, circa, quasi il doppio della Cisl nazionale. Ecco questo fa capire che ormai il sindacato si regge più che sul contributo degli iscritti su quello dei servizi che eroga, però il problema in questo momento per Annamaria Furlan è Report. Ha scritto una lettera alla Commissione di vigilanza parlamentare Rai dove ci accusa, oltre di dire delle falsità, prima di vedere la puntata, ci ha anche ci ha anche accusato di un attacco alle libertà sindacali e ai principi costituzionali della nostra democrazia. Ora, si figuri segretaria Furlan se Report non ha a cuore la libertà sindacale, che è un valore talmente alto che è oltretutto difeso dalla costituzione, articolo 39. Così come è tutelata dalla costituzione anche la libertà di stampa e di critica, articolo 21. Insomma noi abbiamo una grandissima considerazione del sindacato tuttavia pensiamo che debba liberarsi, un sindacato chge si dice democratico, dei veleni che sono sparsi con dei dossier anonimi, dei tentativi di tappare la bocca a chi non la pensa, a chi la pensa diversamente dagli altri, anche dai tentativi di tappare la bocca al servizio pubblico con delle querele preventive o addirittura di condizionare il pensiero degli iscritti che assistono alla trasmissione del servizio pubblico con dei tweet prestampati. Ecco noi pensiamo che il sindacato debba elevarsi soprattutto questo. Forse sarebbe meglio per essere del tutto trasparenti pubblicare tutti i bilanci, gli allegati e anche quei redditi che sono finiti al centro dell’inchiesta di Scandola, proprio per levare e fugare ogni dubbio. Poi bisognerà ricominciare a parlare un linguaggio dell’amore verso i lavoratori, un linguaggio dell’inclusione. Ecco questo per avere un sindacato più forte, non lo dice report anche questo, ma lo diceva il prima segretario generale della Cisl Giulio Pastore che era di Genova come lei dottoressa Annamaria Furlan.

Lo strapotere esercitato dai sindacati della scuola. Ernesto Galli Della Loggia su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2020. Non molti italiani sanno che al piano terreno del ministero dell’Istruzione, in viale Trastevere, non ci sono uffici e impiegati come in tutti gli altri piani. No, nelle stanze di quel piano si trovano — non si riesce a capire bene autorizzati quando e da chi — acquartierati i numerosi sindacati della scuola che li occupano con tanto di targhe, manifesti vari e quant’altro. Insomma un pezzo di edificio pubblico — pubblico come pochi — è stato di fatto dato in concessione ad alcune associazioni private (che tali sono i sindacati) perché lo usino a loro discrezione. La presenza fisica concreta dei sindacati nel cuore dell’amministrazione della scuola è il simbolo dello strapotere che essi esercitano da decenni nel campo dell’istruzione, strapotere che ha dato vita a un vero e proprio virtuale regime di cogestione e costituisce una delle principali cause del declino di questo settore strategico della nostra vita nazionale. Tanto più merita perciò di essere segnalata positivamente la decisa presa di posizione della ministra Lucia Azzolina che in un’intervista di ieri a Concita De Gregorio su Repubblica ha coraggiosamente denunciato la «resistenza strenua al rinnovamento» dei sindacati stessi e i loro «atteggiamenti che mirano a conservare potere e rendite di posizione nell’interesse non di molti ma di alcuni». Parole che valgono in generale ma che con ogni evidenza traggono spunto da quanto sta accadendo in queste settimane riguardo l’annunciato ritorno a scuola di settembre . A questo proposito la questione della sicurezza (anche quella legale dei dirigenti scolastici) è fuor di dubbio una questione cruciale. Che si presta però fin troppo bene ad essere oggetto di agitazione a base di facili denunce di ritardi e contraddizioni, di demagogiche richieste ultimative : così come per l’appunto stanno incessantemente facendo da tempo i sindacati della scuola. I quali si guardano bene tuttavia — come del resto i partiti di opposizione che su questo terreno non sono loro da meno — di indicare che cosa farebbero loro al posto della titolare del Ministero, quali efficaci meccanismi securitari a cui nessuno ha mai pensato essi adotterebbero. La verità è che in una situazione sanitaria che muta di settimana in settimana, nella quale la parola decisiva non può che essere riconosciuta ai medici e agli epidemiologi, e in cui una vera e massima sicurezza potrebbe essere assicurata verosimilmente solo da misure (spazi, distanziamenti, controlli medici, aumento rilevantissimo dei mezzi di trasporto, ecc,) di fatto assolutamente inattuabili in tempi brevi, in una situazione del genere non sembrano esserci alternative: o si decide semplicemente di chiudere le scuole o si accetta un certo inevitabile coefficiente di rischio insieme a una serie di disagi e di incognite più o meno gravi (la didattica a distanza ad esempio). Ma davvero non mi pare che dovrebbero esserci dubbi di fronte all’ alternativa drammatica della perdita di un intero anno scolastico. Che in cambio dell’impegno in una situazione così difficile il mondo della scuola chieda allo Stato un riconoscimento economico è più che ammissibile. Ma che invece si colga qualsiasi pretesto per opporsi a tutto, così come stanno facendo i sindacati, è la conferma della linea che essi perseguono ormai da decenni. Una linea distruttiva ispirata al più gretto corporativismo, indifferente a ogni reale tematica educativa e pedagogica, interessata come suo massimo obiettivo a escludere lo strumento del concorso per l’ingresso nei ruoli, una linea che all’accertamento del merito non cessa di preferire l’appiattimento egualitario delle retribuzioni. Il tutto per conservare ad ogni costo, come ha detto il ministro Azzolina, il proprio potere d’interdizione e di consentire a chi dirige quegli stessi sindacati di continuare a sentirsi i padroni della scuola.

La memoria corta di Azzolina: quando sabotava coi sindacati. Prima di fare politica era attivista dell'Anief e contestava il governo sui precari. Poi il voltafaccia. Massimo Arcangeli, Sabato 22/08/2020 su Il Giornale. Monta inarrestabile la protesta contro una ministra dell'Istruzione tanto arrogante quanto incompetente, indifendibile dall'inizio del mandato e rivelatasi inadeguata oltre ogni immaginazione. L'ultima è l'attacco scomposto e irresponsabile, che ha indignato perfino l'alleato democratico, portato ai sindacati, e ai presunti sabotatori al loro interno, nell'intervista di ieri a Repubblica: remerebbero, secondo la Azzolina, contro la riapertura settembrina delle scuole. A parlare è peraltro un'ex sindacalista, un tempo paladina dei precari. L'11 luglio 2018 Azzolina, in una riunione congiunta delle settime Commissioni di Camera e Senato, in risposta a un'audizione del ministro dell'Istruzione di allora (Marco Bussetti), dichiarava in aula: «Abbiamo tante di quelle emergenze: abbiamo docenti da stabilizzare, abbiamo vincitori, idonei di concorso, Gae storici, diplomati magistrali, docenti della scuola secondaria di primo e di secondo grado». Due mesi dopo, in un video postato su YouTube (20 settembre 2018), la scena si ripete: l'onorevole, partita lancia in resta contro la Buona Scuola, difende a spada tratta la stabilizzazione dei precari della scuola, per dare una «prospettiva ai lavoratori che per tre anni hanno profuso il loro impegno all'interno delle scuole italiane. Non accadrà più. D'ora in poi il nostro impegno andrà nella direzione di rendere il contratto a tempo indeterminato la regola, non l'eccezione». Ora, da quando è ministra, Azzolina quei precari li disprezza. Maestra nell'arte dello scaricabarile, la ministra è sbocciata sindacalmente nell'Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori (Anief), una onlus fondata nel 2003 a Palermo (per tutelare, in particolare, proprio i precari scolastici), e lì si è data parecchio da fare, militando prima in Piemonte e poi in Lombardia. Il 10 novembre 2009 Marcello Pacifico, il presidente nazionale dell'associazione (tuttora in carica), in un'intervista a un quotidiano on line (ilsussidiario.net) aveva annunciato trionfale l'esito positivo del ricorso fatto al Tar dal suo sindacato, contro il decreto Gelmini, in difesa di più di 8.000 precari (degli oltre 20.000 ricorrenti totali). Cinque anni dopo Lucia Azzolina compare come relatrice sulla locandina di un seminario di studi Anief (La legislazione scolastica, Chieri, I.C. Chieri I, 14 novembre 2014) organizzato all'interno di un corso diretto dallo stesso Pacifico (La buona scuola. Facciamo crescere il Paese). Il suo nome riaffiora poco più di un anno dopo, quando è relatrice di un altro seminario Anief in tema di riforma scolastica: La «Buona Scuola» e le nuove norme sulla mobilità tra organico dell'autonomia e ambiti territoriali (Milano, I.C. R. Pezzani, 16 febbraio 2016). Nel 2107 Azzolina torna a insegnare, lasciando il sindacato fondato da Pacifico. Avrebbe poi detto: «Per un po' ho lavorato all'Anief, esperienza che mi ha fatto capire, purtroppo, come funziona il sindacato»: tpi.it, 28 dicembre 2019). Dopo l'elezione a ministra l'Anief di Novara-Biella-Vercelli ha diramato un comunicato (31 dicembre 2019), firmato dal presidente locale, Giuseppe Faraci, di congratulazioni all'ex affiliata. Nel comunicato si diceva «oramai scaduto il tempo perché possano trovare soluzione definitiva le annose questioni legate al mondo del precariato come ad esempio la stabilizzazione dei precari . Non sono più tollerabili atteggiamenti discriminatori, docenti di ruolo e docenti a tempo determinato hanno stessi doveri e non possono non avere stessi diritti . Tutte queste ed anche altre rivendicazioni, negli anni scorsi, le abbiamo urlate insieme al neo ministro Azzolina e noi ne siamo fieri!» Dimettetela.

Vittorio Feltri: "Povera Azzolina, vi racconto una cosa sul sindacato". Rovina d'Italia e padre di tutti i mali. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 agosto 2020. Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale pubblicato ieri sul Corriere della Sera, ci ha informato che la sede del sindacato socialcomunista, cioè la Cgil, è nello stesso edificio del ministero della Pubblica Istruzione. Una vicinanza contaminante che giustifica un sospetto: la scuola è avvelenata dai tribuni del popolazzo, i quali a tutto pensano, specialmente agli affari propri, tranne che all'educazione. Dove arrivano i cosiddetti difensori dei lavoratori di ogni categoria non cresce più l'erba, altro che Attila. La povera ministra Lucia Azzolina, che di suo è già abbastanza stordita, è alle prese non soltanto con i problemi derivanti dal Covid, ma anche con le grane sindacali. E i risultati della sua opera, che ella ritiene miracolosa, non possono che essere pessimi, nei suoi panni chiunque creerebbe esclusivamente pasticci. Motivo per cui mi trattengo dal parlare male più di tanto della tenera responsabile del dicastero che si occupa dei nostri ragazzi. La famosa Triplice nel nostro Paese spaesato ne ha combinate di tutti i colori a partire dagli anni Settanta, quando essa dominava nel mondo del lavoro provocando in Italia tensioni e violenze oggi inimmaginabili, per fortuna. La Fiat era l'epicentro di tutti gli scioperi divenuti rituali e ricorrenti. Praticamente ogni settimana scattava la protesta operaia coordinata dal fenomeno della Cgil. I salariati non si limitavano ad astenersi dal lavoro, causando gravi perdite alla fabbrica automobilistica, ma organizzavano, davanti ai cancelli della azienda, dei picchetti per impedire l'ingresso dei crumiri, violando la libertà di chi voleva recarsi alle catene di montaggio. Gli incidenti erano all'ordine del giorno, molti signori della manodopera ostili agli ordini dittatoriali del sindacato venivano malmenati allo scopo di essere tenuti fuori dai reparti dove si sgobbava. Uno schifo mai visto che nessuno, nemmeno le forze dell'ordine, ha osato reprimere in omaggio al principio che la libertà di sciopero pesa quanto la libertà di lavorare. Nel 1998 fui incaricato dal settimanale Panorama, allora importante, di intervistare Sergio Cofferati. Mi recai a Roma, fui ricevuto con molto garbo dal segretario generale della Cgil, con il quale cominciai una intensa conversazione. A un certo punto non mi potei trattenere e gli chiesi il perché dei picchetti ostativi, brutali. Il dirigente menò il can per l'aia, pur in assenza dell'aia, e non mi dette alcuna risposta. Inutilmente mi abbandonai alle insistenze. Evidentemente Cofferati era in imbarazzo. Negli anni successivi ebbi la conferma che i sindacati non tutelano gli interessi degli iscritti, bensì solo i propri, ovvero il mantenimento dei poteri acquisiti a cui non rinunciano neanche in caso di guerra civile. I loro capi non si interessano mai di retribuzioni, che continuano ad essere miserrime: preferivano e ancora preferiscono che il personale, a prescindere dai meriti, abbia un trattamento - modesto - a qualsiasi livello. Tipico del comunismo: tutti indigenti, nessun indigente. Nel mio ambiente giornalistico ha attecchito questa mentalità stracciona, ogni volta che si discute un nuovo contratto il salario peggiora e la occupazione pure. La Federazione della stampa e l'Ordine sono associazioni dirette da professionisti mediocri i quali puntano a conservare poltroncine che garantiscono gettoncini somiglianti alle mancette distribuite da Conte. Che pena. 

·         La Lobby del Volontariato.

Scontro Calenda-Codacons: «Chi lo finanzia? Quadro inquietante». La replica: risponderemo a tutto. Redazione Economia de Il Corriere della Sera il 7 luglio 2020. «Molte zone d’ombra, alle quali il Codacons dovrebbe rispondere pubblicamente se vuole essere fedele al principio di trasparenza, non solo che promette ma che minaccia di far rispettare». Scoppia (di nuovo) la guerra del Codacons. A scatenarla è Carlo Calenda, ex viceministro dello Sviluppo Economico nei governi guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi e attuale leader di Azione. Calenda ha postato un video attraverso i canali social di Azione, il movimento politico che dirige, annunciando un’interrogazione parlamentare al ministro dello Sviluppo economico Patuanelli. A suo dire ci sarebbero molte «zone d’ombra» nell’attività dell’associazione dei consumatori fondata dall’avvocato salernitano Carlo Rienzi. E perciò Calenda pone una serie di domande tanto al ministro quanto allo stesso Codacons. Questioni che vanno dai finanziamenti ricevuti dall’associazione ai contributi pubblici «non dichiarati» fino ai bilanci non aggiornati ai rapporti con Mps o Autostrade per l’Italia. Emerge, a dire di Calenda, un quadro «inquietante», che merita risposte non solo dal Codacons, ma anche dal governo.

Lo scontro e le questioni aperte. «Come promesso - recita Calenda nel video - abbiamo fatto un’attenta analisi del Codacons. Come funziona, quanto è trasparente, come si finanzia, quali contributi pubblici prende, perché li prende nonostante dica il contrario, con quali imprese si relaziona e che obiettivi persegue». Un crescendo che arriva a toccare questioni decisamente più consistenti: «Perché, come ha scritto il Fatto Quotidiano, nel 2018 ha rinunciato alla costituzione di parte civile nel processo nel processo agli ex dirigenti del Monte dei Paschi di Siena?», chiede Calenda, evidenziando che nello stesso periodo la banca «ha firmato una transazione da 732 mila euro con lo stesso Codacons?». Ancora, il leader di Azione chiede quali siano «i rapporti tra Codacons e Autostrade per l’Italia», anche in considerazione «delle poche critiche nei confronti di Autostrade e anche nei confronti di eventi controversi come il crollo del Ponte Morandi».

La replica del Codacons: «Risponderemo a tutto». A stretto giro arriva anche la replica del Codacons. «Il Codacons accetta la sfida e domani risponderà punto per punto alle insinuazioni – più che domande – di Carlo Calenda che, totalmente ossessionato dal Codacons ai limiti dello stalking, ha pubblicato oggi un lungo video sull’associazione», spiega l’Associazione. «Non abbiamo alcun problema a rispondere ai quesiti posti dal leader di Azione, domande che purtroppo dimostrano l’ignoranza di Calenda e fanno capire perché molti lo definiscono il peggior ministro della Repubblica Italiana – affonda il Codacons – Tuttavia avvisiamo Calenda che anche noi, nel replicare, faremo qualche domanda all’ex Ministro, non solo sulla sua persona ma anche sul suo partito e sulle fonti di finanziamento dello stesso». «Apprezziamo lo sforzo del leader di Azione di aver preparato un testo per evitare l’ennesima denuncia, ma anche stavolta – come in tutto il suo mandato da Ministro dello sviluppo economico – ha fallito, e considerate la falsità delle affermazioni odierne, riceverà l’ennesima querela», conclude l’Associazione.

Calenda-Codacons, denunce e censure. Gli scontri tra Calenda e il Codacons sono all’ordine del giorno. Nel 2019, tra l’altro, l’associazione dei consumatori aveva denunciato Calenda in merito alle sue dichiarazione al televoto su Sanremo, mentre pochi mesi fa l’oggetto del contendere (e di nuova denuncia) furono i commenti dell’ex viceministro sul presunto conflitto d’interesse del virologo Roberto Burioni. E infatti, cisto il pregresso, Calenda premette nel video: «Siccome hanno la denuncia facile leggerò un testo. Sono emerse molte zone d’ombra, delle quali il Codacons dovrebbe rispondere pubblicamente se vuole essere fedele al principio di trasparenza non solo che promette ma che minaccia di far rispettare a tutte le Amministrazioni Pubbliche. Per questo abbiamo una serie di domande da porre al Codacons e al suo Presidente Rienzi. Ora, non le porremo solo a lui. Queste domande saranno oggetto di una lettera al Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli, che dovrebbe sorvegliare su queste associazioni, e di una interrogazione parlamentare».

Le domande di Calenda al Codacons e al ministro Patuanelli. Ecco quindi le questioni poste dal leader di Azione: «Perché i bilanci presenti nel sito del Codacons non sono aggiornati e contengono delle parti non accessibili al pubblico (quindi gli omissis), con pochissimi dati su iscritti, quote e risultato d’esercizio? A quanto ammontano le spese legali del Codacons? E come e tra chi sono stati ripartiti i soldi delle spese legali? Cioè, sono stati ripartiti tra i membri del Codacons stesso che hanno lavorato come avvocati e hanno preso delle parcelle? Sarebbe importante saperlo. Perché le pagine del sito sono ferme agli anni scorsi nonostante la regolamentazione imponga un sito aggiornato con adeguati contenuti informativi sia riguardo all’organizzazione che al funzionamento dell’associazione?».

La posizione «monocratica» di Rienzi. Calenda continua insistendo sulla figura del fondatore Carlo Rienzi: «È vero che lo Statuto dell’associazione consente al Consiglio di Presidenza di decidere sull’ammissione e sulla decadenza di singoli soci anche per motivi non disciplinari e con motivazione succinta cioè sommaria? È vero che il Consiglio di Presidenza ha concentrato su sé stesso i poteri in precedenza attribuiti a due organi, restringendo la platea dei soggetti con poteri decisionali? In poche parole, è diventata una struttura monocratica gestita da Rienzi? Un tempo il Codacons si definiva “associazione delle associazioni” ed aveva soci sia persone fisiche che associazioni. Successivamente queste ultime, le associazioni, sono state escluse e sono state ammesse solo persone fisiche. Da quando è stata introdotta questa modifica, è mai stato esercitato un controllo da parte del Ministro dello Sviluppo Economico sulle associazioni? Com’è attualmente composta l’Assemblea dei Delegati? Quanti sono i delegati e chi li ha eletti? Che principi di democrazia interna ci sono, visto che parlate sempre di trasparenza?».

Il caso Monte Paschi. Sui rapporti tra Codacons e banche, poi, Calenda non lesina domande. E preannuncia: «Qui arriviamo a delle cose un po’ più gravi. Perché, come ha scritto il Fatto Quotidiano, il Codacons nel 2018 ha rinunciato alla costituzione di parte civile nel processo agli ex dirigenti del Monte dei Paschi di Siena? E perché nello stesso periodo la banca ha firmato una transazione da 732 mila euro con lo stesso Codacons per finanziare i progetti promossi dall’associazione di consumatori come, cose importanti, la valorizzazione del latte d’asina a scopi pediatrici nella Provincia di Siena? E perché, sempre nella stessa transazione, la banca ha versato al Codacons 612 mila euro per spese legali e 291 mila euro direttamente al Presidente del Codacons Rienzi? Ora, se tutto questo fosse vero, lo scrive il Fatto Quotidiano, non sarebbe grave, sarebbe gravissimo. Altro che conflitti di interesse».

I rapporti con Autostrade. Altro capitolo è quello dei rapporti tra associazione e Autostrade per l’Italia: «Quali sono i rapporti tra Codacons e Autostrade per l’Italia, visto che lo stesso Codacons ha conferito nel 2016 il Premio Consumatore per il Rispetto della Legalità e delle Regole sulle Strade a Giovanni Castellucci, allora amministratore delegato di Autostrade per l’Italia e all’epoca già indagato per una questione riguardante il Bus di Avellino. Ma questo non rileva perché siamo garantisti, ma siccome il Codacons denuncia chiunque, anche quando non c’è un’ombra di sospetto. Perché il Codacons ha espresso così poche critiche nei confronti di Autostrade per l’Italia, neanche per eventi controversi come il crollo del Ponte Morandi? Il Codacons ha una relazione con Autostrade? Gli avvocati che fanno parte dell’ufficio legale del Codacons, hanno relazioni professionali con autostrade? Sarebbe importante capirlo», afferma ancora Calenda.

I finanziamenti pubblici. «Perché il Codacons afferma di non ricevere finanziamenti pubblici quando risulta che abbia ottenuto - dice ancora Calenda - centinaia di migliaia di euro in contributi dalle Pubbliche Amministrazioni? Perché il costo del servizio del Codacons per l’assistenza legale e psicologica per l’emergenza Coronavirus è di quasi 1 euro al minuto di chiamata? Come giustificare tale costo? Per di più, quali sono le competenze degli operatori che rispondono alle chiamate? Perché il costo della chiamata rimane lo stesso anche negli orari in cui gli operatori non sono disponibili? Far pagare il consumatore per ascoltare una registrazione è corretto? Usando il Covid? Perché, infine, il sito del Codacons chiedeva contributi privati alla propria associazione con annunci che li facevano passare come fondi per la battaglia contro il Coronavirus? E perché il Codacons ha ritirato gli annunci non appena Fedez ha denunciato quell’ambiguità? Vede Rienzi - conclude Calenda - o lei riesce a rispondere a queste domande, o il Ministero dello Sviluppo Economico riesce ad indagare sulle cose che abbiamo detto, o qualcuno si farà parte per capire perché tutte queste cose avvengono, oppure purtroppo la credibilità del Codacons è piuttosto bassa».

·         La Lobby degli Studi Legali.

Il reportage. La fuga degli avvocati: “Costretti a cambiare lavoro per sopravvivere”. Amedeo Junod su Il Riformista il 25 Giugno 2020. C’è chi è diventato amministratore di condominio e scrittore umoristico o chi ha aperto un’attività commerciale. C’è chi poi, purtroppo, ha oramai un’età in cui fatica a ricollocarsi nel mercato del lavoro, ed è costretto alla precarietà di lavori più modesti, ben lontani dai grandi fasti che alimentano solitamente le ambizioni di chi intraprende la carriera legale. Parliamo di avvocati, o meglio, di ex avvocati, professionisti che dopo anni di studio, lavoro e sacrifici hanno rinunciato al nobile sogno di difendere i diritti dei cittadini di fronte al muro insormontabile della crisi della professione. Oramai da molti anni il numero di iscritti all’Albo decresce vertiginosamente, per non parlare di chi sceglie di rinunciare all’iscrizione pur di non far fronte agli oneri contributivi e a tutte le spese connesse ad un mestiere prestigioso ma attraversato da una crisi dalle radici profonde. “Già a partire dal 2006 – ricorda Antonio Tafuri,  Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli – le cosiddette liberalizzazioni di Bersani avrebbero dovuto essere uno stimolo per la concorrenza e un aiuto per i giovani, ma in realtà si tradussero soltanto in un ulteriore restringimento della concorrenza”. C’è poi il problema dell’ Obbligo di iscrizione alla cassa forense, legato all’imposizione di minimi contributivi molto alti, che ha portato moltissimi giovani avvocati a rinunciare al loro sogno, soffocato da proibitivi oneri previdenziali. La saturazione del mercato, la concorrenza sleale al ribasso e un sistema giudiziario dai tempi talmudici e da una burocrazia soffocante e kafkiana, hanno fatto il resto, lasciando affogare i “pesci piccoli”, a vantaggio di pochi navigati studi legali. Con la crisi legata al Covid poi, dalla tragedia si è passati alla farsa: “non è un mistero che tutti i settori della società hanno riaperto tranne le scuole e le udienze in tribunale. E questo oggi è una cosa che se non fosse drammatica sarebbe da definire ridicola”, sottolinea Armando Grassitelli, che tra una pratica e l’altra della sua attività di amministratore di condominio ha trovato anche il tempo di passare dal linguaggio tecnico dei testi legali a quello artistico della letteratura, fino a vincere il prestigioso Premio “Massimo Troisi” con la raccolta di racconti “Una Famiglia con la EMME Maiuscola”. Collabora con una piccola attività commerciale di famiglia invece Paolo Mariani, nei cui occhi si legge il vivo rancore per una scelta di vita gravida di aspettative e di promesse, che si è poi tristemente rivelata insufficiente per “tirare avanti e crescere una famiglia, con le relative spese e le incombenze”. Per lui , come per Manuela Turchiarelli e Vincenzo Barbato, l’avvocatura, prima di essere una professione, costituiva un grande sogno, nutrito dall’ambizione e dall’intraprendenza che da ragazzi ha portato tutti loro a investire tempo e fatica in studi complessi e in una lunga e tortuosa formazione. Passione e sudore che non hanno retto, a lungo termine, di fronte alla cruda realtà dei fatti. Manuela e Vincenzo si amano, e un velo di nostalgia li avvolge mentre ci parlano di quando si sono conosciuti, proprio in concomitanza della prova d’abilitazione alla professione. Dopo anni di tentativi, sono stati costretti ad abbandonare il loro studio a conduzione familiare, per ritrovarsi indebitati e senza un posto stabile, né giovani né vecchi, a dover accettare di intraprendere professioni precarie e lontane dalle loro ambizioni di partenza. “La crisi e la fine della nostra carriera ci ha impedito di sposarci e di avere bambini”, racconta Manuela, con legittima rabbia e delusione. “Ma bisogna smettere di non parlare della crisi della professione solo per non intaccarne il prestigio nominale e nasconderne la progressiva proletarizzazione”. Vincenzo le sorride, la guarda, e le promette che quando sarà possibile la sposerà, “non appena le loro vite lavorative avranno raggiunto nuovamente una maggiore stabilità e sicurezza economica”. Dura lex.

Studi legali, ecco la top 50 di chi guadagna  di più nella consulenza d’affari. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Isidoro Trovato. Nelle 50 realtà che compongono la classifica (in cui appaiono i dati stimati da Legalcommunity) lavorano complessivamente più di 9.600 professionisti tra avvocati e commercialisti. I numeri dicono che mediamente, negli studi della Best 50 il rapporto soci/collaboratori è di uno a cinque, l’origine dei ricavi è suddivisa in media fra un 30% da attività estera e un 70% da attività nazionale, mentre la percentuale dei costi sul fatturato è del 54% (in calo di due punti percentuali rispetto al dato rilevato lo scorso anno). Anche in questo caso si tratta di un dato medio. In vetta BonelliErede che si conferma al primo posto della Best 50. L’organizzazione presieduta da Stefano Simontacchi ha chiuso il 2019 con un incremento del proprio giro d’affari del 17% rispetto al dato stimato per l’esercizio precedente ed è arrivata a totalizzare un fatturato di 194 milioni di euro. È l’effetto «with Lombardi». Infatti, nel corso dell’anno passato, lo studio ha realizzato l’integrazione della super boutique Lombardi e Associati , grazie a cui, ha visto aumentare non solo la propria squadra di soci (cresciuti complessivamente di 15 unità nel corso dell’anno grazie a 8 innesti dall’esterno e 7 promozioni interne) ma ha centrato l’obiettivo di rafforzare in maniera determinante alcune aree di attività strategiche (a cominciare dal contenzioso e dal restructuring) concretizzando una crescita per distacco rispetto al resto del mercato. In seconda posizione troviamo Pwc Tls che, mettendo a segno una crescita del 15% del proprio fatturato, ha realizzato un giro d’affari di 161,4 milioni di euro. Anche nel caso del tax & legal di Pwc, guidato da Fabrizio Acerbis, il 2019 ha consolidato gli effetti di una strategia sempre più mirata a posizionare l’organizzazione anche sul fronte delle grandi operazioni straordinarie. Terzo gradino del podio della Best 50, per Gianni Origoni Grippo Cappelli & Partners. Lo studio fondato da Francesco Gianni e GianBattista Origoni ha realizzato una crescita del 4,8% totalizzando ricavi pari a 152 milioni di euro. La cinquina di testa della edizione 2020 della classifica è completata da Chiomenti che totalizza un fatturato stimato pari a 141,5 milioni in crescita dell’8% sul 2018 e Pirola Pennuto Zei che si porta a 132,9 milioni. ra i big italiani, subito dopo BonelliErede è Legance l’insegna che ha messo a segno la crescita maggiore con un incremento del giro d’affari del 13,1% che ha portato a 95 milioni l’incassato dello studio. Se Legance ha sfiorato i 100 milioni di fatturato nel 2019, Dla Piper è riuscito a sfondare il tetto delle tre cifre chiudendo l’ultimo esercizio con una crescita dei ricavi del 15,4% pari a 100,9 milioni di euro. A proposito di crescite importanti, non può passare inosservata la performance messa a segno da Andersen Tax & Legal che quest’anno entra nella Best 50 con 12 milioni di fatturato. Il dato che fa sperare per il futuro? I grandi studi non stanno operando tagli sulla forza lavoro: si assiste a tagli di bonus, rinunce a dividendi ma pochissimi licenziamenti o riduzioni di organico. Segnale evidente che c’è fiducia in una veloce ripresa. E per ripartire in fretta c’è bisogno di forza lavoro talentuosa e già formata.

·         La Lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica.

Dentista, ecco quanto guadagna su otturazioni, impianti e corone. L’assicurazione conviene? Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 29 settembre 2020 su Il Corriere della Sera. La cura dei denti non rientra nelle prestazioni offerte dal servizio sanitario nazionale (ad esclusione di urgenze, patologie neoplastiche o di assistenza minima a soggetti in condizione di vulnerabilità socio-sanitaria). Motivo per cui, insieme con la fisioterapia, le cure odontoiatriche sono considerate oggi uno dei vantaggi principali delle coperture assicurative che riguardano ormai 12,9 milioni di persone. È un mercato che vale 2,8 miliardi di euro di premi l’anno: il 54% è frutto di polizze collettive sottoscritte da fondi sanitari e simili, il 15% da sottoscrizioni collettive di altro tipo e soltanto il 31% da polizze individuali. Vuol dire che, nelle maggior parte dei casi, il datore di lavoro invece di dare un aumento di stipendio preferisce sottoscrivere una polizza che è interamente defiscalizzata (articolo 51 del Testo unico delle imposte sui redditi). La stima è di un risparmio complessivo in imposte di oltre 4 miliardi l’anno. Di solito la copertura assicurativa viene offerta tramite provider dietro i quali ci sono le principali compagnie assicurative. Quelle che raccolgono il 75% dei premi del mercato italiano sono Unipol che opera tramite Unisalute (23%), Generali tramite Pronto Care (21%), Intesa Sanpaolo Rbm tramite Previmedical (16%), poi Allianz (10%) e ancora Reale Mutua tramite Blue Assistance (5%). Il meccanismo di assicurazione scatta poi spesso tramite fondi o associazioni di categoria. Per esempio, per 1,3 milioni di metalmeccanici (più 500 mila familiari) l’azienda paga 13 euro al mese al Fondo Metasalute di Rbm/Previmedical. Per i 2,5 milioni di impiegati del commercio c’è il Fondo Est di Unipol/Unisalute: 10 euro al mese, li paga il datore di lavoro, 2 il dipendente. I bancari fanno riferimento sia a Rbm/Previmedical sia a Generali/Pronto Care. Se si vuole ottenere la prestazione senza pagare nulla bisogna rivolgersi ai dentisti convenzionati (perché a loro il rimborso lo fa direttamente il fondo sanitario o l’assicurazione). Se invece uno vuole scegliere a chi rivolgersi deve pagare di tasca propria, per poi ottenere un rimborso spesso parecchio inferiore alla fattura, e destreggiarsi tra franchigie, massimali e autorizzazioni decisamente disincentivanti, fino ad arrivare addirittura a non essere rimborsato. Mediamente per un’otturazione il dentista chiede al paziente 130 euro, ma se ha una copertura assicurativa privata il costo può scendere fino a 65 euro perché quella è la tariffa indicata unilateralmente dall’assicurazione: chi non ci sta è fuori. Per una corona sono 800 euro che possono diventare anche 415 per chi ha la polizza, mentre per un impianto passiamo da 1.000 a 840. E così via.

I conti in tasca ai dentisti. Siamo andati a fare due conti in tasca ai dentisti che, di certo, non se la sono mai passata male a incassi. Almeno fin qui. Questi sono i costi minimi che devono sostenere per un’otturazione: vestizione paziente 1 euro, consumo materiali (cioè composito biocompatibile con adesivi, kit frese, diga monouso) 19 euro, sterilizzazione degli attrezzi 10. Più 50 euro di costo poltrona, che vuol dire quanto al dentista costa all’ora lo studio tra affitto, segretaria, bollette della luce, smaltimento rifiuti. Totale di costi vivi per un’otturazione: 80 euro. Per una corona in ceramica: consumo frese, sterilizzazione, cemento 40 euro; per prendere l’impronta 50; costo del laboratorio odontotecnico 250; più 4 visite, che fanno 200 euro di costo poltrona (per limare il dente, di nuovo impronta, prova della cappetta, inserimento corona e cementificazione). Totale: 540 euro. Per un impianto in titanio: 250 euro di materiale, poi accessori per l’intervento come consumo delle frese, bisturi, vite, dima chirurgica, ecc. 150 euro; moncone per la ricostruzione del dente fanno altri 200; visita iniziale, intervento, eliminazione dei punti fanno altri 150 euro di costo poltrona. Totale: 750.

La qualità delle cure a rischio. Da una parte alle assicurazioni conviene spingere le tariffe sempre più in basso per allargare la platea dei clienti, dall’altra i dentisti, se non vogliono vedersi preclusa una fetta di mercato, sono costretti ad accettare. Su 39.079 titolari di studi odontoiatrici oggi i convenzionati sono 10.592. I grossi centri lavorano sulle economie di scala e riescono più facilmente ad ammortizzare i costi. Per gli altri sta diventando un’odissea tra listini al ribasso, esclusione dalle convenzioni, pratiche burocratiche infinite per ottenere i rimborsi. Il pericolo è che ci vada di mezzo la qualità delle cure fornite al paziente. I modi per risparmiare ci sono: per un’otturazione può essere usata la resina invece del materiale biocompatibile; per una corona si può magari ricorrere a una ceramica made in China; per un impianto sceglierne uno con una minore capacità osteointegrativa e qualità del titanio (che ha vari gradi purezza) e caratteristiche biomeccaniche inferiori. Risultato per il paziente: distacco dell’otturazione, minore certezza di osteointegrazione e rischio di infezioni per la corona e l’impianto.

Il dossier di proteste. Casi che si sono già verificati, come emerge da oltre mille denunce di pazienti raccolte da Altroconsumo. Il dentista di fiducia propone un piano di cura per l’estrazione del residuo radicolare, il posizionamento di impianto osteointegrato provvisorio e successiva corona protesica al costo di 1.600 euro secondo il tariffario in convenzione; l’assicurazione che deve approvare il piano terapeutico come condizione per il rimborso, impone in alternativa il recupero del residuo radicolare con la devitalizzazione, un intervento chirurgico di gengivectomia e successiva ricostruzione con corona protesica al costo minore di 840 euro. Per l’estrazione complessa del dente del giudizio con contestuale asportazione di una ciste adiacente, viene autorizzata l’estrazione del dente ma non della ciste a meno che venga fatta anche biopsia; oppure viene autorizzata l’asportazione di un dente (il numero 45), ma non la cura con impianto o con la corona. Può capitare che se devi fare tre otturazioni ci vogliono tre mesi perché è richiesta un’autorizzazione per ogni dente; per un apparecchio ortodontico al proprio figlio la pratica resta in lavorazione fino a 76 giorni; se anticipi i soldi il rimborso non sai quando ti arriverà perché manca sempre qualcosa.

Chi ha ragione? Sulla questione ora è chiamato a intervenire l’Antitrust che l’11 settembre si è visto presentare un esposto dagli avvocati Pietro Ichino e Massimo Pallini per conto dell’Associazione nazionale odontoiatri e medici convenzionati (Anomec). All’attenzione dell’Antitrust c’è anche un esposto di Altroconsumo del 25 settembre per scorrettezze nella gestione delle polizze. Nel mirino ci sono Unisalute e Rbm/Previmedical, leader di mercato. In sostanza, dal contratto collettivo dei metalmeccanici (ottobre 2017) in poi, l’iscrizione a un fondo di assistenza sanitaria per offrire prestazioni integrative al Servizio Sanitario Nazionale, è sempre più considerata come il secondo pilastro della sanità pubblica. Ed è vista con favore perché dà la possibilità di saltare le liste d’attesa. L’esempio dei dentisti però vale anche per la chirurgia ospedaliera: il tipo di intervento da eseguire viene spesso concordato con l’assicurazione e non sempre è quello meno invasivo; le protesi non sempre le migliori. Questo da un lato dovrebbe metterci in guardia, dall’altro l’integrazione dell’assistenza sanitaria con una polizza richiede una regia pubblica, che al momento non c’è. Chi si occupa di sanità suggerisce di spostare i 4 miliardi dalla defiscalizzazione al rafforzamento del Ssn proprio per accorciare le liste d’attesa e concedere la possibilità di alzare la percentuale di detrazione dalla fattura del dentista. Val la pena di ricordare che una buona igiene orale evita molti danni e tiene lontano il dentista. Almeno questo dipende soltanto da nostre abitudini.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato ai svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

·         Gli Affari dei Lobbisti.

Andrea Montanari per “Milano Finanza” l'11 gennaio 2020. Cambiano i governi, si spostano parlamentari e ministri, ma i lobbisti continuano a fare affari in Italia. Le elezioni del 4 marzo 2018 hanno portato una rivoluzione non banale negli equilibri politici nazionali: si era affacciata al comando dell' esecutivo una coalizione mai vista prima, Lega e 5 Stelle. Un'alleanza durata poco più di un anno perché i leader dei due movimenti, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, alla fine non hanno più retto alle tensioni quotidiane e, con l' indiretto sostegno dell' Europa, si è completato un ribaltone che ha confermato in sella il premier Giuseppe Conte, lo stesso esponenti del grillini ma ha visto completarsi, in men che non si dica, la fragorosa uscita di scena del partito che ha e continua ad avere i maggiori consensi elettorali, la Lega. Tornando ad analizzare il mercato della lobby, è emerso che nonostante gli iniziali timori sul brusco cambio di rotta del precedente esecutivo giallo-verde e l'arrivo sulla scena di governanti poco avvezzi alle relazioni e alla gestione del potere, business is business come direbbero Oltreoceano. Forse perché i pentastellati erano alla loro prima volta sulla tolda di comando, le società specializzate in lobbying ne hanno tratto particolare vantaggio. Almeno stando ai dati di bilancio relativi al 2018. Basti dire che i primi dieci operatori del settore hanno messo assieme un giro d' affari di oltre 34 milioni, in crescita del 15,5% rispetto all' anno precedente. Evidentemente le aziende, soprattutto quelle internazionali, hanno avuto bisogno di professionisti del settore per far breccia nel cuore di parlamentari, sottosegretari e ministri. A dominare la scena è stata ancora una volta Cattaneo Zanetto dei tre soci Alberto Cattaneo, Paolo Zanetto e Claudia Pomposo: La società fondata nel 2005 e che ha sedi a Roma, Milano e Bruxelles conta su uno staff di 45 persone e un portafoglio di oltre 100 clienti (la gran parte internazionali) ha archiviato il 2018 con un fatturato di quasi 7,4 milioni, in rialzo del 18% e con un utile che ha sfiorato quota 2 milioni (+37,8%). A inseguire, sul secondo gradino del podio, c' è anche nel 2018 la Comin&Partners. Fondata sei anni fa da Gianluca Comin, ha da pochi mesi inaugurato la nuova sede milanese- che ha superato la soglia dei sette milioni di ricavi, mettendo a segno un balzo del 37% e profitti che hanno sfiorato 1,3 milioni (+65%). Al terzo posto, in Italia, si conferma InRete di Simone Dattoli, che resta però distante dalla coppia di vetta, con un giro d' affari di 4,55 milioni (+4,4%) e un utile di 132 mila euro (+32,8%). Consolida il quarto posto in classifica la Fb Associati di Fabio Bistoncini, che di recente ha nominato due nuovi partner, Annalisa Ferretti e Agnese Chiscuzzu, e che ha registrato un fatturato di 3,52 milioni (+5,6%) e un utile di 251mila euro. Sopra la soglia dei 3 milioni di ricavi anche UtopiaLab. Ma cosa si cela dietro al consolidamento del settore in un paese come l' Italia che spesso non è in grado di apprezzare completamente il lavoro del lobbista? Un primo aspetto riguarda proprio la modalità operativa di lavoro: in questi ultimi anni si è progressivamente professionalizzato l' approccio al mestiere, al punto che sono diminuiti i consulenti che operano a titolo personale, a favore degli operatori strutturati. L' assenza di veri e propri outsider dimostra inoltre che il mercato è arrivato a una sua solidità strutturale che obbliga gli attori in campo alla massima professionalità e al costante aggiornamento. E se in Italia i governi durano poco - il ricambio dal gialloverde al giallorosso è emblematico - il business non ne risente, anzi prolifera, perché i lobbisti continuano a difendere e tutelare la loro indipendenza rispetto ai palazzi della politica. In tal senso non è da escludere che se non a breve magari nel medio periodo i big internazionali si interessino al business italiano di grandi network quali Fti, Kreab, Teneo e Wpp. In questo caso il mercato diventerebbe ancora più competitivo e non è da escludere che si assisterà a una stagione di consolidamento e di aggregazioni anche cross-border.

·         I Notai sotto inchiesta.

La cricca dei notai contro la concorrenza: così lavoravano soltanto gli "amici" dei potenti. I rogiti e i mutui per le dismissioni di un immenso patrimonio immobiliare riservate solo da alcuni professionisti scelti dal Consiglio Notarile, in modo da escludere i giovani e professionisti non graditi. Ecco il sistema scoperchiato dalla Procura di Roma che ha chiesto il rinvio a giudizio per il presidente Cesare Felice Giuliani. Gloria Riva il 24 luglio 2020 su L'Espresso. La cricca dei notai contro la concorrenza: così lavoravano soltanto gli "amici" dei potenti. Picconate alla casta dei notai. Stavolta è la Procura di Roma che, attraverso la richiesta di rinvio a giudizio per Cesare Felice Giuliani, presidente sia del Consiglio Nazionale del Notariato, sia del Consiglio Notarile di Roma, intende andare a fondo di un presunto sistema di abuso di potere. In base alla ricostruzione della magistratura, solo ad alcuni notai "amici" era concesso accedere alla spartizione degli incarichi per la cessione degli immobili pubblici di Roma Capitale, Enasarco, cioè la cassa previdenziale degli agenti di commercio, e Inps. Ma andiamo con ordine. Tutto ha inizio vent'anni fa, quando il Consiglio Notarile di Roma crea Asnodim, Associazione Notariato Romano Dismissioni Immobiliari, cioè una società che si sarebbe occupata della dismissione del patrimonio pubblico, vale a dire un piatto ricchissimo, perché a più riprese il ministero dell'Economia ha imposto agli enti previdenziali di dismettere il proprio patrimonio immobiliare per favorire la liquidità delle casse. In altre parole, ogni dismissione significa un atto notarile, più un secondo atto per la stipula del mutuo, ovvero un sacco di quattrini, se si pensa che Asnodim, «nell’ambito dell’operazione della dismissione del patrimonio immobiliare degli Enti residenziali Pubblici ha gestito oltre 19.000 aste affidate ai Notai per 34.000 compravendite e 12.000 mutui», si legge sul sito di Asnodim. Nel 2006, attraverso una delibera del consiglio notarile, l'ente stabilisce a quali notai affidare gli incarichi per fare i rogiti e i mutui del patrimonio immobiliare degli enti pubblici e previdenziali, in barba alla concorrenza. E questo sistema è proseguito almeno fino al 2017, favorendo una stretta cerchia di notai, a scapito soprattutto dei più giovani e di quelli meno legati alla cerchia del presidente. Tant'è che nel 2017 l'Antitrust multa il consiglio notarile per oltre 71mila euro e Asnodim per altri 145mila euro proprio per la pratica anti-concorrenziale. C'è un secondo problema: quegli sventurati notai che ricevevano un incarico da un inquilino per l'acquisto di una di quelle abitazioni appartenute al demanio rischiavano ritorsioni e sanzioni da parte del consiglio notarile romano se non avessero respinto il cliente. Al punto che uno di questi ultimi, esasperato, nel 2015 invia un esposto in Procura raccontando come i vertici del Consiglio avrebbero costretto lui e alcuni colleghi di Roma, Velletri e Civitavecchia, a rinunciare agli incarichi che avevano a che fare con gli enti pubblici, proprio per le minacce subite. Pena i procedimenti disciplinari, parecchio temuti dai notai, perché oltre alla sospensione temporanea dell'attività, a lungo andare possono portare anche alla definitiva chiusura dell'attività professionale. Scatta così l'indagine della magistratura, che nel corso delle indagini preliminari evidenzia come gli stessi vertici del consiglio notarile avrebbero indirizzato gli enti pubblici a rivolgersi a notai di loro elezione per l'assegnazione degli incarichi di dismissioni di patrimonio immobiliare pubblico, sostanzialmente pilotando la gestione delle assegnazioni in favore dei notai ritenuti più congeniali. Nelle indagini sono stati coinvolti l'attuale presidente dei notai romani, nonché presidente nazionale, Cesare Felice Giuliani, e due ex consiglieri: Antonio Sgobbo e Romolo Rummo. È di pochi giorni fa la notizia che il pm Roberto Felici ha disposto il rinvio a giudizio per Giuliani, Sgobbo e Rummo e ha fissato l'udienza preliminare per il prossimo 17 novembre. I reati contestati sono concussione e abuso di ufficio per aver minacciato di procedimento disciplinare altri notai per impedire loro di stipulare atti relativi alle dismissioni immobiliari di enti pubblici e previdenziali. Reati che, se dovessero essere confermati, in base al codice penale, significherebbero per i tre notai la fine della propria attività professionale. Contattato dall'Espresso Giuliani non commenta. Anche se l'intera vicenda è ora approdata sul tavolo del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, il quale esercita l'alta vigilanza su tutti i notai e sui consigli notarili distrettuali. Bonafede potrebbe avviare ulteriori ispezioni per far luce su un fenomeno tutt'altro che romano-centrico. Proprio l'Espresso a fine 2016 aveva raccontato la storia di un notaio milanese plurisanzionato dal Consiglio Notarile meneghino perché aveva abbassato le tariffe in modo da allargare il proprio business , così come aveva previsto l'introduzione del decreto Bersani 2006 sulle liberalizzazioni, che imponeva l'eliminazione delle tariffe professionali a favore della concorrenza. Un cambiamento dello status quo, che fra l'altro andava a favore di tutti i cittadini che avrebbero pagato meno per un atto notarile, che non era gradito al Consiglio notarile. Anche lì è intervenuta l'Antitrust, dando ragione al notaio Paolo De Martinis, che era stato preso di mira dal Consiglio e che, nel frattempo era stato sanzionato con tre procedimenti disciplinari, portandolo quindi sull'orlo della chiusura dello studio notarile, scongiurata – ancora una volta - dall'intervento dell'Antitrust che aveva definito illegittimo il secondo procedimento e dichiarato la condotta anticoncorrenziale del Consiglio Notarile di Milano. «Se non ci fosse stata la pronuncia dell'Antitrust mi avrebbero destituito», commenta il notaio Paolo De Martinis, che spiega come vi siano stati svariati casi analoghi un po' in tutta Italia: «Il potere disciplinare nelle mani di vertici spregiudicati nasconde un potentato che mette all'angolo i notai onesti. Ciò nonostante i notai seri non devono smettere di denunciare irregolarità e condotte anticoncorrenziali. Bisogna avere il coraggio di fare i notai, sempre».

La Risposta dei Notai su L'Espresso il 27 luglio 2020. I notai e le dismissioni: "Le notizie non sono vere". Le notizie apparse sui giornali non corrispondono al vero. Innanzitutto mi preme evidenziare che il Ministero del Lavoro ha istituito un Osservatorio al fine di garantire celerità e trasparenza nella gestione delle dismissioni pubbliche. In ossequio a questo, ed al fine di evitare fenomeni di accaparramento nelle dismissioni, l’Osservatorio ha stabilito che gli incarichi per la stipula delle dismissioni fossero distribuiti e controllati dal Consiglio Notarile. Il Consiglio Notarile è stato tenuto quindi, in un epoca in cui il sottoscritto non era nemmeno Presidente, ad assumere una delibera in linea con le disposizioni dell’Osservatorio e con i principi stabiliti dal codice deontologico del notariato ed a far rispettare la delibera, ovviamente, da parte di tutti i notai iscritti. Tale delibera - mi preme specificare - è tuttora valida e non è stata assolutamente dichiarata illegittima dalla magistratura amministrativa, anzi il Tar ha ritenuto “non censurabile l’intento del Consiglio Notarile di disciplinare – predeterminando e circoscrivendo, a rotazione, i professionisti incaricati – un ambito di attività del tutto peculiare, sia per il numero che per l’entità economica delle procedure di dismissione… al fine di evitare forme abnormi di procacciamento e concentrazione di incarichi presso i singoli professionisti, tali da ledere non solo l’interesse pubblico alla celerità, trasparenza e buon esito delle operazioni di dismissione, ma anche l’interesse della categoria dei notai sotto il profilo della tutela e del decoro professionale”, prevedendo solo l’integrazione con la facoltà nel caso “del singolo acquirente di designare tempestivamente un notaio diverso”. Tale sentenza, non impugnata dall’attuale denunciante, è infatti passata in giudicato. Il procedimento che vede coinvolto il sottoscritto, unitamente all’ex Consigliere Sgobbo ed al Consigliere Rummo, prende le mosse da una denuncia fatta da un notaio che non solo gestiva e gestisce tuttora, in maniera quasi esclusiva le gestioni dell’Enpam, ma che ha sporto la denuncia solo dopo che il Consiglio Notarile aveva avviato un procedimento disciplinare nei suoi confronti. In merito a tale procedimento voglio far presente che tale notaio è stato condannato da un organo esterno al Consiglio Notarile, la Co.Re.Di., che lo ha ritenuto colpevole delle incolpazioni. La decisione della Co.Re.Di. è stata poi confermata anche dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza divenuta irrevocabile, il notaio è stato infatti sospeso dall’esercizio della professione notarile per ben cinque mesi. Oltre a questo, lo stesso è stato destinatario di diversi esposti, sia da parte di clienti che di colleghi, in relazione alle modalità con cui svolgeva l’attività professionale. La distribuzione delle dismissioni veniva attuata sulla scorta di specifiche convenzioni che il Comune di Roma o altri Enti sottoscrivevano con il Consiglio Notarile al fine appunto di evitare situazioni di oligopolio in capo ad un singolo notaio, di garantire celerità e trasparenza e di applicare onorari ridotti agli acquirenti degli immobili dismessi. Ogni anno il Consiglio Notarile effettuava difatti dei controlli per verificare che tutti i notai che avevano accettato di stipulare le dismissioni ricevessero effettivamente degli incarichi. Tale meccanismo di controllo e di rispetto della delibera esercitato dal Consiglio Notarile cozzava evidentemente con l’interesse di alcuni notai. E’ doveroso sottolineare che il Pubblico Ministero aveva richiesto al termine delle sue indagini l’archiviazione del caso, non ravvisando alcuna responsabilità penale del sottoscritto e degli altri Consiglieri Sgobbo e Rummo. Il giudice delle indagini preliminari ha ritenuto che dovessero essere compiute altre indagini e, per rispetto alla sua decisione, è stata poi chiesta la fissazione dell’udienza preliminare.

Non riesco a comprendere come tutto il clamore che è stato sollevato ora con la richiesta di rinvio a giudizio, non vi sia stato invece quando il Pubblico Ministero ha avanzato richiesta di archiviazione nei miei confronti ed in quelli dei Consiglieri Sgobbo e Rummo. Cesare Felice Giuliani Presidente del Consiglio Notarile di Roma

Indagati i vertici del Consiglio Notarile di Roma. Il Corriere del Giorno il 5 Maggio 2020. Secondo l’accusa, gli indagati, avvalendosi di un’associazione professionale la Asnodim, costituita ad hoc, avrebbero indirizzato gli enti verso “soggetti selezionati in modo arbitrari”. Gli altri colleghi notai sarebbero stati minacciati, “di possibili conseguenze negative sulla vita professionale, non esclusa l’instaurazione di procedimenti disciplinari” in caso di loro rifiuto. Sfruttando una norma controversa – e più volte censurata dal Tar – i vertici del Consiglio notarile di Roma, Velletri e Civitavecchia avrebbero avocato a sé le procedure di cessione degli enti pubblici e di quelli privati, estromettendo i colleghi più deboli e favorendo sempre i soliti noti. La minaccia era quella di intralciale la loro professione, o di elevare contestazioni disciplinari, se non avessero rinunciato a gestire importanti incarichi professionali. Una strategia utilizzata nel 2015 che adesso sta per portare sul banco degli imputati il presidente Cesare Felice Giuliani (che è anche il presidente del Consiglio Nazionale del Notariato per il triennio 2019-2022) ed i due consiglieri Antonio Sgobbo, della commissione di Vigilanza e deontologia, e Romolo Rummo, segretario. Sono pesanti le accuse a loro carico formulate dal pm Roberto Felici della procura di Roma, che ha concluso le indagini : concussione e abuso d’ufficio. Un atto che solitamente anticipa la richiesta di rinvio a giudizio. Secondo gli inquirenti, come si legge nel capo di imputazione “abusando dei poteri derivanti dalla carica ricoperta” Giuliani, Sgobbo e Rummo avrebbero costretto i notai del distretto ad affidare al Consiglio l’assegnazione degli incarichi di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico. Gli altri colleghi notai sarebbero stati minacciati, “di possibili conseguenze negative sulla vita professionale, non esclusa l’instaurazione di procedimenti disciplinari” in caso di loro rifiuto. Ma non è tutto. I tre pilotando i procedimenti avrebbero anche avvantaggiato “notai di loro elezione, in particolare lo stesso Rummo e altri membri del Consiglio“. Secondo l’accusa, gli indagati, avvalendosi di un’associazione professionale la Asnodim, costituita ad hoc, avrebbero indirizzato gli enti verso “soggetti selezionati in modo arbitrari“. I tre notai indagati non avrebbero nemmeno tenuto conto dei criteri “quantitativo” e “deontologico-solidaristico“, che erano stati fissati dallo stesso Consiglio per favorire i notai più giovani. Alcuni professionisti hanno denunciato di essere stati costretti a non stipulare atti importanti, relativi alle dismissioni di immobili di Enasarco e di Roma Capitale. Anche l’ Antitrust, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella riunione del 30 maggio 2017, ha concluso l’istruttoria, avviata nei confronti del Consiglio Notarile di Roma Velletri Civitavecchia e di ASNODIM-Associazione Notariato Romano Dismissioni Immobiliari, con l’accertamento di un’intesa in violazione dell’art. 2 della legge n. 287/90. In particolare, l’intesa accertata consiste nell’adozione della Delibera n. 2287 del 29 maggio 2006, con la quale il Consiglio si è avocato il ruolo in via esclusiva di designare ex officio, tramite ASNODIM, i notai a cui affidare gli incarichi di redazione degli atti di rogito e di mutuo, nell’ambito delle dismissioni del patrimonio immobiliare di enti pubblici e previdenziali. Secondo quanto era emerso nel corso dell’istruttoria, è stato delineato un sistema di affidamento degli incarichi notarili, nel contesto delle dismissioni pubbliche, preclusivo di ogni possibilità per i notai del distretto di offrire i propri servizi secondo dinamiche competitive e per gli inquilini di beneficiare di tale confronto per scegliere il notaio a cui affidare l’incarico. Inoltre, il Consiglio e ASNODIM aveva adottato una serie di ulteriori misure limitative della libertà di iniziativa economica dei notai e della libertà di scelta degli inquilini/acquirenti del notai di fiducia, fra cui le attività di monitoraggio degli atti stipulati dai notai del distretto, gli interventi nei confronti dei notai che hanno accettato incarichi direttamente dagli inquilini, la stipula di Protocolli di intesa con gli enti proprietari degli immobili da dismettere con allegati i Tariffari che i notai designati erano tenuti ad applicare per gli atti da stipulare. Con riguardo ai tariffari, l’istruttoria ha consentito di verificare che gli obiettivi di uniformità delle tariffe non risultano essere stati perseguiti tramite iniziative di contenimento dei prezzi, in un contesto normativo che già nel 2006 aveva abrogato l’obbligatorietà delle tariffe fisse o minime, ma al fine di evitare che comportamenti di prezzo indipendenti dei singoli notai potessero condurre a riduzioni di entità pari (o molto prossime) a quelle, in linea di principio, consentite dalla legge n. 410/2001. L’istruttoria dell’ Antitrust aveva altresì dimostrato che l’intesa è stata attuata e ha prodotto effetti pregiudizievoli nella misura in cui ha impedito a un numero significativo di acquirenti di avvalersi della libertà di scegliere il notaio di fiducia e ha ostacolato le riduzioni degli onorari notarili richiesti per le prestazioni rese nell’ambito delle procedure di dismissione degli immobili di enti pubblici e previdenziali. L’Autorità aveva pertanto deliberato l’irrogazione di una sanzione pecuniaria nei confronti del Consiglio pari a 71.106,89 euro e di ASNODIM pari a 145.408,80. A nulla valse il ricorso dei notai al Tar Lazio . “Un unico disegno anticoncorrenziale» ispirò, secondo i giudici del Tar, il consiglio notarile di Roma, mediatore del grande affare delle dismissioni immobiliari. La cessione di migliaia di case, appartamenti e fabbricati da parte di vari enti pubblici. La sentenza dei giudici del Tar fotografava, in parallelo, il declino di una professione, respingendo il ricorso del Consiglio notarile e dell’associazione di categoria Asnodim contro il Garante della Concorrenza , confermano le conclusioni alle quali era arrivato l’ Antitrust : dal 2006 il consiglio dei notai esercitò pressioni al suo interno per «designare in maniera vincolante i notai che avrebbero dovuto stipulare i singoli atti dei processi di dismissione, l’adozione di protocolli d’intesa con gli enti proprietari e un’attività di monitoraggio sui singoli notai e l’esercizio strumentale del potere disciplinare». Ed adesso per il notaio Giuliani ed i suoi “comparielli” il processo è sempre più vicino.

·         Se comandano i Tassisti.

Picchiò cliente a Fiumicino: Raggi revoca la licenza al tassista. Le Iene il 09 gennaio 2020. Virginia Raggi revoca la licenza al tassista romano che qualche settimana fa ha rotto il naso ad un cliente “colpevole” di avere chiesto di accendere il tassametro. Anche Ismaele La Vardera era stato aggredito a schiaffi dai “battitori liberi” che lavorano alla stazione Termini. Via la licenza al tassista picchiatore. La sindaca di Roma Virginia Raggi ha comunicato di avere revocato la licenza di servizio a Stefano Miconi, il tassista che qualche settimana fa, come vi abbiamo raccontato in questo articolo, aveva colpito con un pugno un passeggero all’aeroporto di Fiumicino, fratturandogli il naso. “Un gesto inaccettabile. Tolleranza zero di fronte a ogni tipo di violenza", ha scritto sul suo profilo Twitter la sindaca di Roma. L’uomo, un turista, era stato colpito al volto per avere chiesto al tassista di accendere il tassametro.  Immediatamente dopo il fatto per Miconi era scattato il “daspo” dal terminal di Fiumicino, anche se il protagonista di questa incredibile vicenda si era scusato dicendo di avere perso la testa. Di tassisti decisamente sopra le righe e a tratti violenti vi avevamo raccontato con Ismaele La Vardera, che aveva anche preso uno schiaffone da uno dei cosiddetti “battitori liberi” che gravitano attorno alla stazione Termini di Roma. Parliamo di quei tassisti, muniti di regolare licenza, che cercano di accaparrarsi le corse più “ghiotte”, scavalcando gli altri colleghi regolarmente in fila. Si fanno pagare in nero e alla fine aumentano anche il prezzo della corsa, nonostante le tariffe fisse siano indicate sullo stesso taxi. Un fenomeno che danneggia i tassisti con regolare licenza. Uno di loro ha raccontato a Ismaele La Vardera: “Sono più di 13 anni che faccio questo lavoro e loro ci sono sempre stati. A Termini ne ho visti alternarsi più di 40. E Termini è solo la punta dell’iceberg, piccoli gruppi sono sparpagliati in tutta Roma”. Tassisti disposti a tutto pur di continuare a fare i propri affari, anche arrivando alle intimidazioni: “Una volta un collega cercava di combatterli ha trovato la bomba davanti alla porta”. E aggiunge, per farci capire il giro d’affari di queste persone: “Guadagnano il doppio, il triplo degli altri colleghi. Basti pensare che dalla stazione a Piazza di Spagna chiedono 30 euro, il prezzo che un tassista normale chiede per arrivare a Ciampino”. Mandiamo un nostro complice a prendere uno di quei taxi, per andare proprio a piazza di Spagna. Il tassista chiede 25 euro ma una volta arrivati a destinazione, ecco che ne pretende 30. Facciamo la stessa tratta con il tassametro acceso, prendendo un taxi che lavora secondo le regole e quella stessa corsa costa, in realtà, appena 6,70 euro! Facciamo un altro tentativo per capire se fanno i furbi anche con le corse a tariffe fisse, i cui prezzi sono indicati obbligatoriamente sugli stessi taxi. Per una corsa all’aeroporto di Fiumicino ci vengono chiesti 55/60 euro, mentre la tariffa dovrebbe essere per legge 48 euro. Ma una volta arrivati all’aeroporto, quel prezzo lievita addirittura sino a 75 euro! Quando Ismaele La Vardera va a chiedere spiegazioni proprio ad alcuni di questi battitori liberi sul cui taxi siamo saliti, non la prendono benissimo. “Toglietevi di mezzo che lui è pericoloso”, spiega un battitore libero altro indicando un collega che vuole allontanarci. Proprio quest’uomo, mentre altri due cercano di bloccare l’operatore, tira uno schiaffone in piena faccia alla Iena.

·         La Lobby dei Gondolieri.

Estratto dell’articolo di Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 21 luglio 2020. Di padre in figlio. Venezia […] crea una nuova specie protetta: il gondoliere. […] il servizio del gondoliere tornerà ad essere un affare tendenzialmente di famiglia […]. I rampolli del capostipite, al compimento della maggiore età, godranno dell'invidiabile privilegio di poter balzare direttamente sulla prua di uno scafo "da parada". Verrà loro risparmiata la scocciatura del corso teorico, finora obbligatorio […]. Ora […] basterà una prova pratica di voga. […] niente più lezioni di storia e di tradizioni, ripetizioni di lingue straniere e di bon ton, approfondimenti di lessico marinaro e preliminari nozionistici per poter accedere, solo alla fine e come tutti, all'esame della laguna. Una sola condizione: gli ultimi quattro anni trascorsi sulla gondola di famiglia, i successivi quattro impegnati a sostituire solo il titolare della licenza. […] A Venezia i gondolieri titolari sono oggi 430. I sostituti 180. Una sola donna: Giorgia Boscolo, bloccata da due maternità. […] Pur di salvare l'arte e lo scafo, investimento da 40 mila euro per una durata di circa 20 anni, la lobby ha così rilanciato. […]

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Massomafia.

Gratteri confessa: “Nelle indagini sulla massomafia oltre un certo livello non posso andare”. Da Iacchitè il 3 Agosto 2020. Alla fine, dopo tanto esternare, anche Gratteri si è arreso alla triste realtà dei nostri territori dove la massomafia la fa da padrona, confessando che oltre un “certo livello” le inchieste non possono andare. Finché si tratta di indagare e arrestare “crapari” con l’hobby del narcotraffico, le lodi si sprecano; fino a che le sue inchieste coinvolgono qualche personaggio borderline legato al mondo delle professioni o delle piccola politica locale, i complimenti fioccano, ma se poco poco alza il tiro oltre il dovuto, i complimenti diventano minacce e il magistrato che conduce le indagini diventa un personaggio scomodo. Niente di nuovo in Italia. Lo abbiamo visto con Falcone e Borsellino. Ma la novità sta nel fatto che anche Gratteri finalmente lo dice. E lo dice chiaramente: “Finché indaghi su nomi e cognomi noti della ‘ndrangheta tutti ti dicono che sei bravo, che hai coraggio. Ma se vai a toccare i centri di potere oliati che si interfacciano con la ‘ndrangheta e la massoneria deviata allora diventi scomodo. E cominci a dare fastidio”. Gratteri confessa quello che scriviamo da anni: a Cosenza, e non solo, esiste una cupola massomafiosa capace di fermare anche un magistrato come Gratteri. Che nulla può contro gruppi di potere che controllano ogni aspetto della vita sociale, economica e politica della nostra regione. E questo spiega bene il perché Cosenza è definita un’isola felice, checché se ne dica. Nessuno ha mai osato indagare sui pezzi da 90 che operano, nel malaffare, indisturbati nella nostra città, nessuno ha mai osato indagare per dare un nome e un volto a queste persone. Lo diciamo da sempre: a Cosenza l’impunità per gli amici degli amici è garantita dalla “cupola” che, come dice Gratteri, deve avere forti agganci con pezzi di istituzioni deviate: ministri, sottosegretari, deputati, senatori, alti magistrati, banchieri, burocrati di ogni ordine e grado, vertici delle forze di polizia, e grandi professionisti del malaffare. A Cosenza se appartieni alla cupola puoi commettere tutti i reati che vuoi che nessuno ti dice niente: si sa che a Cosenza il giro di affari sporchi è talmente grosso che possono comprarsi chiunque. E la prova che a Cosenza giunge il denaro sporco da ogni dove, sta nella presenza massiccia di sportelli bancari. Il che cozza con la realtà economica locale dove l’unico lavoro è quello pubblico, e la disoccupazione, tra i giovani, supera il 60%. La domanda che ne consegue è semplice: se nessuno lavora, se non esistono fabbriche e grandi “attività produttive” a che servono tutti questi sportelli bancari in città? Chi versa denaro in queste banche? Domande alle quali nessuno può rispondere. Toccare questo tasto significa finire nei guai seri. E questo Gratteri lo sa da sempre, anche se lo dice solo ora. E lo sappiamo bene noi che per denunciare tutto ciò ne abbiamo passate di tutti i colori. Vorremmo chiedere al dottor Gratteri a cosa e a chi si riferisce quando parla di “centri di potere oliati”. Vorremmo chiedere al dottor Gratteri se è in grado di fare nomi e cognomi di chi “ostacola” il suo lavoro. Vorremmo chiedere al dottor Gratteri se sa indicarci in quali zone grigie delle istituzioni si nascondono quelli a cui le sue inchieste danno fastidio. Ma sappiamo bene che anche queste domande resteranno senza risposta. Gratteri non può fare di più di quello che fa: oltre un certo livello anche per lui vale “l’imponimento” di non andare avanti. E la mancanza di azioni giudiziarie forti contro il malaffare massomafioso che regna in città lo dimostra. Cosi come è evidente che anche la procura di Salerno si è dovuta arrendere ai massomafiosi che gli hanno imposto l’insabbiamento di tutte le inchieste a carico di 15 magistrati delle procure di Cosenza, Catanzaro e Crotone, tranne che per Facciolla. L’unico che aveva osato denunciare certi poteri. Diceva bene chi diceva (proprio perché conosceva bene la situazione) che dobbiamo imparare a convivere con il malaffare. Purtroppo per noi calabresi non c’è via d’uscita. Neanche questo governo, che tanto si vanta delle lotta contro la mafia, è riuscito a promuovere la benché minima azione contro i corrotti. Basta guardare il silenzio del ministro Bonafede sui tanti fatti illeciti che hanno coinvolto mezza magistratura calabrese, per capire che neanche il governo può mettere becco negli affari degli amici degli amici calabresi. Mettiamoci l’anima in pace e speriamo in un sussulto d’orgoglio di popolo contro i corrotti, che se aspettiamo a Gratteri, o qualche altro magistrato, ni cci trovanu ridiannu!

La “cupola” Reggio-Cosenza: quando il PDS perseguitò Giacomo Mancini. Da Iacchite il 7 Giugno 2020. Le inchieste di Federico Cafiero De Raho su ‘ndrangheta e massoneria deviata sono inevitabilmente figlie di quelle di Agostino Cordova, dello stesso Nicola Gratteri, di Salvatore Boemi e di Luigi De Magistris. Nessuno di loro, dal 1992 ad oggi, è riuscito a dimostrare l’esistenza effettiva di questa “cupola” nonostante ci abbiano lavorato con grande impegno ed ardore. E in mezzo a tanti doppiogiochisti ed esperti in depistaggi, in una parola sola pezzi deviati dello stato. Siamo partiti dal bandolo di questa storia, Paolo Romeo, detto dai pentiti il “Salvo Lima reggino”, che muove le fila della politica a Reggio Calabria, grazie ai contatti organici con le cosche e la massoneria. Finita la prima guerra di mafia, secondo le dichiarazioni di diversi pentiti, Giorgio De Stefano, insieme al cugino Paolo e ad altri appartenenti alla nuova ’ndrangheta, entra nella loggia massonica segreta fondata, tra gli altri, da Franco Freda e Paolo Romeo, esponenti della destra eversiva che il 14 luglio 1970 avevano organizzato la rivolta dei “Boia chi molla” a Reggio Calabria (per protesta contro l’elezione di Catanzaro a capoluogo di regione). Il pentito Giacomo Lauro affermerà: “Mi risulta personalmente che anche alcuni magistrati avevano aderito alla massoneria e, per garantirli, la loro adesione era all’orecchio e i loro nominativi venivano tramandati da maestro a maestro”. Un sistema perfetto. Il vero “Modello Reggio” poi continuato da Scopelliti. Il gancio con Cosenza è Pino Tursi Prato, socialista prima vicino ai Gentile e poi ribellatosi al loro dominio per sposare la causa di Paolo Romeo nel PSDI di Antonio Cariglia “niente lascia e tutto piglia” come scriveva nei telegiornali di Telecosenza Giacomo Mancini, alla cui corte sarebbe poi approdato. Romeo e Tursi Prato, con l’aiuto di due capibastone della malavita cosentina come Franco Pino e Pietro Magliari, mettono a segno un’estorsione ai danni di un imprenditore reggino che aveva vinto un appalto nell’USL comandata dallo stesso Tursi Prato. E siglano la tregua con Tonino Gentile in uno studio legale cosentino, garante sempre Franco Pino. Il dado è tratto. Sarà poi il magistrato Agostino Cordova ad aprire, prima delle elezioni politiche del 1992, una grande inchiesta su massoneria e ‘ndrangheta, che sarà clamorosamente insabbiata. Agostino Cordova, figura controversa e testarda, da procuratore di Palmi firma, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. “La massoneria deviata – sosteneva Cordova – è il tessuto connettivo della gestione del potere […]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti i partiti…”. Cordova pone sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia, contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni. Finisce nella rete Sandro Principe (ma non sarà mai arrestato) ma anche il numero uno della massoneria calabrese, il cosentino Ettore Loizzo, che avrebbe dichiarato al Gran Maestro Di Bernardo che su 32 logge in Calabria, ben 28 sarebbero controllate dalla ‘ndrangheta. Ma la vera “cupola” Reggio-Cosenza è quella determinante per l’omicidio di Lodovico Ligato, ex presidente delle Ferrovie, diventato troppo ingombrante. Il perno di questa “cupola” a livello politico è il leader cosentino e calabrese della DC, Riccardo Misasi. “Esco pazzo”. Così, con la sua consueta drammaticità oratoria, Riccardo Misasi commentava il suo coinvolgimento nell’omicidio di Lodovico Ligato con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. “Ho la coscienza tranquilla – affermava Misasi -, ma noto in giro tanta voglia di trascinarmi dentro qualcosa di grave”. Quando Enzo Biagi, nella sua popolare trasmissione RAI “Il fatto”, lo intervista, Misasi ripeterà le stesse parole. In collegamento però c’è anche Giacomo Mancini, suo storico rivale. E quando il grande giornalista gli chiede cosa pensi della vicenda giudiziaria di Misasi, Mancini (che non è ancora diventato sindaco di Cosenza) non sarà per niente tenero. Come scrive Attilio Sabato nel suo libro “Potere & Poteri”, “… è feroce nel commento, parte da lontano, demonizza il ruolo della DC, accusando il partito e il sistema di potere che lo sostiene di essere il male assoluto della Calabria. Mancini nella sua disamina inchioda Misasi alle sue responsabilità e, nemmeno quando Misasi ottiene da Biagi la possibilità di replicare e chiede a Mancini se il giudizio appena espresso sul piano politico coincidesse con quello sull’uomo, il leader socialista non si scompone e non modifica affatto il tenore del suo intervento. E quando Misasi gli chiede: “Nemmeno come uomo?”, la risposta sarà un secco “no”, freddo e distaccato”. Dopo qualche mese, Giacomo Mancini decide di candidarsi a sindaco di Cosenza contro tutta la partitocrazia. I centristi sostengono Pierino Carbone, il PDS e la sinistra l’avvocato Peppino Mazzotta e per il vecchio Mancini sembra che non ci sia nulla da fare e invece, con due sole liste civiche (una delle quali formata da esponenti di destra con l’aggiunta esterna di Pino Tursi Prato), arriva al ballottaggio contro Carbone e vince a mani basse. Un trionfo. Ma è proprio in quella campagna elettorale che anche Giacomo Mancini conosce l’amarezza delle inchieste della magistratura, che indaga su di lui per concorso esterno in associazione mafiosa. Diciamo subito che le vicende giudiziarie di Misasi e Mancini sono completamente diverse e che l’accanimento contro il leader socialista proviene chiaramente da quei settori della magistratura legati al PDS (i registi sono il triste Violante e il solito Marco spinnato Minniti). Che lo vedono come il fumo negli occhi perché gli sta soffiando la città di Cosenza da sotto il naso. E’ la procura di Palmi che si interessa di Giacomo Mancini. I «pentiti» per accusare Mancini vengono reclutati nelle carceri di tutt’Italia con una specie di «circolare». Il procuratore Salvatore Boemi invia al colonnello della Dia Angelo Pellegrino una «nota di servizio», volgarmente detta «delega», così concepita: «Delego la S.V. ad assumere informazioni dai collaboratori di giustizia di cui alla nota acclusa (un elenco di ben 140 nomi e cognomi di “pentiti”) al fine di verificare se siano a conoscenza di circostanze relative a Mancini Giacomo». E con questo sistema portano in aula ad accusare Mancini i due più famosi e «pentiti» della ‘ndrangheta: Filippo Barreca ma soprattutto Giacomo Achille Lauro, detto dai magistrati, entusiasti di lui, «il Tucidide della ‘ndrangheta» perché con le sue «rivelazioni» aveva riscritto tutta la storia di Reggio Calabria e della regione. E il “capolavoro” (in senso ironico) della magistratura calabrese, quello per cui passeranno alla Storia, simbolo imperituro della giustizia ingiusta, la persecuzione di Giacomo Mancini, il capo storico del socialismo calabrese, figlio del fondatore del partito socialista in Calabria, il padre già deputato nel ’21 e già ministro nei primi governi del dopoguerra, e lui nove volte deputato e cinque volte ministro, e segretario nazionale del partito, e alla fine sindaco di Cosenza. Mancini viene sospeso dalla carica di sindaco e per lui inizia una lunga vicenda giudiziaria che si protrarrà per otto anni. Più che subire processi, Mancini ha subito una vera e propria persecuzione. Come se non bastasse l’intervento della procura di Palmi nel 1993, l’anno successivo a Cosenza va in scena la prima grande operazione antimafia (“Garden”) e per Mancini arriva addirittura un altro processo: dopo Palmi, ecco l’antimafia di Catanzaro. Il 10 ottobre 1994 si scopre che anche a Cosenza c’ è mafia. Con l’ operazione Garden, frutto di due anni di lavoro del sostituto procuratore distrettuale Stefano Tocci che è riuscito a far luce su una quarantina di omicidi e ha ricostruito 15 anni di storia criminale della città, si colpisce però solo l’ ala militare dei nuovi clan che, unici in Calabria, non avevano base su nuclei familiari. A Cosenza le bande urbane si sono fatte clan. E questi clan si sono scontrati e si sono scannati, hanno fatto il “salto di qualità” in un bagno di sangue, si sono fatti la guerra e hanno siglato la pace per intercessione delle cosche storiche della Piana e del Tirreno cosentino, i Piromalli, i Pesce e i Muto, che avevano “iniziato” col battesimo ai misteri mafiosi quel Franco Pino, arrestato nella Sila, indicato come uno dei capi della nuova mafia cosentina. Già, Franco Pino. Figuratevi se i grandi inquisitori di Mancini si lasciavano sfuggire la “preda”. E così, non appena esce fuori la notizia che Pino s’è pentito (maggio 1995), magicamente inizia a “cantare” su Mancini. E’ il 4 novembre 1995 quando la città di Cosenza si sveglia con un’altra notizia-shock. Voto di scambio e associazione mafiosa: anche Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo sono chiamati a difendersi. I presidenti delle commissioni Cultura e Giustizia della Camera sono destinatari, infatti, di un invito a comparire davanti ai magistrati della procura antimafia di Catanzaro. I quali hanno chiesto anche l’ arresto di Giacomo Mancini, sindaco sospeso di Cosenza, e del figlio Pietro. Il Gip, però, ha negato in tutt’e due i casi la richiesta. Delle cinque richieste d’ arresto avanzate (oltre che i Mancini, la procura voleva in galera anche l’avvocato Francesco Palmieri, esponente del Psdi locale) una è stata accolta. Un nome eccellente. E un ex consigliere regionale socialdemocratico, Pino Tursi Prato, che, secondo l’ accusa, come presidente della Usl di Cosenza faceva affari con il boss e con una azienda reggina alla quale aveva affidato la gestione delle mense negli ospedali cittadini, sistemava i protetti del clan e incamerava consensi elettorali. Il “ciclone Pino”, dal nome del boss pentito Franco Pino, si è così abbattuto su Cosenza. Siamo al primo urto, fanno intendere gli investigatori. C’ è altro ancora da aspettarsi. L’ intreccio mafia-politica, scenario inedito per una città fino a poco tempo prima considerata “isola felice”, avrebbe governato Cosenza per anni e anni.

Facebook. Roberto Giurastante il 4 gennaio alle ore 15:52. Già, la massomafia che agisce impunemente anche qui a Trieste. Una società mafiosa ha esattamente le caratteristiche descritte nell’articolo di antimafiaduemila. Una società mafiosa ha giornalisti che si dissociano da te se tu denunci pubblicamente la mafiosita’ della società in cui vivi. A me è capitato più volte qui a Trieste. A me è capitato di subire molte volte intimidazioni di stampo mafioso. E quando le ho denunciate la locale Procura della Repubblica ne ha chiesto l’archiviazione senza indagini, in genere entro 72 ore. Ottenendola dal GIP di Trieste immediatamente. Sono le archiviazioni a “vista”, disposte nei confronti di quelli che danno fastidio al “sistema”. Poi ci sono quelle “lunghe” con insabbiamento garantito dopo 12-36 mesi di indagini preliminari mai realmente fatte. Parlare di Giustizia in questi casi è alquanto irrealistico. Parliamo invece di un sistema di potere deviato che ha occupato la Giustizia e che decide della vita e della morte delle persone e dell’intera società. E sapete cosa è un altro indice preoccupante di mafiosita’ di una società? L’adeguamento delle forze dell’ordine alle disposizioni dell’autorità giudiziaria anche quando sono contro legge. Io ho provato questo da cittadino, oltretutto, di un altro Stato che è amministrato dal Governo italiano. Qui a Trieste, nel Territorio Libero di Trieste, l’Italia non può davvero difendere la legalità per non perdere la facciata della propria simulazione di sovranità (avendola persa a seguito del Trattato di Pace del 1947). E allora via libera ad ogni consorteria mafiosa per controllare un territorio fuori dalla loro giurisdizione e che trattano come colonia, distruggendone l’economia. A Trieste agiscono le Mafie di Stato italiane, il “livello superiore” e fino ad ora mai indagato da nessuna autorità giudiziaria.

Nicola Gratteri, ultimo avvertimento: ripulire istituzioni da ''massomafiosi''. Maria Pia Capozza il  04 Gennaio 2020. Tratto da: themisemetis.com su Antimafiaduemila. Nel 1982, Giuseppe D’Urso - nella sua qualità di Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica per la Sicilia e del suo ruolo di docente di pianificazione urbanistica e territoriale all’Università di Catania - coniò il termine “Massomafia” per descrivere l’esistenza di una “serie di interconnessioni tra i vari poteri, le istituzioni, l’imprenditoria, la stampa, la cultura e così via….”. D’Urso notò che le logge massoniche “deviate” costituivano il tramite più frequente dei rapporti tra organizzazioni mafiose, esponenti della società civile e istituzioni. Notò, inoltre, che attraverso le logge massoniche deviate, le organizzazioni mafiose “aggiustavano” i processi che le riguardavano. D’Urso, infine, notò ritrosia ed ostilità da parte della stampa, della politica e della magistratura. La battaglia di Giuseppe D’Urso venne definita da Claudio Fava come “denuncia civile” basata “sull’intransigente ribellione di un “cittadino qualsiasi”. Claudio Fava descrive così l’attività di quel “cittadino qualsiasi”: “per ogni abuso il professor D’Urso aveva compilato un dossier completo di cifre, nomi, indicazioni di legge, estratti del Piano regolatore, copie di delibere comunali. Quegli esposti, con incrollabile perseveranza, forse perfino con un filo di dolente ironia, erano stati puntualmente spediti all’autorità giudiziaria. Che per molti anni aveva continuato ad inghiottirli in silenzio. L’ultimo fascicolo Giuseppe D’Urso aveva preferito invece farlo trovare sui banchi del Csm. Dentro, in bell’ordine, i promemoria del professore su tutte le inchieste insabbiate dalla Procura di Catania: le protezioni accordate, le illegalità compiute, le indagini depistate. Ma soprattutto c’era il testo del telegramma che D’Urso aveva spedito “per conoscenza” a ministri e presidenti di mezza Repubblica”. Da allora, il termine Massomafia può essere usato solo con discrezione ed in silenzio, quasi come se qualcuno potesse restarne offeso. Nella notte tra mercoledì 18 dicembre 2019 e giovedì 19 dicembre 2019 Nicola Gratteri - Procuratore della Repubblica di Catanzaro - guida l’operazione “Rinascita-Scott” che smantella alcune cosche di ‘ndrangheta e ricostruisce legami e affari tra imprenditoria, politica e massoneria deviata, con l’arresto di oltre 330 persone. L’Italia si sveglia una mattina durante le festività natalizie 2019 e sente parlare, ancora una volta e suo malgrado, di Massomafia. Si legge sui giornali che secondo Gratteri “Il canale è massonico, usa come paravento le logge ufficiali, ma si struttura in una rete che non bada ad appartenenze e obbedienze. Un mondo fatto di un “coacervo di relazioni tra i ‘grandi’ della ‘ndrangheta calabrese e i ‘grandi’ della massoneria”, cioè professionisti “ben inseriti nei contesti strategici (giudiziario, forze armate, bancario, ospedaliero e via dicendo)”. Secondo il pentito di ‘ndrangheta Cosimo Virgilio, uno degli arrestati “aveva una doppia appartenenza, una “pulita” con il GOI (Grande Oriente d’Italia) del distretto catanzarese e poi una loggia coperta, “sussurrata” era “accreditato nei circuiti della massoneria più potente, è stato in grado di far relazionare la ‘ndrangheta con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università, con le Istituzioni tutte, fungendo da passepartout”. Gratteri definisce il contesto in cui si muove la massomafia come “molto grigio, una zona d’ombra nella quale si addensano tutti i più alti interessi delle persone con cui entra in contatto. Si tratta di relazioni intessute a condizione di reciprocità perché, come si evince globalmente”, tutti gli attori ne traggono un tornaconto personale. Sull’inchiesta “Rinascita-Scott” interviene l’attuale Sindaco di Napoli de Magistris per ricordare come anche nell’inchiesta “Why not”, che porta la sua firma, si parla di Massomafia. De Magistris sostiene che tra le due inchieste ci siano diverse similitudini: “Gli stessi nomi, lo stesso contesto, l’identico sistema di relazioni politico-massonico-mafiose che avevo individuato nelle mie inchieste di 12 anni fa (omissis). Lo denuncio da 12 anni. Il Csm eliminò chi indagava sul sistema criminale e lasciò quello stesso sistema, che aveva al suo interno molti magistrati, impunito e libero di agire. (Omissis) Hanno colpito l’idea stessa dello Stato democratico. Non vedo grandi prese di posizione. Il silenzio rischia di far vincere quei pezzi di Stato corrotti che vogliono strangolare l’inchiesta”. E sulle elezioni regionali de Magistris dice che “dalle liste capiremo se i partiti avranno la forza di affrancarsi dalla massomafia, quel sistema che vede insieme politici, borghesia mafiosa, logge e ‘Ndrangheta”. Dal giorno dopo è stato diffuso l’hashtag #iostocongratteri e la notizia è volata sul web e su ogni canale social. Ma, ancora una volta, quando si parla di Massomafia si registra il silenzio della grande stampa, delle massime Autorità di Governo e Giudiziarie, del Presidente della Repubblica. E così Gratteri sente il dovere di denunciare pubblicamente il silenzio delle grandi testate giornalistiche sulla vicenda, quelle stesse testate che mentre ripetono ossessivamente particolari intimi di fatti di cronaca privati, sull’inchiesta “Rinascita-Scott” restano silenti. Lo stesso silenzio accomuna Giuseppe D’Urso, Nicola Gratteri e Luigi de Magistris ma anche Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri. Silenzio, se non isolamento, persecuzione, morte bianca, perdita del proprio ruolo e del proprio lavoro: in sintesi queste sono le principali conseguenze di chi contrasta a vario titolo la Massomafia. Ma cos’è? Cosa si indica con il termine Massomafia? Cosa unisce il metodo mafioso con i rituali massonici? La caratteristica fondamentale è l’appartenenza o il metodo? Anche se nessuno ce ne vuole parlare a fondo, dobbiamo prendere atto che la Massomafia è una realtà, un fenomeno, una evoluzione della Mafia. I problemi si possono risolvere solo se ci si sforza di guardare un po’ oltre. Il fenomeno va letto in modo inverso: la Massoneria, quella vera, quella che deposita le liste degli iscritti alle Autorità, che invita le stesse Autorità ai propri eventi pubblici, che agisce alla luce del sole, è essa stessa “parte lesa” dalla Massomafia. Essa infatti viene “usata” da gruppi di criminali, sia per fini di millanteria, sia per poter creare “reti” che poi vengono usate in modo deviato. In caso di infiltrazione dei criminali in una loggia ufficiale, gli iscritti “normali” vengono pian piano indotti a cambiare “officina”, fin quando l’intera o quasi intera Loggia rimane con gli elementi infiltrati. I quali poi faranno in modo di far entrare più elementi possibili appartenenti alle filiere corruttive insite nelle Istituzioni che essi intendono “controllare”. Quando questo percorso si completa, possiamo parlare di “Loggia deviata”. Essa, in effetti, non ha più nulla che la caratterizzi quale Loggia massonica ufficiale, ma diventa uno strumento di potere della Mafia, una “istituzione parallela”. Chi aderisce in modo consapevole a (o, peggio, crea) logge deviate, tradisce il suo giuramento alle Obbedienze ufficiali (riconosciute dallo Stato), perché in realtà aderisce a qualcos’altro: alla Massomafia, ovvero alla “Mafia senza armi da fuoco”. Sono i colletti bianchi “sporchi”, che “usano” il termine “Massoneria” per avere contatti ed una rete da “offrire” alla “Mafia con le armi da fuoco”. Quando utilizziamo il termine Massomafia, dunque, ci riferiamo a consorterie ben diverse dalla Massoneria ufficiale, a gruppi di criminalità organizzata che nulla hanno a che fare con essa, ma che in essa, in modo silente, si infiltrano. Ormai il Re è Nudo. Un fenomeno che non si conosce e che si cerca di capire, può essere compreso anche secondo un metodo empirico. Dopo un’attenta lettura dei fatti e delle inchieste insabbiate o “eterne” degli ultimi anni, si possono provare ad individuare alcune delle caratteristiche del fenomeno Massomafia, e specificatamente:

1) Una rete capillare e segreta di uomini ben inseriti nelle istituzioni, invisibili in senso metaforico ovvero visibili per il loro ruolo istituzionale-politico-sociale-imprenditoriale ma invisibili per la loro aderenza ad una rete di interessi, da cui traggono benefici ed a cui sono funzionali;2) Un sistema di nomine che fa riferimento ad un “cerchio magico” di persone, solitamente sempre le stesse in un determinato settore e coordinate da un gruppo ancora più ristretto di persone;

3) L’inserimento di tali persone, attraverso concorsi pubblici “farsa” o assunzioni intuitu personae, nell’apparato dello Stato per realizzare reati di Truffa ai danni dello Stato - Corruzione - Collusione - Influenze illecite - Turbative d’asta - Mobbing - Stalking - Minacce;

4) L’utilizzo nel ciclo produttivo sempre e solo degli stessi soggetti, al di là della compagine societaria, per la realizzazione di appalti di lavori e di servizi, gestione di immobili o di attività commerciali;

5) L’utilizzo di un metodo mafioso, il quale si fonda su tre elementi fondamentali: la forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento e l’omertà che da esso deriva;

6) La morte bianca. Ovvero isolamento, persecuzione, minaccia, mistificazione della figura di chi avvia una denuncia o un’inchiesta (i colletti bianchi “sani” ovvero i cosiddetti Whistleblowers), che possa avere una ripercussione sul sistema massomafioso;

7) L’esistenza di sentenze “tecnicamente inspiegabili” o pilotate;

8) L’archiviazione o l’insabbiamento (spesso mediante l’utilizzo improprio dei Modd. 44 e 45) di denunce su gravi questioni;

9) Il giro di interessi ed economico di portata rilevante.

Se quanto sopra esposto è vero, come è vero, allora dobbiamo tutti chiederci quanto veramente #siamotutticongratteri e quanto lo siano i nostri rappresentanti politici o istituzionali. Dovremmo tutti denunciare gli illeciti ed i soprusi che non possiamo non vedere nel nostro lavoro, dovremmo tutti contrastare la mentalità mafiosa, secondo la quale il diritto è inteso come un favore. La Mafia è un’associazione criminale organizzata che, usando metodi e mezzi illeciti, riesce ad autofinanziarsi perseguendo fini criminali, divenendo un “potere forte” dalle fondamenta solidissime, ed ha lo scopo di voler sostituire lo Stato nell’ambito politico, legislativo e giudiziario. Il termine Mafia, allora, va riferito al “metodo mafioso” utilizzato dalla ‘ndrangheta, dalla camorra etc. che unisce e caratterizza tutte le Mafie. Dobbiamo ammettere che la Mafia è riuscita a sostituire lo Stato - ovvero tutti noi cittadini - proprio attraverso la Massomafia, perché attraverso le logge deviate è arrivata ad avere referenti nelle Istituzioni, nell’ambito giudiziario ed in ogni settore produttivo del nostro Paese. Questo significa essere passati ad avere il potere decisionale non solo su chi deve vincere una gara ma anche sul “se e quando” un’opera pubblica va realizzata. Questo significa, inoltre, avere il potere di riscrivere la storia, di mistificare la realtà, di dare le informazioni ai Media e di decidere cosa va pubblicato e cosa va manipolato o occultato. Non possiamo continuare a pensare che la Mafia esista solo in alcuni territori e che il mafioso si individui facilmente, che sicuramente non è il nostro Capo o il nostro vicino di casa, altrimenti “ce ne saremmo accorti”. Riporto e faccio mio l’invito fatto ad ognuno di noi dal Procuratore Gratteri: “Fino all’ultimo dei nostri giorni dobbiamo lottare e non rassegnarci, bisogna dire basta e avere il coraggio di occupare gli spazi che questa notte vi abbiamo dato. Da oggi dovete andare in piazza, dovete occupare la cosa pubblica, dovete impegnarvi in politica, nel volontariato, in tutto quello che è possibile fare, andare oltre il vostro lavoro. Altrimenti continueremo a parlarci addosso. Questo è il cambiamento da oggi, a parte le chiacchiere, altrimenti continuiamo a piangerci addosso e ci facciamo prendere per il naso una volta dall’uno una volta dall’altro”. Rispetto a questo invito, sento il dovere di ricordare che tante persone hanno già lottato e non si sono rassegnate. Lottando si sono trovate dinanzi a fatti illeciti, che non hanno avuto remora a denunciare, ma nessuno li ha ascoltati. Anzi, tutte queste persone sono state isolate, perseguitate ed hanno avuto un ridimensionamento del loro ruolo lavorativo o, addirittura, hanno perso il lavoro. Siamo dinanzi ad uno degli elementi tipici del sistema massomafioso: la morte bianca del denunciante. Allora, se veramente è arrivato il momento di affrontare il fenomeno della Massomafia, la parte sana dello Stato dovrebbe ascoltare tutti i denuncianti ed i Whistleblowers, ovvero i colletti bianchi “sani”, per ritrovare nelle loro testimonianze elementi comuni: stessi ambienti, appalti, favori reciproci, nomine forzate. Dovrebbe rivedere le loro storie lavorative, i settori ed i contesti in cui si sono svolti i fatti, per rilevarne gli interessi visibili ed invisibili ed estrapolarne le connessioni. Dovrebbe revisionare tutti i procedimenti giudiziari che hanno visto i whistleblowers quali attori o convenuti, revisionare gli atti anche dei procedimenti penali, individuare le sentenze “tecnicamente inspiegabili” e pilotate e fare una mappatura dei nomi dei Magistrati, degli uomini delle Istituzioni e dei politici coinvolti, per verificare collegamenti e connessioni. Lì troverebbe, finalmente, un primo livello, più o meno visibile, della rete Massomafiosa, la più grande associazione segreta della storia postunitaria italiana. Perché nessuno ci ha mai pensato? Il bandolo della matassa è lì, alla portata di chi avrà il coraggio di iniziare ad interconnettere e mappare quei nomi. La matassa appare inestricabile ed occulta, ma i “morti bianchi” sono ancora “clinicamente” vivi ed hanno tanto da dire. O meglio: hanno già detto, ma nessuno ha ricostruito i puzzle delle loro storie complesse e contorte, volutamente mistificate proprio dagli attori del fenomeno Massomafia. All’appello, quindi, rispondo con un altro appello: “Ascoltate i Whistleblowers - “colletti bianchi sani”. Proteggete il loro posto di lavoro. Considerateli come una risorsa e non come un problema”. Tratto da: themisemetis.com su Antimafiaduemila